sabato 1 settembre 2018

Corriere 1.9.18
«La Chiesa dica chi ha coperto i pedofili»
Nuzzi dopo le accuse di Viganò. «Il Papa combatte, ma i fatti vanno verificati»
intervista di Fabrizio Caccia


ROMAQuarto Grado, la sua trasmissione di misteri e delitti su Rete4 tornerà il 14 settembre. Gianluigi Nuzzi, così, adesso si trova alle Eolie, anche se mentalmente non è più in vacanza da quando, il 26 agosto, è uscito il documento dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, il grande accusatore del Papa. Nuzzi, tra il 2009 e il 2015, ha scritto tre best seller sui segreti della Chiesa di Roma (Vaticano SpA,Sua Santità e Via Crucis). Può dirsi un esperto.
Crede a un complotto contro Bergoglio?
«No. Dietro Viganò non ci sono i signori del petrolio né l’internazionale del dollaro e non c’è neppure la Spectre».
Quindi?
«Viganò ha una sua misura, un suo spessore. Quando Benedetto XVI lo chiamò a Roma per fare pulizia dentro il Governatorato, calpestò molti calli ai cardinali scoprendo le spese pazze della Curia».
Un esempio?
«L’albero di Natale e il presepe, che ogni anno venivano a costare oltre 400 mila euro. E Bertone, il Segretario di Stato, lo volle alla porta».
Fu Viganò l’ispiratore dello scandalo Vatileaks?
«No, non fu lui a darmi le carte. Fu Paolo Gabriele, il maggiordomo di Ratzinger. Però, adesso, anziché correre a delegittimarlo, come vedo fare, è più importante verificare la concretezza di ciò che dice sullo stesso Bertone e sul Papa. Anche se Viganò ha sbagliato a chiedere le dimissioni di Bergoglio. Così, ha trasformato una denuncia in un atto politico, spostando l’attenzione dal problema vero».
La pedofilia nella Chiesa?
«Sicuro. Il suo racconto degli abusi reiterati commessi dall’ex cardinale McCarrick ha sconvolto le comunità».
C’è un video del 2012 in cui monsignor Viganò, quando era ancora nunzio negli Usa, dà il benvenuto al cardinale McCarrick come se niente fosse. E adesso lo accusa.
«Non è indicativo. La Chiesa nelle sue cerimonie ha sempre i suoi protocolli. La verità è che oggi ci sono raccolte di firme in America di gente che chiede giustizia. Per questo la Chiesa dovrebbe aprire gli archivi per scoprire non tanto chi ha commesso gli atti, ma chi ha coperto i pedofili. Per recuperare credibilità, ci vorrebbe uno sciopero della fame di tutti i preti, nel nome della tolleranza zero».
E il Papa?
«Il Papa sta combattendo con tutto se stesso per fermare il declino della Chiesa. Ha inasprito le norme e ha detto più volte che i vescovi non devono trasferire i pedofili ma farli processare. Per non tenere sotto silenzio quella che non è una debolezza o una malattia. Ma un reato».
Fu proprio lui a costringere McCarrick alle dimissioni. E il suo monito ai vescovi poi è stato accolto?
«In Irlanda, in Francia, negli Usa. In Italia no. Non si è mai risalita fino in fondo la scala gerarchica, il sistema di protezione dei pedofili non è mai stato colpito».

La Stampa 1.9.18
Aggressioni, abusi sessuali e femminicidi: il terribile agosto delle donne in Italia
Da Nord a Sud uno stillicidio di violenze: connazionali e stranieri tra carnefici e vittime
di Niccolò Zancan 


Era l’agosto in cui le donne venivano massacrate e si parlava sempre di altro. L’agosto con meno sbarchi del decennio. L’agosto con meno rapine degli ultimi cinque anni: -45,4 per cento. L’agosto in cui l’Italia cadeva a pezzi. E ancora, in un caso di stupro, capitava di leggere frasi così: «Sembra che le giovani abbiano bevuto qualche bicchiere di troppo, ed è probabile che fossero ubriache». E certo che avevano bevuto qualche bicchiere, quelle due ragazze di 17 anni in vacanza a Menaggio sul Lago di Como. Ed è probabile che si fossero «intrattenute» con i ragazzi conosciuti in discoteca. Erano uscite per divertirsi. Sono state stuprate da quattro coetanei. E subito si è scatenata la caccia alla nazionalità dei violentatori, con qualche difficoltà imprevista. Perché alcuni erano italiani, altri stranieri: camerieri d’Europa. Il che ha creato un certo sgomento. 
Perché era anche l’estate in cui la cosa più importante in caso di violenza sessuale, era usare la nazionalità dello stupratore a sostegno di una tesi politica. Se il violentatore è un immigrato, allora è vero che bisogna chiudere le frontiere. Se il violentatore è un italiano, si dimostra che è il male è una faccenda che riguarda l’umanità e non la cittadinanza. Fino a quando, due giorni fa, si è saputo dello stupro di Parma. Una ragazza di 21 anni torturata e seviziata per cinque ore da «un facoltoso imprenditore italiano» e «dal suo pusher nigeriano di fiducia». Ed era difficile usare quella storia in qualunque modo, complicato usare ancora il corpo di quella donna.
Fino a giugno sono state uccise 44 donne, il 30% in più rispetto allo stesso periodo del 2017. 
Era già successo con la ragazza di 15 anni stuprata sulla spiaggia a Jesolo, su cui un poliziotto di Rovigo di nome Mauro Maistro aveva scritto il suo commento su Facebook: «Queste ragazzine pensano di rimediare una canna facendo servizietti veloci agli spacciatori... Poi trovano quello che invece vuole il servizio completo e allora piangono perché le stuprano... Storia vecchia come il mondo». Perché era l’agosto più triste del secolo, l’estate che faceva venire voglia di scappare altrove. 
C’era già stata una ragazza tedesca di 19 anni violentata a Rimini da due allievi della polizia. La studentessa danese di 17 anni violentata nel parcheggio della Discoteca Red Clubbing sul Garda. La manager francese di 33 anni drogata e stuprata nella suite di un albergo a Capri. E tutti gli arrestati, come se si fossero messi d’accordo, avevano cercato di sostenere la solita storia: «Era consenziente». 
Un «valore» 
«Questo è un periodo in cui la violenza è diventata un valore», dice l’avvocatessa Teresa Manente specializzata nella difesa delle donne. «Il razzismo. Il non riconoscimento dell’autorità giudiziaria. Stiamo diventando una democrazia illiberale. Questo contesto storico politico alimenta la violenza maschile nei confronti della donne». I dati del ministero dell’Interno dimostrano un calo di tutti i reati negli ultimi dodici mesi. Tranne un tipo. Dei 319 omicidi commessi, 134 sono stati classificati in ambito «familiare affettivo». Erano contro le donne. E tutto era già stato scritto nella relazione della commissione parlamentare d’inchiesta pubblicata a gennaio 2018. «Crollano gli omicidi. Ma restano immutati quelli contro le donne e aumentano anche le denunce, che sono solo la punta dell’iceberg». La senatrice Francesca Puglisi di quella commissione era la presidente: «È un’estate spaventosa. C’è un enorme problema di sottovalutazione. Serve maggiore attenzione, maggiore formazione di tutti gli operatori. Serve più ascolto».
Le donne uccise in Italia nel 2017 sono state 114 pari al 36,3% degli omicidi totali. 
Era l’agosto in cui una donna polacca di 44 anni veniva rinchiusa per due mesi in un cassone delle mele dal suo compagno altoatesino: segregata fra i filari e l’autostrada Milano-Venezia. A Roma la signora Elena Panetta, di anni 57, veniva presa a martellate fino alla morte dal compagno, perché si era rifiutata di dargli i soldi per comprare la droga. A Son Polo di Torrile, la signora Filomena Cataldi di anni 44 veniva uccisa a forza di botte dal vicino di casa, ora accusato di «omicidio premeditato aggravato dalla crudeltà e da futili motivi». Rita Passarotti, 64 anni, trovata sul pavimento della cucina. Accoltellata dal marito durante i giorni di villeggiatura a Santa Cristina in Val Gardena. Era la vera emergenza dell’estate 2018. C’era già stata anche la morte per «asfissia» di Roberta Perosino, 53 anni, operaia della Ferrero di Alba. Appena arrestato, il marito aveva tenuto a spiegare: «Non mi dava i soldi per giocare alle slot. Ho perso la testa». Certe volte serve del tempo per capire come sono andate esattamente le cose. Ma la paura ti viene subito, purtroppo. 
Il sacco 
Come nel caso di Manuela Bailo di Brescia, 35 anni. Sembrava scomparsa. Era stata colpita in testa dal suo amante, messa in un sacco della spazzatura, buttata in una vasca di liquami. E dopo, lui era partito per le vacanze in Sardegna con la famiglia. Sembrava agosto. Invece era un altro uomo che odiava le donne.

Corriere 1.9.18
Patrizia Impresa
Inchiesta sull’accoglienza, un caso le parole della prefetta: «ne abbiamo fatte di porcherie»
di Andrea Priante


«È vero che ne abbiamo fatte di porcherie, però quando le potevamo fare…». È il 15 aprile del 2017 e l’ex prefetto di Padova (oggi è a Bologna) Patrizia Impresa, parlava così della gestione dei migranti al suo vice Pasquale Aversa.
Impresa non è indagata ma l’intercettazione è finita nelle carte dell’inchiesta sullo scambio di favori tra funzionari della prefettura ed Ecofficina, la cooperativa che gestisce alcuni dei principali hub per l’accoglienza dei profughi in Veneto, compreso quello di Cona al centro della rivolta scoppiata nel gennaio dello scorso anno. Ne emerge un quadro inquietante, con i migranti tenuti in pessime condizioni, tra sovraffollamento, prostituzione e rischio di epidemie. Sette gli indagati, compreso lo stesso Aversa accusato di aver anticipato ad Ecofficina l’arrivo degli ispettori.
Ma se fonti investigative ripetono che «non è emerso nulla di penalmente rilevante» nei confronti del prefetto, resta che l’immagine di Impresa ne esce a pezzi. Come quando, nel novembre 2011 spiega al vice che «il ministro verrà a fine settimana» e che non può rivelargli il vero numero degli ospiti presenti nel centro di accoglienza di Bagnoli: 912 profughi. Troppi. «Non possiamo darglielo assolutamente» riflette, per poi arrendersi all’idea che «deve dire al ministro che sono 850». Aversa la rassicura: «Ci sta come dato, nemmeno il sindaco lo sa (il numero reale, ndr)».
Altro episodio, stavolta dell’ottobre 2016. Il primo cittadino di Bagnoli, Roberto Milan, è a Roma per lamentarsi della situazione creatasi nel suo Comune con l’allora Capo del dipartimento per l’immigrazione, Mario Morcone, e il presidente dell’Anci, Piero Fassino. Impresa racconta ad Aversa di aver ricevuto una telefonata da Marcone che «le aveva fatto capire che le cose si mettevano male» nel caso non avesse trovato il modo di ridurre il numero degli ospiti dell’hub. Non solo, il prefetto ha saputo che Fassino era «molto contrariato» al punto che sarebbe sbottato: «Allora non mi resta che parlarne con Renzi». Impresa spiega al suo vice che occorre trovare il modo per spostare i migranti da Bagnoli «anche se dobbiamo andarli a mettere da qualche parte dove non possiamo metterli, qualche cosa la dobbiamo fare» altrimenti Morcone «la farebbe saltare». Il prefetto è furioso, ricorda che ha dovuto sopportare gli attacchi «prima della Lega e ora del Pd», visto che teme l’intervento del premier dell’epoca, Matteo Renzi, «capacissimo di far cadere un prefetto». Ma avverte: «Se devo cadere… io però faccio cadere Sansone con tutti i filistei». Qualcosa però andava fatto — ordina a Pasquale Aversa — e subito, «anche se dobbiamo fare schifezze, Pasquà… eh no… schifezze… noi ci dobbiamo salvare Pasquà… perché ti ripeto non possiamo farci cadere una croce che…».
Patrizia Impresa, dal suo ufficio a Bologna, ora si dice «amareggiata, perché le frasi emerse sono state estrapolate da conversazioni più ampie». Le «schifezze» e le «porcherie»? «Ho usato dei termini forti, lo so. Ma non dimenticate il contesto di quegli anni, con il governo centrale che inviava centinaia di profughi ogni settimana e la prefettura di Padova che si trovava senza posti letto, perché in Veneto nessuno li voleva. In un territorio dove la micro-accoglienza veniva osteggiata dalla politica, ho fatto delle scelte che non mi piacevano ma che sono stata costretta a prendere, come quella di aprire dei grandi hub». La necessità di «salvarsi», invece, per l’Impresa va interpretata in senso più ampio: «Non era solo la mia poltrona in gioco, ma la credibilità stessa dell’istituzione che rappresentavo».

Repubblica 1.9.18
Il risveglio delle opposizioni
Umanità contro tribù
di Nadia Urbinati


Il risveglio dell’opposizione è avvenuto in piazza; non nei partiti, non in Parlamento. È avvenuto laddove nei momenti di crisi di legittimità generalmente avviene. Un’opposizione spontanea, pacifica e consapevole, quella che a Milano ha accolto Matteo Salvini e Viktor Orbán; il segno e forse il seme di una nuova forma di impegno partigiano. Nuova perché mobilitata in favore di un principio che dal 1945 credevamo un fatto assodato e non più di parte: quello di umanità. Essere partigiani di umanità segnala che ci troviamo in una condizione estrema, simile a quella di chi sta sul crinale di un dirupo e guarda giù, prefigurandosi il peggio.
Su questo crinale stanno due modelli di Paese e quindi di Europa. L’Italia e l’Europa sono nate dalla lotta di liberazione dal fascismo, nel nome del primo e fondamentale bene: la vita e la dignità, due termini che denotano un’unica e identica cosa, la condizione umana, premessa del vivere civile e politico. La patria delle libertà uguali è nella nostra Costituzione; l’altra, l’Europa, è stata una promessa e un impegno (purtroppo svilito) a creare le condizioni istituzionali e sociali per rendere le nostre democrazie durevoli nel tempo. Due patrie che sono nate insieme, e insieme possono cadere.
L’altro modello è come un’immagine rovesciata, uno scenario opposto, studiato e premeditato: la patria che Orbán e Salvini dichiarano di voler difendere nei loro Paesi e nel continente parla un linguaggio che nega prima di tutto l’umanità; perché tratta quella umana come una condizione relativa all’appartenenza a un’etnia, a un aggregato identitario fisso nei contorni e nei connotati. Orbán e Salvini dichiarano che quella parte di mondo che parla la loro lingua e sventola il loro Vangelo è più umana; che ha il privilegio di decidere chi non merita di vivere. Il primo principio di umanità, quello del soccorso, si fa arma di offesa; il non soccorso diventa politica di difesa dei confini.
Dietro la svalutazione del principio di umanità promossa dal nostro governo sta un progetto chiaro: dichiarare chiusa la stagione dei diritti umani. L’argomento usato è sofistico: vuole far credere che i diritti umani predicano l’inclusione di tutti e quindi la liquefazione dei popoli. Un falso sbandierato con il proposito di togliere valore all’umanità per poterla negare. Disumanizzare per legittimare il non soccorso.
I diritti umani fondamentali non comandano l’inclusione; comandano il soccorso e l’accoglienza, la quale significa e comporta prima ospitalità e assistenza a immigrati, a profughi, a vittime di catastrofi. L’umanità è tutt’altro che astratta: veste i panni di chi chiede soccorso. Respingere questa basilare norma è come voler riscrivere i codici morali e giuridici secondo un principio opposto, quello della tribù. Ecco perché la battaglia è oggi, nel nostro Paese e perciò in Europa, una lotta sui fondamenti, e quindi squisitamente politica: perché dietro alla negazione del principio di umanità vi è una concezione di comunità politica che fa a pugni con la patria, che è nella nostra Costituzione.
Il crinale sul quale ci troviamo oggi è quindi dei più estremi: di là una politica etnocentrica, di qua una politica dei diritti e dell’eguaglianza. Se il sovranismo è un atto di fede tribale, essere critici del sovranismo dovrebbe prima di tutto significare recuperare le ragioni dell’umanità, come diceva Hannah Arendt. Una piazza San Babila che si sia spontaneamente riempita di cittadini e cittadine (era già accaduto a Catania) per affermare questo principio basilare, contro il modello di Paese e di Europa propugnato dai leader xenofobi, è il segno di un’opposizione radicale e politica. E può essere il seme per una nuova forma di impegno partigiano per la patria delle eguali libertà, in Italia e in Europa.

Repubblica 1.9.18
Il Pd e gli avversari 5S
La sinistra contaminata
di Piero Ignazi


Difficile estrarre un solo spunto tra i tanti che l’articolo di Walter Veltroni ci ha offerto. Ma se proprio si deve farlo, partirei da due icastiche affermazioni: « La sinistra è speranza o non è; è popolo o non è » . Il nocciolo della crisi della sinistra, in Italia come in Europa, sta proprio lì, nell’aver perso cognizione di sé e ora nel sembrare persino tentata da terze vie macroniane (ottima per l’Europa, molto meno per la politica interna). È stato detto tante volte, e da tanto tempo, ma vale la pena ripeterlo. Di fronte al neoliberismo e alla globalizzazione, la sinistra ha pensato di poter essere ancora protagonista, sostituendosi alle élite moderate e conservatrici per gestire meglio quei processi.
Così facendo è rimasta invischiata tra le domande di protezione del suo mondo di riferimento — le classi sottoprivilegiate — e le richieste di "affidabilità" da parte della business community. Ha cercato di ammansire e gestire gli spiriti belluini del capitalismo senza confini. E invece è stata contaminata dall’ideologia e dalla cultura politica di quello che un tempo veniva definito l’avversario di classe. Quando " tra Marchionne e il sindacato" si sta con Marchionne vuol dire che si è perso il legame con il popolo, si è reciso il cordone ombelicale con la propria storia; vuol dire che è stata assorbita in toto la logica neocapitalista, fino all’ultima stilla. La sinistra, cioè il Pd, perché altro non è rimasto se non pulviscoli, non ha nemmeno visto il disagio che invadeva milioni di cittadini in questi anni. E chi lo faceva notare era, al meglio, un grillo parlante, al peggio, un disfattista, un sabotatore, un "gufo".
La sinistra ha perso la bussola non solo negli ultimi anni, sotto la guida di Matteo Renzi. Ha incominciato a smarrirsi ben prima, ai tempi del Pds-Ds, quando cercava di togliersi di dosso lo stigma di uno statalismo senza logica economica e di una ostilità sorda all’impresa privata. La differenza è che per quasi tutta l’ultima legislatura, il Pd ha governato praticamente da solo. Non era mai successo nella storia repubblicana che la sinistra avesse un controllo così esclusivo dell’arena parlamentare e di quella governativa. E quindi cadeva sulle sue spalle tutta la responsabilità politica. Come l’ha gestita si è visto nella parabola dagli 11 milioni di consensi del 2014 ai 6 del 2018.
In questi anni la dissociazione tra sinistra e popolo ha raggiunto l’acme. Anche perché è entrato in gioco un nuovo attore politico, il Movimento 5 Stelle, di cui non si sono prese le misure, oscillando tra sguardi di altezzosa sufficienza e invettive liquidatorie. I 5 Stelle non erano la destra — lo dicono tutte le analisi empiriche — né si identificavano con quel mondo: basta ricordare quali erano i loro candidati alla presidenza della Repubblica nel 2013, da Dario Fo a Gino Strada per arrivare a Emma Bonino e addirittura a Romano Prodi. I 5 Stelle erano, e sono, un avversario molto più pericoloso perché possono combinare richiami di sinistra, come il cosiddetto reddito di cittadinanza, con pulsioni populiste "protettive" delle ansietà di una società dolente.
Di fronte a questa nuova offerta politica, la sinistra non ha più trattenuto il suo elettorato, che fino a quel momento aveva trangugiato molte delusioni per la perdita di potere nel mercato del lavoro e infine anche nel livello di vita perché " di là" c’era il nemico. Una volta crollato il Muro di Arcore, il M5S, vergine dagli errori e suadente nei suoi messaggi sociali, ha fatto breccia a sinistra. Sono "nostri" gli elettori che sono andati verso i 5 Stelle, scrive Veltroni. Il problema del Pd è come recuperarli.
Irridere e stigmatizzare non serve. Serve indicare una speranza: prefigurare la giustizia e libertà del secondo millennio. Utopia? Forse, ma senza speranza non c’è sinistra.

Repubblica 1.9.18
La resistenza di Richard Sennett
«Arendt è stata una pietra di paragone intellettuale nel mio percorso ma non credo di essere suo discepolo: sono un socialista alla Bernie Sanders»
Il capitalismo sta colonizzando l’immaginazione delle nostre vite Oggi tutto ciò che è gratis è una forma di schiavitù E, no, non andrò mai in pensione”
Richard Sennett è nato a Chicago il 1 gennaio 1943. Ha vinto numerosi premi come l’Hegel Prize e il Gerda Henkel Prize. Vive a New York. È sposato dal 1987 con la sociologa olandese-americana Saskia Sassen, grande studiosa della globalizzazione
intervista di Anatxu Zabalbescoa


Sono molte le questioni dirimenti della nostra società che lui ha visto arrivare prima di chiunque altro. Il sociologo Richard Sennett, nato a Chicago nel 1943, nei suoi ultimi saggi mette in guardia contro i pericoli di un lavoro flessibile che nasce da un atteggiamento esigente verso se stessi e da una mancanza di radicamento. Lontano dalle statistiche, utilizza la sociologia come letteratura. In una dozzina di libri — il più recente è Costruire e abitare: etica per la città, pubblicato in Italia da Feltrinelli — Sennett ci svela che tipo di società siamo e come siamo arrivati a questo punto.
Nel suo luminoso appartamento di Washington Square, Sennett annuncia che non andrà mai in pensione. Cinque anni fa ha avuto un infarto: da allora si è messo a dieta e ha perso peso, ma non ha smesso di bere caffè; e nemmeno di scrivere; e nemmeno di suonare il pianoforte. Passa le sue primavere a New York, e ora terrà lezione al Mit e a Harvard. Nei mesi invernali, insegna alla London School of Economics. Fra tutte le sue occupazioni (è stato anche violoncellista professionista), la scrittura si è trasformata in una routine. « Sono una persona che vive di rituali. Scrivo la mattina e conduco la mia vita nel mondo dopo pranzo».
Nei suoi saggi ha anticipato molti dei problemi della società attuale: la frammentazione delle esperienze, i pericoli della flessibilità che doveva migliorare la vita e ha finito per impregnare di lavoro ogni minuto della nostra vita privata…
«Io mi limito a vedere quello che succede. Molto spesso la gente vede più con l’immaginazione che con gli occhi».
Com’è stato possibile che cose che prima consideravamo diritti oggi vengano viste come privilegi?
«Il capitalismo moderno funziona colonizzando l’immaginazione delle cose che la gente considera possibili. Marx aveva già capito che il capitalismo non era legato tanto all’appropriazione del lavoro, quanto all’appropriazione del senso comune. Facebook è stata la penultima appropriazione dell’immaginazione: quella che vedevamo come una cosa utile ora si rivela come un modo per intromettersi nella coscienza delle persone prima che possano agire. Le istituzioni che si presentavano come liberatrici si trasformano in strumenti di controllo. In nome della libertà, Google e Facebook ci portano lungo la strada che conduce al controllo assoluto».
Come si fa a individuare i pericoli delle nuove tecnologie senza trasformarsi in un paranoico che sospetta di tutto?
«Bisogna indagare su quello che ci viene presentato come reale. È quello che facciamo noi scrittori e gli artisti. Io non sospetto. Sospettare implica l’esistenza di qualcosa di occulto, e io non credo che Facebook abbia nulla di occulto. Semplicemente non lo vogliamo vedere. Non vogliamo accettare il fatto che ciò che è gratis implica sempre una forma di dominazione ».
I suoi saggi si leggono in un altro modo dopo il fallimento della Lehman Brothers?
«Dopo quel crac, le vendite del mio libro La cultura del nuovo capitalismo schizzarono alle stelle. Fino ad allora le critiche all’ordine economico erano considerate cose da nostalgici. Molte delle cose che stanno succedendo sono talmente incredibili che tendiamo a non crederci, anche se le abbiamo di fronte agli occhi».
Trump non lo ha previsto. E la Brexit nemmeno.
«Sono andati al di là dei miei poteri. Però un’intuizione l’ho avuta: il problema di Obama era che parlava con un’eloquenza meravigliosa, ma la disuguaglianza continuava ad aumentare; non è riuscito a tenerla sotto controllo. Ha sostenuto la sanità pubblica, ma per il resto non è andato oltre le parole. E questo è molto pericoloso. Non ha agito come un grande presidente».
Che cosa possono fare i politici, oggi, per difendere i diritti dei cittadini di fronte alle pressioni dei poteri economici?
«La storia lo spiega. Cento anni fa Theodore Roosevelt decise che lo Stato doveva spezzare i monopoli. Era un conservatore. Però era il presidente di tutti gli americani. Il capitalismo ha la tendenza a passare con grande facilità dal mercato al monopolio. Ed è lì, con la soppressione della concorrenza, che iniziano i grandi problemi, la grande perdita di tutele. Con i monopo-li, il capitalismo passa da essere il sistema della concorrenza a essere il sistema della dominazione. Accrescere il divario salariale tra ricchi e poveri come sta succedendo adesso è la via per tutti i populismi. Questo è stato Trump».
Nell’“Uomo flessibile” lei descrive la convinzione errata che la flessibilità lavorativa migliori la vita. Che tipo di vite produrranno Uber o Deliveroo?
«Vite senza colonna vertebrale, persone le cui esperienze non vanno a costruire un insieme coerente. Qualcosa di molto circoscritto al nostro tempo, e preoccupante, perché noi esseri umani abbiamo bisogno di una storia nostra, di una colonna vertebrale».
Come vede il futuro dei suoi studenti?
«Cerco di togliergli dalla testa l’idea che la vita intellettuale dipenda dalle università. In qualunque professione una persona può e deve avere una vita intellettuale attiva. È fondamentale che chiunque abbia coscienza della propria capacità intellettuale».
Lei non sembra un teorico. Come sociologo si serve del lavoro sul campo, non delle statistiche. Parla di persone che hanno nome e cognome…
«Mi sono sempre sentito radicato nell’antropologia della vita quotidiana. Questa cosa era vista con sospetto dagli esponenti degli Scuola di Francoforte negli anni 30, tranne Benjamin, che usava le sue stesse esperienze per cercare di comprendere il mondo. Per questo era disprezzato dalla Scuola di Francoforte: l’unica persona che lo difese fu Hannah Arendt».
Lei è considerato un discepolo di Arendt.
«La conobbi nel 1959. Il mio gruppo suonava i quartetti di Bartók all’Università  Lei è stata una pietra di paragone intellettuale nel mio percorso. Ma le mostrai le bozze del mio libro Il declino dell’uomo pubblico e lo trovò orribile. Era quel tipo di relazione… Aveva un legame migliore con gente filosoficamente più sofisticata di me. Insomma, temo che il rapporto fra di noi sia stato sopravvalutato. Mi sarebbe piaciuto essere il suo discepolo, ma non credo di esserlo. Provai una grande tristezza quando pubblicò La banalità del male e diventò una paria per la maggior parte della comunità ebraica scampata ai nazisti».
Oggi dove si colloca politicamente?
«Ho attraversato un periodo molto conservatore. Sono stato liberale. Ma ora sto di nuovo a sinistra: sono un socialista alla Bernie Sanders».
Perché la sinistra non riesce più a intercettare la volontà di cambiamento della gente?
«Gli interessi dei partiti di sinistra ( di quelli di destra neanche a parlarne) sono diventati più importanti degli interessi della popolazione. E così non si possono fare passi avanti».
Che cosa succederà dopo Trump?
«È chiaramente un criminale. La questione è se sarà considerato responsabile dei suoi delitti oppure no. Il mondo è pieno di criminali a piede libero, e forse lui si unirà a quel gruppo».
E perché Trump ha consenso?
«È un enigma. Ma non è un fenomeno esclusivamente americano. Lo abbiamo vissuto già con Berlusconi: la gente sapeva com’era, ma nonostante questo lo voleva, per manifestare la sua rabbia, per disturbare. Trump è l’espressione della politica dell’ingiuria. L’idea di smascherarlo ormai non è più d’attualità: è stato già smascherato. Quello che ancora non sappiamo è se pagherà o no per questo. Berlusconi è riuscito a distruggere il sistema giudiziario italiano, e potrebbe essere che Trump riesca a fare lo stesso qui».
Oggi la creatività è fondamentale in tutti i lavori?
«Sì. In sociologia, creativo significa cercare una voce propria. Ma una persona ha una voce propria solo quando parla a qualcuno: la voce propria non serve per parlare da soli». n
La flessibilità di oggi crea vite senza colonna vertebrale, persone le cui esperienze non vanno a costruire un insieme coerente

Repubblica 1.9.18
Bruno Segre, un antico ragazzo che compie 100 anni"
Siamo di fronte agli analfabeti della democrazia"
L’infanzia con i lampioni a gas, la tesi durante il fascismo, la Resistenza, il carcere, le lotte per il divorzio e l’obiezione di coscienza Memorie e battaglie di
Intervista di Simonetta Fiori


TORINO MA sto bene così o devo pettinarmi?».
L’avvocato Bruno Segre, cent’anni martedì prossimo, si offre all’obiettivo con la pazienza d’un attore sperimentato. Il suo studio torinese in via della Consolata è lo specchio del Novecento, vertiginoso monumento alla carta tra pinnacoli di bozze, colonne di fascicoli e capitelli di fogli di giornale. Un manifesto annuncia l’introduzione dell’euro e non deve essere stato un passaggio da poco per uno che è nato «con i cannoni ancora fumanti della Grande guerra». Il suo primo ricordo è un omino che con una pertica accende i lampioni a gas.
Aveva sei anni quando gli capitò tra le mani una cartolina di Giacomo Matteotti appena assassinato, «e il nonno mi intimava: metti via, i fascisti ci guardano». C’era ancora Mussolini quando discusse la sua tesi di laurea su Benjamin Constant: relatori Gioele Solari e Luigi Einaudi. Figlio di padre ebreo, conobbe la galera prima nel carcere Le Nuove, poi nella caserma di via Asti. Ha fatto il partigiano nelle file di Giustizia e Libertà. Dopo la guerra è stato il difensore in tribunale dell’obiezione di coscienza, del divorzio e di tante battaglie contro il razzismo e l’intolleranza. Sulla scrivania è pronto il nuovo menabò della sua rivista Incontro, «la faccio da settant’anni, ma a dicembre chiudo per mancanza di fondi».
Un curioso destino fa cadere il suo centesimo compleanno nell’Italia sovranista di Salvini.
«Pensi che me lo sono sognato. In divisa nera, cappello con pennacchio e stivaloni lucidi. E quel modo di fare tracotante che mi ricorda il duce».
Avverte una somiglianza?
«Sì, la baldanza provocatoria del vicepremier leghista evoca il Mussolini propagandista. Ma per il resto l’analogia storica non regge.
Questi mi paiono soprattutto velleitari».
Che sentimenti prova nell’Italia di oggi?
«Una delusione profonda. Noi che abbiamo fatto il carcere o siamo saliti in montagna pensavamo che la democrazia, la Costituzione, l’assetto repubblicano avrebbero spinto il popolo a maturare. E invece nel corso dei decenni l’Italia ha palesato il suo volto di compromessi e particolarismi».
Come definirebbe l’attuale passaggio storico?
«Analfabetismo della democrazia.
Salvini è un demagogo di basso conio che scatena gli istinti peggiori degli italiani. Certo vedere il ministro degli Interni che abbraccia Orbán e tiene in ostaggio i migranti non può che farmi male.
Tutta la mia vita è stata una ribellione alle ingiustizie e alle prevaricazioni».
Lei finì in galera nel 1942 con l’accusa di disfattismo. E nel 1944 fu arrestato dalla Guardia nazionale repubblicana.
«Per poco non ci lasciavo la pelle.
Un repubblichino mi sparò alle spalle ma la pallottola fu deviata dal portasigarette di metallo che portavo nella tasca posteriore. Finii nella caserma di via Asti dove venivano rinchiusi sia gli oppositori antifascisti che i fascisti colpevoli di reati comuni. Una situazione surreale. Divisi da tutto, giocavamo a carte scambiandoci le sigarette. E il prete difensore degli ebrei conviveva con il cappellano delle Brigate nere».
Cosa le ha insegnato il carcere?
«La vita. E di che pasta sono gli uomini. Viltà, vigliaccheria, insospettate solidarietà. In via Asti ho capito che non bisogna mai arrendersi interiormente. Mi dava forza lo sguardo fiero di Aurelio Peccei, un antifascista che passeggiava in terrazzo a torso nudo: trasmetteva tranquillità al contrario delle facce inquiete dei repubblichini appesantiti dal carico di mitra e delle bombe a mano».
Perché scelse di fare il partigiano?
«Era l’unica via per riscattare il passato risorgimentale. E per restare coerenti alle proprie idee.
Un piccolo contributo alla libertà del mio paese».
Pensa che gli italiani abbiano fatto i conti con il fascismo?
«No. Abbiamo rischiato di avere a Roma una strada intestata a Giorgio Almirante: ma sanno chi era? Segretario di redazione de La difesa della razza. Incarichi di primo piano nella Repubblica Sociale. Un suo seguace mi confessò che l’acronimo Msi stava per "Mussolini sei immortale"… In Italia c’è stata una rimozione del ventennio, ma la colpa è di Togliatti. La sua amnistia permise a seviziatori di fingersi democratici, perfino compagni.
Un’infamia».
Dopo la Liberazione lei fece anche il giornalista.
«Sì, nel quotidiano liberale l’Opinione che sostituiva La Stampa. Lo dirigeva Giulio de Benedetti. Intelligentissimo. Sin dalle prime battute capiva dove andassi a parare».
Tra le sue interviste ce ne fu una leggendaria a Josephine Baker.
«Mi ricevette nuda nel suo camerino. In un’Italia che ancora processava per offesa al pubblico pudore, la sua disinvoltura mi parve inaudita».
Con Umberto II arrivò a sfiorare l’insolenza.
«Era un uomo molto bello, distinto, di sovrastante altezza. Ma una nullità totale. Durante la campagna referendaria del 1946 lo incontrai a Torino. "Scusi, ma lei voterà per la Monarchia o per la Repubblica? Allibito, affrettò il passo verso la Prefettura».
Un provocatore.
«Mi divertivo a fare il guastafeste.
Sui muri campeggiava la scritta W il RE. E io aggiungevo con il gessetto una "o": W il REO».
Per difendere il divorzio sarebbe arrivato a noleggiare un aereo.
«Sì, nel 1970 organizzai un volantinaggio non autorizzato sui cieli di Torino. "Il divorzio non viene dal cielo", si leggeva sui volantini, "ma dall’onorevole Loris Fortuna che oggi alle 18 parlerà al teatro Gobetti. I palchi si riempirono all’inverosimile».
Lei è stato anche un avvocato matrimonialista. Cosa ha capito dei rapporti tra uomini e donne?
«Questo non me lo chieda. Ho divorziato due volte. Ho anche perso un figlio. Da molti anni sono solo. Un fallimento».
Ogni anno partecipa al festival del cinema gay a Torino.
«La loro è stata una grande conquista di libertà. Sono stato difensore di molti omosessuali ingiustamente accusati, ricattati, registrati in questura. Una vera persecuzione».
Lei ha raggiunto la vetta dei cent’anni. Che cosa vede da lassù che ancora noi non scorgiamo?
«Un paesaggio di straordinaria ignoranza, nel senso letterale del termine. E di totale indifferenza: la gente non pensa alla storia ma alla cronaca quotidiana. È l’eterna legge del tirare a campare. Aveva ragione Massimo D’Azeglio: bisogna fare ancora gli italiani.
Bisogna fare degli italiani migliori».
La vecchiaia ti insegna qualcosa o toglie soltanto?
« Senectus ipsa morbum est: la vecchiaia è per sé stessa una malattia, comunque una forma di umiliazione. Se devo essere sincero, questi cent’anni mi sembrano uno scherzo dell’anagrafe: come se riguardassero un’altra persona».
E sul piano spirituale?
«Resto un libero pensatore. A me la morte non fa paura. La considero un passaggio, come la caduta dall’albero d’una foglia. O come un animale che si ritira nella boscaglia e s’addormenta. Vorrei spegnermi nel sonno, questo sì. Senza sofferenze. Oppure chiudere al modo di Gaetano Salvemini, fino all’ultimo con gli allievi intorno al letto».
È preoccupato per la tenuta della democrazia?
«No. Ci vorrebbe un colpo di Stato ma né il modesto demagogo Salvini né quello sbarbatello di Di Maio mi sembrano all’altezza. E poi, nonostante i suoi difetti, l’Italia resta un grande paese. È come una bella donna ignorante. E io non posso smettere di amarla».

Il Fatto 1.9.18
Veltroni e i suoi: più renziani di Renzi
di Franco Monaco


Hanno ragione Padellaro e Cacciari. Padellaro quando osserva che Veltroni dovrebbe venire al dunque, isolare cioè i nodi politici cruciali oggi. Cacciari a rimarcare che Veltroni è tra coloro che portano responsabilità dell’attuale condizione agonica del Pd. In breve, che, nella sin troppo lunga omelia affidata da Veltroni a Repubblica, paradossalmente, merita notare semmai ciò che manca e cioè l’abbozzo di un’autocritica. In più occasioni, ho avuto modo di argomentare che l’esito infausto del corso renziano affonda le sue radici nel Pd versione veltroniana.
Solo per titoli: la “religione” del maggioritario con elementi di democrazia d’investitura nel partito e nelle istituzioni; l’inopinata accelerazione verso una semplificazione bipartitica che mal si concilia con la storia politica nostrana; la declamata vocazione maggioritaria risoltasi nella presunzione dell’autosufficienza del Pd, nel rifiuto delle alleanze; il cedimento a una suggestione “molto lib e poco lab” della base ideologico-programmatica del Pd con la retorica della innovazione a discapito della montante domanda di protezione dei ceti più deboli (evidentissima nel suo discorso del Lingotto); una forma partito che fa perno sul leader, come si evince dallo statuto da lui dettato con le cosiddette primarie nelle quali tutta si risolve la contesa congressuale. Renzi ha esasperato tali premesse (specie la personalizzazione e lo spirito divisivo), ma esse erano già poste.
Chi ha seguito la decennale parabola del Pd sa bene che i seguaci di Veltroni sono stati i più organici sostenitori di Renzi. Essi si autodefinirono “montiani” nel Pd (a proposito di schiacciamento sull’establishment) e furono in prima linea nella riforma costituzionale che, se fosse passata, oggi consegnerebbe a maggioranza e governo giallo-verde un potere esorbitante. Dunque acuirebbe la minaccia di quella democrazia illiberale che oggi inquieta Veltroni.
Ancora: sodali di Renzi, essi hanno condiviso il suo ostinato diniego anche solo a una interlocuzione con i 5 stelle (almeno ad andare a vedere le carte), contribuendo così irresponsabilmente a consegnarli all’abbraccio con Salvini. Oggi sembra che Veltroni lo giudichi un errore. Non poteva farsi sentire a tempo debito, quando Renzi teneva in ostaggio il partito? Ma dobbiamo risalire più indietro. Non è un caso che, nella cerimonia per il decennale del Pd, ancora Renzi sostanzialmente regnante, il celebrante sia stato lui e Prodi neppure sia stato invitato.
Come a riconoscere un’ascendenza da Walter e a marcare la distanza da Romano. Del resto, l’ascesa alla leadership del Pd da parte di Veltroni è coincisa con la caduta del secondo governo Prodi. Che, d’accordo, già vacillava per le sue interne contraddizioni. Ma indiscutibilmente la causa prossima della crisi fu il solenne annuncio-impegno da parte di Veltroni di mollare tutti gli alleati, avviando con Berlusconi un negoziato sulla legge elettorale che cancellasse ogni soggetto terzo rispetto a Pd e Pdl.
Anziché fare un cenno di autocritica, Veltroni si ostina a celebrare come un suo grande successo il 33% del 2008 (che lui arrotonda al 34%). Tacendo tre dettagli: quel risultato fu conseguito al prezzo della desertificazione del campo del centrosinistra, della eliminazione dei potenziali alleati; fu consegnata a Berlusconi una maggioranza parlamentare della quale nessuno mai, neppure De Gasperi, aveva goduto; è concettualmente singolare che un teorico del bipolarismo giudichi (esaltandolo) il risultato elettorale sulla base del consenso al partito singolo e non alla distanza tra i due schieramenti antagonisti. Ripeto: mai così grande. Una disfatta, seconda solo a quella recente di Renzi il 4 marzo scorso.
Questo promemoria non rappresenta un gratuito accanimento critico retrospettivo, ma risponde all’esigenza di correggere la linea su questioni ancora oggi decisive: che la sinistra si rinnovi ma non smarrisca la sua bussola, ovvero l’uguaglianza, e il rapporto con i ceti popolari; che dunque non si faccia del Pd il partito dell’establishment; che si provi a mettere su un’alleanza larga, plurale, inclusiva e alternativa non genericamente ai populisti ma alla destra; che non si faccia di ogni erba un fascio con la tesi renziana secondo la quale 5 Stelle e Lega pari sono (addirittura favorendo la loro assimilazione), ma che si distingua, si interloquisca e si faccia leva sulle palesi contraddizioni di quel contratto di governo… In una parola, che si faccia politica.

Il Fatto 1.9.18
“Voglio un confronto con i 5Stelle. E il Pd può cambiare nome”
Il presidente del Lazio, Nicola Zingaretti: “Ricostruirò valori e classe politica del partito, ora Renzi dia una mano”


“Meno  Macron, più equità”. Il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, candidato alla segreteria del Pd, si fa intervistare da Peter Gomez alla festa del Fatto mentre risuonano le polemiche di queste sue parole rilasciate a Repubblica. La sua presa di distanza dal presidente francese provoca la reazione di molti renziani. Tra cui Roberto Giachetti, caustico: “Lanciare la propria candidatura alla guida del Pd attaccando Macron, tra i pochi argini ai nazionalismi, mi sembra una cosa geniale: famose der male”.
Zingaretti, lei è stato comunista?
Sono stato iscritto alla Federazione dei giovani comunisti, ed è stata una bellissima esperienza.
Cosa ha pensato quando il Pd ha abolito l’articolo 18?
Nella mia esperienza politica non ho mai sostenuto Renzi, non ho mai fatto parte di cordate e ho sempre difeso la mia autonomia. Ma se la sinistra italiana è in queste condizioni non è solo per quanto successo negli ultimi quattro anni. Il punto è che la sinistra non ha più trovato il modo di difendere i diritti.
Non ha risposto sull’articolo 18.
Penso che non bisognasse partire da lì.
Qual è la sua idea di partito?
Magari il problema fosse solo quello di cambiare leader per poi ricominciare a vincere. Il tema è molto più complesso. Vorrei un partito che vada ben oltre l’esistenza di un leader, che da solo non può risolvere tutti i problemi. In questi giorni nel governo un singolo leader sta facendo valere la sua identità e l’esecutivo paga un prezzo altissimo.
Stando ai sondaggi, la maggioranza degli italiani è dalla parte di questo governo.
È giusto che questa maggioranza governi. Ma la difficoltà che sta attraversando non sono marginali, e il M5S appare come vittima e complice dell’azione di governo.
Perché una grande parte del Pd si è schierata con Autostrade per l’Italia sulla vicenda di Genova?
Non credo che questa sia la ricostruzione corretta di quanto accaduto. Dire ‘non sappiamo di chi è la colpa ma intanto togliamo la concessione’ non mi piace: siamo in uno Stato di diritto.
Da un punto di vista civilistico il concessionario è per forza responsabile.
Quella concessione va totalmente rivista. Ma non credo all’illusione che si debba tornare ai carrozzoni che hanno distrutto l’Italia e che sono stati il cuore della corruzione.
Oggi molti l’hanno attaccata per le parole su Macron, tanto che su Twitter Giuliano Ferrara le ha dato del “coglione”. Lei contrasta davvero “l’unico che può arginare il populismo”?
Mi attaccano perché capiscono che per la prima volta si sta muovendo qualcosa di competitivo. Io penso due cose sull’Europa. Primo, chi si definisce sovranista è il primo a mettere in discussione la sovranità nazionale. Secondo, non si può picconare l’unico livello che esiste per difendere questo Paese: se muore la barriera europea qua arrivano tutti e si comprano tutto. Io non abbandono l’euro per andare sul rublo. Alle Europee il Pd dovrà costruire un’alleanza con tutte le forze europeiste, anche con Macron. Ma noi siamo diversi da lui: quindi sì difendere l’Europa con Macron, ma non fare diventare il Pd quella cosa lì.
Quale è il suo progetto?
Si parte il 13 e 14 ottobre a Roma in un grande appuntamento che si chiama ‘Piazza grande’. Voglio ricostruire valori e classe politica. Sono vecchi quelli della ditta (i bersaniani, ndr) e vecchi quelli che si sono proclamati nuovi.
Calenda insiste: chiede di cambiare il nome al Pd.
Non lo escludo affatto, ma solo al termine di un percorso. Se questo porterà a una identità diversa, vedremo se si dovrà cambiare il nome al partito.
Secondo lei rischiamo il fascismo?
I rischi per la nostra democrazia sono inquietanti e pericolosi. Io sono stato indagato per tre anni e non ho mai pensato di accusare alcun magistrato. Per questo reagisco quando vedo l’arroganza di chi ha il potere e pretende l’impunità (Matteo Salvini, ndr).
Si è sempre detto che lei fosse favorevole al dialogo con i 5Stelle.
Su questo si è fatta molta confusione. Penso che paghiamo ancora il prezzo della sceneggiata in streaming con Bersani di 5 anni fa. Di fronte all’esigenza di fare un governo si scelse di umiliare un leader che aveva vinto le elezioni.
Ma con i 5Stelle riaprirà il dialogo?
Sono convinto che gli elettori del M5S e quelli della Lega e della destra non siano la stessa cosa. Voglio aprire un confronto, ma non per accordicchi, piuttosto per una sfida culturale.
Si confessi a Matteo Renzi.
Caro Matteo, è andata così, ma ora, in una posizione diversa, prova a dare una mano.

il manifesto 1.9.18
Il Viminale frena il sindaco: «I fondi per Riace non sono sbloccati»


Doccia fredda per il sindaco di Riace Mimmo Lucano e il suo modello di accoglienza. Il Viminale ha fatto sapere di non aver sbloccato i fondi destinati al programma di accoglienza avviato ormai da oltre 20 anni e che ha portato al ripopolamento del piccolo centro della Locride.
Così come anticipato venerdì sera da Salvini – «non mi risulta» – dal ministero dell’Interno hanno reso noto che il dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione «sta valutando le controdeduzioni trasmesse dal sindaco». «È un passaggio necessario – fanno sapere dal ministero – dopo l’accertamento di molte, gravi, diffuse criticità per spese che non risulterebbero ammissibili. Si tratta di anomalie che hanno contribuito ad aggravare le difficoltà finanziarie».
La situazione resta in standby. Il sindaco nell’intervista di ieri al nostro giornale aveva rivelato di non aver ricevuto ancora conferme ufficiali dello sblocco e di essere moderatamente ottimista nell’iter avviato dal ministero.

Il Fatto 1.9.18
Procure divise su Salvini: dubbi sull’arresto illegale
Gli atti con le accuse di sequestro a Palermo: perplessità su uno dei reati ipotizzati
Procure divise su Salvini: dubbi sull’arresto illegale
di Giuseppe Lo Bianco


Cinque capi d’imputazione e otto ipotesi di abuso d’ufficio: con un messo della Guardia costiera, l’atto di accusa del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, contro il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è giunto ieri mattina alla Procura di Palermo, guidata da Franco Lo Voi, che entro 15 giorni lo trasmetterà al Tribunale dei ministri del capoluogo siciliano, chiamato poi a decidere in 90 giorni.
E in attesa di conoscere data e luogo dell’interrogatorio del ministro, che ha già chiesto di essere sentito dai magistrati, non è detto che la Procura palermitana si limiti a una trasmissione “notarile” ai giudici delle carte dell’inchiesta: se al secondo piano del palazzo di giustizia la parola d’ordine è “stiamo leggendo” le 50 pagine, e non filtrano dichiarazioni, da alcune indiscrezioni sembra che non tutti i reati contestati dall’ufficio del pm agrigentino siano condivisi da quello palermitano.
Tra i capi d’imputazione in dubbio ci sarebbe l’arresto illegale, visto che un arresto formale dei migranti non si è verificato, ed è comunque certo che la Procura abbia intenzione di esercitare fino in fondo i poteri di vaglio che la legge le assegna.
Al “pettine giuridico” dei pm palermitani passeranno due ipotesi di sequestro di persona nei confronti di Salvini, la prima a scopo di coazione dell’Unione europea, per costringerla a redistribuire nei Paesi Ue i migranti della Diciotti, la seconda semplice, e cioè per averli trattenuti a bordo senza uno scopo. E poi l’omissione di atti di ufficio, per non avere indicato, da capo del Viminale, il “porto sicuro” in cui ricoverare la Diciotti con il carico di migranti salvati, visto che l’indicazione di Catania è stata fornita solo come scalo tecnico.
E infine l’abuso d’ufficio, contestato in otto diversi casi. I primi due ancora sulla libertà personale dei migranti: dalla violazione dell’articolo 5 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, “nessuno può essere privato della sua libertà”, a quella dell’articolo 13 della Costituzione, secondo cui “la libertà personale è inviolabile”.
Costituzione violata dal ministro, secondo il procuratore di Agrigento, anche nell’articolo 10 comma 3, che regolamenta il diritto di asilo allo straniero, negato da Salvini. Al quale il pm contesta anche la violazione del Regolamento di Dublino del 2013, che stabilisce i criteri per le richieste di “protezione internazionale”, diritti che a bordo della Diciotti sono rimasti sospesi per dieci giorni, anche nei confronti di donne e bambini.
Sempre in questo contesto, il ministro catalizza la responsabilità di chi non ha informato i migranti della possibilità di richiedere il diritto di asilo, rispondendo anche della violazione dell’articolo 10 ter del Testo unico sull’immigrazione, che prevede che i migranti vengano “tempestivamente informati” del diritto all’asilo, e di non aver consentito il rilascio del permesso di soggiorno ai minori non accompagnati (art. 47, legge Zampa) e dello status di rifugiato alle 11 donne eritree incinte a causa degli abusi subiti in Libia (art. 60, Convenzione di Istanbul).
Infine, non aver indicato alla Guardia costiera il porto di sbarco configurerebbe non solo omissione, ma anche abuso per la violazione del protocollo di coordinamento tra Viminale e Guardia costiera.
A coordinare l’inchiesta contro Salvini è il procuratore aggiunto Marzia Sabella, già nel Pool antimafia che nel 2006 arrivò alla cattura del boss corleonese Bernardo Provenzano, che da qualche giorno si occupa di un altro fascicolo collegato alla nave Diciotti, che ipotizza l’associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, reato di competenza della Dda di Palermo, per il quale nei giorni scorsi sono stati convalidati i fermi di quattro scafisti.

Corriere 1.9.18
Gli italiani senza medici
Raffica di pensionamenti e concorsi semideserti:
«In dieci anni perderemo 47.000 camici bianchi
e tra 5 non potremo curare 14 milioni di persone»
di Margherita De Bac


I laureati ci sono, il blocco è nelle specializzazioni
ultimo caso a Parma. Il concorso per medici di pronto soccorso e medicina d’urgenza bandito dall’azienda ospedaliera e universitaria è andato deserto. L’assenza di candidati non ha sorpreso più di tanto visto che il precedente avviso per 23 posti aveva attratto appena nove adesioni. Una volta gli specialisti si reclutavano al Sud e il fenomeno delle migrazioni di camici bianchi era intenso. Non succede più. Anche da Roma in giù si fa fatica a riempire gli spazi lasciati vuoti da chi va in pensione. A Matera a un bando per 14 professionisti da distribuire tra pronto soccorso, radiologia e medicina generale non ha risposto nessuno.
Previsioni molto negative
Sono solo alcuni dei tanti segnali di un allarme rilanciato a più mandate da sindacati, ordini di categoria e società scientifiche. Gli emuli di Ippocrate sono in via di estinzione e i rincalzi stentano a farsi largo per una serie di ostacoli. Gli ultimi dati aggiornati indicano una carenza di ospedalieri che fra dieci anni sarà di quasi 47.300 unità.
La Federazione delle aziende sanitarie Fiaso e l’associazione dei dirigenti Anaao-Assomed calcolano che anche in caso di totale sblocco del turnover, rallentato nelle Regioni in piano di rientro per il deficit, non si riuscirà compensare nel prossimo quinquennio i dipendenti in uscita tra pensionati, prepensionati e fuggitivi verso il più remunerativo privato o l’estero.
La fuga dei medici di famiglia
E non va meglio tra i medici di famiglia. Nel 2028 se ne saranno andati in oltre 33mila secondo la stima elaborata dal sindacato Fimmg. Soffrono in particolare alcune discipline (chirurghi, pediatri, anestesisti, ginecologi, medici di pronto soccorso) non più appetibili perché sono le più esposte alle denunce del cittadino o perché offrono meno sbocchi professionali.
Il problema però è trasversale ed è legato principalmente alla penuria di rincalzi. I laureati che arrivano alla specializzazione e la concludono sono insufficienti rispetto alle necessità sul campo. È il cosiddetto fenomeno dell’imbuto formativo. Le borse di studio costano alla sanità e le Regioni in difficoltà non possono permettersi di ampliarne il numero.
Il «tappo» dopo la laurea
In altre parole, i laureati ci sono, e quindi non è un problema causato dal numero chiuso di ingresso alle facoltà, ma restano ai blocchi di partenza in quanto non riescono a entrare nelle scuole dove i posti sono in numero limitato. Stesso discorso per i medici di base che per diventare tali con l’abilitazione devono spartirsi 1.100 borse di studio all’anno.
Il segretario nazionale Silvestro Scotti è pessimista: «Tra cinque anni, 14 milioni di italiani resteranno senza assistenza di base». Il presidente della federazione degli ordini dei medici Filippo Anelli chiede al governo di togliere i vincoli per il dopo laurea e di valutare la possibilità di mandare in corsia gli specializzandi dell’ultimo anno, soluzione che va studiata dal punto di vista legale e che potrebbe non essere praticabile.
Il ministro Giulia Grillo raccoglie l’allarme con un occhio ai giovani laureati: «Hanno ragione, il sistema va rivisto e lo stiamo facendo. Tra laurea e inizio dell’attività lavorativa ci deve essere continuità». Intanto chiede alle Regioni di quantificare la carenza di personale negli organici e promette cambiamenti già nella prossima legge di Stabilità.
Le soluzioni tampone
Per i prossimi anni si troverà il modo di sbloccare questo circuito dannoso. E per l’immediato? Per ora le aziende sanitarie stanno adottando soluzioni tampone ad esempio con contratti a termine o rivolgendosi a cooperative di medici. I giovani di Anaao scalpitano e ce l’hanno col ministro dell’Istruzione che ha aumentato di circa 600 il contingente di posti per i corsi di laurea in medicina e chirurgia. Stimano che al prossimo concorso delle scuole di specializzazione si presenteranno in 16.400 per 6.200 contratti di specializzazione. Oltre diecimila giovani restano nel limbo.

il manifesto 1.9.18
«Sessantotto», la plasticità della memoria del passato
Un volume a più voci curato da Donatella della Porta per Feltrinelli
di Alessandro Santagata


Ad oggi la ricorrenza del Sessantotto si è rivelata piuttosto monotona. Al di là dell’uscita di alcuni contributi originali, segnalati anche dalle pagine di questo giornale, il dibattito pubblico ha seguito il copione dei decenni precedenti, sebbene con toni più dimessi, a dimostrazione di un disinteresse crescente. In questo contesto, il volume collettivo Sessantotto. Passato e presente dell’anno ribelle (Feltrinelli, pp. 300, euro 20), a cura di Donatella della Porta, sembra sfuggire felicemente ai consueti «schemi celebrativi».
I DIVERSI SAGGI hanno come oggetto i meccanismi di riattivazione della memoria nelle «letture trasformative» dei movimenti sociali. L’«idea di fondo – si legge nell’introduzione – è che, benché in generale tenda a diminuire, la plasticità della memoria del passato tenda ad aumentare nei momenti di crisi, come è avvenuto alla memoria dei miti fondanti delle transizioni democratiche nelle proteste antiausterità dell’Europa meridionale».
A giudizio della curatrice, il Sessantotto «appare oggi, cinquant’anni dopo, più vicino a noi che nei precedenti anniversari». La prospettiva è quindi anche militante, come si comprende dal coinvolgimento nel libro di alcuni attori della politica contemporanea, come Pablo Iglesias, Jon Trickett, ministro ombra del Partito laburista, Emma Rees e Adam Klug di Momentum, e Costa Douzinas, filosofo eletto con Syriza. Ma soprattutto, il libro adotta una visione realmente internazionale e, in particolare, paneuropea: si spazia dallo studio della memoria del Maggio in Francia, al «ripensamento» di un «Sessantotto decentrato» in Grecia, Spagna e Portogallo, fino all’indagine delle «reazioni di destra» al Sessantotto polacco.
UNO DEI FILI ROSSI consiste nella messa in chiaro di quella che fu la componente politica e sociale del Sessantotto. I diversi contributi mostrano la diramazione di memorie politiche alternative a quella dominante, schiacciata su una visione «culturalista». Secondo della Porta, «per i sessantottini, così come per i giovani attivisti dei nostri anni, la dimensione generazionale si intrecciò a una dimensione di classe». Anche se può risultare fuorviante adottare un’interpretazione che rischia di rappresentare un Sessantotto quasi monodimensionale, è interessante la riflessione proposta dagli autori sulle continuità tra le proteste studentesche degli anni Sessanta e quelle più recenti: contro il restringimento delle opportunità formative, e contro le riforme del sistema scolastico volte a produrre forza lavoro precaria e dequalificata.
Nel suo saggio sulle narrazioni del Sessantotto nel movimento studentesco dell’«Onda Anomala» (2008-2011), Lorenzo Zamponi propone i risultati di un’ampia ricerca sul campo sui movimenti come «comunità mnemoniche». Emerge un ritratto sfaccettato della memoria della contestazione. «Il Sessantotto – scrive l’autore – dimostra di essere un ricordo ingombrante, ancora vivo nell’ambiente simbolico in cui agiscono gli studenti di oggi, ma con cui è difficile rapportarsi e identificarsi, per via delle narrazioni di eccezionalità che lo caratterizzano».
CIONONOSTANTE, Zamponi aggiunge che, malgrado il predominio dei mass media come «depositi della memoria», i movimenti sono stati capaci di un’appropriazione selettiva, riscontrabile soprattutto in un insieme di pratiche e di conoscenze.
Sembra opportuno aggiungere che la fine del Novecento si è consumata lentamente, soprattutto a sinistra, ma in maniera ormai definitiva per le ultime generazioni. Più in generale, come osserva nel suo saggio Colin Crouch, la stessa esperienza storica del Sessantotto, con la sua eredità tormentata, interroga gli studiosi sulle relazioni complesse tra la storia del movimento operaio, i movimenti civili, e la modernizzazione all’origine dell’odierno sistema neoliberista. Osserva il sociologo britannico: «non c’è quasi nulla che le imprese capitalistiche non possano imitare e produrre in serie, inclusa la stessa ribellione». Era vero già negli anni Sessanta e si è rivelato più chiaramente nei decenni successivi, quelli della crisi delle forze anticapitaliste.
E ANCORA: «Mezzo secolo dopo il Sessantotto, è l’impresa la forma di organizzazione che si è dimostrata più capace di assimilare le sue lezioni di flessibilità e adattabilità». Ecco allora che, pur senza sposare la tesi di un ’68 generatore del neoliberismo (Crouch non ci cade), si fa comunque fatica a sottoscrivere la tesi di un Sessantotto politicamente «vicino». Come emerge anche dai saggi raccolti in questo libro, lo studio della memoria della contestazione si conferma come un campo d’indagine ancora aperto e particolarmente fertile, tanto per tornare a riflettere sui «lunghi anni Sessanta», quanto per capire i movimenti sociali e decriptare i dispositivi culturali del tempo presente.

La Stampa 1.9.18
Trump taglia tutti i fondi ai palestinesi
Via i finanziamenti Usa all’agenzia Onu Unrwa
di Giordano Stabile


L’Amministrazione Trump ha tagliato tutti i fondi destinati ai palestinesi attraverso l’agenzia Onu Unrwa. La decisione è stata presa, ha dichiarato la Casa Bianca, perché l’organizzazione ha «un modello di business sbagliato» che serve soltanto a garantire «una comunità che si espande senza fine» di rifugiati palestinesi. Già all’inizio di quest’anno il presidente Donald Trump aveva dimezzato i fondi. La scorsa settimana il dipartimento di Stato aveva a sua volta azzerato i 200 milioni annui di aiuti diretti.
La decisione era stata anticipata da una fuga di notizie dalla Casa Bianca, quando sono emerse e-mail del presidente Trump al consigliere speciale, e suo genero, Jared Kushner. Ora è arrivato l’annuncio ufficiale: «L’Amministrazione – spiega il comunicato – ha determinato che gli Stati Uniti non verseranno ulteriori contribuzioni all’Unrwa dopo quella di 60 milioni a gennaio. Vogliamo chiarire che gli Stati Uniti non vogliono più sopportare un peso molto sproporzionato per i costi dell’Unrwa come hanno fatto per molti anni».
Ma c’è anche una motivazione politica e strategica: «Oltre al fallimento nell’arrivare a una più equa distribuzione degli impegni fra i contributori, il modello di business che ha caratterizzato l’Unrwa per anni, legato all’espansione senza fine dei beneficiari degli aiuti, non è sostenibile. Gli Stati Uniti non sono più interessati da finanziare questa operazione fallimentare».
L’Unrwa è nata subito dopo la prima guerra arabo-israeliana, 1948-1948, quando circa 700 mila palestinesi furono costretti a lasciare le loro case durante il conflitto. Oggi l’agenzia fornisce assistenza a cinque milioni di persone con budget di oltre un miliardo di dollari all’anno. Gli Usa sono stati finora i maggiori contribuenti. Nel 2016 hanno donato 368 milioni dollari. Seguono l’Unione europea con circa 160 milioni dollari e l’Arabia Saudita con 150. Quest’anno l’Amministrazione Trump ha pagato la prima rata di gennaio, 60 milioni, poi sospeso la seconda, 65 milioni, e ora cancellato del tutto i pagamenti.
Oggi i rifugiati palestinesi sono ospitati quasi tutti in Cisgiordania, Gaza, Giordania, Libano, Siria. Secondo Israele però i veri rifugiati sono poche decine di migliaia, cioè i superstiti fra i profughi della guerra del 1948-1949. La Casa Bianca ha di fatto accolto questa tesi e punta a ricalcolare al ribasso, con un taglio del 90 per cento, il numero dei profughi. Trump avrebbe già chiesto a Re Abdullah di Giordania di naturalizzare i due milioni che vivono sul suo territorio. Le pressioni in questo senso si legano anche alla trattative per un accordo di pace fra Israele e palestinesi: uno dei nodi più difficili nelle trattative è il «diritto al ritorno» dei profughi. Israele ha sempre detto no all’ipotesi di un ritorno in massa, ma potrebbe accoglierne qualche migliaio a titolo simbolico.

Corriere 1.9.18
Lana Del Rey cancella show a Tel Aviv


Lana del Rey (sopra, nella foto) ritorna a sui suoi passi. La cantautrice statunitense ha annullato un imminente concerto previsto in Israele, a Tel Aviv. Del Rey ha annunciato che non cambierà decisione finché non potrà esibirsi «sia in Palestina che in Israele».

Repubblica 1.9.18
Il ragazzo del treno che racconta la Cina ad alta velocità Si chiama Feng e passa la sua vita a visitare tutte le 2.300 stazioni del Paese. “Perché questo è l’ombelico del mondo”
di Filippo Santelli


La velocità sul display continua a salire. Fuori dal finestrino grattacieli e campi di granturco sfumano in un flusso indistinto. « Guarda, eccoci » . 353 chilometri all’ora. « Siamo in Cina cavolo, un treno non dovrebbe andare così veloce! E invece è già il 22esimo secolo! » . Dopo una giornata passata tra convogli e stazioni, l’enciclopedia del trasporto su rotaia a nome David Feng alla fine si lascia andare. «Mi ricordo la prima volta che ho preso questo treno, esattamente dieci anni fa — racconta in un inglese oxfordiano —, era il primo su cui salivo in Cina, da allora non ne ho avuto mai abbastanza». Ha scelto di vivere qui, nonostante il passaporto e la testa dicano Svizzera, il Paese dove è cresciuto da figlio di emigranti, « straniero ovunque » . E al simbolo del balzo in avanti del Dragone, la rete ad alta velocità più estesa al mondo, 25mila chilometri di rotaie, ha dedicato un progetto di lucida follia: visitare entro il 2022 ognuna delle sue 2.300 stazioni, raccontandole in un documentario multimediale fatto di blog, video in streaming e social network.
cinque telefonini
Oggi il menù ne prevede tre, estremi di un triangolo che dalla capitale si allunga verso Sud (Baoding) e si allarga a Ovest (Tianjin), racchiudendo una delle più importanti “ regioni metropolitane” della nazione. Stanno nel foglio Excel degli scali già visitati, 325, ma meritano un secondo passaggio. Così il ragazzone di quasi due metri, 36 anni e capelli brizzolati, ha tutto l’armamentario al seguito, in due borsette che ne rendono l’andatura dinoccolata. « Cinque telefoni: con uno scrivo sui social stranieri, con un altro su quelli cinesi, questo per le chiamate in Svizzera e questo per le locali. L’ultimo è di riserva ». Li toglie dalle tasche e li appoggia sul tavolino, controllando che il treno parta in orario: « Sono uno svizzero ossessionato dalle regole, in un Paese dove esistono solo eccezioni » , dice citando Jovanotti in italiano, l’Ombelico del mondo. È a Zurigo che la passione è iniziata, nei quotidiani viaggi in carrozza verso la scuola superiore fuori città. Con in mano quello che lì chiamano “ Abbonamento generale”, Feng ha scoperto un tesoro. « Potevo salire su qualsiasi treno, nel weekend andavo in stazione e ne prendevo uno a caso. Viaggiavo e facevo i compiti, la sera tornavo a casa».
Oggi sa tutto, dalle specifiche tecniche delle motrici al numero di binari di ogni stazione. Ma soprattutto sta testimoniando, « con un posto in prima fila » , la trasformazione di un Paese e del suo modo di spostarsi. La sua prima grande hit sul web è stata una diretta dalla stazione di Kunming, traboccante di persone che tornavano a casa per il capodanno cinese. In dieci anni appena compiuti, le linee ad alta velocità sono diventate uno dei tessuti connettivi del Dragone, quasi 2 miliardi di viaggi solo nel 2017. « La maggior parte dei passeggeri si sposta per lavoro, ma il biglietto è sempre più alla portata di tutti » . Facciamo una passeggiata lungo le carrozze: più uomini che donne, molti giovani, la gran parte dorme o smanetta con il cellulare, qualcuno gioca a carte. Mica così diverso dalla nostra alta velocità, solo che più persone mangiano e ogni vagone ha un distributore dell’amata acqua calda: « Sui vecchi treni capita di vedere risse, fumo, sacchi pieni di merce. Sull’alta velocità sta sparendo pure l’abitudine di prepararsi i noodles ( un particolare tipo di pasta orientale, simili agli spaghetti, ndr) istantanei. L’odore è tremendo, gli altri passeggeri ora guardano male chi lo fa».
rivoluzione culturale
Un cambio totale di prospettiva, per un mezzo che fino all’altro ieri in Cina prometteva solo interminabili viaggi su duri sedili di seconda classe (anche se il regime comunista vieta di chiamarla così). Oggi a soffrire di cattiva reputazione sono semmai gli aerei, in cronico ritardo. Senza contare che dal disastro di Wenzhou del 2011, uno scontro tra convogli che causò 40 morti, China Railway non ha fatto più registrare incidenti. «I giovani cominciano a vederla come una esperienza piacevole, perfino trendy » , dice Feng. Che a suo modo cerca di migliorarla ancora, con un occhio agli stranieri. Per i turisti in visita orientarsi nella bolgia dantesca di Pechino Sud è un incubo. Trovare un Virgilio che parli inglese impossibile. Feng ha pubblicato un prontuario bilingue per il personale delle ferrovie con mille frasi di servizio. E aiutato le stazioni a correggere alcuni dei più grossolani errori di traduzione sui cartelli, il famigerato chinglish: «La biglietteria automatica era diventata una “ biglietteria buffet”, l’uscita una “stop bocca”».
Quel libro, insieme a un ritratto sul Quotidiano dei ferrovieri, lo ha reso una celebrità anche tra i lavoratori. Alla stazione di Baoding, su una banchina deserta, ad attenderlo c’è una giovane funzionaria del Partito: «Chiedo sempre il loro aiuto per le riprese » . Lei inquadra con il cellulare, lui sistema la camicia a righe, accende il microfono e inizia lo streaming, mostrando perché è professore di Comunicazione: « Questa è una stazione fortunata ». Fortunata? Siamo in mezzo al nulla, due binari sopraelevati e un edificio in mezzo ai campi, si sentono gracidare le rane. Ma Xi Jinping ha deciso che qualche chilometro più in là nascerà la nuova città di Xiong’an, un centro direzionale che sgraverà Pechino da uffici, lavoratori e abitanti. Baoding, racconta il ragazzo ai suoi webspettatori, ne diventerà uno dei punti di accesso. « L’hanno già migliorata » , nella piazza dell’ingresso è comparsa una enorme fioriera. La facciata di piastrelle bianche sembra uguale a decine di altre, ma Feng indica il gioco delle finestre: « Sono piccoli particolari a distinguerle».
il rischio “ bolla”
Di scali senza criterio la Cina ne ha diversi: uno, leggendario, sta a 50 chilometri da ogni centro abitato. Molti ritengono che la spettacolare crescita delle strade ferrate sia in realtà l’ennesima bolla, il colosso di Stato China Railway ha debiti per 635 miliardi di dollari. Il sospetto aumenta, vedendo che dal tetto a volta dell’enorme stazione di Tianjin diluvia dentro, che nel seminterrato le vetrine dei negozi sono vuote, o che sul treno che a sera ci riporta a Pechino lanciati a 350 km/ h molte poltrone sono libere. Adesso che l’economia frena, ecco la Cina annunciare ulteriori investimenti su binari e linee, ma ne ha bisogno? Feng dice di sì. « Ho visto stazioni che parevano enormi rivelarsi piccole, altre isolate attorno a cui sono cresciute città, treni vuoti che si sono riempiti ». Parla della Cina, ma anche di sé, del motivo per cui uno svizzero ha deciso di restare qui, raccontando una città alla volta, una fermata alla volta. « Guarda! » . Da nessun’altra parte si corre più forte. n
1La stazione di Nanning, capitale della regione del Guangxi, nel sud della Cina Il treno bianco sullo sfondo collega, attraverso l’alta velocità, la Cina con il Vietnam

Corriere 1.9.18
«Censurate Marco Polo »
I frati esortavano a saltare i brani del «Milione» dedicati ai costumi erotici
di Gian Antonio Stella


«E le donne sono belle, gioiose e sollazzevoli». Immaginatevi il ribollio di sensi che doveva provare un lettore trecentesco a leggere i racconti di viaggio di messer Marco Polo. Stordito dal turbamento, scrive il filologo Giulio Busi, il frate domenicano Jacopo da Acqui si diede la pena «di redigere, verso il 1330, un bel riassunto di tutti, o quasi, i passi che il Milione dedica a nudità, pulzellaggi, matrimoni e promiscuità sessuale». E fra Francesco Pipino da Bologna andò oltre e compilò una lista dettagliata. Pagine da saltare.
Via quelle sulle ragazze dell’India meridionale, «donzelle» che «finché sono tali, hanno delle carni talmente dure che non riesce a nessuno in nessuna maniera di stringerle o pizzicarle in nessuna parte! E si noti che pagando un denaro piccolo uno è libero di pizzicarle...». Via quelle sul Celeste Impero, dove «le donne sono bianchissime, hanno bellissime carni e sono fatte alla perfezione in tutte le membra» e sul Gran Kan il quale, «quando gli talenta», si fa selezionare «quattro o cinquecento fanciulle» e poi «ne fa dare una a ciascuna delle mogli dei baroni, perché se le mettano a dormire nello stesso letto ed osservino con gran cura se son vergini e perfettamente sane sotto ogni aspetto, se dormono soavemente od invece russino, se abbiano buono e dolce alito…». Per non dire del Tibet, dove «per nulla al mondo uno prenderebbe in moglie una vergine: dicono che non val nulla una donna la quale non abbia usato con molti uomini» e dunque le madri, se «sono di passaggio per quella contrada dei forestieri», offrono loro le figlie e «gli uomini le accolgono e si sollazzano seco loro, tenendole tutto il tempo che vogliono»…
Sono passati più di sette secoli dal 1298 in cui Marco Polo, partito per la Cina col padre Niccolò e lo zio Matteo nel 1271, rientrato ventiquattro anni dopo a Venezia per ripartire presto verso nuove imprese, ma finito in galera a Genova, dettò a Rustichello da Pisa il viaggio più avventuroso di tutti i tempi. Un libro per «imperatori e re, duchi e marchesi, conti, cavalieri e borghesi»: «Troverete qui tutte le immense meraviglie, tutte le grandi singolarità delle grandi contrade d’Oriente!». E «senza nessuna menzogna».
Oddio, qualche frottola c’è. Come le righe dedicate ai cinocefali delle Andamane: «Dovete sapere che gli abitanti di quest’isola hanno tutti la testa canina; hanno gli occhi ed i denti da cane. Vi accerto che rassomigliano tutti, nel capo, ad un grosso mastino». L’aveva orecchiato da altri. Va detto però, che frenando anche Rustichello (più portato al fantasy, diremmo oggi), corresse antiche leggende spiegando ad esempio che il favoloso liocorno, nella realtà un rinoceronte di Sumatra, «ha in mezzo alla fronte un grossissimo corno nero… ha la testa fatta come quella del porco selvatico» e «non è affatto come la diciamo e descriviamo noi, nei nostri paesi: la bestia che si lascia prendere in grembo da una vergine. Vi accerto che è proprio tutto l’opposto…».
In ogni caso, che descriva il Monte Verde «che il Gran Signore ha fatto coprire di lapislazzuli» o le notti nel deserto dove il viaggiatore si perde udendo parlare gli spiriti, «la prosa del Milione è un unico, dettagliato, coloratissimo quadro, lungo più di vent’anni di vita», scrive Giulio Busi, autore per Mondadori di Marco Polo. Viaggio ai confini del Medioevo: «Leggete questo libro come se lo vedeste dipinto, miniato in tinte smaltate e brillanti, e avrete trovato Marco».
Ed è così. La rilettura di quello che il grande critico letterario Attilio Momigliano considerava «il libro più grandioso del Duecento», restituisce nell’ammasso di informazioni pratiche allora preziosissime e oggi superate da Google Maps («La provincia è bagnata da due mari. Ha da una parte il Mar Maggiore e dall’altra…») pepite d’oro di eccezionale fascino, bellezza e freschezza.
Come la descrizione di certe battute di caccia dell’imperatore Qubilai, signore della Cina: «E il Gran Signore resta sempre sopra quattro elefanti, in una bellissima camera di legno, tutta ricoperta al di dentro di drappi d’oro battuto e al di fuori di pelli di leone. In essa dimora continuamente il Gran Kan, quando va a uccellare, per causa della gotta che lo molesta. Egli vi tiene sempre dodici girifalchi, dei suoi migliori. Vi stanno pure parecchi baroni e parecchie dame per divertirlo e fargli compagnia».
E appena «i baroni che cavalcano intorno a lui gli gridano: “Sire! Passano delle gru”, egli subito fa scoperchiare la sua camera e vede le gru che passano: fa allora prendere i girifalchi che preferisce e li lancia. Quei girifalchi combattono colle gru a lungo e il più delle volte riescono a prenderle. Il Gran Signore contempla lo spettacolo senza muoversi dal suo letto; e ne è grandemente divertito e allietato».
Ed ecco i messaggeri del Gran Kan che «sfrecciano senza posa» sulle strade dell’Impero con «una gran cintura, tutta piena intorno intorno di sonagli, per essere sentiti, quando corrono, da molto lontano» e «si lanciano alla corsa più sfrenata che possono. Quando arrivano vicino alla nuova posta, suonano una specie di corno che si sente di lontano, perché preparino i cavalli. E tanto corrono che giungono alla fine delle prime venticinque miglia; e quivi trovano due altri cavalli apparecchiati, freschi, riposati e veloci» e «saltano in sella immantinenti, senza riposarsi né punto né poco…».
E par davvero di vederli, quei cavalieri pazzi, con gli occhi di quel ragazzo «de Venessia» che riuscì a diventare giovanissimo uomo di fiducia dell’imperatore della Cina e raccontò per primo al mondo delle banconote: «(Il Gran Kan) fa prendere delle cortecce d’albero, e più precisamente delle cortecce di gelso, l’albero delle cui frondi si cibano i bachi che fan la seta; fa togliere la buccia sottile che si trova tra la corteccia ed il fusto; fa tritare e pestar quelle bucce e impastar con della colla; quella pasta fa stendere in fogli simili ai fogli di carta. Questi sono completamente neri. Quando essi son fatti, li fa tagliare in foglietti di varia grandezza, foglietti però di forma quadrata e più lunghi che larghi (…) e tutte quelle monete sono fatte colla stessa autorità e solennità come se fossero d’oro o d’argento puro»…
Lui stesso, del resto, era consapevole della fortuna avuta. E fece scrivere a Rustichello: «Da quando Iddio Signor Nostro plasmò colle sue mani il nostro primo padre Adamo, non ci fu mai nessuno, né cristiano, né pagano, né tartaro, né indiano, né d’altra razza che si voglia, che abbia conosciuto ed esplorato delle diverse parti del mondo e delle sue grandi meraviglie, quanto ne esplorò e ne conobbe questo messer Marco».

Repubblica 1.9.18
La ballata nera dell’Irlanda che non vuole cambiare mai
"Un feroce dicembre" di Edna O’Brien ci mostra una società divisa tra vecchio e nuovo
È il duro affresco di una comunità rurale soffocante
E ha dentro echi di Dylan Thomas e James Joyce
di Leonetta Bentivoglio


Edna O’Brien narra la sua Irlanda in scenari di faide sanguinose, lotte nutrite da antagonismi atavici, terre che trasudano violenza, grida di vitelli separati dalle loro mamme. La natura non è gentile. La natura procede nel suo corso con indifferenza al resto. Le vacche madri ignorano il pianto dei vitelli, i quali «per mesi avevano conosciuto soltanto il latte, l’odore del latte, il calore del latte, le morbide procaci mammelle che erano state il loro abbeveratoio, il loro cuscino, poi da un giorno all’altro qualcuno li aveva fatti uscire senza preavviso da un’intercapedine in un mondo enorme che si chiamava nulla». Così descrive, nell’affresco di Un feroce dicembre, l’ingresso dei vitelli dentro la spietatezza sacrificale della vita Edna O’Brien, scrittrice che non teme il ritmo di una lingua reiterata e austera.
Infischiandosene degli abbellimenti e delle ellissi, Edna affronta la prosa con battito secco e incalzante, puntando a un apice narrativo che usa lo strappo e la trazione ("the tug and traction") per ottenere il "racconto perfetto", che nell’ottica di questa potente romanziera nata nel 1930 respira solo della concretezza dell’azione, della cornice e dei personaggi, prescindendo dalle più consuete cortesie formali.
La voce di Edna O’Brien non è delicata: bisogna abituarsi alla sua ruvida forza. I temi sono l’inesorabilità del fato, l’anelito alla fuga verso un difficile altrove (le radici incatenano) e l’ansia divorante del possesso, rivolta a una persona o a obiettivi come le zolle del vicino e il suo bestiame. La frustrazione e l’impulso alla rivolta, specialmente femminile, possono inondare di peccati comunità rurali soffocanti, vedi il villaggio delle esplosive Ragazze di campagna che segnarono l’esordio di O’Brien dando fuoco alla bacchettona Irlanda anni Sessanta, dove sui sagrati delle chiese si bruciavano copie del libro. Vedi anche la selvatica e umida Cloontha, località che funge da sfondo di Un feroce dicembre, appena uscito nella traduzione di Giovanna Granato per Einaudi Stile Libero (l’originale in inglese, Wild Decembers, risale al 1999).
Da Cloontha non si è mai staccato Joseph Brennan, grandiosa figura di perdente. È lui l’ultimo prodotto di una genia di contadini e pastori per i quali Dio sta nella natura ancestrale, nel perfido paesaggio brullo, nell’alito dei «campi che contano più dei campi, più della vita e anche più della morte». Un sentimento che ha ancorato Joseph alla dimora natale sopprimendo il suo desiderio di seguire in città la ragazza di cui s’era innamorato. Rimasto a Cloontha con la sorella Breege, cresciuta nella sua ombra, Joseph è un dominatore di fragile equilibrio. Giunge a sconvolgerlo Mick Bugler, tipo sessuato e virile, originario di Cloontha trasferitosi in Australia. Ora ha deciso di tornare nel paesello irlandese per dedicarsi alla proprietà ereditata, confinante con quella di Brennan. Lungo varie generazioni i Brennan e i Bugler si sono scontrati a causa dei diritti di pascolo, finché i secondi hanno cambiato continente.
Il figlio dei Bugler Mick, che in Australia ha una promessa sposa di nome Rosemary, intende occuparsi del podere abbandonato rilanciandolo con nuove tecnologie. In questa metafora sulla perdita e sul fallimento del ritorno, Mick è l’irrompere del progresso cui si oppone la vecchia Irlanda incarnata da Joseph, col suo fosco bagaglio di memorie e con la sua paura tremenda di cambiare. Mentre si ridesta l’inimicizia della stirpe, aggravata dall’amore scatenatosi in segreto tra la candida Breege e l’impetuoso Mick, la storia arde di vibrazioni complementari: O’Brien mescola voli alla Dylan Thomas (nelle prospettive allucinate di natura) a sorprese epifaniche (o traumatiche) alla James Joyce. E nell’alchimia maestosa del racconto ritaglia passaggi di umorismo sessuale. Lo fa attraverso le lascive sorelle-streghe Reena e Rita, che a Cloontha addobbano il loro nido col denaro dei maschi catturati e trasformati in prede di grotteschi sabba erotici.
Monta il conflitto fra i due protagonisti, sospinto dalla paranoia di Joseph e dallo sprezzo di Mick per l’arretratezza isolana. Roso da una fagocitante ostilità, Joseph dichiara all’intruso un’ossessiva guerra giuridica.
Ma è soprattutto la scoperta della liaison tra Mick e Breege a mandarlo fuori di testa.
Quando dall’Australia arriva l’emancipata Rosemary, l’accavallarsi delle gelosie e i furiosi contrasti culturali sboccano in un inferno tragico e grondante di delitti che non va anticipato.
Basti sapere che il senso della predestinazione e dell’ineluttabilità della morte partecipano con profondità congenita all’imponente sfida letteraria di Edna O’Brien.

Repubblica 1.9.18
L’evento
Porno, jazz e caos onirico nel testamento inedito di Orson Welles
di Em. Morre


Il vero evento della Mostra del cinema, il film più sorprendente, è un film postumo. The other side of the wind è un titolo leggendario, uno di quei film incompiuti i cui materiali Orson Welles si portò dietro fino alla morte. Girati a più riprese negli anni Settanta, si sapeva che era la storia di un anziano regista interpretato da John Huston, e se ne erano viste alcune scene assai erotiche in un documentario di Oja Kodar, all’epoca compagna e collaboratrice del regista.
Finalmente ora esiste una versione del film, che certamente non è quella di Welles (si aspettano diatribe dei filologi), ma che il suo devoto fan Peter Bogdanovich (anche attore nel film, nei panni di un quasi-se stesso) ha portato a termine seguendo gli appunti del maestro e utilizzando parti già montate.
Si ha davanti un oggetto inclassificabile, fin dalla prima vertiginosa sequenza, su musiche jazz di Michel Legrand, che segue una carovana di fan e giornalisti in viaggio verso il leggendario regista che sta per festeggiare il compleanno e mostrare brani della sua prossima opera.
Che, capiamo presto, in realtà è un insieme di deliri onirici.
Ciò ha causato, nella proiezione, un’involontaria mise en abyme: si guardava un film incompiuto e caotico, su un regista che a sua volta mostra un film caotico e incompiuto. Il film parte alla lontana come Quarto potere (l’indagine su un personaggio mitico) e prosegue come
Una storia immortale (realtà e finzione che si fondono) ma lo stile è quasi da happening, di un reportage con macchina a mano, mentre il film nel film è una specie di ipnotico porno d’avanguardia, tra parodia di Zabriskie Point e premonizioni di Eyes Wide Shut. Sembra uno di quei "film mitici", estremi, immaginati da certi scrittori, da Jonathan Coe a Paul Auster: solo che esiste davvero. Non sappiamo quanto ciò sia dovuto alla difficoltà di ricomporre il girato, ma se Fellini in 8 ½ aveva raccontato la confusione e la crisi creativa redimendole nella forma, Welles sembra far dilagare il caos nel suo film. Ormai fuori dai giochi, è disinteressato alla forma e pressato dall’urgenza delle proprie ossessioni. Le immagini finali sono un testamento epico e teorico, un addio al cinema inteso anche come sguardo del maschio sulla femmina. E usciti dalla sala, si guarda come da un altro pianeta a tutte le immagini che passano al Lido, e nel resto del mondo.
Il Fatto 3.9.18
Galante Garrone e Calamandrei: il senso della Costituzione
La storia intellettuale e morale di un uomo d’altri tempi, padre della Carta
di Furio Colombo


L’autore è Alessandro Galante Garrone, un nome che ha fatto da guida e da riferimento a tanti adolescenti torinesi dell’immediato dopoguerra, sul senso e il valore di essere antifacisti. Il libro è dedicato a Calamandrei (Biografia morale e intellettuale di un grande protagonista della nostra storia, Effepi Libri), il personaggio che – dopo avere partecipato alla scrittura della Costituzione – si è impegnato a guidare un’Italia nuova e pulita lungo un percorso nobile di solidarietà fraterna, un Paese senza odio e senza confini, dopo una guerra che ha attraversato le terre desolate della morte a milioni e del deliberato e bene organizzato sterminio di popoli. Né Galante Garrone né Calamandrei si fidavano dello slancio spontaneo verso il bene di coloro che erano sopravvissuti a una guerra di stragi. Galante Garrone ha preso subito la bandiera della democrazia, dimostrando che niente vive senza l’impegno (il dovere) e la partecipazione di ciascuno cittadino. Calamandrei ha spinto sulla scena ancora disadorna dell’Italia povera e incerta di allora, i diritti delle persone, i diritti della Costituzione, i diritti umani, i diritti civili che, in seguito, i partiti, con l’unica clamorosa eccezione di Marco Panella, di Emma Bonino, del Partito Radicale, avrebbero tralasciato come se fossero solo l’ornamento, non la materia prima della democrazia.
Ma l’imbarazzo deve essere grande, per chi prende in mano ora questo libro (che è una ristampa da un’Italia lontana) e lo confronti con l’Italia che stiamo vivendo adesso, dove i diritti umani di rom, migranti e poveri vengono non solo trascurati ma deliberatamente e fisicamente offesi perchè i più deboli non contano. Governare con le false promesse, in un castello di illusioni e invenzioni, ha portato a precipitare in un triste retro-cortile senza cultura, senza storia, senza solidarietà, senza alcun interesse per sentimenti e diritti, dove conta solo il compiacimento del proprio personale potere. Questo libro arriva dal passato in un tempo in cui si usa lo slogan “prima gli italiani”, che farebbe inorridire chiunque ha combattuto per la libertà, e ha scritto e insegnato la Costituzione italiana. Perciò Galante Garrone e Calamandrei servono oggi all’Italia come le navi ong e la Guardia costiera italiana servono a salvare migranti, benchè l’ordine di questa repubblica sia di voltare le spalle.

Il Fatto 3.9.18
Le democrazie sono imperfette
Se il potere è del popolo, ma i cittadini che partecipano alla vita politica sono pochi, poco interessati e poco informati, i risultati del processo decisionale saranno deludenti per tutti
di Gianfranco Pasquino


Alle democrazie manca sempre qualcosa. È giusto così. Forse è persino meglio così perché nelle democrazie è possibile continuare a cercare quello che manca, spesso trovandolo.
Democratico è quello che deve essere soggetto al controllo del popolo: governanti, rappresentanti, assemblee elettive, leggi, non, però, la burocrazia, le Forze Armate, la magistratura, le istituzioni scolastiche che debbono rispondere a criteri di efficienza ed efficacia, di conseguimento degli obiettivi decisi dai rappresentanti e dai governanti. Il popolo deciderà poi se, come, quando fare circolare quei rappresentanti e governanti, cambiarli, meglio non usando il criterio burocratico del limite ai mandati tranne per le cariche elettive di governo che hanno la possibilità di sfruttare il loro potere per influenzare la propria rielezione.
La democrazia riguarda esclusivamente la sfera politica, quella nella quale si affida a qualcuno il potere di decidere “secondo le forme e i limiti della Costituzione”. È ciascuna Costituzione a stabilire quelle forme e i relativi limiti. Qualcuno deve arbitrare relativamente alle forme e ai limiti. Dalla Costituzione Usa in poi quel qualcuno è una Corte costituzionale, il “giudice delle leggi”, la cui esistenza e la cui attività non vanno a scapito della democrazia tranne quella interpretata in chiave populista dove il popolo deciderebbe tutto con il suo voto, a prescindere dalle forme e dai limiti, finendo spesso nelle braccia di leader populisti e demagoghi e con loro fuoriuscendo dalla democrazia. Certo, ci sono anche casi nei quali è la democrazia che “fuoriesce” dal popolo (e da se stessa) ovvero meglio isola i governanti dal popolo. Succede quando una coalizione di strutture raggiunge accordi di non belligeranza e non interferenza e si irrigidisce dando vita ad autoritarismi centrati sul riconoscimento di reciproche sfere di influenza: la burocrazia statale, le Forze Armate, i grandi gruppi industriali, spesso la Chiesa.
Nella misura in cui la democrazia è pluralismo competitivo, le coalizioni autoritarie nascono raramente e durano (relativamente) poco. Si trovano nei Paesi a noi vicini soprattutto in Russia e in Turchia, che soltanto qualche commentatore avventato può definire “democrazie autoritarie”. In Russia e Turchia non manca qualcosa alla democrazia. Manca la democrazia. L’obiezione che in entrambe c’è democrazia poiché si vota va fuori bersaglio. Le elezioni democratiche debbono essere libere, competitive e eque. Nulla di tutto questo né in Russia né in Turchia né, naturalmente, in molte altre situazioni, ad esempio, in Zimbabwe. Laddove i cittadini non godono pienamente dei diritti politici, per esempio quello di candidarsi, di dare vita a organizzazioni (persino, partiti) e di fare campagna elettorale e, spesso, vedono i loro diritti civili calpestati, in nessun modo è possibile considerare “democratiche” quelle elezioni. Tuttavia, anche alle elezioni democratiche può mancare qualcosa, per esempio, gruppi selezionati e discriminati di elettori.
In troppi Stati del Sud degli Usa gli afro-americani si vedono privati del diritto di voto con vari accorgimenti burocratici: requisiti di residenza, di registrazione nelle liste elettorali, di conoscenza della Costituzione. Altrove, le assemblee statali a maggioranza repubblicana fanno ricorso scientifico al gerrymandering, la manipolazione dei collegi elettorali. Quando le leggi elettorali danno scarso potere agli elettori, sottraendo loro qualsiasi possibilità di influenzare la scelta dei parlamentari siamo di fronte ad un deficit democratico (Rosato, de te fabula narratur). Le democrazie si reggono su un’unica eguaglianza assoluta, quella di fronte alla legge: isonomia. Non è un’eguaglianza che esiste in natura. Deve essere creata e alimentata, mantenuta e riprodotta in continuazione. La democrazia è rule of law, governo della legge. Nessuna democrazia ha mai promesso l’eguaglianza di risultati. Non soltanto impossibile da conseguire, un’eguaglianza di questa specie impedirebbe a ciascuno di noi di soddisfare effettivamente le sue priorità e le sue preferenze. Non desidero più denaro, ma più tempo libero. Mi impegno a lavorare di più per un certo periodo della mia vita per fare il critico d’arte in un altro periodo. Nelle democrazie esiste pluralismo delle scelte, ma, a seconda dei tempi e dei luoghi, nelle democrazie c’è sempre un deficit di risorse per soddisfare tutti i desideri, tutti i bisogni. Saranno, però, i cittadini a decidere quanto risparmiare, quanto spendere, come e quanto ridistribuire. E avranno regolarmente la possibilità di cambiare le loro preferenze nel corso del tempo.
Spesso le democrazie sono deficitarie per quel che riguarda il ruolo e il potere politico delle donne che si traduce in gravi diseguaglianze sociali e economiche. Le quote rosa non risolvono il problema e possono persino essere anti-costituzionali. Tocca alle donne sfidare il potere politico maschilista non limitandosi a salire sulle code dei potenti e a farsi portare là dove si trovano le cariche che, come vengono attribuite/elargite, potranno essere revocate.
Last but not least, nelle democrazie può manifestarsi un deficit di leadership. Fermo restando che, periodicamente, si riscontrano deficit di capacità e qualità nel mondo dell’industria, diciamo meglio, fra i capitalisti, nell’accademia, nel giornalismo, nelle squadre di calcio e nell’atletica, i deficit di leadership politica hanno conseguenze più gravi. Raramente le democrazie selezionano i “migliori” (qualità di quasi impossibile definizione), ma in democrazia, costoro sono, per definizione, i vincenti nelle elezioni competitive. Raramente i migliori in un sistema politico dedicano le proprie energie alla politica. Molto diffusi in Italia l’antiparlamentarismo e l’antipolitica danno un grande contributo a tenere i migliori, con pochissime eccezioni, lontani dalla politica. Però, quello che conta è che un regime democratico rimanga sempre competitivo e aperto. La leadership di buona qualità riuscirà ad affermarsi. Naturalmente, i migliori dovranno “sporcarsi le mani”, conquistare i voti. Dovranno contare sull’esistenza di molti cittadini interessati alla politica, informati sulla politica, partecipanti, non solo con il loro voto, alla politica.
Le democrazie hanno gravi deficit se questi cittadini sono pochi di numero, poco interessati e poco informati, partecipanti infrequenti e fluttuanti. La democrazia esisterà comunque, ma il suo funzionamento difficilmente sarà soddisfacente e la sua qualità risulterà modesta, ma corrisponderà alla situazione che i suoi cittadini si sono costruita e meritata. Al cittadino non competente e non partecipante, che si irrita e protesta, allora diremo cura te ipsum. Se la democrazia è potere del popolo, il popolo ha il dovere civico di prepararsi per esercitarlo in maniera appropriata riducendo al massimo i suoi deficit cognitivi e partecipativi.
Yes, we can.

Repubblica 3.9.18
Le idee. Animali politici
Quando la solitudine genera i tiranni
Otto milioni e mezzo di italiani vivono soli
L’individuo separato, diceva Aristotele, o è bestia o è dio. Ma il rischio è di essere bestie al servizio di un dio
Eravamo un popolo, siamo una somma di egoismi, dunque più deboli rispetto alla stretta del potere dispotico
di Michele Ainis


Ci si può sentire soli vivendo in compagnia di sessanta milioni di persone? È quanto sta accadendo agli italiani: una solitudine di massa, un sentimento collettivo d’esclusione, di lontananza rispetto alle vite degli altri, come se ciascuno fosse un’isola, una boa che galleggia in mare aperto.
La solitudine si diffonde tra gli adolescenti, presso i quali cresce il fenomeno del ritiro sociale, altrimenti detto hikikomori.
Diventa una prigione per gli anziani, la cui unica compagna è quasi sempre la tv. Infine sommerge come un’onda ogni generazione, ogni ceto sociale, ogni contrada del nostro territorio.
Ne sono prova le ricerche sociologiche, oltre che l’esperienza di cui siamo tutti testimoni: 8,5 milioni di italiani (la metà al Nord) vivono da soli; e molti di più si sentono soli, senza un affetto, senza il conforto di un amante o d’un amico. Così, nel 2015, Eurostat ha certificato che il 13,2 per cento degli italiani non ha nessuno cui rivolgersi nei momenti di difficoltà: la percentuale più alta d’Europa.
Mentre l’11,9 per cento non sa indicare un conoscente né un parente con cui parli abitualmente dei propri affanni, dei propri problemi. Non a caso Telefono Amico Italia riceve quasi cinquantamila chiamate l’anno. Non a caso, stando a un Rapporto Censis (dicembre 2014), il 47 per cento degli italiani dichiara di rimanere da solo in media per 5 ore al giorno. E non a caso quest’anno, agli esami di maturità, la traccia più scelta dagli studenti s’intitolava «I diversi volti della solitudine nell’arte e nella letteratura».
Questa malattia non colpisce soltanto gli italiani. È un fungo tossico della modernità, e dunque cresce in tutti i boschi.
Negli Stati Uniti il 39 per cento degli adulti non è sposato né convive; mentre l’Health and Retirement Study attesta che il 28 per cento dei più vecchi passa le giornate in uno stato di solitudine assoluta. Succede pure in Giappone, dove gli anziani poveri e soli scelgono il carcere, pur di procurarsi cibo caldo e un po’ di compagnia; o in Inghilterra, dove la metà degli over 75 vive da sola.
Tanto che da quelle parti il governo May, nel gennaio 2018, ha istituito il ministero della Solitudine, affidandone la guida a Tracey Crouch; ma già in precedenza funzionava una commissione con le medesime funzioni, inventata da Jo Cox, la deputata laburista uccisa da un estremista alla vigilia del referendum su Brexit. Insomma, altrove questo fenomeno viene trattato come un’emergenza, si studiano rimedi, si battezzano commissioni e dicasteri. In Italia, viceversa, viaggiamo a fari spenti, senza interrogarci sulle cause delle nuove solitudini, senza sforzarci di temperarne gli effetti. Quanto alle cause, l’elenco è presto fatto. In primo luogo la tecnologia, che ci inchioda tutto il giorno davanti allo schermo del cellulare o del computer, allontanandoci dal contatto fisico con gli altri, segregandoci in una bolla virtuale. In secondo luogo l’eclissi dei luoghi aggreganti – famiglia, chiesa, partito – sostituiti da una distesa di periferie che ormai s’allargano fin dentro i centri storici delle città.
In terzo luogo le nuove forme del commercio e del consumo: chiudono i negozi, dove incontravi le persone; aprono gli ipermercati, dove ti mescoli alla folla. In quarto luogo l’invecchiamento della popolazione, che trasforma una gran massa d’individui in ammalati cronici, e ciascuno è sempre solo dinanzi al proprio male. In quinto luogo e infine, la precarietà dell’esistenza: una volta ciascuno moriva nel paesello in cui era nato, dopo aver continuato lo stesso mestiere del nonno e del papà; ora si cambia città e lavoro come ci si cambia d’abito, senza trovare il tempo di farsi un nuovo amico, di familiarizzare con i nuovi colleghi.
Con quali conseguenze?
Secondo un gruppo di ricercatori della Brigham Young University, la solitudine danneggia la salute quanto il fumo di 15 sigarette al giorno: giacché provoca squilibri ormonali, malumore, pressione alta, insonnia, maggiore vulnerabilità alle infezioni. Altri studiosi (John e Stephanie Cacioppo, dell’Università di Chicago) mettono l’accento sull’aggressività dei solitari, le cui menti sviluppano un eccesso di reazione, uno stato di perenne allerta, come dinanzi a un pericolo incombente. C’è un altro piano, tuttavia, ancora da esplorare: la politica, il governo della polis. L’individuo separato o è bestia o è dio, diceva Aristotele.
Ma nelle società contemporanee la solitudine di massa ci rende tutti bestie alla mercé di un dio.
Sussiste una differenza, infatti, tra solitudine e isolamento. La prima può ben corrispondere a una scelta; il secondo è sempre imposto, è una condanna che subisci tuo malgrado. Nell’epoca della disintermediazione, della crisi di tutti i corpi collettivi, della partecipazione politica ridotta a un tweet o a un like, questa condanna ci colpisce uno per uno, trasformandoci in una nube d’atomi impazziti. Eravamo popolo, siamo una somma d’egoismi, senza un collante, senza un sentimento affratellante. Dunque più deboli rispetto alla stretta del potere.
Perché è la massa, non il singolo, che può arginarne gli abusi. E perché il potere dispotico – ce lo ha ricordato Hannah Arendt (Vita activa), sulle orme di Montesquieu – si regge sull’isolamento: quello del tiranno dai suoi sudditi, quello dei sudditi fra loro, a causa del reciproco timore e del sospetto.
Sicché il cerchio si chiude: le nostre solitudini ci consegnano in catene a un tiranno solitario.

Repubblica 3.9.18
Facebook
L’istruzione di Zuckerberg a spese del mondo intero
di Kara Swisher


Lasciate, prima di tutto, che vi dica che a me Mark Zuckerberg piace fin dal primo giorno in cui l’ho conosciuto, più di 13 anni fa. Lasciate, però, che vi dica anche che sia lui sia Facebook, il social network al quale egli dette vita al college, mi stanno irritando allo sfinimento da tempo. Ogni settimana succede qualcosa, e quel qualcosa non è mai buono.
Da ultimo, si è trattato della rivelazione secondo cui i russi si starebbero muovendo furtivamente attorno alla piattaforma per causare problemi anche nelle elezioni americane di metà mandato. A questo punto, la notizia non dovrebbe costituire una sorpresa per nessuno. Forse, stupirà il solo presidente Donald Trump. Questa volta dovremmo essere grati del fatto che a darne notizia sia stato il management stesso di Facebook, che così ha preso le distanze dalla cocciutaggine di cui ha dato prova in passato, quando ha opposto resistenza alle pressioni di media e governi affinché facesse uso di maggiore trasparenza. In un post sull’ultima campagna di disinformazione, in riferimento alle sfide per la sicurezza l’azienda ha detto: « Siamo alle prese con avversari determinati e ben finanziati che cambiano tattiche di continuo. È in atto una corsa agli armamenti e anche noi dobbiamo migliorare sempre».
La metafora della corsa agli armamenti è buona, ma non per le ragioni addotte da Facebook. Per come la vedo io, Facebook, Twitter e YouTube sono diventati i trafficanti delle armi digitali dell’epoca moderna. Tutte queste aziende hanno iniziato con il velato proposito di cambiare il mondo. Ma lo hanno fatto come non avevano immaginato. Hanno modificato il modo di comunicare degli esseri umani, ma mettere in collegamento la gente troppo spesso ha voluto dire mettere gli uni contro gli altri. Queste aziende hanno trasformato in armi i social media. Hanno trasformato in arma il dibattito pubblico. E, più di qualsiasi altra cosa, hanno trasformato in arma la politica.
Questo spiega perché attori ostili stiano continuando a giocare d’azzardo su quelle piattaforme e perché non vi sia una soluzione concreta in vista: quelle piattaforme sono state realizzate per funzionare esattamente in questo modo. E da allora sono cresciute a dismisura e hanno finito con l’avere la meglio sui più tenaci tentativi in cui si sono prodigati i loro inventori per tenerle sotto controllo. A un recente botta e risposta con i dipendenti di YouTube, per esempio, uno di loro mi ha detto che, mentre un tempo il lavoro si limitava a sporadiche chiacchierate su filmati di gattini, adesso è degenerato in un inferno quotidiano di scambi di opinioni sul destino dell’umanità.
Se non altro, Zuckerberg ha fatto notevoli passi avanti nell’ammettere il problema e ha detto, più di qualsiasi altro Ceo digitale, che rimpiange di non aver agito prima. Una cosa è certa: quando l’ho conosciuto, non mi sarei aspettata niente del genere da lui, anche se, col senno di poi, qualche piccolo segnale del fatto che stava sbagliando l’ho visto con i miei stessi occhi. Quando ha attraversato tranquillo l’affollata stanza del trasandato quartiere generale di Facebook di allora, nel centro di Palo Alto in California, aveva compiuto da poco 21 anni e, come potete immaginare, era allampanato. La start up era nata da poco, era ben finanziata e interessante, ma Zuckerberg si era già fatto la reputazione dell’arrogante, in parte perché aveva fatto inserire la scritta «A Mark Zuckerberg production» in calce alla pagina del sito. Inoltre, mi aveva dato un biglietto da visita su cui era scritto: « Sono l’amministratore delegato, puttana». Non mi risentii e scherzai con uno dei suoi dirigenti, dicendo che Zuckerberg sembrava proprio un gran fesso. Così, quando ci incontrammo, dopo un saluto imbarazzato, la prima cosa che mi disse fu: « Mi risulta che secondo lei sarei un coglione ».
Chiarisco di non averlo mai pensato, anche dopo aver passeggiato con lui in città. Andare a passeggio era ( ed è) la sua mania caratteristica. Ogni fondatore di start up tecnologica ne ha una. In quella camminata forzata, non fece altro che ribadire: Facebook era «un servizio pubblico». La sua definizione era strana, perché non era sullo stesso piano dell’immagine modaiola del suo rivale di allora, Myspace, né della festa colorata e senza fine alla Willy Wonka in corso da Google. Era un concetto banale, mesto, rassicurante, da non-si-preoccupi-signora-lasciamo-le-luci-accese, a ripensarci. Abbastanza sintomatico. Si basava sull’idea che Facebook in fondo fosse qualcosa di buono.
Zuckerberg è rimasto troppo a lungo attaccato a quel misto di sincerità e ingenuità deliberata. Quello che non è mai riuscito a comprendere appieno, infatti, è che la società che aveva creato era destinata a diventare un modello per tutta l’umanità, il riflesso digitale di masse di persone di tutto il pianeta. Comprese le peggiori. Ciò dipese dal fatto che Zuckerberg si stava specializzando in informatica e interruppe gli studi in anticipo, senza frequentare corsi di materie umanistiche che avrebbero potuto metterlo in guardia nei confronti degli aspetti peggiori della natura umana? Forse. O dipese dal fatto che da allora è sempre rimasto immerso nell’ottimismo a oltranza della Silicon Valley, dove è proibito aspettarsi un risultato negativo? Probabile. Può essere che, sebbene l’obiettivo iniziale fosse quello di "mettere in contatto le persone", egli non sia mai riuscito a prevedere che la piattaforma dovesse essere responsabile di quelle persone anche quando si comportavano male? Oh, certo. E, infine, può essere che la mentalità stessa di Facebook, per la quale le- cifre- salgono- sempre- e- sono- sempre- in- attivo, lo abbia accecato nei confronti delle scorciatoie imboccate durante la fase di crescita del suo servizio? Assolutamente sì.
Ci si sarebbe potuti aspettare che tutto il tempo che è passato, tutti i soldi e il potere che ha accumulato lo avessero reso saggio. E invece no. Ho chiesto più volte a Zuckerberg come si sentisse, a livello personale, per i danni arrecati dalla sua creazione. Iniziava a comprendere il potere che aveva per le mani e che il mondo che controlla non è un posto così roseo? «Probabilmente » , ha ammesso, Facebook era « troppo concentrata sugli aspetti positivi e non abbastanza su quelli negativi». È ragionevole. Ma fargli ammettere un qualsiasi dispiacere personale è stato impossibile. « Provo un profondo senso di responsabilità su come porre rimedio al problema — ha continuato — credo che si debba essere disposti a commettere alcuni errori quando si dirige un’azienda e si vuole essere innovativi. Non credo però che sia accettabile ripetere gli stessi errori più volte». È la classica risposta degli ingegneri benintenzionati della Silicon Valley che lascia molte persone interdette per ciò che concerne, per dirne una, la manipolazione della democrazia. Tenere alla larga cattivi attori come i russi è stato e sarà sempre più costoso. Potrebbe essere addirittura impossibile. Facebook, in ogni caso, avrebbe potuto fare e deve fare molto di più.
Adesso, Zuckerberg sta cercando di sedare ogni dibattito a Washington su come regolamentare la sua azienda in base a quello che un giorno mi disse che era: un servizio pubblico. Ha anche trascorso l’ultimo mese ad andare a cena con accademici esperti in libertà di espressione e propaganda per capire come procedere. Chiamatela l’istruzione di Mark Zuckerberg e della Silicon Valley, ma è un’educazione a spese del mondo intero. Ed è impossibile calcolare quanto sia costata. E quanto costerà.

Il Fatto 3.9.18
Non possiamo permetterci di essere ignoranti sulla Cina
Fenomeni come la Brexit dimostrano un desiderio di semplificare il mondo, di chiuderci nelle nostre comunità nazionali. E se è difficile intergire con Bruxelles, figuriamoci con Pechino. Ma così diventiamo irrilevanti
di Kerry Brown


Mi sono occupato per molti anni di rapporti con la Cina, per conto della Gran Bretagna, come accademico, uomo d’affari e diplomatico. E mi sono sempre fatto la stessa domanda: cosa vuole la Cina da noi? Cosa pensano i cinesi? Che visione hanno del ruolo della Gran Bretagna nel loro mondo? Lo stesso tipo di dibattito si sviluppa in altri Paesi: in Europa, Asia e Nord America bisogna rispondere a questi quesiti per affrontare l’ascesa prima economia e ora geopolitica della Cina.
Parte della complessità di confrontarsi con queste nuove potenze è la confusione su che cosa sia esattamente la Cina – una tradizionale potenza asiatica confuciana, una minaccia geopolitica di marca marxista-leninista, uno Stato che subisce le regole della globalizzazione o uno che le detta? Le stesse domande che oggi molti si fanno a proposito degli Stati Uniti sotto Donal Trump, con tutte le loro fratture interne. E sono dubbi che riguardano anche altri Paesi d’Euopa. Nel caso della Gran Bretagna, con la Brexit, si è capito che gli inglesi non hanno le idee chiare neppure su chi siano e che ruolo debbano avere loro stessie La spaccatura tra la parte più isolazionista e tradizionalista della società (di solito anche quella più rurale e anziana) e il resto è diventata all’improvviso evidente a tutti.
In questo contesto il rapporto con la Cina finisce per diventare un sottoinsieme delle questioni identitarie interne. La differenza nella visione del mondo e nei valori politici e culturali della Cina, che mai come ora possono influire anche sulle nostre vite, ci costringono a chiederci non soltanto chi sono loro, ma anche chi siamo noi.
Dopo aver avuto a che fare con la Cina per 25 anni ho imparato alcune cose. Negli ultimi decenni i cinesi sono stati isolati, ai margini dell’economia mondiale, cercando disperatamente di recuperare terreno. Come in tutte le relazioni asimmetriche, sentendosi più deboli degli altri hanno sempre cercato di sapere il più possibile di un mondo che invece di loro si curava poco. Questo non significa che la maggioranza dei cinesi sia esperta di Gran Bretagna, America o Australia, ma hanno sempre coltivato una certa curiosità e un livello di conoscenza di base, in molti casi anche della lingua, che semplicemente non è reciproco. Ci sono 200 milioni di cinesi che studiano inglese e soltanto 3000 inglesi che studiano cinese. Anche considerando le percentuali della popolazione il confronto è impietoso.
Ci sono gruppi di occidentali – nel governo, nell’impresa, nella società civile – che hanno bisogno di informarsi sulla Cina e hanno maturato una eccellente competenza. Ma a parte loro c’è ben poco e il dibattito specialistico e accademico sulla Cina scoraggia tutti i non iniziati. Ma questi sono problemi superficiali che possono essere risolti in tempi ridotti con l’istruzione. La vera questione è stabilire quale ruolo vogliamo che abbia la Cina nelle nostre vite. Fenomeni come la Brexit dimostrano un diffuso desiderio di semplificare il mondo, di ritirarsi all’interno delle barriere di un senso condiviso di identità nazionale. In molti hanno difficoltà a confrontarsi con l’Unione europea, percepita come distante e poco comprensibile, figuriamoci quanto può essere difficile immaginare un modo di convivere con una potenza come la Cina che emerge da un passato e da una storia così radicalmente distante.
La conclusione a cui sono giunto è che la questione davvero preoccupante è che abbiamo scelto l’indifferenza verso la Cina come opzione di default. Non pensiamo che meriti abbastanza attenzione: è troppo remota, strana, indecifrabile, anche se i suoi studenti riempiono le nostre università e i suoi prodotti i nostri negozi, i suoi turisti i nostri aeroporti. Gli inglesi, e gli altri europei, sono a loro agio soltanto con una Cina quasi invisibile, ed è così che la vogliono.
Curare questo approccio mentale non è facile perché non implica soltanto più studio, ma un completo cambio di prospettiva e rimettere in discussione la nostra stessa identità. L’idea che l’Europa rappresenti valori assoluti di libertà, pragmatismo e virtù democratica mentre la Cina si muove su un piano morale inferiore è il grande non-detto nel nostro atteggiamento verso la Cina. E affrontare questo punto ci costringe a fare qualcosa che finora siamo sempre riusciti a evitare: ridimensionare i nostri valori e la nostra percezione di noi stessi.
C’è un detto apocrifo attribuito a Confucio: l’apprendimento è efficace in tre modi, imitando qualcuno individuato come modello, e questo è molto più efficace; attraverso la lettura, che è il modo più superficiale; oppure con l’esperienza, che è il più duro. L’esperienza sarà la via attraverso la quale la Gran Bretagna dovrà definire un nuovo rapporto con la Cina dopo la Brexit. E il resto del mondo starà ad osservare come andrà. Può trasformarsi in una faticosa ma istruttiva lezione per tutti gli altri. Per capire che per conoscere davvero gli altri, è meglio prima conoscere se stessi per evitare che siano gli altri a insegnarci chi siamo davvero.

Corriere 3.9.18
Ogni giorno 11 denunce
Stupri di gruppo, siti e social media Il dossier sulla violenza
di Fiorenza Sarzanini


Il numero dei violentatori arrestati supera il numero delle vittime. Il dato certifica che sono in aumento gli stupri di gruppo. Le vittime, sempre più giovani, vengono sedotte con modi gentili, adescate via Internet grazie a siti di appuntamento, e per questo il Dac, la Direzione anticrimine della polizia, lancia l’allarme. Ogni giorno sono undici gli episodi che vedono le donne vittime di violenza. Da gennaio a luglio 2.311 le denunce presentate.
Roma È il dato che maggiormente impressiona. Perché il numero dei violentatori identificati continua ad essere più alto dei fatti denunciati e questo dimostra come gli stupri siano spesso commessi in gruppo. È l’aggressione brutale compiuta dal branco, l’assalto che ha segnato numerosi episodi delle ultime settimane. Ragazze sedotte con modi gentili e poi diventate vittime di una violenza selvaggia, oppure adescate via Internet grazie ai siti di appuntamento che troppo spesso si trasformano in una trappola infernale. Il messaggio di Vittorio Rizzi, investigatore di altissimo livello, che guida la Dac, Direzione anticrimine della polizia, è fin troppo esplicito: «Bisogna evitare ogni situazione di potenziale rischio. È importante sapere che sul web il soggetto predatore si maschera meglio grazie alle false identità e anche quando si svela lo fa in maniera subdola. Per questo non bisogna cedere alle lusinghe degli appuntamenti al buio». L’esempio più eclatante è svelato dalle indagini che hanno portato in carcere l’imprenditore di Parma Federico Pesci, che con un amico pusher nigeriano ha sequestrato e stuprato per ore una ragazza di 21 anni conosciuta in chat. Ma l’analisi delle denunce fa emergere come questa modalità di approccio sia in costante e pericoloso aumento.
Più di 2.300 violenze denunciate in sei mesi
È stato il prefetto Franco Gabrielli a imporre una politica di prevenzione che passa dalla protezione delle vittime già al primo episodio di maltrattamento in famiglia e si sviluppa con un’azione affidata a gruppi investigativi specializzati. Una linea che sembra dare risultati concreti. Dopo un aumento costante e addirittura un’impennata delle denunce nel 2017, nei primi sei mesi del 2018 c’è stato infatti un calo pari al 15 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Ma questo non basta a rassicurare, perché il numero dei reati rimane comunque altissimo. Sono 2.311 episodi denunciati con una media di 11 violenze al giorno. Ancora tante, troppe. E se si esamina il dettaglio della statistica si scopre che sono ancora moltissimi gli stupri compiuti tra le mura domestiche, sia tra gli italiani, sia nelle comunità straniere.
Ecco perché uno degli strumenti ritenuti fondamentali nella prevenzione è il «protocollo Eva» (Esame Violenze Agite) che — come chiarisce lo stesso Rizzi — «nei casi di liti in famiglia consente di inserire nella banca dati delle forze di polizia (Sdi) le informazioni utili a ricostruire tutti gli episodi di violenza domestica che hanno coinvolto un nucleo familiare. I poliziotti che arrivano sul posto sono dunque preparati al tipo di intervento da compiere, sanno se in passato qualcun altro ha dovuto compiere un intervento analogo, se qualcuno detiene armi o ha precedenti, se ci sono bambini coinvolti. E questo è fondamentale per far sentire la vittima maggiormente al sicuro, per rassicurarla e convincerla a denunciare, comunque a chiedere aiuto».
Le vittime minorenni e gli aggressori stranieri
Da gennaio alla fine di luglio sono state 1.646 le italiane che hanno presentato denuncia e 595 le straniere, oltre a settanta di nazionalità ignota, per un totale di 2.311 donne. Tra i violentatori sono stati identificati 1.628 italiani e 1.155 stranieri con un’incidenza percentuale di questi ultimi sulla popolazione che certamente appare molto alta. Tra loro ci sono 176 romeni, 154 marocchini, 67 nigeriani, 58 albanesi e 56 tunisini oltre a 143 uomini di cui non è stato possibile accertare la nazionalità. E fa paura il numero di ragazzine sotto i quattordici anni che hanno subito violenza negli ultimi sei mesi: ben 173, tra loro 147 italiane. Una realtà ben delineata nel dossier preparato dalla Dac nel marzo scorso e relativo all’attività svolta fino al dicembre 2017. La relazione analizza proprio l’identità di vittime e carnefici, mettendo in evidenza gli aspetti sui quali bisogna intervenire in maniera ancora più efficace sia per la prevenzione, sia per la repressione. Non a caso è proprio Gabrielli a sottolineare nella premessa la necessità di applicare la legge, ma anche alimentare «la rete composta da istituzioni, enti locali, centri antiviolenza, associazioni di volontariato che si impegnano ogni giorno per affermare un’autentica parità di genere, contro stereotipi e pregiudizi».
«L’analisi dei dati — è scritto nel documento — mostra un andamento quasi costante nel tempo del numero delle violenze sessuali commesse, con un lieve aumento nell’ultimo biennio (+5%). Il novanta per cento delle vittime è di sesso femminile. Rispetto agli altri delitti finora analizzati (omicidi volontari, atti persecutori, maltrattamenti in famiglia) l’età mostra incidenze diverse. Le cittadine italiane minorenni vittime di questo delitto sono oltre il ventuno per cento nel 2017. Un’analisi più approfondita delle denunce ha consentito di verificare i luoghi dove vengono principalmente commesse le violenze sessuali. A differenza degli altri delitti spia, la percentuale di autori di cittadinanza straniera è molto più alta, pur se comunque inferiore a quella degli italiani. Oltre il novanta per cento dei presunti autori sono cittadini maggiorenni, sia che ci si riferisca agli italiani che agli stranieri».
La circolare ai questori per attivare la «rete»
È stato proprio Rizzi a trasmettere una circolare ai questori che detta le regole di intervento. La linea nel rapporto con la vittima è chiara: «Fornire una completa e analitica informazione circa gli strumenti — amministrativi e penali — previsti dalla normativa di settore cui la persona offesa può accedere; prevedere, in seno agli uffici, dei criteri di priorità nella gestione dei procedimenti in materia che assicurino agli stessi una «corsia preferenziale» di trattazione; prendere in carico la vittima in ambiente idoneo attraverso personale altamente qualificato, capace di cogliere nella narrazione tutti gli episodi di violenza (o connotati da un coefficiente di pericolosità), ed evitare atteggiamenti di minimizzazione delle condotte esposte; rimanere in contatto costante con la vittima, anche successivamente al primo approccio, facendosi parte attiva nel mantenere i rapporti anche per acquisire ulteriori elementi informativi sull’evoluzione della vicenda esposta; attivare la rete antiviolenza per realizzare le più opportune forme di intervento integrato con servizi sociali e centri antiviolenza attivi sul territorio; attivare il Protocollo Eva».
A questo si aggiunge l’attività della polizia postale guidata da Nunzia Ciardi che monitora il web e i siti specializzati proprio per proteggere le vittime, in particolare minorenni. Con un’attenzione particolare ai social che — come spiega uno degli analisti — sono apparentemente più rassicuranti, ma in realtà rappresentano uno degli strumenti maggiormente utilizzati per ingannare la propria preda e poi catturarla».

La Stampa 3.9.18
In Libia parte l’assalto a Sarraj
L’Italia non sta a guardare : pronti a intervenire con una task force
per difendere il premier
“Lo stato d’emergenza mette a rischio civili e migranti”
di Grazia Longo


Una task force italiana in difesa di Fayez al Sarraj, sempre più accerchiato dalle milizie rivali a sostegno di Khalifa Haftar, grazie alla collaborazione tra il ministero della Difesa, quello degli Esteri e l’Aise, l’agenzia dei servizi segreti esteri. Al momento i nostri soldati dei gruppi speciali non sono schierati in Libia e l’attività principale per monitorare il pericolo di un rovesciamento del governo di unità nazionale di Al Sarraj, sostenuto dall’Onu, viene svolta dalla nostra intelligence.
Ma, considerato l’allarme crescente, si sta valutando l’opportunità di un intervento da parte dei corpi speciali. È ancora prematuro stabilire se questi verranno coinvolti in una missione sul territorio libico, ma il tema sarà posto anche all’attenzione del Cofs, il Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali.
E intanto, oggi pomeriggio, a Palazzo Chigi è previsto un summit per fare il punto della situazione. Parteciperanno il presidente del consiglio Giuseppe Conte, la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, il titolare della Farnesina Enzo Moavero Milanesi e il numero uno dell’Aise Alberto Manenti (in via di sostituzione). I corpi speciali che potrebbero essere coinvolti in un’operazione in Libia sono il Gruppo di intervento speciale dei carabinieri, il 9° Reggimento d’assalto paracadutisti «Col Moschin», il Gruppo operativo incursori del comsubin e il 17° Stormo incursori dell’Aeronautica militare.
Al momento tuttavia, ribadiscono fonti della Difesa e degli Esteri, non è stato ancora stabilito un dispiegamento delle nostre forze militari d’élite e il dossier Libia resta sostanzialmente in mano all’intelligence. Non è neppure escluso, del resto, un nostro impegno sul fronte libico dal punto di vista sociale e sanitario. Nel frattempo la linea di Roma è orientata verso l’intesa con le altre forze internazionali che hanno condannato gli attentati a Tripoli. Il nostro governo, insieme a Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna, sabato scorso, ha diffuso un comunicato congiunto in cui viene «condannata fermamente la continua escalation di violenza a Tripoli e nei suoi dintorni, che ha causato molte vittime e che continua a mettere in pericolo la vita di civili innocenti».
La cooperazione tra le forze internazionali è tuttavia uno spaccato più complesso di quanto possa apparire. Un conto, infatti, sono le dichiarazioni ufficiali, un altro la trama politico-economica che viene tessuta sullo sfondo. Non a caso i nostri 007, in sinergia con il ministero della Difesa, sono impegnati anche a scandagliare le reali intenzioni della Francia. Si cerca cioè di capire quali siano gli effettivi interessi del governo Macron. «È in atto un tentativo di decontestualizzare gli attentati dal ruolo di Haftar - spiegano dalla Difesa - mentre è sempre più evidente che le milizie ribelli lo sostengono a piene mani».
Gli scontri a Tripoli e il tentativo di destabilizzare il governo di unità nazionale continuano a restare prioritari nell’agenda del nostro esecutivo. La nostra leadership nella questione libica è stata peraltro riconosciuta anche dal presidente degli Usa Donald Trump, durante la visita americana del premier Giuseppe Conte. E a sostenere l’ipotesi di uno schieramento militare c’è l’allarme Isis: con la caduta di Al Sarraj e l’assenza di una stabilità politica, la Libia potrebbe diventare il fulcro del terrorismo islamico, alimentato anche dai trafficanti di esseri umani.
«Lo stato d’emergenza è stato annunciato a Tripoli. Medici Senza Frontiere resta altamente preoccupato per i cittadini libici nelle aree residenziali e per i rifugiati e migranti intrappolati nei centri di detenzione, le cui sofferenze sono state aggravate dalle politiche dell’Unione europea. La Libia non è un Paese sicuro». Così l’organizzazione Medici Senza Frontiere, sul suo profilo ufficiale Msf Sea.

Corriere 3.9.18
Chi è e cosa vuole Haftar
L’ombra del generale
Pochi hanno dubbi. E i salafiti fedeli al governo sostenuto dall’Onu lo dicono chiaro: con la Settima brigata che attacca Tripoli c’è il generale Haftar.
di Francesco Battistini


Una delle cose che il generale Khalifa Haftar ha imparato nei suoi anni americani, dicono, è il vezzo di firmare le bombe. Ha un pennarello speciale. Autografò i razzi che dovevano liberare Sirte dai tagliagole dell’Isis. E lo fece pure quando lanciò la sua Operazione Dignità, che doveva «liberare» l’intera Libia e gli permise di conquistarne metà. Stavolta è improbabile che gli ultimi Grad, piovuti vicino all’ambasciata italiana di Tripoli, portassero la sua firma. Men che meno le pallottole che stanno ripiombando la capitale libica nei peggiori scontri dal 2014. Pochi hanno dubbi, però. E anzi i miliziani delle Forze speciali Radaa, salafiti fedeli al governo sostenuto dall’Onu, lo dicono chiaro. Chi sta attaccando il cuore del potere tripolino non è solo il signore della guerra Salah al Badi, alla testa della Settima Brigata ribelle e delle milizie Al Kani: no, a coprirgli le spalle c’è Haftar. Il generalissimo che si sente il nuovo Rais e in questi anni è stato tenuto fuori dai giochi e ora non s’accontenta più di governare a Est, Tobruk e la Cirenaica, ma vuole prendersi tutto il mazzo.
Chi sta con chi
Tre tregue in quattro giorni non sono bastate. Lo scontro è prima politico, che militare. Delegato alle potenti milizie di Tripoli, Tarhuma, Misurata, Zintan, Zawia. Da una parte, chi sta con Sarraj: i Radaa, la Prima divisione Tbr (Brigate rivoluzionarie di Tripoli, del ministero dell’Interno), la Brigata Abu Selim e gli acerrimi nemici di Haftar, l’Ottava divisione Nawasi; dall’altra, gli uomini di Al Badi, rientrato apposta dalla Turchia, dove s’era rifugiato dopo aver messo a ferro e fuoco la capitale nel 2014. Al Badi ha lanciato un appello alla sollevazione popolare contro «i corrotti che affamano Tripoli», dicendo di voler «combattere per chi non ha cibo e per giorni aspetta in coda lo stipendio».
Un golpe?
Ora, è vero che i miliziani che controllano Tripoli vivono spesso di pizzo&ingiustizia, ma non sfugge che la posta sia ben altra. E che il golpe — perché di questo si tratta, visto che la Settima Brigata aveva giurato fedeltà a Sarraj — coincida con gli interessi di Haftar, dell’Egitto e soprattutto dei francesi, determinati a indire in tutta la Libia elezioni politiche per dicembre. Il generalissimo ha fretta. E non vuole intralci: l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, che un mese fa aveva espresso dubbi sulla possibilità di votare nel 2018, oltre ai Grad a cento metri dall’ufficio, s’è beccato i colpi d’un sito francese, molto vicino agli 007 parigini della Dgse, che ha ipotizzato un suo siluramento.
Trump e noi
La guerriglia di Tripoli è una faccenda che ci riguarda da vicino, anche stavolta. Lo dicono il pubblico sostegno di Trump al premier Conte (peraltro favorevole ad aprire a Haftar) proprio sul dossier libico, la visita del vicepremier Di Maio al Cairo, l’evacuazione della nostra ambasciata. Improvvisamente, la crisi libica s’è rimessa a correre. L’Occidente va a passo di lumaca. Ed è la volpe della Cirenaica, ancora, a rivelarsi la più veloce.

Repubblica 3.9.18
Asilo negato ai migranti "In tre mesi oltre 12mila clandestini in più"
Uno studio dell’Ispi su dati del Viminale rivela che gli irregolari in Italia sono in netto aumento a causa della stretta sui permessi
di Alessandra Ziniti


Roma Tre mesi dopo la stretta di Salvini sull’immigrazione comincia a farsi sentire e l’effetto pratico rischia di trasformarsi in un micidiale boomerang. Da giugno ad agosto il Viminale si sta trasformando in una macchina " sforna clandestini" per usare un lessico familiare al ministro dell’Interno. I numeri, elaborati dall’Ispi ( Istituto per gli studi di politica internazionale) su dati del Viminale, rivelano che la politica di Salvini ha già prodotto 12.450 nuovi irregolari: inevitabile quando all’aumento dei dinieghi di protezione non corrisponde un analogo aumento dei rimpatri effettivi, solo 1.350, il cui trend si conferma in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Di più: a ingrossare le fila dei nuovi irregolari sta per arrivare un consistente numero di persone a cui non verrà rinnovata la protezione umanitaria secondo le nuove indicazione fornite da una circolare del ministro dell’Interno.
Salvini si era subito lamentato perché i primi numeri non avevano assecondato i suoi desiderata, ma a luglio le commissioni che esaminano le richieste di asilo dei migranti sono state più solerti e la percentuale dei permessi per protezione umanitaria è scesa dal 28 al 22 per cento. Se, incrociando questi tre elementi (rimpatri effettivi, dinieghi di protezione e revoca di protezione umanitaria), il trend dovesse essere confermato, la stima dell’Ispi è che in due anni il numero dei migranti irregolari passerebbe dai 490 mila del 2017 a 550 mila nel 2019.
Dunque, a bocce ferme su nuovi patti per i rimpatri (per i quali al momento non si intravede nulla oltre le dichiarazioni di intenti), la stretta anti- immigrati di Salvini avrebbe come effetto paradossale di creare 60 mila nuovi irregolari in due anni, per intenderci migranti che ( non essendo fisicamente riportati indietro e non avendo alcun diritto a forme di accoglienza) andrebbero ad aggiungersi a quanti sono costretti a vivere ai margini delle città, in condizioni sociosanitarie non dignitose e che, come confermano gli ultimi dati disponibili, finiscono con il commettere reati 20 volte di più dei migranti regolari. Insomma, tutto quello che spaventa quel pezzo d’Italia ( ben il 73% secondo l’istituto Cattaneo) che ha una percezione distorta del fenomeno immigrazione, ritenendo che nel nostro paese ve ne siano quattro volte di più.
« Quello che si prospetta è un effetto del tutto controproducente rispetto all’obiettivo del " via tutti gli irregolari dall’Italia" — spiega Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi — È un effetto anche abbastanza ovvio se si iniziano a restringere le protezioni prima di riuscire ad aumentare in maniera molto significativa i rimpatri. E si tratta di una sottostima perché stiamo considerando solo i richiedenti asilo (quindi quasi tutti quelli che arrivano via mare), mentre tra i rimpatriati una discreta percentuale è rappresentata da chi entra irregolarmente in Italia in altro modo o supera la durata di soggiorno autorizzata ».
La medaglia che Salvini porta orgoglioso al petto, e cioé la riduzione degli sbarchi dell’80 per cento rispetto allo scorso anno ( trend che il contatore del Viminale aveva già fatto segnare durante gli ultimi mesi del governo Gentiloni), non sembra destinata ad incidere più di tanto sull’aumento dei migranti irregolari perché le commissioni che esaminano le richieste di asilo (nonostante i rinforzi mandati da Salvini) saranno sommerse dall’arretrato ancora per un bel po’.
Spiega Matteo Villa: « L’obiezione è scontata: con la riduzione dei flussi dal mare i richiedenti asilo saranno sempre di meno e quindi anche il numero dei nuovi irregolari comincerà a scendere. Ma la realtà è molto diversa perché il sistema d’asilo ha una certa inerzia rispetto al numero degli arrivi. Una persona attende in media quasi 3 mesi prima di presentare richiesta d’asilo e poi aspetta circa 18 mesi per ricevere il primo esito al quale potrebbe appellarsi».
Anche qui qualche dato aiuta a capire: a fine luglio c’erano ancora 130 mila migranti in attesa di risposta alla loro richiesta di asilo. Al momento le commissioni stanno riducendo l’arretrato di 3.500 domande al mese, dunque tra quelle nuove e l’arretrato ci vorrebbero ancora tre anni per smaltirle tutte.
« Insomma — conclude Villa — per Salvini questo è un problema che non si risolverà velocemente e la macchina " produci- irregolari" potrebbe continuare a sfornarne almeno tremila al mese per un periodo di tempo molto lungo».

Repubblica 3.9.18
Il rapporto Unhcr
"Nel Mediterraneo muore un profugo su 18"
di a.z.


Gli sbarchi sono in forte calo ma il numero delle vittime è in crescita Il tasso di mortalità è più che raddoppiato
Il rischio di morte durante le traversate nel Mediterraneo è in continua crescita: muore un migrante su 18, una percentuale più che raddoppiata visto che nel 2017 il tasso di mortalità era di una persona su 42. Sono le cifre del nuovo rapporto di Unhcr secondo cui, nei primi otto mesi dell’anno sono 1.600 le persone che hanno perso la vita o risultano disperse lungo la rotta del Mediterraneo. Dunque ad una forte diminuzione ( oltre l’ 80 per cento) di chi arriva in Europa corrisponde un’allarmante crescita del tasso di mortalità.
Il rapporto " Desperate journeys" analizza anche tempi e rotte che confermano come il Mediterraneo, con una drastica riduzione del dispositivo di soccorso prima formato dalle navi umanitarie e dai mezzi militari italiani ed europei in posizione più avanzata rispetto alla Libia, sia ormai un mare pericolosissimo. Dei dieci naufragi di cui si ha notizia, sette sono avvenuti da giugno a oggi, dunque nei mesi in cui la stretta del governo italiano ha di fatto lasciata sguarnita la rotta più battuta dalla Libia verso l’Italia.
Ma rischiosa è diventata anche la tratta più breve, dal Marocco alla Spagna, su cui i trafficanti hanno spostato parte dei loro flussi: qui dall’inizio dell’anno a oggi sono morte 300 persone contro le 200 dello scorso anno, portando il tasso di mortalità ad una persona su 14 di quelle che intraprendono il viaggio.
Quasi raddoppiati anche i migranti morti sulle rotte terrestri, in Europa o ai confini, passati da 45 a 78. « Il rapporto conferma ancora una volta come la traversata del Mediterraneo sia tra le più rischiose al mondo — dice Pascale Moreau, Direttrice dell’Ufficio Unhcr per l’Europa — Il calo di persone che arrivano sulle coste europee non è più un test per stabilire se l’Europa possa gestire tali flussi, ma per capire se sia in grado di fare appello a quel senso di umanità necessario a salvare vite umane » . All’Europa l’Unhcr chiede di favorire l’accesso a percorsi legali per i rifugiati, attraverso l’aumento dei posti di reinsediamento e la rimozione degli ostacoli al ricongiungimento familiare, che contribuiscono a fornire alternative a tragitti potenzialmente mortali.
Prendendo atto delle misure adottate da alcuni Paesi per impedire l’ingresso di rifugiati e migranti, il rapporto esorta a garantire a coloro che cercano protezione internazionale un accesso tempestivo alle procedure di asilo e invita a rafforzare i meccanismi di protezione nel caso di minori che viaggiano da soli e sono in cerca di asilo.

Il Fatto 3.9.18
“Il Pd torna in piazza” (ma deve riempirla)
Roma - Martina: “Il 29 settembre contro il governo”. Quota 40 mila per evitare il flop
di Lorenzo Vendemiale


Tornare in piazza, per dimostrare agli altri, forse un po’ anche a se stessi, di essere ancora vivi. Il segretario del Pd, Maurizio Martina, ha annunciato una grande manifestazione contro il governo il prossimo 29 settembre. Con il congresso alle porte, nel momento peggiore della sua storia, il partito prova a ripartire dalla gente. “La piazza è la scelta giusta”, ragionano i vertici.
“C’è tanta gente che vuole costruire l’alternativa anche manifestando la sua presenza”, ha spiegato ieri Martina all’incontro di Area Dem a Cortona. A dare coraggio al segretario sono stati gli appelli dei militanti alle feste dell’Unità e soprattutto l’ottima riuscita della manifestazione di Milano contro il razzismo. La sede è ancora da ufficializzare ma dovrebbe essere Piazza del Popolo, la stessa della manifestazione flop organizzata da Matteo Renzi a ottobre 2016 a sostegno del referendum costituzionale: allora ci furono circa 15mila persone, ce ne vogliono almeno 40-50 mila per evitare la figuraccia. Per questo la macchina organizzativa, in mano a Gianni Dal Moro e al coordinatore della segreteria nazionale Matteo Mauri, si è già messa in moto.
Si torna all’antico: pullman e treni speciali, coinvolgimento dei segretari regionali (in particolare delle Regioni più vicine e popolose, come Toscana, Emilia-Romagna e Campania, da cui ci si aspetta il contributo maggiore) e anche dei circoli. “Vogliamo dare un segnale: con tutti i suoi limiti, il Pd resta uno dei pochi punti di riferimento per la parte d’Italia che non si riconosce nel governo.”, spiega Mauri. Resta da capire chi ci sarà in piazza. L’evento vuole essere aperto a tutti: qualche contatto è stato già preso con i sindacati, bacino storico delle manifestazioni della sinistra. C’è chi si augura che possano unirsi altre forze politiche, magari gli ex compagni di Liberi e uguali, ma per il momento è tutto in alto mare. “Nessuno ci ha invitati”, spiega Roberto Speranza. “Massimo rispetto per il Pd e per la scelta di tornare fra la gente, ma noi non siamo disponibili solo per riempire le piazze degli altri: parteciperemmo a condizione di condividere percorso e organizzazione”. Bisogna stare attenti anche a non alimentare ulteriori divisioni interne: “Va bene manifestare, ma solo se si pongono temi precisi, propositivi e rivolti alla società civile: un’opposizione a prescindere contro il governo non ha molto senso”, precisa Francesco Boccia, di Fronte Democratico. Del resto chi si aspetta che la manifestazione sia un punto di ripartenza, per lasciarsi definitivamente alle spalle l’era renziana, potrebbe rimanere deluso già dal nome: si chiamerà “L’Italia che non ha paura”, sembra quasi uno degli slogan dell’ex premier.
Dopo i difficili mesi post voto del 4 marzo (“la sconfitta più dura dal 1948”, secondo l’ex ministro Minniti), il Pd ha disperato bisogno di riaffermare la sua presenza. La piazza romana è l’ultima spiaggia, il rischio dell’effetto boomerang resta dietro l’angolo. Dal M5s sono già partiti i primi attacchi: “Sarà un appuntamento fra pochi intimi, come alle urne”, ha ironizzato il sottosegretario Manlio Di Stefano. L’ultima volta, il 1° giugno a difesa della Costituzione e del presidente Mattarella, non andò troppo bene. Il 29 settembre non si può fallire.

Repubblica 3.9.18
Il personaggio
A Rocca di Papa
Storia di Ivano che ha detto " una cosa di sinistra"
Il suo intervento in tv contro ‘i fascisti’ in difesa dei migranti è diventato popolare
di Federica Angeli


ROMA «Da una settimana sono più gettonato di Obama, per una emerita sciocchezza che ho buttato lì. Sa cosa significa questo? Che c’è davvero bisogno di qualcuno che dica qualcosa di sinistra».
Ivano Ciccarelli, 58 anni, l’uomo dei Castelli romani diventato celebre per la sua frase fuori dal centro "il Mondo Migliore" di Rocca di Papa all’arrivo dei migranti della Diciotti ospitati lì dalla Chiesa – «oltre ad aver passato quello che hanno passato, arrivano qui e devono subirsi anche questa rottura di coglioni dei fascisti» – da una settimana è diventato la star di tv e web. Suo malgrado, e solo per aver detto qualcosa contro i militanti di Casa Pound che davanti alla struttura di via dei Laghi manifestavano contro l’arrivo dei 100 eritrei.
«C’è un problema a sinistra, mi sembra evidente», sorride Ivano che, durante l’intervista con Repubblica risponde di continuo a messaggi e a telefonate di cronisti che lo invitano nelle loro trasmissioni, «e per fortuna che non sono sui social, ho sempre rifiutato l’idea di entrare in quel mondo. Sono antico e ne resterò fuori». Nel 1999, vittima di un licenziamento ex articolo 18, la sua storia finì sulla prima pagina del quotidiano giapponese più noto, «mi mandarono l’articolo ma, per fortuna, non mi cercò l’intera popolazione del Giappone», ironizza.
Su Facebook e Twitter lo osannano: icona di un vuoto comunicativo e sostanziale, dal Pd a Leu, molte donne, tra il serio e il faceto, lo invitano a nozze; gli uomini a diventare leader di un "vero" movimento di sinistra. «Se basta così poco – ragiona Ivano, figlio di genitori braccianti e attualmente disoccupato – per avere notorietà e consenso, allora bisogna capire. Io ci rido, mi diverte questa situazione. Ma siccome sono un uomo che non si accontenta della superficie, ma che ama capire il senso profondo delle cose, dico come la penso. Se quella notte, ad accogliere i migranti, fosse venuto anche il segretario Martina, lì, zitto, con un cartello con scritto "welcome", senza fare il comizio, non è che lo cacciavamo. Invece non solo lui, nessun leader s’è visto. Queste sono le occasioni perse della sinistra. C’erano tante persone, eravamo più noi che quei venti fascisti. Eppure, quando a un certo punto cercavamo un leader dietro cui andare, non c’era. Così sono diventato io».
Un passato in Lotta Continua e poi in Autonomia Operaia, con una formazione ai microfoni di radio Onda Rossa, Ivano ha cominciato a partecipare ad assemblee con i compagni, «quelli veri» da quando, a 14 anni, si è seduto sui banchi del primo anno di istituto (d’arte) finendo anni dopo su quelli del consiglio comunale di Marino come consigliere per Rifondazione Comunista. «Mi hanno messo in mano una canna e Lotta continua e da lì non ho più smesso di credere in quegli ideali». Ideali che rincorre di cui oggi non sente neanche il più vago odore.
«La cosa straordinaria di quegli anni era che discutevamo ore nelle assemblee e quando si usciva da lì si faceva esattamente quello che era stato deciso. Si rispettavano le idee votate a maggioranza e basta. Eravamo incazzati e ogni giorno, davvero ogni santo giorno, facevamo una manifestazione: o contro i fasci, o per le autogestioni, o contro il nucleare. Riempivano le piazze e sapevamo chi era il nostro leader di riferimento. Lo trovavamo accanto a noi». Le persone comuni di sinistra ci sono, spiega, è che non sanno a chi affidarsi.
«Basterebbe così poco...».

Il Fatto 3.9.18
Ai clericali non resta che lo scisma (e giovedì 6 si ritrovano al Senato)
Francesco resisterà alla spallata del dossier Viganò, costruito dalla destra farisea di cardinali e vaticanisti
di Fabrizio d’Esposito


Sembra quasi la trama dell’ultimo, recentissimo teo-thriller di Glenn Cooper, I figli di Dio: un petroliere texano, amico del presidente americano, che promuove e finanzia uno scisma tradizionalista della Chiesa, nel segno dell’arida Dottrina.
La suggestione del complotto anti-Bergoglio è stata esplicitata dall’arcivescovo di Pescara, Tommaso Valentinetti, che ha evocato “forze oscure” contro Francesco, tra cui “petrolieri o grossi gestori della finanza”. Ovviamente al centro di tutto ci sono i veleni, i sospetti, le polemiche scatenate dal dossier a scoppio ritardato dell’ambiguo monsignor Carlo Maria Viganò (nella foto) sulle presunte coperture di Bergoglio alla lobby gay del Vaticano. Ciò che colpisce in questa vicenda sono il metodo e i protagonisti. Come se l’opposizione antifrancescana fosse venuta allo scoperto una volta per tutte per tentare “la spallata” finale al papa.
È una traiettoria iniziata tre anni fa, con l’obiettivo di costringere Francesco alle dimissioni oppure, in caso di fallimento, di causare uno scisma, come documentato da Millennium nel luglio di un anno fa. Nell’ampia zona grigia che detesta Bergoglio, le fazioni sono varie e hanno usato ogni mezzo: la bufala del tumore al cervello; manifesti anonimi di protesta; la faida interna dei Cavalieri di Malta; i nuovi Vatileaks sulle riforme bloccate; le scelte sbagliate del corso “rivoluzionario” (tipo il cardinale Pell); i Dubia all’Amoris Laetitia sulle aperture ai divorziati.
E se dall’altra parte dell’oceano ormai è chiaro che gli americani non vogliono più Francesco, in Italia la cassa di risonanza di questa lunga campagna mette in campo sempre le stesse firme: dai blog della destra farisea al clan di autorevoli vaticanisti come Magister, Tosatti e Valli.
L’atteggiamento di Francesco dà però la certezza che resisterà anche questa volta. Così si profila sul serio l’ipotesi dello scisma. Altrimenti il potente neocardinale Angelo Becciu avrebbe fatto a meno di rivolgere un sibillino appello all’unità della Chiesa. Vedremo. A partire da giovedì prossimo, quando la figura del cardinale Caffarra verrà ricordata al Senato dal suo “collega” americano Burke, l’antipapa per antonomasia che ritiene Bergoglio un “traditore”.

Repubblica 3.9.18
Il dossier
Viganò lancia nuove accuse "Dal Papa menzogne su di me"
di P.R.


Un secondo attacco, ancora una volta diffuso attraverso un sito conservatore americano. Dopo le accuse lanciate contro Francesco — e la richiesta di dimissioni — per aver ignorato la doppia vita del cardinale Theodore McCarrick che ebbe rapporti omosessuali con seminaristi, l’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò torna di nuovo sul piede di guerra. Sul sito Lifesitenews, infatti, rivela i dettagli relativi all’incontro avvenuto nel 2015 negli Stati Uniti tra Bergoglio e Kim Davis, l’impiegata pubblica del Kentucky che divenne un’icona di ambienti conservatori per essersi rifiutata di rilasciare licenze matrimoniali a coppie dello stesso sesso. Davis trascorse cinque giorni in carcere per non avere obbedito a un ordine del tribunale che le intimava di rilasciare le licenze, sostenendo che ciò andava contro le sue convinzioni religiose. L’ex nunzio, dopo aver letto un articolo del New York Times nel quale Juan Carlos Cruz, vittima cilena di abusi sessuali, afferma che il Papa «gli raccontò che Viganò quasi sabotò la visita negli Usa, facendogli incontrare forzatamente la Davis » , ha voluto dire la sua. Cruz lo accusa esplicitamente e cita il Papa: « Non sapevo chi fosse quella donna e (l’arcivescovo Viganò) la fece intrufolare per salutarmi e ne nacque un polverone » , scrive. E ancora: «Ne fui inorridito e licenziai quel nunzio » . Ribatte, invece, Viganò su Lifesitenews: «Di fronte a tale affermazione del Papa mi vedo obbligato a raccontare come i fatti si sono realmente svolti. Uno dei due mente: Cruz o il Papa? Quello che è certo è che il Papa sapeva benissimo chi fosse la Davis, e lui e i suoi stretti collaboratori avevano approvato l’udienza privata. Si può verificare chiedendo ai prelati Becciu, Gallagher e Parolin, nonché al Papa stesso. È comunque evidente che Francesco ha voluto nascondere l’udienza privata con la prima cittadina americana condannata e imprigionata per obiezione di coscienza » , dice Viganò.
L’ex diplomatico vaticano risponde anche a un video del Catholic News Service che mostra Mc-Carrick durante una visita a Roma, nel 2012, mentre incontra Benedetto XVI. Nelle immagini l’ex cardinale appare a suo agio, per nulla intimorito dalle sanzioni dategli dall’allora Papa. Ma, si rivolge Viganò a chi ha pubblicato il video, « riesce a immaginare Benedetto così mite che chiede al cardinale: "Cosa stai facendo qui?"». In sostanza, per Viganò, Ratzinger non voleva umiliare pubblicamente il cardinale. E a un altro video che mostra Viganò insieme a Mc-Carrick, dopo aver spiegato che non aveva potuto rinunciare all’evento, dice: « Non potevo certo dire: "Cosa stai facendo qui?"».
Intanto Francesco mantiene il silenzio. La linea è la stessa abbracciata dalla curia romana. Bergoglio, del resto, anche a Buenos Aires subì accuse da ambienti conservatori legati a Roma, ma non rispose. Fonti consultate da Repubblica spiegano in ogni caso che dalla Santa Sede nei prossimi giorni potrebbe arrivare una prima replica.

Repubblica 3.9.18
Israele dichiara guerra alla lap dance
Giro di vite del governo conservatore
di Francesca Caferri


Israele dichiara guerra alla lap dance. L’ultima offensiva lanciata dal governo di Benjamin Netanyahu, in cui i partiti ultrareligiosi hanno un ruolo chiave, mette nel mirino i club di striptease e i luoghi dove si pratica la famosa "danza intorno al palo".
L’agenzia France Presse ha diffuso il contenuto di una circolare con cui il ministero della Giustizia esorta la polizia a considerare come luoghi di prostituzione quelli in cui si pratica la lapdance.
«Il fenomeno conosciuto come lap dance costituisce in determinate circostanze un atto di prostituzione. La prosecuzione di questa attività deve essere considerata come un crimine e provocherà la messa in atto di tutte le misure previste dalla legge», recita il comunicato.
«Stiamo aspettando di capire come mettere in pratica la nota», ha confermato il portavoce della polizia Micky Rosenfeld all’agenzia francese.
La nota fa parte di una strategia più ampia, che mira a ridurre le attività che il governo reputa oltraggiose: in questi giorni infatti un gruppo di parlamentari della maggioranza e dell’opposizione sta mettendo a punto un disegno di legge che punta a far inserire ufficialmente i locali dove si pratica lo striptease nel «ciclo della prostituzione».
«Questa legge è pensata per riflettere nella legislazione israeliana la connessione diretta fra lo spogliarello e la prostituzione, due attività che portano con sè un’attitudine dannosa e umiliante verso le donne e i loro corpi», si legge nel disegno di legge.
«L’industria dello striptease è legata da vicino a quella della prostituzione e la maggioranza dei locali di spogliarello sono in realtà luoghi di prostituzione».
Non esiste ancora una data certa per la discussione del progetto, ma la stretta contro la prostituzione - che non è illegale in Israele - è già iniziata: un disegno di legge che stabilisce di multare i clienti delle prostitute sarà discusso in parlamento al rientro dalla pausa estiva.

Il Fatto 3.9.18
Corbyn, l’antisemitismo e il “suggeritore”
Gran Bretagna - Field, storico deputato, lascia il Labour e attacca il leader. Il ruolo dello spin doctor
di Andrea Valdambrini


Se Theresa May di problemi ne ha in abbondanza, a cominciare dalla Brexit, anche sul fronte dell’opposizione del Regno le acque sembrano tutt’altro che tranquille.
Frank Field, deputato laburista di lungo corso, ha lasciato il Partito – ma non il seggio parlamentare – lanciando un pesante atto d’accusa: il Labour di Corbyn è diventato. “una forza favorevole all’antisemitismo nella cultura politica britannica”, ha scritto nella sua lettera d’addio.
Eletto in un collegio di Liverpool, Field è a Westminster da 40 anni: tra i più anziani in servizio. Qualcuno nel suo partito ha provato a depotenziare le dimissioni parlando di problemi con gli elettori del suo collegio, che non hanno gradito il fatto che il loro deputato su Brexit ha votato con il governo conservatore. “Una scusa per andarsene”, dicono i corbyniani. Eppure, il problema rimane. Che Jeremy Corbyn avesse una posizione filo-palestinese e critica verso Israele, è noto. Da settimane però il leader laburista è al centro di pesanti accuse, riferite ad episodi disseminati lungo il suo percorso politico, riportati ora alla luce dai media.
La settimana scorsa il Daily Mail ha ripescato un video del 2013 in cui Jeremy il Rosso accusava il gruppo dei Sionisti britannici di “mancare del senso dell’ironia inglese”, provocando la reazione indignata dell’ex rabbino capo Lord Sachs.
Se in questo caso più recente Corbyn se l’è cavata precisando che antisionismo e antisemitismo non sono equivalenti, più complicato giustificare la sua presenza a Tunisi nel 2014, alla cerimonia in onore degli assassini della strage di Monaco ’72, quando furono rapiti e uccisi undici atleti israeliani da parte di un commando palestinese.
Grande imbarazzo anche per l’articolo apparso ad inizio agosto sul quotidiano The Times, in cui si ricorda un evento da lui stesso organizzato nel 2010 nel corso del quale un sopravvissuto alla Shoah paragonò Israele al nazismo. In questo contesto, in cui sono maturate le dimissioni di Field, qualcuno punta il dito contro Seumas Milne, spin doctor del leader laburista. È il quotidiano Times of Israel ad affrontare la questione, descrivendo Milne come un motore (neanche troppo) occulto di pulsioni antisemite.
Contro di lui, ex editorialista del Guardian, vengono messe in fila numerose circostanze, ricostruite attraverso le testimonianze di chi negli anni lo ha conosciuto. Studente a Oxford con simpatie maoiste, da giovane trascorre un anno sabbatico in Libano, dove si avvicina alla causa palestinese. Che non abbandonerà mai, fondendola presto con una netta avversione nei confronti della politica Usa in Medio Oriente. Per lui, ricostruisce il quotidiano di Gerusalemme, la Russia di Putin ha diritto di aggredire la Crimea, mentre a Tel Aviv è vietato difendersi dalle aggressioni dei palestinesi nei Territori occupati.
“L’ho sempre considerato più un propagandista che un giornalista”, sussurra un ex collega del Guardian. “È un radical-chic per cui tutti coloro che si oppongono alla potenza Usa meritano di essere sostenuti”, chiosa Dave Rich, autore della monografia La questione ebraica della sinistra: Corbyn e l’antisemitismo.
A Westminster, però, c’è più prosa che ideologia. In molti si chiedono se l’uscita di Field e le difficoltà di Corbyn non preludano al ritorno in grande stile nel Labour dei fedeli di Tony Blair nella campagna d’autunno
di Andrea Valdambrini | 2 settembre 2018

Corriere 3.9.18
La rivista newyorchese
Chiude (anche online) la voce del «Village» fondata da Norman Mailer


Addio a «The Village Voice»: lo storico settimanale, voce «alternativa» della cultura newyorkese e americana, chiude definitivamente. Peter D. Barbey, il proprietario, ha annunciato che non pubblicherà più «nessun articolo» neppure online, dopo che erano già cessate le pubblicazioni cartacee nel 2017, e che la testata era senza direttore da maggio. La rivista — fondata nel 1955 da Dan Wolf, Edwin Fancher e Norman Mailer — era un’icona della città: riferimento culturale e voce critica «impegnata», aveva sostenuto battaglie civili e lanciato firme come Lester Bangs e Colson Whitehead, poi vincitore del premio Pulitzer. A proposito di Pulitzer, la rivista ne aveva vinti tre, tra cui quello del 1986 per i fumetti politici di Jules Feiffer. Centinaia i post sui social, sia di lettori che di scrittori. «Difficile immaginare un mondo che non vuole ciò che “The Village Voice” possedeva», scrive il romanziere Rick Moody su Facebook. E il sindaco di New York Bill de Blasio twitta: «Un giorno triste per il giornalismo e un’enorme perdita per la città». La proprietà ha affermato che renderà disponibile online l’archivio della rivista. (ida bozzi)

Corriere 3.9.18
Due film dedicati all’ex presidente dell’Uruguay
Pepe Mujica star al Lido: sono qui per Kusturica
di Stefania Ulivi


Venezia Non se l’aspettava neanche lui di trovarsi a 83 anni al Lido protagonista di due film, uno di finzione, La noche de 12 años, di Álvaro Brechner in Orizzonti e un documentario, El Pepe, una vida suprema, dell’amico Emir Kusturica, fuori concorso. Ma nulla nella vita di José Alberto Mujica Cordano, El Pepe, ha seguito percorsi ordinari. Infanzia povera dopo la morte del padre, il ciclismo, quindi la politica, sulle orme della madre, di origini liguri. Prima con i nazionalisti, poi sempre più a sinistra, fino a diventare uno dei leader del Movimiento de Libéracion Nacional, i Tupamaros. E, dopo il colpo di Stato del 1973, dodici anni di carcere duro, in isolamento. Quindi senatore, nel 1999, e infine presidente del suo Uruguay, dal 2010 al 2015. È arrivato a Venezia dopo un tour per l’Italia — Ravenna, Mantova, Milano — per presentare il suo libro Una pecora nera al potere, ha incontrato quasi tutti, da Grillo a Martina, ognuno ha cercato di affiliarselo anche se ormai con la politica praticata ha chiuso.
La proiezione di La noche de 12 años (uscirà da noi con Movies Inspired) che racconta gli anni della sua prigionia e di due suoi compagni, è stata accolta da 25 minuti di applausi, cori di «El pueblo unido».
Che effetto le fa?
«Me l’hanno detto. Il film racconta cose che mi risvegliano emozioni contraddittorie legate a mia madre, i miei compagni, quelli che non ci sono più. All’inizio avevo detto di no al regista, come una corazza che ci si mette per difendersi».
L’ordine dei vostri carcerieri fu «visto che non possiamo ucciderli facciamoli diventare pazzi». Come siete sopravvissuti?
«L’isolamento è il castigo peggiore dopo la pena di morte. Quando siamo usciti ci hanno visitato psicologi, forse un po’ pazzi lo siamo diventati. Non so come abbiamo fatto... Mi distraevo anche con i topi che arrivavano sempre alla stessa ora, di notte».
Nessun sentimento di vendetta?
«Ho cercato di non diventare prigioniero dell’odio».
Qui c’è anche il documentario di Kusturica, lo presentate insieme.
«È un mio amico. Mi ha detto: se non vieni anche tu alla conferenza stampa a Venezia non vado. Eccomi qui».
Il cinema insegna?
«Si impara più da ciò che si vive che non da ciò che ci raccontano».
In questi giorni ha consigliato a noi europei di non distruggere l’Unione.
«Vorrei un organismo simile per l’America Latina. Per quanti limiti possa avere, vi ha assicurato il più lungo periodo di pace della storia. Tenetevela stretta. Oggi in tanti si dicono populisti. È un termine che non amo, non vuole dire nulla. E mi spaventano i nazionalismi. L’Italia che ha seminato emigranti nel mondo, ora ha paura degli immigrati. Per fortuna i governi passano, restano i popoli».
Si è dimesso dal Parlamento. Qual è la sua eredità politica?
«Quando ero giovane pensavo che la lotta fosse per il potere. Ora vedo che la storia delle lotte sociali e politiche è un mucchio di vetri rotti, di cui restano cose fondamentali: i diritti del lavoro e quelli sociali. Mi sento fratelli quelli che hanno contribuito a costruire anche un solo scalino della grande scala verso la civiltà».