sabato 19 novembre 2005

Corriere della Sera 19.11.05
Sansonetti
«Bertinotti concede troppo alla Chiesa»

ROMA - Questa volta Piero Sansonetti, direttore di Liberazione , non è d’accordo con Fausto Bertinotti. E lo ha anche scritto in un editoriale. Perché il segretario di Rifondazione comunista sbaglia a dire che la revisione del Concordato e dell’8 per mille non sono nell’agenda del centrosinistra?
«È vero: le priorità, anche per il nostro partito, sono altre, come l’abolizione dei centri di permanenza temporanea per gli stranieri o la riapertura di un discorso sulla scala mobile. Ma non capisco perché non si possa parlare anche di quest’argomento quando si andrà a scrivere il programma dell’Unione».
Bertinotti è convinto che non sia un’«urgenza». E forse ha capito che si tratta di un tema difficile da affrontare, vista anche la presenza di non pochi cattolici nella coalizione.
«Mi sembra una strategia al ribasso. Meglio mettere nel pacchetto delle nostre proposte anche la revisione del Concordato e dell’8 per mille. Lo dico perché siamo di fronte a una Chiesa che esercita una visibile ingerenza. Poi, nella trattativa con gli alleati, vedremo come andrà a finire. Ma, a proposito di alleati, c’è da ricordare che esistono anche componenti diverse dagli ex comunisti e dai cattolici».
Vuole dire i socialisti e i radicali, ormai uniti sotto la stessa bandiera?
«Sono proprio loro ad avere sollevato per primi il problema. Dobbiamo tenerne conto: per noi è meglio valorizzare quest’aspetto della loro anima piuttosto che quello sbilanciato sul liberismo».
Ma Bertinotti non sembra disposto a cambiare strategia.
«Capisco i suoi timori. Però credo che questa volta abbia fatto troppe concessioni alla Chiesa».

Corriere della Sera 19.11.05
Lo Stato Etico
Sgradito ai Laici
di Sergio Luzzatto

Non avrei mai osato sperare che, fra le mille sue gravi occupazioni, il presidente della Camera trovasse il tempo di replicare all’umile mia richiesta di spiegarci finalmente la differenza tra laicità e laicismo. E invece Pier Ferdinando Casini lo ha fatto, sul Corriere di giovedì scorso. Peccato soltanto che la sua risposta suoni parecchio più inquietante di ogni possibile silenzio. Lo Stato laicista - scrive Casini - «è quello che relega la religione nella sfera privata e le nega ogni rilevanza nella sfera pubblica». Mentre lo Stato laico «è quello che rispetta Dio e le religioni e nella loro libera professione vede un elemento di ricchezza e di progresso».
Nella sostanza, se non nella forma, la definizione di Stato laicista proposta da Casini - che vorrebbe essere negativa, anzi infamante - è quella stessa che sui nostri libri di scuola ci è stata insegnata come la definizione dello Stato laico. Riecheggia l’idea di Cavour, di una libera Chiesa in un libero Stato. E corrisponde allo spirito della nostra Costituzione repubblicana.
La definizione che Casini propone dello Stato laico - che vuole essere positiva o addirittura edificante - ricorda tutt’altro. Gratta gratta, si scopre che il presidente della Camera accarezza l’idea di uno Stato che decida lui quello che è bene (per esempio, la religione) e quello che è male (per esempio, l’ateismo).
Ma questo non è affatto lo Stato laico. È lo Stato etico. Il preferito da Giovanni Gentile e dall’«uomo della Provvidenza».

Corriere della Sera 19.11.05
Asor Rosa, i ds e le minestrine di Berlinguer
Francesco Verderami

C’era una volta il Pci, partito «di lotta e di governo», che riassumeva in sé questa contraddizione e pretendeva persino di risolverla. Più di trent’anni dopo l’Unione deve riuscire a coniugare «radicalità e riformismo» se intende governare, e dunque deve trovare una convergenza programmatica anche con quel pezzo di sinistra che Alberto Asor Rosa riunisce oggi a Roma. La Camera di consultazione permanente della sinistra è un’agorà dove forze politiche, movimenti e associazioni incrociano le loro esperienze, dove esponenti del Prc, dei Verdi, del Pdci, della sinistra ds si confrontano con intellettuali, rappresentanti dell’Arci, di Attac, Legambiente.
È una sinistra diversa dalla Quercia, e Asor Rosa è caustico nell’individuare «il punto di differenza» tra «la nostra assemblea nazionale e la convention organizzata dai Ds per presentare le loro idee di programma»: «Noi non siamo in grado di offrire del maialino in agrodolce ai convenuti». La sua è una critica estetica e politica alla serata romana dell’Etoile, alle cena durante la quale i maggiorenti diessini hanno anticipato al gotha dell’imprenditoria le proposte che presenteranno a Romano Prodi: «C’è una tendenza ossessiva alla spettacolarizzazione degli eventi. A parte il fatto che una forza di sinistra, per l’occasione, avrebbe dovuto invitare degli operai, quelle immagini mi hanno riportato alla mente le minestrine consumate in solitudine da Enrico Berlinguer».
Ecco «il primo tratto distintivo tra noi e loro», e che Asor Rosa identifica «in un atteggiamento etico»: «Di etica nel Polo non c’è traccia. Nella sinistra moderata è un po’ debole, specie quando affiora la tentazione del compromesso, dell’inciucio. Che a volte s’intreccia con interessi e potentati economici». Non c’è alcun riferimento alle polemiche estive sulle scalate bancarie, sebbene «certe commistioni andrebbero evitate, o comunque seguite in regime di sorveglianza speciale».
Per quanto minoritario, questo pezzo di sinistra è comunque un pezzo di sinistra. E sarebbe errato considerarlo una riserva indiana, perché su alcuni temi incrocia i sentimenti e le aspettative della stessa base ds, che ha oggi in Piero Fassino il suo punto di riferimento. Non a caso il leader della Quercia ha sempre tenuto a confrontarsi con movimenti e girotondi.
Ora anche Prodi dovrà farsi carico di trovare un punto di raccordo, siccome è sostenuto da tutti quelli che oggi parleranno. Con un linguaggio diverso però dal suo. Il punto infatti non è se l’assemblea nazionale della Camera di consultazione troverà un’intesa sulla proposta di Achille Occhetto, che mira a varare una «lista arcobaleno senza vecchi simboli», sapendo già che di questa lista il Prc non farà parte. Il punto è che le loro linee programmatiche sono eccentriche rispetto a quelle riformiste del Professore.
Luigi Ferrajoli, uno dei padri fondatori di Magistratura democratica, proporrà una «bonifica dell’ordinamento» per eliminare le norme «ad personam» e tutte le riforme del centrodestra. Ma questa «fase destruens» - ammette lo stesso Asor Rosa - «impegnerebbe quasi metà della prossima legislatura».
Certo non è questa l’agenda prevista da Prodi, che non ha neanche in mente «il ritorno all’Iri», come invece Valentino Parlato, firma storica del Manifesto . E per quanto sia forte la sua avversione alla legge Gasparri, non è d’accordo con chi progetta il divieto per gli editori di possedere una sola testata o una sola rete tivvù. Eppure l’europarlamentare Giulietto Chiesa, per «tutelare il pluralismo televisivo», arriva a prevedere un limite della «quota di ascolto» dei programmi «fissato al 30%».
Per quanto radicali, sono le tesi che sosterranno i relatori, i quali non solo bocciano l’azione di governo della Cdl, ma anche certe scelte fatte quando l’Ulivo era alla guida del Paese. Raffaella Bolini, esponente del global forum di Porto Alegre, rammenterà la ferita della guerra in Kosovo: «Purtroppo siamo in molti a ricordare come allora il centro-sinistra preferì trattare con Milosevic invece che con gli oppositori, per poi dire che non c’era altra via dell’intervento armato».
Sarà vero, come dirà lo storico Paul Ginsborg, che i movimenti attraversano una fase di crisi, epperò l’Unione ha bisogno di questo pezzo di sinistra, che sosterrà Prodi per mandarlo a palazzo Chigi, ma che per votarlo in Parlamento chiede una politica estera in cui l’Italia non dia più sostegno agli Stati Uniti di Bush, considerati «una minaccia per il pianeta».

Corriere della Sera 19.11.05
Capezzone
«D’accordo, sul Concordato no a diktat»
«Sono sulla stessa linea di Boselli»
R. Zuc.

ROMA - Daniele Capezzone, il socialista e ormai compagno di partito Enrico Boselli dice che la revisione del Concordato non è più una priorità. Che cosa ne pensa come segretario dei radicali? «Sono d’accordo con lui quando dice che la "Rosa nel pugno" non lancerà diktat. Ma allo stesso tempo non li accetterà».
Vuol dire che rinunciate a proporre, nel programma dell’Unione, il cambiamento del Concordato e dell’8 per mille?
«Dico soltanto che non lo chiederemo a un popolare come Castagnetti. Come non diciamo al comunista Marco Rizzo di bere Coca-Cola a colazione. Noi, però, continueremo a parlare di quei temi e a dare battaglia».
Ma la Chiesa non può dire come la pensa su determinati argomenti?
«Non vogliamo certamente togliere la parola al cardinale Ruini. Però, se si accettano privilegi come quelli stabiliti dal Concordato o dal meccanismo che regola l’8 per mille, non si può intervenire in continuazione. Ecco perché protestiamo. Lo facciamo da laici, è vero. Ma anche da persone attente alla libertà dei credenti. Se non ci fosse un patto con lo Stato il discorso sarebbe diverso: non sarebbe un problema persino la candidatura di un prete».
Che cosa farete, però, quando vi chiederanno di contribuire al programma dell’Unione?
«Basta, questo del programma è un tormentone. E comunque mentre gli altri non ce l’hanno ancora noi invece ce l’abbiamo. E parla di difesa della laicità dello Stato».
Non si sente a disagio di fronte ai crescenti dubbi per questo tipo di battaglie? Ora anche Bertinotti dice che non è una priorità.
«Io mi sento a mio agio con gli elettori e credo che molti siano dalla nostra parte».

Corriere della Sera 19.11.05
«Gli embrioni congelati anche alle donne single»
Il Comitato di bioetica sull’adottabilità di trentamila organismi. Storace: valuteremo
Margherita De Bac

ROMA - Meno incerto il destino degli embrioni congelati, abbandonati nei freezer delle cliniche da coppie sterili che li hanno ottenuti in provetta. Un documento approvato ieri dal Comitato nazionale di bioetica con voto quasi unanime (due i contrari, il ginecologo Carlo Flamigni e il medico legale Mauro Barni, laici) introduce la pratica dell’adozione.
I CRITERI - I saggi coordinati dal presidente Francesco D’Agostino sono andati oltre prevedendo nuovi criteri, estranei alla legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Infatti qualcuno ha parlato di «delegittimazione». Gli orfanelli appena concepiti potranno essere accolti da genitori non sterili e da donne single, soluzione che «non viene esclusa». Sulla barriera costituita dall’affidamento a genitori unici, non contemplata dalla normativa sull’adozione, ha prevalso la buona intenzione di offrire a queste microscopiche entità vitali una prospettiva di sviluppo che non avrebbero da ibernati. Nessuna distinzione fra coppie coniugate e di fatto. Qualche perplessità sul documento fra i cattolici, ma alla fine ha prevalso la linea di Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita, il più convinto. Il testo è stato scritto da D’Agostino e da Lorenzo d’Avack, filosofo del diritto. In seduta plenaria sono stati introdotti alcuni emendamenti, tra un mese la versione definitiva. Il ministro della Salute Storace fa sapere che «il parere verrà esaminato e valuteremo». Sull’adottabilità, meccanismo rimbalzato più volte in Parlamento durante la discussione della legge 40, si è raggiunto un accordo sostanziale. Le obiezioni hanno riguardato la terminologia. Su un punto però c’è stata una divisione più netta. Secondo il testo, quando «i genitori non vogliono rinunciare alla paternità e allo stesso tempo non intendono farlo nascere (perché magari hanno già avuto altri bambini o sono troppo in avanti con l’età) dovrebbero essere sottratti alla coppia». Alcuni esponenti del Cnb hanno già espresso contrarietà, fra loro il vicepresidente Cinzia Caporale: «Non sono d’accordo sul fatto di fissare un termine per la distruzione degli embrioni, come avviene ad esempio in Gran Bretagna. Allo stesso tempo non vedo perché uno Stato debba intervenire in modo così arbitrario, espropriandoli».
IL RICONOSCIMENTO - Il Comitato ha sancito che esiste «l’interesse», non il diritto, da parte dell’embrione a nascere e riconosce nella nascita «un valore superiore, nell’alternativa tra vita e morte è la prima a prevalere». Un altro passaggio delicato riguarda la possibilità che l’adozione si configuri come una pratica di fecondazione eterologa, vietata dalla legge numero 40. A Luciano Eusebi, penalista, è stato affidato il compito di chiarire che, non essendoci correlazione tra la creazione dell’embrione e l’affidamento, di eterologa non si può parlare. Il fine è concedergli una prospettiva di vita. All’obiezione secondo cui il problema degli embrioni in sovrannumero, orfani, non verrebbe comunque risolto il parere risponde che comunque se anche uno solo di loro avesse l’opportunità di germogliare nell’utero di una donna «sarebbe dal punto di vista morale soddisfacente». I frutti della provetta congelati e «residuali» (come li definisce il Cnb) sono circa 30 mila, ma non si sa quanti siano i senza famiglia. Probabilmente meno di quanto si immagini. Il Cnb raccomanda che la legge 40 venga integrata con regole chiare sull’adottabilità. Ha abbandonato la seduta Flamigni, che non condivide l’equiparazione dell’embrione a persona.

l'Unità 19.11.05
Freud e la morte «Preferisco vivere»
di Marco Dolcetta
L’INEDITO Paure, riflessioni e battute di spirito sul morire. Ecco la conferenza, tenuta a Vienna nel ’15, che servì al padre della psicoanalisi per saggiare le tematiche sviluppate poi nelle Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte
Wir und der Tod (Noi e la morte), il testo della conferenza tenuta da Freud il 16 febbraio del 1915 a Vienna per i membri della associazione umanitaria austriaco-israelitica «B’nai B’rith» è uno degli scritti di Freud non inclusi nei Gesammelte Werke (pubblicati dal 1960 in poi da S.Fischer Verlag, Frankfurt am Mein) e neppure in The Standard Edition of the Complete Psychological Work of Sigmund Freud (The Institute of Psyco-Analysis, The Hogarth Press, London, 1953-74). Non è quindi compreso nelle Opere di Sigmund Freud (Boringhieri, Torino 1967-79). Quella che proponiamo in questa pagina è la prima traduzione italiana. Wir und der Tod comparve nel Zweimonatsbericht fur die Mitglieder der osterreichisch israelitichen Humanitatsvereine B’nai B’rith (Bd. 18, Nr. 1, pp 41-51). Esiste però anche la fotocopia di un abbozzo del testo conservata nella Sigmund Freud Collection. La variante più interessante, rispetto alla versione stampata, è la battuta con la quale Freud chiude la sua comunicazione: tutta la sua fraterna partecipazione andrà allo sfortunato che, come usa, dovrà ringraziarlo per aver parlato di cose nient’affatto allegre. Le convenzioni del vivere civile impongono di lodare il conferenziere, ma Freud riterrà del tutto giustificato chi avrà questo incarico anche se, nel profondo dell’anima, lo manderà al diavolo per avergli rovinato l’appetito. (sull’abbozzo riferisce Ilse Grubrich-Simits, Zuruck zu Freuds Texten, S.Fischer, Frankfurt am Mein 1993, pp 174-76).
Il testo è, in gran parte, una sorta di prima stesura della seconda parte, intitolata Il nostro atteggiamento verso la morte delle Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (Zeitgemasses uber Krieg und Tod, 1915) tradotte nelle Opere di Sigmund Freud al volume 8 (ma confronta anche la versione italiana contenuta in S.Freud, Psicoanalisi e vita quotidiana, Mondadori, Milano 1991).
L’interesse per queste pagine non sta solo nel poter osservare da vicino il lavoro di Freud come scrittore, nel notare le varianti stilistiche o il diverso uso del vocabolario tecnico della psicoanalisi, graduato in rapporto al pubblico - il diavolo si nasconde nel dettaglio, recita un vecchio proverbio tedesco: ed ecco qui, davanti ad altri ebrei, venir allo scoperto il Freud patriota che parla del ritorno a casa dei soldati tedeschi vittoriosi, quando la guerra sarà finita. Quel «tedesco» cadrà nella versione delle Considerazioni. Certo, sapevamo già dalla biografia di E.Jones (Vita e opere di Freud 1953-57, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1962) e da quella di P.Gay (Freud, trad. it., Bompiani, Milano 1988) dell’iniziale infatuazione per la guerra da parte di Freud. Ma, evidentemente, il passaggio ad una posizione di equidistanza e di ostilità nei confronti dello scatenamento dei conflitti fra le nazioni, anche se giudicati inevitabili date le differenti condizioni di esistenza e «l’astio» esistente fra i popoli, non riesce, in un primo momento, a cancellare tutte le tracce di preferenza per i «tedeschi».
Le differenze più interessanti, però, sono i passi che affrontano l’atteggiamento ebraico nei confronti della morte. Freud dice all’inizio della sua conferenza che essa si potrebbe anche intitolare Noi ebrei e la morte. Molta ironia, un gusto del witz spiccatamente ebraico caratterizza le osservazioni sull’argomento. Ma se ne ricava anche una straordinaria conferma: le Sacre Scritture dell’ebraismo non consolano con sogni oltremondani, solo il vivente può lodare il Signore.
Freud prende in giro il desiderio di negare alla morte qualsiasi realtà, la preoccupazione per la vita che si spinge fino alle più ridicole forme di prudenza, ma rimane tuttavia, al fondo, l’eco di una orgogliosa rivendicazione di una cultura odiatrice della morte e non disposta agli ingannevoli compromessi che rimandano la speranza all’al di là.
Potente è qui l’eco antiplatonica, e in un certo senso anticristiana, dell’avversione per tutto ciò che ricorda la morte e che con lei vuole scendere a patti. Forse per questo rifiutarsi alla fabbrica delle illusioni, Freud ipotizza, l’ebraismo non è riuscito a diventare religione mondiale. Ecco il punto di sutura fra il riconoscersi culturalmente debitore alla sua appartenenza ebraica e la sua distanza illuminista e scientista da ogni credo religioso: già nell’ebraismo è implicita una tendenza avversa alla confusione fra rassicurazione immaginaria e realtà. Il dio dei padri ama la terra, la concretezza del vivere. Il genio della stirpe è modellato in immagine, secondo la somiglianza con il suo Signore. L’uomo libero non pensa alla morte. La sua sapienza è meditazione non della morte, ma della vita. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. D’altra parte Freud consigliava che si tenesse presente la morte per poter volere anche più intensamente la vita.
Nella conferenza tenuta da Freud il 16 febbraio del 1915 a Vienna per i membri della associazione umanitaria austriaco-israelitica B’nai B’rith Freud dice:
«Onorati Presidenti e cari Fratelli! Vi prego di non credere che abbia dato un titolo così tremendo alla mia conferenza in un accesso di malizia. Sono consapevole che vi sono molte persone che non vogliono sentir parlare della morte, forse anche tra voi, e volevo evitare di attrarre questi fratelli nella trappola di un’ora così penosa. (…)
E, sottolineando che il titolo poteva cambiarlo in Noi ebrei e la morte anziché Noi e la morte continua poi sostenendo che l’essere umano ha nei confronti della morte un atteggiamento molto strano, quasi la volesse eliminare dalla vita. Tuttavia la morte ci si presenta occasionalmente, quando leggiamo di disastri o di avvenimenti di cronaca, ma è soltanto quando questa la sentiamo vicina che siamo realmente scossi. Infatti aggiunge Freud: «Ma soprattutto siamo colti di sorpresa se la morte colpisce uno dei nostri conoscenti, se, per esempio, questi è uno dei “Fratelli della Loggia” teniamo una seduta commemorativa in segno di lutto».
E, dopo:
«Nella scuola psicoanalitica che, come sapete, io rappresento, si è osato affermare che noi - ognuno di noi - non crediamo in fondo alla nostra propria morte. Sì, che questa è per noi persino inimmaginabile. In tutti i tentativi di raffigurarci come andrà dopo la nostra morte, chi ci piangerà ecc., possiamo notare che siamo ancora lì in qualità di spettatori».
Il discorso prosegue affermando che morire è qualcosa di straordinario. La persona che conosciamo, una volta deceduta, diventa una figura praticamente eroica. Persino verso i nostri amici defunti cambiamo radicalmente il nostro atteggiamento, riappacificandoci o ritirando le nostre critiche su di lui. «Ci comportiamo quindi come uno degli Asra che muoiono insieme con la persona a loro cara (Asra, nome di una tribù araba, ed è il titolo di una poesia di H.Heine nella quale, un membro di tale tribù dice: “…la mia stirpe sono gli Asra, e moriamo quando amiamo”…)».
Sappiamo inoltre quanto Freud avesse attinto dalle innumerevoli storielle dell’immaginario Yiddish, dove spesso l’umorismo e quindi lo scherzo ci permette di affrontare delle verità che altrimenti risulterebbero traumatiche. Freud torna a dirci «che la vita perde in interesse e contenuto allorquando la posta in gioco più alta, vale a dire la vita stessa, viene esclusa dalle sue battaglie. E per compensare l’impoverimento della nostra vita siamo costretti a rivolgerci al mondo della finzione, alla letteratura, al teatro».
Quello dell’umorismo (e di una punta di cinismo) è un aspetto che secondo lui non va sottovalutato. «Conoscerete la storiella dell’uomo cui viene consegnata, mentre è in compagnia, una partecipazione di morte che questi ripone in tasca senza averla letta. “Non vuol sapere chi è il morto?” gli viene chiesto - “Macché, per me va bene chiunque” è la sua risposta. Oppure quella del marito che, rivolgendosi alla propria moglie, afferma: “Se uno di noi due muore, io mi trasferisco a Parigi”. Queste sono barzellette ciniche e non avrebbero ragion d’essere se non portassero con sé una verità nascosta. È noto che nello scherzo è ammesso dire la verità. Miei cari fratelli!»
Ma è altrettanto importante dare uno sguardo alle nostre radici comportamentali, anche a quelle più antiche, quelle che si perdono nella notte dei tempi.
«Sinora, cari Fratelli, non ho detto nulla che voi non sappiate e non sentiate proprio come me. Giungo ora al punto di dirvi qualcosa che forse non sapete e qualcos’altro che certamente non crederete. È un rischio che devo accettare. Come si comporta dunque l’uomo preistorico nei confronti della morte? Costui si è posto nei suoi riguardi in maniera molto strana: non in modo univoco ma, al contrario, molto contraddittorio. E noi scopriremo molto presto la motivazione di questo atteggiamento contraddittorio».
Nell’uomo primitivo esiste dunque un duplice sentimento nei confronti della morte, uno serio in cui la vede come annientamento e un altro dove la misconosce perché la vede di continuo e quindi finisce con l’esservi assuefatto. Poi arriva fino alla nascita del cristianesimo, trovandone i fondamenti nel peccato originale e nel susseguente parricidio e trasfigurazione della figura paterna in divinità.
«Nel mio libro Totem e Tabù (1913) mi sono preoccupato di raccogliere prove per questa concezione della colpa originaria.
Permettetemi inoltre di sottolineare che la dottrina del peccato originale non è una novità cristiana, ma un pezzo di una fede preistorica che in lunghissimo tempo si era perpetuata in correnti religiose sotterranee. L’ebraismo ha accuratamente allontanato questi ricordi oscuri e forse, proprio per questo motivo, non è riuscito a diventare una religione mondiale.
L’uomo primitivo non poteva più negare la morte, egli l’aveva, seppure parzialmente, sperimentata su di sé nel suo dolore ma non voleva ammetterne l’esistenza poiché non riusciva a pensarsi morto»
Freud prosegue la sua analisi tornando su quei sentimenti ambivalenti che la morte ha sempre suscitato nell’uomo, sul desiderio di morte dell’altro e in certi casi persino di noi stessi. C’è un forte collegamento dunque con l’uomo primitivo, con l’astrazione e l’impossibilità dell’inconscio di rappresentare la nostra dipartita. Il nostro allontanamento da questa concezione, l’ammorbidimento dovuto alla civiltà ed infine un nuovo sprofondare nel primitivo ad opera della guerra. La vita viene pervasa in questo modo dalla negazione della propria morte, costringendoci ad essere eroi, al desiderio di morte dello straniero nemico e al timore per l’eventuale morte delle persone dai noi amate. Questo viaggio ci chiarisce il nostro nebuloso rapporto con l’aldilà, facendo delle tappe in momenti fondamentali della nostra storia e della nostra evoluzione, giungendo infine a una conclusione che dovrebbe permetterci di allontanare o comunque di assimilare il trauma della morte. Allora ci viene suggerito da Freud di fare un passo indietro, evitare la repressione di certi sentimenti, cercando di rendere la vita più sopportabile magari ridando alla morte il posto che le spetta nel nostro inconscio. Lo fa ricorrendo alla adattamento di un motto latino Si vis pacem para bellum (se vuoi mantenere la pace armati alla guerra), trasformandolo in qualcosa di più attuale e utile ai nostri bisogni Si vis vitam para mortem se vuoi mantenere la tua vita, disponiti alla morte.

QUELLO DELL’ASSOCIAZIONE B’nai B’rith era un uditorio privilegiato: ad esso Freud affidava in anteprima idee e teorie che non aveva ancora messo a punto. Così andò anche per la relazione di cui parliamo in questa pagina, primo abbozzo di considerazioni che sfociarono nelle Consideraioni attuali sulla guerra e sulla morte, saggio nel quale Freud ci ricorda che ognuno di noi, nel suo inconscio, è convinto della propria immortalità e che ciascuno ha la tendenza naturale a trasformare la morte da fatto necessario a fatto casuale, insistendo sulla sua natura accidentale: incidente, malattia, vecchiaia. E dove elenca una serie di stratagemmi che l’uomo adotta per evitare di confrontarsi con il pensiero della propria morte: essa, innanzitutto, può essere pensata soltanto come la morte degli altri o può essere solo rappresentata. Ciò che non può essere rappresentato è il Buio Definitivo, la fine del pensiero, della memoria, della consapevolezza di esserci.

La Stampa Tuttolibri 19.11.05
Se perdi la ragione ti ritrovi a coltivare imposture e miracoli
Augusto Viano difende, in questi tempi così prolifici di atei devoti, la lezione laica dell’Illuminismo, e invita a tornare a una storia delle idee come demistificazione
Giuseppe Ricuperati

RITENGO che si debba riconoscere a Carlo Augusto Viano di aver realizzato - con Le imposture degli antichi e i miracoli dei moderni - un piccolo miracolo laico: far convivere un pamphlet, di cui - in questo tempo così pieno di confessioni pubbliche di private religiosità anche da parte di laici della politica - si sentiva il bisogno, con una dotta dissertazione che riesce ad essere a tratti analitica e a mantenere un filo lungo che parte dalle pie imposture dell'antichità per giungere alla fabbricazione di santi a gogò degli ultimi tempi.
E' un ritorno così sconvolgente, per cui rievocare l'antica parola impostura non è affatto improprio Ho parlato di pamphlet non a caso. Viano lo confessa fin dall'inizio: viene da quell'esperienza filosofica maturata fra gli Anni Cinquanta e Sessanta che ebbe il nome di Neo-Illuminismo. Tale progetto connetteva alcune grandi città del Nord e del Centro - Torino, Milano, Bologna, Firenze -, con grandi nomi alle spalle: da Nicola Abbagnano a Ludovico Geymonat, a Antonio Banfi, ad Eugenio Garin, a Mario Dal Pra, a Giulio Preti, per poi toccare profondamente una generazione più giovane di cui fan parte Paolo Rossi, Antonio Santucci, lo stesso Viano e Pietro Rossi. Viano stesso parla della lezione ricevuta a Torino da Abbagnano, da Bobbio e da Venturi, ma tende a dire (forse un po' riduttivamente) che anche questi campioni della laicità avevano abbandonato il terreno della critica o lo riservavano per il privato. In realtà Venturi nel 1954 con il suo Radicati aveva aperto il discorso di una nuova valutazione del free thinking e delle sue relazioni internazionali (anglo olandesi) aprendo la strada a quello che poi sarebbe stato l'Illuminismo radicale di Margaret Jacob e di Jonathan Israel. Ma anche nel primo volume del Settecento riformatore aveva scritto pagine indimenticabili sul rapporto magia, ragione miracolo, mentre nel secondo aveva saputo offrire uno delle ricostruzioni più europee del processo di secolarizzazione implicito nell'Illuminismo sul terreno religioso. Ma al di là di questo marginale rilievo il libro appare coraggioso e documentato, capace di attraversare le eredità del politeismo (una religiosità non solo tollerante, ma accogliente verso i culti stranieri) per ricostruire in pagine tanto agili quanto originali e documentate il rapporto con i miracoli dei Padri della Chiesa e le loro risposte a Celso, il più critico dei pagani, per poi giungere alla prima secolarizzazione e al primo emergere di una teoria della pia frode nel Rinascimento fra Machiavelli e Cardano. Il tema viene ripreso dal libertinismo, da Hobbes, per giungere fino agli Illuministi, passando per Locke, Newton e Hume. Come è noto, Viano è stato un grande studioso di Locke, visto come cerniera di un passaggio fra la ragione sistematica del Seicento e quella metodologica del Settecento. In questo testo emerge la sua notevole conoscenza dei free thinkers e della loro corrosione del miracolo, da Toland, oggi studiatissimo e in qualche modo imposto dalla cultura italiana a quella internazionale, a Woolston, che aveva demolito implacabilmente i miracoli legati alla figura storica di Gesù.
Hume è naturalmente un nodo fondamentale di questa vicenda, ma il problema era presente in tutti gli spazi, dall'Olanda, alla Germania di Lessing e Reimarus. Sarebbe stato presente anche in Italia se l'inquisizione non avesse impedito con ogni mezzo la circolazione del Triregno di Pietro Giannone. Ma Viano continua implacabile la sua ricostruzione senza illusioni: sconfitto l'Illuminismo il problema riemerge nella Sinistra hegeliana, si propone all'interno del positivismo, riaffiora nel dibattito dei filosofi del Novecento. E' difficile restituire in poche righe un libro così dotto e così proteso sull'oggi, consapevole della sua impopolarità ed insieme così intelligente. Di chi la colpa per un ritorno così massiccio di una religiosità miracolistica, che dovrebbe essere estranea ai cattolici illuminati, figli di un cristianesimo ragionevole, che è stato anch'esso parte dell'Illuminismo e non può essere passato senza traccia? Viano da buon detective della ragione critica indica un colpevole: quella filosofia che ha corroso i modelli della conoscenza scientifica, rendendo possibile tutto, anche i miracoli. E' un implicito invito al ritorno di una storia delle idee come demistificazione alla Bayle, un atto di nostalgia verso una possibilità dei Lumi che è stata sconfitta. E' un libro da raccomandare ai laici perché ritrovino il coraggio di un'identità, ma anche ai pochi cattolici illuminati rimasti, che forse nella strada del confronto potrebbero rinnovare il senso di una religiosità che non ha bisogno dei miracoli: i testi più significativi contro le pie frodi furono scritti nella "crisi della coscienza europea" dai giansenisti e dai Maurini.

l'Unità 19.11.05
Il dolore, la morte, la dignità
di Luigi Manconi

Dobbiamo essere grati a Umberto Veronesi per l'intervista rilasciata ieri a Dario Cresto-Dina di Repubblica. E dovrebbero essergli grati i cattolici. Quegli stessi che, magari, possono turbarsi per alcune asprezze del linguaggio utilizzato dall'oncologo a proposito delle posizioni di Benedetto XVI e del cardinale Camillo Ruini, dovrebbero apprezzare il livello elevato e saggio della sua polemica. Non è l'erudizione del dotto, la sua: e non è la sicumera dello scienziato quella che ispira le parole di Veronesi.
È, piuttosto, la sapienza di chi conosce il mondo e il suo dolore, e - quello stesso dolore - decide di guardarlo nel profondo, senza volgere gli occhi altrove; e, a partire dalla propria competenza e dal proprio sapere, lo affronta. Ma non c'è alcuna iattanza nella sua determinazione, e non c'è la superbia di chi detiene il potere medico.
C'è, al contrario, la compassione (nel suo significato originario: patire con, patire insieme) di chi, con la sofferenza, ha consuetudine, dimestichezza, familiarità. E, proprio perchè ne fa esperienza quotidiana, non le si rassegna e non le si arrende.
Non presume di sconfiggerla e di bandirla dal consorzio umano, ma - questo sì - di contenerla, porle dei limiti, contrastarla. E - in alcuni ed estremi casi - di mettere fine, a quella sofferenza, attraverso il ricorso all'eutanasia: «quando la vita diventa insopportabile per il dolore, la sofferenza e la perdita della propria dignità».
Dice ancora Veronesi: «Voglio semplicemente porre il problema, tentare di aprire un confronto su un argomento tabù, un tema di cui nessuno vuole parlare». E lo fa - questo è il punto - attraverso un approccio morale.
Non c'è alcuna intonazione utilitaristica, nel suo ragionento, e tanto meno una tentazione necrofila o, all'opposto, la sudditanza a un'idea edonistica o cinica dell'esistenza. Emerge, piuttosto, una riflessione morale sul senso della vita e sulla sua dignità: e su ciò che può darle significato e valore. In questo - non troppo paradossalmente - il discorso di Veronesi incontra quello del cattolicesimo contemporaneo più sensibile.
È quest'ultimo a battersi per affermare un'idea di esistenza svincolata dai concetti (così «mondani») di produzione e di prestazione, di salute e di benessere, quali unici parametri di valutazione; e a resistere alla tentazione, pericolosamente vicina a diventare egemone, di banalizzare il concetto di vita e di quantificarne il valore secondo indici di rendimento. Ma proprio per questo - ecco il nodo - la questione del dolore costituisce uno strappo non sempre componibile e produce una ferita che può non rimarginarsi.
A fronte di ciò, va detto, chi prende in considerazione la scelta estrema dell'eutanasia pone una domanda radicale, alla quale non è morale sottrarsi: è vita quella di chi patisce sofferenze intollerabili, che ne annichiliscono l'identità e ne annullano la capacità di relazione, di sentimento, di esperienza? È vita quella di chi si trova da cinque, dieci, quindici anni in stato vegetativo permanente? O, forse, come afferma Veronesi, «non si può rimanere in vita quando la vita non è più vita».
Dunque, ci si deve chiedere se quella sacralità-intangibilità della vita umana, alla quale ci richiamano giustamente i cattolici, sia da considerare sotto l'esclusivo profilo della continuità biologica: in presenza di patologie irreversibili e di sofferenze inaudite - o quando un trauma causa l'interruzione dei collegamenti tra la corteccia cerebrale e i centri nervosi sottostanti - si ha una vita degna di essere vissuta?
Chi ritiene che - in quelle limitate circostanze, a precise condizioni e con vincoli rigorosi - sia lecito prendere in considerazione il ricorso all'eutanasia, può essere mosso da una forte motivazione morale: non solo dall'umanissima volontà di limitare le sofferenze del malato terminale, ma anche dal disperato desiderio di impedirne la mortificazione e la riduzione a cosa: a vegetale.
Di fronte a tanto dolore, una soluzione diffusa è quella ricordata da Veronesi: «negli ospedali italiani l'eutanasia clandestina viene praticata. Nessuno lo confesserà mai, eppure esiste. Si allontana l'infermiera con una scusa, si aumenta un po' la dose di morfina... Ci sono molti modi».
Di conseguenza, è ancora la questione del dolore, e del suo riconoscimento, quella che Veronesi pone al centro della riflessione; e che, in particolare, sottopone alla politica, evidenziando - con ciò - un terribile vuoto culturale e uno spaventoso ritardo da parte di quest'ultima. Veronesi mostra ciò che troppi non vogliono vedere.
Ovvero che gran parte delle lacerazioni ideologiche e dei conflitti di valori, che attraversano le nostre società, ruotano intorno alla «lotta" per «il diritto a non soffrire più»: a soffrire, cioè, il meno possibile e il meno a lungo possibile.
Come non comprendere che è questo, ad esempio, il senso della mobilitazione intono alla figura - e al corpo! - di Luca Coscioni; e non solo perché la rivendicazione che, alla lettera, incarna è sacrosanta (la libertà di ricerca e, in particolare, quella sulle cellule staminali); non solo, cioè, per il contenuto di quella scelta, ma proprio per il mezzo - e in politica il mezzo è tutto - cui si ricorre.
E il mezzo è né più né meno che Luca Coscioni stesso: in carne e ossa, si può dire. Con lui, il corpo come organismo fisico, titolare di consapevolezza e di sovranità, riprende il suo ruolo centrale nella politica: e riacquista tutta intera la sua politicità.
Com'è giusto che sia. Il corpo dell'individuo è la base costitutiva della politica e, insieme, il suo fine. Una base antichissima, quasi arcaica (era il «corpo del re», in origine, a fondare la politica), ma declinata in una chiave attualissima. Ovvero nel sistema linguistico e giuridico della contemporaneità, dominata dallo sviluppo delle scienze mediche e delle biotecnologie.
Questo pone nuovi e più drammatici dilemmi e rivela acute contraddizioni. Innanzitutto, quella tra la necessità di sviluppare la ricerca scientifica, sottraendola alle interdizioni di ordine religioso, e la tentazione dell'onnipotenza scientista, che aspira a dominare il mondo. Di quest'ultima tentazione, fanno parte la negazione della morte e la sua vera e propria «rimozione tecnologica».
Ancora Veronesi: «È vero, la medicina spesso espropria il diritto alla morte. Macchine complesse tengono in vita persone senza coscienza per settimane, mesi, anni. Questa è una vera violenza alla natura».
E, infatti, «la natura non ha previsto l'immortalità dell'uomo, anzi, la morte è uno dei suoi principi». Ecco, io credo che in questo chinarsi sull'uomo, e sulla sua gracilità, fatta di dolore e di finitezza, ci sia un atteggiamento «religioso», che Veronesi, mai così definirebbe, ma che contribuisce a rendere le sue parole tanto autorevoli e, allo stesso tempo, pietose. E così incalzanti e ineludibili per la politica. Guai se la politica vi si volesse sottrarre, ancora una volta.

Apcom 19.11.05
Laicità
Bertinotti: la condanna del giudice Tosti esprime intolleranza
Va raccolta sua proposta di esporre anche la Menorah

Roma, 19 nov. (Apcom) - "Desta inquietudine la condanna emessa ieri a L'Aquila a sette mesi per il giudice Luigi Tosti. Una condanna che esprime intolleranza e sembra volere risolvere sul terreno della magistratura un serio problema politico e culturale". Lo afferma il segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, secondo il quale "tuttavia il caso può invece diventare l'apertura di una strada al riconoscimento del pluralismo e della concezione del luogo pubblico come spazio di convivenza tra diversi".
"La proposta del magistrato di poter giustapporre alla presenza del crocifisso anche la menorah, simbolo della religione ebraica, è una proposta interessante che - conclude - andrebbe raccolta e attuata, anche per dimostrare la praticabilità di queste nuove esperienze. Di una ricca laicità capace di dare risposte innovative a nuovi problemi".

Apcom 29.22.05
Concordato
Pannella: Bertinotti ha una "linea pretogliattiana"

Roma, 19 nov. (Apcom) - "Non credo affatto che i problemi e le differenze tra la Rosa nel pugno e Fausto Bertinotti siano sulla politica estera e sulle questioni economiche": lo dice Marco Pannella, intervistato da Radio Radicale dichiarando che il segretario di Rifondazione Comunista ha "una linea pretogliattiana" sulla laicità.
"Le sue priorità non sono nè l'8 per mille nè il Concordato", aggiunge Pannella. Ieri intervistato da Rai2 alla trasmissione Confronti su religione e chiesa, Bertinotti "non ha mai usato per una sola volta, nemmeno per inciso, la parola libertà" mentre per lui "il vero problema di indirizzo è il mutamento della posizione geopolitica dell'Italia e dell'Europa. Su questi temi c'è la coincidenza totale sulle posizioni e sul modo di impostare le cose degli ultimi due anni di Giovanni Paolo II e poi di questo Papa".
Quella di Bertinotti secondo Pannella "è una linea pretogliattiana" che "appiattisce totalmente la realtà religiosa nel mondo che lo riguarda sul vertice vaticano e chiesastico di oggi"

il manifesto 19.11.05
Santo partito
Andrea Colombo

Un giorno è l'aborto, quello dopo la devolution, quello dopo ancora entrambi gli argomenti. Il quotidiano dell'Unione, La Repubblica, si esalta quando nel mirino di Camillo Ruini c'è la riforma di Bossi, un po' meno quando l'intervento riguarda altre leggi, come se fosse possibile giudicare un metodo a seconda di quanto si sia di volta in volta d'accordo sul merito. Fassino si scopre credente. Bertinotti guarda da un'altra parte. Non che si concentri su questioni secondarie: però riflettere su quanto santa madre chiesa sappia ancora tenere al centro delle sue speculazioni l'essere umano, laddove la politica pensa solo al mercato, non assolve dal compito di contrastare altre e più discutibili attività della stessa chiesa. Le critiche che la Cei prima, l'Osservatore romano poi, hanno mosso alla riforma costituzionale imposta da Umberto Bossi sono condivisibili. Il che non diminuisce di un milligrammo la preoccupazione crescente per un intervento del Vaticano nella politica italiana che si fa di giorno in giorno più diretto e sfrontato. Né vale affermare che la sfera di competenza della chiesa abbraccia questioni che la devolution tocca da vicino, come la difesa dei soggetti più deboli e la salvaguardia dei diritti elementari delle persone. Quando i vescovi arrivano a proporre un emendamento alla nuova Costituzione, quasi dettandolo parola per parola, in discussione ci sono non più i princìpi ma la loro applicazione mediante leggi e regolamenti. C'è la politica.

La crescente invadenza del Vaticano nella vita italiana è una risposta al problema che angustia la chiesa da oltre un decennio, da quando, con l'improvviso inabbissarsi della Dc, è venuto a mancare un partito cattolico capace di funzionare come cinghia di trasmissione ed elemento di mediazione politica tra lo stato vaticano e quello italiano. Le gerarchie ecclesiastiche non difettano di senso della realtà, conoscono la politica molto meglio di Rocco Buttiglione. Neppure per un attimo hanno sperato di poter dare vita a un nuovo partitone cattolico. Hanno invece lavorato a lungo, con notevole successo, per affermare una discreta ma ferma egemonia su entrambi i poli.

Oggi possono porsi obiettivi anche più ambiziosi. Possono azzardare una discesa diretta in campo, come una forza politica certamente anomala ma tra le più potenti e ascoltate. E' una scommessa difficile, ma autorizzata, quasi consigliata, da una situazione nella quale nessuno si stupisce se in tv si dibatte sull'opportunità o meno di dare alle fiamme il blasfemo Darwin, come attivamente opera per fare il ministro dell'Istruzione. E' una scommessa dall'esito incerto, ma del tutto plausibile nel paese in cui il principale leader della sinistra radicale si preoccupa più di non apparire «laicista» e «anticlericale» che di frenare la deriva, e dove i pochi leader che cercano di porre limiti all'invadenza ecclesiastica vengono bersagliato quotidianamente degli stessi compagni di coalizione neanche fossero Giordano Bruno. Da tutti. Rifondazione inclusa.

l'Unità 19.11.05
Reggio, immagini dalla follia
In una grande mostra gli scatti dei principali fotografi che hanno
documentato «i matti». Ma si riflette soprattutto sui manicomi
di Stefano Morselli/ Reggio Emilia

DOPO LA GRANDE mostra antologica delle opere di Antonio Ligabue, le due sedi espositive di Palazzo Magnani (corso Garibaldi 29, a Reggio) e di Palazzo dei Principi (corso Cavour 7, a Correggio) ospitano fino al 22 gennaio cinquecento fotografie che hanno
come filo conduttore la malattia mentale, la vita nei vecchi manicomi, il difficile cammino verso un trattamento più civile e un inserimento sociale delle persone affette da questo genere di patologie. La rassegna - intitolata «Il volto della follia. Cent'anni di immagini del dolore» e allestita in collaborazione con le amministrazioni locali e con il Centro di documentazione della storia della psichiatria - contiene immagini realizzate da numerosi fotografi in Italia e in altri paesi. Immagini che documentano, con la forza della cruda realtà, i volti, gli ambienti, l'esistenza quotidiana, gli orrori, la desolazione, le speranze, le innovazioni che, nell'arco di oltre un secolo, hanno caratterizzato il «mondo a parte» della sofferenza psichica.
La mostra è divisa in quattro sezioni, tre a Palazzo Magnani e una a Palazzo dei Principi. La prima sezione, «Memorie dalla città dei matti», racconta le vicende dell'ex istituto San Lazzaro di Reggio Emilia, l'antico complesso nato nel 1217 come lebbrosario, divenuto nel 1536 luogo di segregazione per «invalidi, decrepiti, storpi, epilettici, sordomuti, ciechi, paralitici», quindi trasformato nel 1821 in «Stabilimento Generale delle Case de' Pazzi degli Stati Estensi» (attualmente è sede di servizi sanitari, istituti scolastici, attività culturali). Le immagini del vecchio manicomio, che arrivò ad avere fino a 2.000 pazienti-detenuti, vanno dalle iconografie di fine Ottocento alle foto scattate da Vasco Ascolini negli ultimi anni, quando già la dolente «città dei matti» era svuotata dei suoi tradizionali abitanti. La seconda sezione, «I manicomi svelati», raccoglie fotografie prese dal 1965 in poi, all'interno di vari manicomi italiani, da Luciano D'Alessandro, Gianni Berengo Gardin, Carla Cerati, Ferdinando Scianna, Gian Butturini, Raymond Depardon. Uliano Lucas. Nella terza, «Al di là delle mura, tra le persone», le foto di Uliano Lucas, Enzo Cei, Philippe Tournay, Roberto Sabitani, John Darwell, Giordano Moranti, Marco Fantini, Ilaria Turba ci accompagnano lungo il nuovo percorso terapeutico intrapreso nel 1978, con l'approvazione della Legge Basaglia e la progressiva chiusura dei manicomi italiani; in questa sezione ci sono anche immagini dell'ex Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio, realizzate da Bruno Cattani, Marcello Grassi, Kai Uwe Schulte Bunert. L'ultima parte della esposizione, «Prigioni e rifugi, nelle terre del mondo», presenta a Palazzo dei Principi alcuni reportage realizzati in vari paesi (Brasile, Cuba Taiwan, Grecia, Svezia)da Chien Chi Chang, Andrei Petersen, Alex Maioli, Claudio Edinger, Adam Broomberg e Oliver Chanarin.
Informazioni e prenotazioni: tel. 0522.454437; fax 0522.444436
e-mail: info@palazzomagnani.it; web: www.palazzomagnani.it


Corriere della Sera 19.11.05
La missione asiatica di George W. Bush
Usa-Cina, un'alba di guerra fredda
di Franco Venturini

Con il temperamento del pugile che non ha intenzione di finire nell’angolo, George W. Bush rilancia puntando al bersaglio grosso. Le cose in Iraq vanno peggio di quanto la Casa Bianca voglia ammettere e un inizio di disimpegno si annuncia complesso? La popolarità interna del Presidente è ai minimi? L’esportazione della democrazia può vantare qualche progresso ma lo sforzo resta geograficamente circoscritto? Bene, vediamo allora cosa ve ne pare di una bella rampogna sulla libertà in Cina. Bush sbarca oggi a Pechino per la sua terza visita dal 2001. Ma questa è una visita diversa dalle altre due, perché il Presidente Usa si è fatto precedere da un discorso, tenuto mercoledì a Kyoto, che ai dirigenti del Partito comunista cinese deve essere parso ai limiti della provocazione. Quando si apre uno spiraglio nella porta della libertà non si può richiuderla, ha ammonito Bush, e del resto la democratizzazione della società sarebbe nell’interesse anche del potere cinese. Si prenda esempio - e qui viene il boccone più indigesto per Pechino - da Taiwan, che alla liberalizzazione economica ha fatto seguire la democrazia e il pieno rispetto dei diritti umani.
Vedremo se Hu Jintao deciderà di rispondere. Per ora è stato il suo ministro degli esteri, Li Zaoxing, a precisare che dei propositi tenuti da Bush in Giappone (anche questo brucia) la parte cinese «non terrà alcun conto» . Ma in attesa di verificare la forma e la sostanza dei colloqui che attendono il capo della Casa Bianca a Pechino, il guanto di sfida preventivo lanciato da George Bush si presta sin d’ora a due diverse considerazioni.
La prima riguarda il dibattito sempre meno sotterraneo in corso negli Usa sul «che fare con la Cina». L’amministrazione Bush non ha del tutto abbandonato l’approccio clintoniano che vedeva nella Cina un possibile partner strategico, ma la crescita economica apparentemente inarrestabile dell’ex Impero di Mezzo (siamo oltre il 9 per cento su base annua), il suo continuo rafforzamento militare, la sua sempre più decisa politica asiatica e le sue nuove ambizioni «globali» in Africa e in America Latina hanno avuto l’effetto di creare a Washington un sentimento di allarme e anche di urgenza. Le due Cine, quella dell’economia di mercato e quella del potere comunista, potranno convivere ancora a lungo? Se così sarà, l’unipolarismo made in Usa ha gli anni contati? E quale politica conviene seguire nei confronti di Pechino, quella di un containment senza sconti o piuttosto quella della mano t esa e del coinvolgimento (tenendo anche conto del fatto che i cinesi detengono buona parte del debito americano)?
Nella sortita di Bush a Kyoto queste preoccupazioni di fondo hanno di sicuro svolto un ruolo, privilegiando una scelta di fermezza. Ma non è certo meno rilevante la parte avuta dalle difficoltà del Presidente sul fronte interno. Le rivelazioni ormai quasi quotidiane su chi sapeva cosa prima della guerra a Saddam, sui metodi utilizzati a Guantànamo, sui centri di detenzione segreti della Cia, sull’uso del fosforo bianco a Falluja o sul caso dell’agente Valerie Wilson data in pasto ai media contribuiscono non poco ai cattivi risultati di Bush nei sondaggi di popolarità. Rinverdire una dimensione da statista senza peli sulla lingua, allora, può servire a rilegittimare ideali e visione. Tanto più che una sonora strigliata alla Cina non fa un soldo di danno.

Corriere della Sera 19.11.05
Storia della III guerra mondiale
Gli Stati Uniti contro la Cina. Strategie, pericoli e alleanze nello scontro dei giganti del XXI secolo
di Robert D. Kaplan
Geopolitica? Bush in missione in Asia. Il Vietnam chiede asi militari a Washington. Lo stato maggiore cinese studia la «guerra senza limiti». La competizione economica tra Pechino e gli Usa è già in corso. L'attrito militaez è oggi pressione, domani possibile conflitto nucleare.
La politica americana è impegnata a democratizzare il Medio Oriente ma le preoccupazioni strategiche si sono già spostate nel Pacifico. Lo scenario futuro è una lotta del potere sul mare. Per ora una partita cerebrale: la regola è ingannare più che attaccare
Il fascino. La formula cinese di autoritarismo tradizionale ed economia di mercato esercita un fascino culturale in tutta l'Asia.
La risposta. Dobbiamo essere pronti sia a una guerra convenzionale contro la Nord Corea sia a una non convenzionale contro Pechino.
Fino a oggi non v’è stato esercito di mare o di terra che costituisse una minaccia per gli Stati Uniti. La situazione è destinata a cambiare rapidamente. Nei decenni a venire la Cina giocherà un’estenuante partita con gli Usa nel Pacifico, favorita non solo dalle sue coste sterminate ma anche da un sistema di basi che si estende fin dentro l’Asia centrale.Come possono gli Stati Uniti prepararsi ad affrontare la sfida?Il sistema di alleanze della seconda metà del XX secolo è finito. La guerra del Kosovo del 1999 ha messo in luce drammatiche spaccature all’interno della Nato. L’Alleanza è definitivamente crollata con l’invasione americana dell’Afghanistan, in seguito alla quale gli eserciti europei hanno fatto poco più che pattugliare zone già pacificate da soldati e marines statunitensi. Oggi la Nato è uno strumento per espandere le missioni di addestramento bilaterali tra Stati Uniti ed ex repubbliche comuniste: con i marines in Bulgaria e Romania, la marina in Albania, l’esercito in Polonia e Repubblica Ceca, le Forze Speciali in Georgia. Un suo equivalente nell’Oceano Pacifico esiste già: è il Comando Usa per il Pacifico, noto come Pacom. I suoi capi si rendono conto di ciò che sfugge a molti politici e professionisti dell’informazione: il centro di gravità delle preoccupazioni strategiche americane è già il Pacifico, non il Medio Oriente.
Il raggio di influenza del Pacom include metà della superficie e più di metà delle economie mondiali. I sei maggiori eserciti del mondo, due dei quali (quello americano e quello cinese) si stanno modernizzando più rapidamente di tutti gli altri, operano all’interno della sua sfera di controllo.
«Imbarcarsi in una guerra con la Cina è semplice - dice Michael Vickers, del Center for Strategic and Budgetari Assessments di Washington -. Il dilemma è: come uscirne?». Un analista interno al Pentagono mi ha risposto: «Per porre termine a un conflitto con i cinesi dovremo ridurre in maniera radicale la loro capacità militare, minacciando le loro fonti di energia e la presa sul potere del Partito Comunista. Dopo, il mondo non sarà più lo stesso. È una strada molto pericolosa».
Nei prossimi decenni la Cina destinerà all’esercito risorse sempre maggiori. L’unico realistico obiettivo degli Stati Uniti potrebbe essere incoraggiarla a investire in misure difensive e non offensive. Impegno che richiederà particolare cura perché, a differenza della vecchia Unione Sovietica, la Cina detiene tanto il potere morbido quanto quello duro. Il mix cinese di autoritarismo tradizionale ed economia di mercato esercita un esteso fascino culturale in tutta l’Asia e non solo. La democrazia risulta attraente laddove la tirannia sia stata un’esperienza odiosa e fallimentare, come in Ucraina e Zimbabwe. Il mondo, però, è pieno di aree grigie, come la Giordania e la Malaysia, dove la tirannia ha garantito stabilità e crescita.
Prendiamo Singapore. La mescolanza di democrazia e autoritarismo l’hanno resa invisa agli idealisti di Washington ma nel Pacifico Singapore offre la sola base non americana dove i mezzi nucleari Usa possano essere revisionati; il suo contributo alla caccia ai terroristi islamici nell’arcipelago indonesiano è stato pari se non superiore a quello offerto altrove dai maggiori alleati occidentali dell’America.
Anche la politica richiede un riposizionamento in favore del Pacifico: le attuali tensioni tra Stati Uniti ed Europa impediscono l’integrazione militare, mentre gli alleati del Pacifico, notoriamente Giappone e Australia, auspicano un maggiore coinvolgimento militare al fianco degli Usa, per contrastare l’avanzata della marina cinese. Al momento le sfide poste dall’emergere della Cina possono apparire esigue. Gli Stati Uniti dispiegano 24 delle 34 portaerei di tutto il mondo; i cinesi non ne hanno neanche una. Eppure, all’inizio della guerra del Peloponneso, che durò ventisette anni, Atene disponeva di un notevole vantaggio rispetto a Sparta, che non aveva una flotta. Alla fine fu Sparta a vincere.
La Cina si è lanciata in ingenti spese militari ma ancora per qualche decennio la sua marina e la sua aviazione non raggiungeranno i livelli statunitensi. Ecco perché i cinesi non hanno intenzione di fare agli americani il favore di impegnarsi in battaglie convenzionali, come quelle combattute nell’Oceano Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale. I cinesi useranno piuttosto un approccio asimmetrico, come fanno oggi i terroristi.
Con un avanzato sistema missilistico i cinesi potrebbero lanciare centinaia di missili su Taiwan prima che gli americani riescano a raggiungere l’isola per difenderla. Una tale capacità, unita a una nuova flotta di sottomarini (destinata a superare presto quella Usa, se non in qualità, almeno in dimensioni), potrebbe bastare ai cinesi per costringere altri Paesi a negare alle navi americane l’accesso ai propri porti. C’è poi la coercizione ambigua: pensiamo a una serie di ciber-attacchi anonimi alla rete elettrica di Taiwan finalizzati a ridurre gradualmente la popolazione allo stremo. Non è fantascienza; i cinesi hanno investito molto nell’addestramento e nelle tecnologie da guerra cibernetica. Il fatto che la Cina non sia una democrazia non significa che i cinesi non siano padroni nella manipolazione psicologica di elettorati democratici.Quale dovrebbe essere la risposta militare degli Stati Uniti a sviluppi di questo tipo? La «non convenzionalità».La Base aerea Andersen, sulla punta settentrionale di Guam, rappresenta il futuro della strategia Usa nel Pacifico. È la piattaforma di lancio più potente del mondo. Guam, che ospita anche una divisione sottomarina e una base navale in espansione, è importante per la posizione che occupa. Dall’isola è possibile coprire quasi tutta l’area di responsabilità del Pacom. Volare in Corea del Nord dalla costa occidentale degli Stati Uniti richiede tredici ore; da Guam ne occorrono quattro. «Non è come Okinawa - spiega il Generale Tennis Larsen -. Questo è suolo americano in mezzo al Pacifico. Guam è territorio Usa».
Durante la Guerra Fredda la marina aveva una specifica infrastruttura pensata per contrastare una specifica minaccia: la guerra con l’Unione Sovietica. Oggi la minaccia è multipla e incerta: dobbiamo essere in qualsiasi momento pronti a combattere una guerra convenzionale contro la Corea del Nord o una controguerriglia non convenzionale contro un’isola-Stato canaglia spalleggiata dalla Cina.
Secondo l’esperto di Asia Mark Helprin, mentre gli Usa si impegnano a democratizzare il Medio Oriente, sostenendo solo gli Stati i cui sistemi interni siano simili al loro, la Cina si prepara a mietere i frutti di una politica che bada, amoralmente, ai propri interessi - come fecero gli Stati Uniti durante la Guerra Fredda. Dobbiamo anche renderci conto che nei prossimi anni e decenni la distanza morale tra Europa e Cina è destinata a ridursi in maniera considerevole, soprattutto nel caso in cui l’autoritarismo cinese accetti delle limitazioni e l’Unione Europea in continua espansione diventi un superstato «imperfettamente democratico», governato dai funzionari di Bruxelles. Anche la Russia sta procedendo in una direzione decisamente non democratica: il presidente Vladimir Putin ha risposto al sostegno Usa alla democrazia in Ucraina, con l’assenso a «massicce» esercitazioni aeree e navali congiunte con i cinesi senza precedenti.
La situazione potrebbe portare a una Nato sostanzialmente nuova, con un’«armada» globale schierata sui Sette Mari. A un’Europa che tenta di evitare i conflitti e ridurre la geopolitica a una serie di negoziati e appianamenti, ben si adatterebbe questa rivalutazione del potere sul mare. Un potere costitutivamente meno minaccioso di quello terrestre, da sempre strumento privilegiato della Realpolitik. Man mano che l’influenza economica dell’Ue si espanderà nel globo, l’Europa comprenderà, al pari degli Usa nel XIX secolo e della Cina oggi, di dover andare per mare per proteggere i propri interessi.
La Nato è debole. Per riconquistare il suo significato politico, dovrà trasformarsi in un’alleanza militare della cui capacità di attacco immediato nessuno possa dubitare. Questa era la sua reputazione ai tempi della Guerra Fredda, così rinomata che i sovietici non vollero mai testarla. La sfida posta dall’esercito cinese è già una realtà per ufficiali e marinai Usa. La guerra sui mari è cerebrale. La minaccia, all’orizzonte; il nemico è invisibile e tutto si riduce a un calcolo matematico. L’obiettivo diventa ingannare più che attaccare, lasciare la prima mossa all’avversario.
Il Pacifico nasconde minacce di ogni tipo. Benvenuti nel futuro. Parlando del Golfo Persico e dell’Oceano Pacifico, un alto ufficiale ha detto: «La marina dovrebbe dedicarsi meno a quella piccola pozzanghera di fango salato e pensare di più al mare».
Copyright The Atlantic Monthly
(traduzione di Maria Serena Natale)

Corriere della Sera 19.11.05
Bush scopre in Cina i limiti della distensione
Il regime ha incassato l’ingresso nella Wto. Ora insegue i sogni di superpotenza globale
Ennio Caretto

PUSAN - Inizia oggi pomeriggio la fase più delicata del viaggio di George W. Bush in Asia: la visita a Pechino. I motivi di attrito non mancano. Domattina il presidente assisterà alla messa in una delle poche chiese aperte, una nuova sfida ai leader cinesi dopo quella della libertà e la democrazia «modello Taiwan» lanciata da Kyoto mercoledì scorso. La Casa Bianca è preoccupata: sa che la visita sarà molto più difficile delle due precedenti. L’hanno resa tale non tanto il braccio di ferro sullo yuan e sui commerci quanto il graduale ritorno della Cina alla repressione interna e la rapida espansione della sua sfera d’influenza.
Ufficialmente Washington afferma che i rapporti non sono mai stati così stretti, ma in privato ammette che la strategia della distensione, culminata nell’ingresso di Pechino nella Wto, ha avuto molti limiti. Le puntate dei ministri Usa in Cina, da quello del tesoro Snow a quello della difesa Rumsfeld, per indurla ad aprire il suo mercato ai prodotti americani e per ridurre le spese militari, hanno avuto scarso seguito. L’appello al rispetto delle libertà civili è rimasto spesso inascoltato.
Ieri, in vista del vertice col presidente cinese Hu, si sono abbattute sul tavolo di Bush le proteste dei democratici e dei gruppi dei diritti umani negli Stati Uniti. Il senatore Harry Reid gli ha rimproverato «troppa debolezza nei confronti del regime». E Human Rights Watch ha denunciato gli arresti di un vescovo e alcuni preti e seminaristi, la persecuzione dei dissidenti, «una situazione disastrosa».
Ma i cinesi non sembrano sensibili all’argomento. Hu ha risposto alle critiche di Bush da Kyoto definendo la Cina «uno stato democratico che non minaccia nessuno, un fattore di stabilità e prosperità in Asia». E ha citato le buone relazioni tra il suo Paese e la Corea del Sud come esempio «della perfetta convivenza tra sistemi sociali diversi dove ci sia reciproco rispetto». Nel suo colloquio con il presidente russo Putin, il leader cinese ha inoltre ribadito che darà la precedenza all’asse con Mosca su quello con Washington.
Stephen Hadley, il consigliere di Bush per la Sicurezza nazionale, ha ieri dichiarato che «l’America non si disimpegnerà mai dall’Asia». Ma la riunione dell’Apec, la Cooperazione economica Asia-Pacifico, ha reso chiaro che la Cina vuole portare l’Asia nella propria sfera d’influenza. E che ha l’appoggio di più di un Paese asiatico e della Russia. Hu, non Bush, è salito alla ribalta in questi giorni in Corea del Sud: ha tenuto un discorso al Parlamento a Seul e un altro all’Unione industriale. E ha persino stretto un trattato commerciale con il Cile, il primo in America Latina.
Hadley ha rifiutato di confermare che a Pechino Bush non potrà apparire alla tv cinese, come invece fece nel 2002. Che Hu gli faccia tale sgarbo o no, Bush è chiamato a riesaminare la propria politica nei confronti della Cina e dell’Asia. La guerra in Iraq, la crociata per l’esportazione della democrazia, gli hanno alienato numerosi Paesi asiatici.

Corriere della Sera 19.11.05
«Pechino non ha ancora deciso il proprio futuro»
Maurizio Caprara

VENEZIA - La Cina e il ruolo che i cinesi ambiscono ad avere nel mondo sono un grande punto interrogativo. Al momento, i principali pericoli per il futuro della pace possono venire dall'Iran e dalla Corea del Nord. Le Nazioni Unite, macchiate dalle tangenti sul petrolio iracheno di «Oil for food» esportato ai tempi di Saddam, devono dimostrare di essere utili a risolvere i problemi internazionali. Se non ci riescono, bisognerà rivolgersi ad altri. La proposta del G4 formato da Germania, Giappone, India, Brasile per ottenere seggi nel Consiglio di sicurezza dell'Onu è morta. Gli Stati Uniti sostengono soltanto la richiesta giapponese, e chi crede che in America gli isolazionisti siano i repubblicani si sbaglia. Sono i democratici.
A pensarla così è John R. Bolton, uno degli artefici della politica estera di George W. Bush. La sua radicalità aveva insospettito talmente il Congresso che il presidente americano, per superarne le resistenze, ha resa effettiva la sua nomina ad ambasciatore presso l'Onu quando i parlamentari erano in ferie. A tu per tu, in un'antica sala appartata di Palazzo Pisani Moretta, Bolton si presenta nei modi come un uomo pacato. Fino ad oggi sarà al convegno «Colloqui di Venezia» organizzato dalla Fondazione liberal di Ferdinando Adornato, e il Corriere lo ha intervistato.
Ritiene che la Cina, il Paese visitato da George W. Bush, sia un pericolo per il futuro del mondo?
«Non sappiamo abbastanza del ruolo che la Cina vuole avere, credo che neppure i cinesi abbiano chiaro come evolverà. Nei giorni scorsi, il presidente ha riconosciuto che non possiamo dire se evolverà in una democrazia piena e matura come Giappone, Taiwan o Corea del Sud. Molto dipende da questo e credo sia questo che il presidente, in maniera delicata e diplomatica, abbia voluto far notare».
Lei quali sbocchi immagina?
«Una Cina che sceglie il sentiero democratico può essere del tutto integrata politicamente ed economicamente nell'Asia e nel mondo. Una che non lo imbocca, pone problemi diversi».
Che gliene pare del rispetto dei diritti umani nella Repubblica popolare?
«Ci sono ovviamente molti problemi: per esempio sulla libertà religiosa, il Tibet, i rifugiati dalla Corea del Nord. Ne discutiamo, con i cinesi. Lo reputo un argomento del loro dibattito interno. La vera domanda è: da loro, quale parte prevarrà? Da fuori nessuno può dare la risposta esatta».
Mentre la Cina cresce economicamente, gli Stati Uniti appoggiano la richiesta giapponese di un seggio stabile nel Consiglio di sicurezza dell'Onu. L'Italia era preoccupata dalle ambizioni del G4. Può stare tranquilla?
«La proposta del G4 è morta».
E il vostro sostegno al desiderio del Giappone?
«E' da 30 anni che la pensiamo così».
Secondo un sondaggio di «Pew» e «Council on foreign relations», il 42% degli americani è convinto che nel mondo l'America debba occuparsi soltanto dei propri interessi. Nota un isolazionismo in aumento?
«Dubito di certi sondaggi. Però so che di Bush alcuni leader stranieri temevano l'isolazionismo, poi è stato accusato dell'opposto: di essersi impegnato troppo all'estero, rovesciando i talebani e Saddam».
Non ne ravvisa proprio, di isolazionismo?
«Il più grande problema di isolazionismo nella politica americana sta nel sentimento protezionista sul commercio, ed è per lo più tra i democratici».
Perché, i sussidi che l'Amministrazione ha voluto per gli agricoltori americani?
«Una questione di priorità domestiche, poi ci sono stati repubblicani contrari. Niente a che vedere con l'isolazionismo degli anni Trenta».
Nel 1994 lei dichiarò: «Le Nazioni Unite non esistono». Adesso fa l'ambasciatore all'Onu. Come le trova, le Nazioni Unite?
«Dissi che le Nazioni Unite non avevano voce o autorità da sole, ma che fanno ciò che decidono i governi. Ed è un fatto, non un'opinione. Il punto è se i governi sono capaci di agire con efficacia, ed è una parte del mio lavoro: rendere l'Onu più efficace e trasparente. Ricordo però che l'Onu è un solo concorrente nel mercato dei problemi internazionali, così se non può risolvere quelli che le vengono indirizzati guarderemo altrove, ad altre istituzioni che li possano risolvere. Oil for food è uno scandalo grave».
Riserverà ulteriori sorprese?
«Senza dubbio. Finora è stata graffiata la superficie. Inchieste vanno avanti anche in Francia, Gran Bretagna, Italia, India».
L'Iran non ferma i suoi programmi atomici, la Corea del Nord è anche più avanti, la Siria in Medio Oriente conta. Tra questi, quale considera il pericolo principale?
«La corsa di Iran e Corea del Nord verso la bomba atomica. L'Iran aiuta terroristi. La Corea vende tutto a tutti. Per quanto è disperata con la sua valuta, contrabbanda droga in valigie diplomatiche. Se avesse tante bombe atomiche e qualcuno offrisse denaro...».

una segnalazione di Simona Maggiorelli
L'Unità del 17 novembre 2005, pag. 27

Niente imbarazzi: ricordate la fecondazione assistita?
di Lanfranco Turci

I tentativi di rimozione sono tanti. Ma l'oggetto di questi tentativi non vuole andarsene e continua ad aggirarsi come un fantasma scomodo nel dibattito politico. Parlo del referendum sulla legge 40 del giugno scorso e di come in particolare è vissuto nel centrosinistra. Nella vasta area di coloro che l'hanno appoggiato c'è una non dichiarata divisione di giudizio su quanto è avvenuto. Alcuni (quanti? non pochissimi!) pensano che sia stato un errore grave da coprire con un pietoso velo di silenzio, cercando intanto di evitare che «laicisti» e «femministe» facciano nuovi disastri. Quelli che l'hanno promosso restano invece convinti della validità di quella battaglia, disposti ad ammettere di aver sottovalutato - ma non ignorato - le difficoltà dei temi e dello strumento referendario, ma fiduciosi di aver messo in moto un processo capace di promuovere nuovi e più avanzati esiti per il futuro. Sono però una minoranza. Il grosso tace; perché ancora non ha maturato un giudizio definitivo. E poi perché parlare di quella che, sia pure a breve, resta una sconfitta è cosa spiacevole e si ritiene politicamente non pagante. Infatti la maggioranza tace soprattutto perché il tema è considerato scomodo alla vigilia delle elezioni politiche, di fronte all'esigenza di realizzare il massimo di unità della coalizione e di porre addirittura le basi di un nuovo partito, fatto insieme con quanti hanno osteggiato il referendum. Ma non si è mai visto che i problemi si risolvono ignorandoli. Il centrosinistra e i Ds prima di tutto dovrebbero capire che un dibattito aperto non sarebbe necessariamente foriero di lacerazioni, ma servirebbe a chiarire le posizioni e anche a costruire le possibili convergenze sui temi eticamente sensibili e sulle risposte che si possono dare ai dilemmi inediti posti dalla rivoluzione biologica. L'unica iniziativa meritoria in questo campo è stata ai primi di ottobre il convegno di Libertàeguale, non a caso intitolato «oltre la libertà di coscienza». Ma un imbarazzo altrettanto palpabile si avverte anche fra le componenti dell'Unione che si sono opposti al referendum, fino al punto di aderire alla campagna astensionistica. Se si esclude qualche iniziale sortita di Francesco Rutelli, la tentazione di presentarsi come vincitori in nome della «maggioranza astensionista» è stata frenata. Sicuramente fra i più avvertiti ha giocato la consapevolezza dell'ambiguità di quella maggioranza e di quell'esito. Per tutti comunque pesa la preoccupazione di non inasprire i rapporti dentro la coalizione nel momento in cui si avvicina l'esigenza di fornire con il programma della coalizione risposte anche su temi bioetici. Risposte cui non ci si potrà sottrarre all'infinito, né in nome della libertà di coscienza dei parlamentari, né tanto meno in nome di un pronunciamento popolare a favore della legge 40 che non c'è stato. Anche qui intanto tutto tace. In questa situazione di relativa bonaccia è arrivato nelle settimane scorse come un ciclone l'iniziativa Sdi-Radicali, non solo a complicare le mappe geografiche dell'Unione ma anche e soprattutto a rimettere in moto il confronto sulla laicità e la bioetica. Data la situazione di calma piatta, si può solo salutare questa iniziativa con il motto evangelico: «oportet ut scandala eveniant». Lo scandalo non è la richiesta di abolizione o di revisione del Concordato, anche se è quella su cui gioca di più l'effetto immagine. Lo scandalo è la domanda esplicita alla politica del centrosinistra di formulare un giudizio e di assumere una posizione di fronte all'attuale politica delle gerarchie cattoliche. Di fronte alla loro pretesa di trasformare in testi normativi i contenuti della dottrina religiosa. Di fronte alla richiesta di vedersi riconosciuto il ruolo di agenzia morale per una società che nel suo pluralismo è giudicata incapace di reggersi senza il fondamento della fede. Di fronte alla contestazione esplicita del confronto basato sul presupposto dell «etsi deus non daretur», cioè sulla ricerca di una comune base di consenso sui temi etici che prescinda da specifici punti di partenza religiosi o ideologici. Mentre invece la scommessa della laicità è tutta qui, nell'affermazione di un metodo che - come scriveva qualche giorno fa Aldo Schiavone - non è un confine da difendere, ma piuttosto «un bene da condividere». Questo bene non è mai stato messo così esplicitamente in discussione negli ultimi anni, come è avvenuto nelle vicende della legge 40 e nei mesi successivi al referendum. Dopo la presunta vittoria del 12 e 13 giugno il Cardinale Ruini si è assiso come su un trono sulla montagna delle astensioni, presumendo che dall'alto di quella montagna di «buon senso popolare» si possa dettare la linea sui temi più nuovi della bioetica e su quelli più tradizionali dell'aborto e della famiglia. Un vero e proprio programma di riconquista della società italiana, non immaginato neanche ai tempi di presenza e di governo della Democrazia Cristiana. La strategia culturale è basata sull'accusa di nichilismo contro ogni visione della vita che non abbia il suo centro la religione e la sua conclamata coincidenza con la verità della natura e del diritto naturale. La strategia politica è basata su quelli che Sergio Romano ha chiamato i “guelfi laici trasversali”, capaci di presidiare l'uno e l'altro schieramento, facendosi forti della promessa di tradurre in termini elettorali la disponibilità verso le richieste delle gerarchie cattoliche. Che in questo i teocon della destra siano più bravi e spregiudicati di alcune componenti della Margherita, nulla toglie al significato di una reciproca strumentalizzazione fra Chiesa e singole forze politiche, sull'uno e sull'altro fronte. Eppure la posizione delle gerarchie cattoliche non è così forte come potrebbe apparire ad uno sguardo superficiale. Il vittimismo manifestato dopo le reazioni un po' irriverenti di Boselli e Capezzone all'invadenza e all'arroganza manifestate in questi mesi dalla Cei, non convince proprio nessuno. Ricorda tanto la favola del lupo e dell'agnello. Però è significativo, perché tradisce un senso di debolezza più intimo che cova nella Chiesa italiana e che è frutto della cattiva coscienza della «vittoria» nel referendum. Infatti il ricorso al sotterfugio dell'astensione sui temi etici posti dalla legge 40 è stata una scelta tattica degna di un politicismo deteriore, ma moralmente pericolosa per la Cei. Su questo aspetto avevano richiamato l'attenzione per tempo alcuni cattolici illuminati, totalmente ignorati e messi a tacere dal trionfalismo del Cardinale Ruini. Ora man mano i nodi vengono al pettine. Resta e sì accresce il turismo procreativo fuori dai confini nazionali. Resta la tragedia della coppie portatrici di malattie genetiche gravi o di Aids, tragedia che prima o poi arriverà all'esame della Corte Costituzionale. Ora scoppia la vicenda della pillola RU 486. Tutti questi temi e altri (si pensi alla compressione umiliante della ricerca scientifica sui terreni d'avanguardia della genetica) sono come gocce che scavano la pietra. La scelta della chiusura e il rifiuto della comprensione del mondo moderno (si vedano i Pacs) spingono le gerarchie su un terreno sempre più impervio ed esigente. È una sfida che la Chiesa è destinata a perdere, come è successo altre volte nella storia d'Italia e d'Europa. Bisogna confidare che la consapevolezza di questa situazione cresca anche nel mondo cattolico. Fra i dieci milioni di sì al referendum c'erano molti italiani credenti e praticanti. Ma nel mondo della politica attiva o meglio della politica che ha spazio nei media sono ancora troppo poche e flebili le voci che riescono a farsi sentire. Eppure di loro c'è bisogno. Lo sanno bene anche coloro che si battono con più determinazione sul fronte della laicità e della resistenza alle pretese delle gerarchie cattoliche. Dal peso e dallo spessore che acquisiranno queste voci dipenderà in ultima istanza il successo e soprattutto il radicamento di quella particolare forma del centrosinistra italiano basato esplicitamente sull'incontro tra riformismo laico e socialista e riformismo cattolico. Soprattutto dipenderà la nascita effettiva di quel partito democratico di cui si torna a parlare in queste settimane con grande ottimismo verbale e profondo scetticismo di pensiero. Un progetto sicuramente capace di trasformare l'Italia, purché nasca su una cultura politica rinnovata e condivisa. A partire proprio da questi temi della laicità che invece ci si ostina illusoriamente a volere tenere fuori dalla porta.

Avvenimenti 17.11.05
Non metteteci in croce

«Sto nell'Unione ma difendo la legge Biagi e la laicità dello Stato». Parla il segretario dei Radicali Daniele Capezzone.
di Marco Romani

“Spero solo che l'operazione politica che stiamo tentando di costruire con i socialisti non sia un accrocco elettorale, un tricicletto”. Daniele Capezzone - da qualche settimana neontermato segretario dei Radicali italiani nel congresso che ha sancito il passaggio dcl partito nell'Unione - non vuole passare per il "restauratore" di vecchie case politiche. «Vogliamo creare un vero e nuovo soggetto politico con alcuni obiettivi precisi. Il primo è quello della laicità dello Stato».
Prima il vostro slogan era "liberali, liberisti, libertari", ora è caduta la parola "liberisti". Un segno delle nuove alleanze?
Usciamo dalle letture ideologiche. Sogno di vivere in un paese in cui si affrontano questioni concrete. Lo, ad csempio. sono favorevole alla legge Biagi ma condivido la critica secondo la quale con queste norme a stare sul mercato sono solo i lavoratori. Una società in cui solo qualcuno rischia è ingiusta, sogno una società in cui tutti devono correre per farcela: imprenditori, professionisti e servizi. È di destra o di sinistra l'abolizione degli ordini professionali?
Dia lei la risposta.
Se per sinistra si intende la difesa dei più deboli, allora è di sinistra. Veniamo da un decennio in cui le riforme di mercato ognuno le ha fatte sul blocco sociale degli altri: il governo del centrosinistra ha fatto la riforma liberale sul commercio, il centro destra sul lavoro subordinato. Occorre portare l'intero paese a giocare una partita di competizione e concorrenza.
È convinto che mettere tutti sul mercato migliora la qualità della vita?
L'Italia è un paese dominato da lobby e corporazioni che stanno al caldo. Berlusconi si era presentato come il capo del partito liberale di massa ma ha finito per fare il "professional day" che io ho ribattezzato il "corporation day". E questo è il suo maggior fallimento. Blair ha lanciato una sfida intelligente e suggestiva. Ha detto: gli anni Ottanta sono stati gli anni dei sindacati, i Novanta dell'economia, i Duemila devono essere gli anni dei servizi e della possibilità di scelta dcl consumatore. Questa è la sfida della sinistra moderna. Parole come rischio, talento individuale, merito devono entrare nel patrimonio della sinistra, non le si può regalare ad una destra che ha scelto privilegio, tutele, corporazioni.
Come fa a rischiare un giovane del call center con 600 euro lordi al mese?
C'è poco da rischiare: ha la certezza di vivere un'esistenza indecente, sul bordo di un precipizio. Il giovane del call center spesso è un laureato in giurisprudenza che tenta da anni di fare il concorso per poter entrare in un ordine professionale blindato.
Prodi propone di far costare molto di più il lavoro flessibile rispetto a quello a tempo indeterminato. Lei è d'accordo?
È ragionevole, così come ridurre il cuneo fiscale attuale per cui oggi un datore di lavoro dà tantissimo e il lavoratore riceve pochissimo. Nel quadro dell’abolizione delle supertutele solo per una parte della società c'è da fare anchc un'altra riforma liberale e di sinistra. Quclla del welfare. Oggi c'è un pezzo di società che se cade ha sette materassi, e un'altra che non ha né materassi né reti.
Ovvero?
Il meccanismo della cassa integrazione pro-Fiat è una cosa indecente: valanghe di denaro pubblico sono andate in settori non più trainanti. Serve invece il sussidio di disoccupazione.
Volete privatizzare tutto tranne la scuola. Non è una contraddizione?
Sì, siamo per una scuola pubblica e laica, anche se non vogliamo il mantenimento dell'esistente. lo sono contrario al finanziamento diretto della scuola privata, sarei,e sottolineo sarei, favorevole al buono scuola così è la famiglia a scegliere dove mandare il figlio. Ma per arrivarci andrebbe prima abolito il valore legale del titolo di studio. Oggi il buono scuola non è altro che un finanziamento agli istituti cattolici.
Emergenza informazione. Come rompere il monopolio Raiset? Cancellare subito la Gasparri?
La Gasparri è l'abito su misura per salvaguardare il monopolio. E ha sclerotizzato il dominio dei partiti sulla Rai.
Siete per la privatizzazione di una rete Rai?
L'idea di vendere una rete non mi convince: avremmo un corpicino esile stretto fra due giganti.
Il digitale è davvero un modo per aprire il mercato?
Ma non scherziamo. Semmai il problema è ragionare sulla crisi della tv generalista. Il monopolio Raiset fa una televisione per anziani, una fascia elettorale enorme, ma con un orientamento statico e conservatore.
Zapatero è diventato un vostro modello. Il suo primo atto è stato il ritiro dei soldati dall'Iraq. AI vostro congresso Emma Bonino ha invece detto che oggi non si può abbandonare il paese ai tagliatori di gole. Siete con il presidente spagnolo solo sui matrimoni gay?
Ci sono tanti aspetti che apprezzo di Zapatero. Uno è il fatto che ha mantenuto in piedi buona parte delle norme economico sociali volute da Aznar. Sull'Iraq, come tutti sanno, i Radicali erano contrari alla guerra proponendo invece l'esilio di Saddam. Oggi l'importante è che la parola d'ordine non sia "tanti saluti", poi le forme della nostra presenza in Iraq sono molte. La logica è: tutti in Iraq, non per forza con i militari. A me piacerebbe chiedere a Chirac o Putin, che hanno fatto affari fino all'ultimo con Saddamn che diano un contributo vero per la ricostruzione.
L'unilateralismo dell'amministrazione Bush si fonda sulla logica della guerra infinita. Se andrete al governo come deciderete quando partecipare alle missioni militari? Dovrà esserci l'ok dell'Onu o basterà quello della Nato?
L'amministrazione Usa tende a quest'ultima scelta, facilitata se l'unica risposta dell'Europa è "non ce ne frega niente". Dobbiamo organizzare una risposta europea che vada oltre le masturbazioni sul soft power che nessuno ha ancora capito cos'è. Una strategia aggressiva, ma non militare, contro i dittatori si può immaginare. Sono un nonviolento, per me l'ipotesi militare è l'estrema ratio, vorrei però che le altre "rationes" fossero messe sul tavolo. Non vorrei scivolare in una certa indulgenza della sinistra verso i dittatori, ne nel kissingerismo. Se l'Unione va al governo bisogna evitare la situazione per cui nelle piazze si sta con Bertinotti e poi l'onorevole Minniti si mette l'elmetto e va all'ambasciata americana.
La democrazia si esporta?
No. Però si promuove attraverso l’uso della leva economica; giocando la carta mediatica - la più adatta per l'Iran - facendo lavorare insieme, dentro l'Onu, le democrazie.
Perché avete deciso di fare la battaglia sui Pacs e non quella sui matrimoni gay?
Intanto sono sconcertato per il livello del dibattito. Non ditelo a Giuliano Ferrara, ma se uno guarda la realtà americana scopre che i buoi sono scappati da un pezzo, centinaia di migliaia di coppie gay e lesbiche sono sposate, decine di migliaia di bambini sono stati concepiti da lcsbiche attraverso pratiche di fecondazione assistita, ci sono decine di migliaia di casi di adozione da parte di coppie omosessuali. Eppure non si sta verificando chissà quale catastrofe, il proibizionismo fallisce anche su questo tema. Nell'Italia del 2005 la battaglia sui Pacs si puo vincere, quella sui matrimoni gay no. Conviene cogliere un successo possibile che cambierebbe la vita a milioni di persone.
Per voi il neoclericalismo è una delle emergenze nazionali. Dopo il fallimento del referendum la Chiesa ha messo sotto tutela la società italiana?
Dopo il referendum la Swg ha fatto uno studio in cui si diceva: cari laici, non terrorizzatevi perché, nonostante la vittoria, Ruini non ha avuto capacità espansiva, ha mobilitato solo i suoi. Io sono invece convinto che quella capacità espansiva arriverà. I politici pensano tutti ai contenuti del pastone politico di Pionati sul Tg1 e nessuno si preoccupa delle fiction, tutte concentrate su preti e poliziotti che fanno ascolti record, così come le tirate a favore del Papa ”hard rock” di Celentano. Questo non vuol dire che gli italiani smetteranno di fare l’amore o di divorziarsi, ma si stanno ponendo le basi per una società schizofrenica in cui le cose si fanno ma con profondo disagio.
Avete proposto l'abolizione del Concordato e il giorno successivo, dopo la presa di distanza di tutti i partiti, il dibattito era chiuso. E’ un tabù?
Su questo non molliamo e vogliamo che la nostra posizione, senza inutili aut aut, abbia diritto di cittadinanza. In un paese in cui il presidente della Repubblica davanti al Papa parta della laicità dello Stato, non vedo perché il centrosinistra ha problemi a fare almeno la stessa cosa.
State partecipando alla scrittura del programma dell'Unione o sarà un prendere o lasciare?
Da quattro mesi sono al lavoro dodici commissioni ma nessuno ha avuto il garbo di dire ai Radicali: mettetevi due baffi finti e venite almeno ad ascoltare. Ma non è che possono darci il programma già scritto e dirci "minestra o finestra", Chiediamo l'accettazione della dignità della tradizione radicale. Sosterremo il governo, saremo i giapponesi di Prodi. Non chiediamo nè a Marco Rizzo di bere Coca Cola a colazione, nè a Castagnetti di andare a volantinare le ricette della pillola abortiva. Ma chiediamo alla prossima pattuglia di deputati socialisti e radicali di portare avanti le nostre battaglie.
Entrerete anche nel Pse?
Escluso. Credo che sia importante porre l'accento sulla parola "liberale" che faceva parte dcl nostro slogan congressuale. Ma c'è anche un elemento tattico: il compito che l'Unione affida alla nuova lista è, anche, quello di raccogliere i consensi dei delusi del centrodestra che si aspettavano da Berlusconi la riforma liberale dell'economia.
Dopo l'abbraccio ideale con Fassino è più facile prevedere la vostra partecipazione alla fondazione del Partito democratico. E con Rutelli come la mettiamo?
Stimo la sua capacità di lavoro ma Rutelli deve scegliere cosa vuole fare nella vita. Siccome prevenire è meglio che curare, al presidente della Margherita voglio dire che abbiamo conservato le foto del giorno della firma del nuovo Concordato. L'allora presidente dei deputati radicali Rutelli s'era appeso al balcone di Montecitorio per mettere sul pennone la bandiera vaticana a simboleggiare la resa dello Stato davanti alla Chiesa.
Il tema della nonviolenza vi avvicina a Bertinotti?
Questo è un punto su cui una persona intellettualmente sofisticata come Bertinotti rischia di far prevalere l'opportunismo sull'opportunità perché oggi la nonviolenza non può essere disgiunta dal fine della promozione della democrazia. Al di là della descrizione delle disuguaglianze nel mondo e della superpotenza americana, vorrei anche capire come fai a tradurre la nonviolenza in qualcosa di concreto, che risolva la vita per milioni di uomini e donne.

Da Avvenimenti 17.11.05
speciale Eclisse di scienza

La Genesi al posto di Darwin? La Bibbia come testo scientifico è una cosa che non sta né in cielo né in terra», dice l'astrofisica Margherita Hack
di Federico Tulli
L’astrofisica Margherita Hack: “La libertà è la cosa più importante. La ricerca applicata non decolla se non poggia su una buona base di ricerca pura. La Genesi al posto di Darwin? La Bibbia come testo scientifico è una cosa che non sta né in cielo né in terra
«Il progresso scientifico del nostro paese è sotto attacco, soprattutto a causa della legge 40 sulla fecondazione assistita». Margherita Hack, astrofisica tra le più importanti nel panorama scientifico internazionale, attacca: «Quella è una legge che viola la libertà dei cittadini e frena una ricerca scientifica che sembra possa dare risultati straordinari nella cura di malattie gravissime come diabete, Parkinson, Alzheimer. In pratica è come tornare indietro ai tempi di Galileo».

L’anno horribilis per la ricerca scientifica in Italia deve fare i conti anche con la riforma Moratti dell’università e con una Finanziaria che priverà le università italiane di fondi per 400 milioni di euro. Ma forse non tutto è perduto.
«Per fortuna ci sono ancora alcune isole felici - assicura la Hack - in settori come la fisica e l’astrofisica, con laboratori europei come il Cern di Ginevra, l’Osservatorio europeo a Santiago in Cile, quello a Garching in Germania o come l’Agenzia spaziale europea. Centri che permettono alla partecipazione italiana di fare ricerca anche con pochi fondi. Ma in altri campi organizzati diversamente i fondi per la ricerca non ci sono».

Che idea si è fatta della riforma della ricerca universitaria appena passata?
Porta alla morte dell’università. Perché eliminerà il ruolo dei ricercatori nel 2013 e fino ad allora ne trasforma il rapporto di lavoro in un contratto a termine di tre anni più tre. Questo vuol dire stroncare ogni possibilità per quei giovani che hanno già dato prova di essere buoni ricercatori: quando si presentano ad un concorso spesso hanno già, oltre ai cinque anni di università, quattro anni di dottorato e quattro e più anni presso istituti italiani e stranieri.

E dopo che prospettive avranno?
C’è la prospettiva di vincere la cattedra, ma solo nell’eventualità che l’università abbia i soldi per pagarla» Più spesso si arriva a quarant’anni da precario, quando oramai si è troppo vecchi per il mercato del lavoro. Così si toglie ogni sicurezza negli anni più delicati. Perché il contratto a termine non prevede pensione, maternità, assistenza malattie e non permette nemmeno di avere un mutuo per la casa. Così i migliori andranno all'estero, è inevitabile, e gli altri rimarranno frustrati. Statisticamente, invece, le più grandi scoperte, soprattutto nelle materie scientifiche, i ricercatori le fanno da giovani. Ma non solo. Ne risente anche la didattica. Quella più pesante dei primi anni, è ben noto, poggia sulle spalle dei ricercatori .

Che ne è di un'Italia abituata ad essere avanguardia scientifica e umanistica ma anche tecnologica?
Altro che avanguardia, siamo in retroguardia. Se non ci fossero Portogallo e Grecia saremmo il fanalino di coda. Non siamo già più competitivi, perché nell'alta tecnologia c'è bisogno di innovazione. Non basta fare scarpe e vestiti.

Il presidente del Senato Marcello Pera ha detto alla Columbia University che i ricercatori italiani hanno un'alta produttività e qualità scientifica. Una bugia?
No, non è una bugia. Se si guarda alle statistiche gli italiani sono ancora ad un ottimo livello. Alla pari con francesi, tedeschi e inglesi.

Lo Stato deve stabilire come funziona un laboratorio?
Il problema è che trattano la questione come se si trattasse di un 'industria. C'è un eccesso di burocrazia. Chi vuole avere fondi per una ricerca perde il novanta per cento del tempo a riempire moduli. Ma la destra non si proponeva di liberalizzare? Senza contare che in istituti di ricerca come il Cm non è il consiglio scientifico a decidere, ma il consiglio di amministrazione. È tutto strutturato come un' azienda che debba immettere sul mercato, al minor prezzo, e più rapidamente possibile, nuovi prodotti.

Nel far ricerca lo scienziato non dovrebbe essere libero?
La libertà è la cosa più importante. Invece si vuole irreggimentare tutto. La ricerca applicata non decolla se non poggia su una buona base di ricerca pura. Si possono fare tantissimi esempi di ricerche che sembravano avulse da applicazioni pratiche che poi si sono rivelate fondamentali nella nostra vita. Basta pensare alla scoperta di Einstein dell 'effetto fotoelettrico, per cui prese il Nobel. Telefonini, cellule fotoelettriche che ci aprono le porte, satelliti che guidano le macchine sono il risultato di quella scoperta.

Dagli Usa, dove Einstein poté operare liberamente, oltre alla privatizzazione della ricerca scientifica, stiamo importando anche le imposizioni e i limiti imposti dalle lobby politico-religiose?
A me sembra più che altro una forma di fondamentalismo. A cominciare dalla lotta contro l'aborto, per bloccare la ricerca sulle cellule staminali, per mettere fuori dalla porta Darwin. Ho lavorato a lungo negli Stati Uni- ti e ho notato una dicotomia fra ottime università, con docenti che lavorano ad altissimo livello, e una massa di popolazione che ha senso critico bassissimo. In Italia quando si parla con un contadino, con un operaio, si parla con persone che ragionano con la propria testa. Negli Usa non è così. Da noi la cultura è più diffusa. O perlomeno lo era. Finché la tv non lava il cervello a tutti.

Anche da noi Darwin sta passando brutti momenti da quando la ministra Moratti vuole sostituire la Bibbia ai testi di scienze.
La Bibbia come testo scientifico è una cosa che non sta ne in cielo ne in terra. n solo fatto che ci fosse bisogno di nominare una commissione di esperti per giudicare se si poteva insegnare Darwin, la dice lunga. Il peggior governo democristiano era di gran lunga migliore dell'attuale.

Perché anche la sinistra non ha preso una posizione chiara riguardo alle cellule staminali embrionali?
Nel centrosinistra c'è la Margherita, legata alla Chiesa. Ma si ha anche paura di essere troppo di sinistra. Anche nei confronti della ricerca scientifica non è che i governi di centrosinistra abbiano brillato, ma certo non si arrivò ai limiti attuali. La riforma universitaria de11980, la prima dall'anteguerra, che segnò il passaggio da un 'università d'elite ad una di massa, fu una buona legge perché istituì il ruolo dei ricercatori e degli associati. Ma è stata disattesa in molti aspetti. I ricercatori avrebbero dovuto spendere la maggior parte del loro tempo a far ricerca e invece sono stati oberati da ore e ore di insegnamento ripetitivo. Senza contare il peso dei baroni.

Ha qualche soluzione da proporre?
Intanto distinguere bene tra professore a tempo pieno e a tempo determinato. Poi, fare concorsi per ricercatore e promuovere i più validi. La serietà del concorso dipende dalla gente, dalla mentalità, dalla nostra educazione in cui ci sono isole serie, ma anche mancanza di senso dello Stato, di rispetto delle regole. Mali endemici che si stavano lentamente correggendo e ora vanno peggiorando drasticamente con l'attuale governo .

Da Avvenimenti 17.11.05
HELLO DOLLY
Staminali e donazione terapeutica. Inghilterra, Belgio e Andalusia le punte avanzate della ricerca. Ma a Bruxelles i conservatori gli fanno guerra
di Simona Maggiorelli

Una distanza siderale sembra essersi aperta ormai fra l'Italia e buona parte d'Europa perciò che riguarda la ricerca scientifica. Sul nostro paese grava la zavorra dei divieti alla sperimentazione sugli embrioni, il credo creazionista della ministra Moratti che ha fatto sparire Darwin dai programmi scolastici. Pesano i ritardi nell'impiego di farmaci come la pillola abortiva. Gli attacchi alla legge sull'aborto che arrivano anche dal Comitato nazionale di bioetica che, sotto la guida del professor Francesco D'Agostino, appare come una dépendance della Cei. Ora Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita, aspirerebbe a portare sulla stessa linea, cattolica e oltranzista, l'European Group on Ethics (Ege), il comitato di bioetica della Commissione europea del presidente José Manuel Barroso.
Casini vi è da poco stato eletto, per il mandato 2005-2009, prendendo il posto dì Stefano Rodotà. E già infuriano le polemiche. "Troppo conservatori e senza competenze scientifiche" sono le accuse rivolte da più parti al nuovo organismo. Di fatto l'Ege sarà chiamato a esprimere, su richiesta della Commissione, pareri su questioni etiche nelle scienze e nelle tecnologie. E se è pur vero che in materia di bioetica l'Unione non può legiferare, è facile prevedere che il controllo passerà anche attraverso la concessione dei fondi per la ricerca. In Italia accade già da tempo.
In Europa il vento conservatore e cattolico si è fatto sentire con la risoluzione presa, in gran fretta, dalla commissione per bloccare un presunto traffico di ovuli in Romania e con la recente lettera di un centinaio di deputati conservatori e verdi a Barroso perché non finanzi i progetti sulle staminali. E, mentre sì prepara il varo del settimo Piano della ricerca che deciderà le linee Ue dei prossimi ann, è in atto uno scontro fortissimo fra le posizioni oscurantiste di una manciata dì paesi, in testa l'Italia, e la grande apertura alla ricerca biomedica di Inghilterra, Belgio, Spagna.

Per iniziativa dell'associazione Luca Coscioni e dello Sdi Radicali un importante confronto a più voci su questi temi ha già preso il via la settimana scorsa a Bruxelles. Anche in vista dì un congresso mondiale della ricerca scientifica che si terrà dal 16 febbraio 2006 a Roma. "Le convinzioni religiose non dovrebbero intervenire nelle questioni che riguardano la scienza dice Marco Cappato, presidente della Coscioni -. Eppure assistiamo sempre più a falsificazioni di ipotesi e teorie, alla pretesa di sussumere e imbrigliare una ricerca, per sua natura mobile, dinamica, in un'ideologia. Al punto di arrivare a fare leggi che impediscono ai cittadini accesso alle cure» .
E dì una vera urgenza di rendere “transnazionali i valori della speranza e della dignità, della uguale dignità di tutti gli individui” parla in un messaggio audiovideo all'assemblea di Bruxelles, Luca Coscioni, il giovane ricercatore universitario che da dieci anni sta combattendo una coraggiosissima battaglia contro la sclerosi laterale amiotrofica. “Essere malato e vivere la politica e la bioetica sulla propria pelle non è cosa facile” dice Coscioni, denunciando la demagogia politica, quella bassa, "bassissima politica che vuol far leva sulla paura e sul senso di colpa e dì peccato”.
“Non si possono, per ragioni strumentali - gli fa eco l'inglese Graham Watson, capogruppo dell'Adle, l'alleanza dei liberali e democratici al Parlamento europeo - imporre limiti alla ricerca”. La Carta europea parla esplicitamente di difesa della libertà di ricerca e l'accordo di Lisbona ne prevedeva il finanziamento. Ma i modi per bloccarla possono essere tanti e più indiretti. Basta guardare al conflitto fra il consiglio della Commissione europea e l'Ufficio europeo dei brevetti che spesso hanno espresso posizioni contrastanti. Così anche se una ricerca è stata finanziata, la si può fermare negando ai ricercatori la possibilità di brevettare la propria scoperta. Trasformando uno strumento come il brevetto, nato per tutelare la paternità di una ricerca, in una sorta di cappio per la libertà di ricerca. “E con tutti i contraccolpi che ciò determina sugli investimenti da parte delle aziende - dice Roberto Defez del Consiglio nazionale delle ricerche - , specie quelle farmaceutiche, che devono spendere grosse cifre in macchinari e sperimentazioni, per vedersi poi negare la possibilità di brevettare il prodotto». Ma a questo più o meno subdolo modo di mettere il bastone fra le ruote della ricerca ha di recente dichiarato guerra il Belgio che consente la donazione terapeutica per produrre parti di organi: "Con la terapia germinale - spiega Philippe Monfìs del ministero belga della scienza e dell'economia - si può intervenire a livello genetico riuscendo a trattare la malattia non solo per il singolo ma anche per i suoi discendenti”. Il Belgio ha dato il via libera, così, a brevetti di biotecnologia germinale, permettendo di brevettare parti del corpo umano e scontrandosi con la direttiva europea del 1998, che invece vieta del tutto questa possibilità. “Ci troviamo in una posizione paradossale spiega Monfis -. possiamo fare ricerca avanzata in terapia germinale, ma poi non possiamo brevettare le scoperte” .
E ribadendo gli intenti del governo belga, avverte: “Siamo convinti che quella europea sia una norma ormai superata e che rimetterla in discussione sia utile all'Europa”. Libertà di ricerca a trecentosessanta gradi, precisa il senatore belga Antoine Duquesne, più volte ministro, “ma con alcuni paletti. In Belgio - dice la ricerca deve avvenire in laboratori omologati, sotto il controllo di medici specializzati e di comitati di bioetica composti da altri colleghi scienziati. E per quanto riguarda le tecniche, in accordo con la risoluzione Onu. non è permessa la clonazione umana, né si possono utilizzare embrioni per fini commerciali o intervenire nella selezione di caratteri che non riguardino strettamente la cura di una malattia». I due cardini della ricerca per Duquesne e il suo governo sono la dignità umana e l’autonomia. “Per questo, se fosse possibile - aggiunge - non esiterei a denunciare per omissione di soccorso chi si batte per togliere i finanziamenti a questo tipo di ricerca”. Ma se in Belgio, come del resto in Inghilterra dove è possibile la clonazione terapeutica (fissando al quattordicesimo giorno il termine di sperimentazione sugli embrioni), la ricerca scientifica più avanzata vanta parecchi decenni di storia, la vera sorpresa sulla scena europea degli ultimi anni è rappresentata dall'Andalusia: il sud povero e agricolo della Spagna. di recente, ha avuto il suo riscatto, anche economico, grazie alla scelta lungi mirante di puntare sulla ricerca scientifica. «Da più di venti anni il governo autonomo progressista racconta la ministra andalusa della Sanità Maria Jesus Montero - punta sul welfare e sul sistema sanitario. Il risultato è che oggi abbiamo uno dei più forti e strutturati sistemi di assistenza sanitaria d'Europa, con 1500 centri. 36 ospedali, servizi integrati di emergenza. Ma la parte più viva e produttiva precisa - è il settore di ricerca biomedica, che riguarda la medicina rigenerativa e la clonazione terapeutica. ovvero il trasferimento del nucleo da una cellula all'altra». Senza dimenticare che la prima banca di linee cellulari europea è nata proprio in Andalusia. «Abbiamo anche costretto il governo nazionale a fare una legge più avanzata su questi temi e, quando Zapatero è andato al governo, ha esteso il modello andaluso a tutto il paese creando la prima banca nazionale spagnola di linee cellulari». Un bel salto per la regione che è stata sempre considerata la più arretrata di Spagna: “All'inizio la decisione fu scioccante per una parte della popolazione, ma, nel tempo, ha funzionato bene la comunicazione, il lavoro di informazione che hanno fatto gli scienziati aprendo i laboratori. E ora c'è un patto sociale fortissimo fra chi fa ricerca e chi ha bisogno di cure”.