sabato 27 novembre 2010

l’Unità 27.11.10
Bersani: «Governo irresponsabile» Stoccate a Vendola e Montezemolo
Il leader Pd conclude il convegno dei gruppi parlamentari con un attacco alle «irresponsabili» prese di posizione del consiglio dei ministri. Nuovi margini per la sfiducia. E se si va al voto? «Tocca a noi giocarci quella carta...»
di Simone Collini


Manca ancora troppo tempo al 14 dicembre e cambiano ancora troppo da un giorno all'altro i posizionamenti dei protagonisti sulla scena. Ma a questo punto Bersani inizia a crederci. Le «irresponsabili» uscite di Frattini che dimostrano la debolezza del governo, le solite promesse di un Berlusconi che ormai non riesce neanche più a nascondere i «traccheggiamenti» a cui è costretto, la mobilitazione nel Paese di studenti («i giovani fanno bene a ribellarsi un po’») e lavoratori («per noi il lavoro resta centrale, non è un tema da modernariato»), per non parlare del messaggio di Fini al premier sul fatto che non si andrà a votare con questa legge elettorale e che non c'è un'alternativa tra fiducia e voto perché ogni decisione spetta al Quirinale: per il leader del Pd ci sono tutte le condizioni per un «cambio di scenario» e per la nascita di quello che definisce «un governo di responsabilità istituzionale e di stabilità finanziaria ed economica».
Bersani chiude il convegno organizzato dai gruppi parlamentari nell' Abbazia di Spineto dicendo che del modo in cui si deve «giocare la carta del consenso» se ne potrà parlare un' altra volta, mentre ora bisogna spiegare agli italiani che la situazione può richiedere scelte magari impopolari, ma sicuramente necessarie. «Sono consentite oneste omissioni ma non raccontar balle», dice ai deputati e senatori confessando anche che gli «dà fastidio» l'espressione (molto usata da Vendola) «narrazione» («cos’è, una favola?»). Il pensiero va al piano di rientro del debito chiesto dall'Europa, e al fatto che il 16 dicembre Tremonti dovrà andare all’Ecofin. «Ci andrà per forza di cose zoppicante, at-
taccato a un voto così», e fa il gesto del braccino corto. E qui Bersani rovescia l’impostazione di chi sostiene che si debba sostenere ancora il governo Berlusconi in nome della stabilità: «Non dobbiamo far passare l'idea che siamo noi a volere l'instabilità. Han fatto tutto loro. Noi dobbiamo garantire un governo di stabilità economica e finanziaria».
Questo rimane l'obiettivo del Pd, e ieri i parlamentari si sono salutati scambiandosi qualche sorriso in più. La situazione è tutt'altro che chiara e la meta tutt'altro che vicina, ma i segnali di nervosismo mostrati dal governo vengono interpretati come un'ammissione di debolezza, pericolosa per il Paese. Dice Bersani riferendosi alle parole di Frattini: «Un governo che solleva argomenti del genere lasciandoli in aria mostra una totale irresponsabilità. È la prova provata che un esecutivo che non c'è più può provocare solo una pericolosa instabilità». Il leader del Pd, anche sulle ultime uscite del premier, un po' ironizza («ha realizzato i cinque punti del programma?, bene, può andarsene a casa contento») un po’ si mostra preoccupato. Se il capo del governo dice che sarebbe suicida attaccare un patrimonio del Paese come Finmeccanica, Bersani dice che proprio perché «tutti teniamo a Finmeccanica tutti dobbiamo tenere anche alla chiarezza». E se si dovesse andare al voto? Quello che dice il leader del Pd ai parlamentari è che «il berlusconismo è l'escrescenza più tragica di un problema di fondo della democrazia» e sarebbe «paradossale se ora che anche quelli di là hanno capito che la personalizzazione della politica non funziona, di qua pensassimo che adesso tocca a noi giocarci quella carta lì». E in sala molti pensano a Vendola. Altri a Montezemolo.

Repubblica 27.11.10
Bersani: non serve l´uomo della Provvidenza
"Elezioni una martellata al Paese". E attacca Vendola: la narrazione? Favole
A Sarteano Prodi parla del "tramonto" del berlusconismo e dei rischi di crisi
di Giovanna Casadio


SARTEANO - Bersani elenca gli errori in cui il Pd non deve cadere. Deve evitare ad esempio, di parlare di "narrazione", parola che al segretario democratico fa venire l´orticaria, forse perché il copyright nella sinistra italiana ce l´ha Nichi Vendola. Narrazione è, come scrive Orazio, «"de te fabula narratur", favola, appunto. Noi dobbiamo avere la nostra cifra». E nella "cifra" dei Democratici c´è «la sobrietà» e un imperativo categorico: «Non dobbiamo fare i berlusconiani». Niente personalismi, partito-liquido alla Veltroni; suggestione alla Vendola; attesa dell´uomo della Provvidenza che qualcuno vede in Montezemolo. Insomma, ora che il governo è in crisi profonda non sia mai - esorta Bersani - che accada «il paradosso, per cui nel campo di là hanno percepito che il berlusconismo non funziona e non vorrei che di qua pensassimo che adesso tocca a noi giocarci quella carta». Ma il berlusconismo è «l´escrescenza di un problema di fondo rappresentato dalla crisi della nostra democrazia: la sinistra non si faccia tentare. Berlusconi ha ormai perso la testa». Nel centrosinistra c´è bisogno di pensare alle riforme vere («Riapriamo il tema delle riforme istituzionali»), una volta risolta la crisi di governo con un «governo di transizione» oggi più che mai necessario. Un governo di «stabilità finanziaria ed economica», sul quale non vanno raccontate «balle: sogni sì, ma con le gambe». Elezioni subito con questa legge elettorale sarebbero «una martellata al paese».
Nell´abbazia medioevale di Spineto il conclave dei deputati, riuniti da Dario Franceschini, si conclude con qualche ora di anticipo, tra grandinate e freddo, ma con «soddisfazione politica», soprattutto per il ritorno di Prodi a una convention Pd. Il Professore è partito giovedì sera dopo una "lectio" di politica estera e di economia, dopo avere spronato il partito, una sosta breve a cena (ma ha sventato i canti alpini di Bersani nel dopocena). Aveva fatto anche un´intervista a Bloomberg tv, mandata in onda ieri, nella quale dice: «L´epoca di Berlusconi è al tramonto, è al declino. Siamo all´agonia dell´agonia. Ma quanto può durare nessuno può dirlo, questi sono passaggi sempre difficili». E il Professore ragiona anche sui due anni di governo e su una coalizione di centrodestra che si vedeva subito non poteva tenere, non condividendo gli obiettivi e «inadatta a porre fine alla lunga crisi del paese». Il messaggio-chiave dell´ex premier è però verso l´estero: «Il nostro deficit non è oggi fuori controllo come non era fuori controllo ieri, quindi i mercati internazionali dovrebbero capire che anche un cambiamento di governo non produce danni irreparabili. Certo se ci fosse un lungo vuoto di potere, i mercati potrebbero allarmarsi ma mi auguro che questo non avvenga». Quindi, il governo di transizione è indispensabile. E Draghi? Tanto per cominciare, «merita la successione a Trichet alla Bce».
Bersani ieri replica all´accusa che il governo muove al Pd, cioè di volere l´instabilità. Non è così: «Hanno fatto tutto loro. All´Ecofin il 15 dicembre Tremonti andrà bene che gli vada attaccato a un voto, oppure "zoppo". Berlusconi dice di non essere preoccupato della crisi? È lui preoccupante». Al premier sono riservate bordate e battute: «Sostiene di avere attuato i cinque punti? Bene, può andarsene a casa contento»; «L´11 dicembre manifesta anche il Pdl, nello stesso giorno della nostra manifestazione? Facciamo una bella gara». Con Veltroni, che ieri ha convocato la convention del suo Movimento, è scambio di cortesie: Bersani anticipa il discorso a Sarteano per non sovrapporsi all´appuntamento veltroniano; Veltroni resta ad ascoltarlo. Franceschini, il promotore della due giorni, lascia spazio agli altri e dà appuntamento a maggio per un altro conclave. Anche se da qui ad allora, c´è la trincea parlamentare. E Bersani: «Noi non siamo un gruppo parlamentare da Transatlantico ma da emiciclo e da territorio».

Corriere della Sera 27.11.10
Veltroni-D’Alema, strategia contro l’«Opa Vendola»
I democratici preoccupati dalla sfida con il governatore pugliese alle primarie


ROMA — E se Pier Luigi Bersani non ce la facesse? Se alla primarie Nichi Vendola lo battesse? Allora il Partito democratico potrebbe chiudere i battenti, a soli tre anni dalla sua nascita. È questo l’incubo che agita i dirigenti del Pd. È una preoccupazione trasversale, che unisce dalemiani e veltroniani, ex popolari ed «ecodem».
L’esperienza del primo governo Prodi termina nel 1998, quando il presidente del Consiglio non ottiene la fiducia alla Camera per un solo voto, e si dimette. Dopo gli esecutivi guidati da D’Alema e Amato si arriva alle urne nel 2001 e Berlusconi, battendo Francesco Rutelli, torna a Palazzo Chigi Il secondo scontro fra i due risale alle elezioni dell’aprile 2006, e anche in quel caso è Romano Prodi (che nel frattempo è stato Presidente della Commissione europea) a vincere le elezioni: il suo secondo governo, però, resta in carica solo 2 anni. Nel 2008 si torna alle urne e il candidato del centrosinistra è Veltroni, che viene sconfitto dal Cavaliere
L’altro giorno, nel Transatlantico di Montecitorio, il governatore della Puglia camminava a braccetto con uno dei suoi luogotenenti, Gennaro Migliore. Il quale poi è stato avvicinato da Walter Veltroni. Poche frasi di rito, quindi l’avvertimento dell’ex segretario: «Guardate che non vi potete espandere oltre». Come a dire: non pensate di lanciare un’Opa sul Pd. Migliore ha fatto finta di niente e ha replicato: «Noi proponiamo solo di fare le primarie tra Nichi e Bersani». Immediata la reazione di Veltroni: «So che state già godendo come matti perché questo è lo schema che conviene a voi».
Suppergiù nello stesso momento, nell’aula di Montecitorio, Massimo D’Alema spiegava a qualche compagno di partito: «Il disegno di Vendola è chiarissimo: lanciare un Opa su di noi. Prima ci ha provato Di Pietro, ora ci prova lui». Il fatto che il presidente del Copasir e l’ex leader del Pd svolgano ragionamenti analoghi non significa certo che tra i due sia stata siglata la pace. Rimangono lontani anni luce, anche se D’Alema ha ammesso: «Quando io e Walter siamo d’accordo facciamo cose buone».
Nessun armistizio, dunque, o tanto meno un patto. Una comune preoccupazione sì, però. Come ammette il dalemiano di ferro Alessandro Nannicini, che ieri giocava «fuori casa», perché era all’assemblea del Modem (il movimento di Veltroni), aperta da un intervento di suo figlio Tommaso, economista della Bocconi. «Io penso che alla fine, se la situazione si fa difficile, sarà Massimo a dire: superiamo il dualismo Bersani-Vendola trovando un terzo nome. E sarà lo stesso Pier Luigi a muoversi in questo senso, perché non è un uomo attaccato agli incarichi: ha a cuore solo il partito».
Quale che sia l’esito delle vicende di casa Pd, che ci sia grande allarme lo si è capito ieri, alla convention della minoranza. Dove circolavano sondaggi che danno il partito tra il 23,8 e il 24,2. Walter Veltroni, che ha chiuso l’incontro, ha lanciato il «Pd pride». Secondo lui ce n’è gran bisogno: «Se avessimo mantenuto l’ispirazione del Lingotto saremmo centrali nella vita politica italiana. C’è bisogno di un Lingotto 2 e lo faremo a gennaio». Già, perché il terrore di Veltroni e dei suoi è che il Pd non abbia più identità e proposte. E che per questo Bersani si rifugi nel tentativo di ridar vita al fu Pci. «Il partito strutturato come negli anni Settanta non funziona più», è stato l’ammonimento dell’ex segretario. E ancora: «Bersani parla solo di sinistra e non di democratici».
Sul palco della Convention sono saliti in tanti. Tutti con la propria scorta di critiche e timori. Per Sergio Chiamparino il Pd soffre di «subalternità verso gli altri partiti»: «Va bene salire sul tetto, come ha fatto Bersani, ma il problema è andare a dire quello che pensiamo noi, cosa che non facciamo». Netto anche Paolo Gentiloni: «Quanto tempo ci vuole — si è chiesto — per capire che è sbagliata l’idea di un partito identitario che si rifà alla sinistra del Novecento?». Critico pure Marco Follini. Ma il più duro di tutti è stato Beppe Fioroni. L’unico a evocare apertamente dal palco l’incubo del Partito democratico. E l’unico a prefigurare il possibile cambio di leadership: «Se si perdono le elezioni e le primarie, non vanno cambiati gli strumenti o i progetti, ma la linea politica e gli uomini che la perseguono. In democrazia si fa così». E giù applausi dalla platea.

Avvenire, quotidiano della Cei 26.11.10
Ssst! Sta parlando il silenzio di Dio
Secondo il filosofo Massimo Cacciari con Abramo come con Giobbe il Signore tace non per ira o perché non sa che cosa dire Egli è un padre nascosto ed esige d’essere cercato non tanto con parole o risposte, bensì con la «rivelazione» abissale del suo stare zitto
di Massimo Cacciari


La «voce di vento leggero» che si rivolge a Elia (1Re 19,12) suona nell’originale ebraico, secondo André Neher, come «la voce sottile del silenzio». La voce del silenzio, oltre ancora quella del soffio più impercettibile, è per lui la forma più autentica del manifestarsi del Signore. La sua è, letteralmente, una teo-logia del Silenzio, ovvero una teologia che fa del Silenzio il Logos stesso di Dio.
Questo Silenzio va anzitutto ascoltato. Non basta insistere sul fatto che l’imperativo non riguarda il credere o l’imparare. Il vero paradosso sta nell’ascoltare il Silenzio, poiché il Silenzio soltanto è in-finito, non si lascia catturare da alcun logos, né de­finire «filosoficamente» come sostanza o fondamento. La tradizione è anch’essa, a pieno titolo, rivelazione del Signore, ed inizia già con le sue prime parole. Il Silenzio, dunque, parla, e proprio nel suo «tradirsi» in parola interpretante ri-vela se stesso.
Al Silenzio inaccessibile dell’Arché divina il profeta si rivolge colmo di fiducia; egli spera incrollabilmente proprio in colui che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe (Is 8,17).
Potremmo dire che il profeta è essenzialmente chi giunge non solo ad ascoltarne, ma a vederne il Silenzio (Is 6,1). La sua parola diviene così lode del Silenzio stesso e dialogo ininterrotto col suo eterno manifestarsi – che è presidio contro ogni preghiera idolatrica, contro ogni esigere risposta. Quello di Giobbe può essere definito da Neher il libro del Silenzio per antonomasia proprio perché è, a suo giudizio, testimonianza del più drammatico dialogo tra mortale e Silenzio di Dio.
L’istanza radicale che muove la ricerca di Neher consiste nell’intendere il Silenzio come dimensione essenziale della stessa Rivelazione, non come momento, non come momentanea eclisse della Parola, non come il semplice effetto del «peccato» di Israele che allontana da lui il suo Signore. Non è il Silenzio un segno dell’«ira» di Dio.
È vero, invece, che Israele è sordo alla sua chiamata, che ha appunto luogo attraverso la «voce sottile del Silenzio». E tale sordità non potrà essere compiutamente eliminata che all’ultimo. La perfetta capacità di ascolto è infatti promessa escatologica, come il vedere il Signore. Ma chi è sordo al Silenzio, neppure saprà davvero ascoltare, e non sapendo ascoltare neppure potrà entrare in autentico colloquio. In questi nessi si gioca il drama , o play, come dice Neher, tra uomo e Dio: il Dio nascosto esige d’essere cercato; l’uomo non sa cercarlo perché cerca soltanto parole-risposte, perché non sa ascoltare l’abissalità del suo Silenzio. Dio ama il cuore di coloro che cercano – ma non per ricevere, come dall’idolo, consolanti certezze, rassicurazioni, fondamenti. La forma ultima dell’avvenire del Signore si ri­vela proprio nel suo Silenzio, che nessuna parola può annichilire, che a nessun dis-correre appare riducibile.
Così, grandiosamente, esso si manifesta nel Libro di Giobbe. (...) Libertà è il «luogo» cui si rivolge il Silenzio. A essa, nel suo libero agire, in silentio Dio stesso si rivolge. Nel suo essere libero egli riflette la Libertà ineffabile da cui proviene. E allora, davvero, tace. Il suo Silenzio è, allora, il thauma, lo «spettacolo» più tremendo. Nell’istante che tace, nell’istante che perviene a questa estrema misura del Silenzio, l’Esistente rimane sospeso tra il Logos e il ritirarsi nel Chaos. Di questo istante supremo la traccia non si trova nel libro di Giobbe, ma nel sacrificio di Abramo. Né comunque la «prova» cui Abramo è chiamato è comparabile con quella di Giobbe; nessuna sofferenza eguaglia quella che colpisce Abramo. A Giobbe è sottratta ogni cosa – a Abramo lo stesso futuro. I doni di cui Giobbe aveva goduto sono meno che polvere, bona impedimenta, avrebbero detto i Padri, metafisicamente distinti dal bene ricevuto da Abramo, suo figlio Isacco.
Abramo, l’uomo dell’«eccomi!», del perfetto ascolto, fa-esodo ancora una volta, e questa volta verso la miseria estrema, lo svuotamento totale. Lo fa in perfetto silenzio, a immagine del Silenzio del suo Dio. Nulla dice al figlio, come nulla gli dice il Signore, dopo il tremendo comando. Un deserto di Silenzio li accomuna, li stringe in un patto di cui nessun altro deve sapere. Questo è il Silenzio decisivo. Abramo non può che tacere sulla libertà del Signore che comanda e fa-essere ciò che liberamente vuole.
Solo il suo silenzio può corrispondere all’ineffabile della libertà divina. Ma essa è ineffabile poiché espressione della Libertà da cui proviene. Il Signore tace ad Abramo. La tragica scena non è disturbata dal rumore degli «amici» che pretendono di parlare al posto di Dio e di Giobbe: ma neppure dal lamento di Giobbe o da retoriche teofanie conclusive.
Breviloquio insuperabile, dove tutto l’essenziale mostra sé nel Silenzio: Abramo mostra nel suo silenzio che Dio non è determinabile-calcolabile, che il suo stesso «amore» non è nulla di necessario, che la sua Parola è traccia di una libertà che eccede ogni «logica». Dio non parla a Abramo durante quell’itinerario di morte non perché nulla voglia dirgli, per lasciarlo solo, ma perché nulla può dire e perché è solo di fronte alla Libertà da cui proviene. Questo vincolo di Silenzio li serra insieme.

venerdì 26 novembre 2010

l’Unità 26.11.10Il ministro della pubblica Istruzione attacca il leader del Pd durante Mattino 5
La replica «Ecco gli esami. Ora quelli del ministro. Ci metta anche la gita a Reggio Calabria»
«Bersani un ripetente» «No, da trenta e lode»
Quella «furbetta della toga» abilitata nel 2001 in fretta e furia
di Gianluca Ursini

Un caldo giugno, estate 2001. La praticante legale Maria Stella Gelmini gira da forsennata per aule, tribunali e uffici in Reggio, sullo Stretto, distretto giudiziario calabrese. Agli esami scritti e orali della prima sessione 2002, l’allora coordinatrice lombarda del Pdl, avrebbe poi conseguito l’«abilitazione alla professione forense», come iscritta al Foro reggino. Mica difficile: allora a Reggio e Catanzaro la media dei promossi sfiorava il 90%. A Milano, nel 2002 passò il 31% degli esaminandi e a Brescia, sua città, il 24. Così il 17 marzo 2001 il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Reggio C. rilascia a Gelmini Maria Stella già iscritta all’Ordine di Brescia nel ‘99 libretto “di pratica” numero 2879, con cui totalizzerà udienze 25, presso lo studio dell’avvocato Renato Vitetta, vicino a Fi e conoscente dell’attuale sindaco di Brescia, Adriano Parodi, anche lui abilitato a Reggio nel 2000. Ma la signora si dimostra una “furbetta della toga”, che, nel rispetto formale delle disposizioni per la Pratica forense, sfrutta al massimo ogni escamotage per abbreviare i tempi, senza sottilizzare su compilazione dei verbali: si registra fittiziamente come residente in Calabria, rimanendo a brigare le sue faccende in Lombardia. Tutte le udienze sono concentrate in tre blitz: 10-11 aprile, 4; 12, 13 e 14 giugno, udienze 6, e rush finale dal 18 al 22, spaziando dalle separazioni matrimoniali agli sfratti per morosità. Chissà se vorrà spiegare agli alunni “indisciplinati” perché tutti i suoi verbali d’udienza, pubblici e dei quali l’Unità ha copia, risultano vergati da uguale penna con uguale grafia? «L‘abbiamo fatto tutti», diranno i giovani avvocati reggini. Ma un futuro ministro può fare la “furbetta della toga”, senza aspettare la verbalizzazione di ogni udienza? Che fretta, Maria Stella, in quell’estate 2001 in cui scappava da una aula all’altra...

l’Unità 26.11.10
Intervista a Susanna Camusso
Torna l’alleanza tra operai e studenti
«Studenti e operai dicono che il governo è arrivato alla fine»
Bersani: in piazza con la Cgil
di Rinaldo Gianola

Il segretario della Cgil sostiene che le lotte sociali rappresentano l’epilogo dell’illusione del governo. L’opposizione? Meno formule e più alternativa

Susanna Camusso guiderà domani a Roma la sua prima manifestazione da segretario generale della Cgil. Un’iniziativa pensata e decisa in altri tempi, ma che cade in un momento molto delicato per il Paese. La mobilitazione degli studenti, le lotte degli operai rompono la finzione di Silvio Berlusconi che probabilmente vive la sua ultima stagione politica. Con il leader della Cgil affrontiamo i temi più importanti dell’agenda politica e sindacale. Segretario Camusso, qual è il segno della protesta così estesa degli studenti? Cosa ci dicono le lotte degli operai della Vinyls a Porto Marghera e di molte altre fabbriche? «Sono il segno di un Paese che non tollera più le illusioni, le menzogne di Silvio Berlusconi. Non si può più raccontare una storia diversa dalla realtà, non si può più affermare che la crisi non c’è quando le fabbriche si fermano, quando i commissari della Vynils non sono in grado di riavviare gli impianti. Siamo al dunque, si gioca il futuro dell’Italia. Ce lo dicono i giovani, gli studenti, i precari che hanno piena coscienza che questo governo sta togliendo la speranza, la possibilità di studiare, di crescere». Come giudica le proteste degli studenti? L’occupazione dei monumenti?
«Sono iniziative giuste, pienamente condivisibili. L’intervento della Gelmini sull’università, mi rifiuto di chiamarla riforma, deve essere contrastato fino al suo ritiro. La coscienza di questi giovani si ribella al tentativo di tagliare ancora la formazione, l’università, non vogliono diventare invisibili. È una grande battaglia che merita sostegno e solidarietà. Invito tutti gli studenti a rispettare i monumenti perchè noi, al contrario di Tremonti, amiamo la cultura, la Divina Commedia, il nostro patrimonio artistico».
Perchè arriviamo a questi scontri sociali? «Perchè il Paese non discute più di problemi reali, di lavoratori, di studenti, delle famiglie. Non ci danno nemmeno lo spazio per confrontarci. È una continua forzatura. Il governo va avanti senza ascoltare nessuno, senza interlocutori, senza esaminare le ragioni degli altri. La rappresentazione della realtà è una finzione, è falsa come si vede nei tg e su certi giornali. Le lotte di questi giorni, sui monumenti, sulle gru, sui tetti, gli scioperi della fame sono un messaggio chiaro: i lavoratori, i cittadini si mettono in gioco in prima persona per difendere il diritto al lavoro, a una speranza di futuro. Bisogna rispettare queste persone ed è grave che certe istituzioni alimentino paure e minacce di fronte alle proteste sociali».
A cosa si riferisce?
«Ritengono irresponsabile come ha fatto il presidente del Senato Schifani immaginare violenze e disastri che nascerebbero dalle proteste di questi giorni. Lo stesso aveva fatto il ministro dell’Interno Maroni prima della manifestazione, grande e pacifica, della Fiom evocando infiltrazioni e violenze».
Le lotte sui tetti, sulle gru interrogano anche il sindacato? «Certo. Ma voglio dire che queste proteste nascono dentro il sindacato, sono accompagnate da noi, non sono qualcosa di estraneo da noi. Certo non sono lotte tradizionali, ma sono il segno della vitalità e dell’ampia articolazione del movimento dei lavoratori» Cade il governo?
«Se cadesse oggi vorrebbe dire che anche noi siamo un Paese normale. Il governo è finito, ce lo dicono gli studenti e gli operai».
Non teme un vuoto di potere, la mancanza di un esecutivo in una fase così delicata per l’economia? «In queste ore sono molto più preoccupata dei veleni e dei ricatti che il berlusconismo in crisi può spargere nel Paese. Pur di salvare se stessi Berlusconi e il governo potrebbero compiere atti disperati».
Domani a Roma c’è la manifestazione nazionale della Cgil. Come sarà? «Sarà una grande, pacifica manifestazione popolare che rappresenterà l’altra Italia, quella che non si merita questo governo. La partecipazione sarà enorme, sta crescendo di ora in ora quasi ci fosse un risveglio sociale. Soprattutto ci aspettiamo tanti studenti, precari e giovani lavoratori. Vogliamo farci vedere, vogliamo esprimere la nostra voglia di lottare. Uno degli obiettivi principali della Cgil è contrastare fino in fondo il collegato al lavoro. Un provvedimento sbagliato e ingiusto». Cosa volete fare per battere questa controriforma del lavoro?
«La Cgil sarà in prima fila, questa legge non ci piace e produce danni enormi. La Cgil metterà a disposizione tutte le sue strutture e le sue competenze per aiutare i lavoratori, i precari a impugnare i provvedimenti, a chiedere giustizia contro i con-
tratti irregolari».
Come giudica il comportamento dell’opposizione, del Pd, in questa fase? «Vedo segnali positivi come, ad esempio, la decisione di convocare la manifestazione a dicembre. Ma mi pare che ci sia bisogno di uno sforzo in più. Ci sono ancora troppe discussioni sulle formule politiche mentre bisogna dedicarsi alla creazione di una vera proposta alternativa di programma, di governo». Segretario, lei è milanese. È rimasta sorpresa dalle primarie di Milano? «Mi ha sorpreso la bassa partecipazione al voto. Speravo ci andasse più gente. Vedo Milano vittima di un degrado politico e morale insopportabile. Una volta era la città della solidarietà e accusava Torino di ghettizzare gli immigrati meridionali. Vorrei che tornasse quella città». A proposito di Torino, oggi parte il confronto su Mirafiori. Si aspetta un cambiamento di linea da parte della Fiat?
«Temo che non ci saranno cambiamenti. Ma vorrei dare un sommesso suggerimento a Sergio Marchionne: sarebbe utile dire cosa è Fabbrica Italia e iniziare a lavorare insieme. Oggi vorremmo avere informazioni chiare non solo sulla Carrozzeria di Mirafiori, ma anche sugli Enti centrali, la testa, la progettazione. Purtroppo le parole di Marchionne, la continua contrapposizione tra America e Italia, i giudizi insopportabili sui lavoratori italiani non fanno pensare a niente di positivo».
Com’è andato ieri il suo incontro con Berlusconi? «Ha fatto la solita battuta, ha detto che io non potevo essere peggio di Rosy Bindi. Alla fine mi ha avvicinato e ha detto che lui scherza. Gli ho risposto che molte delle sue battute non sono uno scherzo».
Pare che Montezemolo scenda nell’arena politica... «È strana questa ossessione verso persone che hanno un ruolo dirigente e vogliono fare politica. Trovo legittimo, forse anche utile, che Montezemolo faccia politica. Però vorrei che finisse questa storia degli annunci e dei mezzi annunci: se Montezemolo vuole fare altro lo faccia senza tante storie».


l’Unità 26.11.10
Violenza contro le donne Nella giornata mondiale presentato rapporto shock sulla tratta
Oltre 500 sono state uccise Duecento in poco più di due anni. L’inferno nelle nostre città
La strage delle nigeriane portate in Italia da schiave
di Cristiana Cella

Isoke Aikpitanyi ha scelto la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne per presentare l’indagine sulla tratta delle nigeriane. È una delle fondatrici dell’Associazione Vittime ed Ex Vittime della tratta.

La città, in Italia, nasconde, tortura, uccide, seppellisce. Città grandi e piccoli paesi, campagne, ovunque, in tutte le regioni, si può vivere all’inferno. Proprio lì, accanto, nella strada di tutti i giorni. Un mondo sommerso, un passo più in là del nostro. E’ qui che abitano le giovani nigeriane, vittime della tratta, le schiave della porta accanto o del marciapiede di fronte. Un traffico che coinvolge da vent’anni decine di migliaia di giovani donne. Hanno nomi leggeri, Joy. Gladys, Rose e una vita di piombo. E continuano ad arrivare, sempre più giovani adesso, bambine, adolescenti.
LA LISTA NERA
Oltre 500 sono state uccise, 200 in poco più di due anni. I cadaveri, devastati, abbandonati nei campi, nelle discariche, nei luoghi oscuri delle nostre civilissime città. Altre, stuprate, picchiate, massacrate, riescono a restare in vita. Se vita si può chiamare. Poche riescono a salvarsi. Sono centinaia le storie agghiaccianti raccolte da Isoke Aikpitanyi, nella inda-
gine che viene presentata in questi giorni, portata avanti insieme ad altre due donne, come lei ex vittime della tratta, e con il sostegno del Ministero delle Pari Opportunità. I campioni della ricerca sono 500 ragazze ma le storie si allargano alle amiche e coprono circa 20.000 donne. Solo una fetta del traffico più esteso che fa capo alla potente e violentissima mafia nigeriana, in collusione con quelle di casa nostra. Un esercito fragile, “con il corpo leggero come una foglia di mais”. Vite diverse, ma il percorso è sempre lo stesso. Comincia in Nigeria, dalle famiglie: le spingono a partire, hanno bisogno dei loro soldi, le costringono, le vendono. Anche i padri, i mariti, i fratelli. 476 su 500 donne del campione, sono il sostegno della famiglia. Passano in mano agli “italos”, i trafficanti. Sanno o non sanno. Il futuro è nebuloso, fa paura. Alcune sono convinte con le lusinghe di una bella vita, di un lavoro, altre devono cedere, anche se non vogliono. Il viaggio può durare mesi, attraverso il deserto e il mare, merce usata, trasportata, rivenduta, spartita.
In Italia, comincia la nuova vita, all’ombra della «maman», inflessibile carceriera e maestra del mestiere. La gerarchia para-familiare della tratta, che imita quella del villaggio. Accanto alle «maman», i brothers, le sisters e le baby, cioè le minorenni. Obbedire è la legge. Tornare indietro non si può più. Devono ripagare il debito, enorme, infinito. Può arrivare anche a 80.000 euro.
L’INCUBO DEL DEBITO
Chi si ribella, chi non vuole, chi parla, chi denuncia, chi incontra giornalisti, viene punita duramente, la famiglia al paese, minacciata. La «maman» pensa a tutto, anche ai permessi di soggiorno, legali, ottenuti illegalmente, il cui costo si aggiunge al debito. Ma non per tutte. La paura di essere arrestate e rimandate indietro serve. Tiene al guinzaglio. Serve sempre la paura. In patria le aspetta il rifiuto dei parenti, la prigione, luoghi di violenze terribili, un nuovo viaggio, la morte. Peggio di qui, perché allora muore anche quel filo di speranza.
Lo stupro multiplo iniziale è parte della formazione. Sciamano per la città, si disperdono, conquistano altri territori, in piccoli
gruppi, per non dare nell’occhio, lavorano al chiuso, ovunque. Il mondo sommerso si approfondisce, scompare. Le organizzazioni di assistenza adesso fanno fatica a trovarle. Alcune cambiano continuamente città, o vivono all’estero e diventano pendolari di frontiera. Una migrazione perenne. Irraggiungibili, tranne che per i clienti e per le ex vittime, come Isoke e le sue compagne. Il lavoro quotidiano dura 10/12 ore. Scendono in strada seminude, con i tacchi a spillo, pronte a essere usate. Esposte. Al freddo, alla violenza, qualunque, bersagli in attesa. Prima di iniziare, ogni giorno, per tutte, la stessa preghiera: «Fa che oggi non mi succeda niente». Di tutto , infatti, può succedere.
Ci sono clienti tranquilli, gentili perfino, ci sono anche i «polli» da spennare, ma ci vuole molta fortuna. Spesso quello che cercano non è solo sesso. Le ragazze li chiamano « stupratori a pagamento». Vogliono fare di tutto perché hanno paga-
to. Comprano la possibilità di realizzare l’orrore che hanno dentro, impuniti. Gesti e parole che dormivano, di cui forse non pensavano di essere capaci. Bestie italiane, uomini del nostro paese. Sfogare la rabbia, la frustrazione, le fantasie da film porno e sadomaso, tutto quello che non hanno il coraggio di fare con la moglie. Tanto nessuno lo verrà mai a sapere.
Dice Isoke: «Ogni nigeriana stuprata è un’italiana salvata». Spesso ci si mettono in tanti ad accanirsi. Il disprezzo aiuta. Donna, giovanissima, immigrata, nera e prostituta. Assorbe qualsiasi sfogo, tutto è lecito. Quando hanno finito, le abbandonano nei posti deserti, ferite, distrutte, lontano chilometri dall’abitazione, dopo averle derubate. In ospedale ci vanno solo se stanno per morire, si può essere denunciate. La paura. Sempre, di nuovo. Si curano in qualche modo e poi di nuovo si trascinano sulla strada. Il corpo diventa estraneo, ostile, abbandonato al suo destino. Se fanno pena tanto meglio, a volte i clienti fanno l’elemosina. E la «maman» le accoglie con un sorriso: «Vedi, di che ti lamenti? Lavori lo stesso e senza fare niente».
Per fortuna i clienti non sono tutti carnefici. Possono diventare «risorsa», fondamentale, per sottrarre le ragazze al traffico. Molti di loro, avvicinati dai collaboratori di Isoke, hanno deciso di aiutare la sua Associazione, diventare veicoli del riscatto. Si difendono, con risposte scontate, «perché no?», «Come lo so che è minorenne?». Ma poi ci pensano su e cambiano strada. «Abbandonano l’egoismo» così dicono. Alcuni informano, convincono, altri usano la «disobbedienza civile»: matrimoni di comodo, assunzioni fittizie, per far ottenere alle ragazze il permesso di soggiorno.
LA SPERANZA
Missioni che hanno spesso successo con l’uscita definitiva delle ragazze dalla schiavitù della tratta. Alcune trovano lavoro, si sposano, mettano su famiglia. E spesso, aiutano le altre che sono rimaste all’inferno. Così trasformano il dolore.

l’Unità 26.11.10
La denuncia In 80 fuggiti dalla Libia pagando duemila euro
Da settimane prigionieri dei trafficanti di uomini: vogliono 8mila euro
Eritrei sequestrati nel deserto al confine tra Egitto e Israele
Ottanta profughi eritrei sequestrati dai trafficanti di uomini nel deserto, ai confini fra Egitto e Israele. Senza cibo, incatenati, ridotti come schiavi. Erano partiti da Tripoli (Libia). L’appello accorato di Don Mussie Zerai.
di U. D. G.

Nelle mani dei trafficanti d’uomini. Ostaggi nel deserto. Una storia sconvolgente. Una storia vera. A raccontarla a l’Unità è un sacerdote coraggioso: Don Mussie Zerai, missionario eritreo, responsabile dell’Ong Habeshia che si occupa dell’accoglienza di migranti africani in Italia. «Abbiamo ricevuto dice Don Zerai una richiesta di aiuto da 80 profughi eritrei sequestrati al confine tra Egitto ed Israele, dai trafficanti che pretendono il pagamento di 8.000 dollari per rilasciarli. Questi profughi raccontano che sono partiti da Tripoli (Libia), per andare in Israele, hanno già pagato il prezzo pattuito di 2.000 dollari, invece i trafficanti hanno tradito gli accordi presi, voglio di più. Il racconto dei profughi si fa drammatico sulla loro condizione, sono già un mese che sono tenuti legati con le catene ai piedi, come si faceva una volta con il commercio degli schiavi, continuamente minacciati, da 20 giorni che non toccano acqua per lavarsi, sono segregati nelle case nel deserto di Sinai, sotto la minaccia di morte se non pagano questi 8.000 dollari. Mi riferiscono prosegue il sacerdote eritreo che ci sono molti altri profughi eritrei, etiopi, somali, sudanesi nella zona Sinai in simili condizioni, si parla di circa 600 persone in totale. Questa modalità di ricatto diventata nel tempo redditizia per questi trafficanti che sfruttano la disperazione di questi profughi...».
SEQUESTRATI
«Questa situazione rimarca Don Zerai è anche frutto della chiusura delle frontiere dell'Europa con accordi bilaterali, che non hanno offerto alternative ai richiedenti asilo politico provenienti dal Corno D'Africa, ora costretti sempre di più ad affidarsi a questi sensali di carne umana, trafficanti di esseri umani. La politica di respingimenti e di chiusura, sta favorendo l’arricchimento dei trafficanti e criminali, che raggirano i disperati che fuggono da situazioni di guerre, persecuzioni, fame». Il racconto straziante si conclude con un appello: «Chiediamo l'intervento della Comunità Europea, per spingere il Governo egiziano a liberare queste persone senza mettere in pericolo le vite umane, in questo gruppo di profughi ci sono anche donne in condizioni fortemente debilitate dalla mancanza di cibo, igiene personale, sono in situazione di totale degrado e degradante della dignità umana».
IL RICATTO
La denuncia e l’appello di Habeshia sono rilanciati dall’organizzazione EveryOne. «Questa modalità di ricatto è diventata nel tempo redditizia per i trafficanti che sfruttano la disperazione dei profughi», spiega EveryOne in una nota, «questa situazione è anche frutto della chiusura delle frontiere dell'Europa con accordi bilaterali che non hanno offerto alternative ai richiedenti asilo politico provenienti dal Corno D'Africa, ora costretti sempre più ad affidarsi ai trafficanti». Per questo l'organizzazione chiede l'intervento dell'Alto Commissario Onu per i Rifugiati (Unhcr), dell'Alto Commissario Onu per i Diritti Umani, del Parlamento europeo, della Commissione Ue, del Consiglio d'Europa e dei Paesi dell'Unione, nonché la piena collaborazione del Governo egiziano. «È fondamentale», concludono i co-presidenti di EveryOne Malini, Pegoraro e Picciau, «che il governo della Repubblica araba dell'Egitto liberi queste persone senza mettere in pericolo le loro vite». E anche l’Italia può e deve fare la sua parte. A sollecitarlo in una interrogazione urgente al Presidente del Consiglio e al ministro per gli Affari esteri è Pietro Marcenaro (Pd), presidente della Commissione per i Diritti umani del Senato. «Il racconto dei profughi è drammatico, riguardo alla loro condizione: riferiscono di essere tenuti legati con le catene ai piedi da un mese, come si faceva una volta nel commercio degli schiavi, e di essere continuamente minacciati e maltrattati...», rimarca Marcenaro, che nell’interrogazione chiede al ministro degli Esteri, Franco Frattini «di verificare quale sia la reale situazione di questi profughi; nel caso che queste informazioni venissero confermate, di muovere i passi necessari nei confronti del governo egiziano affinché queste persone vengano liberate e siano garantite loro incolumità e sicurezza; di riferire sul punto dei colloqui in corso con la Grande Repubblica Araba di Libia Popolare e Socialista sulle possibilità e modalità di esercizio del diritto alla protezione umanitaria».


l’Unità 26.11.10
Il numero oscuro, le vittime in casa
La Francia persegue la violenza morale
Tra le mura domestiche ci sono 460 delitti ogni anno Uscito un libro «La manipulation affective dans la couple» di Pascale Chapeaux Morelli. La crescita dei suicidi
di Emanuela Valente

Il numero oscuro. Lo chiamano così, quel numero che nessuno conosce e che raccoglie le donne vittime ogni anno di violenza. Nella giornata internazionale di lotta contro la violenza alle donne, il dato che maggiormente colpisce é quello che non si conosce, ma che si può ricavare intrecciando gli eventi: secondo le cifre raccolte dal ministero degli Interni francese e la polizia parigina, il 92% delle donne che subisce violenza non sporge denuncia. Ogni anno circa 40mila donne rimangono vittime silenti, mentre ogni due giorni e mezzo una donna viene uccisa dal marito. Contro appena l'8% di incremento delle denunce, si registra un aumento del 14% dei delitti coniugali, cui devono essere aggiunti 460 decessi (tra donne, uomini e bambini) riconducibili alle violenze avvenute in famiglia, di cui oltre il 50% costituito da donne che si sono suicidate in seguito alle violenze subite.
Questi i dati allarmanti raccolti da un paese, la Francia, che ha proclamato il 2010 anno di lotta alla violenza sulle donne, considerandola causa nazionale, e che ha approvato, il 10 luglio scorso, una legge che per la prima volta include tra i reati anche la violenza morale e psicologica. Pascale Chapeaux Morelli, Presidente dell'Associazione di Aiuto alle Vittime di Violenze Psicologiche, spiega perché i maltrattamenti e la manipolazione affettiva costituiscano un vero e proprio delitto. «Finora si é considerata la violenza morale e psicologica quasi una normalità nei rapporti di coppia, qualcosa di intangibile in cui la legge, e l'esterno in genere, non avevano diritto di entrare. Ma la violenza é violenza, in qualsiasi forma si manifesti, e non può essere considerata più o meno grave solo per la difficoltà di inserire dei criteri o di provarne l'esistenza. Questo valeva anche per lo stupro coniugale, che é stato riconosciuto solo da pochi anni e che fortunatamente oggi non viene considerato meno grave per l'esistenza di un legame affettivo o legale tra le persone. Così come oggi, per la nuova legge francese, anche il matrimonio forzato rientra tra le aggravanti, e non più tra le attenuanti, di un delitto che prima veniva considerato "d'onore». La violenza all'interno di una famiglia può esprimersi attraverso vari modi e i segni che lascia spesso non possono essere certificati al Pronto Soccorso, eppure non per questo hanno meno conseguenze. Nel suo libro La manipulation affective dans la couple, La manipolazione affettiva nella coppia, (già pubblicato in Francia e che uscirà in Italia a febbraio), Pascale Chapeaux Morelli traccia un quadro esatto di una delle forme più diffuse di violenza psicologica, con cui un coniuge (in 3 casi su 4 l'uomo) impone sostanzialmente all'altro una forma di asservimento totale, attraverso una crescente denigrazione che porta la vittima a perdere fiducia in se stessa, finanche a perdere il lavoro e ad allontanarsi dai propri amici e parenti.
L'isolamento e la dipendenza psichica e materiale fanno di queste vittime delle vittime di se stesse, poiché cosi vengono percepite all'esterno, mentre si tratta di persone generalmente dotate di molte capacità dato che, come sottolinea Chapeaux Morelli «non si ruba mai una scatola vuota». Il primo passo da fare é parlare e parlarne, contrariamente a quanto é stato insegnato per secoli. Come recita lo spot contro la violenza che ammonisce in ogni angolo di Parigi: «Se stai tranquilla, se sei obbediente, se stai zitta, ti ammazza».

PERCHÈ? SENNÒ?!?
Vendola: «Comunque vada a Bologna, nessuno pensi di sabotare le primarie nazionale, sarebbe un atto di puro masochismo».
E l’Amelia si concede una battuta: «Se vinco io il Pd finisce dall’analista»
Andrea Carugati sull’Unità di oggi

il Fatto 26.11.10
Vendola a Bologna
Al Comune presenta la Frascaroli Ma pensa alle (sue) primarie
di Luca Telese

Folla fin sulle scale della circoscrizione per l’inaugurazione in periferia di un circolo di fabbrica intitolato a Sergio Sabattini detto “faccia d’Ananas” (mitico quadro operaio, ex segretario della Fiom). Massa di studenti che si riversano come la sabbia di una clessidra nel caffè di piazza Verdi dove si tiene la conferenza stampa, trasformandola in una sorta di comizio happening. Tutto esaurito nel cinema multisala (due sale da 500 posti l’una) che ospita l’evento clou della serata, con il faccia a faccia fra Nichi Vendola e Amelia Frascaroli, la candidata cattolica (di estrazione prodiana, amica personale della first lady Flavia) che sfida il candidato ufficiale del Pd alle primarie per il Comune di Bologna. Se ti affacci a Bologna scopri che il grande vento delle primarie non cala, anzi, prende forza di città in città, portando scosse elettriche e facendo sventolare folle e bandiere.
Il leader di Sinistra e libertà arriva a Bologna per il suo tour di sostegno alla Frascaroli, per radicare la forza di Sel all’ombra delle Due Torri (un sondaggio della Dire quota il suo partito al 13%), e scopre che anche il suo momento magico continua. E così diventa inevitabile il gioco di rimbalzo fra Bologna e la ribalta nazionale: “Dicono che se vince anche Amelia non si faranno più le primarie nazionali? Mi sembrerebbe una follia. Non è possibile che saltino. Anzi: è solo con le primarie che si ricostruisce la coalizione per battere Berlusconi!”.
Sta di fatto che a Bologna l’effetto Vendola-Frascaroli sta togliendo il sonno ai dirigenti cittadini del Pd, che continuano a studiare possibili contromosse ma anche a non trovare la quadra.
ECCO IL RIASSUNTO della telenovela. Si dimette Flavio Delbono, si apre una faida. La vince il popolarissimo Cevenini, ma quando l’ex presidente della Provincia agguanta la designazione un problema cardiaco lo mette fuori gioco. Dramma. Si riapre la faida dentro il Pd, stavolta corrono tre candidati. La Frascaroli, ex dirigente della Caritas, cattolica sociale, scende in campo e viene considerata poco più di una outsider. Il nome forte è quello di Andrea De Maria, storico segretario del partito bolognese, all’ombra del Pci-Pds-Ds-Pd fin da quando aveva i calzoncini corti. Dopo la vittoria di Giuliano Pisapia a Milano, ottenuta battendo Stefano Boeri, candidato del Pd: anche il partito bolognese si spaventa. Dopo una tormentata riunione, due candidati fanno un passo indietro e viene lanciata la candidatura unica dell’ex assessore della giunta Cofferati, Virginio Mero-la. Partita chiusa? Macché. Anche per l’onda che parte da Milano la Frascaroli nei primi sondaggi risulta la più forte delle candidature in campo, malgrado la presenza di un altro candidato di estrazione sociale e cattolica, il pacifista Benedetto Zacchiroli. Si stabilisce, fra l’altro una curiosa analogia con l’esperienza pugliese: Merola, nelle precedenti primarie (quelle che avevano incoronato Delbono) era il candidato che si era classificato per ultimo (!). Così – è notizia di ieri – si riapre la faida nel Pd, dove i sostenitori di De Maria sostengono che si può vincere solo con lui e vorrebbero riaprire la nomination in casa democratica.
È IN QUESTO scenario che arriva in città Vendola. Il leader di Sel si incontra con la Frascaroli nel pomeriggio. Fra i due sembra un idillio: “Sono molto affascinato dalla coerenza di Amelia”, racconta Vendola. “Ho avvertito una sintonia particolare” rilancia lei. La candidata è molto vicina a don Nicolini, “il sacerdote degli ultimi” e dice che sul recupero dei più deboli vuole incentrare la campagna elettorale. “C’è la possibilità di fare primarie vere – spiega la Frascaroli – la mia parola chiave sarà: ‘Partecipazione’. Resuscitare a Bologna una coscienza civile sommersa e un tessuto che in questi anni di sbandamento non si è distrutto è possibile”. Di sera il discorso si apre con un altro omaggio al laboratorio pugliese: “Voglio citare la bellissima esperienza del comune di Nardò , che ha fatto un lavoro straordinario con i braccianti immigrati!” e giù applausi.
E VENDOLA? Fedele alla sua nuova icona ultra-ecumenica dice di voler bandire ogni conflitto: “In una competizione normale il sostegno al candidato, come quello che io voglio dare, non è un’occasione per battaglie ideologiche, ma un semplice augurio”. Figurarsi. Subito dopo, infatti, dicendo apparentemente quello che si augura di non vedere, tratteggia lo scenario che è sotto gli occhi di tutti: “Le primarie qui devono essere una bella gara e non una competizione militarizzata!” (applausi). “Non possono diventare il crocevia dei rancori e delle ambizioni personali! Non possono essere un’occasione per schierare le truppe personali e combattere casamatta per casamatta”. I mille di Bologna iniziano a spellarsi le mani. Arriva il pezzo forte: “Bologna oggi è malata. La politica bolognese è malata, afflitta da depressione. Questa malattia va curata per far ritornare la città quello che si merita – grida Vendola – una grande capitale europea”. Poi le stoccate sulla politica nazionale: “Oggi Berlusconi vara il Piano per il Mezzogiorno. Un provvedimento curioso, visto che questo è il governo più nordista e antimeridionalista della storia d’Italia!”. E poi: “Io non sono il leader di una fantomatica ‘sinistra radicale’… Io – conclude Vendola – sono qui per dire che bisogna imparare dalle nostre sconfitte, superando il minoritarismo di quella sinistra che è sempre innamorata della bella sconfitta. E il compatibilismo di quei moderati che votano tutto in nome del governo a tutti i costi”. Si parla di Bologna. Ma anche dell’Italia. E se il mondo di Amelia diventa il film delle Due torri, cambia il finale anche per le telenovelas di Roma.


«Da Foa ho imparato che non bisogna disperare mai»
Corriere della Sera 26.11.10
Pavone: non servono memorie condivise
«Sminuire le ragioni della lotta tra fascisti e partigiani significa banalizzare la storia»
di Antonio Carioti

La denuncia dell’autore che compie novant’anni: trascurato lo studio dei crimini di guerra italiani dal 1940 al 1943

«Oggi viene spesso criticata la decisione di esigere la resa incondizionata del nemico, assunta dagli Alleati alla conferenza di Casablanca nel 1943. Si dice che prolungò la guerra. Ma io non sono d’accordo. Credo sia stata una scelta giusta, che consentì in Germania una ricostruzione democratica radicale, con un’epurazione seria che non ha lasciato spazio alle scorie del nazismo». Alla vigilia dei novant’anni, che compie il 30 novembre, lo storico Claudio Pavone conserva intatta la capacità di spiazzare i suoi interlocutori. Come quando nel 1991 intitolò Una guerra civile (Bollati Boringhieri) il suo fondamentale libro sulla lotta partigiana, legittimando l’uso di un’espressione fino allora ritenuta sconveniente per definire la Resistenza.
In questo caso invece Pavone si ricollega ai suoi studi sulla continuità dello Stato dal fascismo alla Repubblica: «In Italia, rispetto alla Germania, ci siamo portati dietro un’eredità del passato regime molto più consistente. E abbiamo rischiato che, dopo l’armistizio del 1943, quasi tutto rimanesse come prima, con lo Statuto albertino, la monarchia e la corte, la vecchia legge elettorale prefascista . Quando il generale Eisenhower, a Malta, chiese a Pietro Badoglio se non avesse pensato di lasciare a un civile la guida del governo italiano, l’altro rispose facendo il nome di Dino Grandi, l’ex ministro degli Esteri che con il suo ordine del giorno aveva provocato la caduta del Duce. Eisenhower ribatté: "I nostri ragazzi non sono morti per sostituire Mussolini con un altro fascista"».
Il merito maggiore della Resistenza, secondo Pavone, è aver evitato soluzioni del genere: «Grazie alla lotta partigiana abbiamo avuto la Costituzione, frutto di una grande assunzione di responsabilità da parte di forze politiche che erano divise su tante questioni importanti, ma riuscirono a realizzare un compromesso di alto livello tra le culture cattolica, liberale e marxista. E infatti per molti anni le sinistre e i moderati hanno sempre considerato la Resistenza un evento positivo, anche se le attribuivano, polemizzando tra loro, significati diversi».
Oggi invece si tende a svalutarla, si dice che a sconfiggere il Terzo Reich furono gli Alleati, non certo i partigiani: «È un’ovvietà. Del resto nell’autunno 1943 i tedeschi erano ormai sulla difensiva e si poteva anche pensare di limitarsi ad attendere l’avanzata angloamericana, senza fare nulla. Ma proprio questo aumenta il valore etico della scelta resistenziale: i partigiani presero le armi e rischiarono la vita, anche se non era strettamente necessario dal punto di vista militare, perché non vollero essere liberati dagli eserciti stranieri, senza contribuire alla lotta contro il nazismo. Del resto, se nessuno si fosse mosso, credo che gli attuali critici della Resistenza sarebbero i primi a dire: vedete, mentre tutti i popoli d’Europa insorgevano contro Hitler, solo in Italia non succedeva nulla».
Pavone inoltre considera ingiusto il termine «vulgata resistenziale», usato per liquidare l’opera degli Istituti per la storia del movimento di Liberazione: «In realtà hanno compiuto un lavoro enorme, raccogliendo una documentazione fondamentale per tutti gli studiosi. E sono anche usciti dalla visione oleografica ed eroica della lotta partigiana. In quest’ambito vanno ricordate le ricerche sulla resistenza civile e sulla presenza delle donne realizzate da Anna Bravo, a partire dal saggio di Jacques Sémelin Senz’armi di fronte a Hitler. Oppure ai precoci studi di Guido Crainz sulle uccisioni di fascisti dopo la Liberazione, ben più serie e attendibili delle polemiche attuali sul "sangue dei vinti". La stessa visione sessantottina, riassumibile nello slogan "La Resistenza è rossa, non democristiana", ha avuto una sua utilità: ha aiutato a superare la ritualità ufficiale e la retorica unitaria del Pci, per analizzare il movimento partigiano nelle sue diverse componenti, anche se poi i contestatori ne valorizzavano solo una, quella classista, e trascuravano le altre».
Dunque la storiografia ha fatto la sua parte? «C’è ancora tantissimo da studiare. Ad esempio serve una visione più complessiva del ruolo svolto dall’Italia nella Seconda guerra mondiale, che non si concentri solo sul periodo 1943-45, ma indaghi a fondo i tre anni precedenti, compresi i delitti commessi dai nostri militari soprattutto nei Balcani, per i quali non c’è stata alcuna punizione. Sarà un caso, ma i due giovani studiosi che si sono occupati maggiormente dell’argomento, Davide Rodogno e Lidia Santarelli, non hanno trovato posto nell’università italiana e lavorano all’estero. Ma ci sono anche le atrocità commesse dai vincitori, che sono state rimosse fino a poco tempo fa: dai bombardamenti indiscriminati sulle città tedesche, privi di reale utilità bellica, all’espulsione violenta di intere popolazioni dalle zone orientali della Germania».
Tuttavia Pavone non apprezza i richiami alla «memoria comune», né alla buona fede dei ragazzi di Salò: «La sincerità di un combattente — osserva — non può riscattare una causa sbagliata. Del resto Hitler fu sempre in buona fede: fin dall’inizio non nascose le sue intenzioni e le mise in pratica con assoluta coerenza. Quanto alla memoria comune, è un concetto privo di senso. Non c’è niente di più soggettivo della memoria: un ex partigiano e un reduce della Rsi non potranno mai avere la stessa visione del passato. Erano italiani entrambi, ma volevano due Italie diverse, inconciliabili. Mettere una pietra sopra alle ragioni del conflitto non è un progresso né civile né storiografico. Tra l’altro così si finisce per banalizzare il fascismo che invece fu un fenomeno storico molto serio».
D’altronde, sostiene Pavone, l’auspicio della memoria comune è presto scaduto nel tentativo di mettere le due parti sullo stesso piano e di squalificare la lotta partigiana: «La destra italiana ha bisogno di un nemico: i comunisti, la sinistra e anche la Resistenza. Di recente il ministro Gelmini ha dichiarato che la sua riforma serve a superare l’egemonia comunista nella scuola. Ma vorrei che mi elencasse i ministri della Pubblica istruzione che ha avuto il Pci dal 1945 in poi».
Eppure Silvio Berlusconi, lo scorso 25 aprile, ha celebrato la Resistenza in Abruzzo, con un fazzoletto partigiano al collo: «Non mi ha convinto affatto — replica Pavone — perché il berlusconismo esalta proprio il sottofondo peggiore della nostra cultura nazionale: il conformismo, la mancanza di senso dello Stato, il primato assoluto dell’interesse privato. Per giunta consente alla Lega di diffondere il veleno della divisione tra Nord e Sud. No, Berlusconi può mettersi al collo tutti i fazzoletti che vuole, ma nei fatti rappresenta l’anti-Resistenza».
Insomma, Pavone è molto preoccupato: «Sì, anche se ricordo quello che mi diceva Vittorio Foa: nel carcere fascista, perfino quando Hitler sembrava avere la vittoria in pugno, non aveva mai perso la fiducia. Anche di fronte alle tante sconfitte della sinistra, ripeteva che c’è sempre una via d’uscita e non bisogna smettere di cercarla. Era il segreto della sua vivacità intellettuale, che gli permetteva di dialogare con i giovani in età molto avanzata. Da Foa ho imparato che non bisogna disperare mai».

Corriere della Sera 26.11.10
Un appello di 600 intellettuali: i Beni culturali stanno morendo

Ormai siamo «al collasso»: gli stanziamenti per i Beni culturali sono lo 0,2% del bilancio dello Stato contro lo 0,9 in Francia e l’1,2 in Gran Bretagna, per non parlare dei «clamorosi errori commessi nell’Aquila post terremoto e a Pompei». È il grido di dolore lanciato dall’Associazione nazionale dei tecnici per la tutela dei beni culturali e ambientali, con l’Associazione archeologi, il Comitato per la bellezza, Italia Nostra e la Rete dei comitati per la difesa del territorio, firmato da 600 intellettuali italiani e stranieri, tecnici, urbanisti ed ex sovrintendenti. Chiedono le dimissioni di Sandro Bondi, definito un «ministro fantasma», «liquidatore del ministero per i Beni culturali».
L’appello, intitolato «No alla morte della cultura», è stato indirizzato al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano (nella foto). Duro l’ex soprintendente di Pompei, Piergiovanni Guzzo: «I crolli sono stati causati da errori della Protezione civile che un modesto archeologo avrebbe saputo evitare». «Al ministero non ci sono più neanche i soldi per pagare le bollette» ha rincarato Irene Berling. Seguita da Vittorio Emiliani: «Bondi passa il suo tempo a via dell’Umiltà. Fa meglio quando non c’è».
In serata la replica del ministro: «L'appello a favore delle mie dimissioni è importante — afferma Bondi — perché è l'espressione di un mondo che nulla ha a che fare con la vera cultura e che è all’origine dei mali di cui soffre oggi il nostro Paese e in particolare della crisi in cui versa il sistema dei beni culturali»


Repubblica 26.11.10
I figli sorpassano a destra i genitori la spinta da maschi e regioni rosse
Replicato test del ’75 sull’”ereditarietà” delle idee politiche
di Michele Smargiassi

Sondaggio degli Istituti Gramsci e Cattaneo. Il tasso di "fedeltà" tra generazioni risulta comunque più alto nelle famiglie progressiste
I post-sessantottini erano molto più informati. Oggi metà dei ragazzi non sanno indicare con chiarezza le differenze tra gli schieramenti

BOLOGNA - La mela continua a cadere abbastanza vicino all´albero. Ma adesso cade dalla parte opposta. Trentacinque anni fa i figli scavalcavano a sinistra i genitori: oggi li scavalcano a destra. Se i figli sono il futuro di un paese, tira brutta aria per la sinistra italiana, ma i numeri parlano chiaro: quella che sembrava un´ovvietà antropologico-sociale al limite del luogo comune ("a vent´anni siamo tutti rivoluzionari") viene smentita da una ricerca congiunta dell´Istituto Gramsci e dell´Istituto Cattaneo di Bologna che verrà resa pubblica oggi. Frugando in una vecchia indagine del 1975 sull´orientamento politico degli italiani, i tre ricercatori (Piergiorgio Corbetta, Dario Tuorto, Nicoletta Cavazza) si sono imbattuti in una piccola miniera non ancora sfruttata: alcune centinaia di questionari compilati in parallelo da genitori e figli delle stesse famiglie. Hanno incrociato quei dati, poi hanno deciso di ripetere il sondaggio oggidì, a una generazione di distanza, intervistando oltre quattrocento coppie genitori-figli.
Quel che hanno scoperto è una vera e propria inversione di tendenza nella trasmissione ereditaria di valori e ideologie: i figli sono diventati più conservatori dei padri. Visto che c´è una generazione di mezzo, si può anche dire: chi la fa l´aspetti: chi trent´anni fa aveva abbandonato "da sinistra" i propri padri, ora si trova aggirato a destra dai propri figli. Unico elemento costante: sono sempre loro a muoversi, i ragazzi. Infatti, allora come oggi, il gruppo dei genitori si colloca più o meno al centro dello spettro destra-sinistra; ma il gruppo irrequieto dei figli, che nel ´75 era più a sinistra del gruppo dei genitori di circa un punto (in un arco convenzionale da 0=sinistra a 6=destra), oggi è più a destra di 0,3 punti. I maggiori responsabili dell´inversione a U, altro dettaglio che non farà piacere ai progressisti, sono i rampolli (soprattutto i maschi) delle famiglie meno istruite, meno ricche e che vivono nelle regioni "rosse": quelle dove l´omogeneità ideale tra padri e figli una volta era più forte. Insomma è proprio lo "zoccolo duro" dell´insediamento elettorale storico della sinistra, le famiglie unite, proletarie, laboriose, tutte casa e cellula, che si sta sfarinando.
Eppure, a ben vedere, la grande maggioranza delle famiglie continua a trasmettere ai figli le proprie visioni del mondo. Il "tasso di dissimilarità" generazionale italiano è in fondo piuttosto limitato (1,6 punti su una scala di dieci), la grande maggioranza dei figli somigliano ai padri, si rassicurino dunque i genitori: sono buoni pedagoghi politici. E i genitori di sinistra, nonostante la frana, riescono ancora a tenere i figli dalla loro parte più spesso di quelli di destra. Su cento genitori che votano un partito di sinistra, 75 hanno figli che li imitano, mentre su cento genitori di destra solo 60 hanno figli che votano come loro. La famiglia progressista insomma "convince" di più. Ipotesi lusinghiera: i suoi valori sono più robusti, moralmente superiori e resistenti all´usura. Ipotesi realistica e tecnica: è più facile riconoscere una continuità nei partiti di sinistra (Pci-Ds-Pd) che nei partiti di destra (la novità assoluta della Lega ha spaccato le famiglie dell´ex area Dc). In ogni caso, le distanze tra il proselitismo familiare di sinistra e quello di destra si sono drasticamente accorciate: nel ´75 le percentuali di "ereditarietà" politica erano di 86 a 36 a favore dei genitori di sinistra. Un altro sorpasso probabilmente è in vista.
Ora, però, non è il caso di tirare conclusioni epocali. Il ribaltone intra-familiare avviene in realtà in un contesto in cui la politica ha perso spessore, significato, autorevolezza. Dalle domande di controllo sulla preparazione e l´attività politica effettivamente svolta, si scopre che i figli di quell´epoca immediatamente post-sessantottina erano più informati, coinvolti e impegnati dei loro genitori: oggi è l´inverso. E metà dei figli intervistati oggi non sa dare una convincente spiegazione della differenza fra sinistra e destra: erano solo il 30% nel ´75. Allora, le baruffe domestiche esplodevano perché i ragazzi erano "impegnati" politicamente e i genitori apatici e qualunquisti; oggi per l´esatto contrario. Dunque, di che parliamo? «Di famiglie che condividono molto più spesso l´indifferenza che l´impegno, dove la polarità destra-sinistra ha perso quasi ogni significato», sintetizza il professor Corbetta. Le mele cadono vicino all´albero, ma hanno sempre meno sapore.

Avvenire, quotidiano della Cei 26.11.10
Ssst! Sta parlando il silenzio di Dio
Secondo il filosofo Massimo Cacciari con Abramo come con Giobbe il Signore tace non per ira o perché non sa che cosa dire Egli è un padre nascosto ed esige d’essere cercato non tanto con parole o risposte, bensì con la «rivelazione» abissale del suo stare zitto
di Massimo Cacciari


La «voce di vento leggero» che si rivolge a Elia (1Re 19,12) suona nell’originale ebraico, secondo André Neher, come «la voce sottile del silenzio». La voce del silenzio, oltre ancora quella del soffio più impercettibile, è per lui la forma più autentica del manifestarsi del Signore. La sua è, letteralmente, una teo-logia del Silenzio, ovvero una teologia che fa del Silenzio il Logos stesso di Dio.
Questo Silenzio va anzitutto ascoltato. Non basta insistere sul fatto che l’imperativo non riguarda il credere o l’imparare. Il vero paradosso sta nell’ascoltare il Silenzio, poiché il Silenzio soltanto è in-finito, non si lascia catturare da alcun logos, né de­finire «filosoficamente» come sostanza o fondamento. La tradizione è anch’essa, a pieno titolo, rivelazione del Signore, ed inizia già con le sue prime parole. Il Silenzio, dunque, parla, e proprio nel suo «tradirsi» in parola interpretante ri-vela se stesso.
Al Silenzio inaccessibile dell’Arché divina il profeta si rivolge colmo di fiducia; egli spera incrollabilmente proprio in colui che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe (Is 8,17).
Potremmo dire che il profeta è essenzialmente chi giunge non solo ad ascoltarne, ma a vederne il Silenzio (Is 6,1). La sua parola diviene così lode del Silenzio stesso e dialogo ininterrotto col suo eterno manifestarsi – che è presidio contro ogni preghiera idolatrica, contro ogni esigere risposta. Quello di Giobbe può essere definito da Neher il libro del Silenzio per antonomasia proprio perché è, a suo giudizio, testimonianza del più drammatico dialogo tra mortale e Silenzio di Dio.
L’istanza radicale che muove la ricerca di Neher consiste nell’intendere il Silenzio come dimensione essenziale della stessa Rivelazione, non come momento, non come momentanea eclisse della Parola, non come il semplice effetto del «peccato» di Israele che allontana da lui il suo Signore. Non è il Silenzio un segno dell’«ira» di Dio.
È vero, invece, che Israele è sordo alla sua chiamata, che ha appunto luogo attraverso la «voce sottile del Silenzio». E tale sordità non potrà essere compiutamente eliminata che all’ultimo. La perfetta capacità di ascolto è infatti promessa escatologica, come il vedere il Signore. Ma chi è sordo al Silenzio, neppure saprà davvero ascoltare, e non sapendo ascoltare neppure potrà entrare in autentico colloquio. In questi nessi si gioca il drama , o play, come dice Neher, tra uomo e Dio: il Dio nascosto esige d’essere cercato; l’uomo non sa cercarlo perché cerca soltanto parole-risposte, perché non sa ascoltare l’abissalità del suo Silenzio. Dio ama il cuore di coloro che cercano – ma non per ricevere, come dall’idolo, consolanti certezze, rassicurazioni, fondamenti. La forma ultima dell’avvenire del Signore si ri­vela proprio nel suo Silenzio, che nessuna parola può annichilire, che a nessun dis-correre appare riducibile.
Così, grandiosamente, esso si manifesta nel Libro di Giobbe. (...) Libertà è il «luogo» cui si rivolge il Silenzio. A essa, nel suo libero agire, in silentio Dio stesso si rivolge. Nel suo essere libero egli riflette la Libertà ineffabile da cui proviene. E allora, davvero, tace. Il suo Silenzio è, allora, il thauma, lo «spettacolo» più tremendo. Nell’istante che tace, nell’istante che perviene a questa estrema misura del Silenzio, l’Esistente rimane sospeso tra il Logos e il ritirarsi nel Chaos. Di questo istante supremo la traccia non si trova nel libro di Giobbe, ma nel sacrificio di Abramo. Né comunque la «prova» cui Abramo è chiamato è comparabile con quella di Giobbe; nessuna sofferenza eguaglia quella che colpisce Abramo. A Giobbe è sottratta ogni cosa – a Abramo lo stesso futuro. I doni di cui Giobbe aveva goduto sono meno che polvere, bona impedimenta, avrebbero detto i Padri, metafisicamente distinti dal bene ricevuto da Abramo, suo figlio Isacco.
Abramo, l’uomo dell’«eccomi!», del perfetto ascolto, fa-esodo ancora una volta, e questa volta verso la miseria estrema, lo svuotamento totale. Lo fa in perfetto silenzio, a immagine del Silenzio del suo Dio. Nulla dice al figlio, come nulla gli dice il Signore, dopo il tremendo comando. Un deserto di Silenzio li accomuna, li stringe in un patto di cui nessun altro deve sapere. Questo è il Silenzio decisivo. Abramo non può che tacere sulla libertà del Signore che comanda e fa-essere ciò che liberamente vuole.
Solo il suo silenzio può corrispondere all’ineffabile della libertà divina. Ma essa è ineffabile poiché espressione della Libertà da cui proviene. Il Signore tace ad Abramo. La tragica scena non è disturbata dal rumore degli «amici» che pretendono di parlare al posto di Dio e di Giobbe: ma neppure dal lamento di Giobbe o da retoriche teofanie conclusive.
Breviloquio insuperabile, dove tutto l’essenziale mostra sé nel Silenzio: Abramo mostra nel suo silenzio che Dio non è determinabile-calcolabile, che il suo stesso «amore» non è nulla di necessario, che la sua Parola è traccia di una libertà che eccede ogni «logica». Dio non parla a Abramo durante quell’itinerario di morte non perché nulla voglia dirgli, per lasciarlo solo, ma perché nulla può dire e perché è solo di fronte alla Libertà da cui proviene. Questo vincolo di Silenzio li serra insieme.

giovedì 25 novembre 2010

l’Unità 25.11.10
Ragazzi ribellatevi
di Alfredo Reichlin


Le critiche al Partito democratico io esito molto ad esprimerle perché la sinistra è troppo piena di gente che per sentirsi intelligente ha bisogno di segare il ramo su cui è seduta. Ma c’è alla base qualcosa su cui oggi è molto importante ragionare. Io vedo ancora una relativa debolezza della nostra risposta al grandissimo interrogativo che si è aperto sulla vicenda storica dell’Italia. Detto senza enfasi: sul destino degli italiani. Questo è il tema che sta dietro la vicenda Berlusconi. Sta qui il cuore del conflitto, cioè di come si configura la lotta tra progresso e reazione a fronte di quella che è ormai chiaramente una crisi della nazione.
La gente non è stupida. Capisce che, arrivati a questo punto, l’uscita di scena di Berlusconi è una necessità vitale ma sente che il problema è più complesso. Intuisce che il “Caimano” è, dopotutto, la febbre non la malattia. Quale malattia? Il fatto drammatico che per troppo tempo abbiamo cercato di non vedere e che, per certi aspetti, ci rimanda ai secoli della grande decadenza italiana. A prima del Risorgimento, quando Metternich considerava l’Italia «una espressione geografica», governata come era da tante Padanie, piccoli regni e ducati tenuti in piedi dallo straniero. Quando non eravamo un popolo libero ma una plebe che delegava la politica ai preti tanto da pensare che «Franza o Spagna purchè se magna». L’attuale degrado dell’etica pubblica non è poi una grande novità.
Questo è il dramma che sta avvenendo sotto i nostri occhi. La vita dei nostri figli e nipoti si sta già impoverendo, stiamo già uscendo dal club dei grandi che contano. E se dopo 150 anni da Porta Pia viene in discussione l’unità della nazione, una conseguenza è certa: il destino della gioventù italiana sarà irrilevante. I nostri figli resteranno ai margini del mondo nuovo.
Qualcuno sta parlando così agli italiani? Sta dicendo così chiaramente che si è aperto uno «stato di eccezione» (come una guerra) e che nient’altro che questo impone un governo di “eccezione”, cioè di salvezza nazionale? Semplicemente questo è il problema che Bersani sta cercando di affrontare, certo alla sua maniera. C’è così tanto da ridire? Però è vero che il messaggio di Bersani è oscurato da troppe cose. Intanto dalle divisioni interne al Partito democratico. Chi comanda? È difficile affidarsi a un partito il quale è talmente democratico che non conta nulla essere stato eletto segretario da 3 milioni di persone. Chiunque può invocare le “primarie” per rimettere tutto in discussione. Si ammetterà che non è facile guidare in queste condizioni una delicata iniziativa politica di “salvezza nazionale”. Noi siamo ancora al punto che il primo che passa ci sfotte perché dice che non è chiaro se siamo alleati col “centro” oppure con la “sinistra”. Ma non è chiaro a chi? Certo a chi pensa che siamo nell'Inghilterra di Westminister e che Vendola è Gladston e Casini Disraeli. Come non si capisce che è la decadenza dell’Italia che chiede l’unità più larga in nome di riforme e cambiamenti radicali? I quali, però, sono sostenibili solo se qualcuno acquista l’autorità politica e morale per  fare appello non solo a Vendola o a Casini ma alle energie profonde del paese, ovunque siano collocate. Temo che una buona fetta del PD non abbia capito nemmeno che questa è la ragione d’essere di un partito nuovo rispetto ai partiti che fecero la Prima repubblica. È il nostro ruolo storico, è il terreno su cui possiamo affermare la nostra egemonia («vocazione maggioritaria», direbbe Veltroni) rispetto a una destra antinazionale, al leghismo, a formazioni neo-borboniche, a nuovi centri notabilari . Per non parlare di un’altra fetta del Pd che invece è affascinata dalle “narrazioni” di Nichi Vendola. Ma che cosa sta narrando questo mio vecchio amico pugliese? Io capisco tante cose, ne condivido perfino alcune. Ma anche Nichi mi sembra sostanzialmente fuori tema. Se non lo fosse si sarebbe assunto la responsabilità (forte anche della sua funzione di governatore della Puglia) di cominciare a rielaborare il nostro vecchio impianto della questione meridionale. Almeno in questo il Nord ha ragione, nel non accettare più il vecchio modo di stare insieme degli italiani. È affrontando un tema come questo che si diventa leader di una sinistra unita.
Io non so fare previsioni. So che la cricca che si è raccolta intorno a Berlusconi è disposta a tutto, perfino a tenersi stretta la camorra che controlla la “monezza” napoletana pur di non mollare il potere e le ricchezze su cui ha messo le mani. So però che le cose sono arrivate al punto che viene in campo, come bisogno storico, anche un’altra possibilità. È il bisogno di dare all’Italia quello che io chiamo un partito della nazione. Non un’altra reincarnazione della sinistra storica. Deve essere una forza nuova, capace di esprimere davvero una nuova “narrazione” circa il ruolo che un’Italia unita e progressista potrebbe avere in Europa e nel mondo. Non so che fine farà l'operazione politica e l’ipotesi di governo di cui parla Bersani. In ogni caso ricordiamoci che la politica non si esaurisce nella formazione dei governi. Dopo il lungo ciclo berlusconiano è tempo che la politica democratica torni ad essere la fucina di un “movimento reale”, quel tipo di movimento che «cambia lo stato di cose esistenti». È questo stato di cose che bisogna cambiare. E le condizioni per farlo a me sembra che si stiano accumulando. Quando giro l’Italia e incontro la gente, la cosa che più mi colpisce è la situazione dei giovani. Un immenso deposito di energie e di creatività sprecato, umiliato, (davvero “rottamato”) delle logiche attuali di mercato: il denaro fatto col denaro, un’immensa rendita che grava sui produttori della ricchezza reale per pagare i lussi faraonici di un’oligarchia finanziaria. Così, alla maggioranza dei giovani resta solo il lavoro precario. Per colpa anche di noi vecchi che sulle loro spalle abbiamo trasferito l’onere di pagare l’immenso debito pubblico accumulato. Quindi non c’è per loro futuro, speranza, innovazione. Ribellatevi. Le vicende di ieri sono un buon segno.

l’Unità 25.11.10
Sul tetto di Architettura assieme ai ragazzi che protestano da martedì
Il leader Pd «Vinte le elezioni cancelleremo questo disastro omeopatico»
Bersani coi ricercatori «Il governo contaballe fa crescere la rabbia»
Il segretario del Pd approfitta di una pausa nelle votazioni alla Camera per salire sul tetto della Sapienza e incontrare studenti e ricercatori. «Quale paese al mondo sega il sapere? Nessuno. Siamo solo noi... come dice Vasco»
di Simone Collini


Si arrampica su per l’ultima scaletta, quella esterna a pioli, col sigaro stretto tra le labbra e l’abito e il giaccone che non è che l’aiutino proprio nei movimenti. Uno dei ricercatori universitari che da martedì sono saliti sul tetto della facoltà di Architettura della Sapienza gli tende la mano. Pier Luigi Bersani si issa sul parapetto e sbuffa una nuvola di fumo e un «eccoci» con aria soddisfatta. «Sono qui per darvi appoggio e solidarietà ma anche per portare l’attenzione del Pd e dell’opinione pubblica su una questione dirimente per voi e per il Paese».
Bersani approfitta di una pausa nelle votazioni del disegno di legge sull’università per andare sul tetto di Architettura e parlare con studenti e ricercatori. Partono i sorrisi e le strette di mano ma arrivano anche delle critiche all’opposizione, anche per quanto fatto e non fatto quando era al governo. «Anche noi abbiamo avuto delle carenze, ma di cose come queste non ne abbiamo mai viste», risponde il leader del Pd. Parla dell’impegno in Parlamento per migliorare la cosiddetta riforma Gelmini «ci proviamo, ma tira un’aria...», dice con un sospiro e degli emendamenti presentati dal suo partito, «tutti con copertura finanziaria»: «Certo, poi c’è il tema del rigore, che però deve essere compatibile con l’equità. Quale paese al mondo sta segando la conoscenza e il sapere? Nessuno. Siamo solo noi, come dice Vasco».
Sul tetto Bersani e i ricercatori continuano a parlare, mentre alla Camera riprende il dibattito e il ministro dell’Istruzione Gelmini ne approfitta per puntare il dito contro la «sceneggiata sui tetti». Il leader del Pd non replica, ma definisce la riforma «un disastro omeopatico» perché «smantella l’università pezzo a pezzo». Se il leader del Pd si è messo a fare blitz come questo, o come quello a Palazzo Chigi per parlare dei rifiuti a Napoli o come quello all’Asinara per incontrare i cassintegrati della Vinyls, è perché vuole «riprendere il contatto con il paese reale», perché «le riforme senza popolo non si possono fare», e perché «quando toccherà a noi» questa riforma, se effettivamente verrà approvata, andrà cancellata. «E non mi frega niente che i “Soloni” dicano che non si può cambiare ogni anno, io non cambio se si può discutere, ma questa roba non ha né capo né coda».
COL PD AL GOVERNO VIA LA RIFORMA
Lo dice sul tetto e poi anche tornato alla Camera, dove intanto sono riprese le votazioni. Ma dura poco. I finiani chiedono una nuova pausa per far tornare il testo in commissione. Bersani esce in Transatlantico e ha poca voglia di scherzare di fronte a una cronista che gli domanda se sia andato anche lui a tirare uova. «Qui non c’è da scherzare, sono molto preoccupato per quello che sta succedendo. Questa riforma è un disastro. Il ministro racconta balle ogni giorno attorniata da gente che fa finta di crederle. Dovrebbe avere l’umiltà di ascoltare, di ricevere le persone. Su quel tetto c’è gente che ha vinto concorsi internazionali e che se passa questa riforma non sa più come fare perché non ci sono soldi, non ci sono prospettive. Gli studenti hanno la testa sul collo, non sono estremisti. Ma il governo gli racconta balle fino a farli colmare di rabbia perché si ostina a non voler ascoltare nessuno».

Corriere della Sera 25.11.10
«Addio mia bella» Bersani canta sul tetto con i ricercatori
«Riforma disastro. Ma io non tiro oggetti»
di Al. Ar.


Sul tetto c’è gente che ha vinto concorsi internazionali e non saprà più cosa fare Non ci sono soldi, non ci sono prospettive, questa riforma non va

ROMA — Agguanta la scaletta appesa al muro, il sigaro strizzato tra le labbra. Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, si arrampica facilmente anche sopra la seconda scala, quella che porta direttamente al tetto. Alla tenda accampata.
Qui, sopra la facoltà di Architettura nel pieno centro di Roma, hanno passato la notte in una quindicina per protestare contro la riforma dell’università. Una quindicina di ricercatori. Pier Luigi Bersani ieri su quel tetto ci è arrivato che era circa mezzogiorno e mezzo. Arrabbiato: «C’è un governo che racconta balle e traccheggia in Parlamento, mentre qui c’è gente disperata».
Gianfranco Bocchinfuso, ricercatore di Chimica all’università di Tor Vergata, ha freddo. «Non si scherza qui la notte con la temperatura e l’umidità», dice, spiegando che la loro è una protesta a termine. Ma decisa. «Siamo una quarantina di atenei collegati in tutta Italia nella "Rete 29 aprile". Siamo principalmente ricercatori, ma con noi ci sono anche studenti e precari».
È stato Gianfranco Bocchinfuso ad accogliere Bersani sul tetto di Architettura. Carlo Facchini lo ha fatto cantare.
«Io sono un ricercatore della musica», dice Carlo che ha indosso una camicia rossa dalla fattura garibaldina. E spiega: «Ho fondato un gruppo che si chiama la Carboneria, non ci rimane che quella». Ha portato la chitarra sul tetto, Carlo. L’ha suonata prima di andare a dormire, per fare calore.
E quando ieri Pier Luigi Bersani è arrivato si è messo a suonare di nuovo: «Addio mia bella addio...», il suo cavallo di battaglia. Il segretario del Pd, inaspettatamente, gli è andato dietro. Ha cantato con lui.
Verso le due e mezzo arriverà anche Antonio Di Pietro per arrampicarsi sopra quel tetto della protesta di Architettura. Il leader dell’Idv se ne andrà lasciando una promessa: quella riforma dell’università non potrà rimanere in piedi nemmeno un giorno se l’opposizione andrà al governo. Anche Bersani aveva garantito la stessa cosa.
La ripeterà dentro le aule del Parlamento. Mentre da Palazzo Madama rimbalza la polemica di Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl. Una provocazione: «Quei segretari di partito che salgono sul tetto finiscono per dare un esempio a coloro che sfondano i portoni delle istituzioni democratiche». Una provocazione che dal Pd respingono prontamente al mittente.
Dice, infatti, Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria del Pd: «Il tentativo di collegare artatamente l’inqualificabile attacco di un gruppo di violenti al Senato con l’iniziativa di solidarietà del segretario Pier Luigi Bersani nei confronti di ricercatori universitari è una penosa manifestazione di rozzezza e di volgarità».
Bersani era stato ancora più diretto: «Cerchiamo di prenderla un po’ seriamente questa cosa qui, non sono certo andato lì per tirare uova. Sul tetto c’era gente che ha vinto concorsi internazionali e che se passa questa riforma non sa più cosa fare. Perché questa riforma è un disastro, non ci sono soldi, non ci sono prospettive».
Ma il suo gesto era stato criticato anche da Giancarlo Lehner del Pdl: «Abbiamo già visto, abbiamo già dato, sempre che la storia insegni qualcosa all’arrampicatore Bersani, al Pd orfano del Pci e al resto della sinistra».

Corriere della Sera 25.11.10
Quell’iniziativa che manca al Pd
di Paolo Franchi


La Seconda Repubblica non si è dotata in quindici anni e passa di un lessico politico decente. E così per descriverne le convulsioni tocca ricorrere a formule che ci sembravano viete, e quindi maneggiavamo con ironia, già ai tempi della Prima. Dunque. Quando finirà il gioco del cerino, il rischio (molto concreto) è che si apra una crisi al buio. Per tanti motivi, ma soprattutto perché nessun partito di qualche peso è in grado di indicare uno sbocco nello stesso tempo dignitoso e realistico all’esaurimento del ciclo politico berlusconiano e (forse) di un bipolarismo all’italiana che, sin dai suoi primi passi, di Silvio Berlusconi ha portato le stimmate. Peccato che la situazione proprio non lo consenta. Avanti non si va, indietro non si torna? A cincischiare, basta uno sguardo a quel che va capitando in Europa, non si naviga a vista: si affoga.

Restiamo pure alle cronache. Domenica scorsa, davanti all’assemblea nazionale dell’Udc, Pier Ferdinando Casini ha ventilato la possibilità di un armistizio, cioè di un governo dotato di un nuovo programma e sorretto, grazie all’apporto di qualche transfuga, da una maggioranza più vasta di quella che c’era e (forse) è venuta meno. Il fiero no della Lega, e adesso pure di Silvio Berlusconi, Casini con ogni probabilità se li aspettava: in ogni caso aveva provveduto lui stesso a stimolarli, contestando l’egemonia leghista sull’attuale governo e confermando che di Berlusconi non si fida. Difficile dire se si aspettasse anche una reazione così nervosa della segreteria del Pd, che non gli ha chiesto chiarimenti, ma gli ha quasi intimato di decidere una volta per tutte se vuole fungere da comparsa in uno spettacolo che si avvia mestamente alla fine o partecipare da protagonista al cambiamento. È certo, però, che quella reazione spropositata ha colpito chi continua a pensare, magari ingenuamente, che alla principale forza di opposizione, seppure in difficoltà, spetti comunque il compito di indicare con qualche chiarezza verso quale sbocco politico intende indirizzare una crisi potenzialmente così pericolosa. Specie se, come nel nostro caso, per tanti motivi (ivi compreso, immaginiamo, il senso di responsabilità) non vuole e nemmeno può affidare a elezioni anticipate a breve scadenza la speranza di rimetterla in gioco.
Si capisce bene che l’idea di un Berlusconi bis, comunque apparecchiato, faccia drizzare i capelli in testa al Pd, alle cui orecchie il solo evocarla, ancorché vagamente, suona come la premessa di un cedimento: ma, se il problema era questo, bastava chiedere a Casini di essere più chiaro sull’argomento. Si capisce meno, invece, uscendo dalle miserie delle schermaglie quotidiane, perché non sia proprio il Pd ad avanzare in prima persona alle forze politiche (a tutte le forze politiche, ivi comprese, ci mancherebbe, quelle che le elezioni del 2008 le hanno vinte) la proposta di un governo di responsabilità democratica e di unità nazionale per mettere in sicurezza il Paese di fronte ai pericoli (economici, finanziari, sociali e civili) che lo minacciano così pesantemente. E ad avanzarla non a mezza bocca in qualche intervista, ma con tutta la solennità del caso. Berlusconi e Umberto Bossi risponderebbero di no, gridando al tentato inciucio? Probabilissimo, anzi, siamo onesti, pressoché certo. Però si dovrebbero assumere per intero l’onere del loro rifiuto. In ogni caso, gli interlocutori politici, probabilmente un’opinione pubblica sempre più preoccupata e domani, nel caso, gli elettori troverebbero una simile indicazione più netta, più comprensibile e meno strumentale di tanti chiacchiericci sui governi «tecnici» (che non esistono) e di scopo, sulla riproposizione di un governo «alla Ciampi», sui comitati di liberazione dal berlusconismo, sulla vocazione maggioritaria del Pd o, all’opposto, sulle alleanze prossime venture con un Terzo Polo (forse) in gestazione.
Le obiezioni sono note, le reazioni prevedibili. Mezzo Pd salterebbe su a gridare che questa è roba da Prima Repubblica, una ridicola riedizione del Pci anni ’70 che darebbe un colpo mortale al bipolarismo. Antonio Di Pietro, Beppe Grillo e compagnia (una compagnia vasta e combattiva, non c’è dubbio) strillerebbero al tradimento. Buona parte della sinistra-sinistra insorgerebbe perché così si smarrirebbe definitivamente un’identità che, tutto al contrario, andrebbe ricostruita. Non tutte queste contestazioni sono prive di fondamento, e soprattutto la loro presa è notevole. Certo è anche per questo che il gruppo dirigente del Pd (lo stesso, curiosamente, che viene criticato perché irrimediabilmente prigioniero del passato) fatica tanto a mettere a fuoco una proposta che il vecchio Pci, non solo Giorgio Amendola, avrebbe già avanzato da un pezzo. Ma, se si indica una prospettiva politica, si dà battaglia in primo luogo tra la propria gente per affermarla. Sempre, naturalmente, che se ne sia convinti. E che davvero si sia un partito. Perché le grandi coalizioni, proprio come le alternative di governo, le fanno i partiti. Anzi: i grandi partiti.

il Fatto 25.11.10
Atenei, prendiamo i soldi dagli evasori
di Alberto Burgio


Le polemiche sulla progettata “riforma” dell’Università si incentrano sui quattrini. Gran parte del provvedimento si risolve in un taglio della spesa deciso con la Finanziaria del 2008 e aggravato da quella di quest’anno. Ma affrontare il discorso in questa prospettiva significa deciderne le conclusioni già in partenza: i soldi scarseggiano, i tagli sono inevitabili. Forse però le cose non stanno così. L’università è un’istituzione fondamentale per il “pieno sviluppo della persona umana”. Perciò secondo la Costituzione “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. E per questo motivo “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” garantendo la libertà d’insegnamento. Sarebbe difficile enunciare con più chiarezza il nesso tra cultura e democrazia.
QUINDI razionalità vorrebbe che la spesa pubblica destinata al sistema formativo fosse considerata un investimento strategico. Ma la cultura costa: costano i libri, le aule, i laboratori. Costano i professori, gli studenti, il personale tecnico delle università. Per questo – si dice – i governi riducono la spesa e i disegni di “riforma” dell’Università prevedono tagli, aumentano le tasse d’iscrizione e svendono ai privati infrastrutture e servizi. La carenza di risorse è anche la motivazione addotta a sostegno della tesi meritocratica, cara pure alle forze di opposizione che condividono gran parte del ddl Gelmini. Anche per questo la “riforma” è considerata “un’occasione” dalla responsabile università del Pd e da Luigi Berlinguer, non rimpianto ministro dell’Università e della ricerca tra il 1996 e il 2000, che ne rivendica (a buon diritto) la paternità. In apparenza il ragionamento non fa una grinza. In tempi di vacche magre la selezione è più dura ed è giusto riservare le risorse ai docenti e agli studenti più capaci. In realtà proprio il combinato disposto meritocrazia+tagli alla spesa riposa su una mistificazione e rivela una preoccupante comunanza di idee tra il centro-destra oggi in crisi e il centrosinistra che ambisce a succedergli alla guida del paese. Pretendere che i migliori siano premiati è giusto purché non si perda di vista il diritto alla conoscenza che la Costituzione riconosce comunque a ciascuno (diritto, non dovere di pagare indebitandosi con i cosiddetti “prestiti d’onore”); purché a tutti siano assicurate adeguate condizioni di base e di crescita; purché, infine, si disponga di criteri di giudizio oggettivi (il che, per ciò che riguarda la ricerca scientifica, è notoriamente complicato). Chi ha a cuore il merito dovrebbe quindi in primo luogo sforzarsi di rimuovere gli enormi ostacoli che in una società ingiusta limitano l’uguaglianza delle persone. Ma legare la tesi meritocratica alla politica dei tagli comporta fatalmente conseguenze inique e controproducenti. Nessuno può sapere in partenza quanti siano i meritevoli. Partire da numeri chiusi e quote prestabilite significa disporsi a escludere anche chi meriterebbe di andare avanti, con un enorme spreco di risorse umane per la collettività e uno sconsiderato dispendio di sofferenza per gli individui. Non solo: come ogni strozzatura, il sistema delle quote trasforma la meritocrazia in un meccanismo di tutela delle oligarchie.
C’È UNA SOLUZIONE? Certo che sì e anche molto semplice. Riducendo la spesa militare e le regalìe fiscali agli evasori, ci sarebbero risorse più che sufficienti non solo per mettere in sicurezza l’intero sistema formativo del paese, ma anche per consentirgli di adempiere il compito fondamentale di generalizzazione della conoscenza che la Costituzione gli affida. Ciò significa che l’ordine del discorso andrebbe rovesciato, e che di soldi si parla come del problema-chiave dell’università italiana perché non si vuole che la scuola e l’università funzionino come dovrebbero, perché si sa che la mobilità sociale che ne deriverebbe produrrebbe terremoti e perché si progetta per le giovani generazioni di questo paese un futuro gramo, fatto di lavoro dequalificato, precario e sottopagato (con tanti saluti alla competitività delle imprese, che tanti giurano di avere a cuore). Che anche l’opposizione ragioni su questa materia in termini di pura ragioneria è solo un motivo in più di preoccupazione.

l’Unità 25.11.10
Proteste a Milano per la sede di Forza Nuova


Il comune di Milano ha deciso di concedere in affitto uno spazio comunale a Forza Nuova. Dure proteste in città da parte delle forze democratiche e antifasciste. Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, ha detto a Radio Popolare: "incontrerò il sinda-
co e le chiederò conto". E poi aggiunge: “Avrebbero dovuto sparire dalla storia e invece si riciclano come i mafiosi. Provo una tristezza spaventosa per il fatto che esista Forza Nuova, e che si moltiplichino in Europa. Perché noi, pochi sopravvissuti, quando siamo usciti miracolosamente dai lager nazisti, eravamo sicuri che fosse finita quell'epoca”.

l’Unità 25.11.10
Dagli Stati generali della cooperazione la denuncia dei fondi tagliati con la manovra Tremonti
L’accusa: «Assurdo stanziare 15 miliardi di euro per l'acquisto di 131 cacciabombardieri F-35»
Più armi e meno aiuti Processo al governo
Miliardi investiti per spese militari. Centinaia di milioni sottratti alla Cooperazione, al volontariato, all’aiuto verso i più deboli. Il Governo contro l’Italia del fare solidarietà. La dettagliata denuncia delle Ong.
di Umberto De Giovannangeli


Gli «Stati generali» della Cooperazione, della solidarietà concreta, del pacifismo e del volontariato, processano il Governo del Cavaliere Tagliatore e del Ministro Scure, al secolo Giulio Tremonti. Il «processo» ha avuto luogo ieri mattina presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati, A istruirlo è il Cini (Coordinamento Italiano Network Internazionali). Un documentato j’accuse: è quello sviluppato da Maria Egizia Petroccione, coordinatrice del Cini: «Regno Unito, Francia e Svezia hanno aumentato l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (Aps). Germania e Belgio non hanno tagliato le risorse rimarca Petroccione -. La Spagna ha tagliato del 20% ma dispone ancora di 4,2 miliardi di euro a bilancio per l’Aps. Nonostante la crisi economica, i Paesi seri mantengono gli impegni presi».
TAGLIEGGIATORI
Ma l’Italia governata dal Cavaliere non è annoverabile tra i Paesi seri. «In Italia, rileva infatti la coordinatrice del Cini la Legge Finanziaria per il 2011 conferma il totale disinteresse del Governo per la Cooperazione allo Sviluppo e l’esplicita volontà di non rispettare gli impegni internazionali in materia di lotta alla povertà». Mentre i bilanci di tutti i Ministeri si ridurranno in media del 10% e quello degli Affari Esteri del 9%, la Cooperazione allo Sviluppo subirà un taglio del 45%. Sulla legge 49/87 sono ufficialmente disponibili 179 milioni di euro nel 2011, ma al netto di impegni pregressi e delle spese di gestione del Ministero degli Affari Esteri si scende sotto i 100 milioni di euro. La legge 49/87 non ha mai raggiunto livelli così bassi valutati in termini nominali neppure negli anni dei sacrifici di tutti per entrare nell’euro. Il livello di Aiuto Pubblico allo Sviluppo attuale è il più basso dal 1996. Eppure sottolineano le Ong italiane esistono delle soluzioni possibili, lo dimostrano i Paesi che hanno mantenuto gli stanziamenti o li hanno addirittura aumentati, anche in tempo di crisi. «Il Terzo Settore ed i valori che esso rappresenta, sembrano essere sotto attacco da più parti: si tagliano drasticamente i fondi per la Cooperazione allo Sviluppo, si mette un tetto di 100 milioni di euro al 5xmille, riducendo così il gettito del 75%, si aumentano del 500%, da un giorno all’altro e senza alcun preavviso né confronto, le Tariffe postali agevolate, principale veicolo per la diffusione delle informazioni, per la sensibilizzazione e per la raccolta fondi delle organizzazioni della società civile. Per contro, nella stessa Legge di Stabilità troviamo un totale di 24 miliardi di euro per le spese militari e per armamenti», insiste Petroccione. «Le Ong italiane, con il fund raising privato inviano ai Paesi in via di sviluppo il 61% in più di quello di cui dispone la Farnesina», evidenzia Iacopo Viciani, autore del documento. «Adesso in piena crisi, il livello economicamente giustificato sarebbe attorno allo 0,28% del Pil», sostiene il rapporto.
DENUNCIA E PROPOSTA
Eppure esistono delle soluzioni possibili, lo dimostrano i Paesi che hanno mantenuto gli stanziamenti o li hanno addirittura aumentati, anche in tempo di crisi, si tratta solo di scegliere le giuste priorità. Tra le proposte avanzate, quella dell’introduzio-
ne di una Tassa sulle Transazioni Finanziarie Speculative, già adottata da diversi Paesi e per la quale è stata presentata una Proposta di Legge bipartisan alla Camera (n.3740 primo firmatario il Democratico Andrea Sarubbi), sottoscritta da deputati di quasi tutti gli schieramenti politici.
Il buon senso, ad esempio, è quello di disinvestire in spese militari. «Spendere 15 miliardi di euro per acquistare 131 cacciabombardieri F-35, come intende fare il governo, è una follia. Serve buon senso. Soprattutto se si pensa alle emergenze dell' Aquila, dell'alluvione in Veneto e ai tagli alla scuola», denuncia «Controllarmi», la rete italiana per il disarmo (a cui aderiscono tra le altre Acli, Arci, Pax Christi, Libera, Amnesty International), «Chiediamo un sussulto di dignità alla politica dice don Renato Sacco di Pax Christi abbiamo il sospetto che chi detta la linea sia Finmeccanica e non la politica. Chiediamo inoltre che non ci si dicano bugie: i soldi ci sono contro la crisi, basta spenderli nel modo giusto. I cacciabombardieri verranno costruiti a Cameri (Novara) e ci dicono che questo progetto impiegherà 10 mila persone. Ma è una bugia: i nuovi posti di lavoro non supereranno le mille unità. Con 15 miliardi di euro a disposizione anche io che sono un prete riuscirei a trovare mille posti di lavoro».
LA RAPINA
«Da domani, su quattro malati, ne potremo salvare uno. Chi sarà il fortunato?». È lo slogan, drammaticamente appropriato, con cui il CINI ha lanciato un appello alla Camera e al Senato perché si dica «no» ai tagli al 5mille previsti dalla nuova legge per la stabilità in discussione in Parlamento. «Infatti, secondo questa legge, rispetto all'intero ammontare del 5xmille, i fondi da destinare alle associazioni avranno un tetto massimo di 100 milioni di euro, mentre il resto verrà trattenuto dallo Stato. Una misura che, nel 2011, ridurrebbe del 75% l'importo destinato al terzo settore rispetto all'anno precedente», sottolinea ancora Maria Egizia Petroccione. L'appello, a cui hanno aderito associazioni e Ong internazionali e italiane, tra le quali Emergency, Amnesty International e Medici Senza Frontiere, è stato anche pubblicato online, sul sito www.iononcisto.org. E, in soli tre giorni, ha già raccolto più di 100mila firme. Con questa legge, «passeremo dai 400 milioni a disposizione nel 2010 ai 100 che saranno destinati l'anno prossimo, con gravi ripercussioni sulla operatività delle organizzazioni del terzo settore che hanno dimostrato, soprattutto negli ultimi anni, una professionalità molto elevata, oggetto di apprezzamento in Italia e all'estero», spiega la coordinatrice del CINI, secondo cui, nel lungo periodo, «occorre comunque stabilizzare il meccanismo del 5 x mille». Nella prima edizione, nel 2006, «il 5x mille era senza tetto. Dall'anno prossimo ribadisce Petroccione sarà di 100 milioni, limitando drasticamente la libertà dei cittadini di decidere come destinare la propria quota».

l’Unità 25.11.10
Tutta l’Europa contro lo stalking
Oggi solo sette paesi lo considerano un reato
di Silvia Costa


La violenza contro le donne, in ogni sua forma, viola la dignità e i diritti umani. È un ostacolo, ma anche un sintomo, nel processo di uguaglianza tra uomini e donne. Rappresenta un problema di salute pubblica, di insicurezza sociale e ha costi elevati per la società. Una donna su quattro in Europa subisce violenza fisica e in più del 10% dei casi si tratta di violenza sessuale. Per non parlare della quotidiana offesa che si perpreta sulla immagine delle donne nei media, specie italiani. L’ Onu e il Consiglio d’Europa si sono pronunciati, anche con convenzioni sottoscritte dalla maggioranza assoluta degli Stati aderenti, contro ogni forma di violenza alle donne. Il Parlamento europeo non riduce questo tema alla sola celebrazione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne: con la risoluzione di un anno fa, abbiamo chiesto alla Commissione europea una Direttiva sulla prevenzione e la lotta a tutte le forme di violenza (psicologica,fisica e sessuale) e sollecitato gli stati a riconoscere la violenza sessuale e lo stupro come un crimine. Inoltre abbiamo firmato una dichiarazione scritta per dedicare un anno a questo tema. Ad oggi, la Commissione ha prodotto la nuova strategia sulla parità 2010/2015, che dedica a questo un capitolo, e ha presentato la Direttiva sulla tratta, in discussione al Parlamento europeo.
Ma alla luce del Trattato di Lisbona e del Programma di Stoccolma, che prevede uno spazio giuridico europeo e il diritto alla libera circolazione delle persone in condizioni di sicurezza e garantendo la lotta alla criminalità, diventa urgente che le istituzioni europee e gli stati membri accelerino la costruzione di un sistema giuridico e giudiziario più convergente. La recrudescenza delle forme di “stalking”, ovvero di violenza interpersonale, di minacce, forme persecutorie, aggressioni e violenze reiterate è allarmante in tutta Europa. Solo nove Paesi membri, tra cui l’Italia per iniziativa legislativa di Barbara Pollastrini portata a termine da Mara Carfagna, prevedono il reato di stalking, con diversa graduazione della pena e delle misure restrittive e tutela delle vittime effettive o potenziali. In molti casi scatta l’ordine di protezione per la persona (in Italia all’80% donne e 20% uomini, all’85% italiani e al 15% stranieri) ,così come per altri reati di violenza, tratta o abuso.
Ma se non si accelera il riconoscimento del reato in tutta Europa, anche grazie alla mobilitazione dell’associazionismo in particolare femminile, alle donne parlamentari e ai media, si rischia che la tutela delle vittime e l’incriminazione dei colpevoli sia a macchia di leopardo e che in caso di mobilità non si sia protetti su tutto il territorio europeo. L’ appello é alla Presidenza del Paralamento europeo affinché si vada avanti, superando eccezioni giuridiche e mettendo al centro la persona e la sua tutela nello spazio europeo.

l’Unità 25.11.10
L’appuntamento Centinaia di iniziative per la giornata mondiale contro la violenza alle donne
Petali di rosa Dalla campagna di raccolta firme «End Fgm» all’iniziativa europea contro lo stalking
Uomini che odiano le donne: tutte le voci che dicono basta
Oggi è la Giornata Internazionale sulla violenza contro le donne. Tante le iniziative in tutta Italia per promuovere l’impegno delle istituzioni e la consapevolezza delle persone per un mondo più amico delle donne.
di Rossella Battisti


L’ultima vittima in Italia solo in senso cronologico, purtroppo ha il volto morbido e lo sguardo serio, quasi presago, di Emiliana Femiano. Una vita fermata a venticinque anni, domenica scorsa a Terracina, con sessantasei coltellate dall’ex fidanzato, secondo un copione tristemente uguale e banale. Quello che contribuisce un giorno su due ad accrescere sulle pagine di cronaca nera un campionario di violenze contro le donne, dallo stalking allo stupro, dalla discriminazione alle mutilazioni. Basterebbe questo per aderire di slancio alla Giornata Internazionale contro la violenza alle donne che si celebra oggi. Ma si può fare di più: sostenere le molte e belle iniziative in programma, firmare, fare passaparola, approfondire anche quelle tematiche che ci sembrano più lontane e che invece accadono, magari nella casa accanto, o alla ragazza che ci passa vicino.
PETALI DI ROSA
Sono Mara Carfagna, ministro per le Pari Opportunità, ed Emma Bonino, vicepresidente del Senato, a firmare i primi due petali di rosa della campagna oggi END FGM, promossa dall’Aidos e da Amnesty per l’abbandono delle mutilazioni dei genitali femminili in Italia, in Europa e nel mondo. Il petalo di rosa diventa metafora del clitoride mutilato e segno di speranza insieme per un futuro in cui nessuna bambina dovrà più subire questa atrocità. Sedici giorni, dal 25 novembre al 10 dicembre, per arrivare ad almeno 8mila firme al giorno. Si firma su www.endfgm.eu.
MAMMA-CORAGGIO
A Napoli l’evento clou della Giornata contro la violenza delle donne è la celebrazione in ricordo di Teresa Buonocore, la mamma-coraggio uccisa per aver denunciato e fatto condannare il violentatore della figlia. Alle ore 10,30, in via Generale Sponsilli, sotto il cavalcavia in prossimità del Varco Bausan, sarà ricordata con una targa in sua memoria, apposta proprio nel luogo dove due mesi cadde vittima di un agguato. Dedicata al tema dei maltrattamenti sulle donne è la pubblicazione «La violenza contro le donne», in distribuzione in questi giorni in tutte le scuole, offre suggerimenti su come affrontare il problema di un minore abusato. L'opuscolo sarà presentato, questa mattina alle 12, nella Sala Giunta di Palazzo San Giacomo, dove sarà illustrato anche il libro di Cristina Zagaria e Annamaria Scarfò, «Malanovà, la storia di una donna che ha osato sfidare il branco».
LIBERE DI ESSERE A ROMA
«Libere di essere» è l'evento di oggi al Cinema Anica di Roma. Durante la manifestazione verrà proiettato un video con il messaggio di denuncia ma anche di solidarietà e speranza dei tanti volti noti che hanno aderito, tra cui Fiorella Mannoia, Andrea Osvart, Valeria Marini, Irene Pivetti, Caterina Balivo e altre. L'evento prevede anche un talk show e l’intervento di Vittoria Sigillino, che canterà «Quanto costa essere donna», da 28 giorni al primo posto della classifica di Rai Music.
EUROPA CONTRO LO STALKING
Una prigione psicologica, fatta di telefonate, mail e sms ripetitivi, di appostamenti sotto casa, di diffamazione, ma anche di atti di vandalismo e minacce di violenza. È lo stalking, così come definito dagli studi condotti nel quadro del Programma Daphne della Commissione Europea. Per lottare contro questa insidiosa piaga, sta facendo passi avanti una proposta di direttiva per l'Ordine di protezione europeo che dovrebbe approdare in plenaria a dicembre e che permetterebbe di estendere la protezione in tutti paesi. Contro lo stalking solo nove dei 27 paesi della Unione Europea hanno una legge. Tra essi, dall'aprile 2009, c'è l'Italia.

l’Unità 25.11.10
Al Palazzo di Vetro la battaglia contro le mutilazioni genitali
«Il corpo delle donne è un campo di battaglia», avevo detto nella trasmissione di Fazio & Saviano Una rappresentazione lagnosa? Non direi: ecco il quadro, dagli stupri di massa alle violenze domestiche
di Emma Bonino


Lunedì sera, a Vieni via con me, ho detto che il corpo delle donne è un campo di battaglia, da tempo immemorabile e in ogni continente. Alcuni commenti sembrano suggerire che ho delineato un quadro troppo nero o «lagnoso» della situazione. Non credo.
È verissimo che in molti paesi le donne hanno conquistato nuove libertà e i movimenti al femminile sono i più vivaci ed innovativi. Penso in particolare all'Africa, al Medio Oriente e non solo. Ma proprio questa loro tenacia nel voler cancellare pratiche consuetudinarie violente e nefaste, questa loro forza e determinazione nel voler vivere rispettate come persone, da il segno tangibile della vastità del problema.
Oggi è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Una buona occasione per far mente locale sulle varie forme in cui si manifesta: dalla discriminazione di genere sul posto di lavoro agli stupri di massa documentati dall'Alto Commissario delle Nazioni Unite, dalle migliaia di Sakineh alla violenza domestica «Gli amorosi assassini» come titola un documentatissimo libro di un gruppo di scrittrici fino alla ventilata legge sui «consultori», a prima firma Olimpia Tarzia, qui nel Lazio.
Ma per una battaglia in particolare questo è un periodo decisivo: quella contro le mutilazioni genitali femminili (MGF). In Europa, Aidos e Amnesty International hanno lanciato la campagna «End FGM» per ottenere una direttiva europea sulla prevenzione della pratica e, a New York, diversi governi tra cui il nostro stanno lavorando assiduamente perche l'Assemblea Generale dell'Onu, attualmente in corso, adotti una Risoluzione per la loro messa al bando universale.
Gli esiti dell'azione diplomatica a New York non sono però scontati, con alcuni paesi che resistono, ricorrendo agli alibi più diversi. Per questo, personalità di rilievo internazionale e leader politici di 42 Paesi hanno sottoscritto un appello dell'associazione radicale «Non c'è Pace Senza Giustizia» e del Comitato Inter-Africano contro le Pratiche Tradizionali: Clio Napolitano e le First ladies di Burkina Faso, Uganda, Guinea Bissau e Benin, insieme a Premi Nobel, ministri, parlamentari e attivisti per i diritti umani chiedono a tutti i governi degli Stati membri di compiere i passi necessari per l'approvazione della Risoluzione.
Il vantaggio di questo risultato è triplice: rafforzare la legittimità delle leggi già adottate a livello di singoli Stati; spingere tutti quei Paesi non ancora provvisti di legislazione ad attivare i propri Parlamenti; conferire ulteriore efficacia alle dichiarazioni già adottate in sede Onu in materia di tutela dei diritti delle donne.
Inoltre, contribuirebbe a far piazza pulita di una visione stereotipata delle MGF, spesso erroneamente ricondotte a questioni di carattere culturale o religioso, oppure relegate esclusivamente all'ambito sanitario, che pure esiste ma che di certo non ne esaurisce la portata. Una Risoluzione di messa al bando significherebbe riconoscere le MGF per quel che sono, una patente violazione dei diritti umani fondamentali di donne e bambine.
Ma c'è un altro aspetto che merita attenzione. Per tutte quelle attiviste che hanno avuto il coraggio di affrontare apertamente la questione in contesti dove parlare di MGF voleva dire infrangere una secolare «regola del silenzio», rischiando talvolta la propria vita, una ferma presa di posizione della comunità internazionale avrebbe non solo l'effetto di legalizzare il loro impegno, ma di ricollocarle all'interno della società «dalla parte del giusto», dalla parte della legge.
Persone che probabilmente non avranno mai occasione nella loro vita di visitare il Palazzo di Vetro ma che credono che le Nazioni Unite e i suoi Stati membri abbiano il dovere e gli strumenti per fare del mondo un posto migliore in cui vivere.

l’Unità 25.11.10
Betornate al Medioevo
di Lidia Ravera


Attente, donne, il processo di smaltimento delle nostre storiche conquiste, continua. La Regione Lazio, governata da Frangetta Nera Polverini, ha approntato un nuovo inceneritore con l’attiva collaborazione di Tarzia Olimpia, bionda bio-cantautrice, specializzata in inni alla vita, purchè nello stadio embrionale (voi che siete nate da un pezzo non valete un soldo). È sua la proposta di far piazza pulita dei cari vecchi consultori, ottenuti da quella stagione di lotte che sembra appartenere a una felice preistoria, e di sostituirli con apposite Parrocchie della Procreazione, dove chi vuole interrompere una gravidanza non voluta viene convinta a volerla, quella gravidanza. In ogni caso. Se guadagna meno di 500 euro al mese le viene promessa una mancetta mensile (a Milano 250 euro). Se è spaventata le vengono prospettate le fiamme dell’inferno. Se è ben decisa ad abortire, le viene spiegato che è una lurida assassina. Se è poverissima, minorenne, handicappata, malata o femminsta, le viene proposto di partorire comunque, che poi il frutto-del-ventre-suo-gesù lo piazzano da qualche parte loro. Loro. Ma loro chi? Psicologi? Ginecologi? Macchè. Loro del Viva la Vita Fan Club. Quelli del Movimento Pro Life. Quelli che hanno nella Tarzia la loro cantatrice, oltre che la presidentessa e direttora di una decina di associazioni. Ascoltate i versi di «Per una vita mancata», in cui un embrione canta alla mamma dal buio dell’utero «che voglia ho di giocare con te». Ascoltate e tremate. Saranno gli integralisti della Famiglia Fondata sul Matrimonio, quelli della Maternità a Tutti i Costi purchè Naturale, a ricevere le donne con problemi di coppia, di riproduzione, di disperazione. Invece di essere aiutate, saranno giudicate, invece di essere accolte, condannate. Vogliamo provare a impedirlo?

il Fatto 25.11.10
Clandestini, immigrati, cittadini, i pilastri della saggezza di Obama
Come gli Usa accolgono i nuovi americani
di Furio Colombo


Di fronte all’immigrato che ha perduto tutto e rischiato la vita in cambio di una speranza ci sono i due battenti dell'unica porta per sopravvivere: uno è la legge, l’altro è l’accoglienza. La legge prevede un percorso duro e difficile quasi dovunque. Risponde a garanzie di civiltà quando non ci sono inganni e trappole per giocare la buona fede dei candidati. Per esempio, secondo il reato di clandestinità non deve colpire un nuovo venuto in qualunque momento di un corretto e legale percorso, durante la lunga attesa dei documenti. Ma mi accorgo che sto parlando di un Paese, l’Italia, che nel rapporto con gli immigrati s’è coperto di infamia: agguati di Stato per colpire chi ha già lavorato e arricchito il Paese ospite per anni e che viene arrestato e cacciato (dopo la prigione, dopo la finzione del reato, dopo mesi d’attesa in un centro di espulsione) spesso un padre isolato dalla famiglia che in tal modo è abbandonata, spesso una madre che non potrà mai più tornare dai figli.
La lettera del presidente degli Stati Uniti pubblicata in questa pagina per mostrare che è un percorso alto e nobile per connettere al nuovo Paese chi è stato costretto a migrare. Quel percorso porta all'ingresso di un grande Paese che non ha mai dimenticato di essere una terra popolata di emigranti in cui la diversità di radici, di cultura, di storia, di religione ha fatto la grandezza e l'unicità del Paese America. Anzi, come dimostra la biografia e il modo di fare politica di Obama, la diversità dilata l'orizzonte molto oltre i limiti del sogno.
LA FRASE INIZIALE e la frase finale dovrebbero apparire negli aeroporti americani per dire al mondo in che Paese arrivi. La frase iniziale: “È un onore per me congratularmi con lei per essere divenuto cittadino degli Stati Uniti”. La frase finale: “Io l’abbraccio come cittadino della nostra terra e le do il benvenuto nella famiglia americana”. Parole come queste, dette da un presidente, non possono essere ornamentali. Il pilastro della legge regge la nuova vita, non un vaso di fiori.
La legge, una legge protettiva e decente, esiste anche per l’Italia. È la Convenzione europea per i diritti dell’Uomo. L’Italia l’ha firmata, ne ha fatto un vincolo proprio e ora risulta, nel giudizio delle istituzioni europee e agli occhi di molti giuristi italiani, un impegno totalmente e brutalmente negato, su tutto ciò che riguarda i diritti umani sia dei cittadini italiani (quando carcerati) sia dei nuovi venuti o di coloro che per sfuggire a guerre e persecuzioni – cercano d’entrare in Italia.
Per queste ragioni i Radicali italiani hanno riunito il 22 e 23 alcuni dei più autorevoli giuristi: Zagrebelsky, Condorelli, De Sena, Bultrini, Conforti, insieme con Emma Bonino, Marco Pannella, Matteo Mecacci. Il tema: “Diritti umani in Europa, violazioni gravi in Italia”: È strano che nessun gruppo politico, specialmente quelli che hanno perso nei crolli del recente passato la loro identità politica, abbia scelto di raccogliere la bandiera dei diritti umani e civili dal campo disastrato della guerra dello Stato italiano contro i suoi cittadini (le carceri) e contro coloro che vorrebbero, con il loro lavoro, la loro nuova e diversa cultura e intelligenza, arricchire e allargare la provincia Italia e farne un Paese grande e rispettato perché civile. Ma il Paese è dominato dalla Lega Nord che ha preso la guida del governo e ha ormai le mani libere per ogni arbitrio, dalle motovedette libiche in mare alle ordinanze crudeli, arbitrarie, illegali dei sindaci della Lega Nord. Ecco che cosa hanno da dire i giuristi riuniti nella biblioteca della Camera dei Deputati:
a) la piena incompatibilità della politica di respingimento dei migranti con il divieto di trattamenti inumani, di espulsioni collettive, con la mancanza di rigore;
b) l’inaccettabile condizione delle carceri (e, si può aggiungere, dei centri di detenzione arbitraria degli immigrati da espellere);
c) la totale mancanza d’indipendenza delle informazioni televisive pubbliche. In esse – aggiungo – s’infiltra a piacimento il ministro dell'Interno o il presidente del Consiglio per intervenire o mentire a piacere.
Rileggere la lettera di Obama è importante per sapere che c’è un mondo sbagliato. Sfortunatamente è l'Italia.

Corriere della Sera 25.11.10
La colletta fra gli immigrati per salvare la società dell’italiano
Soldi e lettere dagli stranieri dopo la stangata sulla Dante Alighieri
di Gian Antonio Stella


Stangata La Finanziaria ha dato una sforbiciata del 53,5 per cento al contributo dello Stato

Tagli alla società Dante Alighieri e all’Accademia della Crusca? Una lezione arriva da un’associazione di immigrati. Che ha aperto una sottoscrizione per aiutare la conservazione della lingua italiana. L’appello era stato lanciato da Io Donna: sono arrivate lettere di sdegno, protesta, solidarietà. Molte delle quali firmate da stranieri. «Abbiamo scelto l’Italia come Patria e ora vogliamo aiutarvi». «Maggior difetto men vergogna lava», dice Virgilio nella Divina Commedia. Ma c’è qualcuno che si vergogna un po’, tra quelli che Einaudi chiamava «i padreterni», per i tagli con l’accetta alla società Dante Alighieri e all’Accademia della Crusca? Una lezione arriva da un’associazione di immigrati. Che ha aperto una sottoscrizione per aiutare la conservazione della lingua italiana.
Che la situazione dei conti pubblici sia pesante è vero. A dispetto delle sfuriate del Cavaliere contro i pessimisti e della sua tesi che «la crisi ha origini soprattutto psicologiche», lo stesso Franco Frattini, per spiegare la stangata alla Dante Alighieri, parla in una lettera di «eccezionale difficoltà della congiuntura». Così grave da obbligare alla «riduzione molto dolorosa» nonostante «l’opera meritoria svolta dalla società nel mondo e il suo ruolo fondamentale nella promozione della nostra cultura all’estero». Evviva l’onestà.
Detto questo, c’è modo e modo. Taglio e taglio. Come riassume Alessandro Masi, segretario generale dell’istituzione fondata nel 1889 da Giosuè Carducci, in una lettera a Franco Narducci, vicepresidente della Commissione esteri, la legge finanziaria in via di approvazione ha dato al bilancio della Dante Alighieri una «sforbiciata» del 53,5% che porta di colpo il contributo statale da 1.248.000 euro a 600.000».
Non basta: «Se a questo si sommano i 400.000 euro tagliati lo scorso anno sullo stesso capitolo (che era di 1.700.000 euro circa), siamo davvero di fronte alla sfoltita più dura e insopportabile che un Ente culturale italiano abbia mai subito in questi ultimi due anni». La Dante Alighieri ha 423 comitati sparsi per il pianeta, da Tashkent a Montevideo, da Bangkok a Città del Guatemala, da Minsk a Brisbane? Ha 220.000 studenti che seguono ogni giorno 3300 corsi di italiano? Segue «la vita dei nostri connazionali emigrati all’estero, dando conforto a comunità regionali presenti in ogni angolo del mondo, offrendo borse di studio e corsi di formazione»? Brava. Si arrangi.
Una scelta sconcertante . Tanto più se paragonata agli sforzi che altri paesi insistono a compiere per mantenere i loro istituti culturali.
Quali siano i numeri lo ricorda l’appello «Sos per l’italiano» sul sito www.iodonna.it: «Il British Council ha a disposizione 220 milioni di euro, il Goethe-Institut 218, lo spagnolo Cervantes 90, il portoghese Camões 13 e Alliance Française 10,6». Eppure, anche gli altri patiscono la crisi. Anzi, il nostro governo ripete tutti i giorni che «noi siamo meglio degli altri». Allora, come la mettiamo? È più giusto risparmiare togliendo ossigeno a un istituto che tiene alta nel mondo la cultura italiana o sarebbe meglio recuperare quei soldi, chiede il settimanale del Corriere, rinunciando ad esempio «a una decina di auto blu tipo Audi quattromiladuecento di cilindrata che vanno tanto di moda adesso per le trasferte di ministri e sottosegretari»? Quanto agli effetti della stangata sulle attività della Dante Alighieri, il segretario generale della società nel messaggio alla Commissione Esteri ha spiegato: «Tutto ciò significherà, per la nostra amministrazione, praticare drastici tagli a contributi per le nostre sedi, azzerare le borse di studio e gli assegni di ricerca per italianisti dell’estero, annullare i corsi di formazione per docenti, con impossibilità conseguente di assistere i nostri giovani discendenti di terza e quarta generazione, di promuovere conferenze e autori, di inviare libri per rinnovare le biblioteche, di proseguire i progetti avviati».
Lanciato l’appello, il sito di Io Donna è stato sommerso di lettere di sdegno, di protesta, di solidarietà. Molte delle quali firmate da stranieri. Altre da italiani con un nome straniero. Tra i quali Radwan Khawatmi, siriano di origine, arrivato in Italia trent’anni fa come manager alla Indesit, imprenditore nel mondo degli elettrodomestici con un fatturato intorno ai 60 milioni, uomo di centrodestra vicino a Gianfranco Fini, fondatore e presidente del movimento Nuovi Italiani.
Più italiano di tanti italiani, Khawatmi ha lanciato un appello ai 41 mila iscritti del suo movimento e a tutti gli immigrati «che rappresentano il 7% della popolazione, producono l’11,2% del nostro Pil pari a 130 miliardi di euro, consentono all’Inps di pagare le pensioni versando ogni mese 752 milioni di contributi, continuano a fondare nuove imprese (250 mila negli ultimi tre anni) in netta controtendenza sulla crisi».
Dice l’appello: «La lingua italiana è quel meraviglioso collante che ci unisce al di là delle differenze delle nostre origini, fede, credo e che ci permette di appartenere ad una grande nazione che abbiamo scelto come nostra nuova patria. Ho appreso che la società Dante Alighieri, che promuove la lingua e la cultura italiana nel mondo, rischia la chiusura a causa dei tagli annunciati dal Ministero del tesoro. Noi, nuovi italiani, che ci identifichiamo nella cultura e nella ricchezza della lingua italiana, non possiamo rimanere indifferenti di fronte a questa tragedia: il mio appello a tutti è di partecipare con un dono anche modesto di ciascuno di noi, quale segno tangibile della nostra fedeltà ed amore verso coloro che hanno fatto e continuano a promuovere la lingua italiana nel mondo. Io stesso provvederò ad aprire la sottoscrizione...».
Come andrà la colletta, bellissima per chi la fa e imbarazzante per chi ha deciso i tagli e per tanti italiani indifferenti al tema, si vedrà.
Certo è che in parallelo dovrebbe partire una iniziativa forte anche per l’Accademia della Crusca. La stessa istituzione fiorentina che dal 1583 cerca di conservare la purezza della nostra lingua è stata falciata dai tagli. Le spese vive ridotte all’osso per i sei dipendenti e l’affitto della sede che ospita anche l’Opera del Vocabolario Italiano del Cnr, spiega la presidente Nicoletta Maraschio, ammontano a 400 mila euro l’anno. Ai quali occorre aggiungere tutti quelli necessari (meno male che c’è la regione Toscana e che ci sono i privati...) per le mille attività dell’Accademia. Bene: lo Stato, taglia taglia, era già sceso a un contributo di 190 mila euro, un decimo circa del bilancio dell’istituto, meno della metà dei costi vivi se anche fosse cancellata ogni attività. «Come possiamo continuare a vivere?», ha chiesto in una lettera a Sandro Bondi, pochi giorni fa, Nicoletta Maraschio. Risposta dello Stato: nel 2011 di soldi ne arriveranno la metà: 95 mila. Il costo di una sola autoblu di lusso superaccessoriata. O se volete di qualche consulenza data ad amici, parenti, compagni di partito...





Repubblica 25.11.10
Svizzera, la guerra dei manifesti per il referendum sugli stranieri
Il voto sulle espulsioni dei "criminali" spacca il paese
di Anais Ginori


Un anno dopo la consultazione sui minareti si va di nuovo alle urne sugli immigrati
I sondaggi prevedono che domenica la proposta dell´Udc sarà approvata

GINEVRA - Dopo le pecore nere arrivarono ratti minacciosi, e infine apparve un feroce despota africano pronto a valicare le Alpi con le sue truppe cammellate. Quando le idee politiche si trasformano in fantasmi e strani animali non è mai un buon segno. Sulle rive del lago Lemano, tra scintillanti alberghi e boutique di sobria eleganza, è ricominciata la guerra dei manifesti, con toni e accuse vicini al delirio. È passato un anno dal voto contro la costruzione dei minareti, e gli svizzeri sono nuovamente chiamati a esprimersi sui temi legati all´immigrazione. La domanda posta dall´Udc, il partito di destra, ormai egemone, è diretta: «Siete favorevoli all´espulsione degli stranieri criminali?». L´obiettivo della consultazione è mandar via tutti i cittadini non svizzeri condannati per reati gravi che includono anche la truffa alle mutue pubbliche. Se domenica la proposta verrà approvata, come prevedono i sondaggi, la Svizzera sarà il primo paese in Europa a inserire una "doppia pena" per gli stranieri.
Sandrine Salerno è figlia di genitori immigrati. Madre francese, padre italiano. Socialista, 39 anni, da qualche mese è il sindaco di Ginevra. In meno di due generazioni ha visto la placida Svizzera rivoltata come un guanto. «Il nostro patto di convivenza - dice - rischia di andare in frantumi». Il 24% dei residenti non ha passaporto elvetico, 40% a Ginevra. «Suggerire che tutti gli stranieri sono potenzialmente dei criminali è solo un modo di fomentare xenofobia e razzismo». Eppure funziona, pare. Qualche giorno fa, Salerno è stata costretta a bloccare l´ennesima affissione abusiva. Una gigantografia di Muhammar Gheddafi. Slogan: «Vuole distruggere la Svizzera». La Libia ha protestato, si è sfiorata un´altra crisi diplomatica.
Ma la rimozione di qualche manifesto equivale al tentativo di contenere in un bicchiere la marea montante. I muri svizzeri sono diventati il campo di battaglia sul quale consumare l´ennesimo scontro di civiltà. Un cartellone nel quale si vede un uomo dal volto coperto: «Ivan S, stupratore e presto svizzero?». Ancora. Quattro giovani donne nude in un lago azzurro, e poi altre, coperte da un velo, immerse in acque torbide. «La Svizzera com´era, e come potrebbe diventare». Nel Canton Ticino i lavoratori transfrontalieri, tra i quali molti italiani, sono stati dipinti come topi pronti a mangiare il groviera locale. In codice si chiama "progetto pecore nere". Il gregge che scaccia via il diverso, come un intruso pericoloso. È il manifesto che ha costruito il successo elettorale dell´Udc alle elezioni federali del 2007, riproposto ovunque in questi giorni. Come un feticcio porta fortuna.
Tutto è partito da lì. La novità, oggi, è la reazione opposta e contraria. L´immagine di un gregge che esalta la diversità, con pecore di tanti colori, e promosso dal partito dei lavoratori. Lo slogan ironico dei giovani socialisti "Fuori tutti gli uomini" per ricordare che i criminali sono, prima ancora che stranieri, sono soprattutto esseri umani. Un imprenditore di Losanna ha pagato di tasca propria cartelloni con la scritta "Siamo tutti criminali stranieri!". Il politologo Oscar Mazzoleni, autore di un libro sulla storia dell´Udc, spiega che la destra svizzera è stata sempre un laboratorio di temi e idee, anticipando tendenze poi diffuse in tutta Europa. In passato, ci sono stati molti altri referendum sui temi dell´immigrazione, per lo più ignorati. «Ma con la globalizzazione e le nuove forme di competizione - aggiunge Mazzoleni - è entrato in crisi il modello economico basato sulla redistribuzione della ricchezza sui ceti popolari».
«Vogliamo solo ristabilire lo Stato di diritto e mettere un freno alla criminalità importata» dice Oskar Freysinger, esponente dell´Udc, promotore del referendum sui minareti. Razzista? Per carità, avete capito male. «Noi vogliamo ridurre la xenofobia facendo una chiara distinzione tra gli stranieri che delinquono e quelli che rispettano la legge». All´orizzonte vede nuove consultazioni. In effetti l´Udc ha spedito a milioni di svizzeri un questionario: «Quale politica estera volete?». «Non escludiamo di proporre una consultazione sull´adesione a Schengen», ammicca Freysinger. Tra un anno ci saranno le elezioni federali. I creativi sono già al lavoro per nuovi manifesti.


il Fatto 25.11.10
Goebbels, l’amante e la lezione del Fürer
di Paolo Soldini


“Era un uomo fascinoso e molto brillante. Raccontava storielle fantastiche e alle sue serate ci si divertiva sempre”. Attenzione al tempo dei verbi: è al passato, perché questa non è una storia di adesso. E si è svolta a Berlino, non a Roma o ad Arcore. L’uomo brillante era Joseph Goebbels, il genio malefico della propaganda di Hitler, l’istigatore del progrom del 1938 e il più acceso antisemita del regime nazista. La donna che negli ultimi anni ’90 ne parlava con tanto rimpianto (“mi amava, insieme saremmo stati felici”) era Ludmila Babkovà, in arte Lìda Baarovà, un’attrice di origine praghese ormai devastata dal morbo di Parkinson ma che da giovane era stata bellissima.
IL MINISTRO della Propaganda del Terzo Reich l’aveva conosciuta perché abitavano vicini, lui con la moglie Magda e 3 dei 6 figli che avrebbe avuto da lei (il nome di tutti iniziava con H, in omaggio al Führer che si dice amasse Magda in segreto), lei con il suo uomo, l’attore Gustav Frölich. Scatta la scintilla fatale. Goebbels non era tipo da perder tempo. Era bassino, un po’ stempiato, gracile, claudicante per una poliomelite infantile. Insomma, ben lontano dal tipo ariano che esaltava nei suoi comizi contro gli ebrei e le altre “razze inferiori”. Però aveva una bella voce, sapeva parlare e soprattutto sapeva quel che si dice alle donne. Lo chiamavano “der Bock von Babelsberg”, il montone di Babelsberg. Come ministro della Propaganda comandava i destini del cinema tedesco e questo aumentava notevolmente il suo appeal tra le attrici, più o meno famose, e desiderose di sfondare. E lui raccoglieva i frutti. Insomma, il ministro più fedele di Hitler aveva mille storie che Magda, assunta per volere del Führer a modello ideale della brava moglie e madre tedesca, sopportava e forse ripagava prendendosi con discrezione le sue libertà. Joseph, invece, discreto non era. Con la sua Liduschka, come la chiamava, si faceva vedere in giro, sollevando pettegolezzi e imbarazzi nel-l’establishment nazista: serate a teatro, prime nei cinema berlinesi, crociere al chiar di luna. Finché un bel giorno Goebbels commise un errore: propose a Magda di ufficializzare la situazione in un bel ménage à trois. Lei, infuriata, corse dal suo protettore. Hitler chiamò Goebbels e lo pose di fronte all’alternativa: o divorzi da Magda ma rinunci al potere e agli onori e te ne vai a fare l’ambasciatore a Tokyo, oppure rinunci alla tua bella praghese e tutto torna come prima. Nessuno sa esattamente come rispose, in un primo momento, il ministro.
Neppure lo storico Peter Longerich, autore di una accuratissima biografia di Goebbels (intitolata Joseph Goebbels Biographie) uscita in Germania, conosce la risposta. Si sa solo che in quell’anno, il 1938, il ministro scrisse in effetti una lettera di dimissioni. Ma se c’era stata davvero, la tentazione di mandare carriera e potere all’aria per la bella Liduschka dev’essere durata poco. Un paio di giorni dopo il colloquio con Hitler, Goebbels infatti chiuse la sua love story.
COME NELLE PEGGIORI tradizioni dei maschi codardi, lo fece per telefono accompagnando l’addio con la sorprendente raccomandazione a Lìda di “continuare a comportarsi bene”. Lei, a suo modo, obbedì. Dopo una tempestosa serata in un cinema di Berlino, dove fu accolta da grida, senza fare storie se ne tornò nella sua Praga e poi nel ’41 in Italia, dove riprese a fare l’attrice dimenticando i fasti dei successi berlinesi, che erano culminati in un film dal titolo premonitore Die Stunde der Versuchung, “L’ora della tentazione”. Dopo la guerra le autorità cecoslovacche la denunciarono come collaboratrice e Lìda Baarovà, tornata Ludmila Babkovà, rischiò la pena di morte. La condanna fu poi commutata in qualche anno di detenzione e, uscita dal carcere, Lìda se ne andò con il nuovo marito Jan Kopecky in Argentina, dove visse quasi in miseria. Quindi tornò in Italia, dove lavorò in qualche ruolo minore (è anche ne I vitelloni di Fellini). Nel ’58 sposò Kurt Lundwall, un medico trent’anni più vecchio di lei, e con lui si trasferì a Salisburgo, dove è morta nel 2000. Una fine triste, ma certo migliore di quella di Goebbels che, come si sa, si uccise nel bunker di Hitler il 1° maggio del ’45 dopo aver avvelenato i 6 figli e sparato a Magda. In una pagina dei suoi diari, scritta negli anni d’oro, aveva annotato: “Ogni donna mi scombussola il sangue, il mio eros è malato”. Lui, almeno, lo sapeva.

Corriere della Sera 25.11.10
Rawls, la rivoluzione dell’etica
In una società giusta le disuguaglianze sono a favore degli svantaggiati
di Giulio Giorello


«In principio Dio creò il Cielo e la Terra», racconta il Libro della Genesi; alla fine il Signore constatò che ciò che aveva fatto «era molto buono». E l’americano John Rawls (1921-2002) scriveva nel suo capolavoro del 1971 Una teoria della giustizia: «Le concezioni morali dovrebbero valere per tutti i mondi possibili: questo punto di vista fa della filosofia morale lo studio dell’etica della creazione: essa diventa un esame delle riflessioni che una divinità onnipotente potrebbe fare se volesse determinare quale sia il migliore dei mondi possibili». Senza ovviamente sentirsi Dio, questo riflessivo e tenace studioso di Harvard si era accinto a un compito quasi altrettanto titanico: definire i lineamenti di una società giusta e insieme rispettosa dell’autonomia dei suoi componenti. Noi esseri umani, però, non siamo né onniscienti né onnipotenti, e allora come prendere decisioni etiche sulla società in cui vorremmo vivere? Nessuno ha certezze circa il proprio progetto di vita; sappiamo solo che esso richiederà comunque alcune risorse di base (Rawls li chiamava «beni principali») quali la salute, la libertà, garanzie economiche nonché una (anche piccola) dose di soddisfazione personale. Abbiamo così «una concezione del bene sulla cui base si possono classificare le varie alternative che via via si prendono in considerazione, proprio come abbiamo una percezione delle leggi generali che governano il mondo».
Ma dobbiamo dimenticare qualsiasi informazione specifica particolare circa noi stessi e decidere le modalità del nostro contratto sociale «sotto velo d’ignoranza»: come se non avessimo idea alcuna di quale casella occuperemo nella società. È solo così che individui «razionalmente egoisti» si trasformano in «soggetti morali» nel senso auspicato da Kant: la migliore distribuzione dei beni principali sarà quella che massimizza i vantaggi per chi capita nelle posizioni più svantaggiate.
Questo è il nucleo della «rivoluzione rawlsiana» nella filosofia politica, come la chiama Sebastiano Maffettone, che ha dedicato anni di studi all’analisi critica dei principi di Rawls (e che attualmente insegna all’Università Luiss-Guido Carli di Roma). E come sottolinea ora in un’elegante Introduzione a Rawls (nella collana Maestri del Novecento edita da Laterza, pp. 221, 12), da tale approccio conseguono i due principi di giustizia che lo statunitense ha difeso in tante discussioni appassionate. Il primo è quel principio di reciprocità per cui tutti hanno pari diritto alla più estesa libertà compatibile con quella altrui; il secondo, noto come principio di differenza, è quello che ammette diseguaglianze solo se queste possono produrre vantaggi per gli svantaggiati: ed è questo che maggiormente ha suscitato dubbi e obiezioni. Per esempio da parte dei teorici dell’utilitarismo come il Nobel per l’economia John Harsanyi (per il quale il criterio di scelta migliore deve tener conto anche dell’eguale probabilità di finire a priori in una o nell’altra casella, e dunque mira a massimizzare l’utilità media di cittadine e cittadini senza insistere sugli svantaggiati) o quella del filosofo «libertario» Robert Nozick, per cui il miglior assetto istituzionale dovrebbe rispettare la condizione reale di ognuno, purché questa non sia stata ottenuta violando l’altrui libertà.
Non si tratta di dispute puramente teoriche: in gioco sono le misure che possono essere prese per smantellare la discriminazione di una particolare razza o etnia, per giustificare questa o quella politica di benessere sociale, per riformare la distribuzione di cariche e uffici pubblici. Tanto per fare un esempio, ricordate la polemica di qualche anno fa, anche qui da noi, sulle «quote» che in certi assetti istituzionali dovevano essere riservate alle donne per via del pregiudizio nei confronti della popolazione femminile? È innegabile — come bene dice Maffettone — che Rawls sia riuscito a coniugare insieme tradizione liberale e giustizia sociale evitando la trappola dell’ «egualitarismo puro» (per esempio di tipo marxista) che, eliminando drasticamente qualsiasi incentivo economico, si dimostra tipicamente poco efficiente. Rawls non sempre ha convinto i suoi critici; ma resta (specie in tempi di crisi globale) la rilevanza del suo obiettivo: progettare istituzioni, anche a livello internazionale, che non cancellino le differenze tra i soggetti coinvolti ma consentano vantaggi reciproci attraverso la cooperazione.

Repubblica 25.11.10
Bauman: così la solidarietà ci può salvare
di Randeep Ramesh


"Ero amico del padre del leader laburista E sono contento che il figlio si preoccupi dei più deboli"
Un colloquio con il sociologo sul futuro della politica. Partendo dal suo rapporto con Ed Miliband
"Sono per un ‘reddito´ minimo garantito ai più poveri: è una delle poche idee che permette la nostra resurrezione morale"
"Conta ritrovare il senso della comunità: perché se un individuo viene escluso non ha più protezione e può essere facilmente manipolato"

Benché abbia lasciato il suo incarico di docente di sociologia alla Leeds University nel 1990 per andare ufficialmente in pensione, l´ottantaquattrenne Bauman continua ad essere un autore prolifico, sfornando un libro l´anno dalla sua dimora nel verde dello Yorkshire. L´ultimo saggio, intitolato 44 Letters from the Liquid Modern World, raccoglie una serie di articoli scritti su vari fenomeni, da Twitter all´influenza suina alle élite culturale.
Bauman ha il pubblico di una vera star: quando è stato inaugurato l´istituto di sociologia che l´università di Leeds ha intitolato a suo nome, a settembre, più di 200 delegati stranieri sono venuti a sentirlo. Nonostante il plauso che riscuote, pare proprio che Bauman sia profeta ovunque meno che in Inghilterra. Forse dipende dal fatto che finora non si è prodigato a fornire ai politici teorie superiori per giustificare il loro operato e le loro motivazioni – a differenza di Lord (Anthony) Giddens, il sociologo autore della teoria politica della "terza via", sposata dal New Labour di Tony Blair.
Ma tutto è cambiato da quando alla guida del Labour c´è Ed Miliband che ha mutuato da Bauman la tesi secondo cui il partito aveva perso di umanità convertendosi al mercato. Così per il sociologo il nuovo leader offre una possibilità di "risurrezione" alla sinistra a livello morale.
«Mi sembra molto interessante la visione della collettività di Ed. La sua sensibilità ai problemi dei poveri, la consapevolezza che la qualità della società e la coesione della comunità non si misurano in termini statistici ma in base al benessere delle fasce più deboli», racconta Bauman.
Il rapporto tra Bauman e i Miliband è di lunga data. Il padre di Ed, Ralph, e Bauman strinsero una profonda amicizia negli anni ´50 alla London School of Economics. Entrambi erano sociologi di sinistra e ebrei polacchi d´origine. Entrambi fuggiti da regimi tirannici: Ralph Miliband scappò dal Belgio ai tempi dell´avanzata tedesca nel 1940 e Bauman fu espulso dalla Polonia quando i comunisti locali attuarono una purga antisemita nel 1968. Decisiva fu la scelta di Ralph Miliband di entrare a far parte, nel 1972, del dipartimento di scienze politiche dell´università di Leeds, dove Bauman insegnava sociologia. La casa di Bauman a Leeds divenne una tappa fissa per i figli di Milliband. Ed e David crebbero guardando i due accademici discutere del futuro della sinistra.
Bauman afferma che i fratelli Miliband già da piccoli erano «validi interlocutori… affascinanti e di straordinaria intelligenza per la loro giovane età». (...)
Neal Lawson, direttore del think tank della sinistra laburista Compass, afferma che l´appello di Ed Miliband a mobilitarsi «per chi crede che nella vita non contano solo i guadagni» e la sua energica difesa della «collettività, dell´appartenenza e della solidarietà» era in puro stile Bauman. Anche perché a differenza di quanto accade per altri sociologi l´opera di Bauman è accessibile, intellettuale e spesso polemica. La sua biografia – dalla fede comunista allo status di minoranza perseguitata all´analisi scientifica della quotidianità – rende difficile inquadrarlo. La sua teoria si fonda sul concetto che sono i sistemi a fare gli individui, non viceversa. Bauman sostiene che non è questione di comunismo o di consumismo, comunque gli stati vogliono controllare l´opinione pubblica e riprodurre le loro élite (...). La sua opera si incentra sulla transizione ad una nazione di consumatori inconsapevolmente disciplinati a lavorare ad oltranza. Chi non si conforma, dice Bauman, viene etichettato come "rifiuto umano" e depennato come membro imperfetto della società. Questa trasformazione «dall´etica del lavoro all´etica del consumo» preoccupa Bauman. Egli ammonisce che la società è passata dagli «ideali di una comunità di cittadini responsabili a quelli di un´accolita di consumatori soddisfatti e quindi portatori di interessi personali». Non c´è da stupirsi che i critici dipingano Bauman come un "pessimista".
Ma davanti ad una tazza di tè e a un assortimento infinito di pasticcini il canuto professore è il fascino in persona – per quanto pessimista sia. A suo giudizio è emerso tutto un vocabolario politico come "paravento" per intenti occulti. Così il termine mobilità sociale, ad esempio, è «menzognero, perché gli individui non sono in grado di scegliere la propria collocazione nella società». L´equità non è che una copertura per «lo spettro dell´assistenza concessa solo negli ospizi». (...)
Talvolta le scelte di Bauman risultano inquietanti. Dichiara di aver mutuato l´idea fondamentale del suo importantissimo saggio sull´Olocausto da Carl Schmitt, un politologo considerato vicinissimo a Hitler. Bauman sostiene che l´"esclusione sociale" di cui oggi si discute non è che un´estensione del postulato di Schmitt secondo cui l´azione più importante di un governo è "identificare un nemico".
Questo portò Bauman nel 1969 a sostenere che l´omicidio di milioni di ebrei non era il risultato del nazismo né l´azione di un gruppo di persone malvagie, ma frutto di una moderna burocrazia che premiava soprattutto la sottomissione e in cui complessi meccanismi nascondevano l´esito delle azioni della gente. L´Olocausto, afferma, non è che un esempio criminale del tentativo dello stato moderno di perseguire l´ordine sfruttando il timore degli "stranieri e degli emarginati". «Una volta escluse dai governi le persone non sono più protette. Le società iniziano a manipolare il timore nei confronti di determinati gruppi. Nelle fasi di crisi del welfare state dobbiamo preoccuparci di questa caratteristica della società».
Oggi Bauman è comunque ottimista sulla capacità della sua disciplina di trovare soluzioni per questi problemi. Con il calo degli iscritti al corso di laurea e la mentalità insulare la sociologia britannica si dibatte tra statistica e filosofia, ma, ammonisce Bauman: «Il compito della sociologia è venire in aiuto dell´individuo. Dobbiamo porci a servizio della libertà. È qualcosa che abbiamo perso di vista», dice.
Nonostante abbia la reputazione di criticare senza offrire soluzioni, Bauman è stato una voce importante nei dibattiti sulla povertà. La sua proposta di garantire un "reddito del cittadino", fondamentalmente il denaro sufficiente a condurre una vita libera, è stata una delle poche voci non conformiste nel dibattito sulle politiche di reimpiego (welfare-to-work). L´erogazione di denaro ai poveri, scriveva Bauman nel 1999, eliminerebbe «la mosca morta dell´insicurezza dall´unguento odoroso della libertà». Dieci anni dopo il reddito minimo garantito è entrato nel comune dibattito politico ed è una causa sostenuta da Ed Miliband.
Bauman si è sempre interessato di politica: il suo primo scontro con l´autorità pubblica ebbe luogo quando criticò il partito comunista polacco negli anni ´50 per la sua burocrazia fossilizzante e la spietata repressione degli oppositori. «La mia tesi era che il comunismo era animato solo dalla necessità di restare al potere».
Un decennio di simili eresie gli guadagnò l´espulsione dal suo paese a danno della Polonia e a beneficio dello Yorkshire. Oggi Bauman non mostra amarezza. È arrivato al punto di ignorare l´articolo di una rivista polacca di destra che nel 2007 lo accusò di essere stato per un periodo al soldo dei servizi segreti polacchi e di aver avuto parte nella purga degli oppositori politici del regime.
«L´accusa si basa su un ragionamento deduttivo. Poiché da adolescente ero membro di un´unità interna dell´esercito polacco devo necessariamente essere colpevole di qualcosa. Non c´è traccia di prove. Semplicemente non è vero», dice Bauman.
Nonostante l´esperienza maturata in decenni di attività intellettuale Bauman non si pone volentieri nel ruolo di vate, dice di non aver intenzione di "calcare i corridoi del potere" dispensando gemme di saggezza. Augura successo al Labour e resta profondamente pessimista circa il tentativo del governo di coalizione di dare un volto umano ai tagli alla spesa pubblica. «Ci siamo già passati con Reagan e la Thatcher», ammonisce.
© Guardian News & Media Ltd 2010
(Traduzione di Emilia Benghi)

Corriere della Sera 25.11.10
La lunga notte tutta italiana della musica classica e dell’Opera
di Marzio Pieri


O mia graziosa Musa io mi rammento. Un altro dei miei lapsus leopardiani. Musica a Musa sta come nicciàno a Nietzsche. Un derivato, equivoco o specialità. In grave crisi le cose della musica, non è cosa solo italiana, con un’aggravante tota nostra: la crescente sordità culturale delle classi che un tempo senza rigiri chiamavano popolo grasso. Ma fermi tutti; io che venivo quasi di campagna quando ne raccoglievo vellutati ammaestramenti avevo anche allora la sensazione più di un «quadrato» di classe ( Custer’s last stand) che di mùsiche competenze vissute.
Nella mia adolescenza fiorentina registravo un fronte compatto contro Wagner Liszt Strauss Mahler Bruckner Ciaikovski Puccini e il jazz. E contro l’Opera, da tenere in riserva mondanizzandola una volta l’anno al Maggio musicale. Fu a Milano diverso? Io ne subivo il fascino, magari dai rotocalchi ciascuno col suo critico musicale, eccellente scrittore di norma (per questo lo leggevi) e dalle copertine dei dischi della Callas con la Scala neoclassica. Tutti neoclassici allora, usciti dal liceo, tranne che la partita s’era chiusa assai prima di Stravinsky l’Innominato.
La mia scuola dell’Opera fu in famiglia e nel vocale rione: all’università appresi che non son le invenzioni a far l’uomo ma il desiderio a prefigurarle finché si ritrovano. I microsolco nacquero quando salì la richiesta d’ascoltare una sinfonia tutta di séguito, un’opera non solo a sospiri per quanto profumati. Dell’Opera mi avevano sedotto i recitativi. Nella scala delle conoscenze siamo con essi in miniera ma vicini a dio, l’esatto opposto di quanto sostengon gli alpinisti della domenica. Come leggi una pagina di Proust dove a vista nulla trovi di eccellente, compiti la Ginestra alla ricerca di snodi più intrinseci e segreti; non esser tanto vero che quel capolavoro sia un manifesto per la pace universale. Barthes ci avrebbe insegnato che uno cerca «un western», «un classico» come lo spatriato mette un disco con la voce dei suoi paesi.
Le occasioni non eran solo quelle di Montale, come quel pomeriggio di domenica che per via d’un biglietto di favore potei ascoltare nell’anfiteatro di Fiesole la banda dei gendarmi dar suoni «fisiologici» a Vita d’eroe. Che piacere una carta di Lele d’Amico a gloria delle bande di paese. Verdi? Una notte agostana ascoltai da una balaustrata di San Casciano la sinfonia della Giovanna d’Arco nel suo verbo ancestrale. In braccio avevo il primo figliuolo, forse accanto, di quelle parti, l’Orco Pacciani. La salvezza verrà dalla scuola? Infarinarsi a scuola della musica produce matrimonî senza amore. La scuola ha fretta, ingurgita solo robe preconfezionate. I miei figli ebbero l’ora di musica: maestre mai scaldatesi all’ascolto di un lied gli davan due per non aver memoria del nome di Lavigna maestro di Verdi. Io descolarizzerei perfino l’aritmetica. I teatri chiudono? Se un Fidelio di qualche pregio chiede un giorno di coda per lasciar alla cassa mezzo milione in due un professore è naturaliter escluso. Se lo potrà permettere una tantum ma lo tiene il pensiero degli allievi che no.
Ai miei tempi non era così. Il sogno per domani un teatro che apra tutte sere; entrarvi come un tempo in un buon cine. Utopia? La Germania è a due ore di treno, mettiamo dei tedeschi a rinsavire i nostri teatri. Ma la cosa economica è solo punta d’iceberg. Vacche grasse poche ne vidi sempre ma il paesaggio teneva, illudeva d’idillio. Se scuola vacillava fuori le vetrine dei librai lasciavano intuire che il mondo non finiva lì. Non era oro tutto che luceva ma il circolo teneva; rassicurato si metteva in mare anche chi si temesse meno armato. Poi si misero a dire il lettore non sa, l’allievo non ci arriva; come la libertà sacrosanta se ne fai buon uso cioè non ne fai uso. La sostanza migrante da un tronco all’altro, dal più al men bello e gagliardo non era scusa a svogliar dalla caccia. Venne a Firenze Karajan, i biglietti che dovevano attenderci in teatro non ci furono per un malinteso; mezz’ora dopo seduti in un cinema ci consolò alla pari la prima di un Visconti. Ora la notte è notte e solo notte.

Corriere della Sera 25.11.10
Grimaud: la musica senza il silenzio sarebbe solo rumore
di Giuseppina Manin


I giovani virtuosi cinesi come Lang Lang e Yuja Wang? Sono bravissimi: si tratta di una generazione molto matura. Alla loro età io non mi sognavo di avere una determinazione così forte. Forse però tutto è arrivato loro troppo in fretta: per crescere serve più tempo Alla fine sono riuscita a incanalare il surplus di energia che mi squassava, rischiando di distruggermi

MILANO — Domare la belva che le mordeva l’anima non è stato facile. Solitaria, ribelle, bellissima: una fata silvana dagli occhi pervinca come i campi di lavanda della s ua Pr ovenza, Hélène Gri - maud è musicista di raro talento e cuore selvaggio. Il primo dicembre ne darà nuova prova al concerto che la vedrà solista al Conservatorio di Milano in un programma che spazia da Mozart a Berg, da Liszt a Bartók. Lo stesso che si può ascoltare nel suo nuovo cd, Resonances, registrato dal vivo lo scorso maggio al Musikverein di Vienna per la Deutsche Grammophon, e che ha la sua centralità proprio nella rara e intesa sonata berghiana. Che Grimaud esegue con quella passione e impeto che hanno segnato la sua vita e la sua arte. Votata al piano già a sette anni, a 18 osannata a Parigi sotto la direzione di Barenboim, a 21 molla tutto, va in crisi, si trasferisce negli Stati Uniti, va ad abitare nei boschi del Connecticut. Dove una sera, come nelle fiabe, incontra un lupo. Anzi una lupa. Che invece di divorarla, le si avvicina, l’annusa, le strofina il muso contro la mano delicata, strumento primo del mestiere. «Sentii dentro di me un’ondata di calore, di emozione, di forza primordiale. Proprio come quando ti innamori», racconta Hélène, oggi 41enne.
La bella e la bestia. Anzi le bestie, visto che tanti sono stati i lupi di cui la pianista si è presa cura. Magnifiche creature, maestri di libertà e coraggio. Grimaud sente per loro un’attrazione ancestrale, un richiamo irresistibile, quasi fosse una di loro. Francescana o licantropa poco conta. «I lupi sono una via verso la musica», sostiene. Per proteggerli dall’estinzione fonda il Wolf Conservation Center; rende loro omaggio nella sua autobiografia Wild Harmonies: a Life of Music and Wolves. Finché un giorno, giocando con uno dei "suoi" beniamini, la belva prima le lecca il viso come fosse un cane, poi di colpo l’afferra alla gola, la morde… Per fortuna niente di grave, ma abbastanza per riconsiderare il rapporto con gli animali. Grimaud prosegue nella sua opera di tutela ambientale, mettendo però tra sé e le fiere la giusta distanza.
Nel frattempo il suo legame con il piano si fa anche più saldo. «Suona sotto la direzione di Temirkanov, Claudio Abbado, Jeffrey Tate, Kurt Masur, Pierre Boulez, Riccardo Chailly. «Maestri straordinari, maghi dei suoni — li definisce —. La loro forza di concezione artistica, la loro visione, per un pianista è ogni volta fonte di nuova ispirazione».
Venticinque anni di emozioni e tensioni estreme. Concerto dopo concerto, senza mai fermarsi. Ogni sera impegnata alla tastiera in una lotta corpo a cuore contro i propri demoni. A fermarla ci pensa la malattia. Una brutta polmonite degenerata in una sindrome da fatica cronica. Hélène deve fare i conti con la sua fragilità di donna. «Sapevo che prima o poi avrei dovuto prendermi un periodo di riposo, ma non immaginavo così. Prima mi sono spaventata, poi mi sono resa conto che quel che accadeva era inevitabile. Quando l’anima ti obbliga a metterti in costante discussione, il corpo reagisce, anche violentemente». Lunga convalescenza, tanto tempo per pensare, per rimettere in ordine i valori. «Ho ristabilito priorità, ho preso coscienza di quello che era essenziale. Il mio bisogno vitale di suonare, la forza del desiderio e la gioia di questo privilegio, troppe volte dato per scontato. Alla fine penso di essere uscita da questo percorso più forte e serena di prima». Dopo una grave malattia Claudio Abbado ha detto che la musica l’ha fatto guarire. «È stato così anche per me. La musica mi ha aiutato a incanalare quel surplus di energia che mi squassava, rischiando di distruggermi. Ho imparato a canalizzare quella violenza che mi tormentava. La musica è l’estensione del silenzio. Senza silenzio sarebbe solo rumore. Ti aiuta a fare ordine, a mettere in moto lo spirito, a ritrovare l’equilibrio e le relazioni con gli altri. La musica mi ha salvato. La musica e i lupi».
Che ne pensa delle giovani star della tastiera di oggi, del fenomeno Lang Lang, della giovanissima Yuja Wang? «Bravissimi. La loro mi sembra una generazione molto matura, dotata di una determinazione che io, alla loro età, certo non avevo. D’altra parte penso però che oggi tutto vada troppo in fretta, a ritmi forzati. Per crescere invece c’è bisogno di tempo».

Repubblica 25.11.10
Così l´Osservatore Romano ha raccontato un secolo e mezzo della vita politica italiana Dal trafiletto che affondò la candidatura di Fanfani al Quirinale fino al silenzio sul caso Boffo
I "singolari" 150 anni del giornale del Papa
di Filippo Ceccarelli


La lunga storia del quotidiano celebrata con un volume a più voci

Con leggero, ma significativo anticipo sui 150 anni dell´unità d´Italia, in qualche modo fedele a uno dei due motti, Unicuique suum, che si leggono sotto l´elegante testata, anche l´Osservatore romano viene celebrato per il suo secolo e mezzo; e così esce in libreria un cospicuo volume a più voci, "Singolarissimo giornale", a cura dell´ex ambasciatore italiano presso la Santa Sede Antonio Zanardi Landi e dell´attuale direttore del quotidiano Giovani Maria Vian (l´editore è Umberto Allemandi & C., le pagine sono 283).
Operazione storico-editoriale, da quel che si intuisce a prima vista, molto accorta, molto seria, molto cauta, molto ufficiale e quindi anche, sia detto con rispetto, molto, ma molto di potere. Forse troppo: ma poteva essere altrimenti?
Sia chiaro: gli studiosi, da Gianpaolo Romanato a Ennio Di Nolfo, da Andrea Riccardi a Carlo Cardia, fino a Sergio Romano, sono fra i più competenti; e sebbene moderatamente assortiti sul piano culturale e comunque scelti in base a un approccio abbastanza tradizionale e paludato, dentro il libro c´è tutto quel che del glorioso foglio del Vaticano ("parola grossa", chiosa il futuro Paolo VI in un articolo che oltre a regalare il titolo al volume, si connota come gradevole, arguta e anche non convenzionale testimonianza, com´è raro trovarne da quelle parti da qualche anno a questa parte), ecco che senza dubbio vi si trova quanto è giusto sapere della lunga storia dell´Osservatore.
E quindi l´ardore intransigente dei suoi esordi in una nazione senz´altro ostile ai cattolici e ancora di più alla Santa Sede. E poi l´alta figura del suo più longevo direttore, il conte Della Torre, straordinario esemplare di aristocratico colto che fin dall´inizio seppe garantire un respiro internazionale alla pubblicazione. E ancora risalta il ruolo e anche il coraggio del quotidiano nei tempi del fascismo, "quando ci siamo accorti – dovette riconoscere Piero Calamandrei – che l´unico giornale nel quale si poteva ancora trovare qualche accento di libertà, della nostra libertà, della libertà comune a tutti gli uomini liberi era l´Osservatore romano"; e chi lo comprava, magari solo per andare a quella voce libera che erano gli Acta diurna di Guido Gonella, beh, "era esposto a essere bastonato".
Poi, sì, certo, la storiografia francese, inglese o americana si preoccupa anche di farsi leggere e la vita di un giornale è fatta anche di ambienti, di umanità, di personaggi; e da questo punto di vista, almeno per chi è del mestiere - e non necessariamente confonde lo scorrere delle vicende coi pettegolezzi - una vera biografia dell´Osservatore sarebbe davvero fantastica: curiali e sant´uomini, incogniti e pazzi di Dio, spioni e specialisti unici al mondo. E sullo sfondo, condizionato da un inesorabile intreccio, lo svolgersi della vita non solo apostolica ed ecclesiastica, ma anche politica e se si vuole anche un po´ tribale dell´Italia.
Per dire: il trafiletto che inabissò la candidatura di Fanfani al Quirinale; o il complesso rapporto che per vincoli biologici finì per legare la lunga direzione di Mario Agnes, il fratello ascetico e segaligno di Biagione, alle res gestae del clan demitiano degli avellinesi, poco prima della scomparsa della Dc; o ancora il braccio di ferro dell´ultimo Wojtyla con gli americani sulla prima e la seconda guerra all´Iraq; fino a giungere – ma questo è davvero troppo pretendere che sia già storia – all´enigmatico silenzio del "giornale del Papa" (così s´intitola l´esaustivo saggio del direttore Vian, pure riconoscibile in foto, per quanto tagliato, al fianco di Benedetto XVI in aereo) a proposito del caso Boffo; silenzio tanto più significativo alla luce del giudizio, invero avventatello, emesso pochi mesi prima dal saggio Osservatore a lode del neonato Pdl e dei suoi "valori" nell´idolatrica Città del Sole che il berlusconismo aveva impiantato tra i capannoni della Fiera di Roma.
Ma come recitano antichi adagi piuttosto in voga oltre il cancello di bronzo, tutte queste sono cose che creano specialissime grane e come tali opportunamente liquidabili con un gesto di fastidio della mano, o rimesse al futuro previa una più tollerante alzata degli occhi al cielo.
Però francamente colpisce e un po´ anche dispiace che, trattandosi di una lunga storia mediatica e per di più internazionale, non si trovi nemmeno un accenno a Marshall McLuhan, che nella Chiesa di Roma dal protestantesimo entrò "in ginocchio", e che qualcosina sul presente e sul futuro della comunicazione avrebbe anche da dire. E invece ecco che ad aprire è il ministro degli Esteri Frattini, con il suo diplomatico compitino; e in linea governativa si prosegue con l´immancabile Gianni Letta, che se la cava senza grande trasporto.
Poi arrivano i saggi veri. Ma a quel punto, anche senza rivelarsi troppo schizzinosi, viene pure da chiedersi se questi 150 anni non meritassero un sovrappiù di spirito o, se si preferisce, di anima.

Repubblica 25.11.10
Profilattico
Perché è diventato un simbolo del rapporto tra morale e sessualità
di Vito Mancuso


L´apertura di Benedetto XVI all´uso del preservativo ha riacceso il dibattito sul tema. Che tocca la Chiesa e la dottrina ma anche il resto della società
Il cambiamento di direzione implicato nelle parole del papa è netto e molte tesi dovranno essere riformulate

Il mondo intero si è interrogato incuriosito sulle parole di apertura di Benedetto XVI all´uso dei preservativi contenute nel libro-intervista Luce del mondo con il giornalista tedesco Peter Seewald. L´agenzia dell´Onu per la lotta all´Aids ha applaudito, la Sala stampa vaticana ha precisato, i giornali di tutti gli orientamenti hanno lungamente commentato. Persino a me sono arrivate telefonate dall´Italia e dalla Svizzera per prendere posizione e partecipare a pensosi dibattiti. Ma che cosa è successo per giustificare tutto questo polverone? Siamo in presenza di una svolta reale, o di una delle tante montature mediatiche? Tanto rumore per nulla, o c´è qualcosa che invece giustifica il clamore?
Qualcosa in effetti c´è, e non è di poco conto: consiste nel fatto che Benedetto XVI ha affermato che per l´uso del preservativo "vi possono essere singoli casi giustificati". Anzi, è arrivato a connotare il ricorso al preservativo come "il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità". Parole inaudite, nel senso letterale del termine perché nessuno mai le aveva udite, non solo da una mente poco incline alle aperture progressiste come quella dell´attuale papa, ma da tutti i papi precedenti. Mai un papa, prima di queste dichiarazioni di papa Ratzinger, era arrivato a tanto.
Il che comporta anzitutto il mutamento di un principio dottrinale: d´ora in poi nei documenti del magistero e nei manuali di teologia morale non si potrà più affermare che i preservativi sono un mezzo "intrinsecamente cattivo" (vedi Humanae vitae 14 e Catechismo 2370) e quindi sempre da evitare a prescindere dai fini che si intendono perseguire. Da oggi, chiunque tra i vescovi e i teologi sosterrà che i preservativi sono sempre e comunque cattivi, verrà per ciò stesso ad attribuire a Benedetto XVI, che in alcuni casi li ha ammessi, la morale di sapore machiavellico secondo cui i fini giustificano i mezzi. In realtà, se ci sono casi in cui si possono lecitamente usare, i preservativi non possono non essere leciti.
La dottrina morale della Chiesa ha registrato una piccola, timida, imbarazzata, ma al contempo chiara e significativa svolta. Nulla di epocale, certo, il direttore della Sala stampa vaticana padre Lombardi ha ragione nel dire che le parole del papa "non sono una svolta rivoluzionaria". Ci vuole ben altro per compiere la salutare "rivoluzione" di cui ha urgente bisogno la morale sessuale cattolica al fine di giungere a parlare concretamente alla vita degli uomini e liberarsi dall´ipocrisia di precetti proclamati dal pulpito ma oramai largamente ignorati nelle coscienze. La strada è ancora lunga, e chissà quanto aspra, per far sì che anche a livello di morale sessuale si introduca il rinnovamento operato nella morale sociale dal Vaticano II, e che Paolo VI impedì che avvenisse scrivendo nel 1968 l´enciclica Humanae vitae in aperto contrasto con la commissione pontificia da lui insediata espressasi a favore della liceità morale dei preservativi. Quella decisione di Paolo VI soppresse, nel metodo prima ancora che nel merito, lo spirito del Concilio, causando la rivincita della componente conservatrice oggi perfettamente compiuta.
Tuttavia il cambiamento di direzione implicato nelle parole di Benedetto XVI è netto, e la dottrina, a meno di equilibrismi imbarazzanti, dovrà necessariamente riformularsi. Se è vero infatti che il papa scrive che "le prospettive della Humanae vitae restano valide", è altrettanto vero che ora ha avuto la saggezza di aggiungere che "altra cosa è trovare strade umanamente percorribili". Proprio così: una cosa sono i principi, un´altra cosa le strade veramente percorribili dagli uomini e dalle donne concrete alle prese con la vita concreta. E la morale consiste proprio in questo: nella coniugazione tra l´altezza dei principi e le strade concretamente percorribili. È quanto insegna da sempre la dottrina del cattolicesimo, anzi secondo Tommaso d´Aquino "quanto più si scende nei particolari tanto più aumenta l´indeterminazione" (vedi Summa Theologiae I-II, q.94, a.4 co.), passo così commentato da un recente documento della Commissione Teologica Internazionale: "In morale la pura deduzione per sillogismo non è adeguata. Quanto più il moralista affronta situazioni concrete, tanto più deve ricorrere alla sapienza dell´esperienza, un´esperienza che integra i contributi delle altre scienze e cresce al contatto con le donne e gli uomini impegnati nell´azione. Soltanto questa saggezza dell´esperienza consente di considerare la molteplicità delle circostanze e di giungere a un orientamento sul modo di compiere ciò che è bene hic et nunc" ("Alla ricerca di un´etica universale", paragrafo 54). San Tommaso giunge persino a specificare che tra le due conoscenze che formano il giudizio morale, cioè i principi dottrinali da un lato e la situazione reale dall´altro, se proprio si deve privilegiare qualcosa "è preferibile che questa sia la conoscenza delle realtà particolari che riguardano più da vicino l´operare" (Sententia libri Ethicorum, Lib. VI, 6). Vale a dire: sono molto più vicini alla verità i missionari e le missionarie che incoraggiano l´uso dei preservativi, che non i teologi moralisti dei palazzi vaticani che tengono fermi i principi dottrinali ignorando la vita reale. Ora, finalmente, anche Benedetto XVI è giunto a toccare la realtà della vita reale, ben diversamente da quando aveva affermato durante il viaggio in Africa che nella lotta all´Aids il preservativo non solo non aiuta ma peggiora la situazione. È sperabile che da queste sue più sagge parole possa avere origine ciò che il teologo Ambrogio Valsecchi auspicava vanamente già nel lontano 1972, cioè "nuove vie dell´etica sessuale"?
Anche perché, a pensarci bene, quello che è veramente clamoroso è il clamore suscitato mondialmente da queste semplici parole di buon senso del papa che rimandano all´abc del comportamento prudenziale, paragonabili a "ricordati di allacciare le cinture in macchina", "sta attento agli scogli quando ti tuffi", "non accettare caramelle dagli estranei". Ma anche questo, forse, è un segno del profondo rinnovamento di cui c´è urgente bisogno nella Chiesa cattolica e di cui la direzione era già stata indicata dal Concilio Vaticano II, ormai quasi mezzo secolo fa: "La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell´uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell´intimità propria… Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali" (Gaudium et spes 16).

Repubblica 25.11.10
L'oggetto innominabile
di Natalia Aspesi


Divenne sussurrabile quando si diffuse la dizione inglese "condom", che lo faceva sembrare meno diabolico, ma era cosa che non riguardava le ragazze dette da marito, ma solo le favoleggiate prostitute nelle case chiuse

Le resistenze e le diffidenze del nostro Paese
Amore, eros e pregiudizio

Le signorine degli anni ´50 non ne conoscevano l´esistenza, o almeno facevano finta, per dimostrare la loro spesso simulata innocenza. In ogni caso, non lo si nominava mai, era una diavoleria peggio del peggio, che era poi lasciarsi intrappolare su un prato o chissà dove da uno svelto giovanotto: che naturalmente non ne era provvisto e se poi succedeva l´irreparabile, con conseguenze tragiche quali ritrovarsi incinta, beh, peggio per lei, fosse stata davvero una brava ragazza, avrebbe preferito la morte piuttosto che cedere. L´innominabile preservativo, che divenne sussurrabile quando si diffuse la dizione inglese, condom, che lo faceva sembrare meno diabolico, era cosa che non riguardava le ragazze dette da marito, ma solo le favoleggiate prostitute, anche loro, a quei tempi, invisibili in quanto indaffarate nelle case chiuse, se non nei film in cui erano sempre sanissime e buonissime e morivano affinché l´amato potesse sposare la candida fidanzata.
Il solo scopo del misterioso oggetto di cui non si conosceva la materia (morbida, ferrea, di gomma, di plastica?), né la forma, avendo anche poca dimestichezza con ciò che doveva contenere (un cappellino, un grosso tubo, il dito di un guanto?), era quello di proteggere l´uomo conquistatore dalle malattie veneree, pestilenza lontana che non poteva riguardare le brave ragazze, neppure se, pur mantenendosi vergini per un futuro matrimonio, non disdegnavano giochi con gli amici di famiglia, quelli scartati perché privi dei numeri necessari per diventare dei comodi mariti. Che l´uomo prima di sposarsi avesse il diritto di esercitare una nebulosa sua vita sessuale, era scontato: con peccaminose signore sposate, o con donne di vita, o compagni di scuola (cosa che neppure si immaginava), non aveva importanza, purché in questa sua necessaria e non deprecata abitudine non gli venisse in mente di sfiorare le ragazze che poi avrebbe eventualmente sposato.
Anche nei decenni successivi, mentre le ragazze si emancipavano e cominciavano a perdere la verginità non solo dopo il matrimonio, ma sempre più precocemente, attestandosi adesso tra i 14 e i 16 anni, il preservativo non è riuscito a diventare un prezioso e fidato amico, evocando orrori che nulla hanno a che fare con l´amore, reso ancora meno allettante dalle ultime confuse dichiarazioni del Papa: solo le più svelte ne hanno sempre un paio in borsa (anche le previdenti ragazze di Sex and the city), conoscendo la distrazione e impreparazione dei maschi di passaggio. Stessa malavoglia, pare, negli incontri omo. Soprattutto i giovanissimi e le giovanissime, che del resto col loro innamorato, se coetaneo imbranato, non saprebbero neppure come usarlo, lo vedono come un impedimento alla spontaneità, all´accecamento d´amore. Magari le mamme hanno già rimpinzato di pillola le loro bambine, ma si sa che non basta. E infatti mentre calano le vendite dei condom (115 milioni nel 1999, 100 milioni nel 2009), si raddoppiano le infezioni, compreso l´Aids.
Eppure, il disprezzato preservativo ha una sua meravigliosa storia sin dal momento in cui il primo uomo si è accorto di quel suo indocile pendaglio: l´ha scritta Aine Collier, l´ha pubblicata Odoya, ed è una affascinante avventura nella nostra insipienza.

Repubblica 25.11.10
Una storia che affonda le sue origini nell’antichità
Dalla Grecia a Shakespeare
di Marino Niola


È dal Cinquecento che le membrane sottili e i lini profumati acquistano un´efficacia contraccettiva e immunizzante. Ma la produzione di massa inizierà grazie all´americano Good Year, re dei pneumatici

Da antidoto contro il male ad eccipiente del piacere. Da presidio fisico e morale dell´immunità minacciata, a forza d´interposizione della promiscuità felice. La lunga storia del preservativo sta tutta in questa trasformazione. Che riflette, nelle metamorfosi millenarie dell´oggetto e delle sue funzioni, le mille forme che la sessualità umana ha assunto nel tempo. A cominciare dall´antico Egitto dove il profilattico muove i suoi primi rudimentali passi circa 1500 anni prima di Cristo. Senza contare le testimonianze preistoriche che ne farebbero risalire l´uso addirittura a dieci secoli prima.
La distanza giurassica che separa quelle incredibili guaine di tessuto o di budello animale dai nostri inconsutili condom è incommensurabile, soprattutto sul piano dell´efficacia, oltre che su quello della sensibilità. Eppure si delinea già da allora quel doppio uso, profilattico ed erotico, igienico ed estetico, destinato a caratterizzare fino ai nostri giorni quello che Shakespeare chiamava il guanto di Venere. Una definizione che sottolinea l´inseparabilità delle conseguenze dell´amore, quella riproduttiva e quella contagiosa, che sono spesso il frutto di un´attrazione fatale. Non a caso i Greci designavano la dea della seduzione con l´attributo di Pandemia, lo stesso nome che noi diamo a un´epidemia fuori controllo.
Anche i Cinesi, che secondo molti sarebbero stati i primi a usare il budello animale, facevano un massiccio ricorso all´anticoncezionale più antico del mondo, evidentemente con scarso successo vista l´esplosione demografica del celeste impero. E i Romani, che in materia non erano secondi a nessuno, usavano l´intestino delle pecore per preservare dal contagio il vigore littorio dei legionari, sempre indotti in tentazione dalle bellezze esotiche che incontravano nel corso delle campagne militari.
In realtà queste coperture piuttosto approssimative non preservavano granché. E oltretutto la loro ingombrante invadenza remava contro la passione. Come la pesante armatura del Carlo Martello di De André. Non a caso madame de Sevigné, la celebre femme savante della Francia barocca, considerava il profilattico una ragnatela contro la malattia e una corazza contro il piacere.
È dal Cinquecento che le membrane sottili e i lini profumati acquistano un´efficacia contraccettiva e immunizzante degna di questo nome. Grazie a figure come quella del grande anatomista Gabriele Falloppio, gloria dell´Università di Padova. Noto esperto di ginecologia, nonché di malattie veneree, l´illustre clinico inventò una guaina medicata, quindi antisettica e anticoncezionale al tempo stesso. Era il primo decisivo passo verso quella copertura che è nell´etimologia stessa della parola condom. Derivante dal latino medievale duma che significava riparo, tetto, ma soprattutto cupola, come del resto ancora oggi dome in inglese e in francese.
Da allora questo presidio dell´amore sicuro inizia la sua irresistibile ascesa suscitando gli anatemi dei moralisti che ne hanno sempre fatto il simbolo di una sessualità fine a se stessa, e non finalizzata alla riproduzione. Se non addirittura un incentivo all´adulterio. Causa ed effetto della liberazione dei costumi, il condom acquista la sua definitiva, sostenibile leggerezza quando l´americano Charles Good Year, re dei pneumatici e inventore della vulcanizzazione, inizia la produzione di massa dei profilattici in lattice impalpabile. E l´eros balza in avanti con una sgommata che lo libera dal male.