l’Unità 16.2.13
Bersani: «Berlusconi ci lascia una catastrofe»
Videomessaggio di Prodi al leader Pd: «Devi vincere alla grande»
Il segretario «Basta misurare la distanza tra me, Monti e Vendola il problema è questa destra»
«Governo, esperienza e rinnovamento»
di M. Ze.
ROMA Dopo il tacchino sul tetto, (quello che ha fatto impazzire Matteo Renzi) e il giaguaro da smacchiare, ecco che entra in campagna elettorale anche «la mucca in corridoio». Affollamento metaforico, tentazione irresistibile per il leader del centrosinistra Pier Luigi Bersani. Parla nel bolognese, ad un comizio, e sbotta contro quel continuo «misurare la distanza tra me e Monti, tra me e Vendola», senza rendersi conto che il problema è altro, il giaguaro, la mucca, cioè la destra, vale a dire Silvio Berlusconi, che punta all’ingovernabilità, che sdogana le tangenti, promette quattro milioni di posti di lavoro, poi fa un passo indietro, poi rilancia sull’Imu, sulle tasse... «Questi lunghi anni della destra dice la mattina da Repubblica Tv e ripete poi in Emilia Romagna, dove ci sono anche Dario Franceschini e Vasco Errani (altro nome in odor di ministero) ci hanno consegnato una catastrofe sociale, economica, etica e morale», distruggendo «gli anticorpi» giù fortemente indeboliti dalla crisi. «Quando senti uno che giustifica, hai capito da dove viene il problema. Dobbiamo invece pretendere che la magistratura vada fino in fondo», dice riferendosi agli arresti eccellenti che stanno mettendo in ginocchio le aziende e le banche più importanti del Paese. Non crede che sia tratti di una nuova Tangentopoli,«la storia non si ripete mai negli stessi termini», non vede «manone» che manovrano i fili, ma neanche nega «che possa esserci un’iniziativa talvolta un po’ troppo spinta rispetta a un giusto equilibrio, ma non posso accettare che non si vada fino in fondo e che non si faccia pulizia», soprattutto perché fino a quando non si sconfigge la corruzione a rischio sono «le nostre imprese».
Il rischio è che le vicende giudiziarie influiscano in maniera pesante sulla campagna elettorale andando a gonfiare le vele, già gonfie, di Beppe Grillo, o di Rivoluzione civile, creando i presupposti per una maggioranza zoppa al Senato. Per questo il segretario Pd dedica gli ultimi otto giorni di campagna elettorale a chiedere che non si disperda il voto, «l’unica coalizione in grado di garantire stabilità e di sconfiggere la destra è la nostra», ripete come un mantra. Ecco perché non ne può, spiega, di sentirsi chiedere come farà a tenere insieme Monti e Vendola. «Se sarà necessario, opportuno.. Lì ci penso io, eh, perché le primarie hanno deciso chi dirige il traffico», avverte. Sarà lui a dettare le condizioni manda a dire al premier uscente, ricordando a Vendola che il faro è la carta di intenti e lì in quel recinto ci si muove. «Dopodiché aggiunge le cose che stiamo dicendo passeranno purtroppo in second’ordine e voglio vedere chi si sottrae alla responsabilità di fare qualcosa, subito, per il cambiamento. Io non immagino di mettermi in segrete stanze a tirar lì con questo o con quell’altro. Io immagino di mettere lì 4-5 provvedimenti e vedere chi si tira dietro». L’alleanza con Vendola, d’altro canto, è solidissima. «Di Bersani mi fido dice il governatore pugliese -, è una persona di straordinaria lealtà, non è un cinico».
Bersani ricambia e a Monti fa sapere di essere stanco degli attacchi «stucchevoli a Vendola», mentre a Ingroia spezza ogni speranza di dialogo. «Impensabile». «Questi osserva mi hanno massacrato per un anno». Nega il patto di desistenza al Senato, «io non ho mai promesso niente, ho fatto un ragionamento. Politicamente non siamo componibili, Vendola ha sempre compreso la posizione del Pd, questi qua no». Non dimentica l’anno complicato del sostegno a Monti, con Di Pietro all’opposizione del Professore e all’attacco del Pd. «Cosa faccio, vado dagli elettori e dico “ora siamo insieme?”».
Il leader di centrosinistra sa cosa sta accadendo nella base elettorale dell’ex pm: saranno in molti a praticare il voto disgiunto. L’ultimo nome di peso quello di Moni Ovadia che ieri ha annunciato di votare Sel al Senato in Lombardia. «Io mi rivolgo agli elettori, è a loro che chiedo di darci fiducia», dice Bersani guardando quei sondaggi che dicono che la partita è aperta anche in Campania dove il Pdl, dopo aver perso i suoi pezzi da novanta come Nicola Cosentino, è in affanno.
Si può vincere con il 51% anche al Senato, dice ai militanti chiamandoli allo sforzo finale. «Bisogna vincere alla grande. Non un pochino. Vincere un pochino, lo sai benissimo, provoca rischi», gli augura in un video messaggio Romano Prodi che ricorda «non lo dovrei dire a te perché ogni volta che mi voltavo eri uno dei non molti che mi era sempre vicino. Proprio per questo insieme dobbiamo pensare ai rischi di vincere per poco. Bisogna vincere per molto. Questo è il mio augurio ed è l'augurio che facciamo tutti insieme a te e al Partito democratico». Prodi conclude avvertendo che sarà il lavoro il tema cruciale della prossima legislatura, tema «che sarà al centro della nostra azione, la nostra prima preoccupazione», assicura Bersani. Una delle prime, insieme alla legge sull’immigrazione che annuncia di voler cambiare, la legge sulla cittadinanza, quella sull’inasprimento delle pene per la corruzione, la reintroduzione del falso in bilancio, del conflitto di interessi.
Delinea il profilo del suo governo, ci saranno «presenze di esperienza», il ministero dell’Economia dovrà cedere «funzioni» a quello dello Sviluppo economico per aprire spazi all’economia reale, insomma ci sarà «gente che sappia governare il manico», tanto per restare nella metafora.
Repubblica 16.2.13
Bersani: “Tra Monti e Vendola dirigere il traffico spetta a me”
Il Professore: mi offrì Colle e premiership per non farmi correre
di Francesco Bei e Tommaso Ciriaco
ROMA — «Le primarie hanno anche stabilito chi dirige il traffico: se sarà necessario, opportuno, praticabile» allearsi con il centro montiano «lo decido io». Pier Luigi Bersani, a Repubblica Tv, rivendica il suo ruolo guida nella formazione del governo e, soprattutto, riguardo al perimetro che dovrà avere la maggioranza. Con dentro Monti oppure no? Il segretario lascia aperta ogni possibilità: «Un conto è se abbiamo il 51%...Dopodiché, con i problemi che purtroppo abbiamo davanti, voglio vedere chi si sottrae alla responsabilità del cambiamento».
A una settimana dal voto la campagna impone a ciascuno di recitare la sua parte. E dunque Vendola avverte che l’alleanza «non è un guinzaglio e io non sono il cagnolino da salotto del centrosinistra ». Tuttavia nemmeno il leader di Sel pone pregiudiziali assolute contro il centro: «I compagni di viaggio mi interessano relativamente, quello che mi interessa è la direzione del viaggio ». In ogni caso, aggiunge, «non fasciamoci la testa prima che si sia rotta, abbiamo una settimana per impedire che vinca la palude, per questo spero che vinca il centrosinistra con pienezza di numeri ». Un’esortazione a Bersani arriva anche da Prodi con un videomessaggio: «Bisogna vincere alla grande. Non un pochino».
Scottato dalle polemiche suscitate nei giorni scorsi dalla sua apertura a Vendola (poi ritrattata), Monti ribadisce invece la sua equidistanza. In questo momento «le chance di un’alleanza con il centrodestra senza Berlusconi» e con il centrosinistra «sono le stesse». Ma ad Agorà il Professore svela anche un retroscena potenzialmente imbarazzante per il Pd. Lascia infatti intravedere i contorni di una trattativa scabrosa. Oltre alla presidenza della Repubblica, se Monti avesse deciso di non essere in campo alle elezioni, gli erano state offerte «posizioni di quasi vertice o di vertice nel governo». A distanza, Bersani minimizza: «Credo non ci sia nessuno che possa offrire il Quirinale, certamente ci può essere chi non avrebbe escluso un'ipotesi del genere». Ma Monti in tv insiste. Quella del Quirinale o di palazzo Chigi era «una possibilità». Avanzata da chi? Il leader di Scelta Civica in pubblico non fa nomi. Ma a telecamere spente rivela di aver avuto una «conversazione» di questo tipo proprio con Bersani. Che, a quanto pare, sarebbe stato disposto a lasciargli la poltrona a palazzo Chigi in cambio di un addio alla lista Scelta Civica. Offerta rifiutata, perché «solo avendo alle spalle la forza di un movimento si possono davvero cambiare le cose».
E tuttavia il «movimento» del Professore sembra al suo interno piuttosto lacerato. Nonostante le pressioni insistenti di Casini e Fini, finora non c’è stato un evento a cui i tre fondatori abbiano partecipato assieme. Manca insomma la “foto di gruppo”. E
Monti — sostenuto in questo da Riccardi e Montezemolo — continua a ritenere che non sia opportuno farsi vedere insieme ai due «politici di professione». Questa corsa separata del “tridente” rischia di essere però molto costosa per Udc e Fli, a cui i “civici” sottraggono visibilità e consensi. Per questo Casini è tornato all’attacco: «Caro Mario, non possiamo pagare questo prezzo. Almeno nell’ultima settimana di campagna dobbiamo salire tutti insieme sullo stesso palco». Ma il premier per ora fa finta di non sentire.
Sul sito di Repubblica è disponibile la visione del videoforum con Pierluigi Bersani, candidato premier del centrosinistra
Repubblica 16.2.13
Pierluigi lascia a marzo la segreteria un “reggente” fino al congresso
Letta o Bindi alla guida del partito per i prossimi sei mesi
di Giovanna Casadio
ROMA — «Se vinciamo, lascio la segreteria del Pd a un reggente, perché Palazzo Chigi avrà bisogno di tutto il mio impegno». Nel colloquio ristrettissimo di qualche giorno fa a Largo del Nazareno, Bersani ha squadernato il problema. Niente più rinvii, capannelli in privato, ipotesi che si rincorrono su un congresso democratico anticipato — ha detto — tanto vale parlarne subito. Dario Franceschini, Enrico Letta, Vasco Errani erano dell’idea di soprassedere. «Per scaramanzia!», hanno osservato.
Ma il segretario è assai poco scaramantico (la mascotte della famiglia Bersani è una gatta nera — postata su Facebook dalla figlia Margherita). E quindi, il leader ha indicato lo schema. Passerà il testimone nell’Assemblea nazionale del Pd convocata entro fine marzo, ma in vista di un semestre di transizione fino al congresso, che è in calendario per ottobre. Alla guida dei Democratici ci sarà perciò un reggente. Uno solo. «Non ne voglio sapere di comitati allargati, triumvirati. Penso a una figura “istituzionale” del partito, al vice segretario Enrico Letta o alla presidente Rosy Bindi, che lo regga mettendo in moto a giugno il complicato processo verso il congresso. Sarà questa la mia proposta », ha chiarito con i suoi collaboratori.
Pubblicamente, Bersani si limita a ripetere: «Facciamo il caso che si vinca, bisogna valutare insieme un percorso, perché i nostri congressi sono macchine complesse... non mi piace fare due mestieri». Vuole un cambiamento soft, senza traumi, il segretario. Così ci sarà tutto il tempo per scaldare i motori e «fare girare la ruota», consentire il ricambio generazionale. Matteo Renzi sarà della gara per la prossima segreteria? A chiunque lo tiri per la giacca, il sindaco “rottamatore” risponde che è «pura fantascienza», che lui si sta impegnando perché Bersani faccia il premier, «ma la partita della segreteria la giocheranno altri». Non nasconde che la sfida delle primarie di novembre scorso per la premiership del centrosinistra gli è piaciuta, nonostante sia stato sconfitto da Bersani, e che sarebbe pronto a riprovarci. «Tra cinque anni, non credo che la prossima sarà una legislatura breve e mi sto battendo perché vinciamo, e bene».
Sono i “giovani turchi” invece in lizza. Andrea Orlando, il responsabile Giustizia, capolista in Liguria alla Camera, è ritenuto uno dei papabili. «Non ne parlo, anzi tocco le chiavi... prima vinciamo». Di certo però lui, Matteo Orfini, Alessandra Moretti, Stefano Fassina si pongono il problema di come sarà gestita la corsa per la segreteria in autunno. Con primarie aperte o riservate agli iscritti? Nel Pd già c’è stato un cambiamento, voluto da Bersani stesso, e cioè che il segretario non è più automaticamente il candidato premier. A ottobre passato, in vista delle primarie per la premiership, fu infatti approvata una norma transitoria, grazie alla quale alla sfida hanno potuto partecipare anche Renzi e Laura Puppato, oltre a Bersani, Vendola e Tabacci. Osserva Orlando: «Sarebbe forse da evitare quel che accadde nel centrosinistra nel 2007, cioè Prodi premier eletto con le primarie e Veltroni segretario del Pd eletto con altre primarie. Però è davvero una discussione prematura». «Se ne parla dopo il 25», taglia corto Franceschini.
Franceschini è stato segretario del Pd dopo le dimissioni improvvise di Veltroni, nel febbraio del 2009. Fu eletto dall’Assemblea, vista l’emergenza. Poi si candidò alla primarie dell’ottobre 2009, in cui vinse Bersani. Si rifa di nuovo il suo nome per la segreteria, ma lui ritiene sia tempo di passare la mano. Potrebbe invece spuntare un outsider, e cioè Fabrizio Barca, ministro della Coesione territoriale del governo Monti. Invitato da Bersani a tenersi a disposizione se il centrosinistra sarà al governo, ha fatto capire che gli piacerebbe di più guidare il Pd. Ma prima, ci sarà appunto da affidare la reggenza. Con l’intesa che chi regge il partito, non ha incarichi di governo.
l’Unità 16.2.13
Pietro Ingrao
Messaggio a Vendola: «Voto Sel, la coalizione sia compatta»
Le elezioni del 24-25 febbraio rappresentano un grande appuntamento. È il momento che le forze della sinistra si presentino compatte e unite a questa prova, per ricostruire solidarietà e giustizia sociale, riaffermare i diritti delle persone e del lavoro. Solo una vittoria netta del centrosinistra può creare le condizioni perché le lotte non esprimano solo rabbia, ma si traducano in cambiamenti concreti». Lo scrive Pietro Ingrao in un messaggio inviato oggi a Nichi Vendola. «Isolare e battere Berlusconi è possibile. prosegue l'ex Presidente della Camera È possibile uscire dalla crisi con una modifica profonda del modello di sviluppo. Sinistra Ecologia e Libertà di Nichi Vendola è la forza che più coerentemente si impegna per la realizzazi one concreta di questi obiettivi. Indignarsi non basta: bisogna scegliere. Io scelgo conclude Ingrao Sinistra Ecologia e Libertà, per portare al governo del paese la sfida del cambiamento».
Il leader di Sel ha ringraziato per «l’endorsement»: «Considero Ingrao «una personalità fra le più belle della democrazia italiana», ricordando che è stata «una figura di primo piano del Pci, capace di rivendicare il primato del dubbio, dell'autocritica e della ricerca. Un uomo di grande cultura che ha attraversato questo secolo da uomo libero».
Corriere 16.2.13
Vendola avverte: «Non sono un cagnolino»
di Alessia Rastelli
MILANO — «Io mi fido di Bersani. Ma non sono un cagnolino da salotto dentro il centrosinistra». Rassicura sulla solidità dell'alleanza con il Partito democratico ma lancia comunque una serie di avvertimenti, Nichi Vendola, ospite ieri di Corriere Tv. Non solo «Bersani è una delle migliori espressioni del riformismo», dice il leader di Sel, ma ha anche «una qualità rara sulla scena pubblica: non è un cinico, è una persona perbene». Il problema però è far convivere Vendola con Mario Monti se, dopo il voto, risulterà necessario aprire al Professore. Saranno le emergenze dell'Italia — dalla disoccupazione al «capitalismo travolto dalle inchieste» — a indicare la direzione di marcia, sostiene il governatore della Puglia. Ma avverte: «Un'alleanza non è un guinzaglio. È un corpo vivo. E noi dobbiamo continuamente confrontarci con i ceti sociali ai quali ci rivolgiamo». Ancora su Monti, Vendola bolla come «dilettantismo politico» le riserve su Sel del Professore. E lo ritiene responsabile di «aver contribuito a quel club dell'austerity che ha aggravato la crisi in Europa». Vendola indica però nel populismo e nell'antieuropeismo i principali nemici — in comune con Monti — da combattere. E ci tiene a distinguere l'attuale premier da Berlusconi («sono due cose differenti»). Su Corriere Tv, infine, il governatore ringrazia Pietro Ingrao, storico esponente del Pci che voterà Sel. «È un grande dono — dice Vendola — per chi, come me, crede nel valore dell'eredità. Di pensieri, cultura, memoria».
Repubblica 16.2.13
L’appello
“Voto al centrosinistra o si rischia il caos”
ROMA — «Due scenari inquietanti si profilano come possibili dall’esito del voto: o un caos ingovernabile; o il ritorno al potere di uomini e di forze, che negli anni passati hanno già portato il Paese verso la catastrofe. Per evitare tutto questo, l’unica strada è votare per la coalizione di centro-sinistra, assicurandole l’autosufficienza, che le consentirebbe di mettere in piedi un governo stabile, autorevole, rispettabile a livello europeo, in grado di gestire al meglio politiche e alleanze». Lo sostengono in un appello pubblico lo storico Alberto Asor Rosa e un gruppo di intellettuali fra i quali Gustavo Zagrebelsky, Barbara Spinelli, Umberto Eco, Stefano Rodotà, Sandra Bonsanti. Alberto Asor Rosa
l’Unità 16.2.13
Stefano Rodotà
«È un passaggio cruciale Non un voto vada perso»
di Maria Zegarelli
Stefano Rodotà definisce le prossime elezioni politiche come un passaggio a dir poco impegnativo, per certi versi epocale. Per questo, spiega, ha lanciato insieme ad altri intellettuali e costituzionalisti un appello per il voto al centrosinistra.
Professore, anche lei fa un appello al voto utile?
«Siamo di fronte ad un passaggio della politica e della società italiana molto impegnativo, stretti tra un passato che non vuole passare e ha provocato i disastri che abbiamo di fronte, una crisi che ancora ci avvolge e la presenza di forze che non sono, a mio giudizio, in grado di fornirci i mezzi necessari per superare questa fase. Per questo pensiamo sia necessario fare un investimento su una coalizione che può avere i numeri in Parlamento per affrontare una situazione così difficile e complessa».
Questa è una partita che si gioca soprattutto in Lombardia e in Sicilia. Vi rivolgete agli elettori di Ingroia e Grillo? «Noi ci rivolgiamo a tutti coloro che in questo momento hanno evidente quale sia la situazione. Non si sta parlando di voto utile ma della capacità di investire su un insieme di forze che sono in grado di portare il Paese fuori da questa strettoia. Noi abbiamo una legge elettorale che ha portato delle distorsioni nel sistema democratico e soltanto gli elettori con il loro voto possono in parte correggerla evitando il rischio di avere maggioranze diverse tra Camera e Senato. Si creerebbe un problema istituzionale».
Si dovrebbe tornare al voto?
«In teoria è possibile sciogliere una sola delle Camere per poter riequilibrare il sistema nel suo funzionamento. Noi invitiamo a evitare che questo accada, a non disperdere il voto e, per quanto ci riguarda, consideriamo il centrosinistra l’unica forza in grado di garantire stabilità. A preoccuparci è anche l’ipotesi di trovarci di nuovo di fronte a una maggioranza berlusconiana all’interno del nostro panorama parlamentare perché sarebbe un vero disastro per questo Paese. Il centrosinistra deve avere la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento e deve essere una maggioranza coesa, cosa che è realizzabile soltanto se la coalizione esce dalle elezioni forte».
In pratica senza dover ricorrere a Monti?
«È chiaro che in politica bisogna tenere conto delle condizioni effettive e con queste ci si deve misurare. Il centrosinistra si presenta con un programma molto chiaro e uno schieramento definito, Mario Monti con i suoi continui attacchi a Nichi Vendola rende davvero difficile il dialogo politico. Vendola non è il demonio, fa delle proposte molto chiare con le quali credo che tutti si debbano confrontare, così come Monti chiede che si faccia con le sue».
Non le piace come Monti sta conducendo questa campagna elettorale? «Monti non è il depositario della verità e in politica questa è una posizione pericolosissima. Il centrosinistra ha un suo programma e se sarà necessaria una trattativa la stessa non potrà che avvenire partendo dal confronto con la forza maggioritaria. Bisogna ricostruire un corretto funzionamento delle elezioni: chi vince le elezioni ha diritto di governare. Tutti dovrebbero partire da questa premessa».
Il messaggio è per Casini secondo il quale nel caso in cui Bersani non ottenesse la maggioranza anche al Senato il premier dovrebbe essere Monti? «L’Italia purtroppo è stata molte volte indebolita nella capacità di governo da forze minoritarie che esercitavano una rendita di posizione per imporre il loro punto di vista. Credo che questa sia una linea da abbandonare. Mario Monti non potrà dire “queste sono le mie posizioni”, dovrà confrontarsi con il programma della coalizione che arriva prima alle elezioni».
Si parla molto delle spinte populiste che ci sono nel Paese e in alcune forze politiche. Ma si tratta solo di questo o il malcontento degli italiani trova anche ragioni nella debolezza e nelle grandi mancanze della politica?
«C’è una rabbia sacrosanta e giustificata, nata dalla scomparsa dell’etica pubblica che ha eroso le basi della democrazia. Il circuito di fiducia tra cittadini e istituzioni è fondamentale e va ripristinato. In questi giorni sento di nuovo dire “non siate moralisti”. È una posizione che non condivido. Credo, infatti, che si debba essere fermissimi nella ricostruzione della morale pubblica. Non abbiamo prospettive diverse, i modi di esprimere la propria rabbia e la propria protesta sono due: o assecondare il populismo e mettersi nelle mani di Grillo o Ingroia, che hanno cavalcato il personalismo della politica, oppure affidare il proprio voto ad una forza politica in grado di cambiare davvero le sorti del Paese. C’è bisogno di riattivare la democrazia non di personalizzare la politica».
Ingroia come Grillo?
«Ma come si può mettere il proprio nome a caratteri cubitali sul simbolo del partito? Non è soltanto un fatto formale, stiamo parlando di un modo di intendere la politica e i partiti. Per questo ho apprezzato molto il fatto che sul simbolo del Pd non ci sia alcun nome».
l’Unità 16.2.13
Sono nel movimento di Ingroia ma al Senato voto centrosinistra
di Moni Ovadia
IL QUADRO POLITICO ITALIANO E QUELLO DELLA SUA CLASSE DIRIGENTE, SCANDALO DOPO SCANDALO, riesce ad oltrepassare in eccesso tutti gli aggettivi più estremi che la lingua italiana mette a nostra disposizione per descrivere il peggio. Malgrado ciò, il principale sport nazionale è quello di imputare agli altri, purché siano altri, la colpa di tutti i mali nazionali. La politica, quella dei politici di lungo corso, dei professionisti della politica, precipita nel gorgo di tangentopoli? La colpa è dei magistrati persecutori! La politica, quella con la P maiuscola, nella quasi totalità è incapace di capire le trasformazioni epocali già in corso e vota una legge che consegna tre televisioni ad un solo «imprenditore» creando le condizioni per i vent' anni di scempio berlusconiano? Sicuramente la colpa è di quel-
li che lo votano e del destino cinico e baro.
Per Berlusconi, il capo dei capi dei responsabili dello scempio, invece è colpa dei comunisti, della Costituzione, delle toghe rosse, della Merkel, di Mubarak che semina in giro nipoti di dubbia identità, di Obama che è abbronzato e via sproloquiando. E di elezione in elezione, lo sport della caccia ai colpevoli delle proprie incapacità, responsabilità o malefatte, cresce con frenesia e passione. La politica dei politici «veri» si fa ripetutamente prendere con le mani nel barattolo della marmellata? La colpa è dell'«antipolitica» ovvero della relazione causa-effetto che è perversamente malfunzionante. Il presidente del consiglio, il «salvatore dell'Italia», dichiara solennemente che mai e poi mai scenderà «salendo» nell'agone partitico poi cambia idea e fonda un partito nello spazio di un mattino? Colpa della Cgil, di Vendola e del pericoloso Fassina.
Personalmente pur nella contezza della mia insignificanza nel determinare il quadro politico istituzionale, economico e finanziario, cercherò di esprimere una controtendenza. In queste elezioni sostengo responsabilmente Rivoluzione Civile in primo luogo per l'urgenza di evitare la selva delle ambiguità rispetto a valori irrinunciabili quali la giustizia sociale, la legalità, l'inveramento della Costituzione repubblicana. Con la stessa responsabilità, sostengo Ambrosoli in Lombardia. Detto questo, se non votassi in Lombardia, alle politiche voterei Rivoluzione Civile sia alla Camera, sia al Senato, ma dovendolo fare in una regione cruciale per il risultati elettorali nazionali, al Senato voterò per Sel al fine di non fornire alibi a chi scaricherebbe su altri il non pieno successo del centro-sinistra. Dopo le elezioni, come cittadino elettore chiederò a chi ho votato di assumersi a pieno le proprie responsabilità e di non darsi al mediocre esercizio dello scarica barile.
l’Unità 16.2.13
Prove di democrazia tirando a sorte Proposta degli studiosi
Il ruolo del caso appare decisivo nelle elezioni Così un gruppo
di teorici studia l’efficacia del sorteggio
di Gaspare Polizzi
TUTTI GLI ANALISTI CONCORDANO: LA VITTORIA ALLE ELEZIONI SARÀ IL RISULTATO DELLE SCELTE DEGLI INDECISI, CHE SPESSO DECIDONO SULLA STRADA CHE LI PORTA AL SEGGIO. Nel bene e nel male i sondaggi indirizzano le scelte, spingendo a votare in un modo o nell’altro. È come dire che il ruolo del caso nella decisione elettorale appare decisivo. È un limite della democrazia che, come tutti i sistemi complessi, presenta dinamiche di massa che non sono la semplice somma dei comportamenti individuali. E se pensassimo di studiare la democrazia come un «sistema complesso»? Ci hanno provato due fisici teorici (Alessandro Pluchino e Andrea Rapisarda), due economisti (Maurizio Caserta e Salvatore Spagano) e un sociologo (Cesare Garofalo), in un libro «strano» fin dal titolo Democrazia a sorte. Ovvero la sorte della democrazia, e nell'articolo L'efficacia del caso, pubblicato su «Le Scienze» di gennaio. La loro proposta, realizzata con le più raffinate tecniche della scienza della complessità, ricalca un’idea già nota agli Ateniesi del V secolo a.C.: Aristotele sosteneva che la natura democratica di una città si riconosceva dalla selezione casuale dei suoi dirigenti: «è democratica l'assegnazione delle cariche a sorte, oligarchica, invece, per elezione». La pratica del sorteggio torna anche nei comuni medievali e rinascimentali, Firenze e Venezia, per poi scomparire, a eccezione delle giurie popolari dei processi o delle designazioni degli arbitri nelle partite di calcio. Ma di recente Segolène Royal ha proposto un organismo composto da cittadini estratti a sorte che a scadenze fisse diano un giudizio sull’operato degli uomini politici. Anche in Australia si sta valutando l'efficacia di forme di sorteggio nelle scelte politiche.
Il valore della selezione casuale l'ha ricordato di recente il sociologo e politologo francese Yves Sintomer, teorico della democrazia partecipativa, in Il potere al popolo. Giurie cittadine, sorteggio e democrazia partecipativa (Dedalo, Bari 2009).
Sintomer si chiede: «la reintroduzione del sorteggio in politica può rappresentare una via percorribile per rispondere alla crisi di legittimità democratica?». Gli Autori di Democrazia a sorte accettano la sfida sviluppando modelli di analisi statistica dei sistemi complessi per verificare se l'introduzione di un certo numero di parlamentari scelti casualmente tra cittadini disponibili a candidarsi e non appartenenti a nessun partito, sia in grado di aumentare l'efficienza di un Parlamento. Ne deriva il riconoscimento del vantaggio sociale di quello che i teorici dei sistemi complessi chiamano «rumore», ovvero un insieme di segnali casuali il cui andamento nel tempo è descrivibile solo in termini statistici. Ragionando per analogia con quanto avviene in fisica, gli autori sostengono che come «l'imprevedibilità delle traiettorie delle singole particelle a livello microscopico non impedisce di definire e calcolare con precisione variabili macroscopiche come temperatura e pressione di un gas», così si potrebbero definire i comportamenti macroscopici di un sistema sociale anche non conoscendo perfettamente quelli di ogni individuo. Infatti gli individui, come le particelle, rispondono a vincoli imposti dalla rete nella quale sono immersi, restringendo così i loro gradi di libertà. Peraltro negli stessi sondaggi il sorteggio è funzionale alla scelta di un campione sociologicamente rappresentativo.
Con procedure di simulazione statistica gli Autori descrivono un Parlamento bipolare, nel quale l'efficienza risulta dal prodotto tra le proposte di legge approvate nella legislatura e il benessere sociale medio che ne deriva. Si tratta di un grafico proposto dall'economista Carlo Cipolla per descrivere i comportamenti umani e derivarne le “famose” «leggi fondamentali della stupidità umana». L'equilibrio risulta possibile stabilendo un rapporto tra candidati legati ai partiti di provenienza e candidati che effettuano scelte indipendenti: l'efficienza e la credibilità di un Parlamento migliorano se vi è un certo numero di candidati indipendenti che facciano scelte collettivamente vantaggiose. Si dovrebbe prima definire la percentuale relativa dei seggi da assegnare alle due coalizioni, e in una seconda fase, va riservata una quota (ricavabile da una formula matematica) a parlamentari selezionati a caso tramite un pubblico sorteggio e non rieleggibili. Fantapolitica? Forse, ma è inutile ricordare quanto sia scarsa l'attuale credibilità di molti nostri parlamentari e quanto sia ridotta l'efficacia del nostro sistema elettorale, di un Porcellum che rende una scommessa una netta vittoria elettorale, legandola alle maggioranze che nasceranno in Lombardia e in Sicilia. A dispetto della nostra passione e volontà di cambiamento.
Corriere 16.2.13
L’incubo delle Camere bloccate
Il regno di Amleto
di Michele Ainis
Il miglior regalo per i prossimi parlamentari? Un vaccino antinfluenzale. Guai ad ammalarsi, infatti, ed anzi guai a distrarsi, con i numeri che si profilano al Senato. Dove tutto lascia immaginare un revival del 2006, quando Prodi governava (si fa per dire) sorreggendosi al bastone dei senatori a vita. O del 1994, quando Scognamiglio strappò a Spadolini la presidenza di palazzo Madama per un solo voto (e il governo Berlusconi durò 8 mesi appena).
Ma nel 2013 c'è il rischio di scavare una doppia trincea: alla Camera, oltre che al Senato. Perché lì il premio garantisce, è vero, una super-maggioranza a chi vince le elezioni; però non gli assicura affatto il controllo dell'attività legislativa. Non quando l'Aula venga presidiata da una super-minoranza, come quella che sta per imbucarvi Grillo. Non se quest'ultima rifiuti ogni stretta di mano, minacciando viceversa il calcio in bocca più letale: l'ostruzionismo. Nel 1976 la Camera venne sequestrata da una pattuglia di quattro radicali; figurarsi cosa potranno combinare un centinaio di deputati del Movimento Cinque Stelle, senza contare gli uomini di Ingroia, ammesso che raggiungano il quorum.
Intendiamoci: l'ostruzionismo non è un crimine. Viene permesso dalle regole, benché le stiri come un elastico fino al punto di rottura. Fu allevato nella culla della democrazia parlamentare: negli Usa fin dal 1841, in Inghilterra dal 1877, per mano della «brigata irlandese», che rivendicava l'autonomia dell'isola. E qui in Italia ha servito non di rado buone cause, come il filibustering praticato nel 1899 contro le misure liberticide del governo Pelloux. Altre cattive, come l'ostruzionismo contro l'adesione al Patto Atlantico (1949) o contro la riforma regionale (1967). Ma le cause per lo più sono opinabili, perché la politica è il regno di Amleto, è un rompicapo dove manca la risposta.
Contano allora gli strumenti, le tecniche parlamentari. Curioso: in origine l'ostruzionismo mirava a sveltire le discussioni, accompagnando gli oratori troppo prolissi con un saluto collettivo di sbadigli, scalpiccii, clamori. In seguito s'avvalse viceversa di maratone oratorie per bloccare questa o quella decisione, e ancora si cita il record di Marco Boato (18 ore filate nel 1981, guadagnandosi l'epiteto di «vescica di ferro»). Poi i regolamenti parlamentari hanno posto un limite di tempo agli interventi, ma restano praticabili altre strategie: emendamenti a pioggia, continue richieste di verifica del numero legale, raffiche di votazioni per appello nominale. Sicché il nuovo Parlamento ben difficilmente emulerà le imprese del vecchio, che ha saputo battezzare alcune leggi in una settimana (sui referendum nel 2009, il salva-liste nel 2010, la manovra del 2011). Anche perché la bozza Quagliariello-Zanda, che avrebbe accelerato l'iter legis, non è mai uscita dal suo bozzolo. Tanto per cambiare.
Ma l'ostruzionismo cambia eccome, se a condurlo è una legione, invece d'un drappello di soldati. Perché a quel punto può sparare l'arma atomica: il ritiro della truppa. Facendo mancare il numero legale, e impedendo perciò ogni deliberazione. Chiunque vinca, farà bene a metterci subito rimedio. Come? Con la politica che s'usa in ogni condominio. Concedendo qualche posto al sole agli avversari, anziché accaparrarsi fino all'ultima presidenza di commissione. Varando finalmente uno statuto dell'opposizione, di cui si parla a vanvera da un decennio almeno. Evitando l'abuso dei voti di fiducia, il muro contro muro. O la legislatura s'aprirà con una tregua, o conteremo i morti sul campo di battaglia.
il Fatto 16.2.13
Antonio Ingroia
“Perché l’8 per mille finisce all’estero?”
“Riciclaggio, Chiesa colpevole e politici complici”
di Beatrice Borromeo
Dottor Ingroia, tra tutti gli scandali che da anni coinvolgono lo Ior e, più in generale, la gestione dei soldi da parte della Chiesa, c’è un fatto ormai certo: il miliardo di euro che ogni anno lo Stato italiano versa al Vaticano tramite l’8 per mille non resta nelle banche italiane. Perché? “Da anni, nella finanza Vaticana e nello Ior in particolare, c’è un problema di trasparenza. Lo Ior opera poco in Italia e moltissimo sul circuito internazionale, ma immettere all’estero persino i soldi dell’8 per mille lo trovo inaccettabile”.
Oltretutto le banche Italiani contavano molto sull’indotto proveniente da quel denaro.
Motivo in più per parlare di slealtà bancaria da parte del Vaticano. Ma al Vaticano conviene aprire un conto, invece che in Italia, in istituti disinvolti come per esempio Deutsche Bank, che non fa troppe domande sulla provenienza dei fondi. Il punto è che soprattutto da un ente ecclesiastico si deve pretendere un approccio più etico.
Papa Ratzinger ci aveva provato, introducendo una sorta di legge anti-riciclaggio poi ribaltata dal suo Segretario di Stato, Tarcisio Bertone: ma se i fondi dell’8 per mille non sono sottoposti al controllo delle banche italiane, come sappiamo che non vengono mischiati a soldi sporchi?
Non lo sappiamo proprio: non c’è nessuna effettiva tracciabilità. La destinazione all’estero potrebbe essere utilizzata per monetizzare fondi di provenienza sospetta, per usare un termine soft.
Bertone ha anche rimosso dai vertici dello Ior e dell’Apsa (l’amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica) uomini considerati seri come Ettore Gotti Tedeschi. Cosa ne pensa?
Riprendo le dichiarazioni dure dello stesso Gotti Tedeschi quando disse di essere stato sfiduciato proprio per aver difeso la legge anti-riciclaggio. È ovvio che tutto ciò getta un’ombra inquietante su questi personaggi. Se io fossi premier investirei molta più energia per rendere trasparente la finanza vaticana rispetto a quella usata da Monti, che è subordinato. Per non parlare di Berlusconi.
Come mai nessun politico, neanche a sinistra, protesta contro queste pratiche?
La Casta ha sempre lo stesso atteggiamento verso i poteri forti, e il Vaticano è un potere fortissimo. Di politici con la schiena dritta ce ne sono pochissimi: c’è bisogno di un’iniezione di coraggio, e i pm possono aiutare.
Grazie allo Ior – lo dimostrano le tangenti Enimont scoperte dal suo collega di partito, Antonio Di Pietro – girano anche mazzette. Come affronterebbe lei il problema?
Imponendo la tracciabilità e la dichiarazione di provenienza di ogni flusso finanziario che passi dallo Ior. Loro sono i primi a dire di voler fare passi avanti in materia di anti-riciclaggio: lo dimostrino.
Intanto Bankitalia ha imposto un blocco ai bancomat in Vaticano dopo che la Procura di Roma ha segnalato presunte attività di riciclaggio legate a operazioni dello Ior: è una partita da 40 miliardi di euro l’anno.
E loro hanno risposto facendo transitare i conti estero su estero, grazie a una società svizzera: ulteriore mossa di elusione dei controlli e di palese insubordizione alla legge anti-riciclaggio italiana.
Per Monti stiamo assistendo a una nuova Tangentopoli. È d’accordo?
Io dico che è sempre la stessa Tangentopoli, che non è mai finita. Anzi, si è estesa a dismisura: vent’anni di berlusconismo hanno reso lecito l’illecito. Si sono create sacche sempre più ampie di impunità e corruzione, che ormai è sistemica. O sterziamo seriamente, riscrivendo tutta la legislazione sulla pubblica amministrazione e promuovendo un testo unico anti-riciclaggio che sia efficiente, o l’Italia verrà definitivamente divorata da Tangentopoli.
Quali sono le sue proposte, da candidato di Rivoluzione Civile, per sequestrare i bottini illeciti di politici e finanzieri?
Abbiamo una “proposta choc”, che in un Paese normale sarebbe invece ordinaria: estendere ai corrotti e ai grandi evasori fiscali la normativa che si applica ai mafiosi.
Spieghi.
Appena emergono indizi di corruzione devono partire accertamenti sui patrimoni e, in caso di sproporzione tra il loro valore e il reddito dichiarato – e senza la prova di una provenienza lecita del bene – scattano sequestro e confisca dei patrimoni.
Tra corruzione, evasione e sistemi mafiosi perdiamo ogni anno circa 400 miliardi di euro, pari a un quinto del debito pubblico italiano. Non si combatte l’illegalità solo per senso di giustizia, ma come motore di sviluppo. Altrimenti sarà default.
il Fatto 16.2.13
Ior, il siluro tedesco del papa
Il nuovo presidente Von Freyberg costruisce navi da guerra in Germania
di Carlo Tecce
La fretta non produce buone azioni, ma soltanto pasticci: comincia con un'imbarazzante ammissione – che supera una smentita – il nuovo corso per lo Ior, la cassa vaticana, che nomina al vertice il barone Ernst von Freyberg. Un avvocato e banchiere che presiede Blohm e Voss, un'industria navale che partecipa a un consorzio per la costruzione di quattro fregate da guerra per la marina tedesca. Von Freyberg ha sconfitto la concorrenza di un anonimo finanziere belga, Bernard de Corte, anche per l'avallo, formale e sostanziale, di Benedetto XVI che ha suffragato la proposta dei cardinali guidati da Tarcisio Bertone.
IL SEGRETARIO di Stato ha fischiato la fine di una partita logorante e infinita prima che i porporati si riuniscano in Conclave per eleggere il prossimo pontefice. Il 55enne Von Freyberg è un perfetto incrocio tra religione e affari: gestisce una fondazione cattolica che organizza pellegrinaggi a Lourdes e una scuola elementare a Franco-forte, ma riveste cariche in numerose società, tra cui una cassa di risparmio di Colonia con un patrimonio di 8 miliardi di euro e una multiservizi con 22 mila dipendenti. Il Supremo cavaliere di Malta, l'Ordine che ora riprende il dialogo con il Vaticano dopo un ventennio di contrasti, rinuncia ai suoi plurimi lavori, non ai cantieri di Amburgo, al gruppo Blohm e Voss, che sfornava mezzi militari ancora prima del regime nazista e non ha più smesso. Per diversificare il prodotto, come obbligano le regole di mercato, la B&V produce anche imbarcazioni civili: memorabile lo yacht Eclipse di Roman Abramovich, il controverso magnate russo proprietario del Chelsea calcio. Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, prova a soffocare le cattive suggestioni: “Non è un guerrafondaio”, però confessa che proprio quella poltrona, l'unica contestata, non sarà mollata. Anzi, elogia Von Freyberg e cita il pontefice: “Benedetto XVI non lo conosce personal-mente, ma sa che la famiglia di provenienza è conosciuta in Germania”. Vuol dire che il pontefice, seppur dimissionario, non si è disinteressato di questa fondamentale investitura che condizionerà il successore. I passaggi di consegne non si fermano: il Segretario di Stato dovrà fare un rimpasto nella commissione cardinalizia con vari cambi che prevedono l'uscita di Attilio Nicora (che tanto si era speso invano per le norme contro il riciclaggio) e l'ingresso del fedelissimo Domenico Calcagno. Anche il francese Jean Louise Tauran potrebbe lasciare. Il consiglio di sorveglianza non subisce variazioni: Hermann Schmitz, che aveva assunto l'interim dopo la cacciata di Ettore Gotti Tedeschi, torna vicepresidente, restano Carl Anderson, Manuel Soto Serrano e Antonio Maria Ma-rocco. Ma Bertone può ritenersi soddisfatto perché il direttore generale, Paolo Cipriano, è ormai intoccabile. Tra un mese ci sarà un nuovo pontefice, c’è da occuparsi di questioni spirituali. Per il momento il Vaticano ha sistemato quelle materiali. E forse più delicate.
Repubblica 16.2.13
Braccio di ferro sullo Ior alla fine arriva il tedesco che produce navi da guerra
Nominato von Freyberg. No al belga voluto dal Segretario di Stato
di Marco Ansaldo
CITTÀ DEL VATICANO — La Santa Sede ha scelto come presidente del suo Istituto per le opere di religione un avvocato tedesco a capo di un’azienda costruttrice di navi da guerra per la Marina militare della Germania. Il successore del professor Ettore Gotti Tedeschi, sfiduciato 9 mesi fa dal board dello Ior, si chiama Ernst von Freyberg. Ha 55 anni, è membro del sovrano Ordine militare di Malta e, a quanto ha spiegato il portavoce ufficiale, «organizza anche pellegrinaggi a Lourdes».
La sua nomina giunge all’improvviso, negli ultimi 15 giorni del Pontificato di Joseph Ratzinger, di fronte a un’opinione pubblica mondiale ancora scioccata per la clamorosa decisione del Papa di dimettersi. Una nomina giunta dopo una ricerca appaltata dalla Segreteria di Stato a una grande agenzia internazionale di “cacciatori di teste”, e costata al Vaticano centinaia di migliaia di euro.
L’annuncio sul nuovo presidente è arrivato come una fanfara dopo giorni di polemiche e indiscrezioni sui possibili candidati. Il portavoce vaticano, il gesuita padre Federico Lombardi, durante una conferenza stampa si è diffuso sugli incarichi presenti nel curriculum di von Freyberg, oggi non più azionista dell’azienda di cui è a capo ad Amburgo, il gruppo Blohm-Voss (il cognome di sua madre è infatti Blohm). Ma un momento di imbarazzo c’è stato quando un giornalista ha notato che la società è nota per la costruzione di navi militari, come si evince consultando il sito del gruppo.
Lombardi ha contestato l’argomento e difeso la scelta del board sulla persona, invitando a «non affrettare valutazioni negative per l’esperienza lavorativa nella cantieristica», e parlando piuttosto di una nomina «arrivata dopo un approfondito processo». Von Freyberg non è «un guerrafondaio» e per il direttore della Sala stampa vaticana bisogna evitare «conclusioni superficiali da parte dei media».
Di fronte però alle voci e ai controlli incrociati fatti in tempo reale dai giornalisti, a padre Lombardi — indomito front-man, spesso solitario, delle emergenze in cui incappa di tanto in tanto la Santa Sede — qualcuno dai piani alti faceva planare un foglietto. E il portavoce affermava così che «la Blohm-Voss non fabbrica più navi, ha venduto quel reparto, fa solo engeneering. Problema risolto». Tuttavia, un’ora dopo, altro colpo di scena: e una nota scritta di Lombardi riprecisava che l’attività fondamentale del gruppo riguarda «la trasformazione e la riparazione di navi da crociera» come pure «la costruzione di yacht». E che attualmente fa parte «di un consorzio che costruisce quattro fregate per la Marina tedesca».
Al di là degli intoppi mediatici — di fronte a un asserita ricerca di 8 mesi impiegati nell’individuare il nome del prescelto — il Vaticano è apparso in imbarazzo di fronte a una possibile nuova controversia avente oggetto lo Ior, l’Istituto al centro di scandali clamorosi, a partire dalla vicenda del Banco Ambrosiano conclusasi con la morte del suo presidente Roberto Calvi nel 1982 sotto il Ponte dei frati neri a Londra.
L’iter che ha condotto alla scelta caduta su von Freyberg ha visto in campo l’agenzia Spencer e Stuart, su mandato della commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior. Da qui è uscita una rosa di 40 candidati, scesi prima a 6 e poi a 3. Lombardi ha detto che giovedì mattina la scelta definitiva è stata presentata al board dello Ior e nel pomeriggio illustrata al Papa. Il quale non è intervenuto sulla nomina, di competenza dei porporati, ma ha dato il suo assenso. Benedetto XVI non conosce von Freyberg personalmente, benché anch’egli bavarese, ma «sa che la famiglia di provenienza è conosciuta in Germania». Il suo portavoce ha infine smorzato le voci di presunti scontri in proposito dentro le Sacre mura: «In tutte le istituzioni ci sono divergenze che se ben condotte possono portare a passi in avanti. Questo non vuol dire che ci siano battaglie o complotti».
Secondo alcune ricostruzioni, il nome del finanziere belga Bernard De Corte, dato da alcune testate come possibile presidente e sponsorizzato dal segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, non avrebbe però incontrato il plauso di tutti. E così anche quello del candidato italiano, il notaio Antonio Maria Marocco, preferito dal predecessore di Bertone, il cardinale decano Angelo Sodano. La soluzione di compromesso, caldeggiata dal Papa alla vigilia della sua definitiva uscita di scena, è stata quella di un suo connazionale, von Freyberg appunto. Che lavorerà part-time (come Gotti), tre giorni alla settimana a Roma, continuando a risiedere a Francoforte.
Non si spiega tuttavia la presentazione del suo curriculum, in parte sfuggito ai controlli, come evidenziato dal neo di presiedere tuttora un’azienda storicamente nota per la produzione di navi e velivoli da guerra: dalla corazzata Bismarck agli aerei militari della Lufthansa. In questi giorni il quotidiano economico tedesco Handelsblatt ha dato notizia della vendita della divisione di costruzione delle macchine al gruppo svedese SKF. In futuro l’azienda tedesca dovrebbe essere operativa esclusivamente nel settore marittimo non militare.
Con un tedesco al vertice dello Ior potrebbe ora presto uscire dal board il suo connazionale Hermann Schmitz. Che ha retto l’istituto ad interim, e oggi è tornato semplice vice presidente. Anche la commissione di vigilanza, composta da 5 cardinali, è destinata a vedere cambiamenti. Quasi certa la sostituzione del cardinale Attilio Nicora con Domenico Calcagno. E non è escluso che pure il cardinale Jean-Louis Tauran possa essere cambiato.
Interessante conoscere l’ammontare della spesa per l’individuazione del nuovo presidente dello Ior. Secondo il giudizio di un “cacciatore di teste” che dall’estero assiste gruppi italiani nell’individuazione di top manager, «Spencer Stuart lavora normalmente con una parcella del 33,33% del pacchetto annuale del candidato». Nel caso ci fosse stato, ipotizza la fonte, «un accordo “di facciata”, senza una dettagliata ricerca che normalmente dura qualche mese, la parcella potrebbe oscillare tra il 25% e il 30% del fisso». Ma Spencer Stuart è in ogni caso un’azienda di altissimo livello, «sulla quale non si discute». E allora di fronte a un manager il cui emolumento annuo potrebbe aggirarsi intorno al 1,2 milione di euro annui, la parcella pagata in questi casi è di circa 400 mila euro. Nel caso specifico, l’entità potrebbe naturalmente variare.
Repubblica 16.2.13
L’aristocratico tra Lourdes e i Cavalieri di Malta
di Paolo Griseri
ROMA — Il barone Ernest von Freyberg, membro dell’Ordine dei cavalieri di Malta, è il nuovo presidente dello Ior. Un candidato che «il Papa non conosce anche se gli è nota la famiglia », presente nel Gotha della nobiltà tedesca. Cinquantacinque anni, laureato in legge a Monaco e a Bonn, Freyberg appartiene all’aristocrazia di origine sveva. Una tradizione familiare conservatrice, il barone dirige l’associazione per i pellegrinaggi a Lourdes per la diocesi di Berlino ed è titolare di una Fondazione benefica intitolata alla sua famiglia. È proprietario di un castello ad Allmendingen, nel Baden Wurttemberg. Nel 1991 ha fondato una società oggi denominata Dawia dopo la recente acquisizione di una corporate giapponese. La Daiwa è presente in Europa con 17 sedi, ha il quartier generale a Francoforte e opera nel campo della consulenza per fusioni e ristrutturazioni di aziende. È inoltre membro del consiglio di sorveglianza di Flossbach von Sotrch, società del risparmio gestito con sede a Colonia. Ed è membro del consiglio consultivo del colosso del lavoro interinale Manpower.
Ma l’incarico che ha subito suscitato perplessità è la presidenza dei cantieri navali Blohm Voss di Amburgo dove vengono realizzate navi civili e da crociera ma anche, ammette a fine mattinata la Sala Stampa vaticana, «quattro fregate per la marina tedesca ». Effettivamente sul sito della società compaiono tra i prodotti anche le navi da guerra, non un bel biglietto da visita per il presidente della banca vaticana. Il direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi, ha risposto con decisione alle critiche: «Dire che è un guerrafondaio non mi sembra onesto». Freyberg sarà tre giorni a Roma. Un presidente part time? «Lavorerà a tempo pieno per lo Ior», ha detto Lombardi. Il barone manterrà comunque la carica di presidente di Blohm Voss.
Repubblica 16.2.13
Sostituito Marco Simeon, l’enfant prodige legato anche a Geronzi
È partita la resa dei conti e alla Rai inizia il declino del protetto di Bertone
di Alberto Statera
CHI avesse chiesto nel maggio scorso a Ettore Gotti Tedeschi, il presidente dello Ior licenziato con una procedura selvaggia, chi era stato a farlo fuori si sarebbe sentito rispondere: Marco Simeon e Tarcisio Bertone. Esattamente in questo ordine. Quattordici mesi fa, caduto Berlusconi, il Segretario di Stato si spese del resto con determinazione per inserire nel governo Monti con l’incarico di sottosegretario il giovanotto,
suo pupillo fin dai tempi in cui era Arcivescovo Metropolita di Genova.
Simeon, trentaquattrenne, figlio di un benzinaio di Sanremo, già poco più che ventenne viene catapultato dal suo Cardinal Protettore in una serie incredibile di incarichi: priore del Magistero della Misericordia, che possiede 130 appartamenti, consigliere d’amministrazione dell’ospedale Galliera, oggetto di una speculazione immobiliare, e addirittura approda alla Fondazione della Cassa di Risparmio di Genova, oltre a inondare a caro prezzo la Città del Vaticano con i fiori sanremesi dell’associazione “Il Cammino”, che dirige con spiccate doti affaristiche. I primi soldi veri li fa con la vendita degli immobili a Roma delle suore dell’Assunzione alla Lamaro Costruzioni dei Fratelli Toti, che gli fruttò quasi un milione e mezzo. Ma poi ne deve aver fatti tanti altri, a giudicare da quel che sostengono gli inquirenti che hanno lavorato allo scandalo della Cricca dei Grandi Eventi, i quali lo intercettarono al telefono con alcuni dei protagonisti di quelle vicende e lo considerano parte integrante di quel grumo di interessi immobiliari del sistema Balducci-Bertolaso-Propaganda Fide. Sembra quasi di vedere trent’anni dopo la fotocopia di Luigi Bisignani sbarbato, il faccendiere che già poco più che ventenne curava il conto “Omissis” dello Ior attribuito ad Andreotti e condivideva i segreti del capo della Loggia P2, Licio Gelli.
Quando anni fa Capitalia si fonde con Unicredit governato da Alessandro Profumo, il Vaticano si allarma. Che c’è da aspettarsi dal banchiere laico che vota per il Partito Democratico? Cesare Geronzi traversa allora piazza del Sant’ Uffizio e va a rassicurare il suo amico Bertone, con il quale si danno del tu e che ha sposato una delle sue figlie, il quale gli chiede di prendere in banca il suo protetto, che lo seguirà anche in Mediobanca. Sarà poi il giovanotto sanremese, nel frattempo diventato responsabile di Rai Vaticano e degli Affari istituzionali (incarico che per ora gli rimane), dopo aver sponsorizzato l’opusdeista Lorenza Lei alla direzione generale, a organizzare il lavoro sporco: il siluramento del Cardinale Carlo Maria Viganò, che andava denunciando “una situazione inimmaginabile” di “corruzione ampiamente diffusa” negli appalti e nelle forniture vaticane. Un malaffare “a tutti noto in Curia”.
A quel punto era segnato anche il destino di Gotti Tedeschi, fin da quando Geronzi, manifestandogli sommo disprezzo, disse di lui in un’intervista: «È un personaggio ritenuto preparato che si è particolarmente esercitato nella demografia», alludendo signorilmente ai cinque figli del banchiere del Papa, che si era opposto al salvataggio del San Raffaele di don Verzè da parte dello Ior, affossando il progetto di un grande polo sanitario vaticano coltivato dal Cardinal Bertone. Per di più, i segreti inconfessabili della Prima e della Seconda Repubblica, oltre che del Papato, sigillati nei caveau de Torrione di San Nicolò non erano più considerati abbastanza blindati.
Quando Gotti si mostra disponibile collaborare con i magistrati, Simeon e il direttore generale dello Ior Paolo Cipriani arruolano addirittura un medico che lo osserva “sotto il profilo medico” durante una festa di Natale e certifica che il presidente è un po’ “strano”. Operazioni da basso impero nate in una Curia dove pullulano tutte le cinque piaghe della Santa Chiesa, che il Beato Antonio Rosmini enumerò due secoli fa.
Oggi Geronzi è più o meno a casa, anche se mette bocca in operazioni finanziarie come quella del gruppo Salini, Tarcisio Bertone non sta tanto bene, visto che i quattro cardinali che già tempo fa chiesero le sue dimissioni, sembrano ora molti di più. E il ragazzo di Sanremo che ha messo le mani in un’infinità di faccende quantomeno opache non sembra più così sicuro di sé, come quando qualche mese fa il “Fatto Quotidiano” gli chiese se in realtà egli non fosse figlio naturale del Segretario di Stato e lui, ridanciano, rispose in modo ambiguo.
Chissà se, mentre l’Italia e la Santa Sede navigano sommersi dall’onda, questa è la fine di una “carriera della Madonna”.
l’Unità 16.2.13
Quella «strana» fretta per comprare La7 prima del voto
di Vittorio Emiliani
NELL’IMMINENZA DELLE ELEZIONI, LUNEDÌ PROSSIMO, GLI AMICI DI BERLUSCONI POTREBBERO METTERE LE MANI ANCHE SU LA7, embrione di un possibile terzo polo tv, che negli ultimi anni si è conquistata un interessante capitale di autonomia politica rispetto alla dominanza del Cavaliere (dilagato in questa campagna elettorale per ogni dove) e su di una rete dotata di antenne decisamente appetite da Mediaset. Perché una così vistosa accelerazione in vista del voto del 24-25 febbraio? Perché soprattutto il candidato premier Pier Luigi Bersani ha posto con forza la legge sul conflitto di interessi come una autentica priorità di governo in caso di vittoria, insieme all’incisiva revisione della legge Gasparri. Una delle leggi più smaccatamente favorevoli all’allora bi-presidente.
Mai legge fu più invocata di questa, purtroppo mai nata, in presenza del colossale conflitto di interessi incrociati di Silvio Berlusconi fra informazione, comunicazione, assicurazione, finanza, ecc. Mai legge fu più avversata della legge Gasparri che «regola» a vantaggio di Mediaset il comparto delle emittenti radio-tv e che ha praticamente messo la Rai alla catena del governo e del ministro dell’Economia in carica (all’epoca, Berlusconi e Tremonti).
Il governo Monti è ancora in carica, anche se la salita in campo del suo leader complica le cose. Le Autorità sulle comunicazioni e sulla concorrenza sono pienamente operanti. Bisogna che da esse non uno, ma cento riflettori vengano attivati per sapere cosa si sta realmente preparando in Telecom per lunedì di fronte alle due proposte di acquisto: dell’editore Urbano Cairo per la sola rete tv, in ascesa negli ascolti ma ancora considerevolmente passiva a fronte di cospicui investimenti ancora recenti; del Fondo Clessidra guidato dall’ex ad di Fininvest, Claudio Sposito, che acquisirebbe sia La 7 che gli impianti di trasmissione, per poi eventualmente «spacchettarli», cedendo la rete a Marco Bassetti che per anni ha lavorato per il Biscione, marito e socio di Stefania Craxi, deputata Pdl. Cairo e Sposito sono entrambi uomini cresciuti in Fininvest, ma il primo si è poi affermato autonomamente come editore. Sposito ieri ha negato nel modo più assoluto che la famiglia Berlusconi sia «uno dei principali investitori del fondo Clessidra». Ma alcuni membri del CdA di Telecom hanno rapporti con Clessidra o con Mediobanca partecipata da Mediolanum. La7 dà palesemente fastidio sul piano politico a Berlusconi con giornalisti come Lerner, Formigli, Gruber, Mentana ai quali metterebbe volentieri il silenziatore.
I tre multiplex di Telecom rafforzerebbero le posizioni di Mediaset sul piano delle tecnologie e, domani, nella telefonia a banda larga. Il governo Berlusconi, nel 2001, fece annullare dal fido Gasparri la vendita del 49 % di Rai Way, impianti di trasmissione, ai texani di Crown Castle che portava nelle casse Rai 724 miliardi di lire dopo le tasse (per un digitale terrestre «ricco») e producendo un’alleanza fra rete Rai e rete Poste dal grande futuro. La Rai venne così azzoppata e più tardi costretta a scendere dalla piattaforma satellitare di Sky per salire su quella di Mediaset perdendo soldi e affidabilità presso i propri utenti dotati di contratto Sky. Per contro Mediaset venne generosamente rafforzata anche nelle tecnologie dov’era più debole. Figuriamoci coi tre multiplex Telecom. Lunedì, giocando di anticipo, Berlusconi, destinato a perdere queste elezioni, diverrebbe dominante in comparti strategici. Governo e Autorità possono, se vogliono, evitare una simile eventualità.
Repubblica 16.2.13
Della Valle in campo per La7 cordata con altri imprenditori
Lettera a Bernabè: qualche settimana per l’offerta
di Giovanni Pons
MILANO — Diego Della Valle scende in campo per La7. Il fondatore della Tod’s dovrebbe far arrivare entro oggi al presidente di Telecom Italia Franco Bernabè e a tutti i consiglieri una lettera in cui si dice pronto a presentare un’offerta concorrenziale per rilevare la tv controllata da Ti Media. Della Valle ha già firmato l’impegno di riservatezza per accedere alle carte messe a disposizione dalla società all’advisor, ha messo i legali al lavoro e ingaggiato una banca d’affari internazionale che lo assiste. Ha bisogno però di qualche settimana (non mesi) per mettere a punto un’offerta interessante insieme ad alcuni imprenditori del made in Italy (tra 5 e 7) che sono disposti a seguirlo. E cercando di coinvolgere anche chi lavora a La7: dunque non si può escludere una partecipazione alla cordata di alcuni dei volti noti della tv, da Enrico Mentana a Michele Santoro, considerati da tutti i contendenti come inamovibili.
Lo schema dell’offerta di Della Valle dovrebbe essere simile a quello della Cairo Communication, puntando solo su una tv (La7 senza Mtv) e lasciando a Telecom Italia il business delle infrastrutture, i multiplex, che comunque generano dai 35 ai 50 milioni all’anno di margine lordo. Anzi, nella visione di Della Valle nessuno impedirebbe a Telecom di mantenere una quota di minoranza per avvantaggiarsi di una eventuale rivalutazione successiva dell’asset televisivo. Magari evitando di dover sovvenzionare con una dote pecuniaria il nuovo acquirente.
La lettera di Della Valle potrebbe dunque far slittare di qualche settimana la vendita di Ti Media, essendo il cda convocato per lunedì e le offerte vincolanti di Clessidra e Cairo depositate ieri sera. Ma sicuramente vi sarà battaglia in Consiglio poiché un gruppo di consiglieri spingerà sicuramente per finalizzare la vendita. Si tratta di Gaetano Miccichè (in conflitto poiché Intesa è advisor di Clessidra), Elio Catania (indipendente espresso da Intesa), Tarak Ben Ammar (indicato da Mediobanca) e Gabriele Galateri (indicato da Generali). Del plotone faceva parte anche Renato Pagliaro, presidente di Mediobanca, ma alcune indiscrezioni riferiscono che nei giorni scorsi l’amministratore delegato Alberto Nagel, in qualità di advisor di Telecom, ha supportato Della Valle nell’analisi dell’oggetto Ti Media.
Dunque la posizione di Mediobanca in cda potrebbe cambiare e diventare più attendista di fronte alla possibilità di un’offerta più allettante rispetto a quelle già pervenute. Sarà importante anche valutare le considerazioni di Bernabè, che si è sempre opposto a una svendita: le due offerte pervenute sembrano approfittare molto della difficile congiuntura del mercato editoriale e della complicata situazione debitoria di tutto il gruppo Telecom. A sorpresa, dunque, il cda potrebbe prendere qualche settimana di tempo per leggere anche l’offerta di Della Valle oppure decidere di accantonare la vendita per un paio d’anni in modo da vedere i frutti della ristrutturazione avviata dopo l’uscita di Giovanni Stella. Insomma la partita è tutta da giocare.
Repubblica 16.2.13
Il colpo di mano contro la 7
di Giovanni Valentini
È DIFFICILE immaginare che questa vecchia e zoppicante democrazia possa, nelle sue forme attuali, sopravvivere al proprio declino senza rinnovare le sue istituzioni e soprattutto senza sterilizzare la grande piaga della corruzione.
(da 'Morire di democrazia' di Sergio Romano - Longanesi, 2013 - pag. 106)
Questo potrebbe essere l’ultimo weekend di libertà per La7, la tv di Enrico Mentana, Lilli Gruber, Gad Lerner, Michele Santoro, Marco Travaglio e di tanti altri professionisti della televisione: come Serena Dandini, Corrado Formigli, Myrta Merlino, Tiziana Panella ed Enrico Vaime. E di conseguenza, anche per il pubblico dei suoi telespettatori.
Se lunedì prossimo il Consiglio di amministrazione di Telecom deciderà di svendere al peggior offerente Ti Media, la società che controlla l’emittente televisiva e le infrastrutture di trasmissione, farà un grosso regalo agli alleati occulti di Mediaset. La7 rischierà, allora, di diventare la quarta rete dell’impero del Biscione, oltre a Canale 5, Retequattro e Italia 1. O peggio ancora, di essere messa in liquidazione, smantellata, chiusa.
La fretta più che sospetta con cui è stata chiesta la convocazione d’urgenza del Cda, se l’amministratore delegato Franco Bernabè e la maggioranza dei consiglieri non riusciranno a respingere questo colpo di mano, induce a temere il peggio. E cioè che le “quinte colonne” di Telecom, tutte più o meno in conflitto di interessi, vogliano cedere l’intero “pacchetto” ai sodali berlusconiani. Magari anche a costo di arrecare un danno patrimoniale all’azienda, esponendosi così a un’eventuale azione di responsabilità.
Il tentativo è evidentemente quello di concludere tutto prima del voto di fine febbraio, per anticipare un responso elettorale e una svolta politica che potrebbero essere sfavorevoli al partito-azienda di Silvio Berlusconi. È assai improbabile, infatti, che nel prossimo Parlamento Mediaset possa ancora beneficiare dei favori, delle coperture e delle complicità, anche trasversali, di cui ha goduto finora. Tanto più che sulla necessità di abolire la famigerata legge Gasparri e varare una riforma televisiva convergono i programmi del centrosinistra, come ha ribadito anche ieri Pierluigi Bersani nel videoforum di Repubblica Tv; del Centro di Mario Monti e perfino del Movimento 5 Stelle. E, anzi, nella nuova legislatura potrebbe non essere questo l’unico terreno d’incontro con i “grillini”.
Vittima e simbolo del duopolio televisivo, costituito dalla Rai e da Mediaset, La7 rappresenta l’impossibilità di realizzare un “terzo polo” in grado di conquistarsi uno spazio nel sistema attuale. Non basta insomma fare una tv di qualità per sopravvivere nel mercato televisivo e pubblicitario italiano. Al più, si può riuscire a fare il “terzo incomodo”. E l’esempio di Sky, con un modello di business completamente diverso imperniato sugli abbonamenti più che sugli spot, lo conferma “al contrario”.
È dunque un approccio di sistema quello che occorre per affrontare la questione televisiva, al cui interno si colloca il caso La7. Il punto fondamentale è che l’emittente di Telecom non può finire nelle mani della congrega berlusconiana. Né può diventare uno
sleeping competiror di Mediaset. O addirittura, venire soppressa per azzerare la concorrenza. Nella desertificazione culturale prodotta dalla tv commerciale, questa è comunque un’isola da tutelare e salvaguardare.
Non si fa fatica a riconoscere che una rete televisiva non appartiene al core business di una compagnia telefonica come Telecom che ha ben altri problemi da affrontare e risolvere. E perciò può essere opportuno venderla, senza tuttavia svendere a prezzi di favore i tre “multiplex” che comprendono le frequenze televisive ottenute in concessione per vent’anni dallo Stato e costituiscono perciò un cespite rilevante. È proprio questo il bene pubblico, la risorsa demaniale scarsa, da regolamentare in forza di un’efficace normativa anti-trust.
Con ciò si dimostra una volta di più il fallimento totale della legge Gasparri, imposta dal regime televisivo per difendere gli interessi dell’aziendapartito che fa capo tuttora al Cavaliere. Avevamo segnalato ripetutamente negli anni scorsi il pericolo di passare dal vecchio duopolio analogico a un nuovo duopolio digitale. E la vicenda di La7 certifica ora che l’allarme non era infondato.
Ora, alla vigilia delle elezioni, Telecom non può liquidare la sua rete televisiva prima di un riassetto dell’intero settore. Sarebbe un atto di sfida contro la futura maggioranza e il futuro governo, quali che siano. E ancor più, contro il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza.
Corriere 16.2.13
Sentenza del giudice sulle staminali, la via giudiziaria alle cure mediche
di Mario Pappagallo
Ma allora queste staminali funzionano o non funzionano? E soprattutto occorrono laboratori asettici per prepararle o basta una struttura senza particolari accortezze né macchinari? Secondo l'Istituto superiore di sanità e secondo l'Agenzia regolatoria sui farmaci (Aifa) le risposte sono: non vi sono lavori scientifici che confermino l'efficacia delle staminali mesenchimali su malattie come Sla, sclerosi multipla, atrofia muscolare; non si possono manipolare queste cellule senza rigide accortezze tecniche e igienico sanitarie. Per intenderci non si possono «lavorare» in un laboratorio qualsiasi. Tutt'altre risposte danno, invece, i giudici del lavoro che autorizzano l'uso di queste cure in bambini dichiarati dai medici «senza speranza». Uno scontro istituzionale, tra scienza ufficiale e giustizia.
Forse interessa a pochi, ma si stanno creando presupposti simili a quelli che divisero l'Italia ai tempi della terapia anti-cancro denominata metodo Di Bella. La cui sperimentazione costò all'Italia qualche miliardo senza alcuna validazione. Smorzata la bolla mediatica, del metodo Di Bella non si parla più e non si sa nemmeno che fine abbiano fatto quei pazienti che all'epoca la seguivano. Anche in quel caso la Giustizia si schierò contro la scienza.
Ed eccoci all'oggi, a una sentenza dell'8 febbraio: un bimbo di un anno e mezzo affetto da atrofia muscolare dovrà essere curato con cellule staminali mesenchimali, nonostante lo stop alla terapia imposto dall'Istituto superiore di sanità e dall'Aifa. Lo ha deciso il giudice del lavoro di Ascoli Piceno, accogliendo il ricorso dei genitori. Sentenza analoga a quella del «caso Celeste», la bambina di Venezia con la stessa sindrome: un giudice del lavoro ha ordinato agli Ospedali civili di Brescia di provvedere alla somministrazione delle cellule. In entrambi le vicende, la cura è quella della Stamina Foundation, onlus messa sotto inchiesta a Torino. Giudici contro giudici. Nella speranza che i magistrati del lavoro che hanno detto sì abbiano chiesto informazioni al giudice che, invece, direbbe di no. O all'Istituto superiore di sanità o all'Aifa. Sarebbe bello fare chiarezza, sarebbe bello non confondere ancor di più quei genitori che si trovano con bimbi meravigliosi dal destino segnato. Bimbi che ridono nonostante i sondini o le macchine del respiro automatico.
l’Unità 16.2.13
ISTAT
Sono quasi cinquantamila i clochard in tutta Italia
Secondo l’ultimo rapporto Istat sono ben 47.648 le persone senza fissa dimora in Italia. In tutto, lo 0,2% della popolazione del nostro Paese. Di queste quasi la metà cerca alloggi di fortuna per le strade di Roma e Milano mentre il 40% cerca di vivere nel nord-ovest. La maggior parte sono uomini stranieri (59,4%) e vivono da soli. Rispetto agli italiani, gli stranieri sono più istruiti (addirittura, il 9,3% ha una laurea) e sono più giovani. Della totalità dei senza dimora, quasi due terzi prima avevano una casa: questo dato, però, presenta un gap tra italiani e stranieri. Nel 61,4% dei casi, gli stranieri non hanno mai avuto una casa nel nostro paese. Le donne, secondo il rapporto dell’Istat, sono 6.238 (13,1% del dato totale) e sono in prevalenza straniere: in prevalenza rumene, ucraine, bulgare e polacche (insieme sono più della metà delle homeless straniere), hanno un’età media di 45 anni circa e più di un quarto supera i 55 anni.
Poco più di un quarto degli homeless lavora, chi con occupazioni poco stabili e durature (24,5%), chi con un lavoro fisso (3,8%), ma sempre in impieghi a bassa qualifica e con un guadagno medio di 347 euro mensili. Quasi il 62% ha perso il lavoro stabile che prima aveva, mentre un quinto non ha redditto. Quella della perdita del lavoro, poi, è una delle tre cause principali della «discesa» in questo mondo: le altre due sono la separazione da un coniuge o dai figli e una cattiva condizione di salute.
il Fatto 16.2.13
MAXXI Artisti e critici contro la Melandri
Non vediamo cos’altro debba accadere per dimostrare una chiara inefficienza gestionale e una certa difficoltà ad entrare nelle dinamiche dell’arte contemporanea”. Sono 53, tra artisti, critici, giornalisti, curatori e storici dell’arte, ad aver scritto una lettera per chiedere le dimissioni di Giovanna Melandri dalla presidenza del Maxxi. “La nomina di un suo collaboratore come segretario generale del MAXXI – scrivono – lascia davvero esterrefatti per modalità e sostanza”. Ma di certo quella non è stata, a dire dei firmatari dell’appello, l’unico errore “politico” della Melandri: “Scivoloni come l’imbarazzante mostra dedicata ad Alighiero Boetti, o la cancellazione senza spiegazioni di mostre di un certo rilievo internazionale, ma anche decisioni molto discutibili che hanno impedito la visione di film ritenuti incompatibili con la campagna elettorale”. La lettera è indirizzata alla stessa Melandri, al ministro Ornaghi, ai vertici del Pd e al candidato democratico per la presidenza del Lazio, Nicola Zingaretti.
l’Unità 16.2.13
Editoria, Fnsi a governo e Fieg: urgenti misure contro la crisi
Federazione nazionale della stampa
lIL CONSIGLIO NAZIONALE, RIUNITOSI A ROMA IL 13-02-2013, SENTITA LA RELAZIONE del Segretario generale Franco Siddi la approva.
La crisi, ormai ufficializzata, di gruppi di primo livello nel panorama dell’editoria nazionale come Rcs Mediagroup e Mondadori e di quotidiani come La Stampa e Il Corriere dello Sport, con la chiusura di decine di testate storiche e l’espulsione dalle redazioni di quasi un migliaio di giornalisti, rende evidente per tutti che un settore rilevante dell’industria italiana – cui sono legati beni pubblici come la libertà di informare ed essere informati e il diritto all’informazione – è arrivato a un punto di allarme acuto.
Alla crisi economica e del settore si sono infatti sommati la scarsa lungimiranza degli editori, il ritardo nella definizione di strategie capaci di rispondere alle trasformazioni tecnologiche, palesi errori manageriali e investimenti sbagliati che oggi pesano in maniera insostenibile sui bilanci delle aziende. Si deve dunque parlare di un vero e proprio fronte di preoccupazione estrema sul quale occorre compiere atti di corresponsabilità importanti a tutti i livelli, a partire dalla politica che sembra invece, in questa fase elettorale, avere cancellato dalle agende qualsiasi progetto di intervento a sostegno di un settore precipitato, come tutto il Paese, in una crisi senza precedenti.
Il momento richiede, invece, interventi indispensabili e urgenti come la riforma delle leggi dell'editoria e l’istituzione di un fondo pubblico valido almeno un triennio per l'innovazione e per la trasformazione industriale, la definizione di un welfare attivo del lavoro che consenta di gestire nella maniera meno traumatica possibile le uscite anticipate per la crisi, coniugandole con l'ingresso di professionalità giovani da formare con l'aiuto dell'esperienza di chi è a fine carriera.
Ogni situazione di difficoltà ha una sua storia e merita una valutazione specifica, ma la preoccupazione e l’azione del Sindacato non possono che essere sempre e comunque finalizzate alla tutela delle testate, alla salvaguardia del loro valore all’interno del sistema dell’informazione, alla garanzia dei posti di lavoro minacciati dalla crisi e pure la protezione dei lavoratori autonomi.
Nessun governo può immaginare che il rilancio dell’editoria possa avvenire solo per impulso delle parti. Il Cn ribadisce però anche la richiesta alla Fieg di aprire immediatamente un tavolo di confronto per affrontare con il massimo rigore l’esame della crisi nel suo complesso, prima di affrontare le singole richieste di attivazione di ammortizzatori sociali che arrivano dagli editori e che – al momento – non hanno un’adeguata copertura per garantire a tutti la giusta protezione sociale necessaria.
Il Cn lancia dunque un appello al senso di responsabilità anche della Fieg perché venga trovato il coraggio di azioni comuni per un nuovo equilibrio di sistema, nel rispetto delle autonomie specifiche delle parti sociali e della dignità dei lavoratori.
Approvato all’unanimità
il Fatto 16.2.13
Da ocurare
Il sito nazista “censisce” gli ebrei
In rete i cognomi di diecimila famiglie italiane
Hlywar, nonostante le decine di denunce è ancora attivo
di Giorgio Borges
Holywar, guerra santa in inglese, continua ad appestare Internet. Anzi, la grande rinuncia di Benedetto XVI al trono di Pietro ha rinvigorito l’odio di questo sito nazicristiano, che si proclama movimento teocratico di resistenza popolare e antisemita all’ennesima potenza. Nell’ultimo manifesto inserito nella sezione propaganda c’è l’ormai nota foto del fulmine che colpisce San Pietro, il giorno dell’annuncio di papa Ratzinger, e poi il numero della bestia satanica (666) incastrato nei simboli massonici e l’orrendo logo ricavato intrecciando la svastica hitleriana e la stella di David, emblema d’Israele. Attacchi anche ai due conduttori di Sanremo, Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, rappresentati in un contesto irriferibile e definiti “razzisti ebrei”. A far rabbrividire, però, è ancora la presenza delle liste sugli “ebrei italiani”. Negli ultimi due anni, Holywar è stato più volte segnalato e denunciato per aver compilato elenchi di “docenti ebrei” nelle università del nostro Paese e per aver censito i cognomi “delle 10 mila famiglie ebree d’Italia”. “Il problema della sinagoga di Satana” viene sviscerato città per città con l’indicazione dei “cognomi più frequenti e dei falsi convertiti” di Genova, Firenze, Livorno, Pisa, Pitigliano, Roma, Venezia, Siena.
IN QUESTA sezione si può anche scaricare il dvd del film nazista Suss l’ebreo con questa motivazione: “Per conoscere la minaccia che viene dalla lobby ebraica, in modo rapido e completo, non vi è niente di meglio che guardare il più bel film fatto sull’argomento”. Tutto è ancora in rete, nonostante la recente campagna mediatica dopo gli insulti a Fiamma Nirenstein, deputata uscente del Pdl, raffigurata come “una strega nazista e sionista”. Responsabile del sito, anche nella sua versione italiana, è un norvegese che si chiama Alfred Olsen, accusato di essere uno degli ispiratori dello stragista Breivik. Il dicembre scorso Olsen è stato interrogato da un magistrato di Bolzano. Lui si è difeso dicendo che Breivik è “un massone sionista” e sul sito ha attaccato il pm scrivendo che è iscritto al Partito radicale, “partito che fomenta la pedofilia”.
Gemello di Holywar, peraltro, è il forum italiano di Stormfront, fondato in America da un ex leader del Ku Klux Klan: quattro ragazzi nazisti di Stormfront sono stati arrestati nel novembre scorso e contro di loro c’è una richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Roma. Agli atti dell’inchiesta c’è questa intercettazione: “Riccardi (il ministro, ndr) andrebbe deportato e bruciato vivo”. Uno dei quattro ha anche contatti con il leader di CasaPound, Iannone. Per tornare a Holywar: il sito pubblica le lettere settimanali di monsignor Richard Williamson, il vescovo lefebvriano diventato tristemente famoso per aver negato l’Olocausto. In quell’occasione intervenne persino papa Ratzinger per far chiedere scusa al vescovo. Oggi Williamson è in rotta con la Fraternità San Pio X, la comunità dei lefebvriani, e aggiorna i suoi fedeli “sull’infezione conciliare” che ha contagiato i tradizionalisti cattolici, che sotto il papato benedettino sono stati più volte in procinto di rientrare dopo lo strappo del Concilio Vaticano secondo. Per Holywar, “l’abdicazione di Ratzinger” conferma che la Chiesa è sotto la “dittatura giudaico-massonica” e l’unica resistenza è fare la guerra santa per “la Repubblica di Cristo”: “Nel nome di Dio, difendi la tua fede e la tua eredità cristiana dalla mafia ebraica. Lotta con noi, l’unica alternativa politica teocratica che combatte questo male satanico”.
Assegnato il World Press Photo
L’urlo e l’innocenza nell’inferno di Gaza È lo scatto dell’anno
Foto dell’anno, da qui
Repubblica 16.2.13
L’ultimo gelato di Bibi Netanyahu “Duemila euro per la fornitura, troppi”
GERUSALEMME — Tradito dalla passione per il gelato, Benjamin Netanyahu è sotto tiro: il quotidiano finanziario Calcalist ha rivelato agli stupefatti israeliani che il loro premier dispone di un budget annuo di duemila euro per acquistare coni e coppette attraverso un contratto sottoscritto con una gelateria. Corrisponde a una media di 14 chili di gelato al mese, il tutto mentre Netanyahu è indaffarato nelle trattative per un governo di coalizione che dovrà tagliare risorse e varare l’austerità anti crisi. Così, dal Paese gli è piovuta addossa una tempesta di critiche, e il contratto è stato subito cancellato.
Corriere 16.2.13
Cina, il discorso segreto del leader Xi
Il segretario ai quadri del partito: «Rischiamo la fine di Gorbaciov»
di Guido Santevecchi
PECHINO — Ha già parlato molto Xi Jinping, nei tre mesi da quando è stato incoronato leader del partito unico e della Cina. Ha usato slogan come «sogno cinese» e «grande rinnovamento della nazione»; moniti come «ritorno alla frugalità» e «lotta a tigri e mosche», modo per definire i corrotti, siano alti gerarchi o piccoli burocrati di campagna. La stampa locale, con l'assenso della censura, si è lanciata nella denuncia di sprechi e malversazioni. Ma c'è un discorso del nuovo imperatore, proprio uno dei primi, che sulla stampa cinese non si è letto. Perché Xi lo ha pronunciato a porte chiuse, diretto solo ai quadri del regime. Tema: «Perché l'Unione Sovietica si è disintegrata? Perché il partito comunista sovietico è crollato?».
Una domanda che deve aver scosso la platea di Shenzhen nella provincia meridionale del Guangdong, dove Xi è andato a dicembre non a caso: voleva segnalare una vicinanza con Deng Xiaoping, che nel 1992 aveva fatto uno storico «viaggio al Sud» per rilanciare riforme e aperture economiche bloccate dal massacro della Tienanmen.
Il segretario ha dato subito la risposta: «I sovietici sono caduti perché i loro ideali e le loro convinzioni vacillavano. E alla fine bastarono poche parole di Gorbaciov per decretare la fine di un grande partito e lo scioglimento dell'Urss. In quell'ora nessuno si dimostrò uomo, nessuno si fece avanti per resistere».
Il discorso di Xi naturalmente è stato raccolto in un documento riservato, ma ora qualcuno ne ha consegnato una sintesi al New York Times, lo stesso giornale che potè pubblicare alla vigilia del Congresso di novembre un dossier sulle ricchezze accumulate dalla famiglia del premier Wen Jiabao. Evidentemente qualcuno piuttosto in alto nella nomenklatura ha scelto il grande quotidiano americano per far filtrare informazioni (scomode per qualcuno e utili per qualcun altro).
Ci vorrà tempo, in Cina e fuori, per interpretare il pensiero di Xi Jinping. Qualche giorno fa ha detto in pubblico che il partito deve accettare «critiche anche aspre». Poi ha ammonito i dirigenti a farla finita con tappeti rossi e banchetti interminabili: «Bastano quattro piatti e una zuppa». Ma sul fronte delle liberalizzazioni ha citato il famoso detto di Deng sul progresso, che dev'essere perseguito come «quando si guarda un fiume, tastando i sassi uno ad uno».
«Per ora cerca di essere due personaggi insieme», ha detto al New York Times Christopher Johnson, che è stato analista di questioni cinesi alla Cia. E ha concluso: «La domanda è: quanto a lungo potrà andare avanti con gesti come quello dei quattro piatti e una zuppa prima di dover prendere le decisioni difficili?».
Dunque il problema è non fare la fine dell'Unione Sovietica e del suo partito comunista. Il discorso di Xi Jinping è incredibilmente simile al pensiero del professor Yasheng Huang, che insegna Politica economica al Mit di Boston e ha appena scritto su Foreign Affairs un saggio dal titolo «Democratizzare o morire». La sua analisi parte dalla constatazione che il blocco antiriformista del partito ha avuto il sopravvento dalla grande repressione di piazza Tienanmen, nel 1989. Ma ora si stanno levando voci all'interno della gerarchia più alta, aiutate anche dalle richieste di onestà, trasparenza e responsabilità di fronte alla legge che vengono da milioni di cittadini che parlano sul web. «Il potere deve affrontare le riforme politiche o si troverà a fronteggiare una rivoluzione, nel giro di dieci anni», scrive e spiega: «Fino ad ora ciò che ha trattenuto i cinesi dal rivoltarsi non è stata la carenza di domanda democratica, ma la mancanza di offerta».
Xi Jinping, 59 anni, è il figlio di un eroe rivoluzionario della prima ora, ma è anche il primo timoniere della Cina ad essere nato dopo il 1949, anno in cui Mao proclamò la nascita della Repubblica popolare. Quello che con il suo discorso a porte chiuse ha voluto dire ben chiaro al partito è che lui non sarà un secondo Gorbaciov, nel bene e nel male.
Corriere 16.2.13
Neonazisti a guardia degli operai. Scandalo Amazon in Germania
Ondata di proteste dopo la denuncia tv sulle condizioni di lavoro
di Paolo Lepri
BERLINO — «È una vergogna, non ordinerò più niente», scrive un lettore della Bild, Franz Grescher. E non è certamente l'unico, perché il reportage della prima rete televisiva pubblica tedesca Ard sulle terribili condizioni di lavoro nel centro operativo di Amazon a Bad-Hersfeld, nell'Assia, ha sollevato un'ondata di proteste che il più grande gruppo di vendite sul web ha cercato di arginare. I cinquemila immigrati assunti temporaneamente per fare fronte alla crescita degli ordini nel periodo natalizio venivano sorvegliati e intimiditi da una milizia sospettata di avere legami con il mondo dell'estremismo di destra e degli hooligans. Le guardie esibivano i capi di abbigliamento della Thor Steinar, la marca simbolo dei simpatizzanti neonazisti, vietata in alcuni stadi tedeschi e tolta anche dal catalogo della stessa Amazon. La loro ditta si chiama «H.e.s.s. security», un nome sinistramente uguale a quello del braccio destro di Hitler.
Diana Löbl e Peter Onneken, i due giornalisti della Ard, sono riusciti a documentare una situazione scandalosa, nonostante le minacce ricevute dagli «addetti alla sicurezza». Migliaia di persone, provenienti da tutta Europa ma soprattutto da Paesi in crisi come la Spagna, parcheggiate in alloggi di fortuna nei dintorni del capannone di Amazon, pagate senza contributi, alleggerite del 12 per cento di un salario già misero dalle organizzazioni che si occupavano del reclutamento, costrette a lunghi turni festivi e notturni, sottoposte a misure di controllo tipiche di un campo di reclusione. Tra le tante storie di disperazione, quella di una donna spagnola, Maria, allontanata perché si era lamentata del luogo dove era stata mandata a dormire, o di un'altra, Silvina, il cui contratto è scaduto improvvisamente tre giorni prima di Natale perché le ordinazioni erano inferiori alle attese. È dovuta tornare a casa.
E Amazon, che dice Amazon di queste nuove schiavitù del ventunesimo secolo? Per quanto riguarda i gorilla che mantenevano l'ordine, un portavoce ha dichiarato che la compagnia «non tollera discriminazioni o intimidazioni». Le accuse sul comportamento delle guardie saranno valutate e verranno eventualmente prese la «misure opportune». Più in generale, la mega-azienda fondata da Jeff Bezos ha sostenuto che in periodi di punta come quello natalizio viene assunto personale temporaneo che ha l'opportunità di essere messo alla prova «nella prospettiva di un impiego a lungo termine». Un modo come un altro per fabbricare illusioni.
La verità è invece che il caso tedesco non sembra essere isolato, tenendo conto di quanto era emerso in passato sulle durissime condizioni di lavoro (turni di dieci ore e pause di pochi minuti) nel magazzino di Amazon nella Lehigh Valley, in Pennsylvania, rivelate da un'inchiesta di Morning Call, e delle denunce provenienti più recentemente dalla stampa britannica. In un contesto caratterizzato dal rischio sempre più concreto di perdere il predominio nel settore dei libri, come ha scritto nei giorni scorsi il New York Times. Il fenomeno delle recensioni manovrate dietro le quinte ha diminuito infatti la fiducia del gruppo di Seattle, insidiato da nuovi social media come Goodreads.com che offrono modi diversi di promuovere, consigliare e condividere la lettura.
Naturalmente, Amazon non è certo l'unico cattivo in un mondo di buoni. Restando per esempio in Germania, va chiamato in causa un gruppo come Zalando, che vende online scarpe e abbigliamento, fondato nel 2008, oggi presente in dodici Paesi (tra cui l'Italia), un miliardo di euro di volume di affari nel 2012. Secondo molte testimonianze, nello stabilimento di Grossberen, a sud di Berlino, i lavoratori che vengono dalla Polonia sono costretti a ritmi produttivi massacranti. È arrivata un po' di acqua da bere gratuita a disposizione di tutti, raccontano, solo dopo l'intervento, dall'esterno, del sindacato ver.di e grazie, anche in questo caso, ad un servizio televisivo. Dentro tutti hanno paura. Gli altri non sanno, o non vogliono vedere.
Repubblica 16.2.13
“Basta bocciature, costano troppo” la nuova scuola della sinistra tedesca
Il progetto della coalizione Spd-Verdi in Bassa Sassonia
di Andrea Tarquini
BERLINO — «Promozione garantita, no alla scuola di classe!». Forse chi di voi era teenager o già adulto decenni fa ricorda ancora gli slogan da maoismo egalitario dei post-sessantottini nostrani, da Potere Operaio a Lotta Continua. Slogan che sembrano rivivere nel programma di governo della coalizione rossoverde (Spd-ecologisti) in Bassa Sassonia, il vasto Stato industriale del nordovest tedesco, location della casa madre di Volkswagen. Sconfitta la Cdu di Angela Merkel alle recentissime elezioni regionali, il futuro governatore socialdemocratico Stephan Weil non si è ancora insediato, ma già propone radicali riforme del sistema scolastico. E scatena una bufera a livello federale: un vecchio dilemma, più meritocrazia o più aiuto ai deboli, spacca la società tedesca.
La nuova coalizione Spd-Verdi a Hannover, ha scritto ieri Spiegel online, ha in programma l’abolizione della bocciatura in tutte le scuole del Bundesland (Stato federale). Sapete perché? Semplice: «Per risparmiare un’umiliazione personale a chi deve ripetere l’anno», ma anche per alleggerire le casse pubbliche, visto che i ripetenti nell’intera Germania costano alla pubblica amministrazione un miliardo di euro all’anno. Poco rispetto agli aiuti alla Grecia o al resto dell’Europa mediterranea, ma insomma in tempi di crisi non si scherza.
Fin qui la proposta della nuova «sinistra di governo» di Hannover.
Spiegel online non ci sta. Jan Fleischhauer, uno dei suoi columnist più agguerriti (fu quello che, dopo la tragedia della Costa Concordia, asseriva che un capitano tedesco o britannico avrebbe agito meglio di Schettino) si scatena. Non senza buoni argomenti, in realtà. «Davvero questo sarebbe un passo eguaglianza e pari opportunità? Allora perché rimanere a metà strada, aboliamo anche i voti e le pagelle», scrive l’editorialista. Se andiamo avanti così, continua, tra poco arriveremo a discutere se un’ortografia corretta non diventi una barriera culturale discriminante e inaccettabile.
Egalitarismo o meritocrazia: dibattito eterno qui e non solo qui, almeno dal Sessantotto in poi. Il mio sospetto, suggerisce Fleischhauer, è che col pretesto di voler aiutare i figli dei ceti meno favoriti, in realtà il futuro governo di Hannover «vuole salvare
i pargoli della nuova borghesia “verde” dal disonore di una bocciatura». Sempre più spesso, egli ricorda, liberi professionisti e altri benestanti ricorrono ad avvocati dalle parcelle salate se il figlio porta a casa brutti voti. «Sempre meno gente nella nostra borghesia riesce ad accettare che la propria prole non brilli per intelligenza o volontà di apprendere, e ogni insegnante conosce i guai cui va incontro se rifiuta di dare l’assenso per l’accesso al liceo al figlio di un architetto», nota Fleischhauer. In Germania per passare dopo le elementari al Ginnasio (scuola superiore d’élite, anche quando è pubblica e gratis) ti serve l’approvazione del consiglio di classe.
Attenti all’egalitarismo di sinistra, è in sostanza il monito di Fleischhauer: proprio Stati da decenni a guida democristiana — Baviera, Baden-Wuerttemberg, o all’Est Turingia e Sassonia — la scuola meritocratica è più severa. Non classista, severa. E conquista un miglior rating a livello internazionale.
La Stampa TuttoLibri 16.2.13
Mendoza, l’ultimo amico di Garcìa Marquez
Caro Gabo, ricordi Macondo?
Amori picareschi, romanzi, zuffe su Castro e il comunismo: un ritratto sconosciuto del Nobel ormai ostaggio dell’Alzheimer
«Non soffre la sua condizione, ma intorno a lui si addensano pettegolezzi, vanaglorie, falsità»
di Mario Baudino
Plinio Apuleyo Mendoza «Quegli anni con Gabo» trad. Raul Schenardi Edizioni Anordest pp. 235, € 11,90
L’ultima volta che parlarono davvero dei «vecchi tempi» fu a Barcellona. Ma già Gabriel Garcia-Márquez non stava bene; la memoria antica era perfetta, il rapporto col presente molto meno. «Mi ripeteva sempre le stesse domande - racconta Plinio Apuleyo Mendoza - capii che qualcosa non funzionava più. E allora ci rifugiammo nel passato». Là, dalle parti di un Macondo cristallizzato nel tempo ed ormai inviolabile, Gabo stava richiudendosi per sempre, come in un castello incantato. Ora ne è definitivamente prigioniero, dice il suo grande amico. L’Alzheimer che non perdonò la madre dello scrittore e il fratello, ora ha ghermito anche lui. La monumentale autobiografia «Viver para contarlo» è destinata a fermarsi alla prima parte già pubblicata.
Per il resto diventerà sempre più importante Quegli anni con Gabo il libro scritto da Mendoza una decina d’anni fa e rimasto inspiegabilmente non tradotto in italiano. Ora sta per pubblicarlo – uscirà il 28 febbraio - una giovane e dinamica casa editrice veneta, Anordest, mentre l’autore ha appena dato alle stampe una nuova edizione con 11 lettere che gli inviò García-Marquez dal Messico, quando stava lavorando a Cent’anni di solitudine. Era lui infatti, insieme a un nucleo ristrettissimo di amici, a leggere quasi tutto in anteprima. Era stato il suo maestro di giornalismo - in Venezuela - ed è scrittore in proprio. A Gabo ha dedicato anche El color de la Guayaba, un libro a quattro mani tradotto da Mondadori. Come accade talvolta agli autori dell’America Latina, è stato anche ambasciatore della Colombia in Francia e in Italia.
I due si incontrarono giovanissimi in una bar di Bogotà, e non legarono affatto perché Gabriel Garcia-Marquez faceva lo sbruffone con le ragazze e si comportava «come uno della costa», atteggiamento imperdonabile nell’austera capitale colombiana. L’amicizia nacque un po’ dopo, e proprio grazie a una battuta da editor, nella Parigi bohèmien dove entrambi campavano di grandi progetti, di sogni e di utopie. Mendoza, di cinque anni più giovane, era uno studente come tanti; Gabo era un giornalista del quotidiano «El Espectador» e si dava un po’ di arie perché era stato spedito a Ginevra per seguire una conferenza al vertice tra americani e sovietici. Aveva alle spalle «Foglie morte», romanzo ben accolto dalla critica, e non era particolarmente simpatico.
Parlarono del libro; Mendoza gli fece osservare che forse «c’era un capitolo di troppo», e indicò quale. «Nessuno mi ha detto una cosa del genere, in Colombia», fu la risposta. «Da quel momento fui destinato a diventare uno dei primi lettori dei suoi romanzi». Non si lasciarono più. Vissero in simbiosi, anche se a volte distanti, uno di qua l’altro di là dell’Oceano. Viaggiarono, finirono nella Russia sovietica su treni disastrosi, pubblicarono una rivista tra le pallottole durante un colpo di Stato in Venezuela, fecero i turisti nella Germania Est e intuirono tutto o quasi del comunismo «nella luce lugubre di Lipsia»; si entusiasmarono per Castro e la «rivoluzione» cubana, andarono insieme a Stoccolma a ritirare il Nobel.
Dal libro emerge un Gabo particolarmente vivo, fuori da qualsiasi monumentalità, vestito in maniera incongrua da giovane, con abiti che gli cadevano addosso come se fossero appoggiati a una sedia, e costosissima negli anni del successo (ma a quanto pare con risultati analoghi dal punto di vista estetico). E anche un Gabo politicamente scorretto - e contraddittorio - che aveva messo le mani di Stalin, viste nel Mausoleo dove ancora era esposta la mummia, al dittatore di L’autunno del patriarca. «Ti sei reso conto che aveva le mani da donna? » disse all’amico quando uscirono sulla Piazza Rossa. Aveva capito benissimo l’orrore, già prima del XX Congresso. Ma a differenza di Mendoza, che rifiutò decisamente il mondo del totalitarismo, si ostinò a tenerne fuori, sempre, Fidel Castro. Senza che ciò guastasse il loro rapporto.
E ora? Ora non potrà più discutere con nessuno. Il 6 marzo del 2012, giorno dell’ottantacinquesimo compleanno, l’amico provò a fargli gli auguri. «Mercedes preferì non passarmelo al telefono perché non riconosce più le voci». Mercedes è la mitica moglie di Gabo, sposata a Barranquilla dove lo aveva aspettato paziente per molti anni. Mendoza è il padrino del loro figlio maggiore, uno di famiglia. «Sono sicuro che se ci trovassimo di fronte fisicamente potremmo ancora parlare, mi piacerebbe vederlo ma nello stesso tempo ho come paura». L’ultima volta Gabo gli fece solo domande vuote (chi sei, come stai, da dove vieni), come alla deriva, e fu una gran pena. Mercedes gli assicura «che è tranquillo, persino contento, però – ci dice ancora Mendoza - preferisce anche lei non correre il rischio di turbarlo».
Fisicamente sta benissimo «E’ forte, ha superato nella vita ben due cancri. Il problema non è quello». Soffre di questa condizione? «Credo di no. A quanto mi risulta, non se ne rende conto». Intorno al patriarca si addensano pettegolezzi, indiscrezioni, vanaglorie, «ma credo che molta gente, quando sostiene di averlo incontrato, semplicemente non dica la verità». Restano i ricordi. A proposito, a quale è più legato l’amico di una vita? «Il Nobel, nel 1982. Arrivammo alla cerimonia tra nugoli di fotografi, tappeti, fiori, confusione. E Gabo, allegrissimo, mi disse: è un po’ come assistere al proprio funerale».
La Stampa TuttoLibri 16.2.13
Toni Servillo
“Con i versi di Brecht si salva la politica”
«L’autore dell’Opera da tre soldi è una scoperta liceale che mi ha sempre accompagnato, fino a “Viva la libertà”»
di Mirella Serri
Diario di lettura «Nella scena del comizio in piazza San Giovanni si recita la sua poesia A chi esita»
«Tra i capisaldi della mia formazione anche Eduardo, l’arte mai separata dall’etica»
La coiffure del segretario del maggiore partito di opposizione, che sta precipitando paurosamente nei sondaggi, è stranamente cambiata. Non è più mogano con riflessi rossastri ma è tutta grigia. Al giornalista che gli chiede come mai non usi più la tintura per capelli, la risposta del leader è fulminante: «E’ un messaggio a tutti gli italiani. Siate onesti, smettete di tingervi». Fantastico Toni Servillo, equilibrista folle, politico dissennato eppure molto più saggio di tanti altri. Nei panni del geniale filosofo Giovanni Ernani, sostituitosi al suo gemello Enrico (il segretario che scappa per evitare di assistere alla débacle elettorale del suo gruppo), finisce per conquistare le piazze, anzi in particolare una piazza, quella di San Giovanni a Roma, strapiena come nei tempi fulgidi delle storiche adunate. E come lo fa? Con parole come queste: «Dopo che si è lavorato tanti anni, noi siamo ora in una condizione più difficile di quando si era cominciato… Noi abbiamo commesso degli errori, non si può negarlo…Siamo dei sopravvissuti, respinti via dalla corrente…».
Chi è il ghostwriter che ha vergato le frasi pronunciate dal pazzerellone Servillo-Ernani e che vanno dritte al cuore della folla? Non un giovanotto nato ieri ma Bertolt Brecht. Il drammaturgo offre la sua sapienza a Servillo, straordinario guitto uno e bino, nell’esplosiva commedia cinematografica «Viva la libertà», diretta da Roberto Andò e tratta dal romanzo dello stesso regista, Il trono vuoto (Bompiani). Un film appena arrivato nelle sale italiane e che, con molto humour, suggerisce alla classe politica di masticare più cultura. Allora, Servillo, ancora e sempre Brecht per infiam mare gli animi? «Non l’ho mai dimenticato né abbandonato. Recitavo all’oratorio salesiano e durante l’adolescenza sono passato alle rappresentazioni teatrali. Mio padre, i miei zii, l’intera mia famiglia adorava il teatro. Da Afragola, dove sono nato, se ne andavano a piedi per chilometri pur di assistere a qualche rappresentazione a Napoli. Mi hanno contagiato. Brecht è stato la scoperta da liceale a Caserta e così una delle mie prime messe in scena è stato il dramma Le visioni di Simone Marchard, dove un’orfanella, suggestionata dalle sue letture su Giovanna d’Arco, si identifica con l’eroina nella Francia occupata dalle truppe di Hitler. L’avevo scelto perché l’autore dell’ Opera da tre soldi era, ed è, il grande riformatore della recitazione sul palcoscenico, insieme a Stanislavskij. Ho sempre amato anche le sue straordinarie composizioni nate dalla collaborazione con Kurt Weill».
Oggi funziona ancora? «Nella scena del comizio in Piazza San Giovanni la poesia A chi esita dello scrittore tedesco in bocca a Ernani sembra veramente un testo che coglie in pieno l’attualità: è la provocazione del gemello del segretario. Nel nostro dibattito politico di cultura non si parla mai. Quando dico cultura intendo non intellettualismo astratto, staccato dalla realtà, ma serbatoio di esperienza, di immaginazione e di slancio morale. Tutto questo ci manca. Brecht con la sua opera rappresenta un continuo richiamo alla responsabilità che dovrebbe avere un leader quando decide di scendere in campo». Altri autori che potrebbero funzionare per stimolare il sen so del dovere in chi occupa le poltrone? «Leonardo Sciascia ha dato vita a una visione romanzesca della politica. Per esempio, lo ha fatto con Todo modo, da cui poi è nato il film di Elio Petri interpretato da Gian Maria Volontè, un vero modello di “attore-creatore”. Sciascia fa parte della galassia degli stendhaliani italiani, con Vitaliano Brancati e Alberto Savinio che con l’autore del Rosso e il nero condivideva il dilettantismo professionale e la capacità di accogliere nella sua letteratura le suggestioni teatrali e musicali. Quando, discutendo con Andò, provavamo a immaginare Ernani, ci sono venuti in mente i più eccentrici: Francesco Orlando, per esempio, francesista e critico che a Palermo seguiva le lezioni di letteratura di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Oppure il cugino di Tomasi, il poeta Lucio Piccolo, che ha scoperto con anticipo di anni i grandi autori europei come William Butler Yeats, Proust e Rilke. E poi ovviamente lo stesso narratore del Gattopardo, con le stravaganze e le bizzarrie che hanno prodotto il suo strepitoso libro. Tra i capisaldi della mia formazione, oltre a Brecht, c’è Eduardo De Filippo. Vedevo in tivù le sue commedie che rappresentavano madri, padri, zie zitelle, nonni, tutti nevrotici ed esagitati. Poi mi giravo e questi personaggi sembravano usciti dal piccolo schermo, erano dietro di me, era la mia famiglia! La sua era la ricerca di un’espressione artistica mai separata dalla visione etica della società». Nel film si cita no persino gli haiku. Anche questihannoalimentatolasua storia culturale? «No, ma il mio interesse per il paese del Sol Levante, oltre che dai classici come Jun’ichir Tanizaki eYasunari Kawabata, è stato sollecitato da mio figlio di 17 anni. Grazie a lui ho scoperto Jir Taniguchi che nei suoi Manga si cimenta con molteplici generi, dallo storico al western, dalla fantascienza allo sport, per arrivare a vere e proprie graphic novel. In particolare mi è piaciuto il suo Gli anni dolci, ispirato al romanzo di Hiromi Kawakami, La cartella del professore (Einaudi) in cui una donna di trentasette anni, fragile e sensibile, reincontra per caso il suo quasi settantenne professore di giapponese del liceo. I due scopriranno di essere fatti l’una per l’altro». Di uomini al comando lei ne ha interpretati molti, dal «Di vo» Andreotti nel film di Sor rentino, a Bassolino, sindaco di Napoli, ne «I vesuviani» di Martone, al senatore veneto Pdl per Marco Bellocchio: ora si è cimentato con un politico e il suo doppio che esce da una clinica psichiatrica. Un te ma che nasce anch’esso dalle sue letture? «I gemelli, da sempre, fanno il bello e il cattivo tempo nella letteratura, a cominciare dai Menecmi di Plauto, che danno vita a una commedia degli equivoci, per arrivare alla Commedia degli errori di Shakespeare, all’ Anfitrione di Molière, ai Gemelli veneziani di Goldoni. E’ la ricerca dell’altro, di un’altra personalità che custodiamo in noi stessi e che emerge all’improvviso. Un motivo che ritroviamo anche in Uno, nessuno e centomila di Pirandello. Prendendo spunto da Pirandello, Sciascia, Shakespeare e altri mi piacerebbe che una parola circolasse nel dibattito culturalepolitico e risuonasse sulle piazze, nelle strade, nei talk show televisivi: questa parola è passione, magari esaltata da un pizzico di follia».
Corriere 16.2.13
Trotula, la donna medico che scrisse il primo trattato sulla cosmesi
di Eva Cantarella
Fu una donna — una donna medico, in particolare — a scrivere il primo trattato scientifico dedicato alla cosmesi: si chiamava Trotula, ed era un'esponente di primo piano della celebre Scuola medica salernitana, fiorita (a Salerno, appunto) nell'XI secolo. Trotula vi insegnò lungamente ostetricia e ginecologia, trascrivendo poi il suo insegnamento in un'importantissima opera dedicata alle malattie delle donne prima e dopo il parto (De passionibus mulierum ante, in et post partum). E, insieme a questa, pubblicò un'opera, considerata minore, nella quale impartiva consigli sull'uso di prodotti cosmetici (una sessantina circa) ricavati da un centinaio di piante e di preparati di origine animale, di cui fornisce l'elenco. Alla cosmesi, infatti (che per lei non era solo una questione di bellezza, e dunque, per definizione, qualcosa di frivolo), Trotula si avvicinò con un approccio scientifico. Un corpo, nella sua visione, era bello in primo luogo quando era sano (e saune e massaggi aiutavano a mantenerlo tale). Ma questo non bastava: era bello se era in armonia con la natura. Era una scienziata interessante e una donna straordinaria, Trotula, che meriterebbe di essere ricordata più spesso di quanto non accada.
Repubblica 16.2.13
Vittime e burocrati
La scrittrice premio Nobel racconta la fuga dalla Romania e il difficile arrivo in Germania
La necessità di rendere omaggio con un museo alla tragedia dimenticata di tutti gli esiliati
“Io perseguitata da Ceausescu per i tedeschi ero una spia”
di Herta Müller
Ci hanno ingannati per farci venire fin qui, e stanotte ci imbarcheranno su un treno finto per rispedirci indietro. Ma per andare dove? Avevamo già riconsegnato l’appartamento allo Stato, come prescritto, «vuoto e ripulito», dopo aver regalato, distrutto o buttato mobili e suppellettili. Ogni nostro avere era contenuto in un’unica valigia. Dopo aver subito per anni le vessazioni della Securitate, avevo i nervi a pezzi, tanto da non sapere più se stessi piangendo o ridendo. Là, in quella sala d’aspetto, avevo irrigidito ogni muscolo della mia faccia. Mia madre aveva il mento tremante. Tre poliziotti ci guardavano fissi. Non si poteva parlare. Diedi di gomito a mia madre e sussurrai: «Non piangere, hai capito?» Infine ci chiamarono, ma non per farci salire sul treno. Ci toccava una seconda perquisizione corporale — come se dopo la prima avessimo potuto estrarre dall’aria della sala d’aspetto qualcosa di proibito da metterci in tasca. Finalmente un agente ci accompagnò al treno. Mentre salivo mi afferrò un braccio come per sostenermi, e mi disse: «Se lo ricordi bene: possiamo beccarvi ovunque». Il treno era già partito quando trovammo infine il nostro scompartimento. Ma solo dopo qualche tempo, quando alla luce dei fanali velati di nebbia intravidi la prima stazione in territorio ungherese, riuscii a credere che quel treno non era un inganno. Eravamo partiti davvero.
In Austria vi fu una sosta per una registrazione TV: il tema era la dittatura di Ceausescu. Il giorno dopo proseguimmo per la Germania. A Norimberga ci alloggiarono al Centro di accoglienza temporanea “Langwasser”. Fu quello il momento della trasformazione. Ancora il giorno prima, in Austria, ero una dissidente, mentre ora, a Norimberga, ero diventata un agente segreto. Per parecchi giorni, il Bnd (Servizio di informazioni federale) e il BfV (Ufficio per la Protezione della Costituzione) mi sottoposero a una serie di interrogatori. Colloqui, fin dall’inizio, surreali.
Il funzionario mi chiede: «Ha avuto a che fare con i servizi segreti della Romania?» Rispondo: «O piuttosto, loro hanno avuto a che fare con me: non è la stessa cosa. « Il funzionario ribatte: «Queste distinzioni, le lasci fare a me. In fin dei conti sono pagato per questo. « Non appena cerco di raccontare tutto ciò che ho subito in Romania, mi interrompe. Ho l’ingenuità di credere che il malinteso sia chiarito, ma il funzionario insiste: «In ogni modo, se ha avuto un incarico, adesso è ancora in tempo ad ammetterlo».
Gli chiedo perché mai non si era informato, prima di sospettarmi, su come stavano le cose in Romania. E per tutta risposta profferisce una frase che avevo sentito ripetere molte volte proprio dagli agenti della Securitate: «Le domande le facciamo noi».
Di volta in volta, i colloqui successivi diventano sempre più demenziali. Mi fanno vedere una serie di schede corredate da fotografie, chiedendomi di descrivere l’aspetto fisico degli agenti della Securitate con cui avevo avuto a che fare. Rettifico di nuovo: «O
piuttosto, quelli che hanno avuto a che fare con me». Ma il funzionario fa finta di non sentire. Nelle schede si parla del vestiario, delle fisionomie, delle orecchie, delle unghie, che dovrei descrivere scegliendo tra una serie di aggettivi prestampati. Rispondo che in quei momenti non avevo fatto caso né alle orecchie né alle unghie, perché ero disperata, avevo paura di essere uccisa. Ma il funzionario ribatte come un automa: «Provi a riflettere». «Come faccio, — chiedo — a rammentare qualcosa che allora non avevo notato? A lei non è mai capitato di avere paura?» Ma anche stavolta lui finge di non sentire. Quando gli domando se i servizi segreti tedeschi riconoscono le spie romene che arrivano in Germania dalla forma delle orecchie o delle unghie, mi sento rispondere con la ben nota frase: «Le domande le facciamo noi». Mi concedono una o due ore di pausa per “riflettere”. Finita la pausa, tutto ricomincia daccapo.
La faccenda si protrae per vari giorni. Alla fine, tanto per farla finita, decido di scegliere uno qualunque degli aggettivi prestampati per ogni singola voce o parte del corpo che dovrei descrivere. Per il vestiario le opzioni sono: “elegante”, “trasandato”, “sportivo” o “funzionale”; e io dico ogni volta: erano vestiti come lei. A quel punto l’interrogante tedesco conclude con una punta di orgoglio nella voce: «Bene, allora mettiamo una crocetta accanto a “funzionale”».
L’assurdo sarebbe continuato in tutti gli uffici che figuravano sulla mia “tabella di marcia”. A cominciare dal test linguistico — sostantivi da declinare, verbi da coniugare — che avrei superato. Ma nel colloquio successivo, in un altro ufficio, mi sentii chiedere se fossi tedesca, oppure perseguitata politica. Risposi: l’uno e l’altro. Ma il funzionario obiettò che tutt’e due non potevano stare insieme: non era previsto dal formulario. Dunque dovevo scegliere. Mi chiese poi se in Romania mi avrebbero perseguitata per quanto avevo fatto anche se fossi stata cittadina romena. Risposi di sì: un romeno avrebbe corso esattamente gli stessi rischi. E lui: «Ecco, vede come la verità viene fuori? Lei non è tedesca!».
Mia madre, che aveva chiesto il ricongiungimento familiare, si era procurata da tempo tutti i timbri prescritti. Riconosciuta come tedesca, aveva ottenuto da Berlino, in poche settimane e senza alcun problema, il suo certificato di cittadinanza. Mentre io l’ho atteso per un anno e mezzo. Di tanto in tanto telefonavo all’ufficio competente, per sentirmi rispondere sempre la stessa cosa: «È inutile che chiami, la pratica non si può accelerare. Abbiamo bisogno di svolgere ricerche approfondite». Al tempo stesso però ricevevo dalla Romania minacce di morte. Un agente del BfV venne da me per avvisarmi che la mia vita era in pericolo, e mi diede una serie di consigli: evitare di frequentare certi locali, non accettare mai inviti in appartamenti privati, in occasione di viaggi evitare di pernottare in camere al pianterreno, non accettare regali da estranei, al ristorante non lasciare mai distrattamente una sigaretta sul tavolo, non attraversare parchi o giardini da sola, in città tenere sempre una pistola scacciacani nella borsetta. Non mettere mai piede nella Rdt, perché la Stasi avrebbe potuto rapirmi per conto della Securitate e riportarmi in Romania. «In tal caso — precisò il funzionario — non potremmo più far nulla per lei, dato che non è cittadina tedesca. « Per il BfV ero una perseguitata da proteggere, mentre il Bnd e l’Ufficio di cittadinanza continuavano a considerarmi un agente. Al funzionario del BfV — che di cognome si chiamava Fröhlich (che significa gioioso — NdT), risposi allora con una frase imparata a Norimberga: «Allora sono una perseguitata o un’agente? Scelga lei, dato che le due cose non vanno insieme».
Le autorità tedesche erano incorse in un errore di persona. Mi avevano scambiata non per qualcun altro, ma per un personaggio creato di sana pianta a forza di calunnie. E dire che ogni anno, tra le decine di migliaia di immigrati provenienti dalla Romania per motivi di ricongiungimento familiare, arrivavano anche alcune centinaia di spie. Ma erano tedeschi, e in quanto tali venivano accolti a braccia aperte. Mentre io ero segnata a dito, perché non volevo accettare la negazione della mia vicenda di perseguitata politica. Perché questa era la verità: una verità pagata a caro prezzo. Non ero venuta in Germania per stare con mio zio. Ero un’esiliata: e per me questa qualifica non era negoziabile. La rivendicavo perché corrispondeva al vero. Ma per le autorità rappresentava un fastidio: non volevano sentir parlare di dittatura. E mi interrompevano ogni qualvolta cercavo di dire in che modo questa dittatura avesse violato persino gli aspetti più intimi e privati della mia esistenza. Pur di tenere in piedi il sospetto nei miei confronti, preferivano non sapere nulla della mia vita in Romania.
A Norimberga i termini “esiliata” e “cittadina tedesca” non potevano stare insieme. Si dà il caso che il Centro d’accoglienza temporaneo si trova quasi di fronte al palazzo in cui si tenne a suo tempo il Congresso Nazionalsocialista. È stato questo il primo shock, al mio arrivo al Centro “Langwasser”: da una finestrella si vedeva la struttura massiccia di un edificio, quello del Congresso di Hitler.
Quando, tra un interrogatorio e l’altro, uscivo per strada cercando di placarmi la mente, ero sopraffatta da un senso di orrore: l’inverno, il buio anticipato, i fiocchi di neve, e quel mostro di pietra così minacciosamente vicino. Mi azzardai a entrare in quell’arena. Scalini alti, un sottile strato di neve, raffiche di vento, erbacce rinsecchite nelle crepe, come baffi tremolanti o parrucche. Mi sentivo quasi scoppiare la testa. Là dentro, al Centro d’accoglienza, il delirio; qui fuori, l’epicentro dei crimini nazisti.
Ma perché costruire un Centro d’accoglienza temporanea in un luogo come questo? Perché costringere chi arriva, già stravolto dopo la fuga da una dittatura, ad abitare proprio qui? Come mai nessuno si è preoccupato di questa contiguità? Perché queste persone che finalmente respirano, dopo aver conosciuto nella persecuzione tutti i registri della paura, devono venire a stare in questo posto? E come mai la Germania non prova vergogna di fronte ai nuovi venuti, accogliendoli al loro arrivo a pochi passi da questo edificio mostruoso? Può anche darsi che il Centro d’accoglienza temporanea sia stato costruito qui per ragioni semplicemente «funzionali» — ma sorde ai sentimenti degli immigrati, e nella più totale cecità storica, a fronte del ruolo di Norimberga durante il periodo nazista. All’interno del Centro, i burocrati; fuori, questo edificio: una duplice “funzionalità”.
Nel 1987 ho sperimentato sulla mia pelle l’atteggiamento della Germania, che dopo aver costretto alla fuga centinaia di migliaia di suoi cittadini, continua a non voler prendere atto dell’esperienza degli esiliati, e rifiuta persino il termine “esilio”. Ero finita, letteralmente, in un vicolo cieco.
* * *
Nonostante tutto ero però consapevole che questa mia situazione, a confronto con quella degli esiliati del periodo nazista, era solo una piccola disavventura. Ero sotto esame, ma almeno conoscevo il tedesco; avevo pur sempre un editore per i miei libri; e non mi era toccato attraversare un confine da clandestina. Al Centro d’accoglienza non rischiavo la vita, diversamente da chi era fuggito dalla Germania nazista. Allora, se eri fortunato riuscivi a rimanere in vita. La sfortuna era sinonimo di morte. I fuggiaschi di allora conobbero la buona o la mala sorte in ben altro modo. Di fatto però, anche se usiamo abitualmente questi termini, erano le persone a fare la differenza. Col favore del caso, incontravi magari qualcuno capace di empatia, disposto a dare una mano. O al contrario, potevi imbatterti in uno che per zelo o per arbitrio era pronto ad ucciderti.
Sono moltissimi gli episodi in cui il caso ha giocato un ruolo decisivo. Basta considerare alcune delle vicende di quei fuggiaschi per rendersi conto di come un attimo possa ingigantirsi fino a diventare un abisso.
Penso alla disperazione di Walter Benjamin durante la sua sosta nei Pirenei, nel 1940. Aveva con sé solo una borsa, forse piena di manoscritti. Neppure uno zaino, che allora lo avrebbe fatto riconoscere come tedesco. Quando a Port Bou si sentì dire che non poteva entrare in territorio spagnolo senza un visto d’uscita francese — forse soltanto un tentativo di ricatto di un ufficiale corrotto a caccia di bustarelle — Benjamin si avvelenò. E quanti altri sono crollati, anche ad anni di distanza dalla fuga — come Ernst Toller, che si impiccò nella sua camera d’albergo a New York. O come Stefan Zweig, riparato in Brasile, che non riuscendo a sopportare la distruzione della sua «patria spirituale», l’Europa, si suicidò insieme alla moglie Lotte.
La Germania continua a non riconoscere gli esiliati come vittime del nazismo; un diniego che si riflette nelle scelta del governo federale in materia di commemorazioni e monumenti. Esiste, è vero, qualche targa dedicata a singoli artisti, ma neppure un sito per mantenere viva la memoria dell’esilio, la sorte di tanti tedeschi costretti fin dal 1933 a fuggire dal loro Paese.
La Germania dovrebbe finalmente onorare la memoria dell’esilio: è responsabile di questa cacciata, come lo è dell’Olocausto. Eppure in questo Paese non c’è un solo luogo in cui il senso della parola esilio possa essere rappresentato attraverso la rievocazione di singole vicende umane. I rischi della fuga, le vite sconvolte degli esiliati, il senso di estraneità, l’indigenza, la paura, la nostalgia. Finché non avrà saputo mostrare tutto questo, la Germania sarà in debito con la sua storia.
La mancanza di un sito dedicato agli esiliati rappresenta una grossa lacuna nella memoria collettiva degli orrori del nazismo.
Un museo dell’esilio consentirebbe ai tedeschi delle giovani generazioni di farsi un’idea concreta di queste vicende. Sarebbe un mezzo di educazione all’empatia. Dunque, un museo “funzionale”. Un modo per dare a questo termine un contenuto umano.
Traduzione di Elisabetta Horvat © Herta Müller
Repubblica 16.2.13
Scoperto a Firenze il bando di cattura del 1513
Quel “Wanted” per Machiavelli
di Gaia Rau
FIRENZE Un criminale pericolosissimo, un autentico nemico pubblico da catturare con la massima urgenza, anche attraverso misure eccezionali. Così veniva considerato Niccolò Machiavelli quando, il 19 febbraio del 1513, le autorità fiorentine decisero di arrestarlo e imprigionarlo a causa del suo presunto legame con i Boscoli e i Capponi, i congiurati che avevano complottato contro il cardinale Giuliano de’ Medici. È quanto emerge dal bando di cattura originale emesso dagli Otto di guardia e balia, gli antesignani dell’odierna polizia, da poco ritrovato grazie a una ricerca condotta dallo storico britannico Stephen J. Milner, professore di Storia italiana a Manchester e visiting professor nella sede fiorentina della Harvard University.
Milner, impegnato in una ricerca sulla figura del banditore nella Firenze del XV e XVI secolo, si è imbattuto nel documento, oggi custodito all’Archivio di Stato, rendendosi conto della sua eccezionalità grazie al confronto con altri ottocento bandi emessi in città tra il 1470 e il 1530: «Non solo fu stabilito di leggere il proclama di cattura in oltre cinquanta diversi luoghi — spiega lo studioso — Ma fu dato ordine ai cittadini che ne fossero in possesso di fornire informazioni su Machiavelli alle autorità entro un’ora dall’emissione del bando: un termine strettissimo, se si considera che, abitualmente, venivano concessi da uno a tre giorni». Milner si è inoltre imbattuto in alcuni documenti di cui fino ad oggi non si conosceva l’esistenza, tra cui le ricevute di pagamento dei banditori e dei quattro cavallari, uno dei quali soprannominato “il Diavolaccio”, incaricati
di dare la caccia a Machiavelli: «Anche questa — continua — può essere considerata una misura straordinaria, il segno che catturarlo era un affare da sbrigare con la massima urgenza, una priorità per la sicurezza dei Medici».
Il recupero del bando è lo spunto per una rievocazione storica che si svolgerà a Firenze martedì pomeriggio, quando un attore in costume d’epoca percorrerà le vie del centro per leggerne il testo originale. Un’iniziativa che dà il via a un lungo calendario di celebrazioni, tra cui mostre, lezioni e convegni, messo a punto da un comitato cittadino presieduto da Valdo Spini per il cinquecentenario de Il Principe.
Proprio a seguito della cattura, infatti, Machiavelli fu prima rinchiuso e torturato nelle prigioni del Bargello. Poi, per insufficienza di prove e grazie all’amnistia concessa dallo stesso Giuliano, diventato Papa col nome di Leone X, rilasciato e mandato in esilio a Sant’Andrea in Percussina, dove si dedicò alla stesura della sua opera più famosa, testo fondatore della moderna scienza della politica.
Repubblica Lettere 16.2.13
Se rispettassimo il dovere di umanità
Corrado Augias risponde a Paolo Izzo
Caro
Augias, suona rivoluzionaria la formula dell’Ordine dei medici francesi
in merito al dibattito sull’eutanasia in corso: “dovere d’umanità”.
Siamo abituati a battagliare – con la poca laicità che ci resta – per
quei “diritti” civili negati dalla sottomissione dell’Italia al
Vaticano e ai suoi diktat. Oltralpe si ribalta la questione, almeno in
tema di fine vita, invocando il “dovere” dello Stato nei confronti di
«situazioni cliniche eccezionali (…) per alcune agonie prolungate o per
dolori psicologici e/o fisici che, malgrado gli strumenti messi in atto,
restano incontrollabili ». In Francia dunque il dibattito è aperto e
magari si può ancora discutere su quei “dolori psicologici” se si
ritiene che le malattie della mente non siano incurabili… ma almeno lì
se ne può parlare! E persino trasformare il diritto alla libera scelta
degli esseri umani in un dovere della società che essi stessi
compongono.
Paolo Izzo
L’aspetto che trovo positivo e
condivisibile in questa lettera è invocare un’apertura alla
discussione. Discussione vera, senza preclusioni, aperta ad una
possibile soluzione concordata – considerata ogni possibile garanzia e
cautela – su un problema che indubbiamente esiste e che è sciagurato
negare per principio. Del resto alcuni paesi europei (Paesi Bassi,
Svizzera che io sappia, forse anche altri) hanno già introdotto la
possibilità di un suicidio assistito e non risulta che ci siano stati
inconvenienti degni di nota. In Italia esiste la benemerita
associazione Exit che dà a richiesta utili consigli. La cosa più
vergognosa che possa accadere è che un artista come Mario Monicelli sia
costretto a gettarsi da un balcone, disperato, in mancanza di altra via
d’uscita; che un uomo del valore di Lucio Magri debba andare di
sotterfugio in Svizzera. Al contrario, l’aspetto positivo della notizia
dalla Francia è che sono stati i medici ad aprire la questione,
anche al di là delle intenzioni legislative del presidente Hollande.
L’hanno aperta invocando ogni possibile cautela e facendo riferimento
appunto al “dovere d’umanità” che sul medico incombe. Ciò che non si
vorrebbe più vedere è la determinazione cieca che portò all’assurda
legge 40 sulla procreazione assistita poi progressivamente smantellata
da numerose sentenze della magistratura italiana ed europea. Alla
ricerca di un principio che dia statura a questo principio d’umanità,
si possono adottare le parole di J. S. Mill nel suo Saggio sulla libertà:
«Il
solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto
alla società è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda
soltanto se stessi, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se
stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano».