sabato 19 febbraio 2011

Repubblica 19.2.11
Il governatore della Puglia l´aveva candidata. Risposta simile a quella data a Berlusconi dopo l´offesa
Premiership, la Bindi gela Vendola "Non mi strumentalizzi, c´è Bersani"
Frecciata a Renzi alla conferenza delle donne del Pd "Lui voterebbe solo se stesso"
di Alessandra Longo


ROMA - Passo spedito, tailleur scuro di taglio leggero con giacchetta corta, Rosy Bindi arriva alla Conferenza nazionale delle donne del Pd e chiude in un colpo solo il tormentone della sua candidatura a leader della cosiddetta «coalizione larga» aperto da Nichi Vendola: «Con Pier Luigi non abbiamo avuto bisogno di dirci molte parole. Non ci faremo certo dividere». Dunque il candidato premier per palazzo Chigi è Bersani, come prevede lo statuto del partito. Punto e basta: «Sono presidente del Pd e condivido molto questa regola e vorrei fosse rispettata da tutti. Si dà anche il caso che Bersani abbia tutte le qualità per guidare questo Paese oltre Berlusconi».
Lui, il segretario, è lì, sul palco, tra le signore (Rosa Calipari, Anna Finocchiaro, Roberta Agostini e Marina Sereni). Ascolta compiaciuto, prende appunti e, alla fine, si lascerà ritrarre abbracciato appassionatamente a Rosy: «Ha fatto un bel discorso, un discorso di squadra». Un discorso diviso in due parti. Nella seconda c´è Vendola nel mirino. Rosy si è sentita "usata" dal leader di Sel e non ha gradito: «Io ringrazio Vendola perché vedo che condivide la necessità di una grande coalizione per uscire da questa fase difficile e drammatica e accetta di fare un passo indietro. Ma i passi importanti si devono fare gratuitamente, evitando di trasferire i problemi in casa d´altri». Insomma, Vendola (il quale, per inciso, da Milano fa sapere che non ci pensa nemmeno a rinunciare alle primarie, ndr) sarebbe ricorso ad un´arma impropria. E Rosy lo sistema: «Devo ripetermi. Sono una donna che non è disponibile ad alcuna strumentalizzazione». Le stesse parole usate contro Berlusconi all´epoca di «Bindi più bella che intelligente». La platea le riconosce e applaude. Vendola, anche lui, lasci stare le donne...
Circolano rarissimi uomini in sala: Stefano Fassina, quasi nascosto dietro una colonna, Sergio D´Antoni, che trova l´idea di Bindi premier «una provocazione». E spira un venticello d´orgoglio. La manifestazione del 13 ha fornito autostima e ossigeno. Ma qui nessuna pensa di far fuori Bersani, che gode di largo gradimento, semmai la questione si pone in prospettiva. Rosy restituisce l´ipotetico scettro e avverte: «Molti in questi giorni mi hanno detto: "Magari Bindi premier". Io vorrei che lavorassimo tutte perché al posto di magari ci fosse la parola "finalmente"». Anna Finocchiaro, vestita di viola, si prende l´altra metà delle telecamere di giornata per confermare il trend: «Il candidato premier è il segretario, lo dice lo statuto. Dopodiché ritengo che il Paese è pronto per una leadership femminile». Intanto - dice la capogruppo al Senato - il 17 marzo invito tutte a mettere un tricolore alla finestra». Un modo per tenere vivo il movimento.
In mezzo a volti storici come Livia Turco, Barbara Pollastrini, Franca Chiaromonte, Giovanna Melandri, Valeria Fedeli, Paola Concia, ecco una massa di militanti parecchio agguerrite. Bindi le galvanizza, sotto gli occhi di un disciplinatissimo segretario: «Deve cadere anche in Italia il tabù per cui una donna non può diventare presidente del Consiglio». Se non ora, più tardi. Qui arriva la frecciata a Matteo Renzi, reo di aver definito la Bindi «una candidata per perdere»: «Spero di averlo tranquillizzato - dice la presidente del Pd - . So che Renzi voterebbe solo Renzi. Bisogna vedere, però, se il Pd voterebbe lui». A seguire selva femminile di buuh.

Repubblica 19.2.11
Una pillola sconosciuta
di Umberto Veronesi

La pillola è il male. Tutta la contraccezione è il male. O, nel migliore dei casi, è tabù. E così le donne sono state tradite. Le ragazze che si affacciano alla sessualità e le adulte che hanno vissuto la cosiddetta rivoluzione sessuale non sanno che la pillola non ha nessuna controindicazione per la loro salute, che non aumenta il rischio di tumore del seno, e ignorano che le protegge dall´altro temibile tumore femminile, quello dell´ovaio. Nessuno ha detto loro che la pillola anticoncezionale è lo strumento in assoluto più efficace che hanno a disposizione per evitare questa malattia, che colpisce quasi cinquemila donne ogni anno in Italia, con una mortalità ancora elevata. Eppure è dimostrato che il rischio si riduce del 60% non solo durante l´assunzione, ma anche anni dopo la sospensione. So per esperienza che se le donne sono informate e consapevoli di un progresso scientifico - e non solo medico - che protegge la loro vita e quella della loro figlie, lotteranno per averlo, e lo otterranno.
Se dunque dopo cinquant´anni dall´arrivo della pillola solo una minoranza ne fa uso, significa che le donne sono state mal informate o non informate. La pillola in Italia è stata ostracizzata. L´ hanno fatto i misogeni, perché la pillola è uno strumento offerto dalla scienza alla donna per sottrarsi ad un asservimento millenario al maschio. Permettendo di scindere il rapporto sessuale dalla procreazione, ne ha valorizzato i ruoli, al di là di quello materno. La contraccezione permette ad ogni donna di scegliere liberamente di amare un uomo, e fino a che punto amarlo, e di decidere insieme a lui - dunque come sua pari - se avere un figlio oppure no.
Ma, oltre all´aspetto di pensiero, la pillola ha una funzione di tutela della salute, che è passato sotto silenzio, o quasi, e per questo dico che le donne sono state tradite. La stessa legge 194, nata per "garantire il diritto alla procreazione cosciente e responsabile", è stata in parte tradita. Il suo obiettivo era ridurre gli aborti clandestini (che sono un grave pericolo per la salute, oltre che un dramma per la psiche ), spostando l´obiettivo da una cultura punitiva ad una cultura preventiva. I fatti ci hanno dato ragione perché il numero di aborti, dalla sua introduzione nel 1978, è drasticamente diminuito. Ma in realtà quella legge non è stata applicata nella sua totalità. Il punto chiave che impegna Stato, Regioni e enti locali a sviluppare servizi , informazione ed educazione per la prevenzione dell´aborto, di fatto è pressoché inapplicato. La 194 va allora ripresa in mano. Occorre potenziare subito la diffusione dell´educazione sessuale e della conoscenza dei metodi anticoncezionali nelle scuole, nel rispetto della multiconfessionalità e multietnicità della comunità attuale. La pillola va favorita, le sue proprietà anticancro vanno ben spiegate, e il preservativo, che difende da molte malattie veneree e infettive, deve essere considerato un elemento integrante del rituale del rapporto sessuale e un segno di rispetto e di amore nelle coppia, soprattutto se occasionale. Ci vuole conoscenza, coscienza e responsabilità , soprattutto da parte di noi uomini. Siamo ancora in tempo.

 l’Unità 19.2.11
Bioetica, chi ha paura del dialogo
di Maurizio Mori

L a lunga lettera di De Nigris a l’Unità è importante perché riconosce che la «Giornata degli stati vegetativi» indetta dal governo è stata un fallimento. Usare il 9 febbraio, giorno
della scomparsa di Eluana, come traino per sensibilizzare l’opinione pubblica non ha pagato. De Nigris riconosce anche che la scelta della data «può essere stata infelice». Qui il discorso si fa ancora più interessante, perché – come già rilevato da Luca Landò nella sua risposta – De Nigris è stato tra i suggeritori della Giornata in quella data, almeno a dire del sottosegretario Roccella. Non importa sapere se sul tema abbia cambiato idea o ci sia stato un fraintendimento. De Nigris ha ora una ottima occasione per raggiungere l’obiettivo che gli sta a cuore di «pacificare gli animi»: chieda pubblicamente al governo di cambiare la data, unendosi così al coro delle tante associazioni laiche come la Consulta di Bioetica, di autorevoli esponenti del mondo cattolico come Adriano Pessina e del volontariato, come Pietro Barbieri, presidente della Fish (Federazione italiana sostegno handicap, la maggiore associazione di volontariato del settore).
De Nigris accusa anche la stampa di aver calato la saracinesca del silenzio sulla Giornata: «Nessun giornale (a parte Avvenire) ha pubblicato un resoconto su quel dibattito», lasciando credere che la «materia sia soltanto una questione di parte». Fa bene a riconoscere che Avvenire è «di parte», ma non perché è della Cei, bensì perché, come la vecchia Pravda, presenta solo la «linea ufficiale» e non le svariate voci presenti nel mondo cattolico: sul tema ha silenziato le voci «dissidenti» dei già citati Pessina e Barbieri, per dare grande rilievo solo a quella di De Nigris. La fonte dell’elogio di quel tipo d’informazione «di parte» sembra poco congrua.
Ma poco sostenibile è anche l’accusa al «sistema mediatico» che avrebbe «bucato» la notizia costituita dalla presenza in Italia di famosi scienziati. Dove sta la «notizia»? Nell’ultimo anno quegli scienziati sono già venuti altre volte e non c’è nulla di nuovo: per il resto le solite cose a senso unico. La «notizia» ci sarebbe stata se la Giornata avesse previsto un reale dibattito tra posizioni diverse. Cancellato il pluralismo etico, la stampa libera non aveva nulla da segnalare.
Una proposta: De Nigris chieda al governo anche di aprire un tavolo paritario con le diverse posizioni per un confronto. Forse si riuscirebbe davvero a sensibilizzare sul tema come da tutti sperato, a pacificare gli animi e anche a trovare soluzioni condivise. Altrimenti si fa solo del trito vittimismo che ha un solo pregio: certificare il fallimento della prima Giornata degli stati vegetativi, che è stata la «Giornata del silenzio» come voleva Beppino Englaro.

l’Unità 19.2.11
Gengis khan colpisce ancora
Perché il «Dispotismo Orientale» è una delle chiavi della modernità? La risposta in un pamphlet di Arminio Savioli
di Bruno Gravagnuolo

Non era il comunismo, il fantasma che si aggirava per l’Europa nel 1848, l’anno in cui Marx ed Engels lo avvistarono nel celebre Manifesto del Partito Comunista. Il fantasma era un altro: quello del Dispotismo. Almeno a guardare la cartina geografica del tempo. Austria imperiale al centro, Turchia e Russia ad est, per non dire dell’immobile Cina e del Giappone modernizzante in Asia. E per non dire degli Usa, la giovane america del nord. Democratica (e schiavista) e nella quale Tocqueville già scorgeva il germe del «dispotismo democratico» o «tirannia della maggioranza. Perché tornare a parlare di dispotismo oggi, con riferimento
retrospettivo alle illusioni radicali di Marx ed Engels e anche ai timori del conservatore Tocqueville grande ammiratore al suo tempo del Nuovo mondo?
Presto detto. Prima di tutto perché il tema è attualissimo, se si pensa alle rivolte antidispotiche dei paesi arabi, al fenomeno del dispotismo «marx-capitalistico» cinese, al neoautoritarismo dispotico di Putin, con corredo di boiari buoni e boiari cattivi e incarcerati. E altresì se si pensa al dispotismo populistico, erede light e democratico dei tanti dispotismi fascisti, neotocquevilliano e mediatico, come quello berlusconiano (e con tratto sultanale, oltre che patrimonialistico). Nondimeno, c’è un motivo in più. L’uscita di qualche mese fa di un libro curioso, dal titolo bizzarro e dalla storia ancor più curiosa. È una sorta di manoscritto trovato a Saragozza, ma scritto senza artificio retorico dal suo rinvenitore stesso, che lo aveva lasciato ammuffire trent’anni orsono, salvo una revisione di dieci anni più tardi, senza esito di pubblicazione. L’autore è Arminio Savioli, ex inviato esteri di questo giornale, specialista dei paesi arabi, di Asia, Africa, America Latina. Gappista, soldato della divisione Cremona nel 1944, intervistatore di Castro in esclusiva (che lo minacciò scherzosamente di ficcargli una palla di piombo in testa, per avergli Arminio fatto dire troppo sul suo comunismo incipiente nel 1960). E il titolo? Eccolo: Marx o Gengis Kahn. Ovvero «Riflessioni sul ruolo della Russia e dell’Urss come portatore non sano del virus del dispotismo asiatico in Europa» ( Arlem editore, Via Gino Capponi 57, 00179, Roma, pp.119, Euro 12). Un libro scritto molto prima della caduta del Muro, e abbandonato alla critica roditrice dei topi (per dirla con Marx) ma che i topi(come con Marx!) hanno risparmiato. Perché il libro, pur non rivisto e aggiornato si ferma a prima della comparsa di Gorbaciov è attualissimo. E la tesi che inalbera è: il totalitarismo sovietico non è colpa di Marx ma di Gengis Khan, ovvero del «dispotismo asiatico», quello che attraverso l’orda d’oro e i mongoli plasmò la Russia dei Romanov, la Turchia, la Cina, tanti paesi arabi eredi dei turchi e anche tutti i satelliti dell’Urss. Insomma, scriveva Savioli a fine anni ’70 e primi ’80, non c’è mai stata nessuna «spinta propulsiva» dell’Ottobre 1917. Ma semmai una spinta autoconservativa dell’Impero zarista, eternato in nuove forme dai bolscevichi e da Stalin, al più nel segno di una emancipazione barbarica dell’arretratezza, e in grado di parlare al mondo coloniale e post coloniale (che a sua volta ha riprodotto un’emancipazione dispotica magari all’ombra del modello sovietico variamente riprodotto).
Mai dunque, per Savioli (come per Gramsci) l’Oriente col suo dispotismo gelatinoso, comunitario e «anti-società civile», poteva parlare all’Occidente, reso plurale e poliarchico dalla sua millenaria storia di conflitti. Mai di lì poteva nascere un socialismo quale che fosse, ma solo un quantum di emancipazione delle na-
zionalità extraeuropee, con molte illusioni e tragedie, inclusi i massacri staliniani e la satellizzazione di un pezzo d’Europa. La tesi non è nuovissima ma poco frequentata. Basata su un libro del 1957: Il Dispotismo Orientale di Karl August Wittfogel, comunista di sinistra tedesco, esponente della scuola di Francoforte, transfuga negli Usa, viaggiatore in Cina e divenuto anticomunista. Che cos’è in Wittfogel il «dispotismo», concetto che viaggia da Aristotele a Montesqueu, a Hegel e Marx fino ad Arendt e a Wittfogel? È una forma di governo e insieme una forma di produzione, tipica di popolazioni stanziali delle pianure «idrauliche».Talché come nell’antico Egitto, tecniche, scrittura, vie fluviali e canali, strumenti di produzione e terra sono di proprietà del despota, che li amministra con i suoi funzionari. Tutto, per dirla con Hegel appartiene all’«Uno» (divino e terrestre). Tutto è della comunità che si riassume nell’Uno dispotico, salvo il piccolo possesso individuale.
Dunque sistema di produzione comunitario, con la terra e acque lavorate in comune e a rigore senza schiavi né possessori privati di schiavi. Insomma grandi stati irrigui e sconfinati dove tutta la proprietà è del Principio Sovrano, a sua volta proiezione e involucro della comunità comunitaria e senza individui. C’è da meravigliarsi che Stalin, che ben conosceva il tema, proibisse ogni discussione a riguardo? Prima di Wittfogel anche Marx e Engels avevano pensato a lungo a tutto ciò, e tra il 1879 e il 1882si posero il quesito, sollecitati dai socialdemocratici russi: dal disfacimento dell’Impero dispotico russo si può salvare e usare, come mattone positivo e socialista, la comunità primitiva russa? Cioè, il «Mir» col suo comunitarismo, consentiva di saltare la fase capitalistica? Marx rispose: sì, immettendo tecnica e progresso nel Mir e facendo al contempo il socialismo in Europa. Ebbe ragione... il vecchio Marx «non marxista». E Lenin lo prese sul serio, anche se si appoggiò agli operai e alla spietata minoranza bolscevica. Ma il prezzo fu quello di ricadere nel collettivismo dispotico. E nel dispotismo orientale. Con Stalin al posto di Gengis Khan.


l’Unità 19.2.11
La Lega nasce razzista
di Marco Rovelli

Sarebbe bastato un rapido giro su Internet per ricordarsi che la Lega è un partito che del razzismo fa una delle sue ragioni sociali identitarie. È per questo che sorprende la speranza di dialogo insita nella lettera che Bersani ha inviato alla Padania, un giornale che è arrivato a scrivere: «Quando ci libererete dai negri, dalle puttane, dai criminali, dai ladri extracomunitari, dagli stupratori color nocciola e dagli zingari che infestano le nostre case, le nostre spiagge, le nostre vite, le nostre menti? Sbatteteli fuori questi maledetti!». È evidente infatti di che pasta sia il senso comune del ceto politico leghista: «Gli immigrati sono animali da tenere in un ghetto chiuso con la sbarra e lasciare che si ammazzino tra loro», diceva un consigliere comunale. Di basso livello, si dirà, mica rappresentativo. E allora ecco le parole di un senatore: «Gli immigrati? Peccato che il forno crematorio del cimitero di Santa Bona non sia ancora pronto». O ancora, il supremo Calderoli: «Un paese civile non può fare votare dei bingo-bongo che fino a qualche anno fa stavano ancora sugli alberi». O Bossi che fascistamente teorizzava sul progetto americano di «importare in Europa 20 milioni di extracomunitari» e garantire i propri interessi «attraverso l’economia mondialista dei banchieri ebrei e attraverso la società multirazziale». Forse il popolo leghista non è razzista davvero... Si può vedere allora, su youtube, quel popolo in visibilio quando Gentilini (quello che dichiara: «Extracomunitari? Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucile») comiziava: «Voglio la rivoluzione contro gli extracomunitari clandestini. Voglio la rivoluzione contro quelli che vogliono aprire le moschee e i centri islamici. No! Vanno a pregare nei deserti!», e via vomitando. E poi, si può sempre ascoltare la filantropica base leghista quando delira a Radio Padania.


il Fatto 19.2.11
Odio gli indifferenti
di Antonio Gramsci

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. (...) I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e in-differenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo. (...) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

La Stampa 19.2.11
E Ben Gurion ordinò “Sposate donne arabe”
Negli Anni 50 spie israeliane si mescolarono ai palestinesi
di Aldo Baquis

L’ADDESTRAMENTO In mesi di lavoro gli 007 si trasformarono in «profughi tornati dall’esilio»
IL FALLIMENTO Dopo qualche anno si capì che le «cellule in sonno» avevano esaurito il compito
I DUBBI DEI RELIGIOSI Gli agenti dello Shin Bet formarono nuove famiglie «Ma i figli sono ebrei?»

Un manipolo di agenti dello Shin Bet (sicurezza interna) fu spedito negli Anni Cinquanta, per volere del primo ministro israeliano David Ben Gurion, in una missione senza ritorno. Dovevano bruciare i ponti, dimenticare di essere ebrei, cancellare dalla loro esistenza le famiglie di origine, rinunciare ai cibi e alle tradizioni passate. Per amor di Patria, nella loro nuova vita avrebbero dovuto non solo parlare e pregare in arabo, ma anche sognare in arabo. Perché veniva ordinato loro di diventare «agenti in sonno» disseminati in aree palestinesi, all’interno di Israele. Un giorno, forse, si sarebbero rivelati utili alla Nazione.
Questa pagina di storia, finora sconosciuta in Israele, viene svelata adesso da una rivista di questioni militari, «Israel Defense», una pubblicazione che si annuncia di assoluto prestigio potendo vantare fra le sue firme un ex capo del Mossad (Dany Yatom), un ex capo dell’aviazione militare (David Ivri) e un ex capo della polizia (Shlomo Aharonishky).
Il primo numero della rivista uscirà solo la settimana prossima: ma per vie traverse il servizio sugli agenti «dormienti» è già planato sul tavolo di una pubblicazione ortodossa (Kikar ha-Shabat), che lo ha rapidamente divulgato con toni sensazionalistici. Anche perché dischiudeva una questione teologica scottante: se cioè i figli di agenti israeliani in missione segreta con donne arabe possano essere reputati ebrei. La complessa diatriba ha già incendiato diversi siti Internet religiosi.
La necessità per Israele di disporre di agenti capaci di muoversi a loro agio in ambienti arabi era risultata evidente già all’indomani della Guerra israeliana di indipendenza (1948-49), quella che per i palestinesi è invece la Naqba (il Disastro). Per controllare la cospicua minoranza araba rimasta in Galilea, nella zona centrale e nel Neghev fu subito imposto un «governo militare» che sarebbe durato fino al 1966. Ma Ben Gurion temeva che, con una operazione a sorpresa, gli eserciti arabi sarebbero riusciti egualmente a riassumere il controllo anche parziale di quelle aree. Da qui la necessità di disporre in zona, a tempo pieno, di uomini fidati, capaci di inoltrare informazioni di intelligence in tempo reale.
«Israel Defense» spiega che l’incarico di costituire un’unità «arabizzante» (Mistaaravim, in ebraico) fu affidato nel 1952 dal capo dello Shin Bet Issar Harel (uomo di assoluta fiducia di Ben Gurion) a un professionista della guerra segreta, Shmuel Moria. Il materiale primo non mancava: c’erano infatti giovani ebrei immigrati da Paesi arabi (ad esempio dall’Iraq) che si esprimevano fluentemente in arabo. Occorreva confezionare su misura per loro una nuova identità. In mesi di lavoro meticoloso nella sede dell’intelligence a Ramle (Tel Aviv) e poi negli uffici dell’ex comandante palestinese Hassan Salameh, gli immigrati ebrei si sarebbero gradualmente trasformati, giorno dopo giorno, in «profughi palestinesi rientrati dall’esilio forzato».
In questa storia, è forse questo l’aspetto che più induce all'ottimismo, gli agenti ebrei in breve tempo riuscirono infatti ad amalgamarsi al meglio nella società araba. Al punto che si pensò di passare alla seconda fase: ossia di indurli a sposarsi con donne arabe e a creare nuclei familiari. Sul piano operativo, un successo totale: israeliani e palestinesi non erano più distinguibili.
Ma col passare degli anni si moltiplicarono i mugugni. Le informazioni passate dagli agenti «in sonno» erano povere, e scarsamente interessanti. Inoltre stavano mettendo su prole. Gli ex agenti soffrivano al pensiero che i figli sarebbero cresciuti da palestinesi a tutti gli effetti: non era certo quello il loro sogno, quando erano immigrati in Israele.
Alla metà degli Anni Sessanta, scrive «Israel Defense», lo Shin Bet ammise di essere giunto a un binario morto. Convocò separatamente ciascuna delle coppie e spiegò l'inganno alle consorti arabe. Ci furono comprensibilmente scene di disperazione, manifestazioni di odio, crisi coniugali. Una delle donne portò il figlio ad Amman e si sposò con un fedayn palestinese. Gli agenti «in sonno», da parte loro, pur determinati a rientrare nell’Israele ebraica, non volevano essere strappati ai loro nuclei familiari.
Lo Shin Bet allora si accollò gli oneri finanziari. Continuò per molti anni a versare stipendi e offrì ai figli di quelle coppie di scegliere se volevano restare arabi oppure ricrearsi un’identità ebraica. Ma le ripercussioni dell'esperimento in laboratorio, secondo la rivista, si avvertono ancora oggi, mezzo secolopiù tardi: perché i figli di quelle unioni concepite a tavolino negli scantinati dello Shin Bet lamentano ancora problemi ricorrenti di identità.
Come ebbe a dire anni fa una recluta, appena impugnata la sua arma: «E io adesso su chi devo puntare questo fucile? Sulla mia famiglia palestinese, oppure su quella israeliana?».

il Riformista
Intervista al segretario Prc Paolo Ferrero
«Il patto a Vendola lo offro io dica no a Fini, il Pd ci seguirà»


Nichi sbaglia. Sel, l’Idv e la Federazione devono dire no alla grande alleanza con Fini. Il Pd cambierebbe subito idea»: il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, che fa parte del coordinamento della Federazione, non ha digerito l’apertura di Nichi Vendola al progetto democrat che mette insieme tutti, da Fli all’estrema sinistra, per battere Silvio Berlusconi.
Perché Vendola sbaglia?
Non si su cosa si crea questa santa alleanza. Il copyright è di Massimo D’Alema che pensava a una legislatura che modificasse la Costituzione. Un errore madornale, perché la Carta va difesa, salvaguardata e realizzata. Ma faccio un esempio più concreto. Fini è un iperliberista: che tipo di politica economica proporrebbe quest’alleanza? Il risultato sarà che si perderanno voti sia a destra sia a sinistra. Un dato non sfuggito a Casini che si è già tirato indietro. A mio avviso, c’è un errore di fondo: il progetto non è finalizzato alla costruzione della sinistra, bensì piegato ai giochi interni al centrosinistra, che vedono il Pd protagonista. Come testimonia la proposta di Rosy Bindi presidente del Consiglio. Idea degnissima, per carità, ma in realtà è solamente un giochino tattico. Che propone, allora? Vendola, Di    Pietro e noi dovremmo dire con una sola voce che no, con Fini non si va, a costo di andar da soli. Il Pd cambierebbe linea dopo due minuti. La proposta della grande alleanza è già finita. Per battere Berlusconi, basta fare uno schieramento di sinistra. La strada di Vendola e D’Alema, non è una via obbligata. Ne ha parlato con il leader di Sel? Non ce n’è stata occasione. E mi preme sottolineare che queste manovre di Palazzo non indeboliscono Berlusconi, anzi. Il nostro punto politico dovrebbe essere: come lo facciamo cadere? Io a Nichi propongo di proporre con noi al Pd una grande manifestazione nazionale delle opposizioni, per il 17 marzo, a rappresentare che l’Unità d’Italia è anche l’unità dei diritti civili e sociali che vogliamo mettere al centro della nostra politica. In questi mesi abbiamo visto in piazza operai, studenti, donne. Mancavano i partiti a raccogliere questa domanda. Dobbiamo incalzare il Pd a farlo con uno sviluppo lineare, con un patto tra le forze di centrosinistra e la nostra gente. Insomma, il problema è Fini.
È evidente. Fini è lo stesso di Genova, è stato al Governo con Berlusconi e ha votato tutte le sue leggi, dal collegato lavoro alle leggi vergo-
gna ad personam. Sia ben chiaro: io sono contento che Fini si sia separato dal presidente del Consiglio, è un evento di interesse strategico per la democrazia. Ma Fli non è un alleato possibile. Al pari, ben venga la nascita del Terzo polo, presupposto per mettere in discussione il bipolarismo devastante che ha consentito, da Tangentopoli in poi, di ridurre ulteriormente il rapporto con l’elettorato, e che ha permesso a Berlusconi di costruire il suo regime mediatico e populista.    S.O

l’Unità Lettere 19.2.11
Giordano Bruno
di Paolo Izzo

Ve ne dimenticherete anche quest' anno. O ci sarà appena un cauto trafiletto e qualche manipolo di eretici a ricordarlo in una rara piazza o strada a lui dedicate (dieci giorni fa, nella "sua" Napoli, nella via col suo nome, c'erano a celebrarlo topi e munnezza, che tristezza!). Nemmeno vi serviranno le recenti scoperte astronomiche su mille possibili sistemi solari, "infiniti mondi", come intuiva lui, mentre poco probabile è che anche in altro remoto universo ci sia un Vaticano... beati loro! Poi un giorno, che non sarà mai abbastanza presto,
ci si affannerà a dargli ragione per aver scommesso su un aldiquà di umanità umana e di verità naturale contro un aldilà di astrattezza violenta e di dogmatica disumanità. La stessa che "oggi" lo bruciò vivo, che fece santo colui che appiccò il suo rogo, che non ha ancora chiesto scusa (e sono passati 411 anni!) e che oggi brucerebbe, se solo potesse, eretici e streghe, testamenti biologici e fecondazioni assistite e coppie di fatto. Ma lui lo sapeva, con quella inconscia certezza che hanno soltanto i pochi genî ribelli che scoprono com'è, dentro, l'essere umano: sapeva di aver fatto tutto "quel che un vincitore poteva metterci di suo: non aver temuto la morte, non aver ceduto con fermo viso a nessun simile, aver preferito una morte animosa a un'imbelle vita" ("De monade, numero et figura", Giordano Bruno).

venerdì 18 febbraio 2011

Repubblica 18.2.11
la pillola dimenticata
Perché non si usa più la pillola
A 50 anni dall’esordio l’Italia scopre che la maggioranza delle persone non usa contraccettivi. E resistono i vecchi sistemi
di Maria Novella De Luca


Il 70 per cento delle persone con più di 18 anni ammette di non fare uso di contraccettivi. Colpa di fatalismo, ignoranza, scarsa informazione Così cinquant´anni dopo il nostro Paese dimostra di aver dimenticato la grande rivoluzione sessuale. O quasi
Dietro il rifiuto di usare contraccettivi ci sono il mito della spontaneità e la paura che ogni "barriera" tolga spazio all´amore
Resistono i metodi naturali di sempre E oggi come ieri la strategia più utilizzata è il "rapporto interrotto"
Si registra un aumento di aborti tra le ragazze più giovani, anche minorenni. E una recrudescenza dei contagi da Aids

Non piacciono alle ragazze né ai ragazzi. Non li usano né le donne, né gli uomini. Almeno nei grandi numeri. Almeno nelle statistiche. Contraccettivi, anno zero. Per i sessuologi dietro il pervicace rifiuto di usarli ci sarebbero il mito della spontaneità, della naturalità e la paura che ogni "barriera" possa togliere all´amore passione e bellezza. I ginecologi e gli andrologi dicono invece, e non senza apprensione, che si tratta di ignoranza, di inesperienza, ma anche di un bel po´ di irresponsabilità e di azzardo. Parliamo di sesso e di sessualità. E di contraccettivi, che in Italia vengono usati davvero poco. Agli ultimi posti in Europa.
Oltre il 70% della popolazione dai 18 anni in su e in età fertile ammette semplicemente di farne a meno. Magari per ricorrere poi con affanno alla "contraccezione d´emergenza". O peggio. Non importa se ormai la pillola è sempre più leggera, e si fanno strada addirittura i microimpianti, rivoluzionari dispositivi che vengono inseriti sotto la cute per avere tre anni consecutivi di contraccezione sicura. Nel nostro paese resistono invece i metodi naturali, tradizionali, quelli di sempre. E in particolare, oggi come ieri, la strategia contraccettiva più utilizzata è il "rapporto interrotto", l´amplesso che si spezza nel momento clou.
Il "rapporto interrotto" è la metodologia di pianificazione familiare tra le più antiche, ma che ha com´è noto alte possibilità di fallimento. Tra il 16 e il 25% è stato calcolato nella letteratura medica internazionale, e come rivela un dettagliatissimo libro appena uscito, "Contraccezione", edito da "L´asino d´oro", firmato da due ginecologi famosi, Carlo Flamigni e Anna Pompili.
Un libro-manuale che in duecento pagine ci restituisce la storia e il quadro attuale della contraccezione in Italia, analizzando alla luce delle più recenti scoperte scientifiche tutte le varie tecniche esistenti, da quelle ormonali ai microimpianti, dai preservativi maschili a quelli femminili, dalla spirale al diaframma, dal conteggio dei giorni alla pillola del giorno dopo. Di ogni metodo vengono indicati pregi, difetti, effetti collaterali, rischi, prezzi, ma anche false credenze e pregiudizi. Perché, a leggere i dati più recenti sul modo con cui ragazzi e ragazze, ma anche donne e uomini affrontano la sessualità in Italia, emerge che il profilattico è usato soltanto dal 28,4% dei maschi e la pillola dal 16,3% delle femmine, il coito interrotto dal 31,6% delle coppie, e tutto il resto è free, senza rete. Risultato: a cinquant´anni dall´epoca della grande rivoluzione sessuale in Italia, a mezzo secolo dall´arrivo dalla pillola, è boom di "contraccezione d´emergenza", mentre si registra, purtroppo, un aumento di aborti tra le ragazze più giovani, anche minorenni. E una netta recrudescenza dei contagi da Aids.
Spiega Carlo Flamigni, padre della fecondazione assistita in Italia, e oggi presidente onorario dell´Aied, l´associazione italiana per l´educazione demografica: «Lo scopo di questo libro è fare informazione. Perché nonostante il diluvio di notizie pseudoscientifiche che circolano, c´è un´enorme ignoranza sui temi del sesso, della sessualità, della contraccezione, ma anche di quelle scelte che possono poi compromettere la fertilità, e quindi l´arrivo di un figlio, quando si decide davvero di metterlo al mondo. La pillola fa paura perché, si dice, fa ingrassare, il preservativo perché si rompe, la spirale perché è un corpo estraneo, il diaframma perché è difficile: non esiste il contraccettivo ideale, tutti hanno controindicazioni ed effetti collaterali. Esiste però un "percorso contraccettivo" in cui ognuno può trovare la strada giusta per sé. La mancanza di informazione invece porta da una parte a vivere senza la percezione del rischio, ma dall´altro a sottovalutare le conseguenze della poca conoscenza. Quanti sono ancora oggi gli aborti clandestini delle minorenni? Ma nello stesso tempo, quante donne che rinviano fin oltre i 40 anni la gravidanza sono consapevoli che se a 20 anni il rischio di avere un bimbo down è di 1 su 1600, a quarant´anni la media è di un piccolo down ogni novanta nascite…».
Si fa sempre più strada infatti, tra i medici e i ginecologi, la convinzione che una serie di problemi legati oggi all´infertilità di coppia derivi proprio da comportamenti a rischio nella prima fase della vita sessuale, quella delle giovinezza vissuta "senza rete". I dati della Sigo, società italiana di ginecologia e ostetricia, dicono con chiarezza che gli italiani utilizzano poco i contraccettivi perché "li rifiutano" nel 53% dei casi, "non li conoscono" nel 38% delle risposte, o perché "non li sanno usare" nel 9% dei casi.
«E infatti qui torniamo al tema dell´informazione, anzi della disinformazione» aggiunge Anna Pompili, ginecologa e autrice con Carlo Flamigni di "Contraccezione". «Quante volte mi sento dire che il preservativo non è sicuro perché si rompe, ma quanti sanno utilizzarlo nel modo giusto? Ad esempio con l´accortezza di togliersi gli anelli prima di metterlo per evitare appunto che si laceri? Spesso nei colloqui mi rendo conto che quando passa il messaggio che la sessualità deve essere vissuta con serenità, vedo come le coppie si rilassano e accettano di aprirsi. Non credo infatti che agire sulla leva della paura, dello spettro delle gravidanze indesiderate - aggiunge Anna Pompili - sia la strada giusta. Basta vedere quello che succede in Gran Bretagna, dove c´è un numero di altissimo di parti tra le adolescenti, nonostante le campagne "terroristiche" del governo inglese. Anche se, e dobbiamo dirlo, in Italia gli aborti tra le giovanissime sono tornati a crescere, purtroppo anche in un´area clandestina, e così le malattie a trasmissione sessuale».
Infatti sono proprio le minorenni a ricorrere con più facilità alla cosiddetta contraccezione di emergenza, cioè la pillola del giorno dopo. Nel 55% dei casi le confezioni di questo farmaco vengono vendute a ragazze poco più che adolescenti. «A volte con orgoglio donne giovani ma anche adulte affermano: il mio uomo non mi permette di prendere la pillola perché fa male, ci pensa lui… E c´è molto dietro queste parole, proprio in termini di rapporti tra i sessi», sostiene Anna Pompili.
Eppure una recente e ampia inchiesta del Mulino sulla sessualità degli italiani condotta Marzio Barbagli, Giampiero Della Zuanna e Franco Garelli, ha dimostrato come e quanto oggi nell´amore uomini e donne siano più spensierati, liberi da convenzioni. Se non una rivoluzione, certo una "modernizzazione sessuale". E allora perché tutta questa diffidenza su pillola, condom, spirali e altro? Roberta Giommi, che dirige il Centro Internazionale di Sessuologia di Firenze, chiama in causa una serie di "difficoltà immaginarie". «C´è la convinzione che qualunque strategia preventiva tolga mistero e naturalità al rapporto, che per una donna o una ragazza non sia elegante presentarsi ad un appuntamento con il preservativo nella borsa, l´essere intelligenti nel sesso viene vissuto come un pensiero fastidioso. E purtroppo in questo - ammette Giommi - vedo una passività femminile ancora resistente, anche nelle ragazze. Quasi che il consegnare la scelta "protettiva" all´uomo sia un atto d´amore… Quello che mi stupisce poi è come mai alle generazioni più giovani sia stato trasmesso il concetto che fare esperienza è un diritto, ma non che anche il proteggersi sia un diritto. Il paradosso è che fino a 15, 20 anni fa la pillola veniva vissuta dalle donne come scelta di responsabilità, autonomia, sì, anche di liberazione». Oggi, dunque è come se si stesse tornando indietro. E se il preservativo viene vissuto con fastidio, la pillola viene guardata con sospetto quasi fosse un farmaco altamente nocivo. «Tutti elementi considerati "nemici" della spontaneità e del romanticismo - conclude Roberta Giommi - e la strada per poter parlare correttamente della contraccezione è davvero ancora lunga".

Repubblica 18.2.11
Se il sesso è una sconfitta per l’Italia
Visto l´andazzo pecoreccio perché non servirsene per fare quella propaganda anticoncezionale che da noi manca?
di Natalia Aspesi


Tutte quelle belle anzi bellissime signorine attualmente in gran fermento, causa magistrati che vogliono sapere delle loro simpatiche feste e dei loro illustri corteggiatori (clienti?, mah!), a quali gruppi appartengono? Al 28,4% (profilattico), al 16,3% (pillola), al 31,6% (coito interrotto) o addirittura al 15% (nessuno)? E sull´Isola dei Famosi le magnifiche ragazze già passate dal bunga bunga o in procinto di essere invitate a condividerlo, essendo spesso sotto i 25 anni, apparterranno a quel 27,5% che secondo le ricerche non sono mai andate dal ginecologo; e le gentili ospiti del Grande Fratello, capitasse mai una distrazione per la noia da recluse, faranno parte di quel 10% di italiane che ricorrono alla pillola del giorno dopo? Viviamo in una bizzarra parentesi storica, in cui pare che non si faccia altro che l´amore, possibilmente di gruppo, con frustini e berretti da poliziotto, su nelle alte sfere del potere e giù nei finti reality.
Forse anche tra la gente normale, tutti impegnati, per usare un termine probo, a scopare: le gerarchie ecclesiastiche non approvano, ma neanche disapprovano apertamente, con i toni frementi con cui attaccano invece preservativi e contraccettivi, quelli sì demoniaci e peccaminosi.
Praticamente non si parla d´altro, di sesso mercenario e no, sui giornali e in televisione, e allora ci si chiede: visto l´andazzo pecoreccio e guai a fare i barbogi moralisti, c´è il Ferrara antiabortista che ti mena, perché, anziché inutilmente deplorare, non servirsene per fare quella propaganda anticoncezionale che da noi non esiste, e se non sei una mamma sapiente e preveggente che porta le sue piccine dal ginecologo a 13 anni perché spieghi loro la rava e la fava, te le trovi gravide in un baleno? Secondo le statistiche riportate nel prezioso libro dei ginecologi Flamigni-Pompili, tre giovani su quattro sotto i vent´anni non utilizzano alcuna protezione sessuale durante i rapporti, e comunque in generale i contraccettivi vengono rifiutati dal 53% degli italiani, perché non li sanno usare o non li conoscono. Sapessero che Fabrizio e la sua fidanzata Belen, l´intraprendente Ruby o la svelta Nicole, il buon Emilio o la turbolenta Sara, persino il paterno Lele, guai a non uscir di casa con il loro contraccettivo (a ognuno il suo) in tasca, perché non si sa mai, può capitare qualche cattivo incontro, forse se ne saprebbe di più e se ne userebbero di più. Se ne sapeva di più cinquant´anni fa, quando apparve nell´inquieto universo femminile questo miraggio, una semplice miracolosa pillola che avrebbe permesso di non restar rigide di paura come baccalà conoscendo la vaghezza maschile, di non ritrovarsi sole a gestire una gravidanza rifiutata soprattutto dal disimpegnato partner, di sentirsi finalmente libere.
Ragazze e signore correvano nei consultori pubblici e privati che sorgevano come funghi, e pazienza se nelle parrocchie si tuonava contro, e certi padri sparavano alle figlie sorprese con la pillola in tasca, e c´era chi ne raccontava le tragiche conseguenze, dal cancro ai foruncoli. Insomma l´amore era una realtà, non una pornofiction o un´inchiesta giudiziaria: che dopo cinquant´anni in Italia non se ne senta quasi parlare, non si faccia ancora una seria educazione sessuale nelle scuole, si tuoni tuttora contro, chiudendo però gli occhi davanti alla pornograficazione di tutto, dalla televisione alla politica, fa parte delle tante sconfitte subite dalle italiane e dall´Italia.

il Fatto 18.2.11
L’opposizione in sonno
di Antonio Padellaro


Era scritto sui muri che Berlusconi rinviato a giudizio per reati gravissimi (caso unico al mondo per un premier) non avrebbe fatto una piega. Incrementando, anzi, il suo business preferito: la compera dei parlamentari per gonfiare la sua maggioranza di estrogeni umani e restarsene tranquillo a Palazzo Chigi. Avevamo chiesto un gesto forte e drammatico per provocare le elezioni anticipate, unico antidoto democratico a questo scandalo a cielo aperto. Avevamo ipotizzato le dimissioni di tutti i parlamentari dei gruppi dell’opposizione alla Camera e al Senato, già del resto trasformati dal governo in enti inutili. Una provocazione certo, un modo per scuotere tanti presunti leader, capaci solo di pigolare all’infinito la parola   dimissioni (e si vede con quali paurosi effetti sul Caimano). Un Solone democratico ha parlato a sproposito di Aventino mentre la richiesta, al contrario, è quella di volare alto finendola con l’autolesionismo che, per esempio, gela Rosy Bindi candidata premier solo perché l’ha proposta Nichi Vendola. Non sappiamo se sia solo la “pigrizia” evocata da Menichini direttore del quotidiano pd Europa, non certo tacciabile di estremismo. O la “tremarella” che fa sbagliare i calci di rigore. Ma a furia di buttare la palla in tribuna non solo si perdono la partite ma si dà modo all’avversario di risollevarsi e tornare più forte di prima. E questo sarebbe davvero imperdonabile.

Corriere della Sera 18.2.11
Come perdere le elezioni
di Giovanni Sartori


Se fossi al teatro non mi sarei mai divertito tanto. Ma non sono al teatro e non mi diverto per niente. Lo spettacolo allestito da Berlusconi&Co. è allucinante. Ma anche lo spettacolo offerto dalle opposizioni è desolante. Piluccando fior da fiore, non si era mai visto, nemmeno in Italia, che ben 315 parlamentari votassero e accreditassero la favola (favola anche per un bambino di sei anni) di un Berlusconi che crede davvero che la carnosa Ruby fosse una nipote di Mubarak e che lui era intervenuto telefonando a notte fonda alla questura di Milano per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto. A parte il fatto che il Nostro trasforma una marocchina in una egiziana, non si capisce proprio quale terribile incidente diplomatico potesse nascere da questo modestissimo episodio. Non si capisce proprio, anche se 315 onorevoli sono evidentemente più intelligenti di me e l’hanno capito. Ma forse la questione non è di intelligenza, è che i 315 sono (come scrive Mauro Calise, politologo della Università di Napoli) inglobati in un «partito personale» al quale debbono obbedienza cieca. Perché se fiatano perdono il posto. Ma se Berlusconi non ride, le opposizioni possono solo piangere. Chiedono le sue dimissioni e quindi nuove elezioni. Ma sono davvero in condizioni di affrontarle con una ragionevole speranza di vincerle? Oggi come oggi direi proprio di no. Per la semplicissima ragione che sono opposizioni al plurale spesso profondamente divise (anche al proprio interno) che hanno poco di «unitario» da proporre. E il recente congresso dei finiani ha peggiorato questo quadro rivelando che anche in quel partito regna la zizzania. Eppure il duo Berlusconi Bossi è battibile solo se tutte le opposizioni fanno, elettoralmente, fronte comune. È possibile? Sarà possibile? Forse lo è se ricordiamo il principio che mettersi d’accordo per dire no è molto più facile che mettersi d’accordo per dire sì. Una alleanza sulle tante cose da ripudiare o disfare del lungo periodo berlusconiano potrebbe risultare più facile del previsto. Una circostanza facilitante, in questo disegno, è proprio il Porcellum. Tutte le opposizioni sono state danneggiate da questo iniquo sistema elettorale, perché il premio di maggioranza regala seggi a minor prezzo ai partiti che ne usufruiscono mentre rende più «cari» (e rari) i seggi degli altri partiti. Il no al Porcellum di tutte le opposizioni è da considerare scontato. Analogamente tutti hanno da guadagnare dalla abrogazione di un’altra scandalosa «legge truffa» , la legge Frattini sul conflitto di interessi, che ha regalato a Sua Emittenza un esorbitante potere sugli strumenti di comunicazione di massa. Sono anche da cancellare tutte le leggi o leggine ad personam, fatte per favorire e proteggere il Cavaliere. Tanto può già bastare per giustificare— lo dico solo a titolo del tutto personale e non propongo affatto un’ «ammucchiata programmatica» , contro la quale il Corriere si è già espresso — una «Federazione democratica» nella quale ogni partito sottoscrive le abrogazioni che accennavo, e poi mantiene la propria identità specificando le proprie proposte caratterizzanti.

il Riformista 18.2.11
Vendola riapre la conta Pd. Latorre vuole il leader subito
Bersani irritato col governatore pugliese: «Vedo che ora rinuncia alle primarie». Casini chiude alla Santa Alleanza mentre tra i dalemiani si cerca un «nuovo Ciampi» che assomigli a Monti
di Tommaso Labate


Repubblica 18.2.11
Bindi e la candidatura a premier "Vendola non crei tensioni nel Pd"
Bersani irritato col leader di Sel. Chiamparino: calma
di Mauro Favale


Nei sondaggi l´ipotesi registra consensi altissimi. Gli auguri della Binetti, sua ex "rivale" sulle unioni civili ora nell´Udc: "È il momento di una donna"

ROMA - Si schermisce per tutto il giorno, sorride, dribbla le domande dei giornalisti. Poi, alle sette di sera, uscendo dalla sede del Pd, risponde a chi le chiede se ci sia un nesso tra la manifestazione delle donne del 13 febbraio e il fatto che Nichi Vendola abbia lanciato il suo nome per la guida della "coalizione di emergenza": «Che quelle piazze abbiano messo in moto un processo che non si ferma è fuori di dubbio. Di più non fatemi dire». Rosy Bindi sa di essere al centro dell´attenzione, fuori e dentro il suo partito. I primi sondaggi registrano a suo favore consensi altissimi: su Repubblica.it arriva al 77%. E anche il suo sponsor, Vendola, insiste su «un entusiasmo popolare straordinario». Una sorta di "benedizione" arriva da Pier Ferdinando Casini: «Rosy sarebbe una candidata di grande prestigio. Se fossi nel centrosinistra la sceglierei anche perché ha dismesso le asperità che la rendevano antipatica». Casini, però, ribadisce anche l´ennesimo «no» alla "Santa Alleanza".
Ma è dentro il Pd che la Bindi si trova in una posizione non comoda. Imputa a Vendola di averla messa in difficoltà. In Transatlantico si ferma col portavoce del leader di Sel. «L´ho cazziato un po´», racconta bonariamente. Un modo per far arrivare a Vendola anche l´irritazione di Pierluigi Bersani, convinto che la mossa del presidente della Regione Puglia sia giocata per destabilizzare il Pd. E dopo la bocciatura dei veltroniani e la mezza frenata di Massimo D´Alema, ieri, è intervenuto il sindaco di Torino Sergio Chiamparino (che aveva dato la sua disponibilità a correre alle primarie) a liquidare la questione così: «Non mi pare si sia aperto alcun concorso per candidato a premier. È bene parlare di queste cose quando si è in prossimità del voto, altrimenti sono chiacchiere». Simile il ragionamento di Beppe Fioroni: «Non ci sono le elezioni e non c´è neppure la coalizione. E abbiamo già avuto almeno 6 candidature». Chi accoglie positivamente l´ipotesi-Bindi è il senatore Nicola Latorre: «A me va bene. Ora bisogna stringere sulla leadership. È importante che Vendola intenda essere partecipe di un progetto indipendentemente da una sua candidatura alle primarie».
Sulle mosse di Vendola, il prodiano Mario Barbi si chiede: «Vendola ha rinunciato alle primarie per la scelta del candidato-premier del centrosinsitra o intende fare lo sponsor di Rosy Bindi?». Un modo anche per alleggerire "l´investitura" che il Professore avrebbe dato alla presidente del Pd e che nello staff di Bersani viene liquidata come una battuta. Fuori dal recinto del centrosinistra, la candidatura della Bindi trova l´appoggio della sua ex rivale Paola Binetti, ora Udc: «È arrivato il momento in cui la possibilità che una donna diventi premier non sia più un´ipotesi di scuola». Ancora più a destra, il ministro Giorgia Meloni e Alessandra Mussolini «apprezzano e rispettano» la candidatura della Bindi. Laconico Sandro Bondi: «La Bindi rappresenterebbe la più coerente erede di Prodi».

Repubblica 18.2.11
Renzi, sindaco di Firenze: la leadership guardi di più al futuro
"Rosy parla a un mondo chiuso con lei giocheremmo a perdere"
E così Vendola archivia tutta la ‘narrazione´ sulle primarie. Ce la dovrebbe spiegare questa storiella
di Maria Cristina Carratù


FIRENZE - «Rosy Bindi leader? Beh, se giochiamo per perdere può andare bene. Ma se tanto tanto il centro sinistra volesse vincere... Possibile che non si esca mai da questa visione decoubertiniana, per cui basta sempre e solo partecipare?». Non piace a Matteo Renzi, sindaco di Firenze, l´idea di Nichi Vendola di candidare la presidente del Pd alla premiership, sostenuta da un´alleanza democratica estesa a Udc e finiani.
Eppure la Bindi, in quanto donna, risponderebbe a un´esigenza di rappresentanza femminile molto sentita nell´elettorato di centrosinistra. Ed è anche cattolica, come lei...
«Ma insomma, stiamo vivendo un momento difficilissimo, c´è un paese sbattuto dalla crisi che avrebbe bisogno urgente di riforme strutturali e un governo che invece naviga a vista, un 40-44% di indecisi e possibili astenuti e se vogliamo schifati dalla situazione, e noi che facciamo? Il totoleader. Il superenalotto dei nomi, invece di impegnarci in un ragionamento su una chiara linea politica e di governo per il dopo-Berlusconi».
Il fattore-donna però è importante.
«Per dare peso al fattore-donna servono gli asili nido, mica una candidatura femminile così, come fosse un gioco di prestigio».
Ma della Bindi come esponente politico cosa pensa?
«E´ una donna di grande esperienza, però le manca la capacità di parlare a una altro mondo rispetto al suo. E poi ha già fatto cinque legislature nel parlamento italiano più una in quello europeo, la prossima sarebbe la settima. Ancora: alle primarie si era già presentata, nel 2007, e ha perso contro Veltroni. Insomma: la Bindi rappresenta una delle facce dell´antiberlusconismo generato dal berlusconismo. Mi chiedo: dopo tanti anni, non è il caso di immaginare una leadership in grado di segnare l´Italia dei prossimi vent´anni, anziché riproporre il girone di ritorno dei venti appena trascorsi?».
E´ comunque vero che il centrosinistra ha un problema di leadership.
«Sì, ma a che serve una discussione sulle persone fatta in questo modo? Di fronte a quello che sta accadendo il centrosinistra cambia posizione ogni giorno, litiga, rincorre sempre qualcuno che sta al di fuori, oggi Fini, domani Bossi e dopodomani chissà, magari Sara Tommasi. Questo è il vero problema, mica la scelta di un nome. Io non so come finirà il lungo periodo del berlusconismo, ma dei miei tre desideri - il premier si presenti ai giudici, il premier dimostri la sua innocenza, il centrosinistra lo sconfigga alle elezioni - il terzo, che non è morale, ma politico, è di gran lunga il più importante. Vogliamo o no cominciare a prendere sul serio l´ipotesi di una nostra competizione elettorale?»
Però, che Vendola proponga una figura come la Bindi non è anche un segnale politico?
«Mah... Dopo tutta la "narrazione" che ha fatto sulle primarie, questa storiella del farsi da parte all´improvviso Vendola ce la dovrebbe proprio spiegare. Mi sembra un giocatore che, per evitare un rigore, butta la palla in calcio d´angolo... «.

La Stampa 18.2.11
Centrosinistra, democratici al bivio
La Bindi premier? E’ già “rottamata”
Renzi boccia la candidatura, tutto il Pd è prudente sull’idea
di Francesca Schianchi


Nei sondaggi on line, il consenso sul suo nome vola alto, al 70% o giù di lì. Tra i compagni di partito, invece, ci sono commenti scettici e anche bocciature, con qualche eccezione favorevole, come Nicola Latorre. Due giorni dopo la proposta del leader di Sel, Nichi Vendola - candidare la presidente del Pd Rosy Bindi alla guida di una coalizione allargata dell'opposizione contro Berlusconi - fra i democratici l'ipotesi continua a far discutere. Anche il leader Udc, Pier Ferdinando Casini, la definisce «una candidata di grande prestigio», salvo però cassare l'idea di presentarsi tutti insieme: «Io alle sante alleanze costruite antiBerlusconi non ci credo. Non ci sarà nessuna alleanza con il Pd».
La giornata dei democratici si apre sulla Bindi, tirata in ballo da Vendola (e qualche giorno prima, scherzosamente, anche dall'ex premier Romano Prodi: "Rosy for president") che registra un «entusiasmo popolare straordinario» su questa proposta. Lei, la vicepresidente della Camera, glissa sull'argomento, anche se strapazza il portavoce di Vendola («l'ho un po' cazziato…», scherza coi cronisti in Transatlantico) e si sente al telefono con il governatore della Puglia. Nessuna strumentalizzazione, è il senso del colloquio, nessun tentativo di creare frizioni all'interno del Pd. Frizioni che peraltro i democratici sono bravissimi a coltivare, dividendosi tra chi boccia platealmente (come il giovane sindaco di Firenze, Matteo Renzi) e chi approva con entusiasmo, come il senatore Nicola Latorre.
E' tranchant il rottamatore Renzi: «La Bindi ha già fatto cinque mandati in Parlamento, uno al Parlamento europeo, ha perso le primarie con Veltroni. Non credo sia la persona giusta: è la persona giusta per partecipare, noi vogliamo vincere». Taglia corto anche l'ex ministro popolare Giuseppe Fioroni: «Non ci sono le elezioni e non c'è neppure la coalizione, e già abbiamo avuto almeno sei candidature. Se aspettiamo ancora un po' ne avremo altri due. Così - ironizza - facciamo una coalizione di soli candidati, e vinciamo nonostante gli italiani…». Mentre il deputato Giorgio Merlo riprende Latorre, «già entusiasta dell'ennesima piroetta di Vendola che adesso ha sospeso momentaneamente la predica sulle primarie e ha già scelto come premier Rosy Bindi. Nel frattempo, è possibile essere meno ridicoli e grotteschi?», chiede. Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, rinvia la discussione: «Se ne parlerà. Queste sono cose di cui è bene parlare quando si è in prossimità del voto, altrimenti rischiano di rimanere chiacchiere».
Commenti, anche lusinghieri, arrivano pure dal centrodestra: «La Bindi è una persona che ha un lungo percorso politico, ed è molto capace. E' una cosa a cui guardo con simpatia», solidarizza la ministra Meloni. Dichiarazioni di stima anche dal collega Rotondi, che ammira «il piglio, la grinta e il carattere della Bindi». Sandro Bondi ricorda che la presidente del Pd «rappresenterebbe la più coerente erede di Romano Prodi alla guida di una Santa Alleanza comprendente anche Casini e Fini», che il capogruppo Pdl alla Camera Cicchitto riassume in «un'Armata Brancaleone, che è anche minoritaria in Parlamento».
E se una sua eventuale candidatura piace alla base si potrà capire già oggi: tocca a lei aprire la Conferenza delle donne democratiche.

La Stampa 18.2.11
Intervista
Latorre: “Prima bisogna costruire un’alleanza di tutte le opposizioni”
“Mi spiace che Casini punti sul Terzo Polo, è velleitario”
di Carlo Bertini


A questo punto il gran parlare di una candidatura Bindi assume un’attualità del tutto nuova. Ai militanti Pd l’idea piace e a lei?
«Nella proposta di Vendola registro due cose importanti: la prima che offre la sua disponibilità a partecipare ad una coalizione ampia, prescindendo dal passaggio delle primarie, da lui considerate sempre valide, ma non più irrinunciabili. E poi si pone anche lui il problema di come costruire, da coprotagonista, un nuovo grande soggetto politico di centrosinistra del futuro. Che Vendola sia disposto a convergere sulla candidatura del presidente del Pd è un segnale importante. E uno stimolo a scegliere presto il profilo della coalizione e un leader. In questo quadro, credo che il nome della Bindi vada valutato bene, perché ha una serie di requisiti e qualità positive».
Se è vero che pochi a sinistra credono si voti a maggio, non pensa che quella di Vendola sia una mossa tattica?
«Considero un errore cercare in ogni iniziativa politica un retropensiero. Sarebbe sbagliato non cogliere gli elementi positivi che contiene la sua proposta. E inoltre, rispetto alle voci ricorrenti di possibili candidature di alto profilo come Draghi o Monti, che richiamano alla necessità di cercare una personalità fuori dal recinto dei partiti, mi permetto di dire che in una fase costituente come quella che ci attende, la politica dovrà piuttosto ristabilire il suo primato. E aggiungo che, anche se si votasse tra un anno o due, prima si metterà in campo una proposta di coalizione e di candidatura, tanto più potremmo recuperare quella grande quota di indecisi che ha abbandonato Berlusconi».
Ma lei a quale genere di coalizione pensa?
«Io sono convinto che noi dobbiamo seguire la strada imboccata da Bersani di proporre un’alleanza a tutte le forze di opposizione che dal 2008 si sono presentate come alternative a Berlusconi. Il congresso di Fli ha dimostrato che il Terzo polo è un’entità dello spirito. Ma nutro profondo rispetto per l’iniziativa coraggiosa di Fini che si propone di cambiare il centrodestra, anche sulla base di alcuni valori condivisibili che possono agevolare una stagione costituente. Spero vinca la sua battaglia che però si combatte in quel campo...»
Il suo no a Fini è controcorrente nel Pd. E ad esser maligni verrebbe da pensare che voglia rimuovere il sogno di un’alleanza col Terzo polo solo dopo il no di Casini...
«No, sono assolutamente convinto che un’alleanza di governo con chi si muove dichiaratamente nell’ambito del centrodestra perde di credibilità. Per quel che riguarda Casini, considero velleitario il suo progetto di un terzo polo: non c’è un minimo denominatore comune tra chi vuole rinnovare il centrodestra e chi pensa a un’ipotesi centrista autonoma dal centrosinistra e alternativa alla destra. Non gioisco affatto della sua scelta, perché reintroduce delle pregiudiziali che non hanno ragion d’essere, senza neanche un preventivo confronto. E aggiungo che si assume la responsabilità di non partecipare alla costruzione di quell’alternativa di cui ha bisogno il paese. Ancor di più, questo ci induce a stringere i tempi della nostra iniziativa e dobbiamo predisporci a farci carico della parte moderata della società che non digerisce più Berlusconi. Per usare una celebre battuta di Prodi, competition is competition...»
Una curiosità: da tutto quello che dice sembra si sia rotto il tandem pluriennale con D’Alema. E’ disposto ad ammettere che Casini certifica la sconfitta della linea con cui Bersani ha vinto il congresso?
«D’Alema è stato e resta il mio maestro e il più grande insegnamento che mi ha trasmesso è di avere il coraggio delle proprie idee senza calcoli opportunistici. Per il resto, è innegabile che da Casini arrivi uno stop a un percorso cui abbiamo lavorato da tempo. Comunque non consideriamo definitivamente chiuso questo capitolo, ma certo ora sarà ancora più significativo il contributo che potrà venire alla nostra azione dalla parte cattolico-moderata del Pd».

Corriere della Sera 18.2.11
Casini chiude a Bersani: no alla «santa alleanza»
«L’Udc ha un percorso diverso dai democratici. Fini ha ragione sul Cavaliere»
di  Lorenzo Fuccaro


ROMA — Pier Ferdinando Casini dice no a una «santa alleanza anti-Cavaliere, sarebbe il miglior regalo a Berlusconi perché lo resusciterebbe» , ma allo stesso tempo è contrario a una coalizione con il Pd. In caso di voto, annuncia, «l’Udc presenterà una proposta di larga coalizione aperta alla società civile, faremo cioè un appello alle forze responsabili che ci stanno a governare il Paese e a ricucirlo, penso a Luca di Montezemolo, penso a Pisanu, Letta e Fioroni» . Ecco perché dice no anche a un’alleanza con il Pd: perché «il nostro è un percorso diverso» . Per Casini «c’è una seria emergenza nel Paese a cui bisogna rispondere con le armi della democrazia: le grandi ammucchiate non servono» . Il leader dell’Udc parla a Otto e mezzo su La7 ed è convinto che, a spoglio ultimato, il terzo polo, dato tra il 18 e il 20 per cento, sarà l’ago della bilancia non soltanto al Senato: «Visto che c’è un sistema bicamerale, saremo determinanti in Parlamento. Faremo una proposta di larga coalizione perché questa Italia non si governa più dividendo la mela a metà, gli uni contro gli altri, berlusconiani contro antiberlusconiani» . In altre parole, incalza Casini, proporremo «un governo di unità nazionale dopo il voto. Il terzo polo impone a chi vince di sedersi al tavolo. Non si porteranno dietro tutte le forze politiche? Pace, si metteranno a sedere quelle che vorranno...» . E inoltre dà ragione alla denuncia del potere economico di Berlusconi fatta ieri da Gianfranco Fini: «La pensano così tutti gli italiani» . Insomma, il leader centrista espone con chiarezza il proprio punto di vista e di certo non farà piacere a quanti, nel centrosinistra, avrebbero voluto arruolarlo nel proprio esercito. Boccia anche l’ipotesi avanzata da Nichi Vendola di fare guidare la grande alleanza anti-Cavaliere a Rosy Bindi. Del presidente del Pd, Casini parla bene sul piano personale e riconosce che «sarebbe una candidata premier di grande prestigio» . Ma io, precisa, «sto da un’altra parte» . Del resto l’idea lanciata dal governatore della Puglia non convince tutti nel campo del centrosinistra. Se piace al dalemiano Nicola Latorre, che esorta «a non perdere tempo e a stringere sulla leadership indipendentemente dalle elezioni» , lascia scettico Beppe Fioroni. «Abbiamo già avuto sei candidati da Draghi a Monti — dice l’exministro scegliendo un registro sarcastico —. Adesso c’è la Bindi. Ma la coalizione ancora non c’è e le elezioni non si sa quando si faranno. Comunque, se ne escono un altro paio, facciamo la coalizione di candidati e vinciamo le elezioni» . Tiepido, forse ostile, Giorgio Merlo che inanella una serie di domande: «Non sappiamo quando si vota, se si vota, quale sarà la coalizione alternativa al centrodestra, ma qualcuno come Latorre è già entusiasta della piroetta di Vendola» . E anche il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, rinvia ogni decisione: «La Bindi candidata? Troppo presto per parlarne» .

il Riformista 18.2.11
Il dialogo è col premier, non col Cavaliere
Radicali a congresso. «Non entreremo mai in questa maggioranza, ma vogliamo cambiare le regole».
d Angela Gennaro


il Riformista 18.2.11
Quando Tortora e Negri duellavano in tv sul processo
di Luca Mastrantonio

qui
http://www.scribd.com/doc/49095880

Corriere della Sera 18.2.11
Il genio di Montale conquista New York
Galassi: tra gli immortali come Baudelaire
di Alessandra Farkas

NEW YORK — «Eugenio Montale appartiene alla ristretta cerchia di poeti come Baudelaire, Valéry o T. S. Eliot. È uno dei grandissimi che non verranno mai dimenticati» . Reduce dal Convegno e Reading su Eugenio Montale organizzato dall’Istituto italiano di cultura in collaborazione con l’American Academy di Roma e la Fondazione Rizzoli Corriere della Sera, Jonathan Galassi parla con insaziabile entusiasmo del grande scrittore premio Nobel di cui è uno dei più raffinati traduttori, insieme a Charles Wright e William Arrowsmith. —, ma a trent’anni dalla sua morte, l’America rischia di dimenticare Montale. «Purtroppo oggi anche lui è vittima dell’oblio che dopo la morte sembra colpire tutti i grandi della letteratura» , spiega Galassi, che oltre a essere presidente e publisher della Farrar, Straus and Giroux, è anche uno degli intellettuali più colti e raffinati degli Stati Uniti. E punta il dito contro «il bisogno quasi fisiologico di prendere le distanze dai mostri sacri» . —, ma in questa sponda dell’Atlantico negli anni 60 e 70 la sua influenza era straordinaria. Al punto da ispirare le celebri «imitazioni» di Robert Lowell, il grande poeta statunitense, considerato il fondatore della Poesia confessionale, che nel 1961 pubblicò Imitations, un volume di libere traduzioni di Montale e altri poeti europei (vincitore del Bollingen Poetry Translation Prize nel ’ 62). Un tema, quello delle «imitazioni montaliane» esplorato da Fabio Finotti, docente all’Università della Pennsylvania. «Montale resta il poeta italiano più tradotto del XX secolo — incalza Galassi —, ha ispirato generazioni di poeti americani, da Charles Wright a Robert Lowell a Mark Strand» . Rebecca West, docente all’università di Chicago e autrice di Eugenio Montale: Poet on the edge, ha sottolineato come «negli ultimi 20 anni la lingua inglese non ha prodotto nessuna nuova opera su Montale» . Eppure secondo Riccardo Viale, direttore dell’Istituto italiano di cultura newyorchese, la sua poesia resta attualissima. «Eugenio Montale, frequentatore di Gobetti, credeva in una dimensione morale della poesia che alla fine assumeva significato politico» , ha spiegato Viale. «Era la forte decenza della vita quotidiana, il silenzioso, ma fermo non scendere a compromessi il filo conduttore della sua poesia come della sua opposizione al fascismo e la sua lontananza dalla politica del dopoguerra» . Anche la sua attività di giornalista per il «Corriere della Sera» è definita «straordinaria e moderna» da Galassi, che racconta di aver conosciuto Montale a Forte dei Marmi nel 1979. «Stavo lavorando alla traduzione di uno dei suoi libri e nella casa sul mare c’era anche la sua governante toscana Gina Tiossi, eroina di tanti suoi versi. Fu uno degli incontri più formativi della mia vita — aggiunge —. Da allora Montale è uno dei miei eroi e una delle mie ossessioni» . Scindere il Montale uomo dal Montale scrittore è per lui impossibile. «Tutta la sua opera parla della sua vita, dell’amante Irma Brandeis, soprannominata Clizia, e della moglie Drusilla Tanzi, "Mosca". Della guerra e della sua difficile vita durante il fascismo» . Nel 2006 Mondadori pubblicò le sue Lettere a Clizia: «Un volume in un certo senso scioccante — incalza —, perché rivelò al mondo il suo comportamento non certo esemplare nei suoi confronti» . In America ci fu un piccolo scandalo «quando si apprese che alcune delle traduzioni firmate da Montale erano in realtà opera di una donna: Lucia Rodocanachi» . Secondo Galassi non c’è niente di scandaloso, invece, nella relazione tra Montale e l’allora 28enne Annalisa Cima che dopo la sua morte ha pubblicato un volume di poesie che lui le aveva dedicato. «Escludo che siano stati amanti, anche perché lui non era molto sessuale come individuo» . Potrebbero, in futuro, emergere nuovi inediti? «Forse l’unico resta il carteggio pluridecennale con il caro amico Gianfranco Contini— risponde Galassi —, ma l’interesse di tale opera è secondario: sarebbe più importante ritradurre Montale e pubblicare nuovi saggi di analisi sul suo lavoro» . La lacuna sarà presto colmata: «Sto lavorando a un nuovo libro: una collezione di poesie scritte negli ultimi anni della sua vita» .

Corriere della Sera 18.2.11
Radici europee prima di Cristo
Dalle origini greco-romane all’apporto essenziale del Vangelo
di Giuseppe Galasso


P eriodicamente le «origini cristiane dell’Europa» tornano all’ordine del giorno sia sul piano culturale che, forse, più ancora, su quello politico; e sempre si contrappongono chi crede che quel carattere cristiano sia indiscutibile e chi crede che lo si debba negare; e, come spesso accade in simili casi, è proprio questa contrapposizione a fuorviarne i discorsi. Chiediamoci, piuttosto: la tradizione europea è nata col cristianesimo oppure ha già una sua delineazione precristiana? La risposta si presta a pochi dubbi. Nell’antica storia mediterranea, e in specie in Grecia e in Roma, hanno le origini e le prime forme, spesso altissime, punti decisivi dell’identità europea. Tali sono lo spirito critico, il razionalismo storico e filologico, la filosofia, concetti basilari dell’etica e della politica (dignità dell’uomo, libertà, democrazia) così come dello spirito religioso, espressioni fondative nella tradizione poetico-letteraria e artistica, un’amplissima terminologia nei più vari campi dello scibile, elementi centrali nella contrapposizione tra Occidente e Oriente, vicende storiche (di Grecia e di Roma) che sono servite poi sempre agli europei da modelli o da materia di riflessione, una mitologia che ha nutrito per secoli l’immaginario europeo... Una eredità di enorme e determinante spessore, di cui, tra l’altro, anche la radicale rivoluzione cristiana è largamente vissuta. Si può ignorare tutto ciò in qualsivoglia visione del passato e dei «fondamenti» dell’Europa, senza privare le «origini» europee di connotati imprescindibili, e senza, quindi, impoverire fortemente qualsiasi concezione della storia e della realtà europea? Altra cosa sono, invece, è ovvio, la parte del cristianesimo nella storia europea e il suo contributo a questa storia. Parte e contributo tali che per moltissimi secoli «europeo» e «cristiano» sono stati termini equivalenti e interscambiabili, e le innovazioni e gli sviluppi della civiltà europea si sono largamente modellati nello stampo cristiano. Sul piano dell’etica, in specie, l’Europa moderna ha ricevuto un’impronta cristiana profonda, indiscutibile (e perciò un pensatore del tutto laico come Benedetto Croce affermava che «non possiamo non dirci cristiani» , mostrando in ciò ben altra intelligenza rispetto ai tanti che, come Bertrand Russell, pensavano che «non possiamo dirci cristiani» ). Cose ovvie, se si vuole, ma non perciò meno meritevoli di essere ribadite; e il discorso sarebbe, così, chiuso, se con quanto si è qui detto non interferissero a fondo altri elementi. Eccone qualcuno. In primo luogo, il cristianesimo non è mai stato un monolite indifferenziato. Ci sono almeno tre confessioni cristiane in Europa, e in ognuna di esse le differenziazioni interne sono non poco rilevanti. In secondo luogo, nel corso dei secoli l’Europa ha largamente importato dall’esterno concetti fondamentali e altrettanto differenziati e diversi per la sua identità e per il suo patrimonio storico, morale e culturale. Rilevanti e importanti sono state soprattutto le derivazioni dal mondo dell’Islam. In terzo luogo, non solo confessioni cristiane e derivazioni dall’esterno non sono blocchi monolitici, ma non sono nemmeno costanti o, all’opposto, dati una volta per tutte, poiché hanno avuto intensità molto varie nel tempo. In quarto luogo, nella storia europea si è formata una sempre più consolidata tradizione umanistica, laica, scientifica, più o meno lontana da quella cristiana, o anche vicina a essa, o perfino conforme, nella quale è di certo un altro tratto fondante dell’identità europea. E, tutto ciò, a non parlare del crescente processo di secolarizzazione, che ormai da un paio di secoli ha investito l’Europa, e che certo è nato anch’esso dalle viscere della realtà europea e ne è parte costitutiva. In realtà, a ben riflettere, è il concetto stesso di origini a non attagliarsi alla discussione. Le origini, si sa, sono sempre, per lo più, un mito, anche se dei più essenziali e fondanti nella vita degli uomini. Nell’epoca romantica l’identità, la nascita e lo sviluppo di una realtà e coscienza europea sul fondamento della fede cristiana, e, meglio, cattolica, furono elaborati nelle loro versioni più alte e feconde. È dubbio che la stessa altezza di pensiero e fecondità di svolgimenti abbia o possa avere quella tesi oggi, in un mondo e in un’Europa tanto mutati. Il che non toglie, peraltro, che si debba appieno riconoscere alla tradizione cristiana in Europa il luogo eminente, anche se non monopolizzante, che essa ha avuto, e continua, in altro modo e misura, ad avere.

Corriere della Sera 18.2.11
Lotta armata alla Berlinale: terroristi «eredi» del nazismo
Educazione e famiglia in Germania, le accuse di Veiel
di Paolo Mereghetti


«Senza Hitler, tu non ci saresti stato» . Lo dice la madre a Bernward Vesper e si riferisce alle campagne naziste per la natalità (il padre Will, poeta hitleriano, avrebbe preferito non avere figli), ma la battuta ha anche un valore metaforico, a proposito della generazione che negli anni Sessanta passò dalla contestazione alla lotta armata. È questo il tema del film di Andres Veiel Wer Wenn nicht Wir (Se non noi chi) che scava nei complicati rapporti familiari e nelle contraddittorie dinamiche psicologiche alla base delle scelte di vita di Bernward Vesper (August Diehl) e Gudrun Ensslin (Lena Lauzemis), il primo figlio di un poeta celebrato da Hitler che l’aveva educato al valore della letteratura ma anche al timore di un ordine gerarchico che informava l’universo tutto, la seconda figlia di un pastore protestante tanto rigoroso quanto tormentato (anche per aver accettato di combattere nell’esercito nazista pur non condividendone l’ideologia). Naturalmente Veiel (con un buon passato da documentarista) non è così determinista da far risalire ogni cosa all’educazione e alla famiglia, ma è lì che cerca le origini del radicalismo e delle scelte antisistema: Bernward non seguì Gudrun nel terrorismo (anche per odio/gelosia nei confronti di Andreas Baader) ma terminò ugualmente i propri giorni in maniera tragica, incapace di trovare uno sbocco positivo alla divaricazione tra ideali e vita quotidiana. Ed è proprio l’intensità bruciante con cui quei giovani vissero la propria ribellione antiborghese (nell’amore come nella politica) che il film fa risaltare con una radicalità piuttosto inusitata (se si pensa al brutto La banda Baader Meinhof di Uli Edel) e con qualche interrogativo non scontato. Ed è curioso che alla fine di un festival piuttosto deludente, proprio questo film contribuisca a far emergere il tema dominante di buona parte della selezione: l’incapacità delle nuove generazioni di reagire alle sfide della vita. I due amici turchi di Bizim büyük caresizligimiz (Il nostro grande dispiacere) di Seyfi Teoman non sanno prendere l’iniziativa di fronte all’amore che provano per la medesima ragazza. I fidanzati coreani di Saranghanda, saranghaji anneunda (Vieni pioggia, vieni sole) di Lee Yoon-ki scelgono di separarsi ma non hanno la forza di farlo davvero. E allo stesso modo era un rassegnato il protagonista del film argentino Un mundo misterioso di Rodrigo Moreno, o la coppia di The future di Miranda July o i contadini di A torinói ló di Béla Tarr (anche se qui pesa l’incombere di una tragedia apocalittica), così come i protagonisti di V subbotu di Alexander Mindadze. E quando non è il presente, è il ricordo del passato a schiacciare le vite, come alle due palestinesi emigrate a Londra nell’intrigante Odem (Rossetto) di Jonathan Sagall. Tutti film che lasciano in bocca il senso della sconfitta, ma non più vissuta guardando in faccia l’altro (come ci avevano insegnato Hemingway e Humphrey Bogart) ma subita con la rassegnazione di chi non sa più come opporsi a un mondo che non capisce.

giovedì 17 febbraio 2011

l’Unità 17.2.11
Immigrazione: vere emergenze solite frasi
Accuse all’Europa e Piano Mershall
di Emma Bonino


Di fronte agli ultimi sbarchi dei tunisini sulle nostre coste il governo ricorre ad un evergreen, quello di chiamare in causa l’Europa facendo finta di non sapere che se una politica comune in materia di immigrazione non esiste ciò è dovuto alle resistenze degli Stati membri. Ma cosa si chiede esattamente all'Europa? A parte soldi e pattugliamenti dell’agenzia europea Frontex, su cui Bruxelles si è resa disponibile, anche una condivisione dei rifugiati? In questo caso occorre capire di che parliamo: nel 2010 l’Italia ha accolto meno di 7 mila richieste di asilo, mentre Germania e Francia ne hanno accolte 40 mila ciascuno, Svezia 30 mila, Belgio 20 mila. Anche di fronte all’emergenza umanitaria di questi giorni si continua ad ignorare questo diritto fondamentale, che non permetterebbe di trattare i profughi tunisini come semplici clandestini. Ma anche volendo considerare questi profughi come normali immigrati irregolari, si dovrebbe applicare lo stesso la legge europea. Infatti la direttiva rimpatri, che non è stata per ora recepita nelle Legge comunitaria a causa di un blitz della maggioranza al Senato, prevede come riconosciuto dalla circolare del ministero dell’Interno del 17 dicembre 2010 una serie di garanzie che vedono la reclusione nei Cie come una extrema ratio. Invece i primi provvedimenti per molti degli arrivati sono stati proprio il trasferimento nei Cie.
In tale difficilissimo frangente è irrinunciabile un ritorno alla legalità delle nostre istituzioni. Per questo i Radicali hanno lanciato un appello al Parlamento, che in questi giorni continua a discutere della Legge comunitaria alla Camera, perché venga recepita la direttiva rimpatri e quella altrettanto importante sul lavoro nero degli immigrati. All’appello, firmato da numerose associazioni di immigrati, è possibile aderire scrivendo a: appellomigranti@gmail.com.
Infine, poiché i sommovimenti nati dalla “rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia avranno ripercussioni sull’intera regione, il ministro Frattini ha evocato un altro evergreen, quello di un Piano Marshall. A parte chiedersi da chi finanziato, siamo sicuri che questo approccio all’insegna della triade crescita-sviluppo-stabilità sia la risposta adeguata? Da parte nostra ripetiamo quello che sosteniamo da anni: la gamba economica deve essere abbinata a quella istituzionale, vale a dire ad un progetto questo sì europeo a sostegno della libertà, della democrazia e dello stato di diritto. Senza i quali non si capisce come si possa parlare di una visione a medio e lungo termine.

Corriere della Sera 17.2.11
Se il voto si allontana il Pd pensa al piano B
di Maria Teresa Meli


ROMA— Davanti alle telecamere i leader del Pd, da Pier Luigi Bersani a Massimo D’Alema, continuano a ripetere le solite parole d’ordine: sì al voto, sì alla Santa Alleanza antiberlusconiana. Ma in realtà i vertici del Partito democratico stanno preparando un aggiustamento di rotta. Le elezioni, infatti, appaiono assai improbabili (benché tuttora bramate dal centrosinistra) e, di conseguenza, sfuma anche il maxischieramento che dovrebbe andare da Gianfranco Fini a Nichi Vendola. È su questa nuova prospettiva che da qualche giorno stanno ragionando i dirigenti del Pd che non vogliono restare spiazzati di fronte a uno scenario mutato. Gli ammiccamenti di Bersani e D’Alema sul federalismo vanno proprio in questa direzione. Il Partito democratico non intende rimanere fuori dai giochi nel caso in cui la legislatura prosegua. Soprattutto se, strada facendo, Berlusconi si dovesse fare da parte per consentire la nascita di un governo del nuovo centrodestra, magari con Udc e Fli dentro. È un rischio che al Pd nessuno si sente di escludere. Lo paventava l’altro giorno Maurizio Migliavacca, capo della segreteria di Bersani: «Il premier potrebbe cadere, ma invece di andare alle elezioni il centrodestra potrebbe formare un nuovo governo» . E ieri ne parlava con alcuni compagni di partito, in pieno Transatlantico, Beppe Fioroni: «Piuttosto che andare al voto, Berlusconi si sfila e mette un altro al posto suo. A quel punto nelle opposizioni ci sarà il tana liberi tutti, ognuno si sentirà svincolato e agirà di conseguenza. Si apriranno scenari imprevisti e imprevedibili» . Anche Walter Veltroni è convinto che se l’appuntamento con le urne verrà rinviato molte cose muteranno: «Se non si va al voto la situazione, anche rispetto alla strategia dell’alleanza costituente, può cambiare» . E un veltroniano di ferro come Stefano Ceccanti continua a scommettere sulla prosecuzione della legislatura. Lo spiega da giorni ai colleghi senatori: «Fino ad aprile— è la sua tesi — non succederà niente, scavallato quel mese, quando sarà chiaro che le elezioni sono impraticabili, allora potrebbero esserci dei sommovimenti, magari la Lega potrebbe puntare ad un altro governo di centrodestra» . Persino Dario Franceschini, il primo a proporre il Cln contro Berlusconi, ieri appariva molto più cauto: «È chiaro che non è il nostro unico schema di gioco» . Anche nella Sel di Vendola si discute ormai di questa opzione, con il convincimento— e la speranza — che nel caso di un governo Maroni il Pd potrebbe dare la sua astensione: «Così avremmo una prateria a sinistra, perché tanto alle elezioni prima o poi bisognerà andarci» . Quel che per Vendola è una speranza, per Matteo Renzi è invece un incubo. Il sindaco di Firenze non solo è un fiero oppositore della Santa Alleanza, ma è anche assai diffidente nei confronti della Lega: «Noi rottamatori siamo stati i primi a dire di non inseguire Fini e ricordo che un autorevole ex premier con i baffi ci definì dei mentecatti per questo. Oggi non vorrei che il Pd si mettesse a rincorrere Bossi» . Accada quel che accada — governo Berlusconi, Maroni o Tremonti— al Pd hanno capito che non spira vento di elezioni: figuriamoci poi se tira aria di dimissioni di massa come proposto ieri dal direttore del Fatto Antonio Padellaro. I dirigenti del partito, comunque, continuano a compulsare i sondaggi. Le rilevazioni non sono entusiasmanti per nessuno. L’ultimo report mensile dell’Ipsos, quello che fornisce ai dirigenti del Pd il polso della situazione, è sconfortante per tutti i leader, attuali e futuribili del centrosinistra. Chiamparino cala di 3 punti, Vendola di 2, Bersani di 1, Veltroni di 2. L’unico stabile in quell’area è Nicola Zingaretti. Anche le possibili new entry sono mal messe: Rosy Bindi, per esempio, raccoglie su di sé il 60 per cento di giudizi negativi. Un panorama sconfortante che non lascia fuori il centrodestra e il terzo polo, dove scendono sia Berlusconi (che si posiziona sotto Bersani) che Fini. È il segno di un ulteriore allontanamento dei cittadini dalla politica. E un motivo in più per non andare a votare. Maria Teresa Meli

Repubblica 17.2.11
Un brano del saggio del filosofo dal nuovo numero di "Lettera internazionale"
Dal comunismo alla community
Dal troppo poco all´appena sufficiente: non si sa più quale sia l´unità di misura se non la media che passa tra la miseria e l´opulenza
di Jean-luc Nancy


Anticipiamo parte del testo di Nancy dal nuovo numero di "Lettera internazionale"
Niente è più comune del comune. Questa affermazione lapalissiana provoca in effetti una vertigine: il comune è talmente comune che non lo si vede, non se ne parla. Lo si teme un po´, sia perché è comune-volgare, sia perché è comune-comunitario. Rischia di abbassare o di soffocare. O entrambe le cose insieme.
Tuttavia, beninteso, il comune è comune; è il nostro destino comune essere in comune. Ma tutto avviene come se le culture – le politiche, le morali, le antropologie – oscillassero continuamente tra il comune dominante, inglobante – il clan, la tribù, la comunità, la famiglia, la stirpe, il gruppo, l´ordine, la classe, il villaggio, l´associazione – e il comune banale, il profanum vulgus (non sacro…) o il vulgum pecus (il gregge…), il popolo, la gente, la folla, tutti (l´inenarrabile uomo qualunque). O è il tutto che ingloba la parte, o è l´umiltà della condizione ordinaria.
Nell´idea di comunismo, una gran parte dell´Europa ha visto la somma di queste due possibili letture: la collettività obbligante e al contempo la mediocrità livellante. Di fatto, il comunismo detto "reale" ha combinato il livellamento delle condizioni con il controllo di un´autorità che si presumeva collettiva. Una forma di uguaglianza – forma ristretta, grigia, e ciononostante effettiva – combinata con un dirigismo brutale: i due fattori permettevano che a questa condizione sfuggissero i dirigenti e un apparato militare e tecnico. Ne risultava una società duale di cui si potrebbe dire che la ragione d´essere – al di là dell´accaparramento del potere e della ricchezza che in un modo o nell´altro appartengono a ogni società – era di sovrapporre un´ipertrofia dello Stato a una condizione umana decisamente limitata al suo mantenimento meccanico: quasi alla sola riproduzione della specie, ridotta quest´ultima, per un certo periodo, unicamente alla popolazione dell´impero socialista sovietico. Questo comunismo "reale" che ha tanto derealizzato le relazioni tra le persone e con il mondo (senza impedire la presenza, sorda ma intensa, del rifiuto, della protesta, dell´uomo in rivolta), non a caso ha riunito questi due grandi caratteri del comune: il Tutto e il Basso. Ha riunito ciò che restava del comune perduto. Ci sono state comuni di ogni genere. Qui è necessario fare riferimento a Marx, naturalmente, e alla sua analisi delle forme comuni anteriori al mondo moderno, ma non soltanto a Marx: le modalità dell´esistenza comune sono ciò che caratterizza, senza dubbio in maniera molto diversa, tutte le civiltà che precedono quella in cui il sociale ha sostituito il comune. (...)
Nel frattempo la democratizzazione e la socializzazione delle società industriali nelle quali – con grande disappunto di Marx – la rivoluzione comunista non aveva avuto luogo, ha portato a uno sviluppo di quelle che ancora di recente sono state chiamate le classi medie le quali sono tendenzialmente diventate l´elemento omogeneo di una società in cui la maggioranza è tutta intenta a non prendere troppo in considerazione né la miseria che scava in sé né la confisca della ricchezza che vi corrisponde. Troppo poco, abbastanza, troppo – denaro, sapere, potere, diritto, salute – abbastanza, appena sufficiente, sufficiente… non si sa neppure quale sia l´unità di misura, se non quella media che passa tra la miseria e l´opulenza. Il comune come totalità mediocre. Il valore più comunemente ammesso del comune.
Ma dell´essere insieme, nessuna notizia. Se non questa: abbiamo imparato che l´idea comunista ha tentato di erigere la verità dell´essere insieme contro tutte le forme di dominio, di individualizzazione, di socializzazione. Essa ha portato, in un mondo in cui si percepiva oscuramente la perdita di ogni comune, l´"insieme" o il "con" come condizione allo stesso tempo ontologica e pratica, ancora inaudita. (...)
L´idea comunista – che possa o debba conservare ancora questo nome – designa il meno comune del comune, la sua eccezione, la sua sorpresa. Nessuna totalità, nessuna mediocrità, ma ciò che fa sì, per esempio, che io possa scrivervi qui, a tutti e a tutte, o a ognuno e a ognuna, e senza sapere neanche in che modo condividiamo questa idea. Noi.
Traduzione di Monica Fiorini © 2010 by & Actuel MarxPer la traduzione italiana © Lettera Internazionale

Repubblica Lettere 17-2.11
Il Partito d'Azione e Riccardo Lombardi
di Carlo Patrignani


Roma. Mi sia consentito di ricordare un nome che manca nell'interessante articolo di Giovanni De Luna dedicato all'azionismo, indigesto a Giuliano Ferrara, cresciuto a 'pane e Togliatti' ed oggi 'consigliere' di Silvio Berlusconi.  Il nome dimenticato è quello di Riccardo Lombardi, il primo prefetto di Milano su indicazione del Clnai, fondatore nel 1942 con Ugo La Malfa,Vittorio Foa, Ferruccio Parri e tanti altri del Partito d'Azione. "Fu un uomo libero"- scrisse di lui Bobbio. Per questo oggi gli rendono omaggio tutti coloro che sanno quanto sia stata dura la lotta per la riconquista della libertà. Prima di passare nel 1947 al Psi dove portò la cultura dell'autonomia coniando il termine 'acomunismo', fu anche il segretario politico del Pd'A.

mercoledì 16 febbraio 2011

La Stampa 16.2.11
Dopo la manifestazione «Se non ora quando?»
Bersani scrive al comitato delle donne: «Incontriamoci»


Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha inviato una lettera al Comitato promotore «Se non ora quando», chiedendo un incontro. Ne dà notizia lo stesso Comitato. «Care amiche - scrive Bersani - ho partecipato a Roma alla splendida manifestazione del 13 febbraio insieme a mia moglie e ho condiviso e sostenuto la vostra mobilitazione fin dal primo momento. Ho altresì visto la grande partecipazione di donne e uomini agli appuntamenti organizzati nelle piazze di tutt’Italia e non solo». «Se anche voi lo ritenete utile - conclude il leader democratico - mi farebbe piacere incontrare una delegazione del vostro comitato, per valutare insieme le azioni più utili da produrre nel Paese e nelle Istituzioni a sostegno della vostra battaglia, nel più totale rispetto della reciproca autonomia».

il Fatto 16.2.11
Prepariamoci a tutto
di Antonio Padellaro


Ripeterlo è perfino inutile. In qualsiasi altra democrazia al mondo un premier indagato per prostituzione minorile non sarebbe restato un minuto di più al suo posto. Pensate a Cameron, a Sarkozy, a Zapatero. Come avrebbero potuto tirarla in lungo accusando di qualsiasi cosa magistratura e informazione senza rischiare una rivolta di piazza? Figuriamoci se rinviati a giudizio con una motivazione di un giudice terzo, il gip, che parla di “evidenza delle prove”. Ma in Italia c’è Berlusconi e anche in queste ore di marasma e di vergogna, mentre tutti i notiziari del globo aprono con la notizia che è senza precedenti, a Palazzo Grazioli il partito del tanto peggio può ancora alzare la voce. Fregatene, resisti, vai avanti: così lo consiglia la corte dei venduti e dei parassiti che pur di non essere ricacciati nel nulla da   cui sono stati tirati fuori (il vero miracolo italiano) lo sospingono di nuovo sul ring disposti a farlo massacrare pur di salvarsi. Un uomo con un residuo di lucidità avrebbe già capito dal rumoroso silenzio di Bossi che perfino il più fedele alleato ne ha le scatole piene. E quella gelida frase del cardinal Bagnasco: “Occorre trasparenza” non suona forse come la campana a martello del Vaticano? Con il Caimano ferito tutto è possibile. Ma se non darà ascolto alle voci del buon senso che gli indicano come unica via d’uscita le dimissioni immediate per poi giocarsi l’intera posta sul tavolo delle elezioni anticipate. Se, insomma, tenterà l’ultimo disperato arrocco trincerandosi dentro Palazzo Chigi con la sua maggioranza gonfiata da deputati comprati un tanto al chilo, allora toccherà all’opposizione   uscire allo scoperto con un gesto forte, drammatico, senza precedenti come lo è il momento che viviamo. Se n’è già parlato: le dimissioni in blocco di tutti i gruppi e di tutti i parlamentari dell’opposizione. Camera e Senato già ridotte a enti inutili dall’inettitudine del governo non potrebbero sopravvivere. Un gesto estremo. Ma prepariamoci a ogni evenienza.

Repubblica 16.2.11
La misura è colma
di Ezio Mauro


Ci sono elementi di prova sufficienti per mandare subito Silvio Berlusconi a processo. Questa la decisione del gip, ieri, dopo aver vagliato le fonti di prova dei procuratori, in 15 pagine. Dunque l´inchiesta è chiusa e si apre il processo, dal 6 aprile. L´atto d´accusa, che ha già fatto il giro del mondo, riguarda due reati gravissimi per un Primo Ministro: concussione e prostituzione minorile.
Secondo l´accusa si tratta di reati collegati tra loro. Il Capo del governo ha esercitato una pressione illecita sulla questura di Milano per far liberare nottetempo la giovane Ruby, proprio perché voleva impedire che la ragazza parlasse delle notti ad Arcore da minorenne, compreso il bunga bunga di Stato. La vera cifra di questa vicenda è l´abuso di potere. Una concezione di sé e del mondo all´insegna della dismisura sia nel privato che nel pubblico, un potere che non riconosce limiti, sproporzionato e dunque abusivo nella sua pretesa di essere impudente e impunito, fuori da ogni regola, ogni legge e ogni controllo.
Ieri la "struttura Delta" (che si muove sul confine tra azienda e Stato, politica e marketing) aveva organizzato per il Premier una missione di Stato in Sicilia, tra la propaganda e la paura davanti alla nuova ondata migratoria. Ma il Presidente del Consiglio, dopo la decisione del gip, è tornato d´urgenza a Roma dai suoi avvocati annullando tutti gli impegni, e soprattutto la conferenza stampa già fissata. Perché - ecco il punto capitale - non è in condizione di dire agli italiani la verità sui suoi scandali, e non sa assumersene la responsabilità davanti al Paese.
Ora il suo istinto populista lo spingerà a incendiare il Palazzo, attaccando i magistrati e travolgendo le istituzioni, fino alla distruzione del tempio. La politica che lo circonda non ha l´autonomia per distinguere il suo futuro dal destino del Premier, ma è condannata a seguirlo nel pozzo della sua ossessione. Ecco perché la strada maestra, a questo punto, è una sola: il voto, col giudizio dei cittadini. I quali hanno definitivamente capito che la misura è ormai colma.

il Fatto 16.2.11
Il Pd allo scoperto: “Elezioni subito”
Mentre Bersani chiede di andare alle urne, il Quirinale tace preoccupato
di Paola Zanca


Sarà la prima pagina de La Padania conquistata ieri. Ma quello che è alle due e venti del pomeriggio affronta le agenzie di stampa è un Pier Luigi Bersani quasi irriconoscibile: “Io chiedo le elezioni anticipate”. Soggetto, verbo e complemento oggetto. Niente “se”, niente “ma”. La situazione è delicata, il Quirinale tace, anche per evitare di essere trascinato nella guerra mediatica che il Pdl ha intrapreso contro il Colle. Invece il Pd sembra aver indossato gli scarponi da battaglia per uscire “dall'impasse drammatica” a cui è inchiodato il Paese. Bersani va a Otto e Mezzo, Rosy Bindi a Ballarò. Tutti a dire che è da “irresponsabili” continuare a inseguire una maggioranza che non c'è, a   implorare il capogruppo Cicchitto di “aiutare Berlusconi, anche per il suo bene”. La diagnosi la affidano a un medico, il senatore Ignazio Marino: “Io temo che il presidente del consiglio - che ritengo sia, e lo dico da medico, ammalato - non si renda conto della gravità della situazione”.
ALMENO per oggi, l’unità dell’opposizione sembra ritrovata. L’Italia dei Valori le elezioni le chiede da settimane, e tornerà a farlo oggi, alla presentazione ufficiale del referendum sul legittimo impedimento, che dovrà tenersi entro giugno. Di Pietro non può che giudicare positivamente la scossa di Bersani. Per questo mette da parte i malumori – non pochi dentro al partito – per essere arrivati all'appuntamento   cruciale senza un’alleanza definita. Ieri, il capogruppo Idv alla Camera Donadi ha chiacchierato a lungo in Transatlantico con uno dei leader di Sinistra e Libertà, Gennaro Migliore. Oggi lo stesso Donadi, insieme a Di Pietro, dovrebbe incontrare il leader di Fli Gianfranco Fini. Mentre Berlusconi veniva rinviato a giudizio, il presidente della Camera, era parecchio impegnato con i guai interni al partito. Ma ha comunque fatto sapere come giudica quel che resta del governo: “Due anni di tempo per dar corso a una delega e la richiesta di votare in un solo giorno – ha detto a proposito del provvedimento sul riordino degli incentivi – Si commenta da solo...”. Il leader Udc Pierferdinando Casini non parla in pubblico, ma lo fa con il governatore Raffaele Lombardo, pioniere   in Sicilia dell'alleanza tra centristi e Pd. Temi del colloquio? “La delicatezza del momento. La situazione politica può evolvere da un momento all'altro in elezioni politiche anticipate. Che oggi – conclude Lombardo – sono il male minore”.

il Fatto 16.2.11
Una santa alleanza con tutti piace pure a Vendola
Il governatore della Puglia da Bruxelles dice sì a una “coalizione delle opposizioni a tempo” 

di Chiara Paolin

Vendola international. Lunedì, mentre il Giornale lo mostrava in tutta la sua beltà integrale anni 70, Nichi era a Bruxelles per una due giorni dedicata alle politiche ambientali delle regioni europee. E ieri, mentre l'affidabile Luca Barbareschi spiegava (ospite di Maurizio Belpietro su Canale 5) l'impossibilità per Fli di stringere rapporti con Sel anche davanti a un eventuale tracollo berlusconiano, il governatore pugliese si godeva l'effetto della sua letterina pubblicata dal britannico Guardian per San Valentino. “Silvio Berlusconi's   Italy is on the wrong side of history” titolava il prestigioso foglio, precisando che “the Left must provide an alternative to 'berlusconismo'”(traduzione inutile).
Perché tu vaglielo a spiegare, nelle capitali europee, che se il premier finisce sotto processo per frequentazioni sessuali minorili, in Italia la terapia è dimostrare come un nudista d'antan - gay, per giunta - sia un soggetto politicamente pericoloso, oltre che privo di decenza, per forgiare l’opposizione. Eppure Nichi, tra inglese e apula zeppola, ci ha provato lo stesso a far capire come la vede un uomo di sinistra davanti agli scenari sempre più evolutivi della politica tricolore. Insomma, se Berlusconi fosse costretto a dimettersi, potrebbe formarsi una coalizione transitoria che, da Fli a Sel, diventi forza unica?   Oppure meglio picchiare duro sul voto anticipato riportando gli schieramenti su più consuete spartizioni parlamentari, e relativo dilemma Pd tra terzo polo (recalcitrante) e Vendola (a braccia aperte, ma capace di scippare la leadership via primarie)?
La risposta da Bruxelles è arrivata   chiara e forte: “Per spirito di verità, e per amore della nobiltà della politica, non si possono prefigurare governi stabili che inglobino culture politiche e prospettive programmatiche tra loro incompatibili” ha   detto Vendola. Cioè: niente campagna elettorale con alleanza tutti contro Silvio. Sì invece a “una fase transitoria che riformi il sistema elettorale e detti regole sul tema scabroso del conflitto d’interessi, e che   garantisca l’indipendenza del sistema informativo”. Questa fase “può essere propedeutica al rilancio del Paese e della sua immagine. Sgomberate le macerie del berlusconismo, ciascuno potrà pensare a fare il   proprio mestiere. E per quel che mi riguarda – ha concluso Vendola - il mio è la costruzione di un nuovo centrosinistra”. Veni (all’estero), vidi (Berlusconi alla sbarra), vici (il primo round).

il Riformista 16.2.11
L’abbraccio col Pd piace a Vendola, meno ai democrat
di Ettore Colombo

p 1 7

il Riformista 16.2.11
Il nuovo Nichi si è convertito sulla via della Santa Alleanza
di Peppino Caldarola

p 1 7
http://www.scribd.com/doc/48938153

La Stampa 16.2.11
Mannheimer: “Ora meno, però l’Italia è stata berlusconiana”
di Francesca Schianchi


«L’Italia è stata berlusconiana, però lo è sempre meno», valuta il sondaggista Renato Mannheimer. Ieri, dalle colonne della “Stampa”, il professor Luca Ricolfi si chiedeva quanto il nostro Paese sia fedele al Cavaliere sul piano del consenso e influenzato su quello del costume. Per dedurre che, in entrambi i casi, lo è meno di quanto si pensi. Professor Mannheimer, quanto è berlusconiana in questo momento l’Italia? «E’ stata berlusconiana, ma lo è sempre meno, è sempre più settica. E’ difficile darne una misura precisa». Dalle sue ultime rilevazioni, su che percentuali si attesta oggi il premier? «La sua popolarità personale è intorno al 30 per cento, che non è tanto ma nemmeno poco. Stiamo su quella percentuale anche per quanto riguarda le intenzioni di voto». Il rito immediato nei confronti del premier, sposterà consensi? «Nessuna cosa, in sé, sposta. E’ l’insieme delle notizie, il sedimentarsi di più cose che alla fine hanno l’effetto di spostare consensi». Anche dal punto di vista del costume, il professor Ricolfi definisce l’Italia meno berlusconiana di quel che si pensa. Cita un suo sondaggio: solo una ragazza su 100 aspira a una carriera nello spettacolo. «E’ vero, però diciamo che tutte le altre la invidiano un po’. Così come la maggioranza dei maschi, con una normale vita familiare, almeno all’inizio, in segreto, hanno provato un po’ di invidia per Berlusconi circondato da tutte quelle belle ragazze». Nella storia politica del Cavaliere, quali sono stati i fattori che hanno fatto calare la fiducia in lui? «Quando, a torto o a ragione, la gente ha pensato che non abbia fatto quello che aveva promesso: se fa quello che promette, la gente accetta anche il bunga-bunga. Al contrario, i picchi di fiducia ci sono stati nel momento delle grandi promesse».
Come è vista invece l’opposizione? «Solo il 18% approva il suo operato. Poi magari la votano lo stesso, ma vuol dire comunque che in gran parte l’elettorato non è d’accordo con le mosse che sta facendo». Può funzionare la Santa alleanza di tutta l’opposizione contro Berlusconi? «Se riescono a rimanere d’accordo tra loro, allora può funzionare molto bene». Quando l’opposizione riesce a registrare picchi di fiducia? «Quando fa proposte riformatrici, su casa, lavoro, temi concreti. Non cresce invece se si limita all’antiberlusconismo».

La Stampa 16.2.11
Flores d’Arcais: “Consenso minoritario ma poi lui straripa in tv”


Professor Paolo Flores d’Arcais, l’Italia è davvero berlusconiana?
«Il consenso a Berlusconi misurato sull’intera popolazione è sempre stato minoritario, e sempre più lo diventa grazie alle lotte di massa che alcuni “estremisti/estremiste” della società civile non si stancano di promuovere».
Fa riferimento alla manifestazione delle donne di domenica?
«Ovviamente questa è l’ultima e forse la più straordinaria, ma da quella dei Girotondi che riempì nove anni fa piazza San Giovanni a Roma e i quartieri limitrofi, ve ne sono state tantissime».
Ma dal punto di vista culturale, dei costumi, quanto è presente il berlusconismo?
«Berlusconi, minoritario nel Paese, è da oltre tre lustri dominante, anzi straripante, ormai in modo quasi totalitario nei mass media, circostanza che il professor Ricolfi e tanti altri hanno sempre sottovalutato. E’ questo dominio che ha un’influenza nefanda nel rendere sempre più incivile una parte degli italiani, che per fortuna resta minoritaria».
Quindi l’Italia non è quella che emerge dalle intercettazioni…
«Quella è un’Italia oscena, del regime putiniano di Arcore, che vuole spacciare come gioiosa libertà sessuale l’acquisto a ore e a dozzine di corpi che si occupino della virilità posticcia di colui che una di queste signorine ha definito “Culo Flaccido”. C’è invece l’Italia migliore, moralmente, culturalmente, umanamente, che chiede e pratica serietà, senso dello Stato, gioia di vivere: quella che da anni riempie le piazze ma non ha rappresentanza in Parlamento».
Queste manifestazioni riusciranno a cambiare qualcosa?
«Hanno già cambiato. Senza dieci anni di piazze festose di indignazione, credo che Fini sarebbe ancora con Berlusconi. Per cambiare davvero, però, queste piazze devono trovare il coraggio di diventare protagoniste anche nel momento elettorale, come parte autonoma, con proprie liste, nello schieramento dell’attuale opposizione».
Non c’è il rischio di quella che il professor Ricolfi chiama la «sindrome della minoranza virtuosa», di ridurre l’Italia migliore solo a quella che scende in piazza?
«Tutti i sondaggi fatti dopo i Girotondi, dopo piazza Navona estremista con Sabina Guzzanti feroce con la Carfagna e il Papa, e ora dopo la manifestazione delle donne, indicano che questi appuntamenti spostano davvero all’opposizione consensi del mondo berlusconiano e leghista. Dunque è una leggenda che per vincere si debba annacquare l’indignazione nella melassa». [FRA. SCH.]

La Stampa 16.2.11
Il rito breve diventerà molto lungo
di Carlo Federico Grosso


Come era prevedibile, il gip di Milano ha accolto la richiesta di giudizio immediato nei confronti di Berlusconi. Evidentemente ha ritenuto che sussistessero entrambi i requisiti ai quali la legge subordina tale specialissimo rito processuale (l’evidenza della prova e l’avvenuto interrogatorio dell’indagato o la sua mancata comparizione davanti al pubblico ministero).
Non è questo il momento di discutere se questo rito sia stato assunto a ragione o a torto, anche se le notizie sul contenuto dell’inchiesta pubblicate sui giornali consentono, ampiamente, di capire le ragioni in forza delle quali la richiesta di giudizio immediato ha potuto essere formulata e, quindi, essere accolta dal giudice. Piuttosto, può essere interessante capire che cosa potrà accadere d’ora in avanti sul terreno del processo.
Iniziamo dalla polemica innescata ieri da esponenti del mondo politico sull’irritualità dell’attività giudiziaria compiuta dalla magistratura, in quanto essa contrasterebbe con le valutazioni del Parlamento. Poiché la Camera, giudicando su di una richiesta di autorizzazione ad eseguire una perquisizione, ha affermato che la concussione sarebbe stata compiuta da Berlusconi nell’esercizio delle sue funzioni, ed avrebbe pertanto dovuto essere giudicata dal Tribunale dei ministri, il differente avviso manifestato dall’autorità giudiziaria costituirebbe un attentato alla sovranità popolare.
Questa affermazione, giuridicamente, è una sciocchezza, poiché la magistratura nell’interpretare le leggi è totalmente indipendente e le sue decisioni non sono, pertanto, condizionate dal giudizio espresso da una maggioranza parlamentare. Tali accuse lasciano comunque supporre che di qui a poco il governo, la maggioranza parlamentare, o i difensori di Berlusconi, solleveranno conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato davanti alla Corte Costituzionale, cercando di sottrarre comunque il premier alla giurisdizione della magistratura ordinaria, se non addirittura alla giustizia (per potere procedere nei confronti dei reati ministeriali è necessario, infatti, che il Parlamento conceda la sua autorizzazione. E quando mai questo Parlamento la concederebbe?).
Diciamo subito che il conflitto di attribuzione non obbliga a sospendere il processo (tutt’al più, se la Corte dovesse dare torto alla magistratura, gli atti giudiziari compiuti risulterebbero nulli). Ciò significa che il 6 aprile il processo penale a Berlusconi per concussione e prostituzione minorile potrà essere iniziato (a meno che egli non chieda, incredibilmente, il giudizio abbreviato o il patteggiamento). E’ difficile, tuttavia, pensare che esso possa comunque proseguire spedito.
La difesa potrà infatti utilizzare un vasto arsenale di operazioni dilatorie: innanzitutto fare leva sul legittimo impedimento dell’imputato. Questo «rimedio» non è più così agevole com’era fino a ieri, in quanto la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la legge che riconosceva a Palazzo Chigi il potere di certificare in modo vincolante la condizione di soggetto impedito del primo ministro. Berlusconi pertanto, come ogni altro cittadino, se vorrà rinviare il processo dovrà di volta in volta addurre uno specifico, documentato, impegno istituzionale, la cui consistenza potrà essere valutata dal giudice. Non è peraltro difficile immaginare quali e quante tensioni e polemiche potrà suscitare, ad ogni udienza, l’eventuale decisione del premier di ostacolare la prosecuzione del suo processo. E soprattutto, quanto effettivo ritardo essa potrà concretamente causare all’ordinato svolgimento della giustizia nei suoi confronti.
In via preliminare, i difensori di Berlusconi potranno d’altronde dispiegare un complesso articolato di eccezioni. Innanzitutto potranno eccepire l’incompetenza del tribunale ordinario, affermando che la concussione, in quanto reato ministeriale, deve essere giudicata dal Tribunale dei ministri, ed affermare che la prostituzione minorile, a questo punto necessariamente separata dalla concussione, deve essere a sua volta assegnata al suo giudice naturale, cioè il Tribunale di Monza (in quanto Arcore, luogo nel quale sarebbero state commesse le condotte costitutive di tale delitto, si trova in quel circondario). In secondo luogo potranno sostenere l’illegittimità della richiesta di giudizio immediato, eccependo che di tale rito difettava taluno dei presupposti, magari, addirittura, l’evidenza delle prove. In terzo luogo potranno cercare, fra le pieghe della burocrazia giudiziaria (eventuali avvisi difettosi, termini non rispettati, altre incombenze processuali trascurate), la strada per ottenere in qualche modo annullamenti, ripetizioni di atti, comunque ritardi.
Un percorso difficile, dunque, dalle possibili conseguenze imprevedibili. Sicuramente un processo lungo, carico di tensioni, che decollerà con difficoltà e non si sa come e quando potrà arrivare a sentenza, ad onta del rito «breve» specificamente adottato.
Un ingorgo per altro verso pericoloso per la tranquillità della vita istituzionale del Paese, foriero di ulteriori strappi e distorsioni nel mondo della politica e della giustizia. Mi ha ad esempio colpito, ieri, la precipitazione con la quale una importante conferenza stampa congiunta del presidente del Consiglio e del ministro Maroni è stata annullata non appena la notizia relativa al processo immediato ha cominciato a circolare. Un imbarazzo, dato che le asserite vittime della concussione del premier sono dipendenti del ministero dell’Interno? E quanti altri imbarazzi si porranno, di qui al 6 aprile, e dal 6 aprile in avanti?

Corriere della Sera 16.2.11
Biotestamento L’ultimo voto, poi alla Camera


ROMA— Ultimo passo della legge sul testamento biologico prima dell’ingresso in Aula alla Camera, lunedì prossimo. Dopo il sì della Commissione Bilancio e, ieri, di quella per gli Affari Costituzionali, oggi è molto atteso il voto della commissione Giustizia, presieduta da Giulia Bongiorno. L’esponente di Fli (Futuro e libertà) si era già espressa negativamente sul testo approvato dal Senato un anno fa: «La mia opinione personale è scritta nella mia relazione, ma ora il tentativo è di dar modo a tutti di esprimere la propria posizione per arrivare a un parere il più possibile condiviso» . La legge sulle disposizioni anticipate di volontà prevede che ogni cittadino possa richiedere per iscritto la sospensione delle cure da rispettare quando è in stato di incoscienza. Ma la sua rinuncia non può includere l’alimentazione e l’idratazione, considerati trattamenti di sostegno. Le sue richieste inoltre, altro punto contestato, non sono vincolanti per il medico.

il Fatto 16.2.11
Maxi-emendamento: il governo non cancella la norma salva precari
di Marco Palombi

Alla fine Maurizio Sacconi ha dovuto abbozzare: il ministro del Welfare ha provato fino alla fine a cancellare l’emendamento “salva-precari” del Pd dal maxiemendamento al decreto Milleproroghe su cui il Senato stamattina voterà la fiducia al governo, ma palazzo Chigi non ha voluto scatenare una guerra totale con l’opposizione per un’impuntatura. Fino alla fine di quest’anno, dunque, non si applica la disposizione del “collegato lavoro” che riduceva da cinque anni a due mesi il termine per presentare ricorso contro un licenziamento ritenuto ingiusto. Il ministro s’è consolato attaccando quei “laicisti” della Cassazione per la sentenza sulle adozioni ai single e portando a casa, nel Milleproroghe, quella che l’opposizione chiama “schedatura” delle   coppie che si sottopongono alla fecondazione assistita: il fatto è che lo snellimento delle pratiche burocratiche per i centri medici viene realizzato attraverso una bizzarra formulazione che autorizza il ministero della Salute ad ottenere “qualunque informazione” sui pazienti. Ignazio Marino del Pd s’è rivolto al Garante per la privacy, mentre il ginecologo Severino Antinori ha fatto sapere che sarà “costretto a riferire i nomi delle coppie che si sono sottoposte a fecondazione assistita e fra questi ci sono molti parlamentari di diversi partiti e ministri del governo Berlusconi”. Non sembrano, invece, strapparsi le vesti più di tanto, né l’antilaicista Sacconi né la sottosegretario Eugenia Roccella, per la sottrazione di fondi ai malati di Sla. Tra le novità inserite dal governo all’ultimo minuto va segnalato anche un blitz del ministro   Mariastella Gelmini sulla ridefinizione del sistema di valutazione esterna delle scuole oggi basato sull’Invalsi: se il decreto diverrà legge – scade il 27 febbraio e la Camera ha pochissimi giorni per approvarlo senza modifiche – sarà lo stesso dicastero dell’Istruzione a indicare criteri e modalità per le valutazioni attraverso un regolamento che non dovrà neanche passare per le commissioni parlamentari. Giulio Tremonti, dal canto suo, ha provveduto all’ultimo minuto a riformulare l’emendamento su Poste spa: il testo del governo prevede ancora lo scorporo di Bancoposta e la possibilità di acquisire pacchetti di altre banche, anche di maggioranza, ma solo ai fini della realizzazione della famigerata Banca del Sud, che quindi diverrà il braccio armato del Tesoro nel Mezzogiorno. La social card cara al ministro   , invece, è stata retrocessa a sperimentazione annuale gestita dagli enti caritativi e c’è una novità anche sul fronte del federalismo: siccome quello municipale tarda ad arrivare, per evitare che i comuni restino senza un euro il ministero dell’Interno erogherà entro marzo una somma corrispondente alla prima rata dei trasferimenti 2010.
Resta al suo posto, ovviamente, la proroga di sei mesi per le multe delle quote latte, solo che la copertura passa da 30 milioni a cinque: il fondo da saccheggiare, infatti, è quello con cui le forze dell’ordine già non riescono a fare manutenzione ordinaria dei loro mezzi. O forse qualcuno avrà notato la stranezza del fatto che la sospensione delle tasse fino ad ottobre per gli aquilani invece non è stata finanziata: non è una robetta tecnica, perché se non si trovano i soldi in tempo i terremotati dovranno pagare tutto, e in un’unica soluzione.   Confermati pure i 100 milioni per le alluvioni in Veneto e Liguria sottratti ai fondi per il dissesto idrogeologico nel Sud, lo stop alle ruspe in Campania, i tre assessori in più per Alemanno e pure l’aumento delle tasse per le regioni vittime di calamità naturali e quello di un euro sul biglietto del cinema. Infine, visto che il nostro governo è assai sensibile al tema della tv, sono spuntati pure 30 milioni per incentivare il passaggio dall’analogico al digitale. Da dove li hanno presi? Dai fondi destinata alla banda larga.

Repubblica 16.2.11
Gentile: "Perché l´Italia non ha una religione civile"
In un libro intervista con Simonetta Fiori, lo storico ripercorre la vicenda nazionale sottolineando l´assenza di padri comuni dal Risorgimento a oggi
Con il "Discorso" di Leopardi ha inizio il genere letterario dell´invettiva autoflagellatoria
Il movimento leghista non è una causa della crisi identitaria ma un sintomo
di Nello Ajello


Una celebrazione doverosa ma convocata a freddo, incapace di suscitare emozioni davvero condivise: ecco come emerge la ricorrenza dei centocinquant´anni dell´unità d´Italia da un libro che esce a giorni. S´intitola Italiani senza padri (Laterza, pagg. 176, euro 12), ed è un serrato dialogo fra uno storico di larga fama, Emilio Gentile, e una giornalista nota ai lettori di Repubblica come esperta di storia contemporanea. Le domande sono, a tratti, utilmente provocatorie. Le risposte evitano ogni "carità di patria". Ne vien fuori un´Italia che si condanna all´impossibilità di venir considerata, e soprattutto di giudicarsi essa per prima, una comunità statuale alla stregua delle maggiori nazioni europee, cioè un organismo coerente e coeso pur nella varietà delle proprie componenti ideologiche, politiche, ambientali.
La diagnosi che emette l´intervistato appare drastica, eloquenti le sue argomentazioni. Fra i vaticini formulati agli albori del Risorgimento in merito all´edificio nazionale che si andava costruendo, Gentile sembra condividere quelli ispirati allo scetticismo. Mai, tuttavia, queste pagine assumono la deliberata sommarietà d´un pamphlet. Gentile respinge l´accusa di pessimismo. Si dice, invece, intento ad osservare «la realtà come è oggi». L´aver disegnato un Risorgimento senza eredi è per lui funzionale al tentativo di «capire che cosa ha sostituito la sua eredità». E si dichiara pronto a cambiare idea se possibile. «Sarò il primo a festeggiare», sono le ultime parole della sua "deposizione".
Quali siano i punti di passaggio della vicenda che ha privato noi italiani d´un positivo rapporto con i "padri" risorgimentali è la trama di questo racconto a due. Inadempiuto rimane l´auspicio formulato da d´Azeglio, il capostipite della genìa dei dubbiosi. «Il primo bisogno dell´Italia», furono le sue parole, «è che si formino italiani che sappiamo adempiere al loro dovere, quindi che si formino alti e forti caratteri». Parole cui Gentile tributa il più aperto consenso, in contrasto con la diffidenza che gli suscita ciò che egli individua come un "genere letterario", cioè quell´invettiva flagellatoria iniziata dal Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, cui seguì, per imitazione, «un´autodafé impazzito» (così lo dipinge Simonetta Fiori) «intorno ai mali tricolori».
Non che mancassero gl´impulsi a edificare un´identità nazionale "partecipata". Secondo Gentile, fu Crispi ad adoperarsi per la costruzione di "una liturgia patriottica" capace di lenire le incrinature ideali lasciate dal Risorgimento. Alti e bassi, più i secondi che i primi. La "smonumentalizzazione" del Risorgimento cominciò a fine Ottocento. Sarebbe poi stata la Grande Guerra a diffondere fra le masse un senso di appartenenza nazionale. Ma la tregua fu breve. Sulla scia di Oriani, Piero Gobetti avrebbe operato, con il suo Risorgimento senza eroi, una liquidazione radicale del movimento unitario. Il fascismo impose una propria idea di italianità, che escluse per oltre vent´anni i dissenzienti. Una unanimità anti-risorgimentale saldava dunque fascisti e antifascisti.
Si accoglie qui con freddezza la tesi di chi individua nell´8 settembre ´43 il momento preciso della "morte della patria". L´incanto, a parere di Gentile, s´è rotto prima. Una religione del Risorgimento già non esiste più. I compleanni dell´Italia hanno offerto e offriranno spettacoli difformi. Il cinquantenario del 1911 parve incoraggiante, il centenario del ´61 ha segnato il culmine del distacco popolare dai ricordi e dai simboli dell´Unità. Nel calendario delle festività nazionali, il Risorgimento non lascia traccia. Manca, negli annali della letteratura, un romanzo sul Risorgimento, mentre opere assai notevoli, dai Viceré di De Roberto al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, sono centrate sull´Anti-Risorgimento.
Sul piano politico, la seconda metà del secolo scorso, con la prevalenza in cima allo Stato di partiti estranei al moto unitario, democristiani e socialisti, ha contribuito a disegnare un paese carente d´identità "patriottica". Quando s´è delineato il successo della Lega, i giochi erano già in gran parte fatti. Il movimento della Padania non era la causa dello scollamento, ne era – e ne è – soltanto un sintomo vistoso.
Incuriosisce chi abbia interesse per la nostra storiografia la lista, che Gentile ha in mente, di coloro che hanno scrutato da specialisti le vicende dell´Italia unita. Ecco un giudizio su Francesco De Sanctis: «un cultore della religione della patria ma allergico a retorica e agiografia». Del "giolittiano" Croce cita diversi brani illuminanti. Di Prezzolini conserva un´idea alta, e così di Gioacchino Volpe, la cui vicinanza al fascismo non sminuì un´eccelsa vita di studioso. A proposito di Gramsci, notare che ne diffida è dire poco. A Gaetano Salvemini riconosce di aver ben valutato i meriti del Risorgimento, che giudicava «un´opera ciclopica». Assume come propri suggeritori di pensiero Rosario Romeo e Renzo De Felice. Se la prende con Denis Mack Smith: lo reputa il battistrada di quegli "sminuitori" della storia d´Italia, che quasi considerano come l´emanazione d´un fascismo perenne.
In definitiva, questa confessione in forma di libro la si legge come un antidoto a mille stereotipi: il principale dei quali – Gentile lo ripete spesso – è l´invadente retorica cui si ricorre per combattere la retorica del Risorgimento.

Corriere 16.2.11
E Agostino traghettò la cultura classica nel mondo cristiano
Uno straordinario mediatore culturale
di Sossio Giametta


Tutto il cristianesimo può considerarsi un’interiorizzazione dell’uomo. Ma lo divenne in modo specifico e sistematico solo con sant’Agostino. Nella vita noi sperimentiamo l’essenza (felicità, bellezza, illuminazione, potenza) e le condizioni dell’esistenza (dolore, frustrazione, angoscia, morte). Ma gli esseri vivono verso l’esterno e nessuna di queste due esperienze può mai mancare loro; né la città terrena né la città celeste ha l’esclusiva. Al tempo di Gesù le civiltà antiche e in particolare quella greco-romana avevano dato tutto quello che avevano da dare ed erano estenuate. Serpeggiava l’esigenza di un’integrazione, di un rinnovamento. Si addensavano le nubi. Con Gesù le nubi si squarciarono e un lampo illuminò il mondo. Fu proclamata la religione della carità, ossia della massimalizzazione dell’umanità. L’amore universale è infatti l’anima dell’uomo al suo massimo, come l’armonia della statua di Fidia è il corpo umano al suo massimo. Sorto dunque in contrasto dialettico con la civiltà greco-romana, il cristianesimo ne ha rovesciato i valori. Quella era retta da valori aristocratici, cioè dei pochi: il coraggio, l’orgoglio, il valore, l’astuzia, il primato, l’avventura, la lotta, la vendetta, la gara, la guerra, la conquista, la gerarchia, la patria, la stirpe e la razza. Il cristianesimo instaurò valori democratici: il culto dell’anima, l’uguaglianza e la dignità di tutti, la bontà, l’umiltà, l’amore, il perdono, l’amore della pace, la carità anche per i nemici, l’abbraccio degli ultimi, il superamento delle barriere nazionali, di sesso, razza, stato sociale. Questi sono ancora i nostri valori, diventati anche ideali politici. Nella sua assolutezza la religione di Cristo superò tacitamente la civiltà pagana con la semplice affermazione dei nuovi valori. Ma la civiltà vecchia resisteva, soprattutto nelle anime. Il contrasto delle due culture e anime giunse a maturazione solo con Agostino. Nato nell’Africa romana (Tagaste 354) e nutrito della migliore cultura pagana, con la problematicità e le inquietudini che ormai la caratterizzavano, egli venne a Roma e poi a Milano. Qui, predispostovi dalla lettura dei neoplatonici, specie di Plotino, fu convertito al cristianesimo e battezzato dal vescovo Ambrogio (387). Fu poi ordinato prete (391) e più tardi divenne vescovo di Ippona (395). Da allora in poi la sua vita è tutta una guerra per affermare, contro la dispersione mondana e la carnalità del paganesimo e contro le eresie del suo tempo (manicheismo, donatismo, pelagianesimo), l’interiorità dell’uomo e il magistero della Chiesa cattolica. Per lui questa interiorità si chiamava anima e Dio, e soltanto anima e Dio egli aveva del resto cercato fin dall’inizio. Fu dunque un centauro, con un corpo mezzo pagano e mezzo cristiano, e come tale il traghettatore dell’antica civiltà nella nuova. Delle tantissime sue opere, quelle principali sono considerate le Confessioni e La città di Dio. Nella prima si accentua il suo atteggiamento di base, la ricerca della verità come confessione delle vicissitudini personali, che sono però sviluppi di contrasti superpersonali e scoperte dei tesori di verità, forza, libertà che si trovano solo nell’interiorità e coincidono con Dio. La seconda, scritta soprattutto contro la taccia dei pagani che il cristianesimo aveva indebolito l’impero romano (nel 410 ci fu il sacco di Roma dei goti di Alarico), è un’appassionata difesa dei princìpi del cristianesimo. Prima di Agostino i principali concetti teologici erano già stati acquisiti dalla Chiesa, ed egli non li mutò; ma con lui diventarono da oggettivi soggettivi, diventarono cioè il problema personalissimo e imprescindibile dell’uomo Agostino. Ma solo ciò che si fa per sé ha importanza per gli altri, non ciò che si fa direttamente per gli altri, dice Schopenhauer. Per l’ardore e la profondità della sua ricerca, Agostino, così come rimane un pilastro della Chiesa cattolica, è un filosofo la cui forza e suggestione durano tuttora, perché è la grandezza dei problemi affrontati e non la soluzione loro data che fa il grande filosofo.

La Stampa Tuttoscienze 16.2.11
Dal progetto Hapmap alle «varianti strutturali» la genetica sta esplorando che cosa rende unico ogni individuo
Dna, l’avventura inizia adesso
Dieci anni dopo la decifrazione del Genoma ecco le prossime mosse
di Gabriele Beccaria


Com’è bizzarra la doppia celebrazione del decennale, ma lui se la merita davvero: il protagonista è il Genoma umano, il libretto di istruzioni biologiche che ci fa essere ciò che siamo.

«Più conosciamo i geni e più ci rendiamo conto che c’è moltissimo altro da sapere»

L’anno scorso ci si è emozionati ripensando al grandioso evento alla Casa Bianca, quando il 26 febbraio 2000 Bill Clinton e Tony Blair annunciarono la decifrazione dei nostri geni e l’inizio di un’era straordinaria. Quest’anno si fa il bis, ricordando che il 12 febbraio 2001 due articoli - su «Science» e su «Nature» - spiegarono che l’obiettivo del sequenziamento del Dna era stato finalmente raggiunto. Dieci anni sono tanti nell’universo parallelo della scienza, pari a un’era geologica, e uno sguardo all’indietro è essenziale per preparare le mosse future. Oggi sappiamo cose che mai avremmo immaginato e presto aggiungeremo altre sorprese al bagaglio delle scoperte. Charles Darwin sarebbe orgoglioso dell’intraprendenza dei suoi pro-pronipoti.
L’ultimo «eureka» gli scienziati - riuniti in un team internazionale di 57 ricercatori provenienti da 26 istituzioni - l’hanno gridato pochi giorni fa, mentre testavano un nuovo metodo per analizzare un territorio del Dna finora trascurato, quello delle varianti strutturali. Ai non specialisti sono differenze che dicono poco, ma interi team di studiosi ne sono innamorati: nell’apparente caos delle cancellature, duplicazioni, inserzioni e inversioni all’interno delle sequenze genetiche si iniziano a leggere le differenze che ogni individuo porta incise dentro di sé. E’ una via maestra per spiegare molte malattie e, quindi, trasformare in realtà la medicina personalizzata, l’insieme di terapie mirate di cui tanto si parla e che, al momento, abbonda di promesse e scarseggia di risultati clinici. Ma adesso potrebbe essere davvero vicina la svolta, come ha spiegato Charles Lee, citogenetista del Brigham and Women's Hospital di Boston e copresidente del progetto.
Le varianti identificate sono 28 mila, una miniera da cui estrarre informazioni decisive sul perché una persona è simile a un’altra, ma molto diversa rispetto a un’altra ancora. I dati si affiancheranno a un filone parallelo, che si concentra sui cosiddetti «polimorfismi a singolo nucleotide», in gergo gli Snp: si tratta delle differenze in una delle 4 lettere del Dna che possono spiegare la predisposizione - o peggio la vulnerabilità - a una specifica aggressione, dal diabete ai tumori. Adesso si sta realizzando un catalogo, che va sotto il nome di Progetto Hapmap, e, come se non bastasse, prosegue a ritmo spedito il lavoro di Tim Hubbard, a Cambridge, noto come Encode: acronimo di «Encyclopedia of Dna elements», il suo obiettivo è identificare tutti i meccanismi che fanno funzionare il Genoma e lo rendono una macchina di straordinaria efficienza.
Varianti strutturali, Hapmap, Encode. A chi non è del settore sembra di assistere a un ipnotico gioco di scatole cinesi. C’è chi osserva, poeticamente, che la conoscenza del Dna riverbera quella dell’Universo: anche nell’infinitamente piccolo c’è tanta materia oscura quanta se ne annida nell’infinitamente grande. In realtà i ricercatori si consolano sottolineando che un decennio di studi ha permesso scoperte straordinarie e quindi una serie di eureka a ripetizione.
Dotazione meno ricca Oggi, per esempio, sappiamo di avere una dotazione di geni molto meno ricca di quanto si pensasse e cioè non 100 mila, ma poco più di 20 mila, solo una decina di volte più del modesto batterio unicellulare Haemophilus influenzae. Sappiamo anche che non tutti codificano le proteine che ci costruiscono, ci regolano e ci danno energia. Anzi. Appena il 2% funziona da ricettario per queste sostanze-chiave, tutto il resto si occupa d’altro. E non è affatto «junk» - spazzatura - come è stato impropriamente definito.
Trascritto in un altro tipo di molecole, l’Rna, svolge una funzione essenziale per regolare l’attività del Dna stesso. E’ il software, che supervisiona l’architettura dei geni e le loro prestazioni, mantenendo l’ordine contro incombenti tendenze anarchiche e, probabilmente, potrebbe anche spiegare come alcuni pezzi del vasto puzzle si accendono o si spengono in risposta ai segnali dell’ambiente. Di certo, non c’è nulla di spietatamente fisso nel nostro codice biologico, semmai è all’opera una danza continua, in cui agenti interni e agenti esterni promuovono la coreografia della vita. Per capirla è nata una nuova disciplina, l’epigenetica.
E’ questa una delle spettacolari manifestazioni dell’«effetto Genoma»: la decifrazione, che ha richiesto 14 anni e 3 miliardi di dollari, ha prima di tutto messo in moto un modo di fare ricerca aperto, in cui supercomputer e team internazionali lavorano insieme, democratizzando la diffusione e la gestione dei dati. Non solo. Mentre sta svelando la nostra origine di Sapiens e le migrazioni primigenie lungo il globo, ha già trasformato in pratiche standard gli esami genetici e consentirà - è la promessa - di riparare le anomalie alla base di ogni sindrome. Da impresa lineare fondata sull’osservazione la biologia è ascesa a scienza dei sistemi, irrorata dalle logiche della complessità: la regina dei laboratori del XXI secolo mobilita gruppi multidisciplinari, in cui i medici interagiscono con i matematici e gli informatici collaborano con i genetisti, e approda - con i test del celebre Craig Venter - alle prime forme di cellule sintetiche.
Se «diventa sempre più difficile definire perfino che cos’è un gene» (parole di Robert Plomin, professore al King’s College di Londra), «adesso sembra di scalare una montagna che diventa via via più alta - ha sottolineato Jennifer Doudna della University of California at Berkeley -: più conosciamo il Dna e più ci rendiamo conto che c’è ancora moltissimo altro da sapere».

La Stampa Tuttoscienze 16.2.11
La scintilla della vita. Le avventure della nascita
La prima carezza tra gemelli è già nell’utero
Un team italiano: è la prova che siamo programmati alla socialità “I movimenti verso il pancione della mamma sono meno delicati”
di Valentina Arcovio


LA SCOPERTA I feti sono stati osservati prima di aver raggiunto la 14ª settimana di gravidanza
LE PROSPETTIVE «Stabiliremo parametri per la diagnosi precoce di disturbi dello sviluppo»

Avedere le immagini si rimane di stucco. Se è già molto emozionante poter sbirciare dentro la pancia di una mamma per spiare due piccoli bambini che condividono lo stesso utero, immaginate quanto può esserlo vedere due fratellini che fanno amicizia tra loro per la prima volta.
Hanno appena poche settimane di vita e già, i piccoli feti, si accarezzano, si sfiorano, si toccano con straordinaria premura e dolcezza. Prima ancora di aver sviluppato perfettamente le gambe e le braccia. Prima cioè di aver raggiunto la 14ª settimana di gravidanza. Fino ad oggi non si pensava che un feto così piccolo potesse compiere la sua prima azione sociale. Perché, quando tocca il fratellino, non lo fa accidentalmente, ma con la delicatezza di chi sa che quel esserino è troppo delicato per urtarlo bruscamente così come invece si fa con le pareti uterine della mamma.
Oltre l’immaginazione A catturare questi magici momenti è stato un gruppo di scienziati italiani delle Università di Padova, Torino e Parma, in collaborazione con l'Istituto pediatrico Burlo Garofalo di Trieste. Gli scienziati - coordinati da Umberto Castiello, docente di psicobiologia a Padova - hanno osservato, registrato e misurato i movimenti di piccoli feti ancora accoccolati nel grembo materno. E quello che hanno visto supera di gran lunga la nostra immaginazione. Così come hanno spiegato alla rivista «Plos One», quando un feto condivide l'utero con un gemello, instaura con questo una relazione sociale fatta di piccoli movimenti delicati. «Sono movimenti riflessi o stereotipati», spiega Vittorio Gallese, docente di Fisiologia Umana al Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Parma e co-autore dello studio insieme con Cristina Becchio dell'Università di Torino. «Sono organizzati – aggiunge - e hanno caratteristiche analoghe ai movimenti volontari dell'adulto». In parole povere questi minuscoli esserini sembrano essere «programmati» alla socialità e, quindi, la predisposizione alle interazioni con gli altri si sviluppa già diversi mesi prima di nascere.
I ricercatori hanno preso in esame i gemelli, gli unici su cui si può verificare la propensione precoce alla socialità. Per osservare e distinguere i movimenti è stata utilizzata l'ecografia quadridimensionale. «E' uno strumento – dice Gallese - che permette di osservare, oltre che i singoli movimenti, anche i movimenti nel tempo». In pratica questa tecnica ha consentito agli scienziati di registrare i movimenti di cinque coppie di feti gemelli in due momenti precisi, alla 14ª e alla 18ª settimana.
E poi un software speciale ha permesso di ricostruire e analizzare tre diverse tipologie di movimenti: verso se stessi, verso la parete uterina e verso il gemello. «Abbiamo visto che già alla 14ª settimana di gestazione – racconta Gallese - i gemelli sono capaci di controllare i loro gesti in modo differente a seconda di dove questi siano diretti. Il tipo di movimento è stato classificato in base a un parametro oggettivo, che è la decelerazione rispetto all'obiettivo da raggiungere». Più il movimento è decelerato e più è delicato il tocco. Un processo che i piccoli sembrano iniziare a capire già nell'utero della mamma.
«Infatti, abbiamo visto – dice Gallese – che, quando il feto si muoveva verso le pareti uterine, il movimento era molto meno decelerato rispetto a quando il movimento era rivolto verso di sé o verso l'altro feto». In pratica, con il pancione della mamma il piccolo sembra dimostrare una minore accuratezza, mentre con il fratellino i movimenti sembrano vere e proprie carezze. Se si guardano le immagini registrate, sembra proprio che i due feti si coccolino. I loro tocchi non sono urti accidentali, ma vere e proprie carezze. «Anche quando il feto tocca se stesso – spiega Gallese – i movimenti differiscono a seconda di quale parte del corpo si toccano. Se il movimento è rivolto agli occhi, è più accurato, e, se è rivolto verso la bocca, è meno decelerato». Una constatazione che sfata alcune ipotesi precedenti sull'argomento.
Implicazioni pratiche «Prima, infatti, si pensava che i movimenti del feto – sottolinea lo scienziato - fossero soltanto casuali. Grazie a questo studio, invece, adesso sappiamo che c'è un'organizzazione motoria». Ma aldilà della pura conoscenza, lo studio italiano potrebbe avere implicazioni pratiche molto importanti. «I nostri risultati – spiega Gallese - aprono nuove e interessanti prospettive. Possiamo usare i movimenti dei feti per capire se esiste una correlazione fra questi e lo sviluppo post-natale del bambino». In pratica, lo scienziato spera che un giorno si possano utilizzare i movimenti come una sorta di parametro per la diagnosi precoce di disturbi dello sviluppo, come ad esempio l'autismo.
«Per fare tutto questo – conclude Gallese – occorrono nuovi finanziamenti. Uno studio del genere richiede tempo e il contributo di diversi specialisti. I bambini andrebbero seguiti almeno due anni dopo la nascita. La tecnologia, i cervelli e la buona volontà ci sono. Mancano però i soldi».

Repubblica 16.2.11
L´esercito degli insonni uno su tre fatica a dormire
di Michele Bocci


Non dormire fa ingrassare perché blocca l´azione di un ormone che dà sazietà

Questa mattina, come ogni mattina, 6 milioni di italiani stanno male perché non hanno dormito. Non riescono a concentrarsi su nulla, non hanno voglia di parlare, la testa gli scoppia. Va avanti così da mesi: di notte non si addormentano o si svegliano all´improvviso. Sono insonni cronici. Accanto a loro sull´autobus, dietro la scrivania di fronte in ufficio, al supermercato, ci sono altre persone.
Sono almeno il triplo, un po´ rintontite per aver dormito meno di sei ore. Riescono ad arrivare in fondo alla giornata perché nottate così gli capitano più di rado o perché il problema si è presentato poco tempo fa, ma anche loro sono vittime del più diffuso disturbo del sonno.
L´insonnia sta aumentando, i numeri sono da epidemia: più di un terzo della popolazione deve, con maggiore o minore frequenza, affrontare il problema ogni mese. Poi ci sono quelli a cui capita di restare svegli solo di rado, e in quel caso i numeri sono enormi. Sta raccogliendo dati un epidemiologo di Stanford, Maurice M. Ohayon. Ha fatto una ricognizione in alcuni paesi europei, tra cui il nostro, utilizzando interviste telefoniche in un numero variabile a seconda degli studi tra 22 e 25mila. Anche in Italia il 34,5 per cento delle persone, dice un lavoro dell´anno scorso, ha problemi con il sonno almeno tre volte alla settimana. Circa il 10 per cento della popolazione ne risente di giorno. Il più grande studio nostrano, di alcuni anni fa, si chiama Morfeo. Dice che oltre il 60 per cento di chi va dal medico di famiglia lamenta un episodio di insonnia nei mesi precedenti.
Dormiamo sempre meno e sempre peggio e per questo ci ammaliamo. Non dormire fa ingrassare perché blocca l´azione di un ormone che dà sazietà. Chi sta sveglio, magari perché è obbligato dai turni del suo lavoro, è attratto soprattutto dai carboidrati. Ma ci sono problemi anche per la pressione, che senza il sonno non si abbassa, e la frequenza cardiaca, che non rallenta. Non dormire abbastanza, alla lunga può anche dare problemi psichiatrici. Gli effetti sull´organismo di questo problema, quando a sua volta non è dovuto ad altre malattie, sono esposti in uno studio dell´associazione di medicina del sonno e della Simg che verrà pubblicato tra poco.
Tra i fattori dell´aumento dell´insonnia c´è l´invecchiamento della popolazione. «L´anziano fa meno attività di una volta. Va a letto presto così si sveglia nel cuore della notte - spiega Provini - Dall´altro spesso ha disturbi che interferiscono con il sonno, come dolori, problemi cardiovascolari o respiratori».
Ma, a parte questo, perché gli italiani dormono sempre meno? «Sta passando il messaggio che il sonno sia una perdita di tempo», spiega Federica Provini, neurologa del Centro per lo studio e la cura dei disturbi del sonno dell´Università di Bologna, il primo di questo tipo nato in Italia ad opera del professor Elio Lugaresi alla fine degli anni Sessanta. «Le persone tendono ad andare a dormire più tardi, a continuare a fare le loro attività anche a letto, come stare al computer - spiega Provini - E poi si portano dietro le preoccupazioni: chi vive una giornata stressante va incontro ad una notte dello stesso tipo. Purtroppo questo comportamento frenetico viene trasmesso anche ai figli. Fin da adolescenti iniziano ad avere problemi del sonno».