Roma il presidente della Camera è arrivato all'incontro con Fini
Salone strapieno e forte battimani per entrambi
Applausi per Bertinotti alla festa di Azione Giovani
di Matteo Tonelli
ROMA - Applausi per il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, dai giovani di Alleanza Nazionale che lo attendevano alla loro festa per l'atteso confronto con il presidente di An, Gianfranco Fini dal titolo "Processo alle identità".
Bertinotti è stato accolto al suo arrivo da Giorgia Meloni, vicepresidente della Camera e già leader di Azione Giovani. "Bertinotti - ha detto Meloni - è un ospite straordinario". Tema del confronto la questione delle "identità". Presenti al dibattito, tra gli altri, i capigruppo di Rifondazione Comunista alla Camera e al Senato, Gennaro Migliore e Giovanni Russo Spena, ed il portavoce di An, Andrea Ronchi.
La sala è strapiena anche perché, l'incontro, che doveva svolgersi all'aperto, è stato spostato in un capannone a causa del maltempo. Bertinotti, accompagnato dalla moglie, è entrato per primo ed è scattato l'applauso. Il battimani è cresciuto d'intensità all'ingresso di Fini. Poi è iniziato il dibattito.
La discussione è stata preceduta da un piccolo incidente diplomatico. Nel momento dell'ingresso di Bertinotti, infatti, in sala veniva proiettato un video che trattava i temi dell'essere e del "sembrare". Nel filmato, realizzato dal movimento giovani di An, "essere e sembrare", la deputata di Rifondazione Comunista Vladimir Luxuria viene opposta al sindaco di Milano Letizia Moratti. "Essere donna- recita il video quando scorre l'immagine della Moratti- e non sembrare donna", quando invece appare Luxuria.
Imbarazzati i rappresentanti di rifondazione comunista al seguito di bertinotti. Gennaro Migliore capogruppo alla Camera scuote il capo: "E' davvero pesante...".
repubblica.it 16.9.06
BERTINOTTI: MAI PIU' SCONTRO VIOLENTO TRA DESTRA E SINISTRA
"La mia generazione e quella del presidente Fini hanno vissuto un'epoca in cui le nostre parti politiche si sono contrastate anche sul piano fisico e militare e io vorrei che non tornassero mai piu' quei tempi". Lo ha detto il presidente della Camera Fausto Bertinotti ai giovani di AN che lo hanno invitato alla festa. "Accogliere il vostro invito - ha detto Bertinotti - le cui frasi sono state sottolineati dagli applausi dei giovani di An - una riflessione seria e impegnativa. Ma oltre al dovere istituzionale che mi impone di prendere parte al confronto con le forze politiche rappresentate in Parlamento, devo cogliere l'occasione di un patto piu' importante: un confronto di culture e politiche". Bertinotti ha ricordato di essere entrato in politica negli anni '60 in occasione delle lotte popolari contro il governo Tambroni e il congresso dell'Msi a Genova ma ha sottolineato la necessita' di superare la logica dello scontro che ha portato anche quest'estate alla tragica uccisione di un giovane romano all'uscita di un centro sociale: "La mia cultura politica - ha detto ancora Bertinotti - mi ha portato all'impegno a confliggere per cambiare il mondo, ora il mondo voglio cambiarlo ma insieme alla necessita' di costruire le forme della convivenza sociale e civile tra tutte e tutti. Questo si puo' fare soltanto se gettiamo dei ponti, se facciamo dei percorsi, se entriamo in rapporto con gli altri, anche chi e' politicamente piu' lontano".
centomovimenti.com 16.9.06
Bertinotti ospite di Alleanza Nazione. Rivolta nella sinistra radicale
La sinistra radicale è scioccata per la notizia che il presidente della Camera Fausto Bertinotti sarà oggi ospite della Festa nazionale di Azione Giovani (sezione giovanile di Alleanza Nazionale). Si tratta infatti della prima volta in assoluto, per un esponente di un partito post-comunista. Oliviero Diliberto, dei "Comunisti Italiani", ha ricordato che "non partecipare alle feste dei fascisti o dei post-fascisti" è una sorta di tradizione.
"Per quanto riguarda il nostro partito noi continuiamo a non partecipare a questi appuntamenti, ma non intendiamo fare polemiche con una libera scelta di Bertinotti - ha però aggiunto - una delegazione del Pdci porterà una corona di fiori in via Tasso in memoria di quanti hanno perso la vita nella battaglia antifascista per la costruzione dell'Italia repubblicana".
Sul piede di guerra anche Francesco Ricci, ex esponente di Rifondazione e ora portavoce di Progetto Comunista.
"La partecipazione di Bertinotti alla festa dei giovani di An è solo l'ennesimo strappo per dimostrare la piena integrazione di Rifondazione nell'ordinario gioco politico - ha tuonato - è una deriva senza limiti del Prc di governo, una deriva che produce però l'abbandono di quel partito di centinaia di militanti: nonostante il tentativo di nascondere la notizia da parte dei vertici del partito".
Molto meno severo Franco Giordano, leader di Rifondazione Comunista, secondo il quale Bertinotti, in qualità di presidente della Camera, era tenuto ad accettare l'invito.
agi.it 16.9.06
FESTA AN: BERTINOTTI, DIALOGO TRA OPPOSTI NECESSITA' CULTURALE
(AGI) - Roma, 15 set. - Domani Fausto Bertinotti partecipera' alla festa dei giovani di An perche' "ai fini di una costruzione di una convivenza anche tra opposti, il dialogo e' ormai una necessita' politica e culturale". A sottolinearlo e' lo stesso presidente della Camera, conversando con i giornalisti a Montecitorio, che domani sara' dai giovani aennini per il faccia a faccia con Gianfranco Fini.
Bertinotti osserva: "Il dibattito con Fini non e' inusuale, mi e' capitato cento volte. Invece, si' la sede e' inusuale, la festa dei giovani di An... ma penso che questo sia un atto dovuto come presidente della Camera nei confronti di una forza politica che siede in questo Parlamento". (AGI) . 151827 SET 06
l’Unità 16.9.06
LA POLEMICA
Bertinotti: il mio confronto con An aiuterà la convivenza tra opposti
ROMA Penso che questo dibattito sia importante «ai fini della costruzione di una convivenza anche tra opposti. Il dialogo è ormai una necessità politica e culturale». Così il presidente della camera, Fausto Bertinotti, conversando con i giornalisti a Montecitorio, parla del dibattito che avrà oggi con Gianfranco Fini, e che avrà come sede la festa di azione giovani a roma. Bertinotti aggiunge che incontrare e discutere con Gianfranco Fini «non è affatto inusuale, mi è capitato cento volte di incontrarlo in dibattiti televisivi». «In merito al dibattito Bertinotti - Fini alla festa di An vorrei sottolineare come il problema non è la partecipazione in sé all'incontro, quanto piuttosto quello di un vulnus all'antifascismo che si manifesta con la rottura di una antica tradizione per i comunisti, cioè quella di non partecipare alle feste dei fascisti o dei post-fascisti. Per quanto riguarda il nostro partito noi continuiamo a non partecipare a questi appuntamenti, ma non intendiamo fare polemiche con una libera scelta di Bertinotti. Una delegazione del Pdci porterà una corona di fiori in via Tasso in memoria di quanti hanno perso la vita nella battaglia antifascista per la costruzione dell'Italia repubblicana», ha detto il segretario del Pdci Oliviero Diliberto.
Apcom 16.9.06
AN/ LA 'PRIMA VOLTA' DI BERTINOTTI, APPLAUSI SUL CAPITALISMO punto
La platea con Fini lo studia: fischi ai "compagni"
Roma, 16 set. (Apcom) - C'è voluta la parola 'compagno', dopo un'ora di dibattito davanti ai giovani di An, perché Fausto Bertinotti ricevesse i primi deboli fischi. Fino ad allora il presidente della Camera era stato ascoltato con rispettoso silenzio, magari frutto anche di precisi ordini di scuderia. Ma non solo. Aveva anche riscosso diversi applausi, durante le sue analisi critiche del capitalismo moderno. Sarebbe troppo dire che ha sedotto la platea ex-Msi, ma certo l'iniziale freddezza stava lasciando sempre più spesso posto a timidi e brevi applausi ogni volta che parlava del rischio della "mercificazione delle nostre esistenze", dell' "abuso della nozione di progresso" e via dicendo. Del resto, non è una novità che nella tradizione della destra il 'sociale' sia considerato un valore e il 'mercato' guardato con sospetto. Ma soprattutto, deve aver giocato un ruolo la condizione di 'ex-esclusi' che accomuna tanto gli eredi del Pci quanto quelli del Msi. Tanto che ad un certo punto è sembrato quasi voluto quel richiamo di Bertinotti ai 'compagni', quasi avvertisse il bisogno di beccare qualche fischio per ristabilire un po' i confini.
In realtà, all'inizio, quando il presidente della Camera è arrivato sotto la pioggia tra gli stand della festa di Azione giovani, l'atmosfera era surreale: scortato dal servizio d'ordine della festa e accompagnato dalla intraprendente Giorgia Meloni (vice-presidente della Camera, leader di Azione giovani e promotrice dell'incontro di oggi), salutava i militanti di An, ricambiato con grande freddezza. Una fase di studio, interrotta da un colloquio a porte chiuse di una decina di minuti con Gianfranco Fini. Quindi, l'ingresso sotto il tendone che ospitava il dibattito.
Il confronto lo modera la Meloni, col suo fare diretto e un po' da giamburrasca: "Presidente, mi dici 'ramarro'?", si rivolge ad un certo punto a Bertinotti, ironizzando sulla 'r' moscia; "Se Guido Rossi è presidente Telecom, Tronchetti farà il commissario della Fgci?", dice a Fini e Bertinotti sorridendo. Proprio la vicenda Telecom, unico omaggio all'attualità, è il primo punto del confronto. Bertinotti la prende alla larga, comincia analizzando la fase storica "in Europa e nel mondo", parla della "rivincita del capitalismo" negli anni '80-'90 (incassando i primi applausi) e finisce rivendicando un maggior ruolo per il Parlamento e per la "programmazione". Fini non perde l'occasione di criticare Prodi ("Puerile dire che non sapeva"), Bertinotti non ribatte nel merito e si concede una battuta: "Da giovane c'era la frase 'sono militante del Pci, non ho altro da aggiungere'. Ora, invecchiando, mi trovo a dover dire 'sono presidente della Camera, non ho altro da aggiungere'".
Quindi Bertinotti spiega perché è seduto lì, nonostante la storia passata anche cruenta: "Le nostre parti si sono contrastate anche sul terreno fisico e militare e vorrei che non tornassero più quei tempi. Bisogna costruire ponti".
Tra i ragazzi, molti avevano la croce celtica appesa alla catenina, le felpe nere con simboli cari ai movimenti di destra. Faceva un certo effetto vederli impassibili mentre Bertinotti ricordava che la sua vita politica nasce dall'antifascismo. Quindi, strappa gli applausi quando critica il ruolo degli Usa, quando rivendica una società meno mercificata, quando critica il dominio del mercato e del capitalismo.
Il dibattito prende una piega più accademica, si passa a parlare dell'importanza della "identità", dell'occidente rispetto all'Islam, della sinistra rispetto alla destra e via dicendo. Bertinotti ne approfitta, abilmente, per ristabilire le distanze: "Amo molto il termine 'compagno'", dice. Gli ordini di scuderia alla platea affinché si rispetti l'ospite devono essere stati rigorosi perché ci vuole qualche attimo prima che si oda qualche fischio sommesso. Bertinotti non manca di sottolinearlo: "Lo capisco che si fischi... del resto, se non avessimo idee diverse sull'identità non saremmo avversari. Non vorrete mica che ci dividiamo solo su Prodi?". La battuta funzione, la platea applaude di nuovo, e due militanti commentano: "E' proprio bravo!".
La Meloni è attenta ad alleggerire il confronto di tanto in tanto. Chiede a Fini e Bertinotti di indicare un film, una canzone e un libro. fini sceglie 'My way' di Frank Sinatra e Lucio Battisti, il film 'Oltre il giardino' e i romanzi di Sciascia e Pirandello, con preferenza per 'Uno, nessuno, centomila'. Bertinotti risponde con 'Amsterdam' come canzone ("Ma se volessi farvi arrabbiare direi l'Internazionale"), 'Million dollar baby' per il cinema e Giacomo Leopardi per la poesia. Fini raccoglie la sfida e cita 'If' Kipling.
Ci sono le domande dei giovani. Uno chiede a Bertinotti di spiegare perché non vuole la legge Fini che reprime anche l'uso delle droghe leggere, ricordandogli che anche Marx ("La religione è l'oppio dei popoli") aveva una pessima opinione degli stupefacenti. "Anche per Marx - ribatte sorridendo Bertinotti - vale il motto 'nessuno è perfetto". Quindi, ripete che a suo giudizio è meglio una battaglia "culturale" che repressiva, contro le droghe. Tutte le droghe, compreso il fumo e l'alcol. Fini, dimenticando per un attimo di essere un fumatore, ribatte che "la droga fa male e non si può permettere alla gente di farsi del male".
Un'altra domanda apre il capitolo-storia: l'Ungheria, Cuba, una carrellata sull'eredità scomoda che chi è stato comunista si porta dietro. "L'invasione in Ungheria - ammette Bertinotti - è stato un colpevole e grave errore, senza alcuna giustificazione. Fu un errore definire la rivolta 'controrivoluzionaria'". E' stato però, aggiunge, "un crimine della stessa natura di quello fatto dagli Stati Uniti in Cile tramite la Cia e forse su ordine di Kissinger". In ogni caso, "la storia dei Paesi dell'est non finisce col crollo del muro di Berlino, ma con i carri armati in Cecoslovacchia. Era l'ammissione che quel sistema non si poteva riformare".
"I carri armati in Ungheria e Cecoslovacchia sono un fatto - replica Fini in uno dei rari botta e risposta tra i due - mentre il ruolo della Cia in Cile è un'ipotesi e Kissinger è ancora vivente e non è mai stato chiamato a rispondere di quel fatto".
Poi, Cuba. "Ammetterai che Castro è un dittatore?", dice Fini a Bertinotti. Qui il presidente della Camera non ci sta. Castro va anche criticato per "la pena di morte" e per la repressione del dissenso, ma bisogna ricordare che è colui che ha cacciato Batista, che è stato sotto assedio da parte degli Usa ("Ha avuto attentati, c'è stata la Baia dei Porci...") e che rappresenta un esempio di orgoglio e dignità per l'America Latina. E, soprattutto: "C'è anche un elemento affettivo-sentimentale (nel giudizio su Castro, ndr), la politica è fatta anche di emozioni". Quello di Castro e Che Guevara, dice Bertinotti, era un "comunismo eretico", dunque affascinante. Tanto più se confrontato all'Urss: "Non ho mai avuto simpatia per i dirigenti dell'Urss, mi sembravano dei mostri, con quelle parate...".
La prima volta di Bertinotti da An finisce così, con pochi fischi, qualche applauso e un reciproco rispetto. E la Meloni, applauditissima, chiosa: "Spero che l'incontro di oggi contribuisca a normalizzare la vita politica. E spero che in un futuro non lontano la presenza di un leader di destra in una festa della sinistra, o viceversa, sia solo la normalità".
Apcom 16.9.06
AN/ BERTINOTTI: E' ANDATA BENE, NON VENIRE SAREBBE STATO CECITA'
"Un merito averlo promosso e anche aver partecipato"
Roma, 16 set. (Apcom) - "E' andata bene". Fausto Bertinotti è soddisfatto del dibattito con Gianfranco Fini a cui ha partecipato questa mattina alla festa dei giovani di An, l'incontro è andato come doveva secondo il presidente della Camera e le polemiche di chi gli chiedeva di non andare sono state "una manifestazione di sordità, di cecità". Conversando con i giornalisti al termine del confronto, Bertinotti fa i complimenti a Giorgia Meloni, vice-presidente della Camera e leader di Azione giovani, che ha organizzato il confronto, e si concede anche un po' di autocompiacimento: "E' un merito aver promosso questo confronto e un merito anche l'avervi partecipato".
Il confronto di oggi, aggiunge, getta "un ponte per la convivenza tra posizioni politiche che più diverse non potrebbero essere. Credo sia molto imporante, in un Paese, in una società che rischia la barbarie e la violenza. Il confronto è un modo per costruire la convivenza, e io ci credo molto".
il manifesto 16.9.06
La falsa unanimità del coro contro le rivoluzioni
di Raul Mordenti
Rossana Rossanda non ha bisogno di essere difesa dalle scomposte contumelie che hanno accolto il suo articolo su Mao, da Battista a Moscato, cioè dal Corriere della Sera fino (ahimé!) a Liberazione; bastano a difenderla la sua biografia e, ancor più, il lavoro che quotidianamente svolge per leggere i fatti orrendi del nostro mondo come umani problemi.
Riguarda invece la sinistra il fatto che un giornale che si definisce «comunista» risponda al pacato invito di Rossanda a riflettere senza demonizzazioni sul massimo rivoluzionario della seconda metà del Novecento con un articolo come quello di Antonio Moscato. Mao era come Stalin, cioè era molto, ma molto cattivo; lo dicono anche dei libri governativi e filo-occidentali che Moscato utilizza. Apprendiamo così che la Rivoluzione culturale trattò assai male Liu Shaoqi e sua moglie, che provocò un sacco di morti e che la cattiveria di Mao si spinse fino al punto di non guarire il suo amico fedele Ciu Enlai...dal cancro (sic!). Domando: si può ragionare così di storia? Si può ragionare così di rivoluzione? Moscato peraltro non è nuovo a queste imprese: ricordo la sua disinvolta partecipazione a un'indecente campagna contro Cuba della lobby confindustrial-militare che fa capo alla rivista Limes.
Di ben altro livello la riflessione sull'esperienza cinese che Rossanda propone, e non da oggi: si veda il buon libro sulla Rivoluzione culturale a cura di Tommaso Di Francesco, L'assalto al cielo, pubblicato da Manifestolibri. Quella rivoluzione fu il primo tentativo di fare davvero i conti con il fallimento dell'Ottobre, mettendo in discussione l'idea del socialismo come «elettrificazione più Soviet» (cioè come rigorosa accumulazione capitalistica «a direzione proletaria») ma anche, ed era scelta ancora più impervia e originale, cercando di superare il nesso leninista partito-classe-Stato, che comportava nuove ferree gerarchie sociali e una terribile passivizzazione delle masse.
Quel tentativo è stato sconfitto, Deng ha vinto (per ora, aggiungerebbe Mao) e noi capiamo solo adesso, vedendo l'orrore del capitalismo reale a direzione Pcc, che Mao non esagerava affatto dicendo che la lotta in Cina era fra il comunismo e la restaurazione del capitalismo. Ma la domanda è: ha qualcosa da dirci e da insegnarci il tentativo di Mao? Può prescindere da quella lezione il tentativo di ripensare la rivoluzione in Occidente che, se vorrà essere, dovrà anzitutto saper coniugare comunismo e democrazia diretta?
Per poterne discutere seriamente occorre però sbarazzarsi una volta per tutte dai ritornelli scemi sulla cattiveria dei rivoluzionari e sul gran numero di morti delle rivoluzioni. Questo modo un po' untuoso, che Gramsci definirebbe «brescianesco», di giudicare le rivoluzioni, degli altri, conduce (ne siano coscienti o no le «anime belle» à la Moscato) a liquidare non solo Mao e Stalin ma anche Lenin e Gramsci e tutta l'esperienza comunista, e anzi ogni e qualsiasi rivoluzione, a cominciare da quella francese. L'argomento della cattiveria dei «bevitori di sangue» (Robespierre) non è stato forse per secoli usato a impedire il contagio della Bastiglia?
Ragionando così si salva solo madre Teresa di Calcutta.
Il coro unanime e assordante contro le rivoluzioni è tuttavia falso in radice, giacché esso rimuove semplicemente (senza neppure avere l'onestà di confessarselo) la necessità della rivoluzione, cioè rimuove l'essenziale, che consiste appunto nel numero di morti che il non fare la rivoluzione avrebbe provocato ieri e provoca oggi; e come i contro-rivoluzionari di ieri occultavano i morti della schiavitù ancien régime, così quelli di oggi occultano i morti che senza le rivoluzioni avrebbero fatto fame e carestie in Cina, terrore bianco e nazifascismo in Russia, la schiavitù statunitense a Cuba, e quelli provocati ogni giorno che passa, ovunque, dal dominio del capitale (non solo dalle guerre capitaliste). Per questo chi non si oppone allo stato di cose presente, si chiami pure madre Teresa di Calcutta, non è affatto innocente.
Un grande rivoluzionario russo, che pure aveva qualche legittimo motivo di risentimento, quindici anni dopo l'Ottobre rispondeva a chi gli chiedeva se «i risultati della rivoluzione» avessero giustificato tante sventure, la guerra civile e le vittime: «Con lo stesso diritto, di fronte alle difficoltà e alle afflizioni di una esistenza individuale si potrebbe chiedere: vale la pena di venire al mondo? (...) I popoli cercano nella rivoluzione una via d'uscita a pene insopportabili».
il manifesto 16.9.06
Guerre sante. Il papa ha avviato l'ultima crociata?
Il Vaticano riparte dal Medioevo
Ventisei anni di politica wojtyliana verso l'islam mandati in fumo in un attimo, con un discorso integralista e superficiale. La visione di Benedetto XVI non può che sconcertare le masse arabe cheil suo predecessore aveva corteggiato
di Mimmo De Cillis*
Puff. Ventisei anni di pontificato wojtyliano andati in fumo in un baleno. Benedetto XVI aveva un rospo, trattenuto in gola per troppo tempo. Doveva dire al mondo la sua visione dell'islam, doveva farlo nella forma articolata e maestosa di un discorso scritto, una lezione di teologia in cui esplicare il Ratzinger-pensiero. Doveva far capire al mondo che l'islam è una religione che manca della ragione, e che quindi è esposta ai terribili rischi della guerra santa. Doveva spiegare che il cristianesimo è la religione del logos, parola greca che vuol dire «verbo» e «ragione» al tempo stesso, dunque è il credo che riesce a coniugare ragione e fede. E che rappresenta, insieme con il pensiero filosofico ellenico, uno dei due bastioni della civiltà occidentale. Da troppo tempo aveva queste idee, le accennava, le ventilava ai suoi collaboratori ma, data la presenza di Wojtyla, non poteva esprimerle compiutamente. Adesso Benedetto è venuto allo scoperto. Ora si comprendono le sue riserve verso i raduni interreligiosi (da Assisi 1986 in poi). Ora si comprende l'insistenza che, da Prefetto del Sant'Uffizio, ebbe per la pubblicazione dell'enciclica Dominus Iesus.
Ora, però, la parola «continuità», usata nei primi discorsi dopo l'elezione al soglio di Pietro, sembra andata in pensione, e il papa sembra aver dimenticato le orme del suo «amato predecessore», come l'ha definito più volte. Ratzinger sa di essere, su questo punto, distante anni luce da Wojtyla. E' un pontefice che ha la sua personalità, la sua formazione, le sue sensibilità e preferenze teologiche, certo. Ma la prudenza e la responsabilità, proprie del ruolo che ricopre, avrebbero dovuto suggerirgli di percorrere un altro sentiero. Non certo quello di ribaltare, almeno agli occhi del pubblico dei musulmani, le parole di Wojtyla.
Beninteso, si tratta di «sensibilità» e di «accenti», non certo di differenze dottrinarie. Ma proprio su questi accenti Wojtyla aveva faticosamente costruito un rapporto simpatetico con il mondo islamico, aveva sdoganato il suo pontificato, dandogli un'impronta universalistica. E' stato un papa «globalizzato», in un momento in cui il melting pot culturale è inevitabile. Inanellando una serie di gesti significativi, Wojtyla era riuscito a costruire un rapporto con i leader musulmani più diversi, e soprattutto a farsi accettare dalle masse arabe. Il tassista del Cairo, il venditore ambulante a Tunisi e il barbiere di Islamabad ne riconoscevano l'impegno per la pace, lo rispettavano e lo percepivano come «amico». I viaggi nei paesi islamici, l'incontro interreligioso di Assisi, il viaggio a Gerusalemme, l'ingresso nella moschea di Damasco, i continui richiami al comune padre Abramo, sono stati gesti coraggiosi, a volte deflagranti, che comunque comunicavano prossimità, dialogo, amicizia, rispetto, amore. Questo approccio non significava certo per Wojtyla abdicare alla centralità di Cristo o mettere in discussione le proprie verità di fede, ma manifestava la volontà di costruire armonia a fraternità a tutti livelli, tantopiù in un mondo già di per sé devastato dai conflitti e dal terrorismo.
Wojtyla sentiva potente il richiamo dell'attualità, il ruolo propositivo della chiesa come agente di riconciliazione. Per questo i suoi discorsi erano sapientemente calibrati. Faceva uso dell'empatia, amava mettersi nei panni dei suoi interlocutori, specialmente quando molto diversi da sé. E così ha aperto una strada dialogica e una relazione con l'islam. Soprattutto, pur sottolineando la necessità per l'Europa di riconoscere le sua radici cristiane, non ha mai teorizzato la piena identificazione del cristianesimo con la civiltà occidentale (che pure ne è stata la culla), ma ha sempre cercato di declinarle il messaggio di Cristo in senso universale, facendo del processo di «inculturazione» (la fusione originale del messaggio evangelico con le diverse culture) la chiave teologica e pastorale per la presenza delle comunità cristiane nei cinque continenti.
Questa impostazione, che ha scongiurato le moderne crociate, e ha salvato tante vite dei fedeli cattolici in terre ostili, è stata di fatto sconfessata da Ratzinger nel discorso di Ratisbona. Un discorso che può essere anche ritenuto impeccabile nella sua raffinatezza teologica, ma che risulta confezionato con lo stile assertivo (e dunque integralista) del cattedratico e che manca di un elemento fondamentale: l'interrogativo come sarà recepito? Quali reazioni potrà generare?
Questa lacuna significa che Ratzinger non ha ben chiaro il peso delle sue parole da pontefice. Il medesimo discorso fatto da un da un professore di teologia non avrebbe avuto lo stesso impatto. E se il papa intendeva puntualizzare la natura del dialogo interreligioso (da lui inteso in chiave interculturale, come testimonia la fusione fra i dicasteri della cultura e del dialogo), avrebbe potuto convocare una conferenza internazionale di studio per fare trapelare il suo pensiero.
Oggi lo sguardo dell'islam su Benedetto XVI è obliquo. Le richieste di «ritrattare» giunte da ogni parte del mondo, sono il segno inequivocabile di un fallimento o, peggio, di un imminente conflitto. Che, con un passo indietro di decenni, potrebbe trasformare il papato in un'istituzione arroccata nei suoi dogmi, nella sua estraneità rispetto al mondo contemporaneo. Sarebbe un tradimento del Concilio Vaticano II, che indicava la chiesa come «sale, luce e lievito» nel mondo. Oggi sembrano tornati i muri e l'incomunicabilità.
*Lettera22
il manifesto 16.9.06
Ratzinger
Con quale autorità?
di Filippo Gentiloni
Quello che si pensava come un semplice viaggio di ricordi nostalgici e familiari - il viaggio di Benedetto XVI in Baviera - si è dimostrato alla fine ben diverso: attacchi, polemiche, temi scottanti di geopolitica e di confronto-guerra fra le religioni. Non ce lo aspettavamo da questo papa e in questo momento. Ratzinger, così colto, ma anche prudente e compassato, si è fatto aggressivo, proprio mentre tutti gli sguardi sono rivolti al Medio Oriente conteso fra cristiani, ebrei e musulmani. Due i temi che Benedetto XVI ha voluto affrontare e porre in primo piano nella sua tranquilla Baviera. Uno, si potrebbe dire, di politica interna del cattolicesimo; l'altro di politica estera: l'evoluzionismo e l'islam. Fra i due un certo collegamento: con la condanna dell'evoluzionismo, infatti, il papa vuole riportare alla rigida ortodossia il pensiero cattolico, mettendo fine a certe tendenze moderne che giudica pericolose , e insieme rendendo capace il cattolicesimo di fronteggiare il grande avversario di oggi, l'islam. E' su questo argomento che il papa ha sconvolto tutte le aspettative, attaccando l'islam con una decisione e una violenza che va ben al di là di tutte le affermazioni diplomatiche e di tutte le ripetute dichiarazioni ecumeniche. Il papa si permette di giudicare l'islam, sulla base della accettazione islamica della «jhad», la guerra «santa» e prescindendo da tutte le interpretazioni che l'islam stesso ne ha date. Ma con quale autorità Ratzinger si permette questo affondo e questa ingerenza? Certamente non è sufficiente quella di Michele II Paleologo o di qualche altra autorità antica che il papa potrebbe invocare. La vera, unica, autorità è per Ratzinger quella della ragione, della quale ancora una volta il papa di Roma si pretende maestro e custode. La ragione alla quale tutti e in tutti i tempi si devono conformare e la cui sede è nel palazzo pontificio. Si è anche permesso di aggiungere che le frasi del Corano contro la guerra e il sangue in un secondo tempo sarebbero state rinnegate dallo stesso Maometto. Logiche, perciò, le reazioni islamiche: puntuali , arrabbiate. A rischio addirittura il programmato viaggio del papa in Turchia. Sembra di tornare ai toni di qualche secolo fa. Le famose Crociate non appaiono poi così lontane. Ci dobbiamo attendere reazioni e risposte dure di fronte alle quali il Vaticano non potrà dirsi innocente. Si affretterà a fare marcia indietro: scuse, accuse di fraintendimenti... E cortesie nei confronti di tutti i neocon anche di casa nostra, tutti ben lieti che il papa dimostri la forza e la rigidità delle nostre posizioni, attaccando quelle altrui anche se, a parole, si scambiano strette di mano e sorrisi. Atteggiamenti al limite della ipocrisia, ai quali l'accorta diplomazia vaticana non era mai stata estranea, ma che appaiono particolarmente stonati in un tempo come l'attuale, mentre le difficoltà della geopolitica mondiale assumono, purtroppo, i colori e i toni dello scontro anche religioso. Il nome - i nomi - di Dio sempre più invocato , ma anche sempre più bestemmiato.
l’Unità 16.9.06
Docente di Storia del cristianesimo all’Univeristà di Torino
«Benedetto XVI ha sempre predicato la superiorità della religione cristiana»
di Pierpaolo Velonà
«Ratzinger a Ratisbona ha espresso un giudizio legittimo rispetto ad un’altra religione, sulla quale ha dato una valutazione teologica. Ci si può chiedere se il suo discorso sia stato opportuno da un punto di vista politico. Ma questa è un’altra questione». La distinzione sta molto a cuore a Giovanni Filoramo, docente di Storia del Cristianesimo all’Università di Torino, uno dei massimi esperti in Italia di cristianesimo antico (si è occupato in particolare di gnosticismo).
Professor Filoramo, lei si è occupato di religioni antiche ma è anche molto attento alle forme di religiosità contemporanea. Che idea si è fatto dell’intervento del Papa in Germania?
«Per quanto riguarda il dato teologico, mi sembra che le dichiarazioni di Benedetto XVI siano perfettamente in linea con il suo passato. Ratzinger, nel 2000, quando era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, era stato autore di un documento intitolato Dominus Iesus che già allora venne molto discusso. In quel suo scritto ricordava la centralità del cristianesimo, se vogliamo anche la sua superiorità, l’unicità della Cristologia. Già allora quel documento era stato giudicato pericoloso per il dialogo interreligioso».
Perché il Papa si è espresso in termini così decisi?
«Trovo che le dichiarazioni di Ratisbona siano in linea con una politica più recente della Chiesa, che sta prendendo le distanze dall’Islam e sta valutando tutta una serie di problemi che l’Islam pone, soprattutto in Europa. In Germania, ad esempio, c’è una fortissima presenza islamica. Questo rappresenta anche un problema di concorrenza, di proselitismo, una minaccia al primato e all’identità del cattolicesimo europeo. Il discorso del Papa, in una simile situazione di conflitto, ha puntato molto sulle differenze teologiche».
Quali sono le differenze con Giovanni Paolo II?
«Il precedente pontefice aveva promosso nel 1986 l’incontro ecumenico di Assisi, basato sull’idea che le religioni si potessero incontrare nella pratica, nella preghiera. Ratzinger, da grande teologo qual è, ribadisce che questo non basta. In un certo senso Benedetto XVI prende anche le distanze dal suo predecessore, che non era entrato nel vivo delle differenze teologiche con le altre religioni. Wojtyla cercava l’unità nella prassi che, evidentemente, è anche possibile. Ma per dialogare bisogna capire che esistono delle differenze. È quello che il Papa sottolinea: c’è una parte violenta dell’Islam con la quale non è possibile dialogare».
Le polemiche si potevano evitare?
«Quello di Ratzinger è stato un giudizio duro. Le polemiche - dopo le ultime vicende, dopo le magliette di Calderoli - erano prevedibili. Una critica mossa dal rappresentante più alto del cattolicesimo al Profeta e al Dio dell’Islam, ha suscitato un putiferio. Le dispute con l’Islam sono antiche. Oggi però siamo in un contesto diverso. L’Islam, sia europeo che mediorientale, è sempre più agguerrito nei confronti dell’Occidente, del quale si sente vittima. Da questo punto di vista il discorso del Papa mi è sembrato un po’ inopportuno. Non era difficile immaginarsi una sollevazione unanime».
Per arginare questo processo di vittimizzazione si dovrebbe rinunciare al dialogo?
«No. Ritornando al dato teologico, il dialogo con l’Islam ha una storia dopo il Concilio Vaticano II. Soltanto oggi che l’Islam è diventato una minaccia, la Chiesa scopre l’esigenza di sottolineare le differenze e si chiude un po’ in difesa. Anche per questo, ormai, il dialogo è entrato in un cono d’ombra. Il Papa dice: se vogliamo dialogare dobbiamo farlo a partire da posizioni teologiche molto chiare, tenendo conto delle differenze. In questo un giudizio di valore è inevitabile. Nelle religioni rivelate si sottolinea sempre l’elemento di superiorità della propria rivelazione rispetto alle altre».
La Stampa Tuttolibri 16.9.05
Seppellire Freud nuoce alla filosofia
di Gianni Vattimo
Lucio Russo, Le illusioni del pensiero. La psicoanalisi tra ragione e follia, Borla, pp. 272, e22,50
CI sono più cose in questo libro di quante ne possa enumerare una breve recensione. Così si potrebbe parafrasare la famosa battuta di Amleto a Orazio, che del resto, nella sua versione originale, esprime bene l'intenzione del saggio Le illusioni del pensiero. La psicoanalisi tra ragione e follia, ultimo, denso lavoro di Lucio Russo, psicoanalista romano che già nei suoi lavori precedenti ha sempre cercato di stabilire un dialogo tra la propria disciplina e la filosofia, anzi la cultura complessiva, del nostro tempo. L'interesse del libro è proprio questo, in un momento (ricordiamo poco tempo fa il Libro nero della psicoanalisi) in cui sembrano almeno temporaneamente tramontate le pretese di leggera l'attualità - politica,culturale - alla luce delle dottrine di Freud. Rispetto allo «psicoanalismo» di moda per esempio nel Sessantotto (parliamo del secolo scorso!), oggi sembra che la psicoanalisi tenda a rientrare nei suoi limiti di «tecnica» terapeutica, in corrispondenza con una ondata (che ci pare reazionaria) di «realismo» dilagante in ogni campo, a partire dall'economia. Lucio Russo, che ha tutti i documenti in regola come terapeuta (è membro della Società Psicoanalitica italiana, con funzioni didattiche) ha però il coraggio di riproporre il significato non solo tecnico dell'eredità freudiana. Le cose che ci sono «in più», nel libro e, secondo il suo autore, nel cielo e sulla terra sono proprio quelle a cui la psicoanalisi ha voluto richiamare tutti i saperi, anche la coscienza comune, con la sua scoperta teorico-clinica dell'inconscio. Ciò che i filosofi, a partire da Nietzsche, e poi da Heidegger, hanno chiamato la fine della metafisica - cioè della pretesa, da ultimo positivistica, di descrivere la realtà «oggettivamente» - trova infatti nella dottrina di Freud una delle sue espressioni più compiute e persuasive. La metafisica come fiducia nella capacità «oggettiva» della mente, nella verità indubitabile dell'«io penso» cartesiano, immagina un soggetto per il quale l'inconscio,ma in genere ogni vita e ogni movimento della mente, non ci sia o sia eliminabile attraverso una illuminazione completa che lo metta totalmente in potere della coscienza. Non solo individuale, ma anche collettiva; mentre l'ambito da cui ci provengono idee, ispirazioni, la stessa vita del pensiero è proprio quello che sfugge costitutivamente alla volontà di illuminazione, e di dominio della razionalità. Come si sa, e come Russo mostra con molta competenza anche filosofica, Freud considerò Nietzsche come il principale dei propri precursori. E di Nietzsche si trasmette a Freud, e alla piscoanalisi come Russo la pensa, la distinzione che egli formulò fin dalla sua prima opera, La nascita della tragedia. In essa, Nietzsche vedeva la vita della mente e la vita delle società, come lotta tra due «principi», che in linguaggio freudiano si chiamerebbero pulsioni, l'apollineo e il dionisiaco; il primo orientato alla forma definita, alla razionalità luminosa (in arte, l'ambito della scultura classica); il secondo come immediata vitalità che mentre crea anche sempre distrugge la forma. E pensava che la decadenza, l'alienazione, la perdita di senso della cultura moderna dipendesse dall'aver isolato il mondo della razionalità apollinea dalle sue radici dionisiache. Metafisica, nei termini di Nietzsche e poi di Heidegger, sarebbe proprio questo indebito trionfo della razionalità sulla vita , su quelle «cose» che ci sono in cielo e in terra e che la filosofia, secondo Amleto, non «conosce».
Conoscerle, però, rischia sempre di essere un modo di ridurle alla forma, ad Apollo, e di tacitarle. Freud ha insegnato che si può ristabilire il contatto con esse senza sfigurarle. Il dialogo analitico tra paziente e terapeuta, le libere associazioni che partono dal sogno, dai lapsus, dai giochi di parole, e anche dalla letteratura e dall'arte, tutto questo è per Freud il modo di ristabilire il contatto. L'ermeneutica che si è sviluppata nel Novecento a partire a da Dilthey, Nietzsche, Heidegger, fino ai classici contemporanei come Pareyson e Ricoeur, ha fatto per conto suo, anche spesso ascoltando Freud, un cammino parallelo. Ma allora, perché le «illusioni» di cui parla il titolo del libro? Freud non le tratta certo in modo da ridurle alla «realtà», come pensa una lettura ingenua - del resto ormai fuori moda - della psicoanalisi. Certo, sia la ricerca filosofica, sia lo sforzo di verità che si compie ogni giorno nella scienza e che ispira anche l'analisi, deve fare i conti con esse. Ma secondo un motto di Nietzsche che, se non ricordiamo male, Russo non utilizza esplicitamente nel suo libro, si tratta di «continuare a sognare sapendo di sognare». L'analisi, che interviene là dove il blocco della comunicazione tra razionalità (imposta sia dalla coscienza individuale, sia dalle norme sociali) e fondo dionisiaco della vita è troppo resistente e dà luogo alle patologie mentali - non dissolve le illusioni, le «tratta» come tali, negozia con esse un accordo «costruttivo» che rende possibile la vita in una cornice libera da fissazioni e irrigidimenti patologici: che sono anche i fanatismi, le pretesa di assolutezza, i tabù che immobilizzano la vita di individui e di società. La sola verità a cui l'analisi delle illusioni ci conduce è quella che Freud chiama «verità storica». Una nozione complessa, che non lascia certo da parte il «documento» (Russo discute qui a lungo il saggio di Freud su Mosè e il monoteismo), ma che lo interpreta in relazione alla storia del lettore, o del paziente, stesso. Questo della verità storica è solo dei tanti punti in cui il libro di Russo è ricco di suggestioni non solo psicoanalitiche, ma filosofiche generali. Anche la verità della psicoanalisi, in quanto teoria, è probabilmente (come del resto quella di ogni filosofia) una verità storica; che non pretende di dire come le cose stanno sempre, ma che parla in una determinata condizione epocale. Di qui, anche, si può ripartire per scoprire che essa non è affatto superata.
il Riformista 16.9.06
Ricordi. 22 anni fa la morte
Lombardi, riformista d’antan, più marxiano che marxista
di Carlo Patrignani
«Amo la vita da sempre». Così Riccardo Lombardi scriveva a un suo amico qualche mese prima del 18 settembre 1984, quando in silenzio se ne andava, cremato e senza riti religiosi né di Stato.
Le reformiste d’antan, più marxiano che marxista, adottò come bussola del suo far politica l’ateismo. «Ateismo metodologico e critico - spiegò nel 1978 al congresso del Partito socialista italiano che si teneva a Torino - il metodo è quello scientifico che qualunque cristiano deve adottare in materie scientifiche, ossia prescindere dall’influenza ultraterrena per fare i conti con le realtà che ci stanno davanti e il secondo è quello che smaschera la falsa coscienza che le religioni tentano di dare di se stesse rappresentandosi diverse da quello che sono». Ossia negazione della persona, dell’essere umano che «suscettibile di cambiamenti e miglioramenti» è sempre stato al centro della sua azione. «L’economia politica - scrisse nel 1958 - non può prescindere dal lavoro alienato».
In tempi caratterizzati dal dilemma sull’esistenza del socialismo, (non è più corretto dire, come fa Pietro Ingrao che è il comunismo a essere morto?) dalla prospettiva possibile per la “sinistra”, la lezione di Lombardi, e di Antonio Giolitti, per il quale si tratta di «costruire il socialismo per gli esseri umani e non sacrificare gli esseri umani al socialismo», torna d’attualità.
«Ora pensaci tu a rompere i patti», gli disse Pietro Nenni all’indomani della tragica e devastante repressione dell’Ungheria (1956) da parte delle truppe sovietiche. E l’ingegnere “acomunista”, critico fin dal patto Ribbentrop-Molotov del 1939, con l’Urss che non vide mai come “Stato-Guida”, andò alla Camera a denunciare l’invasione senza mezzi termini: «È inammissibile sempre... non c’è socialismo senza democrazia e libertà». Di lì a qualche mese Giolitti lasciò il Pci di Palmiro Togliatti e aderì al Psi. «A distanza di anni sull’Ungheria, Giolitti ebbe ragione nel Pci e Lombardi nel Psi: Nenni approfittò della situazione per sganciarsi dall’alleanza con il Pci il cui prezzo più alto era pagato proprio dal Psi» nota l’economista Giorgio Ruffolo. «I fatti della storia sono questi - chiosa - essi s’incaricano di dar meriti e responsabilità ai diversi attori».
Autonomi dall’Urss non voleva dire per Lombardi alleati degli Usa: perseguì sempre la neutralità dai due blocchi usciti da Yalta, tanto da redarguire Nenni quando nel condannare l’invasione di Praga dimenticò «le invasioni, altrettanto cruente» degli Usa. «Lombardi? Per chi come me è nato lombardiano, Riccardo è stato uno dei politici più straordinari» dice il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, la cui azione politica non può essere avulsa. Non fosse altro che per quella «inesausta tensione, capacità di ricominciare - è l’opinione di Ingrao - di ricercare, di tentare vie nuove». Con l’apertura ad “altre culture” come avvenne il 5 novembre 2004 con l’Analisi Collettiva, che hanno “qualcosa” da dire sull’essere umano, sulla realtà umana.
Ecco, sarebbe un bel regalo per Lombardi, cui nel 1983 Sandro Pertini negò la nomina di senatore a vita, esser ricordato come quel grande statista che fu: «Lo Stato e la società vanno trasformati: e per me in senso socialista... Questo Stato va difeso - rispose nel ‘78 allo slogan né con le Br né con lo Stato - per trasformarlo e non per distruggerlo: dalle sue macerie non potrebbe nascere se non un odioso dispotismo».