sabato 16 settembre 2006

repubblica.it 16.9.06
Roma il presidente della Camera è arrivato all'incontro con Fini
Salone strapieno e forte battimani per entrambi
Applausi per Bertinotti alla festa di Azione Giovani
di Matteo Tonelli


ROMA - Applausi per il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, dai giovani di Alleanza Nazionale che lo attendevano alla loro festa per l'atteso confronto con il presidente di An, Gianfranco Fini dal titolo "Processo alle identità".
Bertinotti è stato accolto al suo arrivo da Giorgia Meloni, vicepresidente della Camera e già leader di Azione Giovani. "Bertinotti - ha detto Meloni - è un ospite straordinario". Tema del confronto la questione delle "identità". Presenti al dibattito, tra gli altri, i capigruppo di Rifondazione Comunista alla Camera e al Senato, Gennaro Migliore e Giovanni Russo Spena, ed il portavoce di An, Andrea Ronchi.
La sala è strapiena anche perché, l'incontro, che doveva svolgersi all'aperto, è stato spostato in un capannone a causa del maltempo. Bertinotti, accompagnato dalla moglie, è entrato per primo ed è scattato l'applauso. Il battimani è cresciuto d'intensità all'ingresso di Fini. Poi è iniziato il dibattito.
La discussione è stata preceduta da un piccolo incidente diplomatico. Nel momento dell'ingresso di Bertinotti, infatti, in sala veniva proiettato un video che trattava i temi dell'essere e del "sembrare". Nel filmato, realizzato dal movimento giovani di An, "essere e sembrare", la deputata di Rifondazione Comunista Vladimir Luxuria viene opposta al sindaco di Milano Letizia Moratti. "Essere donna- recita il video quando scorre l'immagine della Moratti- e non sembrare donna", quando invece appare Luxuria.
Imbarazzati i rappresentanti di rifondazione comunista al seguito di bertinotti. Gennaro Migliore capogruppo alla Camera scuote il capo: "E' davvero pesante...".

repubblica.it 16.9.06
BERTINOTTI: MAI PIU' SCONTRO VIOLENTO TRA DESTRA E SINISTRA

"La mia generazione e quella del presidente Fini hanno vissuto un'epoca in cui le nostre parti politiche si sono contrastate anche sul piano fisico e militare e io vorrei che non tornassero mai piu' quei tempi". Lo ha detto il presidente della Camera Fausto Bertinotti ai giovani di AN che lo hanno invitato alla festa. "Accogliere il vostro invito - ha detto Bertinotti - le cui frasi sono state sottolineati dagli applausi dei giovani di An - una riflessione seria e impegnativa. Ma oltre al dovere istituzionale che mi impone di prendere parte al confronto con le forze politiche rappresentate in Parlamento, devo cogliere l'occasione di un patto piu' importante: un confronto di culture e politiche". Bertinotti ha ricordato di essere entrato in politica negli anni '60 in occasione delle lotte popolari contro il governo Tambroni e il congresso dell'Msi a Genova ma ha sottolineato la necessita' di superare la logica dello scontro che ha portato anche quest'estate alla tragica uccisione di un giovane romano all'uscita di un centro sociale: "La mia cultura politica - ha detto ancora Bertinotti - mi ha portato all'impegno a confliggere per cambiare il mondo, ora il mondo voglio cambiarlo ma insieme alla necessita' di costruire le forme della convivenza sociale e civile tra tutte e tutti. Questo si puo' fare soltanto se gettiamo dei ponti, se facciamo dei percorsi, se entriamo in rapporto con gli altri, anche chi e' politicamente piu' lontano".

centomovimenti.com 16.9.06
Bertinotti ospite di Alleanza Nazione. Rivolta nella sinistra radicale

La sinistra radicale è scioccata per la notizia che il presidente della Camera Fausto Bertinotti sarà oggi ospite della Festa nazionale di Azione Giovani (sezione giovanile di Alleanza Nazionale). Si tratta infatti della prima volta in assoluto, per un esponente di un partito post-comunista. Oliviero Diliberto, dei "Comunisti Italiani", ha ricordato che "non partecipare alle feste dei fascisti o dei post-fascisti" è una sorta di tradizione.
"Per quanto riguarda il nostro partito noi continuiamo a non partecipare a questi appuntamenti, ma non intendiamo fare polemiche con una libera scelta di Bertinotti - ha però aggiunto - una delegazione del Pdci porterà una corona di fiori in via Tasso in memoria di quanti hanno perso la vita nella battaglia antifascista per la costruzione dell'Italia repubblicana".
Sul piede di guerra anche Francesco Ricci, ex esponente di Rifondazione e ora portavoce di Progetto Comunista.
"La partecipazione di Bertinotti alla festa dei giovani di An è solo l'ennesimo strappo per dimostrare la piena integrazione di Rifondazione nell'ordinario gioco politico - ha tuonato - è una deriva senza limiti del Prc di governo, una deriva che produce però l'abbandono di quel partito di centinaia di militanti: nonostante il tentativo di nascondere la notizia da parte dei vertici del partito".
Molto meno severo Franco Giordano, leader di Rifondazione Comunista, secondo il quale Bertinotti, in qualità di presidente della Camera, era tenuto ad accettare l'invito.

agi.it 16.9.06
FESTA AN: BERTINOTTI, DIALOGO TRA OPPOSTI NECESSITA' CULTURALE
(AGI) - Roma, 15 set. - Domani Fausto Bertinotti partecipera' alla festa dei giovani di An perche' "ai fini di una costruzione di una convivenza anche tra opposti, il dialogo e' ormai una necessita' politica e culturale". A sottolinearlo e' lo stesso presidente della Camera, conversando con i giornalisti a Montecitorio, che domani sara' dai giovani aennini per il faccia a faccia con Gianfranco Fini.
Bertinotti osserva: "Il dibattito con Fini non e' inusuale, mi e' capitato cento volte. Invece, si' la sede e' inusuale, la festa dei giovani di An... ma penso che questo sia un atto dovuto come presidente della Camera nei confronti di una forza politica che siede in questo Parlamento". (AGI) . 151827 SET 06

l’Unità 16.9.06
LA POLEMICA
Bertinotti: il mio confronto con An aiuterà la convivenza tra opposti

ROMA Penso che questo dibattito sia importante «ai fini della costruzione di una convivenza anche tra opposti. Il dialogo è ormai una necessità politica e culturale». Così il presidente della camera, Fausto Bertinotti, conversando con i giornalisti a Montecitorio, parla del dibattito che avrà oggi con Gianfranco Fini, e che avrà come sede la festa di azione giovani a roma. Bertinotti aggiunge che incontrare e discutere con Gianfranco Fini «non è affatto inusuale, mi è capitato cento volte di incontrarlo in dibattiti televisivi». «In merito al dibattito Bertinotti - Fini alla festa di An vorrei sottolineare come il problema non è la partecipazione in sé all'incontro, quanto piuttosto quello di un vulnus all'antifascismo che si manifesta con la rottura di una antica tradizione per i comunisti, cioè quella di non partecipare alle feste dei fascisti o dei post-fascisti. Per quanto riguarda il nostro partito noi continuiamo a non partecipare a questi appuntamenti, ma non intendiamo fare polemiche con una libera scelta di Bertinotti. Una delegazione del Pdci porterà una corona di fiori in via Tasso in memoria di quanti hanno perso la vita nella battaglia antifascista per la costruzione dell'Italia repubblicana», ha detto il segretario del Pdci Oliviero Diliberto.

Apcom 16.9.06
AN/ LA 'PRIMA VOLTA' DI BERTINOTTI, APPLAUSI SUL CAPITALISMO punto
La platea con Fini lo studia: fischi ai "compagni"

Roma, 16 set. (Apcom) - C'è voluta la parola 'compagno', dopo un'ora di dibattito davanti ai giovani di An, perché Fausto Bertinotti ricevesse i primi deboli fischi. Fino ad allora il presidente della Camera era stato ascoltato con rispettoso silenzio, magari frutto anche di precisi ordini di scuderia. Ma non solo. Aveva anche riscosso diversi applausi, durante le sue analisi critiche del capitalismo moderno. Sarebbe troppo dire che ha sedotto la platea ex-Msi, ma certo l'iniziale freddezza stava lasciando sempre più spesso posto a timidi e brevi applausi ogni volta che parlava del rischio della "mercificazione delle nostre esistenze", dell' "abuso della nozione di progresso" e via dicendo. Del resto, non è una novità che nella tradizione della destra il 'sociale' sia considerato un valore e il 'mercato' guardato con sospetto. Ma soprattutto, deve aver giocato un ruolo la condizione di 'ex-esclusi' che accomuna tanto gli eredi del Pci quanto quelli del Msi. Tanto che ad un certo punto è sembrato quasi voluto quel richiamo di Bertinotti ai 'compagni', quasi avvertisse il bisogno di beccare qualche fischio per ristabilire un po' i confini.

In realtà, all'inizio, quando il presidente della Camera è arrivato sotto la pioggia tra gli stand della festa di Azione giovani, l'atmosfera era surreale: scortato dal servizio d'ordine della festa e accompagnato dalla intraprendente Giorgia Meloni (vice-presidente della Camera, leader di Azione giovani e promotrice dell'incontro di oggi), salutava i militanti di An, ricambiato con grande freddezza. Una fase di studio, interrotta da un colloquio a porte chiuse di una decina di minuti con Gianfranco Fini. Quindi, l'ingresso sotto il tendone che ospitava il dibattito.

Il confronto lo modera la Meloni, col suo fare diretto e un po' da giamburrasca: "Presidente, mi dici 'ramarro'?", si rivolge ad un certo punto a Bertinotti, ironizzando sulla 'r' moscia; "Se Guido Rossi è presidente Telecom, Tronchetti farà il commissario della Fgci?", dice a Fini e Bertinotti sorridendo. Proprio la vicenda Telecom, unico omaggio all'attualità, è il primo punto del confronto. Bertinotti la prende alla larga, comincia analizzando la fase storica "in Europa e nel mondo", parla della "rivincita del capitalismo" negli anni '80-'90 (incassando i primi applausi) e finisce rivendicando un maggior ruolo per il Parlamento e per la "programmazione". Fini non perde l'occasione di criticare Prodi ("Puerile dire che non sapeva"), Bertinotti non ribatte nel merito e si concede una battuta: "Da giovane c'era la frase 'sono militante del Pci, non ho altro da aggiungere'. Ora, invecchiando, mi trovo a dover dire 'sono presidente della Camera, non ho altro da aggiungere'".

Quindi Bertinotti spiega perché è seduto lì, nonostante la storia passata anche cruenta: "Le nostre parti si sono contrastate anche sul terreno fisico e militare e vorrei che non tornassero più quei tempi. Bisogna costruire ponti".

Tra i ragazzi, molti avevano la croce celtica appesa alla catenina, le felpe nere con simboli cari ai movimenti di destra. Faceva un certo effetto vederli impassibili mentre Bertinotti ricordava che la sua vita politica nasce dall'antifascismo. Quindi, strappa gli applausi quando critica il ruolo degli Usa, quando rivendica una società meno mercificata, quando critica il dominio del mercato e del capitalismo.

Il dibattito prende una piega più accademica, si passa a parlare dell'importanza della "identità", dell'occidente rispetto all'Islam, della sinistra rispetto alla destra e via dicendo. Bertinotti ne approfitta, abilmente, per ristabilire le distanze: "Amo molto il termine 'compagno'", dice. Gli ordini di scuderia alla platea affinché si rispetti l'ospite devono essere stati rigorosi perché ci vuole qualche attimo prima che si oda qualche fischio sommesso. Bertinotti non manca di sottolinearlo: "Lo capisco che si fischi... del resto, se non avessimo idee diverse sull'identità non saremmo avversari. Non vorrete mica che ci dividiamo solo su Prodi?". La battuta funzione, la platea applaude di nuovo, e due militanti commentano: "E' proprio bravo!".

La Meloni è attenta ad alleggerire il confronto di tanto in tanto. Chiede a Fini e Bertinotti di indicare un film, una canzone e un libro. fini sceglie 'My way' di Frank Sinatra e Lucio Battisti, il film 'Oltre il giardino' e i romanzi di Sciascia e Pirandello, con preferenza per 'Uno, nessuno, centomila'. Bertinotti risponde con 'Amsterdam' come canzone ("Ma se volessi farvi arrabbiare direi l'Internazionale"), 'Million dollar baby' per il cinema e Giacomo Leopardi per la poesia. Fini raccoglie la sfida e cita 'If' Kipling.

Ci sono le domande dei giovani. Uno chiede a Bertinotti di spiegare perché non vuole la legge Fini che reprime anche l'uso delle droghe leggere, ricordandogli che anche Marx ("La religione è l'oppio dei popoli") aveva una pessima opinione degli stupefacenti. "Anche per Marx - ribatte sorridendo Bertinotti - vale il motto 'nessuno è perfetto". Quindi, ripete che a suo giudizio è meglio una battaglia "culturale" che repressiva, contro le droghe. Tutte le droghe, compreso il fumo e l'alcol. Fini, dimenticando per un attimo di essere un fumatore, ribatte che "la droga fa male e non si può permettere alla gente di farsi del male".

Un'altra domanda apre il capitolo-storia: l'Ungheria, Cuba, una carrellata sull'eredità scomoda che chi è stato comunista si porta dietro. "L'invasione in Ungheria - ammette Bertinotti - è stato un colpevole e grave errore, senza alcuna giustificazione. Fu un errore definire la rivolta 'controrivoluzionaria'". E' stato però, aggiunge, "un crimine della stessa natura di quello fatto dagli Stati Uniti in Cile tramite la Cia e forse su ordine di Kissinger". In ogni caso, "la storia dei Paesi dell'est non finisce col crollo del muro di Berlino, ma con i carri armati in Cecoslovacchia. Era l'ammissione che quel sistema non si poteva riformare".

"I carri armati in Ungheria e Cecoslovacchia sono un fatto - replica Fini in uno dei rari botta e risposta tra i due - mentre il ruolo della Cia in Cile è un'ipotesi e Kissinger è ancora vivente e non è mai stato chiamato a rispondere di quel fatto".

Poi, Cuba. "Ammetterai che Castro è un dittatore?", dice Fini a Bertinotti. Qui il presidente della Camera non ci sta. Castro va anche criticato per "la pena di morte" e per la repressione del dissenso, ma bisogna ricordare che è colui che ha cacciato Batista, che è stato sotto assedio da parte degli Usa ("Ha avuto attentati, c'è stata la Baia dei Porci...") e che rappresenta un esempio di orgoglio e dignità per l'America Latina. E, soprattutto: "C'è anche un elemento affettivo-sentimentale (nel giudizio su Castro, ndr), la politica è fatta anche di emozioni". Quello di Castro e Che Guevara, dice Bertinotti, era un "comunismo eretico", dunque affascinante. Tanto più se confrontato all'Urss: "Non ho mai avuto simpatia per i dirigenti dell'Urss, mi sembravano dei mostri, con quelle parate...".

La prima volta di Bertinotti da An finisce così, con pochi fischi, qualche applauso e un reciproco rispetto. E la Meloni, applauditissima, chiosa: "Spero che l'incontro di oggi contribuisca a normalizzare la vita politica. E spero che in un futuro non lontano la presenza di un leader di destra in una festa della sinistra, o viceversa, sia solo la normalità".

Apcom 16.9.06
AN/ BERTINOTTI: E' ANDATA BENE, NON VENIRE SAREBBE STATO CECITA'
"Un merito averlo promosso e anche aver partecipato"

Roma, 16 set. (Apcom) - "E' andata bene". Fausto Bertinotti è soddisfatto del dibattito con Gianfranco Fini a cui ha partecipato questa mattina alla festa dei giovani di An, l'incontro è andato come doveva secondo il presidente della Camera e le polemiche di chi gli chiedeva di non andare sono state "una manifestazione di sordità, di cecità". Conversando con i giornalisti al termine del confronto, Bertinotti fa i complimenti a Giorgia Meloni, vice-presidente della Camera e leader di Azione giovani, che ha organizzato il confronto, e si concede anche un po' di autocompiacimento: "E' un merito aver promosso questo confronto e un merito anche l'avervi partecipato".

Il confronto di oggi, aggiunge, getta "un ponte per la convivenza tra posizioni politiche che più diverse non potrebbero essere. Credo sia molto imporante, in un Paese, in una società che rischia la barbarie e la violenza. Il confronto è un modo per costruire la convivenza, e io ci credo molto".

il manifesto 16.9.06
La falsa unanimità del coro contro le rivoluzioni
di Raul Mordenti


Rossana Rossanda non ha bisogno di essere difesa dalle scomposte contumelie che hanno accolto il suo articolo su Mao, da Battista a Moscato, cioè dal Corriere della Sera fino (ahimé!) a Liberazione; bastano a difenderla la sua biografia e, ancor più, il lavoro che quotidianamente svolge per leggere i fatti orrendi del nostro mondo come umani problemi.
Riguarda invece la sinistra il fatto che un giornale che si definisce «comunista» risponda al pacato invito di Rossanda a riflettere senza demonizzazioni sul massimo rivoluzionario della seconda metà del Novecento con un articolo come quello di Antonio Moscato. Mao era come Stalin, cioè era molto, ma molto cattivo; lo dicono anche dei libri governativi e filo-occidentali che Moscato utilizza. Apprendiamo così che la Rivoluzione culturale trattò assai male Liu Shaoqi e sua moglie, che provocò un sacco di morti e che la cattiveria di Mao si spinse fino al punto di non guarire il suo amico fedele Ciu Enlai...dal cancro (sic!). Domando: si può ragionare così di storia? Si può ragionare così di rivoluzione? Moscato peraltro non è nuovo a queste imprese: ricordo la sua disinvolta partecipazione a un'indecente campagna contro Cuba della lobby confindustrial-militare che fa capo alla rivista Limes.
Di ben altro livello la riflessione sull'esperienza cinese che Rossanda propone, e non da oggi: si veda il buon libro sulla Rivoluzione culturale a cura di Tommaso Di Francesco, L'assalto al cielo, pubblicato da Manifestolibri. Quella rivoluzione fu il primo tentativo di fare davvero i conti con il fallimento dell'Ottobre, mettendo in discussione l'idea del socialismo come «elettrificazione più Soviet» (cioè come rigorosa accumulazione capitalistica «a direzione proletaria») ma anche, ed era scelta ancora più impervia e originale, cercando di superare il nesso leninista partito-classe-Stato, che comportava nuove ferree gerarchie sociali e una terribile passivizzazione delle masse.
Quel tentativo è stato sconfitto, Deng ha vinto (per ora, aggiungerebbe Mao) e noi capiamo solo adesso, vedendo l'orrore del capitalismo reale a direzione Pcc, che Mao non esagerava affatto dicendo che la lotta in Cina era fra il comunismo e la restaurazione del capitalismo. Ma la domanda è: ha qualcosa da dirci e da insegnarci il tentativo di Mao? Può prescindere da quella lezione il tentativo di ripensare la rivoluzione in Occidente che, se vorrà essere, dovrà anzitutto saper coniugare comunismo e democrazia diretta?
Per poterne discutere seriamente occorre però sbarazzarsi una volta per tutte dai ritornelli scemi sulla cattiveria dei rivoluzionari e sul gran numero di morti delle rivoluzioni. Questo modo un po' untuoso, che Gramsci definirebbe «brescianesco», di giudicare le rivoluzioni, degli altri, conduce (ne siano coscienti o no le «anime belle» à la Moscato) a liquidare non solo Mao e Stalin ma anche Lenin e Gramsci e tutta l'esperienza comunista, e anzi ogni e qualsiasi rivoluzione, a cominciare da quella francese. L'argomento della cattiveria dei «bevitori di sangue» (Robespierre) non è stato forse per secoli usato a impedire il contagio della Bastiglia?
Ragionando così si salva solo madre Teresa di Calcutta.
Il coro unanime e assordante contro le rivoluzioni è tuttavia falso in radice, giacché esso rimuove semplicemente (senza neppure avere l'onestà di confessarselo) la necessità della rivoluzione, cioè rimuove l'essenziale, che consiste appunto nel numero di morti che il non fare la rivoluzione avrebbe provocato ieri e provoca oggi; e come i contro-rivoluzionari di ieri occultavano i morti della schiavitù ancien régime, così quelli di oggi occultano i morti che senza le rivoluzioni avrebbero fatto fame e carestie in Cina, terrore bianco e nazifascismo in Russia, la schiavitù statunitense a Cuba, e quelli provocati ogni giorno che passa, ovunque, dal dominio del capitale (non solo dalle guerre capitaliste). Per questo chi non si oppone allo stato di cose presente, si chiami pure madre Teresa di Calcutta, non è affatto innocente.
Un grande rivoluzionario russo, che pure aveva qualche legittimo motivo di risentimento, quindici anni dopo l'Ottobre rispondeva a chi gli chiedeva se «i risultati della rivoluzione» avessero giustificato tante sventure, la guerra civile e le vittime: «Con lo stesso diritto, di fronte alle difficoltà e alle afflizioni di una esistenza individuale si potrebbe chiedere: vale la pena di venire al mondo? (...) I popoli cercano nella rivoluzione una via d'uscita a pene insopportabili».

il manifesto 16.9.06
Guerre sante. Il papa ha avviato l'ultima crociata?
Il Vaticano riparte dal Medioevo
Ventisei anni di politica wojtyliana verso l'islam mandati in fumo in un attimo, con un discorso integralista e superficiale. La visione di Benedetto XVI non può che sconcertare le masse arabe cheil suo predecessore aveva corteggiato
di Mimmo De Cillis*


Puff. Ventisei anni di pontificato wojtyliano andati in fumo in un baleno. Benedetto XVI aveva un rospo, trattenuto in gola per troppo tempo. Doveva dire al mondo la sua visione dell'islam, doveva farlo nella forma articolata e maestosa di un discorso scritto, una lezione di teologia in cui esplicare il Ratzinger-pensiero. Doveva far capire al mondo che l'islam è una religione che manca della ragione, e che quindi è esposta ai terribili rischi della guerra santa. Doveva spiegare che il cristianesimo è la religione del logos, parola greca che vuol dire «verbo» e «ragione» al tempo stesso, dunque è il credo che riesce a coniugare ragione e fede. E che rappresenta, insieme con il pensiero filosofico ellenico, uno dei due bastioni della civiltà occidentale. Da troppo tempo aveva queste idee, le accennava, le ventilava ai suoi collaboratori ma, data la presenza di Wojtyla, non poteva esprimerle compiutamente. Adesso Benedetto è venuto allo scoperto. Ora si comprendono le sue riserve verso i raduni interreligiosi (da Assisi 1986 in poi). Ora si comprende l'insistenza che, da Prefetto del Sant'Uffizio, ebbe per la pubblicazione dell'enciclica Dominus Iesus.
Ora, però, la parola «continuità», usata nei primi discorsi dopo l'elezione al soglio di Pietro, sembra andata in pensione, e il papa sembra aver dimenticato le orme del suo «amato predecessore», come l'ha definito più volte. Ratzinger sa di essere, su questo punto, distante anni luce da Wojtyla. E' un pontefice che ha la sua personalità, la sua formazione, le sue sensibilità e preferenze teologiche, certo. Ma la prudenza e la responsabilità, proprie del ruolo che ricopre, avrebbero dovuto suggerirgli di percorrere un altro sentiero. Non certo quello di ribaltare, almeno agli occhi del pubblico dei musulmani, le parole di Wojtyla.
Beninteso, si tratta di «sensibilità» e di «accenti», non certo di differenze dottrinarie. Ma proprio su questi accenti Wojtyla aveva faticosamente costruito un rapporto simpatetico con il mondo islamico, aveva sdoganato il suo pontificato, dandogli un'impronta universalistica. E' stato un papa «globalizzato», in un momento in cui il melting pot culturale è inevitabile. Inanellando una serie di gesti significativi, Wojtyla era riuscito a costruire un rapporto con i leader musulmani più diversi, e soprattutto a farsi accettare dalle masse arabe. Il tassista del Cairo, il venditore ambulante a Tunisi e il barbiere di Islamabad ne riconoscevano l'impegno per la pace, lo rispettavano e lo percepivano come «amico». I viaggi nei paesi islamici, l'incontro interreligioso di Assisi, il viaggio a Gerusalemme, l'ingresso nella moschea di Damasco, i continui richiami al comune padre Abramo, sono stati gesti coraggiosi, a volte deflagranti, che comunque comunicavano prossimità, dialogo, amicizia, rispetto, amore. Questo approccio non significava certo per Wojtyla abdicare alla centralità di Cristo o mettere in discussione le proprie verità di fede, ma manifestava la volontà di costruire armonia a fraternità a tutti livelli, tantopiù in un mondo già di per sé devastato dai conflitti e dal terrorismo.
Wojtyla sentiva potente il richiamo dell'attualità, il ruolo propositivo della chiesa come agente di riconciliazione. Per questo i suoi discorsi erano sapientemente calibrati. Faceva uso dell'empatia, amava mettersi nei panni dei suoi interlocutori, specialmente quando molto diversi da sé. E così ha aperto una strada dialogica e una relazione con l'islam. Soprattutto, pur sottolineando la necessità per l'Europa di riconoscere le sua radici cristiane, non ha mai teorizzato la piena identificazione del cristianesimo con la civiltà occidentale (che pure ne è stata la culla), ma ha sempre cercato di declinarle il messaggio di Cristo in senso universale, facendo del processo di «inculturazione» (la fusione originale del messaggio evangelico con le diverse culture) la chiave teologica e pastorale per la presenza delle comunità cristiane nei cinque continenti.
Questa impostazione, che ha scongiurato le moderne crociate, e ha salvato tante vite dei fedeli cattolici in terre ostili, è stata di fatto sconfessata da Ratzinger nel discorso di Ratisbona. Un discorso che può essere anche ritenuto impeccabile nella sua raffinatezza teologica, ma che risulta confezionato con lo stile assertivo (e dunque integralista) del cattedratico e che manca di un elemento fondamentale: l'interrogativo come sarà recepito? Quali reazioni potrà generare?
Questa lacuna significa che Ratzinger non ha ben chiaro il peso delle sue parole da pontefice. Il medesimo discorso fatto da un da un professore di teologia non avrebbe avuto lo stesso impatto. E se il papa intendeva puntualizzare la natura del dialogo interreligioso (da lui inteso in chiave interculturale, come testimonia la fusione fra i dicasteri della cultura e del dialogo), avrebbe potuto convocare una conferenza internazionale di studio per fare trapelare il suo pensiero.
Oggi lo sguardo dell'islam su Benedetto XVI è obliquo. Le richieste di «ritrattare» giunte da ogni parte del mondo, sono il segno inequivocabile di un fallimento o, peggio, di un imminente conflitto. Che, con un passo indietro di decenni, potrebbe trasformare il papato in un'istituzione arroccata nei suoi dogmi, nella sua estraneità rispetto al mondo contemporaneo. Sarebbe un tradimento del Concilio Vaticano II, che indicava la chiesa come «sale, luce e lievito» nel mondo. Oggi sembrano tornati i muri e l'incomunicabilità.
*Lettera22

il manifesto 16.9.06
Ratzinger
Con quale autorità?

di Filippo Gentiloni


Quello che si pensava come un semplice viaggio di ricordi nostalgici e familiari - il viaggio di Benedetto XVI in Baviera - si è dimostrato alla fine ben diverso: attacchi, polemiche, temi scottanti di geopolitica e di confronto-guerra fra le religioni. Non ce lo aspettavamo da questo papa e in questo momento. Ratzinger, così colto, ma anche prudente e compassato, si è fatto aggressivo, proprio mentre tutti gli sguardi sono rivolti al Medio Oriente conteso fra cristiani, ebrei e musulmani. Due i temi che Benedetto XVI ha voluto affrontare e porre in primo piano nella sua tranquilla Baviera. Uno, si potrebbe dire, di politica interna del cattolicesimo; l'altro di politica estera: l'evoluzionismo e l'islam. Fra i due un certo collegamento: con la condanna dell'evoluzionismo, infatti, il papa vuole riportare alla rigida ortodossia il pensiero cattolico, mettendo fine a certe tendenze moderne che giudica pericolose , e insieme rendendo capace il cattolicesimo di fronteggiare il grande avversario di oggi, l'islam. E' su questo argomento che il papa ha sconvolto tutte le aspettative, attaccando l'islam con una decisione e una violenza che va ben al di là di tutte le affermazioni diplomatiche e di tutte le ripetute dichiarazioni ecumeniche. Il papa si permette di giudicare l'islam, sulla base della accettazione islamica della «jhad», la guerra «santa» e prescindendo da tutte le interpretazioni che l'islam stesso ne ha date. Ma con quale autorità Ratzinger si permette questo affondo e questa ingerenza? Certamente non è sufficiente quella di Michele II Paleologo o di qualche altra autorità antica che il papa potrebbe invocare. La vera, unica, autorità è per Ratzinger quella della ragione, della quale ancora una volta il papa di Roma si pretende maestro e custode. La ragione alla quale tutti e in tutti i tempi si devono conformare e la cui sede è nel palazzo pontificio. Si è anche permesso di aggiungere che le frasi del Corano contro la guerra e il sangue in un secondo tempo sarebbero state rinnegate dallo stesso Maometto. Logiche, perciò, le reazioni islamiche: puntuali , arrabbiate. A rischio addirittura il programmato viaggio del papa in Turchia. Sembra di tornare ai toni di qualche secolo fa. Le famose Crociate non appaiono poi così lontane. Ci dobbiamo attendere reazioni e risposte dure di fronte alle quali il Vaticano non potrà dirsi innocente. Si affretterà a fare marcia indietro: scuse, accuse di fraintendimenti... E cortesie nei confronti di tutti i neocon anche di casa nostra, tutti ben lieti che il papa dimostri la forza e la rigidità delle nostre posizioni, attaccando quelle altrui anche se, a parole, si scambiano strette di mano e sorrisi. Atteggiamenti al limite della ipocrisia, ai quali l'accorta diplomazia vaticana non era mai stata estranea, ma che appaiono particolarmente stonati in un tempo come l'attuale, mentre le difficoltà della geopolitica mondiale assumono, purtroppo, i colori e i toni dello scontro anche religioso. Il nome - i nomi - di Dio sempre più invocato , ma anche sempre più bestemmiato.

l’Unità 16.9.06
Docente di Storia del cristianesimo all’Univeristà di Torino
«Benedetto XVI ha sempre predicato la superiorità della religione cristiana»
di Pierpaolo Velonà


«Ratzinger a Ratisbona ha espresso un giudizio legittimo rispetto ad un’altra religione, sulla quale ha dato una valutazione teologica. Ci si può chiedere se il suo discorso sia stato opportuno da un punto di vista politico. Ma questa è un’altra questione». La distinzione sta molto a cuore a Giovanni Filoramo, docente di Storia del Cristianesimo all’Università di Torino, uno dei massimi esperti in Italia di cristianesimo antico (si è occupato in particolare di gnosticismo).
Professor Filoramo, lei si è occupato di religioni antiche ma è anche molto attento alle forme di religiosità contemporanea. Che idea si è fatto dell’intervento del Papa in Germania?
«Per quanto riguarda il dato teologico, mi sembra che le dichiarazioni di Benedetto XVI siano perfettamente in linea con il suo passato. Ratzinger, nel 2000, quando era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, era stato autore di un documento intitolato Dominus Iesus che già allora venne molto discusso. In quel suo scritto ricordava la centralità del cristianesimo, se vogliamo anche la sua superiorità, l’unicità della Cristologia. Già allora quel documento era stato giudicato pericoloso per il dialogo interreligioso».
Perché il Papa si è espresso in termini così decisi?
«Trovo che le dichiarazioni di Ratisbona siano in linea con una politica più recente della Chiesa, che sta prendendo le distanze dall’Islam e sta valutando tutta una serie di problemi che l’Islam pone, soprattutto in Europa. In Germania, ad esempio, c’è una fortissima presenza islamica. Questo rappresenta anche un problema di concorrenza, di proselitismo, una minaccia al primato e all’identità del cattolicesimo europeo. Il discorso del Papa, in una simile situazione di conflitto, ha puntato molto sulle differenze teologiche».
Quali sono le differenze con Giovanni Paolo II?
«Il precedente pontefice aveva promosso nel 1986 l’incontro ecumenico di Assisi, basato sull’idea che le religioni si potessero incontrare nella pratica, nella preghiera. Ratzinger, da grande teologo qual è, ribadisce che questo non basta. In un certo senso Benedetto XVI prende anche le distanze dal suo predecessore, che non era entrato nel vivo delle differenze teologiche con le altre religioni. Wojtyla cercava l’unità nella prassi che, evidentemente, è anche possibile. Ma per dialogare bisogna capire che esistono delle differenze. È quello che il Papa sottolinea: c’è una parte violenta dell’Islam con la quale non è possibile dialogare».
Le polemiche si potevano evitare?
«Quello di Ratzinger è stato un giudizio duro. Le polemiche - dopo le ultime vicende, dopo le magliette di Calderoli - erano prevedibili. Una critica mossa dal rappresentante più alto del cattolicesimo al Profeta e al Dio dell’Islam, ha suscitato un putiferio. Le dispute con l’Islam sono antiche. Oggi però siamo in un contesto diverso. L’Islam, sia europeo che mediorientale, è sempre più agguerrito nei confronti dell’Occidente, del quale si sente vittima. Da questo punto di vista il discorso del Papa mi è sembrato un po’ inopportuno. Non era difficile immaginarsi una sollevazione unanime».
Per arginare questo processo di vittimizzazione si dovrebbe rinunciare al dialogo?
«No. Ritornando al dato teologico, il dialogo con l’Islam ha una storia dopo il Concilio Vaticano II. Soltanto oggi che l’Islam è diventato una minaccia, la Chiesa scopre l’esigenza di sottolineare le differenze e si chiude un po’ in difesa. Anche per questo, ormai, il dialogo è entrato in un cono d’ombra. Il Papa dice: se vogliamo dialogare dobbiamo farlo a partire da posizioni teologiche molto chiare, tenendo conto delle differenze. In questo un giudizio di valore è inevitabile. Nelle religioni rivelate si sottolinea sempre l’elemento di superiorità della propria rivelazione rispetto alle altre».

La Stampa Tuttolibri 16.9.05
Seppellire Freud nuoce alla filosofia
di Gianni Vattimo


Lucio Russo, Le illusioni del pensiero. La psicoanalisi tra ragione e follia, Borla, pp. 272, e22,50

CI sono più cose in questo libro di quante ne possa enumerare una breve recensione. Così si potrebbe parafrasare la famosa battuta di Amleto a Orazio, che del resto, nella sua versione originale, esprime bene l'intenzione del saggio Le illusioni del pensiero. La psicoanalisi tra ragione e follia, ultimo, denso lavoro di Lucio Russo, psicoanalista romano che già nei suoi lavori precedenti ha sempre cercato di stabilire un dialogo tra la propria disciplina e la filosofia, anzi la cultura complessiva, del nostro tempo. L'interesse del libro è proprio questo, in un momento (ricordiamo poco tempo fa il Libro nero della psicoanalisi) in cui sembrano almeno temporaneamente tramontate le pretese di leggera l'attualità - politica,culturale - alla luce delle dottrine di Freud. Rispetto allo «psicoanalismo» di moda per esempio nel Sessantotto (parliamo del secolo scorso!), oggi sembra che la psicoanalisi tenda a rientrare nei suoi limiti di «tecnica» terapeutica, in corrispondenza con una ondata (che ci pare reazionaria) di «realismo» dilagante in ogni campo, a partire dall'economia. Lucio Russo, che ha tutti i documenti in regola come terapeuta (è membro della Società Psicoanalitica italiana, con funzioni didattiche) ha però il coraggio di riproporre il significato non solo tecnico dell'eredità freudiana. Le cose che ci sono «in più», nel libro e, secondo il suo autore, nel cielo e sulla terra sono proprio quelle a cui la psicoanalisi ha voluto richiamare tutti i saperi, anche la coscienza comune, con la sua scoperta teorico-clinica dell'inconscio. Ciò che i filosofi, a partire da Nietzsche, e poi da Heidegger, hanno chiamato la fine della metafisica - cioè della pretesa, da ultimo positivistica, di descrivere la realtà «oggettivamente» - trova infatti nella dottrina di Freud una delle sue espressioni più compiute e persuasive. La metafisica come fiducia nella capacità «oggettiva» della mente, nella verità indubitabile dell'«io penso» cartesiano, immagina un soggetto per il quale l'inconscio,ma in genere ogni vita e ogni movimento della mente, non ci sia o sia eliminabile attraverso una illuminazione completa che lo metta totalmente in potere della coscienza. Non solo individuale, ma anche collettiva; mentre l'ambito da cui ci provengono idee, ispirazioni, la stessa vita del pensiero è proprio quello che sfugge costitutivamente alla volontà di illuminazione, e di dominio della razionalità. Come si sa, e come Russo mostra con molta competenza anche filosofica, Freud considerò Nietzsche come il principale dei propri precursori. E di Nietzsche si trasmette a Freud, e alla piscoanalisi come Russo la pensa, la distinzione che egli formulò fin dalla sua prima opera, La nascita della tragedia. In essa, Nietzsche vedeva la vita della mente e la vita delle società, come lotta tra due «principi», che in linguaggio freudiano si chiamerebbero pulsioni, l'apollineo e il dionisiaco; il primo orientato alla forma definita, alla razionalità luminosa (in arte, l'ambito della scultura classica); il secondo come immediata vitalità che mentre crea anche sempre distrugge la forma. E pensava che la decadenza, l'alienazione, la perdita di senso della cultura moderna dipendesse dall'aver isolato il mondo della razionalità apollinea dalle sue radici dionisiache. Metafisica, nei termini di Nietzsche e poi di Heidegger, sarebbe proprio questo indebito trionfo della razionalità sulla vita , su quelle «cose» che ci sono in cielo e in terra e che la filosofia, secondo Amleto, non «conosce».
Conoscerle, però, rischia sempre di essere un modo di ridurle alla forma, ad Apollo, e di tacitarle. Freud ha insegnato che si può ristabilire il contatto con esse senza sfigurarle. Il dialogo analitico tra paziente e terapeuta, le libere associazioni che partono dal sogno, dai lapsus, dai giochi di parole, e anche dalla letteratura e dall'arte, tutto questo è per Freud il modo di ristabilire il contatto. L'ermeneutica che si è sviluppata nel Novecento a partire a da Dilthey, Nietzsche, Heidegger, fino ai classici contemporanei come Pareyson e Ricoeur, ha fatto per conto suo, anche spesso ascoltando Freud, un cammino parallelo. Ma allora, perché le «illusioni» di cui parla il titolo del libro? Freud non le tratta certo in modo da ridurle alla «realtà», come pensa una lettura ingenua - del resto ormai fuori moda - della psicoanalisi. Certo, sia la ricerca filosofica, sia lo sforzo di verità che si compie ogni giorno nella scienza e che ispira anche l'analisi, deve fare i conti con esse. Ma secondo un motto di Nietzsche che, se non ricordiamo male, Russo non utilizza esplicitamente nel suo libro, si tratta di «continuare a sognare sapendo di sognare». L'analisi, che interviene là dove il blocco della comunicazione tra razionalità (imposta sia dalla coscienza individuale, sia dalle norme sociali) e fondo dionisiaco della vita è troppo resistente e dà luogo alle patologie mentali - non dissolve le illusioni, le «tratta» come tali, negozia con esse un accordo «costruttivo» che rende possibile la vita in una cornice libera da fissazioni e irrigidimenti patologici: che sono anche i fanatismi, le pretesa di assolutezza, i tabù che immobilizzano la vita di individui e di società. La sola verità a cui l'analisi delle illusioni ci conduce è quella che Freud chiama «verità storica». Una nozione complessa, che non lascia certo da parte il «documento» (Russo discute qui a lungo il saggio di Freud su Mosè e il monoteismo), ma che lo interpreta in relazione alla storia del lettore, o del paziente, stesso. Questo della verità storica è solo dei tanti punti in cui il libro di Russo è ricco di suggestioni non solo psicoanalitiche, ma filosofiche generali. Anche la verità della psicoanalisi, in quanto teoria, è probabilmente (come del resto quella di ogni filosofia) una verità storica; che non pretende di dire come le cose stanno sempre, ma che parla in una determinata condizione epocale. Di qui, anche, si può ripartire per scoprire che essa non è affatto superata.

il Riformista 16.9.06
Ricordi. 22 anni fa la morte
Lombardi, riformista d’antan, più marxiano che marxista
di Carlo Patrignani


«Amo la vita da sempre». Così Riccardo Lombardi scriveva a un suo amico qualche mese prima del 18 settembre 1984, quando in silenzio se ne andava, cremato e senza riti religiosi né di Stato.
Le reformiste d’antan, più marxiano che marxista, adottò come bussola del suo far politica l’ateismo. «Ateismo metodologico e critico - spiegò nel 1978 al congresso del Partito socialista italiano che si teneva a Torino - il metodo è quello scientifico che qualunque cristiano deve adottare in materie scientifiche, ossia prescindere dall’influenza ultraterrena per fare i conti con le realtà che ci stanno davanti e il secondo è quello che smaschera la falsa coscienza che le religioni tentano di dare di se stesse rappresentandosi diverse da quello che sono». Ossia negazione della persona, dell’essere umano che «suscettibile di cambiamenti e miglioramenti» è sempre stato al centro della sua azione. «L’economia politica - scrisse nel 1958 - non può prescindere dal lavoro alienato».
In tempi caratterizzati dal dilemma sull’esistenza del socialismo, (non è più corretto dire, come fa Pietro Ingrao che è il comunismo a essere morto?) dalla prospettiva possibile per la “sinistra”, la lezione di Lombardi, e di Antonio Giolitti, per il quale si tratta di «costruire il socialismo per gli esseri umani e non sacrificare gli esseri umani al socialismo», torna d’attualità.
«Ora pensaci tu a rompere i patti», gli disse Pietro Nenni all’indomani della tragica e devastante repressione dell’Ungheria (1956) da parte delle truppe sovietiche. E l’ingegnere “acomunista”, critico fin dal patto Ribbentrop-Molotov del 1939, con l’Urss che non vide mai come “Stato-Guida”, andò alla Camera a denunciare l’invasione senza mezzi termini: «È inammissibile sempre... non c’è socialismo senza democrazia e libertà». Di lì a qualche mese Giolitti lasciò il Pci di Palmiro Togliatti e aderì al Psi. «A distanza di anni sull’Ungheria, Giolitti ebbe ragione nel Pci e Lombardi nel Psi: Nenni approfittò della situazione per sganciarsi dall’alleanza con il Pci il cui prezzo più alto era pagato proprio dal Psi» nota l’economista Giorgio Ruffolo. «I fatti della storia sono questi - chiosa - essi s’incaricano di dar meriti e responsabilità ai diversi attori».
Autonomi dall’Urss non voleva dire per Lombardi alleati degli Usa: perseguì sempre la neutralità dai due blocchi usciti da Yalta, tanto da redarguire Nenni quando nel condannare l’invasione di Praga dimenticò «le invasioni, altrettanto cruente» degli Usa. «Lombardi? Per chi come me è nato lombardiano, Riccardo è stato uno dei politici più straordinari» dice il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, la cui azione politica non può essere avulsa. Non fosse altro che per quella «inesausta tensione, capacità di ricominciare - è l’opinione di Ingrao - di ricercare, di tentare vie nuove». Con l’apertura ad “altre culture” come avvenne il 5 novembre 2004 con l’Analisi Collettiva, che hanno “qualcosa” da dire sull’essere umano, sulla realtà umana.
Ecco, sarebbe un bel regalo per Lombardi, cui nel 1983 Sandro Pertini negò la nomina di senatore a vita, esser ricordato come quel grande statista che fu: «Lo Stato e la società vanno trasformati: e per me in senso socialista... Questo Stato va difeso - rispose nel ‘78 allo slogan né con le Br né con lo Stato - per trasformarlo e non per distruggerlo: dalle sue macerie non potrebbe nascere se non un odioso dispotismo».

venerdì 15 settembre 2006

Aprileonline 15.9.06
DOCUMENTI
Cambiare da sinistra, cambiare la sinistra
di Fabio Mussi


Pubblichiamo il testo dell'introduzione di Fabio Mussi all'assemblea della sinistra Ds svoltasi sabato scorso a Pesaro

L’incarico che ho ricevuto, penso, sia prima di tutto un riconoscimento alla funzione politica che svolge e che ha svolto in questi anni la sinistra dei Ds, funzione che ritengo sia stata molto importante per il partito e per la coalizione. In qualche passaggio, penso solo alla vicenda della guerra e dell’Iraq, il nostro ruolo è stato decisivo. Il pluralismo politico di un partito, di una coalizione è intanto uno strumento che serve a segnalare per tempo le diverse opzioni e anche a scansare qualche errore. Ritengo che abbiamo dato una mano e al tempo stesso abbiamo affermato una visione, una idea e, come vedrete, anche avanzato qualche proposta per il futuro prossimo venturo.

Qui siamo a Pesaro, torniamo anche noi a quel congresso nel quale si formò una minoranza di sinistra nei Ds. Siamo meno numerosi di allora, al congresso successivo la nostra percentuale è scesa. Ma credo che dobbiamo andare orgogliosi del fatto che con il mutare di certe condizioni abbiamo tenuto ferme alcune delle nostre idee. Il mondo è di quelli che tengono ferme le idee anche quando sembra che l’acqua del fiume scorra da un’altra parte. Noi torniamo a Pesaro per confermare la bontà delle posizioni che in quel congresso e nel successivo abbiamo sostenuto.

Il fatto nuovo del 2006: lo scenario politico

Noi partecipiamo alla novità della politica italiana, alla cosa molto importante che è avvenuta in questo 2006, molto importante per la prospettiva. In questo 2006, dopo un ciclo in cui ha dilagato la destra è stato fermato il progetto popolustico plebiscitario di cui Berlusconi è stato grande attore protagonista e interprete. Sarebbe un errore pensare che lì la partita è chiusa, che abbiamo risolto per sempre il problema, che non ci sono pericoli di ritorno di una destra di impostazione populistica e plebiscitaria. No, la partita non è chiusa, la battaglia è aperta ma il passo che abbiamo fatto nel 2006 credo che deve essere collettivamente valorizzato e lo festeggiamo assieme a tutto il nostro partito. Abbiamo vinto le elezioni politiche, abbiamo superato – alla fine brillantemente - il passaggio della nomina delle massime cariche della Repubblica. E abbiamo concluso, attraverso una complessa discussione e trattativa all’interno dell’Unione, la formazione del governo che è in carica da tre mesi. Nel mezzo c’è stato anche il clamoroso risultato del Referendum Costituzionale, clamoroso risultato per la partecipazione al voto e per l’esito del Si. Messi di fronte all’alternativa tra la costituzione di Lorenzago e quella Antifascista nata dalla Resistenza e dalla Lotta partigiana l’Italia ha scelto la seconda e non è un risultato di poco conto. La prima era nata in una baita per mano di un ristretto gruppo di costituenti tra una fetta di polenta e un bicchier di vino, non so quanta polenta ma certamente molto vino a vedere il risultato uscito da quella trattativa privata tra i rappresentanti del centro destra. La difesa della Costituzione naturalmente non ci si esime dall’esigenza di guardare in prospettiva alla possibilità di parziali modifiche, di aggiornamenti istituzionali ma, ribadisco, i caratteri fondamentali del Patto che lega gli italiani sono stati brillantemente difesi.

Elezioni politiche, cariche istituzionali, Referendum. Credo che il bilancio dei mesi che passano dall’ultima primavera fino a questo scorcio di estate sia positivo. Si può, quindi, guardare con un certo ottimismo il futuro. Le elezioni le abbiamo vinte, di un soffio, per un numero risicatissimo di seggi al Senato e per un numero risicato di voti alla Camera. Naturalmente è meglio vincerle di un soffio che perderle di un soffio. Tuttavia quel risultato risicato ci costringe e ci ha costretto ad una discussione che ci ha impegnato per diverse settimane.

L’Ulivo al 31% sotto la percentuale delle elezioni europee, uno spostamento, seppure non massiccio ma comunque significativo, verso le formazioni più di sinistra. Si invoca, per spiegare la differenza di risultato tra Camera e Senato il differenziale del voto dell’Ulivo rispetto a quello della somma di Ds e Margherita. L’unica verità, quando si parla di questo differenziale, è che i due principali partiti della coalizione sono andati indietro e i Ds sono, in sostanza, tornati al risultato del ’92, qualche frazione di differenza. Non ce ne rallegriamo, però usare due relative debolezze per farsi forza è una operazione che alla lunga può rivelarsi velleitaria.

Il nuovo governo: il nostro ruolo in Europa e nel mondo

Credo che gli atti compiuti in questi mesi dal nuovo governo siano complessivamente positivi. Bene, mi pare, nella politica internazionale. Io voglio qui riconoscere a D’Alema, prima di tutto, una condotta che ha avuto ed ha il nostro pieno consenso, sia nell’affermare senza cedimenti l’obiettivo che ci eravamo dati nella campagna elettorale cioè quello del ritiro delle truppe italiane dall’Iraq. È evidente l’esito dell’occupazione di quel paese, sarebbe interessante ritornare alla discussione che nei gruppi parlamentari e nel partito facemmo al momento della iniziativa americana e della nascita della coalizione dei “Volenterosi”. Mi pare che noi, la sinistra Ds, avesse visto giusto e oggi abbiamo molto conferme, aimé conferme sul campo, di un paese che è diventato un mattatoio e nel quale è stato esportato non la democrazia ma la guerra civile. Ci sono autorevolissime conferme di questo fino al Rapporto al Congresso americano che dice “argomenti falsi per intervenire, fallimento, intervento catastrofico”. Non solo, ma la promessa della stabilizzazione del Medio Oriente e della lotta al terrorismo grazie a quella iniziativa militare si è rivelata infondata, falsa e velleitaria. C’è stato un rafforzamento del terrorismo e soprattutto una accentuate instabilità in tutta l’area, si è riacutizzata la questione palestinese e abbiamo dovuto nelle ultime settimane anche dover far fronte ad una guerra potenzialmente catastrofica lungo le frontiere tra Israele e il Libano. Bene, dicevo, il ritiro delle truppe dall’Iraq, ma ovviamente questo comporta il dover trarre tutte le conseguenze politiche in termini di visione internazionale, di uso della guerra e della forze, di unilateralismo, degli effetti di una messa sotto scacco delle istituzioni internazionali e dei grandi soggetti planetari, dalle nazioni Unite fine all’Europa. Bene anche l’iniziativa che è stata sostenuta da tutte le forze dell’Unione con convinzione di far agire Europa e Nazioni Unite nella crisi libanese e di far diventare il nostro Paese protagonista nella costruzione di una forza di interposizione che naturalmente non è fine a se stessa, deve servire a far tacere le armi e deve servire a riaprire una politica di strategia di pace che si potrà dire abbia avuto successo solo il giorno in cui il sogno di due popoli e due stati in Palestina potrà dirsi realizzato.

Credo anche di aver dato un contributo alla affermazione della nuova posizione internazionale dell’Italia che ha riacquisito ruolo, prestigio, autorevolezza per questa nuova posizione internazionale, naturalmente fanno fede queste proposte di politica internazionale, dalla postazione che occupo, dal Ministero dell’Università e della Ricerca, cambiando in sede europea la posizione italiana sulla questione della ricerca e delle staminali risolta alla fine con un compromesso (perché i compromessi sono necessari), che tuttavia non offende i principi di libertà della ricerca, di laicità dello stato e che ha anche consentito ai paesi dell’Unione europea di superare lo stallo per l’approvazione del VII Programma quadro della Ricerca che si pone l’obiettivo ambizioso di realizzare la strategia di Lisbona e cioè di far diventare da qui al 2012 l’Europa una area in cui si afferma il primato della “società della conoscenza”.

Dicevo che il nostro Paese si assume la responsabilità anche dei rischi. Ora si è riaperta la discussione anche sull’Afganistan, ieri c’è stato un attentato che ha provocato il ferimento di nostri soldati, il rischio di una rapida irachizzazione anche di quel paese è assai forte. Ieri sera anche su questo D’Alema ha detto parole di verità, il rischio di un fallimento è forte, serio e la possibilità che anche questa volta lì finisca come è sempre finita e cioè che chi lo occupa debba andarsene con le pive nel sacco è un rischio elevato. È successo agli inglesi, è successo ai sovietici, è successo agli americani. Rischia di succedere di nuovo senza che la presenza straniera abbia sostanzialmente cambiato quella natura bellicosa e tribale degli assetti di potere di un paese che è un fondamentale snodo dell’Asia e cioè del mondo. Quello che è successo negli ultimi tre anni in quello scenario aumenta le preoccupazione che dovrebbero essere, come sono, molto acute per un paese così allungato verso il Medio Oriente come è l’Italia, basta pensare che dall’occupazione dell’Iraq in poi non solo si è aggravata la questione palestinese, c’è stata la guerra libanese, ma Hesbolà è più forte di prima e Hamas ha vinto in Palestina e i Fratelli mussulmani sono rafforzati in tutta la sponda Nord arabo africana e in Iran c’è al potere l’ala più intransigente. È del tutto evidente che l’eventuale atomica iraniana costituirebbe un ulteriore elemento di minaccia e di instabilità e crisi e che sia giusto che la comunità internazionale tenti di impedirlo. Anche in questo caso il nostro Paese sta provando ad esercitare un ruolo. Sarebbe molto più forte l’azione per impedire all’Iran di avere l’atomica se su scala mondiale venisse rilanciata la prospettiva del disarmo chimico batteriologico atomico. Tutti gli accordi firmati nei decenni scorsi sono stati disdetti e siamo in una fase che forse non ha precedenti di riarmo mondiale, in particolare per quanto riguarda le armi strategiche. Il prossimo 29 settembre la nostra Area promuoverà una importante iniziativa a Roma in cui, assieme a autorevolissimi interlocutori, ci poniamo l’obiettivo di parlare esattamente di questo. Sono stati superati i 1000 miliardi di dollari di spesa in armamenti e il fatto che il più forte paese del mondo abbia accumulato il più colossale debito e deficit della sua storia grazie alla più colossale spesa militare non turba i sonni dei rigoristi. E invece noi proveremo a sollevare questo tema. Senza fare i sognatori di un’isola che non c’è, pensare che si possa portare a zero gli armamenti in tutto il mondo è velleitario, ma affermare che occorra iniziare una curva discendete della spesa e in armamenti e soprattutto riaprire i tavoli perché vengano di nuovo firmate le convenzioni per il disarmo, in particolare chimico batteriologico e atomico, questo pensiamo sia una cosa che si possa fare e per la quale il nostro Paese possa spendersi. È evidente che con la guerra il mondo non si governa e sta fallendo la linea dei neoconservatori americani - anche se ogni tanto qualche scivolamento in alcuni giornali è facile registrarlo, ho visto persino qualche articolo di liberali italiani che dicono che insomma la tortura “quando ce vo ce vo perché bisogna stabilire un bilanciamento tra l’esigenza di sicurezza e i diritti umani e se per stare sicuri occorre torturare qualcuno magari di un’altra etnia, la cosa si può fare”. Curiosi approdi di personalità che sono partite come incorrotti difensori dello stato di diritto, dei principi costituzionali, delle garanzie dei diritti umani. Non c’è lotta al terrorismo che possa giustificare un abbassamento delle garanzie per le persone e dei diritti umani, perché se c’è un abbassamento allora il terrorismo alla fine vince. Le minacce del terrorismo non si vincono bombardando Teheran ma con ‘intelligence, con gli infiltrati, con l’analisi delle informazioni e tutti sanno che questa è l’arma fondamentale che deve essere usata.

Il nuovo governo: la finanziaria

Tutto quello che sta avvenendo al mondo mostra per i prossimi anni uno spostamento di equilibri mondiali progressivo verso l’Asia. L’Europa deve essere sempre più la protagonista dei nuovi assetti mondiali e la nostra scelta è l’Europa. Il centro sinistra questo è in Italia, dopo il’96è stata la coalizione e il governo che ha portato la lira nell’euro, l’orizzonte, la dimensione europea è stata la nostra fondamentale scelta strategica e non dobbiamo perdere questa che deve essere la bussola che deve guidarci, anche nella discussione che dovrà concludersi da qui a poche settimane sulla legge finanziaria. Abbiamo fatto bene a fare una operazione verità su quello che ci ha lasciato la destra: non solo un periodo prolungato di stagnazione dell’economia reale fino a vedere il segno zero nel 2005, la prima volta dalla fine della guerra che la crescita ha avuto il segno zero. Nel 2001 lasciammo un paese con un deficit intorno al 3per cento, criteri europei rispettati, con il debito pubblico vicino a 105 e in calo, in 15 anni sostanzialmente siamo passati dalla vetta del 122 % del pil di debito pubblico al 105 grazie ai diversi governi che si sono succeduti dal 92 fino al 2001. Come tutti sanno siccome il debito pubblico comporta un elevato servizio al debito, gli interessi, c’è una soglia critica al di sotto della quale si innesca una virtuosa autoriduzione del debito perchè diminuisce costantemente lo stok degli interessi, cosa per l’Italia molto importante in una fase, quella di fronte a noi, che inesorabilmente comporterà, dati i tassi di crescita mondiale molto elevati, un rialzo dei tassi di interesse. Sono arrivati i maghi della finanza e questa curva ha ricominciato a risalire, quest’anno verso il 108. Ci hanno lasciato un deficit un po’ sopra al 4% e soprattutto ci hanno lasciato un accrescimento degli assetti corporativi della società italiana, un amento esponenziale del privilegio e delle disuguaglianze che l’illegalità diffusa e persino promossa dai governanti accresce, e ci hanno lasciato una qualità del sistema in arretramento, Università scuola ricerca. Il programma dell’Unione punta a correggere drasticamente, a rimettere in ordine i conti perché non è vero che possiamo trascurare i conti pubblici, rimetterli in ordine e poi fare una politica economica e sociale che si regga su principi di libertà, eguaglianza, conoscenza, sapere, merito. È del tutto evidente che noi dobbiamo porci l’obiettivo, entro la legislatura, di stabilizzare un basso deficit, di tornare ad una tendenza di riduzione significativa del debito, di ricreare un attivo primario significativo, di garantire un tasso sufficiente di crescita (un tasso “sufficiente” di crescita, non è - infatti - necessario che l’Italia e l’Europa crescano al 10% come la Cina, non serve. In paesi che hanno accumulato questo stok di beni e servizi ed hanno una massa di ricchezza storica, una crescita del 2% può consentire a tutti di stare meglio). Questi obiettivi si possono realizzare in un certo tempo, non tutti insieme. Il primo anno è fondamentale ridurre il debito al 3 per cento come chiede l’Europa. La cosa importante nel governo e nella coalizione è che l’orizzonte europeo è condiviso da tutti, dalle forze più centriste fino a Rifondazione, tutti dicono “il vincolo va rispettato”. Non c’è, nonostante gli editoriali dei giornali, una differenza strategica. Siamo partiti da una finanziaria da 35 miliardi di euro, siamo a 30 perché è arrivato un inaspettato gettito fiscale. Come mai sono arrivati questi soldi prima ancora che entrassero in vigore le norme anti evasione ed anti elusione del decreto Visco Bersani? Perché sono cambiate le facce dei governanti. Al governo c’è gente che non è inquisita per evasione fiscale, c’è gente che non fa propaganda a favore degli evasori, qualcuno ha capito il messaggio e sono arrivati un po’ di soldi e abbiamo ridotto da 35 a 30. Ultimamente vedo anche stime degli istituti internazionali che, diversamente da quanto abbiamo scritto nel Dpef, valutano la crescita del nostro paese tra 1,7 e 1,8, quando diremo sulla finanziaria “ok il prezzo è giusto” quando cioè saremo definitivamente in grado di dare le cifre sarà giusto non se sarà scritto 35 o 30 miliardi, ma se saranno scritti i numeri che ci consentono di stare dentro i parametri europei del 3 %. La politica economica si fa con i valori relativi non con quelli assoluti. Se per stare sotto il 3 per cento occorre una Finanziaria da 30 miliardi occorre fare 30, però se qualcuno dice che occorre vedere bene i numeri prima di dare l’ammontare definitivo della manovra non è uno che vuole smontare i conti né è un antirigorista. Dico teniamo il 3 per cento e poi vediamo che finanziaria occorre per centrare questo obiettivo. Sarei stato d’accordo anche sui 35 miliardi se servivano a raggiungere l’obiettivo dei paramenti europei. Parametro europeo che dice sotto il 3 per cento, che significa 2,99 e non 2,8. precisazione non di poco conto perché lo 0,2 per cento di Pil equivale a qualche miliardo di euro. Non ci sono tabù, però, è del tutto evidente che una operazione di questa portata si può fare se è innanzitutto chiara l’ispirazione, il senso di giustizia sociale che ci guida, la battaglia contro le ingiustizie, le spaventose diseguagliaze che si sono affermate, la battaglia contro il lavoro nero. So che non si fa tutto in un anno, ma qualcosa occorre cominciare a farla subito se si vuole essere capiti. Credo anche che la costruzione della finanziaria deve essere una operazione sulla quale, è ovvio, non saranno tutti d’accordo, ma un certo grado di consenso occorre costruirlo. Io mi ricordo ancora il bilancio critico che fece D’Alema dopo la sconfitta del 2001 quando disse “mai più riformismo dall’alto”. Questa affermazione vale anche ora! Bisogna fare le riforme, bisogna risanare i conti pubblici e bisogna far partecipare le persone con le loro rappresentanze e bisogna costruire un consenso. Sento ogni tanto qualche refolo di vento gelido che dice: “ma insomma se facciamo una finanziaria che vede tutti contro allora siamo nel giusto”. Io dubito di questa filosofia politica, meglio fare finanziare con le quali i più siano d’accordo, anche nel condividere i sacrifici che è necessario fare. Quando proprio tutti sono contro capita che i governi cadano. E noi invece vogliamo difendere questo governo, vogliamo che stia in piedi, che faccia cose buone e che duri cinque anni. Bisogna fare delle cose e mandare dei messaggio. Le pensioni, ad esempio, qualche intervento strutturale starà fuori dalla finanziaria, nel senso che ci vuole il tempo sufficiente per discutere, questa è una materia in cui improvvisare è sempre rischioso perché si fanno dei cambiamenti che poi hanno effetti non sui prossimi 12 mesi ma sui prossimi trent’anni. È del tutto evidente che se c’è un rapido aumento della vita media, che non è una disgrazia ma una discreta fortuna, il problema di come si tratta il problema dell’età di pensionamento esiste. Però occorre stare attenti a dire cose improvvisate sulle donne senza considerare come realmente è la vita delle donne. Occorre stare attenti ai lavoratori precoci, stare attenti alla differenza che c’è tra quelli che hanno passato 35 anni all’alto forno e quelli che hanno trascorso 35 anni in un ufficio. Quindi bisogna fare qualcosa ma, come pare stiamo facendo, occorre farlo nei tempi dovuti.

Il lavoro deve tornare al centro

Voglio, però, fare un’altra considerazione di cui desidererei si discutesse di più. È qualche anno che stiamo in politica, che facciamo congressi ed assemblee, che incontriamo le persone, avete notato che se parlate con gli operai, per esempio, nessuno parla più del lavoro che fa, di come è di come potrebbe di come dovrebbe essere? Vi ricordate tanto tempo fa le discussioni sull’organizzazione del lavoro, sui tempi, sul lavoro buono e sull’alienazione del lavoro (ora bisogna sentire il papa per ascoltare parole sulla qualità del lavoro). Ora l’unica domanda che ci viene rivolta è: quando ci mandate in pensione. Non aspettano altra che il momento di lasciarlo quel lavoro perché pensano che qual lavoro non si può più cambiare, perché quei salari così bassi non aumenteranno. Ho dovuto leggere su un rapporto di Mediobanca, non su una ricerca della Cgil, che il capitale si è preso la rivincita sul lavoro e che la ricchezza destinata ai salari è scesa dal 70 al 48 per cento quella riservata agli azionisti è salita dal 2 al 16 per cento. Scrive Mediobanca: “La crescente disuguaglianza in occidente inizia a preoccupare anche la cultura liberale”. È probabile che se il lavoro fosse migliore si resterebbe anche volentieri qualche anno in più. Dovremmo provare a rimpadronirci del tema di che cosa è il lavoro, di come si lavora ben sapendo che non esiste più la fabbrica fordista conosciuta nel secolo scorso, che c’è maggiore flessibilità, che il rapporto tra lavoro manuale e lavoro intellettuale è cambiato. Però dobbiamo riflettere sul fatto che è in corso un processo di impoverimento del lavoro per cui la pensione diventa un’ossessione perché quella cosa che si fa è cattiva. Bisognerebbe fare qualcosa per rendere buona quella cosa che si fa durante la vita prima di andare in pensione.

L’Unione

Ora, penso che alla fine arriveremo ad una proposta sulla finanziaria che sarà condivisibile. Fondamentale è la parte degli investimenti: 14 miliardi di euro. Fondamentale non solo perché non bisogna gelare la piccola ripresa che è in atto ma perché bisogna investire sul futuro. Ovviamente tutto questo ragionamento sta in piedi se il governo dura e il governo dura solo se l’Unione tiene. L’Unione, cioè quella coalizione che va da Clemente Mastella a Oliviero Diliberto ed è insidioso il tentativo diuturno di scavare il fossato tra buoni e cattivi, tra moderati e radicali. Abbiamo una opposizione che non deve essere sottostimanta anche perché quando una coalizione prende quasi la metà del voto degli italiani bisogna trattarla con rispetto, tuttavia lo stato politico del centro destra oggi è la tracheite di Berlusoconi. Ho visto che Casini non gli ha mandato gli auguri di pronta guarigione ma ha ipotizzato che si potrebbe cambiare leader. Insomma, lo stato politico del centro destra è molto confuso e quindi se noi facciamo cose buone possiamo durare per tutta la legislatura. L’alleanza democratica: questa è la scelta fondamentale. Bisogna tenere unita intorno ad un progetto forte questa alleanza plurale. È questa alleanza che rappresenta una maggioranza della società italiana. Amputata delle ali questa alleanza non è più maggioranza nella società. Questa è la verità, l’idea che se si ammucchia di più al centro e si taglia le ali si è più forti è infondata. Questa estate si è sentita qualche chiacchiera di troppo sulla Grosse Coalition, sugli allargamenti della maggioranza. È del tutto evidente che esiste una normale vita parlamentare, se arrivano voti, se ci sono dei consensi su alcune delle scelte fondamentali del governo che vengono anche da esponenti dell’opposizione questa è fisiologia dei parlamenti democratici. Ma noi non potremmo assolutamente condividere un’eventuale – dico eventuale e lo sottolineo tre volte – rimaneggiamento della base politica del centro sinistra. Situazione ricca di promesse e al tempo stesso difficile che richiede di essere governata con intelligenza politica e richiede anche che si cominci ad allevare qualche idea che possa tornare buona tra 5 o 10 anni di struttura del sistema politico italiano, di grandi soggetti collettivo, di partiti, di identità perché questo governo deve far bene. Poi ne verranno degli altri.

Noi, i Ds e la sinistra

Il problema è che cosa lasciamo ai giovani che verranno, in termini di memoria,. Di identità collettiva di strumenti politici. galleggia su questa situazione difficile il ricorrente discorso sul partito democratico. A questo proposito Michele Prospero afferma che il partito democratico è una sorta di partito preterintenzionale che nessuno ha voluto con convinzione ma che tutti si trovano dinanzi come un inevitabile destino. Mi sembra una definizione perfetta. Vorrei rivolgermi a Rutelli e a Fassino, noi non ripercorreremo i passi di tante storie passate e di scelte che separano delle strade e che quando queste si separano le vicende finiscono con un rinfaccio che può durare secoli. Non diremo mai che in questa idea c’è un tradimento, sono ipotesi politiche che vanno discusse con le quali si può concordare o dissentire. Però da qui vorrei rivolgermi a loro per dire: caro Francesco e caro Piero ci credete? Avete questa idea forte, pensate che gli elettori non aspettino altro, pensate che questo partito democratico sia ormai un puer adultus, che sia sotto la pelle della storia di Italia pronto a germogliare? Fatelo! Ma fatelo ora, non lasciate tutta la sinistra e il centro sinistra italiana interminabilmente in mezzo a un guado. Non si può stare sempre in transizione, i partiti che si autodichiarano perennemente in transizione, che dicono noi siamo questi ma saremo un'altra cosa alla fina non vengono più votati. È tutto uno stop and go. Sono passati tre anni e più dalla presentazione della lista unica per le europee, si era detto che era la premessa per una marcia di avvicinamento che avrebbe avuto sicuramente i suoi primi inesorabili sviluppi in sede europea dove era del tutto evidente che le famiglie tradizionali erano anch’esse in transizione verso qualche altra cosa. Invece, in Europa gli eletti nella stessa lista, Ds e Margherita, stanno ben piantati in due gruppi distinti e spesso quando si va alle discussioni di merito, su posizioni opposte. In Italia si sono fatte delle liste, dei gruppi, a macchia di leopardo in qualche città unitari in qualche altra no a seconda che gli stati maggiori si mettono o non si mettono d’accordo. E in Italia non si è fatto un solo passo avanti nella definizione di valori, programma fondamentale, identità, collocazione internazionale. Tutte cose senza le quali i partiti durano poco, sono il batter di ciglia di un breve periodo. Fassino dice che questo partito non nasce ora ma è già un giovinetto di 11 anni perché c’era già nell’Ulivo del 96. A parte amarcord Gargonza, il ragazzino nel frattempo è deperito. Quando nel 96 nacque e si presentò nel maggioritario, l’Ulivo era composto da tutte le forze dell’attuale centro sinistra, esclusa Rifondazione comunista. Infatti la parola d’ordine del congresso di Torino era “Una grande sinistra in un grande Ulivo”. Oggi la prospettiva è che l’Ulivo sia più piccolo di quello di allora e che la sinistra non ci sia più. Nel 96 l’Ulivo si presenta nel maggioritario e conquista il 45% dei consensi, passano 11 anni nell’Ulivo non c’è Mastella, non c’è Di Pietro, non c’è il Prc, non ci sono i Verdi, non c’è lo Sdi e conquista il 31% nel proporzionale. Quella che è restata in campo è l’unificazione tra i Ds e Margherita. Questo è in campo, il resto è fantasia. Voglio dire al mio amico Veltroni che ha scritto un importante articolo per La Repubblica da cui emerge una suggestiva rappresentazione di un partito ideale, molto radicale nei contenuti, molto democratico davvero, molto insediato nel popolo; c’è la cultura, ci sono gli ideali, Willy Brand, Olof Palme, Martin Luter King. Bello. Però in inglese quella cosa lì si chiama wishful thinking cioè scambiare un proprio desiderio che posso anche condividere, per una realtà. La realtà vola meno alto di così: esiste un tentativo di unificazione tra Ds e Margherita che si incontra ovviamente con qualche ostacolo. In Europa c’è il Gruppo socialista e il Partito del socialismo europeo, poi ci sono i Liberal democratici, i Democristiani, i Verdi. Le famiglie europee sono queste. Noi dovremmo dare qualcosa che, siccome mi pare improbabile che poi l’Europa ci copi, ricrei una situazione di eccezionalismo italiano. L’italia dovrebbe ridiventare un’eccezione con un partito che sta un po’ a metà. Fassino ha fatto una missione in Europa per andare a spiegare a Rasmussens e Schulz che cosa intende fare. Non deve essersi spiegato bene, perché Schulz ha detto che questo partito potrebbe essere bello e occasione di allargamento della famiglia socialista e che ci sono appositi moduli per iscriversi al socialismo europeo. Schulz ha capito che si allarga la famiglia socialista. Non mi pare che ci sia una ipotesi di un cambio di nome del Gruppo socialista. Ovviamente non è che il socialismo europeo va bene perché c’è il nome, bisogna vedere come evolve, bisogna portarci dentro nuove culture, tuttavia è una grande soggettività mondiale, è un luogo. Da parte della Margherita la reazione, non solo nei confronti di Schulz, è stata violentissima come accade in genere ogni volta che qualcuno dice che potrebbe stare nella famiglia del socialismo europeo ma Rutelli sostiene che il futuro partito debba avere radici cristiane. Badate non è una idea di accoglienza di culture e di valori, anche nel Pci c’era accoglienza per la cultura e i valori cattolici, c’era Rodano, nei Ds c’è una componente importante di cattolicesimo democratico. Il presidente della Margherita solleva questo tema come questione identitaria, in discussione è l’identità di questo ipotetico partito che deve essere riferita a valori cristiani. E persino Parisi gli ha detto che sarà difficile. Anche perché c’era in Italia un partito che aveva i valori cristiani come identità e aveva anche la parola democratico nel nome, si chiamava democrazia cristiana. Non può essere così. Recentemente Rutelli ha anche detto che questo partito deve avere tra i suoi fondamenti l’idea del limite della scienza e della ricerca. Problema serio perché è evidente che quando la scienza e la ricerca attingono le alte energie, pensate alla questione del nucleare, o entrano nel meccanismo della vita il problema dei protocolli di garanzia e di limitazione è un problema serio. Ma due cose, primo: la principale regolazione della scienza è dentro la scienza e la comunità scientifica ed è data da due principi moderni postgalileiani, quello della “pubblicità dei risultati” e quello della” falsificabilità dei risultati”. E poi prima ancora di parlare di limiti vorrei che ci fosse un investimento di fiducia verso il sapere, la conoscenza, la scienza che è la carta fondamentale dell’umanità. Io penso che qui noi stamani dobbiamo dire ai nostri compagni e amici, a cui continueremo comunque a volere bene, che la posizione della sinistra Ds non cambia: noi siamo contrari alla costituzione del partito democratico. C’è chi si stupisce, un interlocutore l’altro giorno a Milano mi ha detto che se noi non ci stiamo il fatto che questo sia un partito moderato è una profezia che si autoavvera, se non ci siamo noi è evidente che è meno di sinistra. È la prima volta che si affida la chance di nascita di un partito a quelli che sono contrari. Sono un po’ stupito per lo stupore verso la nostra posizione. Si pensa che in un paese come l’Italia possano sparire persino dal lessico politico le parole “sinistra” e “socialismo” senza che succeda niente? si fa leva sull’insoddisfazione verso i partiti esistenti per affermare un nuovo che verrà. Questa insoddisfazione la condividiamo, però io non vorrei che si parlasse del partito che verrà per non parlare di quelli che ci sono già. Parlando anche del nostro che, nonostante tutto, continua ancora ad essere un partito: le feste de l’Unità, i volontari, che mobilita forze ma è sempre più volatile la democrazia interna e rapsodico l’esercizio della funzione dirigente. È successo di tutto questa estate, il Libano, la finanziaria, sempre più debole la capacità di questi partiti politici di esercitare una funzione egemonica cioè attiva ed efficace sul sistema delle idee, sulla formazione della coscienza e della memoria, sull’immaginario collettivo. Se non servono a questo i partiti alla fine diventano il luogo dove si fanno le liste per le elezioni. Sempre più incerta la rappresentanza sociale. In questi mesi mi ha colpito il rapporto tra governo e categorie è l’impatto immediato dell’azione di governo con l’interesse di categoria. Sempre più deboli le mediazioni politiche e intellettuali. La debolezza dei partiti da questo punto di vista esalta quello che Gramsci chiamava l’economico corporativo. Ma l’economico corporativo non soddisfa l’anima e allora l’anima si riempi di pregiudizi, di luoghi comuni, di ideologie, di fanatismi, di suggestioni magiche, in assenza di altre si raccattano per strada identità improvvisate. Pensate alla funzione identitaria presso larghe fasce di giovani del tifo sportivo. O si va alla radice della crisi dei partiti o si va ad una somma di crisi non a una soluzione. Crisi, difficoltà che gli stati maggiori pensano di dominare accentuando il comando e in rapporto diretto con il popolo, anche nella variante chiamate società civile. La società civile tecnicamente non esiste, non è una fetta della società. La società civile è un modo di funzionamento, quando si partecipa ad una assemblea politica si è mud società politica, quando si fa un contratto si è nel mud di funzionamento società economica, quando si da liberamente la propria attività ad una associazione sportiva, ad una ong ecc. si è nella società civile.

Cosa diciamo oggi quando diciamo socialismo?

Questa estate, poi, abbiamo anche assistito ad un dibattito nel quel alcuni hanno affermato che il socialismo è un cane morto, altri hanno detto che non è un cane morto ma un bagaglio a mano che ognuno si porta dove va. No, non è così. Un’idea socialista, un’idea di sinistra è una idea che rappresenta una identità collettiva non è un patrimonio che si sposta. Allora il tema è se un’idea socialista non serva più al mondo, un mondo che è niente affatto come si pensava deideologizzato e pragmatico. Siamo in pieno boom delle ideologie, da quelle di stampo religioso a tutte le altre persino a quelle costruite a tavolino come quella neo e teo con che ha tentato di imporre al mondo grazie a Bush, un suo modello. Ci sono ideologie che si diffondono per esigenze identitarie e quelle costruite a tavolino su base industriale ma non è affatto vero che il mondo sta derivando verso la pura prassi. Allora il problema è se, dentro questo mondo gremito di ideologie, se una idea socialista non abbia cittadinanza. Io penso che gli eventi stiano riaprendo questa partita. Bisogna stare attenti a vendere la pelle dell’orso troppo presto perché è del tutto evidente che noi non siamo capaci di immaginare una economia che non sia di mercato e tuttavia l’enorme crescita delle dieseguaglianze rilancia il ruolo della politica, dei governi, dello stato, della mano pubblica. Dai problemi della distribuzione del cibo, dell’acqua dei medicinali, dell’informazione fino a quelli della distribuzione del reddito. La rivoluzione demografica che è in corso per la quale tra una ventina di anni il mondo sarà di 9 miliardi di perone, poi si stabilizzerà, che saranno concentrati in 11 nazioni, tra cui alcune tra le meno sospettabili, e nelle città, saranno tutti più vecchi e tenderanno a invecchiare mediamente sempre di più. Cosa significa questo in termini di politica sanitaria, dei trasporti, delle comunicazioni e delle relative politiche pubbliche su scala nazionale e globale. Che cosa vuol dire in un mondo di questa complessità difendere e sviluppare il principio democratico e di libertà. In un mondo in cui lo sviluppo enorme della società della informazione e della tecnologia apre enorme possibilità di libertà ma spaventose possibilità di dominazione e di controllo. Che cosa vuol dire al bivio tra la strada zero e la strada uno imboccare quella della libertà e non quella della manipolazione e del controllo. Che cosa vuol dire in un mondo in cui noi certo oggi siamo premuti da qualche centinaia di migliaia di disperati l’anno che voglio sbarcare a Lampedusa ma nel mondo che verrà l’emigrazione non solo dai paesi poveri verso quelli ricchi, ma dall’intellighentia degli attuali paesi ricchi verso le nuove capitali del sapere, la Cina l’Idia. Previsione: tra venti anni il 90% di tutti tecnici, gli ingegneri, i laureati sarà sulla sponda del Pacifico asiatico. Che cosa vuol dire la questione del lavoro. quando Marx diceva “proletari di tutto il mondo unitevi” i proletari erano un po’ in Prussica, nell’Inghilterra delle prime macchine, qualcosa in Francia e Russia ma non c’è ne era mica. Siamo in una fase esplosiva della diffusione del lavoro dipendente su scala mondiale, dell’uscita dall’agricoltura verso i servizi e l’industria. Che cosa sarà il lavoro nel mondo che viene? Non è vero che ormai è una specie di appendice del capitale perché anche quelli che non vengono pagati niente anche loro, primo o poi, nel loro piccolo si incazzano. È recente la notizia che anche in Cina hanno deciso di aumentare del 20% secco i salari anche perché pare che, si sa poco, ma ci sia una conflittualità sociale arrivata alle stelle. Qualcuno pensa che si possa fare dei partiti che prescindono dal rappresentare il lavoro in un mondo così? Secondo me è proprio un errore di analisi, non è un errore di concetto. Ovviamente sapendo che nel lavoro c’è il licenziato, il ricercatore, sempre più una componente di lavoro intellettuale. Aimè non in Italia dove abbiamo tante eccellenze ma in termini qualitativi siamo fermi al palo. Siamo nel secolo che vede finire il petrolio. In Italia in questi anni c’è stato un solo documento politico centrato sul fatto che abbiamo di fronte la gigantesca impresa di andare oltre la civiltà del petrolio: la nostra mozione all’ultimo congresso dei Ds, la Tesi principiale si chiama “Oltre la civiltà del petrolio”. Questa è la questione che in tutte le sedi internazionali ormai occupa tre quarti di tutte le conversazioni tra governi, esponenti politici, tecnologi, scienziati. Si parla di questo. Ovviamente non si può finire il petrolio avendo cambiato la composizione biochimica del pianeta perché a quel punto finiamo l’olio e abbiamo finito anche l’aria. Siamo di fronte ad una impresa gigantesca cioè quella di un salto tecnologico che deve avvenire non in 1000 anni ma in 20. e questo comporta che si ciano politiche di programmazione fortissima. Uno dei maggiori tecnologi del mondo, Goldstain, che è il vice presidente della Calt ha scritto un libro in cui dice che abbiamo pochissimo tempo ci vuole una cosa tipo “Progetto Manatthan” (era quello che servì per fare la bomba atomica). Sostiene che bisogna fare altrettanto per disinnescare la bomba ambientale determinata dalla fine del petrolio e conseguenti cambiamenti climatici. Queste cose qui non le fa il mercato. Il mercato va a cercare l’ultimo pozzo per estrarre l’ultima goccia da vendere all’ultima compagnia petrolifera. Ci vogliono grandi politiche e programmazione. Regolare, governare, programmare…mi pare che quel che sta succedendo mostri che l’illusione liberista è agli sgoccioli. E ritorna fortissimamente l’esigenza di un principio regolativo che non è più quello sovietico, è un’altra cosa molto più evoluta. Un principio regolativo che richiede una Sinistra. Moderna, modernissima, capace di muoversi sulle frontiere lungo le quali le sfide vere si muovono. Temo che l’idea di una sinistra più di centro che fu rappresentata qui al Congresso di Pesaro 5 anni fa, idea contenuta nell’ipotesi del partito democratico sia stata un po’ affrettata, a dato per chiusa una partita storica che si sta riaprendo. Cioè la possibilità di una società in cui l’economia è di mercato, la libertà degli individui è una opzione fondamentale, tuttavia di una società che non si esaurisce nei due poli dell’individuo e del mercato perché di mezzo c’è il governo, la politica, la regolazione, le regole ecc. cioè quel grumo di idee che hanno esattamente un origine nella storia e nella tradizione socialista. Non possono, certo, essere applicate ad una immaginazione di una società che non c’è più ma che se si cancellano si vede una società che non c’è.

Cosa facciamo noi: il manifesto, la fondazione

Non è un problema di dettagli, siamo di fronte a delle opzioni di fondo, comportano scelte nelle quali uno impegna una vita. O c’è una risposta a cose di questa altezza o di che cosa parliamo? Abbiamo chiesto un congresso. All’ultimo Consiglio nazionale ci è stato detto che non si può indire un congresso prima che esista una proposta precisa. Spero che prima o poi che questa proposta ci sia. Supporrei perfino che uno che dice che bisogna fare un nuovo partito quella proposta ce la abbia già. Questa proposta, caro Piero, o c’è o temo che non risarà più. Quindi venga questa proposta e al Consiglio nazionale di autunno deve essere convocato il congresso. Sconsigliere l’azzardo di rallentare, rallentare, rallentare e arrivare al 2009 alla vigilia delle prossime elezioni europee e a quel punto colpo secco prendere o lasciare e la cosa è fatta. È da escludere. Il congresso ci vuole nella primavera del 2007 perché questo partito almeno deve potere discute non sulla base delle interviste di stampa ma sulla base di piattaforme. Io penso che fin da ora noi si possa mettere in campo una ipotesi diversa. Si deve lavorare ad un progetto per una sinistra nuova, per una sinistra. Un progetto che si rivolga a tutta la sinistra italiana, dentro e fuori i partiti, perché le divisioni della sinistra italiana sono state in tutti questi anni un bel fattore di instabilità e di crisi. Quello prima di tutto. E ho anche l’impressione che la cooperazione di governo che coinvolge anche partiti della sinistra che in passato hanno fatto saltare governi di centro sinistra e che sono stati all’opposizione di governi di centro sinistra, che l’esistenza dell’Unione e la cooperazione di governo possa campare anzi stia già cambiando le condizioni politiche. Per questo io, in conclusione, propongo due cose sulle quali, per altro, esiste un lavoro che è già abbastanza avanti e che quindi oggi vi informo dello stato di avanzamento ma presto potremo riunirci per discutere carte in mano sui progetti. Una Fondazione politico culturale che sia una agenzia di raccolta di forze, di promozione di iniziative, di discussione pubblica, di confronto su valori principi programmi. Secondo, un Manifesto per la sinistra italiana, un grande documento politico. Abbiamo già fatto un incontro con un gruppo di intellettuali importanti che ci stanno dando un contributo di idee. Credo che questo manifesto possa essere un testo attorno al quale sviluppare l’iniziativa per aprire una prospettiva politica nuova.

Quello che preferiremmo, ovviamente, è che il cammino verso il partito democratico si interrompa per coltivare l’unità dell’Unione, per sostenere il governo e per reimmaginare i Ds come di nuovo promotori di una rinnovata idea di una sinistra più forte, più larga, più aderente alle questioni che il mondo moderno ci sta ponendo. Se si prosegue su quella strada è evidente che la Sinistra Ds, quest’Area del partito, si farà carico di riorganizzare una rete di relazioni, di promuovere una iniziativa politica che guardi non solo ad un futuro vicino ma anche ad un futuro più lontano. Non si può dire che non abbiamo parlato fin qui lealmente e chiaramente, ora è il momento di fermare lo stop and go e in un senso o nell’altro è il momento di decidere. A questo spingiamo tutti perché tutti debbono, ora, assumersi una responsabilità.


Fabio Mussi - Introduzione, Pesaro 9 settembre 2006

(Il testo non è stato rivisto dall’autore e vi preghiamo pertanto di scusare alcuni eventuali errori di trascrizione. Tra qualche giorno sarà pronto un opuscolo più preciso)


l'Unità 15.9.06
Sull’Ungheria aveva ragione Nenni. Ma poi il Psi ha perso l’anima
di Gianfranco Pasquino


IL LIBRO Valdo Spini ripercorre 30 anni di storia socialista. Da Craxi alla crisi degli anni 90 fino all’attuale riabilitazione delle ragioni storiche della socialdemocrazia

La migliore delle riabilitazioni possibili dei socialisti, se ce ne è davvero bisogno, è venuta da Giorgio Napolitano. Con riferimento alla rivoluzione ungherese del 1956, il Presidente della Repubblica ha affermato chiaramente che Pietro Nenni e, aggiungo io, con lui tre quarti dei socialisti avevano ragione! Non c’è dubbio che quell’evento segna lo spartiacque per le differenze di pensiero politico fra socialisti e comunisti italiani, ma anche un deleterio allontanamento durato cinquant’anni. Tuttavia, poiché non cambiava il pensiero politico dei comunisti, nessun riavvicinamento era possibile. L’errore di Craxi fu di speculare in maniera del tutto egoistica, a fini di vantaggi personali e partitici, con i primi assolutamente prevalenti, proprio sull’impresentabilità, nazionale non meno che internazionale, del Pci, di Berlinguer, di Natta e, persino, di Occhetto, come alleato di governo. Insomma, invece di obbligare il Pci a riformarsi e ad imparare, prima ancora di accettare, la lezione socialdemocratica (incidentalmente, c’è ancora moltissimo da imparare), Craxi pensò di isolarlo con una strategia costosissima, anche per l’anima socialista.
Personalmente e politicamente, Valdo Spini non deve cercare nessuna riabilitazione, ma, probabilmente, la sua appassionata spiegazione di come i socialisti persero l’anima e il partito (non saprei in quale sequenza) non è del tutto adeguata per quel che riguarda le pratiche politiche del Psi. A sua volta, infatti, neppure il Psi fu mai del tutto coerentemente e concretamente socialdemocratico. Eppure, sarebbe stato sufficiente guardare a come, qualche anno prima dell’avvento di Craxi, la variegata galassia socialista-radicale francese era riuscita a darsi una visione mitterrandiana e a dotarsi di un veicolo partitico in grado di obbligare il Pcf ad accettare, a fatica, a malincuore, in maniera balorda, le esigenti condizioni di François Mitterrand. Né prima né dopo Craxi, il Psi italiano avrebbe mai tentato di creare condizioni simili a quelle sfruttate dai socialisti francesi. La «Grande Riforma» alla quale Spini dedica, da convinto riformatore elettorale e istituzionale, una opportuna riflessione, non fu mai una strategia precisa.
Fu soltanto una sfida, talvolta meritoria talvolta provocatoria, a quel fior fiore di conservatorissimi istituzionali che hanno popolato Dc e Pci e hanno tratto enormi vantaggi dalle loro rendite di posizione.
È una storia di dirigenti socialisti quella che Spini tratteggia da testimone e da protagonista. È una storia di divisioni personalistiche e correntizie che non poteva portare a nessun risultato duraturo. La politica, soprattutto quella riformista, si fa creando organizzazioni e intessendo rapporti. Non con la lotta fra correnti per un bottino elettorale che non si rimpingua, ma con un’attività, anche costruita dalle correnti, ma rivolta all’esterno, in battaglie politiche senza quartiere. Passato dall’essere un partito di correnti, con almeno qualche seria differenziazione ideologica, all’essere il partito di un capo che di ideologia non ne voleva neppure sentire parlare (e ne sacrificava un bel pezzo al Concordato), il Psi fu, in definitiva, sempre subalterno e non perché scomunicato, ma perché incapace di comunicare il suo riformismo persino nel punto più alto di elaborazione.
A mio parere, insieme al Progetto Socialista (se ricordo correttamente, «Per l’Alternativa») del 1978 (enorme foglia di fico per un percorso molto diverso che Craxi avrebbe subito imboccato) e alle idee esposte in Mondoperaio di quegli stessi anni (prima della normalizzazione), il discorso di Claudio Martelli sui meriti e sui bisogni al Convegno di Rimini del 1982 costituì effettivamente un punto molto alto, ma alla ottima predica nessuno fece seguire un adeguato razzolare per uscire dalla inquinante gora del pentapartito. Sul futuro, Spini sembra ottimista, ovviamente, non sulla ricomparsa di un partito socialista, ma quantomeno di un partito (quasi) nuovo che produca politiche socialiste.
Purtroppo, l’appello ai compagni «riabilitati» non cade in un momento di effervescenza politica e culturale, mentre la Terza Via si è già, meritatamente, impantanata e afflosciata. Apprezzo la speranza di Spini; non ne condivido l’ottimismo; temo che qualcuno dovrà un giorno, meglio se non troppo lontano, «riabilitare» coloro che dicono, scrivono e, nella misura del possibile, tentano di costruire un partito Riformista (che non è il sedicente Partito democratico) all’altezza delle vecchie e delle nuove sfide.

Il Giornale 15.9.06
INGRAO Il comunista sempre pronto a stupirsi
di Lodovico Festa


In Volevo la luna (Einaudi, 2006, pagine 371, euro 18,5) Pietro Ingrao racconta con sincerità la sua vita di antico dirigente del Pci. Convincenti le ricostruzioni degli affetti famigliari e amicali: ne emerge il profilo di una persona ricca di umanità che ha condotto un'esistenza piena, calda, invidiabile. Il libro è percorso da una diffusa autoironia - delizioso il racconto dell'episodio in cui Ingrao mette (per così dire) le mani addosso alla sua futura moglie, coinvolta con lui in attività antifasciste clandestine, e ne riceve un sonoro ceffone - e aiuta a comprendere non solo il singolo protagonista ma una parte della storia d'Italia. Quelli che oggi parlano tanto di cultura moderata, liberale, conservatrice dovrebbero leggersi i passi dove si descrive come un figlio della borghesia meridionale, liberale, diventi comunista perché i «rossi» sono gli unici impegnati a dare un senso ai giovani che si stanno formando una personalità e non sopportano il conformismo fascista. Tante biografie di dirigenti «borghesi» del Pci raccontano la stessa storia.
A cominciare da quella di Giorgio Amendola (Una scelta di vita), figlio del maggiore esponente liberale del Novecento, Giovanni. Scriveva Amendola dei suoi anni giovanili: «C'erano solo loro, i comunisti, che si davano da fare».
Curiosa è, poi, la scrittura del libro: curata, impreziosita di arcaismi. Uno stile che non è certo quello di tanti politici-romanzettieri che si esibiscono di questi tempi. Solo quando la lingua ricercata d'Ingrao si incontra con la politica, diventa fastidiosa:
l'analisi politica richiede concretezza e sobrietà, che l'enfasi ingraiana non consente. Proprio da squarci di scrittura di questo tipo s'intravede un tratto della personalità dell'autore. Un approccio alla politica più estetico, più attento alla rotondità della frase e, in qualche modo, alla bellezza del gesto che alla razionalità della scelta.
E proprio questo carattere letterario della sua vocazione politica rende convincente la descrizione «tutto stupore» (sia pure senza ferocia) della sua «carriera» nel Pci. Mao Tse Tung voleva la guerra? Palmiro Togliatti aveva un legame di ferro con l'Unione sovietica? Nel Pci vigeva una disciplina con tratti militari? Di stupore in stupore, Ingrao ci accompagna nel suo viaggio nel Pci dal '45 al '53, anno della morte di Stalin, al '56 (l'anno del XX congresso del Pcus e dell'invasione sovietica dell'Ungheria) e poi nel centrosinistra del '62, nell'XI congresso del '66, nel '68 e così via. La cifra del commento è sempre la stessa: «mi stupii», «non capii», «non volli rompere»; «piegammo la testa». Non è ipocrisia: è la storia di tanti intellettuali, divenuti poi militanti, affascinati da un mito (dalle continue reincarnazioni: la Rivoluzione d'Ottobre, la Costruzione del socialismo, poi la Spagna, Stalingrado, il Vietnam) e che a questo mito sacrificano ogni lettura rigorosamente critica della realtà.
Andrebbe posto qualche limite a questi «stupori»: per esempio l'autocritica ingraiana sul suo voto per l'espulsione dei suoi amici più cari dal Pci nel '69, non è accompagnata da un'analisi seria su quella che era la sua vera influenza nel partito.
C'erano «gli espulsi». Ma c'era anche Aldo Tortorella che presto diverrà il numero due del Pci e, dopo essersi distinto da Ingrao, tornerà a raccordarsi con il vecchio maestro. C'era Achille Occhetto che negli anni Ottanta diventerà segretario. Bruno Trentin alla Fiom che poi diverrà segretario della Cgil. Senza questa dimensione di potere non si capisce perché Ingrao abbia avallato la decapitazione di una parte dei suoi. E va spiegato perché lui stesso manterrà così tanto peso politico, nonostante i suoi lamenti, da diventare in pieni anni Settanta presidente della Camera.
Dentro il citato «mito» del comunismo non c'erano naturalmente solo gli «stupori», ma anche il realismo di tipi come Palmiro Togliatti che, pur ideologicamente orientati, agivano a occhi aperti, avendo coscienza dei movimenti materiali e concreti della storia, mentre quelli come Ingrao pensavano come dietro e oltre i fatti ci fosse un mondo che solo loro vedevano. E quando sbattevano la faccia contro la realtà, si «stupivano».
Per chi ha combattuto il comunismo appaiono senza dubbio più pericolosi i realisti alla Togliatti che i sognatori all'Ingrao.
Il capo del Pci nel Secondo dopoguerra ha svolto un'opera complessa con esiti sicuramente non solo negativi. Se, però, l'Italia non ha oggi una socialdemocrazia decente come nel resto d'Europa, se il nostro sistema politico vive crisi ricorrenti, ciò è dovuto anche alla genialità di Togliatti che ha consentito a una forza politica orientata da un'ideologia obsoleta e legata a una Mosca antagonista dell'Occidente, di sopravvivere come forza centrale della Repubblica per cinquant'anni dopo la fine della guerra.
Ora, però, finita la storia del comunismo come movimento storico universale, qualche attenzione andrebbe rivolta ai «sognatori», partendo anche da testi come Volevo la luna. Il fatto, per esempio, che la grande stampa di quella che Ingrao chiama «la borghesia mondiale» (quella che trama «contro le lotte della Fiat costituendo la Trilaterale») accolga con tanta simpatia un testo ricco di spirito che l'autore considera ancora rivoluzionario, non segnala solo la positiva laicizzazione e apertura del giornalismo italiano.
In piccolissima parte indica la persistenza, minore e sfumata, di quello che venne chiamato il sovversivismo delle classi dominanti italiane: quell'orientamento che fa preferire, fino a invitare a votarlo, Fausto Bertinotti a Massimo D'Alema, perché il primo - si è sicuri - mai interverrà sui circuiti del potere materiale. Si trascura così l'impegno concreto e razionale, si preferisce la confusione ai fastidi che possono derivare ai propri equilibri di potere. Un piccolo, moderato esempio di sovversivismo dall'alto.
Ma le tesi che Ingrao enuncia anche in Volevo la luna sia pure inconcludenti nel preparare la via alla mitica rivoluzione, non sono ininfluenti nel determinare fenomeni sociali nocivi. Quando Ingrao esalta le lotte studentesche del 1968 come grande occasione di caduta delle discriminazioni di classe dice l'esatto contrario della verità: il continuo degrado prodotto dalla stagione sessantottesca ha irrigidito i meccanismi di selezione classista, oggi forse più forti di quello del predecedente elitario sistema scolastico-universitario.
Quando esalta il «consiliarismo» uscito dalle lotte operaie del 1969, prende lucciole per lanterne, scambiando un difficile processo di adeguamento delle lotte sindacali alle condizioni dei lavoratori, per una nuova presunta soggettività politica della classe operaia: è un errore di analisi che diventa indirizzo sbagliato di grandi categorie sindacali come quella dei metalmeccanici della Fiom Cgil, con gravi guasti per lavoratori e industria italiana. Le teorizzazioni di Volevo la luna sulla messa «in movimento del Terzo mondo» (con strabiliante condanna delle liberalizzazioni economiche della Cina) alla fine pesano nel determinare il carattere ubriaco della politica estera del centrosinistra, quel cammino sbilenco per cui a ogni mossa indovinata si accompagna una sciocchezza fatta o almeno pronunciata.
Proprio perché contiene molte parti piacevoli, perché è percorso da un caldo senso di umanità, anche chi ha altri punti di vista politici deve prendere sul serio un libro come Volevo la luna e contrastarne alcune tesi che per essere confuse non sono per questo motivo meno dannose.

il manifesto 15.9.06
La dea ragione di Benedetto Ratzinger
di Ida Dominijanni


Hanno un bel dichiarare Federico Lombardi, direttore di radio vaticana, e Ludwig Ring-Eifel, direttore dell'agenzia cattolica tedesca, che il viaggio di Benedetto XVI in Baviera è stato un grande successo politico, culturale e mediatico spendibile tanto sul fronte dell'identità europea quanto su quello del dialogo con l'islam. Ma intanto il mondo musulmano è in rivolta per i suoi giudizi sull'islam e su Maometto. Ed è davvero un'ironia della storia che il gran muftì Alì Bardakoglu lanci un alt alla visita del papa XVI in Turchia dalla stessa città, Ankara, in cui in cui nel 1391 l'imperatore Manuele II Paleologo avrebbe pronunciato quelle sentenze sulla violenza di Maometto e sulla ragione del Dio cristiano su cui Ratzinger ha costruito il suo messaggio ai colti e agli incliti di Baviera e del mondo.
Quanto all'altro fronte, quello dell'identità europea, il bilancio del viaggio papale dovrebbe tenere presente che l'Europa non coincide con la Germania né tantomeno con la Baviera; e che se il messaggio teologico-filosofico del papa-professore bene si inserisce, garantisce chi ne sa, nel suo contesto accademico di provenienza, nonché nel contesto sociale del più tradizionalista fra i laender tedeschi, non altrettanto gradito e calzante si può presumere che suoni in altri contesti culturali e politici di cui pure l'Europa è fatta. Ciò non toglie che vada preso sul serio, e seriamente contrastato, per la sua valenza di manifesto politico e per il nocciolo filosofico che ne sostiene gli argomenti teologici.
Nella buona sostanza, al fondo della lunga dissertazione contro le tendenze di de-ellenizzazione del cristianesimo presenti nella storia della teologia dal tardo medioevo a oggi ci sono, nel discorso del papa-professore, due obiettivi, uno politico l'altro filosofico. L'obiettivo politico è l'affermazione delle radici greco-cristiane dell'Europa. L'obiettivo filosofico è la riabilitazione della ragione, o meglio del logos occidentale, come ragione superiore (e universale), a patto di «depurarla» dalle sue deviazioni scientiste, positiviste, soggettiviste degli ultimi tre secoli. I due obiettivi si tengono grazie alla cerniera teologica, secondo cui il Dio cristiano è ragione e parla la lingua della ragione (mentre il Dio musulmano è trascendenza svincolata dalla parola, e Maometto è un irragionevole profeta della violenza). E solo una lettura di superficie potrebbe cogliere Ratzinger due volte in flagranza di contraddizione: nei confronti dei suoi ripetuti attacchi all'illuminismo, e nei confronti della sua recente sottolineatura, sempre in Baviera, dell'istanza spirituale dell'islam contrapposta alla perdita del sacro nella vita occidentale. Letto con attenzione, il ragionamento quadra, sia pur tortuosamente, perchè il dio-ragione cui guarda il papa non è la ragione illuministica staccata dalla fede e diffidente della Verità bensì una ragione fondata nella fede e nella verità, e dunque aperta a quell'istanza spirituale che gli islamici, a differenza dei cristiani di oggi, non dimenticano, ma che nell'islam si scinde dalla ragione e prende la deriva della violenza. Con il che il cerchio si chiude; ma si chiude male.
Appellandosi al prologo del Vangelo di Giovanni «In principio era il logos», e precisando che «logos significa insieme ragione e parola», il professor Ratzinger sembra dimenticare che la parola e la ragione da molto tempo, e per fortuna, non coincidono nel pensiero occidentale: il tornante novecentesco che ha decretato la crisi della razionalità classica - e nel quale Ratzinger suole vedere un approssimativo demonio fatto di relativismo, irrazionalismo, decostruzionismo, soggettivismo, scientismo - ha separato le infinite possibilità della parola (o del simbolico che dir si voglia) dalla tragica onnipotenza della ragione. Non si è trattato, notoriamente, di un gioco accademico, ma di un processo storico, in cui il logos occidentale è stato messo sotto accusa da fatti enormi, dal nazismo (dimenticato nella visita in Baviera) al colonialismo fino allo stesso scontro di civiltà di oggi, sul quale sarebbe davvero arduo tentare di ripristinare una qualche sovranità della ragione.
Infatti non è ad essa in fondo che si appella Ratzinger, ma alla forza dell'identità, presupponendo che ci possa essere dialogo fra culture e religioni diverse solo se ciascuna si rafforza nella propria identità e nelle proprie radici. Cioè chiudendosi nella propria maschera di potenza, invece che aprendola all'interrogazione dell'altro. Il nocciolo reazionario della proposta papale sta qui, e c'è solo da sperare che l'Europa non ne resti sedotta.

l'Unità 15.9.06
I filosofi sul confine tra uomo e animale
Oggi, domani e domenica a Modena il Festival di Filosofia. Il tema è «Umanità»
di Roberto Serio


È «UMANITÀ» il tema dell'edizione 2006, la sesta, del Festival Filosofia: 180 eventi (tra cui 38 lezioni magistrali di grandi pensatori e 31 mostre) in 36 luoghi di Modena, Carpi e Sassuolo, da oggi a domenica. Nel 2005 oltre 100mila visitatori hanno affollato i
teatri e le piazze rispondendo positivamente alla caratteristica di cui gli organizzatori vanno più fieri: il coinvolgimento totale del territorio e il contatto tra partecipanti e relatori. Da oggi, tempo permettendo (ma già sono pronti spazi coperti fino a 2mila posti per le iniziative), il grande evento culturale modenese ha tutte le carte in regola per ripetersi, con grandi nomi, spettacoli, artisti di rilievo. Senza dire del grande interesse per il tema indagato, che spazia dal rapporto fra uomo e altri viventi, fino al post-umano che si prefigura in robot e cyborg.
«Condividiamo con le scimmie il 99 per cento del patrimonio genetico e ci chiediamo se l'umano si fonda sul restante uno per cento - spiegano dal comitato organizzatore guidato da Roberto Franchini e Michelina Borsari della Fondazione San Carlo, con Remo Bodei -. Siamo disposti ad attribuire sentimenti ai nostri amici a quattro zampe invocando diritti per gli animali, ma la mucca pazza e l'epidemia aviaria ci inquietano con il rischio della contaminazione tra le specie. A una rivoluzione filosofica in corso, a un antico confine sempre più fragile - quello tra uomo e animale - e ad un nuova e problematica frontiera - quella tra uomo "naturale" e uomo "artificiale" - saranno dedicate le lezioni magistrali del sesto Festival filosofia sull'umanità».
In altre parole, se l'uomo non si considera più al centro della natura, come immaginare il suo rapporto con gli altri viventi? È a questo interrogativo che cercheranno una risposta grandi maestri del pensiero contemporaneo come gli italiani Marramao, Melchiorre e Natoli, Muraro, Severino, padre Bianchi, e gli stranieri Descola, Latour, Todorov, Sahlins, Balibar, Stiegler e Wulf. Insieme ai filosofi, anche antropologi, scienziati, artisti, musicisti, attori.
Ritornano i menù filosofici di Tullio Gregory nei ristoranti, i treni, le iniziative per bambini, film, giochi. Sul fronte del post-umano arriva stasera alle 21 a Sassuolo il mago degli effetti speciali Rambaldi a mostrare tutti i segreti di E.T., mentre a Carpi saranno costruiti in piazza due enormi mutoidi con materiali di riciclo. E domani torna "Tiratardi", la notte bianca filosofica: con Carlo Lucarelli che parla di vampiri. Ivano Marescotti che racconta un antico trattato di fisiognomica. Flavio Oreglio impegnato su Darwin, il poeta americano John Giorno, amico di Andy Warhol, alle prese con originali performance, e visite alle mostre condotte dal filosofo Ermanno Bencivenga e dall'antropologo Franco La Cecla. Il programma è in internet: www.festivalfilosofia.it

<Avanti 14,9,06
“L'arte di essere felici" di Arthur Schopenhauer recentemente pubblicata da Adelphi

L’ottimismo di un filosofo pessimista
di Franca Bartolini


Dopo “L’arte di conoscere se stessi”, l’editore Adelphi pubblica, sempre di Arthur Schopenhauer, “L’arte di essere felici” (Piccola Biblioteca, gennaio 2006, a cura di Franco Volpi e con la traduzione di Giovanni Gurisatti). Nello sterminato fascio di carte che costituisce gli scritti inediti di Schopenhauer, si cela un abbozzo di eudemonologia o eudemonica (dottrina della felicità): il filosofo di Danzica, nel suo periodo berlinese, raccolse una serie di appunti sull’argomento, cioè 50 massime, o regole di vita, che insegnano a vivere felici. L’edizione dell’Adelphi è una ricostruzione di questo materiale sparso e si basa essenzialmente sul testo degli scritti postumi stabilito da Arthur Hubscher e già pubblicato a Francoforte fra il 1966 e il 1975. Sembra un paradosso che il maestro del pessimismo ci parli della felicità e infatti più che indicarci le vie per conquistarla, Schopenhauer ci spiega come vivere meno infelici possibile. L’eudemonica si divide in due parti: massime per il nostro comportamento verso noi stessi e massime per il nostro comportamento verso gli altri. La prima regola indicata nel libro è non cercare la felicità, che è illusoria, ma piuttosto sfuggire i dolori, che sono evidenti e reali; è anche importante evitare l’invidia, cioè non tormentarsi perché qualcuno è più felice di noi. Già nella terza regola, viene però proposto il tema fondamentale dell’opera: essere felici dipende soprattutto dalla conoscenza di sè stessi. La scontentezza di ciò che siamo ci rende infelici: spesso desideriamo troppo, oppure vogliamo ciò che il nostro carattere non ci farà mai ottenere. Chi conosce le proprie reali forze e le sue buone qualità, ma anche i suoi limiti e le sue debolezze, non pretende ciò che gli è impossibile e non è vittima delle conseguenti delusioni. In ogni individuo - prosegue Schopenhauer - la quantità di dolore a lui essenziale è stabilita dalla sua natura; gioia e malinconia sono quindi determinate più dalla nostra interiorità, che non dalle circostanze esterne, come dimostra il fatto che ci sono altrettante persone liete tra i poveri come tra i ricchi. La pazienza, la calma, la moderazione e la riflessione sono doti che aiutano a vivere bene. Non bisogna autopunirsi per gli errori del passato ed essere ottimisti circa il futuro; quello che conta veramente è il presente. Tenere a freno la fantasia evita di prefigurarsi dei mali futuri; la fantasia è ingannevole, i concetti invece sono chiari e affidabili, per cui è bene agire secondo ragione. Quanto ai nostri rapporti con gli altri, secondo il filosofo, bisogna limitare la propria cerchia di amicizie e parlare poco con gli altri, perché quando si confida qualcosa a qualcuno, presto la notizia diventerà di pubblico dominio. Nelle varie età della vita i nostri problemi cambiano: da giovani cerchiamo la felicità, convinti che esista, e quindi subiamo le frustrazioni; nella seconda metà della vita cerchiamo la quiete e la maggiore assenza di dolori e questo stato è notevolmente migliore. Non è vero che la vecchiaia è un’età infelice: i bisogni principali della terza età sono la comodità e la sicurezza, si cercano il denaro e i piaceri della tavola, si placa il desiderio delle donne e dei viaggi, ma emerge il piacere di insegnare e di parlare. Per i 9 decimi la felicità, però, dipende dalla salute, mentre dolore e noia sono nemici della felicità. Alla noia bisogna opporre l’ingegno, al dolore la serenità. In conclusione Schopenhauer ribadisce che la personalità è la nostra felicità più alta: ciò che noi siamo è immutabile, le realtà esterne sono contingenti e mutevoli. Quando siamo noi ad essere ammalati, anche la realtà esterna diventa penosa, come un bel paesaggio con il brutto tempo. Schopenhauer mutua questo concetto da Goethe (Divano occidentale-orientale, VIII, 7, Libro di Suleika). Altre fonti di ispirazione di questa opera sono i classici greci e latini (come Aristotele, Epicuro, Orazio, Seneca, Lucrezio), i grandi moralisti (Rabelais), la sapienza indiana. In particolare nella genesi dell’eudemonologia, sarebbe stata essenziale la scoperta dell’ “Oràculo manual y arte de prudencia” del gesuita spagnolo Baltasar Graciàn, maestro del concettismo; avendo studiato lo spagnolo, Schopenhauer infatti tradusse in tedesco 50 massime dell’Oraculo. Da Gracian il filosofo trasse la lezione fondamentale, quella di un pessimismo senza illusioni, su cui costruire tuttavia una saggezza di vita, le cui regole ci siano da orientamento nel tempestoso mare dell’umana precarietà.