sabato 20 settembre 2014

il Fatto 20.9.14
Il Jobs Act in pilllole: meno stipendi, meno diritti, meno tutele
La Legge delega approvata in commissione in Senato e nota alle cronache come Jobs Act è un concentrato di ricette care alle imprese e all’impostazione economica cosiddetta neoclassica (se proprio non si vuol dire alla destra). Ecco un breve riassunto dei punti più controversi:
Il contratto a tutele crescenti: si applicherebbe ai neoassunti e consentirebbe ai datori di lavoro di assumere e licenziare liberamente almeno nei primi tre anni di contratto. Il problema è che il modo in cui è scritta la delega lascia aperta la possibilità - che per Maurizio Sacconi è una certezza - di non applicare il diritto al reintegro.
Demansionamento: durante “ristrutturazione o conversione aziendale” - cioè sempre - si potranno abbassare le mansioni, e il salario, di uno o più lavoratori.
Nuovi contratti di solidarietà: si potranno usare anche per assumere personale abbassando temporaneamente lo stipendio di tutti.
Addio Cassa integrazione: si restringe il campo di utilizzo e si preferisce slegare il sostegno al reddito del lavoratore dal suo posto di lavoro. Per l’assegno universale di disoccupazione, però, non ci sono i soldi (per ora, dunque, solo addio alla Cig)

il Fatto 20.9.14
L’emendamento del governo prevede il demansionamento
Pd in rivolta contro il Jobs Act. Ma in Commissione ok alla delega
Bersani: “Renzi può frantumsare i diritti, altro che modello tedesco!”
Mineo: “Renzi? Non dice il vero. Mi caccino, non voto una delega in bianco’
qui

il Fatto 20.9.14
Video-Renzi: “Il sindacato sono io”
Camusso lo paragona alla Thatcher per la riforma del lavoro e il premier si scatena:
“Vecchie polemiche ideologiche: avete creato il precariato, io tutelo chi non ha diritti”
di Marco Palombi

Non si può dire che gli manchi l’entusiasmo o che non sappia trasformare i problemi in opportunità. Prendiamo la riforma del mercato del lavoro - cioè licenziamenti più facili e assunzioni meno onerose - quello che si tenta di fare con la legge delega chiamata Jobs Act. Matteo Renzi non può non farla: glielo ha spiegato Mario Draghi nell’incontro agostano di Santa Maria della Pieve, glielo hanno detto tanto la Commissione Ue che Berlino, glielo ribadiscono ogni volta che possono il Fmi e le grandi banche anglo-americane. Per venire a fare shopping di imprese italiane (attrarre capitali esteri, nel linguaggio corrente) serve comprimere i diritti di chi lavora. E lui lo fa, ma insieme attacca il sindacato che ha “creato il precariato”, “difende solo gli statali” fannulloni e se ne frega “dei diritti di chi non ha diritti”. Parole di miele per quelli che al bar sostengono che “l’Italia l’hanno rovinata i sindacati” (non proprio elettori del Pd, in genere, ma in futuro...).
ANDIAMO con ordine. Renzi - visto l’andazzo sui conti pubblici - per non farsi commissariare da Bruxelles è costretto a procedere a passo di carica sulla riforma del lavoro: vorrebbe almeno il sì del Senato (va in aula la settimana prossima) “prima dell’8 ottobre”, vale a dire del summit Ue sulla disoccupazione convocato a Milano. Il tentativo, attraverso il “contratto a tutele crescenti”, di scardinare l’articolo 18 dei lavoratori che prevede (anche) il reintegro in caso di licenziamento illegittimo, ha però irritato non poco i sindacati (peraltro neanche convocati a palazzo Chigi): “Mi sembra che il presidente del Consiglio - ha scandito ieri la leader della Cgil Susanna Camusso - abbia un po’ troppo in mente il modello della Thatcher”, specie nell’idea che “la riduzione dei diritti dei lavoratori sia lo strumento che permette di competere”.
Critica a cui Renzi ha risposto con un videomessaggio registrato nel suo studio di palazzo Chigi che inaugura la guerra ai confederali. Tutto un florilegio delle critiche conservatrici al sindacato: dal passatismo alla contrapposizione tra tutelati e no, il tutto condito da maestose supercazzole. “La Camusso dice che pensiamo alla Thatcher - dice Renzi - ma noi non siamo impegnati in uno scontro ideologico del passato. Noi non siamo preoccupati di Margaret Thatcher, ma di Marta, 28 anni, che non ha diritto alla maternità: aspetta un bambino ma a differenza delle sue amiche dipendenti pubbliche
non ha nessuna garanzia. Abbiamo cittadini di serie A e serie B” (dal che si dedurrebbe che è colpa dei diritti delle sue amiche statali se Marta non ne ha).
ALTRO GIRO, altro cliché: “Noi non pensiamo alla Thatcher, ma a quelli a cui non ha pensato nessuno in questi anni, che vivono di Co.co.co, condannati al precariato che il sindacato ha contribuito a creare preoccupandosi solo dei diritti di alcuni e non di tutti. Noi vogliamo regole giuste e non complicate. Se queste nuove regole spingono aziende, magari straniere, a investire in Italia e creare posti di lavoro sarà fondamentale per dare lavoro a chi non ce l’ha” (dal che si dedurrebbe che le multinazionali chiedono di eliminare il precariato e non, com’è, di estenderlo anche a chi oggi non ne è toccato).
Il finale è l’attacco al cuore di Camusso e soci: “Ai sindacati che contestano non chiedo di aspettare di vedere le leggi, ma questo: dove eravate mentre si è prodotta la più grande ingiustizia che c’è in Italia, cioè la divisione tra chi ha un lavoro e chi no, tra lavoratori a tempo indeterminato e precari? Avete pensato solo alle battaglie ideologiche e non ai problemi della gente” (dal che sembrerebbe, ma non succederà, che Renzi pensa di estendere il tempo indeterminato a tutti perché lui pensa ai problemi della gente).
APPLAUSI dalla destra ovviamente (Renato Brunetta: “Se il Pd non da retta alla Cgil votiamo il Jobs Act”), parecchia irritazione nell’ala sinistra del Pd. Pier Luigi Bersani ha vaticinato che “saranno presentati molti emendamenti e non solo sul reintegro in caso di licenziamento ingiusto. Così si va ad aggiungere alla precarietà ulteriore precarietà, andiamo a frantumare i diritti: sarà battaglia”. L’attuale formulazione dell’articolo 18, fa notare poi Cesare Damiano, “è stata modificata appena due anni fa con l’accordo di Pd e Fi e deve rimanere anche per i neoassunti”. Curioso che, dopo un attacco di questa portata al ruolo del sindacato, Luigi Angeletti della Uil senta il bisogno di distinguersi da Susanna Camusso: “Questa sorta di duello rusticano tra Renzi e la Cgil ci sta stufando. Quando non si ha uno straccio di argomentazione convincente si usano solo slogan. Renzi non è la Thatcher, ma il fatto che in passato non abbiamo avuto la forza di difendere quei lavoratori poco tutelati non è una buona argomentazione per togliere protezioni a chi ce l’ha”. Piccola notazione finale: al di là dello scontro con Camusso, il premier dovrebbe sapere che politiche di offerta (come le riforme del lavoro) in una crisi di domanda non servono a nulla (se non a far felice chi avrebbe assunto comunque).

il Fatto 20.9.14
Il ritorno del messaggio tv
Il difensore del precario dà gli 80 euro ai “garantiti”
di Antonello Caporale

È apparso all’improvviso, come quei conduttori che aprono un’edizione straordinaria di tg. Con l’istant video Matteo Renzi completa la sua variegata tecnica di comunicazione e aumenta il livello della propria capacità di fare fuoco. Ritrova il grande nemico, il sindacato, e lo punta al petto. Ai messaggi confezionati ci aveva abituati Berlusconi che li recapitava alle televisioni e ai giornali, nella prevalenza considerati sue cassette postali. Quelli erano testi ovattati, usati, nel gioco delle luci e della calza, come strumento principe della tecnica di trasmissione della dolcezza, a convincere, persuadere, tirare gli italiani verso di sé. Renzi non ha cura del contesto, la telecamera taglia il suo corpo in due, ma del modo con cui chiama alla battaglia. Non ha il teatro bianco dello studio nel villone di Arcore né la cravatta a pois e il doppiopetto Caraceni, ma una finestra aperta sulla piazza, la camicia bianca sbottonata al collo, il vento che soffia e forse rovina un po’ l’audio, il tricolore che gli copre la schiena. In piedi, giovane, vitale, desideroso della rivincita immediata, del colpo a effetto, dell’arma di distruzione di massa. Il video evolve il premier nella figura del guerrigliero del popolo, di chi tutela “Marta”, giovane mamma senza diritti e senza paga in gravidanza, o del piccolo artigiano senza accesso al credito, del cinquantenne senza futuro. È il popolo dei “senza” (senza diritto, senza tutele, senza futuro) contro quegli altri, quelli “con”. Questi ultimi sono proprio coloro a cui Renzi ha appena destinato gli 80 euro, fulcro della propaganda di primavera. Nella straordinaria manipolazione comunicativa Renzi riesce nel capolavoro: dopo aver guadagnato, grazie alla sua misura economica, milioni di consensi dal ceto medio tutelato, cambia cavallo e si accredita come l’uomo politico che guarda agli ultimi, sceglie gli ultimi. Non ha più soldi in tasca però e anzi sulla sua scrivania incombe la missiva del Fondo monetario che pare un diktat più di un consiglio: cambiare subito l’articolo 18 e poi tagliare ancora le pensioni. Renzi quindi parte dalla fine della fune: non cerca di produrre lavoro ma di agevolare il licenziamento nella speranza che il nuovo messaggio, le tutele crescenti, si trasformi da puro slogan in qualcosa di commestibile. Nella lista di proscrizione renziana i sindacati, divenuti anche per loro responsabilità naturali aggregatori di sfiducia popolare, conquistano il piedistallo rispetto al tempo di B. quando i magistrati (comunisti) godevano di quotidiane cure televisive. Però la lista è sempre quella. Anzi Matteo, nel ruolo di capo del partito della Nazione, magicamente ritrova gli stessi nemici di Silvio. Il colpo al cuore alla Camusso apre un fronte nuovo e insieme funge da silenziatore a questa settimana nera in cui il premier - legato dal patto del Nazareno - non riesce a trovare di meglio che due nomi indigeribili (e perciò non digeriti ancora) da mandare alla Corte costituzionale. Uno di essi addirittura indagato. Per sovrammercato l’avviso di garanzia per bancarotta fraudolenta notificato al suo babbo lo congeda definitivamente dal ruolo di colui che con la magistratura non aveva conti aperti da sistemare, procure da stanare o complotti da denunciare. Negli ultimi giorni il lessico renziano si è avvicinato, e di molto, a quello del primo Berlusconi, quando indicava negli “scoop” giornalistici, propalati ad arte dagli uffici giudiziari, lo strumento principe della lotta politica. “Non sarà certo uno scoop...”.
Ieri infine il video messaggio.

Repubblica 20.9.14
La colonna di Marco Aurelio e una tele-vendita aggressiva
Il video del premier supera la lezione berlusconiana
di Filippo Ceccarelli

ROMA Dalla tele-vendita alla adlocutio, che sarebbe il discorso dell’imperatore alle truppe, la distanza è apparentemente abissale, e se ne trova conferma nella colonna di Marco Aurelio che giganteggia alle spalle del presidente Renzi.
Non si penserà mica che sia finita lì per un caso. Nel lungo bassorilievo che si attorciglia nel marmo è descritto l’imperatore filosofo che debella Germani e Sarmati, in appena due minuti e mezzo il tele-premier della post- politica mette in rete un marketing aggressivo contro i sindacati «ideologici».
Il video di Palazzo Chigi è un piccolo gioiello di propaganda o, se si preferisce, di comunicazione all’altezza dei tempi. Quindi a suo modo efficace, a cominciare dalla tempistica, che oscura i malanni economici dell’Italia, le ripetute sconfitte in Parlamento e gli impicci familiari.
Lo strumento scelto non è berlusconiano, è di più: indica l’evoluzione della specie relegando definitivamente i filmati del Cavaliere — mesti, fermi, noiosi, quella scrivania vasta e pomposa, quel damasco polveroso, quel lampadario di inutile lusso — nell’archeologia visiva di un tempo remoto.
Renzi parte a bocca aperta, poi fa imitazione della Camusso attribuendole un tono ridicolmente stentoreo, quindi torna se stesso, socchiude gli occhi, aggrotta la fronte, alza il sopracciglio e a tratti anche la voce. «Con le parole — ha detto una volta Berlusconi — il ragazzo è bravo».
Per quanto riguarda i contenuti la faccenda è più complicata. Ma la tecnica dello storytelling, o narrazione di servizio, ha proprio lo scopo di superare ogni possibile divaricazione. Così contro la prevedibile retorica sindacale che evoca la Thatcher, contro gli scontati racconti collettivi del secolo scorso, cosa ti inventa il giovane premier formatosi nell’intrattenimento?
Ecco, convoca una certa «Marta», non solo giovane e precaria, ma anche e perfino incinta, e poi «Giuseppe», cinquantenne senza tutele, e infine un anonimo artigiano vessato dalle banche. Sono persone che non esistono, ma in qualche modo sì, perché lui, battezzandole, le fa vedere e le rende vive, in ciò facendone dei testimonial funzionali alla sua, di retorica.
Tutto questo sembra che il premier dica e faccia con maggiore intensità dopo essersi tolto la giacca. La camicia bianca, ormai divenuta una sorta di uniforme e addirittura esportata ai leader della sinistra europea, lo rende qualcosa di più che un politico diverso da tutti gli altri: un brand, una marca e insieme un marchio di successo. Di lotta e di governo, mai come in questo video-messaggio.
In una approfondita disamina al recente festival della Mente di Sarzana, Marco Belpoliti, col sussidio di esempi storici e di parecchie immagini, ha concluso che i più accorti leader di questo tempo privo di ideologie tendono a operare nella società come la Apple o la Coca Cola. «L’hanno imparato a fare dagli attori hollywoodiani» aggiunge. «Le sette camicie di Matteo» — questo il titolo — dicono che l’indumento dello stilista Scervino è parte essenziale dello stile, della strategia, «notorietà e desiderabilità» incluse.
Ma recitava Renzi nel suo video di guerra alla Cgil? Certo che sì. Tutti i politici più o meno lo fanno. Lui meglio — anche se ieri le mani, che pure sono parte fondamentale della sua recitazione, si vedevano e non si vedevano. Anche in questo superando la lezione berlusconiana, quanto a tecnica attoriale il premier comunica sincerità «a prescindere dai fatti». In altre parole è la premessa della persuasione. I cococò e i cocoprò, menzionati con qualche lampo di troppo, avranno modo di giudicare.
Il momento migliore quando sembrava che l’ardore dell’oratoria presidenziale si fosse placato e invece, a sorpresa, lui è ripartito in quarta accusando gli odiosi «ideologici » con la formula, che è da sempre la sua grande forza: «Dove eravate in questi anni »? Qui il messaggio è ritornato implicitamente alle origini del renzismo: rottura generazionale, giovinezza, rottamazione, illimitata fiducia in se stesso. Quindi slogan pubblicitario, dall’inclinazione vagamente pannelliana: difendiamo «i diritti di chi non ha diritti».
Io, noi, siamo dunque i buoni. Loro, che si opporranno a questa mirabile riforma, sono i cattivi. La vedremo. La politica post-ideologica, dopo tutto, non coltiva sfumature e pencola e slitta sempre un po’ sul manicheismo e un ingenuo semplicismo. Ne fa fede una genericità che nell’oratoria del premier in camicia risuona spesso come una sospetta costante. Il nuovo mercato del lavoro sarà «giusto»; le nuove regole pure «giuste» — ci mancherebbe — e «non complicate»; il suo sforzo sarà compiuto «in modo concreto e serio ». Fine.
Poi, appunto, i video finiscono e di solito tutto si rivela terribilmente difficile. La realtà si prende i suoi tempi e le sue rivincite. Nel frattempo, fuori dalla finestra di palazzo Chigi, il lungo bassorilievo della Colonna e dei trionfi di Marco Aurelio ancora una volta confermavano che in genere la storia procede come vuole lei.

La Stampa 20.9.14
Un video su Youtube per chiudere con il “vecchio”
di Mattia Feltri

Sarebbe piaciuto tanto a Silvio Berlusconi che qualcuno gli desse dell’epigono di Margaret Thatcher. Figuriamoci, soltanto qualche sprovveduto è cascato nell’errore, e di rado e non Susanna Camusso, nemmeno ieri che ha descritto Matteo Renzi come una sintesi del thatcherismo e del berlusconismo, giusto per mettere assieme un male nobile e un male abietto.
Doveva essere, sempre che ci fosse strategia, l’insolenza perfetta rivolta al leader di un partito collocato a sinistra, secondo gli schemi di ieri applicati a oggi per ragioni di comodità. E ieri Renzi ci ha messo forse mezz’ora per armare la replica e portare a casa il match col punteggio di tre a zero.
Per l’occasione il premier ha abbandonato i ferri del mestiere, tweet e roba del genere, e ha registrato un video artigianale in cui - camicia bianca, finestra di Palazzo Chigi aperta, colonna di Marco Aurelio alle spalle - ha spostato la questione per la millesima volta con una facilità umiliante, e con una ferocia inedita nella storia dei rapporti fra partitone e Cgil.
Non è la Thatcher che ci preoccupa, ha detto, ma è Marta che è una precaria incinta di ventotto anni; non è la Thatcher, ma Giuseppe, cinquantenne senza lavoro. Non sono le vostre polemiche novecentesche - intendeva dire - a smuovere il nostro orgoglio o la nostra suscettibilità, non i vostri paralleli muffiti a stuzzicarci, né i vostri orizzonti confusi e ormai rimasti alle spalle del resto del mondo.
Niente, non la capiscono. Lo si è scritto fino ad averne il mal di stomaco che Renzi parla in un altro modo, ad altra gente, ha interlocutori diversi, non riceve il sindacato, non va da Confindustria, rifugge ogni liturgia istituzionale, si è messo su un piano diverso - più in alto o più in basso, qui non importa - e gli altri non se ne sono accorti.
Si leggono sui giornali le interviste a Sergio Cofferati e a Guglielmo Epifani, si vedono le foto del Circo Massimo gremito in ostilità a Berlusconi, le bandiere rosse, tutto un armamentario di volti e simboli e lessico ormai disastrosamente inefficaci.
Difendete le vostre battaglie ideologiche - ha detto ancora Renzi - e non i problemi concreti della gente, difendete il vostro ormai piccolo e declinante potere per non occuparvi dei «diritti di chi non ha diritti». Voi siete il vecchio, vi occupate del vecchio, parlate da vecchi. Resta da stabilire, aspetto non da poco, se il nuovo, oltre a parlare da nuovo, saprà davvero occuparsi di Marta e Giuseppe.

Repubblica 20.9.14
Il retroscena
La sfida del premier: “Ecco la mia riforma. Pierluigi e sindacati pensano solo a salvarsi”
“Vdano pure in piazza. Sul lavoro cambio tutto”
di Goffredo De Marchis

Dove eravate voi sindacati in questi anni quando cresceva l’ingiustizia? Avete pensato a battaglie ideologiche e non ai problemi concreti della gente
Bersani dice che la ‘ditta’ va rispettata. Cominci lui: se la direzione vota, tutti seguono.
Sciopero? So che è un rischio però non me ne preoccupo

ROMA Renzi attacca perché è lo stile della casa, perché «se non rispondo colpo su colpo la riforma del lavoro si blocca», perché da domani vola negli Stati uniti per una settimana e occorre marcare il territorio lasciando un messaggio forte come quello del video. «Eppoi loro pensano che io faccio solo la modifica dell’articolo 18. Non hanno capito niente. La mia è una visione strategica del diritto del lavoro — ripete ai collaboratori —. Cambio la norma sui licenziamenti, certo. Ma cambio anche il sistema di ammortizzatori sociali, in maniera radicale ».
A Palazzo Chigi hanno messo nel conto lo sciopero generale: «È un pericolo per il governo, ma non mi preoccupa», replica il premier. Le accuse dei sindacati: «Lo scontro in Italia è tra precari e garantiti. Lo vadano a spiegare a chi è co. co. co che loro difendono solo chi ha il posto fisso». La resistenza della sinistra del Pd: «Ogni volta che Bersani, Cuperlo e D’Alema si mettono insieme, mi fanno un favore gigante. Bersani comunque è stato il primo a dire che la ditta va rispettata. Cominci lui. La direzione discute, vota e alla fine tutti devono seguire quel voto».
Sembra, a sentire le parole di Renzi, che il decreto abbia già preso forma, almeno nella sua testa. Non c’è più spazio per la mediazione del ministro Giuliano Poletti che non avrebbe toccato l’articolo 18. Invece lo statuto dei lavoratori sarà modificato e sparirà il reintegro, sostituito dall’indennizzo. «Alla fine del percorso devono rimanere in piedi 2, al massimo 3 tipologie di contratto. Chi mi attacca non si rende conto cosa significa vivere con quei contrattini che ci sono oggi», dice Renzi con un tono indignato. «Accanto a questo però riscriviamo la disciplina degli ammortizzatori sociali. Aumentando le risorse. Ecco perché la manovra sarà di 20 miliardi, me ne servono un po’ per la riforma del lavoro». Sarà introdotta un’indennità di disoccupazione a tempo. Spariranno sia la Cassa integrazione straordinaria sia quella in deroga. «Rimarrà solo quella ordinaria». Il meccanismo deve introdurre tutele per tutti «anche per chi adesso non è tutelato. Cominciando dalla maternità. Per questo dico che voglio dare diritti a chi non ha diritti». Tutto il pacchetto ha tempi tutt’altro che lunghi, avvalorando l’ipotesi che sarà inserito in un decreto anche se la legge delega è in discussione al Senato. «Dev’essere fatto prima del consiglio europeo di ottobre - osserva Renzi -- . Se non ho le riforme pronte non ho la flessibilità dall’Unione. E se non ho la flessibilità sono costretto a varare una legge di stabilità recessiva, cosa che non voglio. Io ci metto pure la legge elettorale. Deve andare avanti». Per prepararsi al voto in primavera? Renzi continua a giurare che no, che «il traguardo è la scadenza naturale, il 2018». E i sindacati sul piede di guerra? Rappresentano milioni di iscritti e come dice Raffaele Bonanni «Renzi cerca il conflitto e ci ha ricompattati ». Il premier però ha una sua idea delle ragioni nascoste dietro la protesta. «Con la dichiarazione dei redditi precompilata - racconta da giorni ai collaboratori - tra qualche anno spariranno i Caf gestiti dai sindacati e di conseguenza le loro entrate. In più Cgil, Cisl e Uil sanno che io sono pronto a discutere una legge sulla rappresentanza che vuole solo la Fiom. Questo gli brucia».
Anche la minoranza del Pd, secondo la visione dell’ex sindaco, ha, al fondo, ragioni diverse dalla difesa dei lavoratori. «La verità è un’altra - ragiona il premier -. Sognano la rivincita e sull’articolo 18 si stanno giocando la partita della vita per tornare in pista». L’obiettivo è piegarli alle decisioni della maggioranza, come è successo per la riforma del Senato e per la legge elettorale. Un voto in direzione e non se ne parla più. Ma proprio per questo le opposizioni interne non vogliono farsi trovare impreparate. Martedì hanno convocato alla Camera un vertice che li rimette tutte insieme. Ci saranno Cuperlo, Damiano, Fassina e Civati, superando la frantumazione dei mesi scorsi. Sono stati invitati anche dirigenti non ex Ds come il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia. È chiaro l’intento di preparare un muro parlamentare alla riforma. Che verrebbe superato, almeno inizialmente, dalla forza di un decreto legge. «Quello di Renzi - insiste Stefano Fassina - non è il modello tedesco. È la riforma di Sacconi. Accendere una miccia così avrà effetti pesantissimi. Non ci saranno vincitori, saremo tutti sconfitti». Fassina non se ne fa una ragione: «Spero che si fermi, assurdo immaginare una riforma del genere in un Paese che ha perso 10 punti di Pil».
Il calendario delle manifestazioni fa in effetti paura. La Fiom anticipa il suo corteo al 18 ottobre. I centri sociali sono pronti a contestare il direttivo della Bce che si riunisce a Napoli. I sindacati di Polizia si ritrovano in piazza il 23 settembre. Poi ci sono gli scioperi, la mobilitazione fabbrica per fabbrica annunciata da Landini, la saldatura con i precari. Alla vigilia della partenza per gli Usa, Renzi non sembra in vena di concessioni. «Spazio per la trattativa? Beh, dipende. Dipende anche da loro, se voglio ragionare sul serio», è il messaggio consegnato ai suoi collaboratori ieri sera dopo aver registrato il video di risposta alla Camusso. «Vediamo se sono capaci di immedesimarsi nella vita che fa un co.co.co. o co.co.pro. È una vita senza progetti».

Repubblica 20.9.14
L’affondo di Renzi ricrea l’asse Camusso-Landini
La leader Cgil andrà in piazza con la Fiom e replica al premier: “Dove stavamo? A combattere le leggi contro il lavoro”
Si prepara una mobilitazione generale puntando all’unità con Cisl e Uil
L’8 novembre manifestazione degli statali
di Roberto Mania

ROMA .«Dove eravamo noi? Eravamo a contrastare quelle leggi che in questi ultimi quindici anni hanno costruito l’apartheid nel mercato del lavoro, che hanno destrutturato e svalorizzato il lavoro. Ecco dove eravamo. E quelle leggi non le abbiamo fatte noi», dice Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. Lo dice al premier Renzi alla fine di una giornata che ha visto deflagrare lo scontro diretto tra il presidente del Consiglio e la Cgil, il sindacato della sinistra.
Ora la Cgil si prepara a una lunga mobilitazione e a guidare l’opposizione sociale al governo Renzi. E appare davvero la riproposizione della sfida degli anni Ottanta tra Margaret Thatcher e i minatori inglesi di Arthur Scargill. Alla fine la proclamazione dello sciopero generale da parte della Cgil sembra quasi scontata. Ma ci vorrà un po’ di tempo perché lo sciopero è sempre l’ultima arma a cui ricorrere tanto più in una fase di recessione come quella attuale. Prima, comunque, bisognerà costruire la rete di alleanze. Camusso vuole a tutti i costi ritrovare l’unità d’azione con la Cisl e con la Uil. Ha prospettato una manifestazione nazionale entro i primi dieci giorni di ottobre (sabato 11 ottobre), ma è pronta a cambiare data se arriverà l’assenso di Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. I tre leader sindacali si vedranno la prossima settimana per decidere. Intanto è già stata fissata la data della manifestazione nazionale a Roma di tutti i lavoratori del pubblico impiego: sarà l’8 novembre contro l’ennesimo blocco dei contratti, contro la riforma Madia della pubblica amministrazione. I dipendenti pubblici sono stati finora lo zoccolo duro dell’elettorato del Pd. In piazza ci andranno anche i leader della minoranza del Partito democratico?
E c’è da domandarsi se oltre a Sel che ha già dato la propria adesione, con la la Fiom di Maurizio Landini ci sarà anche una parte del Pd, in un clamoroso, ma già visto, cortocircuito per cui si è al governo ma anche in piazza a protestare. Ieri la Fiom ha infatti deciso di anticipare la manifestazione a Roma dal 25 ottobre al 18 ottobre mentre nelle fabbriche metalmeccaniche scatteranno le assemblee con gli scioperi. Con le tute blu della Fiom in piazza ci sarà sicuramente Susanna Camusso. Così contro il progetto del governo di superare l’articolo 18 la Cgil e la Fiom di Landini, corteggiato da Renzi, potrebbero ritrovare un’identità comune. Certo la liaison tra il “duro” dei metalmeccanici e il “rottamatore” appare decisamente incrinata. Si sono tatticamente usati, entrambi per indebolire la leadership della Camusso in Cgil, ma ora, con lo strappo sull’articolo 18 (d’altra parte Landini l’aveva “avvertito” il presidente del Consiglio) le strade si dividono.
In Cgil il video del premier che risponde alla Camusso viene letto come un punto a proprio favore: «Che bisogno aveva Renzi di rispondere alla Camusso? Se l’ha fatto è perché pensa di aver sbagliato ». Lettura ovviamente di parte. Di certo il premier parlava soprattutto alla Cgil. Meno a Cisl e Uil. Che comunque l’hanno presa male. «Come al solito — ha detto Bonanni — Renzi, per opportunismo politico, mette tutti i sindacati sullo stesso piano, così come confonde il ruolo dei sindacati rispetto al ruolo dei governi nazionali e locali che sono stati diretti responsabili della diffusione del precariato. Noi è dal 2000 che ci occupiamo di estendere le tutele ai precari ». E Angeletti: «Quando non si ha uno straccio di argomentazione convincente si usano solo slogan. Renzi non è la Thatcher ma neanche noi siamo la brutta copia di Scargill. Il premier scenda dalla cattedra per trovare con le parti sociali le soluzioni per il lavoro».

il Fatto 20.9.14
Maurizio Landini (Fiom)
“La precarietà è figlia loro. Ora Matteo ci prende per il culo”
intervista di Salvatore Cannavò

Renzi non può pensare di sostituirsi al sindacato. Questo è un diritto di chi lavora. Piuttosto pensi a fare leggi che tutelino i lavoratori. E non ci prenda per il c... con il contratto a tutele crescenti che toglie l’articolo 18”.
Dopo aver letto l'attacco politico portato al premier da Susanna Camusso Maurizio Landini una risposta immediata di Renzi se l’aspettava. “Il punto è di merito. Occorre stare a questo”.
In qualche modo Renzi vi dice che il sindacato lo fa meglio lui e che non siete serviti a molto.
A Renzi dico che le leggi le fa il Parlamento e non il sindacato. Sono le leggi, dalla Treu al decreto Poletti, che hanno aumentato la precarietà.
Ma il sindacato non ha nessuna responsabilità?
Certo, ne abbiamo anche noi. Il sindacato non ha contrastato abbastanza quelle politiche. Per questo dobbiamo cambiare la nostra politica. La precarietà non si combatte abbassando i diritti ma allargandoli. Abolire l’articolo 18 indebolisce tutti.
Renzi muove un attacco senza precedenti dichiarando la vostra inutilità.
Ma lui non può sostituirsi al sindacato. Questo è di proprietà di lavoratori. Piuttosto renda possibile una legge che permetta loro di decidere come vogliono organizzarsi e quali contratti.
Sul contratto a tutele crescenti lei ha parlato di presa per il culo.
(Ride). Se uno fa un contratto a tutele crescenti vuol dire che a un certo punto la crescita si trasforma in garanzie piene. Se si tratta di tutele crescenti non puoi togliere diritti a tutti. Altrimenti, appunto, è una presa per il culo. Ma potrei dire anche “Non c’abbiamo scritto Jo Condor... ”.
Preferiamo la risposta più colorita... Vi ha colto di sorpresa l’accelerazione impressa da Renzi?
Di sorpresa no perché prima l’incontro con Draghi, poi i vertici in Europa, le richieste della Confindustria erano state molto precise. È chiaro che la scelta che viene fatta ha un significato politico preciso. Non è quello il modo per risolvere problemi.
Le crede che l’incontro di Renzi con Draghi abbia contribuito all’accelerazione?
Non solo quello. Anche la riunione dei ministri finanziari e i dati sulla recessione sono i punti che sono stati posti al governo del nostro paese. In questo paese, il governo Renzi fa male a cedere a questo ricatto. Le crisi si affrontano risolvendo le ragioni che hanno prodotto la crisi. Continuare con liberalizzazione e abbassamento dei diritti e dei salari non è la strada giusta. Anzi, è una strada che apre nuovi conflitti.
Vi preparate quindi al conflitto?
Avevamo già avviato la nostra mobilitazione sulle crisi industriali. Ora, alla luce dell’accelerazione sullo Statuto, anticiperemo la nostra manifestazione a sabato 18 ottobre e dalla prossima settimana invitiamo le Rsu a iniziare a usare il pacchetto delle ore di sciopero per fare assemblee e discutere con i lavoratori. Non si tratta di contrapporre chi vuole fare le riforme e chi è contrario. Noi non vogliamo difendere nessun privilegio. La precarietà la vogliamo combattere estendendo a tutti i diritti, soprattutto ai giovani. Vogliamo combattere il riciclaggio e fare rientrare i capitali dall’estero, cancellare l’articolo 8 di Sacconi, avere una legge sulla rappresentanza, fare ripartire gli investimenti e incentivare chi fa investimenti qui. Vogliamo aprire una vera discussione in tutto il Paese, una discussione pubblica su come costruire un’Europa diversa.
Avevate avviato un dialogo sia pure a distanza con Renzi. Si è pentito?
No, nel modo più assoluto. Il sindacato non è né di governo né di opposizione. Si confronta con tutti. Renzi ha fatto cose che andavano fatte come gli 80 euro e cose non andavano fatte come la riforma costituzionale e i contratti a termine. Ora si stanno confrontando due idee diverse di come si riforma questo paese. Voglio sfidare il governo sul piano del consenso.
Ma quella di Renzi è una rottura con valori di fondo della sinistra italiana?
Mi sembra che non si facciano i conti con la realtà. Ci sono, ad esempio, affermazioni in Europa contro l’austerità. Ma in questo modo Renzi fa il socialdemocratico in Europa e il liberista in Italia. Una contraddizione esplicita. Cancellare l’articolo 18 significa cancellare la Costituzione. Lo Statuto è l’inizio della Costituzione nelle fabbriche e l’applicazione della Carta. Eliminarlo significa tornare all’800.
Come giudica la reazione della Cgil?
Il problema vero è fare presto. La risposta va data subito. La nostra iniziativa è urgente perché il settore è più colpito.
È credibile una mobilitazione unitaria con Cisl e Uil?
Nel 2002 la manifestazione al Circo Massimo fu di sabato, e della sola Cgil, ma 15 giorni dopo ci furono scioperi grandiosi e unitari che riempirono le piazze di tutto il paese.
La Fiom si è impegnata anche recentemente sulla corruzione. Che pensa della legge sull’autoriciclaggio?
Che non se ne sta discutendo. Noi veniamo da un nostro convengo con i più grandi esperti in materia. Era presente anche il ministro Orlando ed è stata ribadita la necessità di fare determinati interventi. Sono anni che se ne parla. Però la legge viene rinviata e una vera lotta all’evasione fiscale non c’è. Quello è il terreno di confronto per prendere le risorse. I soldi vanno presi dove sono e quindi colpire determinati interessi.
Quando si parla di articolo 18 si pensa al Circo Massimo del 2002. Oggi però la situazione è diversa. Ce la potete fare?
C’è molta rabbia inespressa perché c’è molta paura. La gente ha paura di perdere il posto di lavoro. Ma non accettiamo che si sfrutti questa situazione per peggiorare la situazione. Dalla crisi si esce investendo sui diritti e non sulla paura. Renzi ha un grande consenso, è vero. Ma c’è anche un altro 41%, le persone che non sono andate a votare. E né Renzi né Grillo hanno impedito l’astensione. La crisi della democrazia è il vero tema e la nostra battaglia.

La Stampa 20.9.14
Sinistra
di Jena
Riusciranno i nostri eroi a far fuori l’amico misteriosamente comparso a palazzo Chigi?

La Stampa 20.9.14
Minoranza Pd pronta a far saltare la riforma
Battaglia in Aula in cinque punti
di Carlo Bertini

Il fuoco di sbarramento sta per scattare, le batterie lancia-missili sono già partite alla volta del Senato, dove verranno piazzate per la prima battaglia di trincea, quella che andrà in scena in aula la prossima settimana. E come sempre in politica il fuoco di sbarramento serve a far trattare meglio le diplomazie della sinistra Pd. Che cercano disperatamente di mettere un argine alla disfatta di un bastione fino ad oggi inespugnabile come quello dell’articolo 18. Ecco perché ieri si sono chiusi in una stanza Pierluigi Bersani, Stefano Fassina, Guglielmo Epifani, Alfredo D’Attorre e alcuni senatori. Per fissare i punti cardine di una strategia d’attacco che da martedì verrà tradotta in una manciata di emendamenti «qualificanti» al jobs act: che porteranno la firma dell’ex sottosegretario al welfare Cecilia Guerra e di Maria Grazia Gatti, oggi senatrice, ma per dieci anni di stanza alla Cgil di Pisa. Sono cinque gli emendamenti chiave che sta preparando la sinistra Pd, con la premessa - si infervora Stefano Fassina - che «i principi della delega sono troppo generici e vanno specificati, non si può dare una delega in bianco al governo. Quando c’era Monti nel 2012 e lo spread era a 400, noi siamo riusciti a trovare una soluzione equilibrata, oggi in condizioni meno complicate si va sul terreno liberista». Ciò vuol dire - sarà questo il primo emendamento dei bersanian-dalemiani - «specificare che resta la possibilità per il giudice di reintegrare il lavoratore licenziato senza giusta causa dopo il primo triennio, come è nella legislazione tedesca». Il secondo punto sub judice riguarda il disboscamento della giungla di contratti precari, le decine di forme in vigore vanno ridotte, «specificando il ridimensionamento e le poche tipologie contrattuali da tenere in vita». Terzo elemento: la sinistra vuole che una copertura finanziaria esplicita con le quantificazioni e la tempistica per l’indennità di disoccupazione universale, con un rinvio alla legge di stabilità e con la dotazione finanziaria necessaria. Insomma, la delega che chiede il governo non può essere «a risorse invariate». Quarto, la minoranza del Pd vuole che sia specificata una stretta connessione tra l’avvio del contratto a tutele crescenti che comprenda il reintegro e l’entrata a regime dei nuovi ammortizzatori sociali ampliati e il loro relativo finanziamento. Quinto, sul «demansionamento, bisogna definire un perimetro più preciso e il coinvolgimento dei sindacati ai fini della definizione più stretta dell’ambito dell’intervento a livello contrattuale». Tradotto in uno slogan usato da tutti a sinistra in queste ore, «sì al modello tedesco, no a quello spagnolo fondato sulla precarizzazione e compressione di diritti e salari», mette in chiaro D’Attorre.
Ma le trattative fervono e uno degli elastici che il governo può tirare è quello dei tre anni di sospensione dell’articolo 18 per i nuovi assunti, che la sinistra per ora è disposta pure a portare a quattro. Anche perché tra i renziani c’è chi non esclude che invece l’articolo 18 sia eliminato per tutti, pure per i contratti in essere, ipotesi questa fin qui negata da tutti i più alti in grado del Pd con lo slogan «i diritti acquisiti non si toccano». Insomma la partita è solo all’inizio e in queste ore, nel ruolo di «pontieri» ci sono il ministro Poletti, il responsabile economia e lavoro del Pd, Filippo Taddei e il presidente del partito Matteo Orfini.

Il Sole 20.9.14
Gianni Cuperlo:
«L'articolo 18 principio di dignità»
di Em. Pa.

«La legge delega sulla riforma del lavoro contiene misure indispensabili, non c'è dubbio che serve discontinuità. Occorre riorganizzare gli ammortizzatori. Estendere i diritti di maternità. Aggredire il nostro vero ritardo con serie politiche attive per il lavoro. Per metterci nel solco dei Paesi che hanno retto meglio l'urto della crisi. Quindi io dico di innovare, ma i diritti come le responsabilità non sono un optional, una regalia». La premessa da cui parte Gianni Cuperlo, principale competitor di Matteo Renzi alle ultime primarie Pd, non è ostile a quella parte del Jobs act che contiene l'introduzione di un sussidio di disoccupazione universale e di nuove politiche attive. Ma quando si arriva all'abolizione della reintegra per i neoassunti, il solco si riallarga.
Allora, onorevole Cuperlo, a fronte di un'estensione delle tutele si può anche ragionare di articolo 18?
È il caso di fare la citazione un po' usurata del dito e della luna. L'abolizione della reintegra sarebbe un totem? Dietro quella norma molto banalmente c'è un principio. Colpendo quel principio si vuole un mercato del lavoro diverso, col sacrificio di una quota di dignità per un'efficienza priva di riscontro. Non è l'articolo 18 la leva da smuovere, metterlo al centro è il cedimento a un'ideologia che non guarda ai nostri limiti veri: investimenti sul capitale umano, ricerca, un piano per il lavoro alle donne.
Il 29 deciderà la direzione Pd. Ma si rischia la scissione?
Quel termine non voglio neppure sentirlo. Io dico discutiamo e magari coinvolgiamo la nostra base. Nessuno di noi è in Parlamento sulla base di un mandato a ridurre la sfera dei diritti.
Renzi accusa i sindacati di aver difeso le ideologie e non le persone. Lei come la vede?
Chi guida il Paese in un momento come questo deve cercare il dialogo e la coesione sociale. Pensare che si possa salvare l'Italia contro le imprese o i sindacati è un'illusione. E mai come oggi è il tempo della realtà.

Il Sole 20.9.14
Il fronte renziano, Paolo Gentiloni:
«Ora chiarimento definitivo nel Pd»
di Em. Pa.

«L'unica cosa di destra, visto che sento accusare il governo e Renzi di seguire una politica di destra, è difendere la situazione esistente, una situazione ingiusta che ha portato l'Italia ad avere il minor numero di occupati tra i grandi Paesi industriali e crea discriminazione tra meno della metà dei lavoratori che hanno alcune tutele e più della metà che non ne hanno. Cambiare questa situazione che penalizza il Paese e che colpisce i più deboli è di sinistra». È una sfida diretta alla sinistra del suo partito, quella del deputato del Pd Paolo Gentiloni, renziano della prima ora. Sfida non più rinviabile.
Quindi la delega va bene, onorevole Gentiloni, compreso il superamento dell'articolo 18 per i neoassunti?
La delega fissa i paletti fondamentali e credo che sia un errore ridurre tutto quello che abbiamo intenzione di cambiare al solo articolo 18, perché l'obiettivo è avere finalmente un codice del lavoro semplificato, andare finalmente verso un sistema di tutele e di ammortizzatori sociali universalizzato e dare più spazio alla contrattazione aziendale decisiva per recuperare il nostro handicap di produttività. Se qualcuno si ostina a ridurre tutto alla sola alternativa tra indennità crescente con l'anzianità di servizio e reintegra, beh è giunto il momento di sciogliere anche questo nodo.
Chiarimento nel partito, dunque, fino alle estreme conseguenze di una possibile scissione?
Non credo proprio che si possa anche solo evocare la scissione. Siamo un partito che discute, abbiamo convocato una direzione per questo, assumeremo una posizione e questa posizione porteremo avanti anche in Parlamento. Io sono stato quattro anni in minoranza nel partito guidato da Pier Luigi Bersani, ma ho sempre votato in conformità con le decisioni del partito anche quando non mi sono trovato d'accordo. Non sottovaluto il peso di una questione che si trascina da più lustri, certo, e del resto siano ancora nella fase di definizione della delega. Sarà poi il governo a decidere. Ma l'orientamento è molto chiaro.

La Stampa 20.9.14
Epifani: il reintegro esiste ovunque toglierlo è un rischio
“Non mi fido del solo risarcimento al lavoratore”
intervista di Paolo Baroni

Certo, in Italia il solco tra lavoratori garantiti e lavoratori non garantiti è grande, ma questo problema non si risolve creando nuove divisioni. E se il nodo, invece, è quello di favorire la crescita «il problema va rovesciato: non sono le regole del lavoro che favoriscono lo sviluppo quanto gli investimenti». Per cui, invece di cambiare di nuovo l’articolo 18, «occorre mettere in primo piano politica industriale e politica fiscale» spiega Guglielmo Epifani. «E’ vero – sostiene l’ex segretario della Cgil - c’è un problema di modernizzazione del mercato del lavoro, un mercato molto segmentato, dove negli anni si è accentuata la precarietà. Ora serve un riordino: ma non perché lo chiede l’Europa, ma perché lo chiede la condizione sociale del Paese». Il presidente della Commissione attività produttive della Camera pensa che la riforma, alla fine, debba rappresentare «il punto comune di una valutazione che appartiene a tutto il Paese. A mio modo di vedere, tutela del lavoro, dignità del lavoro, un diverso rapporto lavoratore-impresa devono far parte di un’idea di sviluppo che deve essere compatibile col fatto che dobbiamo competere con prodotti, servizi e aziende di qualità». 
Quindi che riforma serve ?
«Il primo punto da cui partire è collegare formazione e lavoro in maniera più stabile e forte. Abbiamo bisogno di formare di più e meglio i lavoratori con un rapporto più stretto coi fabbisogni delle imprese, cambiando totalmente il rapporto tra scuola, università, ricerca e lavoro sull’esempio degli Usa. E poi, sul versante delle imprese, occorre migliorare la qualità della domanda, per evitare di vedere fuggire in Germania i nostri ingegneri. Bisogna puntare sulla qualità, perché a noi non serve un modello di sviluppo incentrato su decentramento delle produzioni, prezzi bassi e grandi quantità. Questo è un modello di sviluppo “basso” che non risponde all’esigenza di arrestare il declino dell’Italia».
Detto ciò la questione-apartheid resta però irrisolta.
«E’ il secondo punto da affrontare: il nostro mercato del lavoro deve essere reso più inclusivo. Oggi ci sono lavoratori che non hanno diritti. Tra i giovani sono la maggioranza. Il diritto alla maternità va certamente esteso a tutti e va superata la cassa in deroga, che è stata utile ma non può essere certamente “il modello” perché è troppo occasionale. Mentre invece bisogna poter garantire a chi resta senza lavoro una tutela più universale. E per far questo occorre riformare anche gli strumenti di avviamento e accompagnamento al lavoro, che da noi funzionano male. Inoltre col Jobs act bisogna trovare il modo di semplificare il numero dei modelli contrattuali».
Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti può essere la soluzione?
«Questa è una buona soluzione, ma bisogna fare in modo che assorba e sostituisca una parte consistente delle forme spurie tipiche del lavoro. E soprattutto occorre vedere bene la questione del reintegro».
Nel testo votato ieri non se ne fa cenno. Va lasciato o tolto?
«Chiariamo subito che in molti paesi europei il reintegro, magari con forme diverse, c’è. Non è vero che non c’è. Ora però se lo si fa saltare totalmente per affidarsi unicamente al risarcimento monetario si crea una soluzione che ha un limite fondamentale, come ci dimostra la Spagna di oggi. Si parte con un risarcimento alto, alla prima difficoltà poi lo si dimezza, quindi con la crisi lo si fa saltare del tutto. Col risultato che il lavoratore resta senza tutela. Poi pensiamo ad un lavoratore licenziato con l’accusa di aver rubato, se poi si dimostra che questa accusa è falsa perché non può essere reintegrato? Il cuore della discussione è questo e per questo invito il Pd a riflettere».
Ma su questo tema si può davvero creare una frattura nel partito?
«Dipende da come si risolve la questione: è chiaro che su questo punto possono maturare posizioni differenti. Ma, ripeto, per me questo è un tema importante, che non appartiene all’altro secolo ma attiene alla qualità del lavoro e all’idea di sviluppo di oggi e di domani».
Ma allora il reintegro va lasciato com’è, o si può affinare ulteriormente?
«Si può affinare, ma già ipotizzare che scatti dopo tre anni è un bel salto. Detto questo, pensare che chi ce l’ha lo può tenere,mentre i neoassunti non lo possono avere mai più non mi convince. E’ questa la soluzione migliore: ridividere i lavoratori per generazioni?».

Corriere 20.9.14
Orfini: i sindacati si sono  voltati dall’altra parte
Il presidente Pd: «Chiariamo i punti più delicati per evitare interpretazioni eccessive»
di Monica Guerzoni
qui

La Stampa 20.9.14
Chiudere col passato che non passa
di Marcello Sorgi

No, non è solo l’articolo 18 a dividere Renzi dalla pattuglia dei suoi avversari nati nel Pci. È un groviglio di passioni, un vissuto che sta sotto le insegne del «lavoro» e dei «lavoratori», ma richiama alla memoria tutto l’insieme «comunista», in cui rientrano a pieno titolo le celebrazioni di Togliatti e Berlinguer.
Entrambi emarginati prima e oggi pienamente riabilitati: il partito, il sindacato, le sezioni, la fabbrica, le assemblee, i cortei, le lotte, le vittorie e le sconfitte di mezzo secolo di vita di un’organizzazione che a dispetto della sua cuginanza con l’Urss, s’è sempre sentita molto italiana. Un edificio - meglio sarebbe dire una cultura, un gran pezzo della recente storia italiana - che sembrava ormai sepolto. Almeno da quando, nel 2007, è nato il Pd, sulle ceneri novecentesche dei grandi partiti di massa, e con l’intenzione di scrivere una pagina nuova nell’esperienza della sinistra al governo.
Ma ora che il ciclone renziano, dopo aver rottamato gli ultimi eredi di quella tradizione, si appresta a cancellarne anche le tracce - il complesso di slanci e dubbi, di convinzione e ambiguità, quei due passi avanti e uno indietro che accompagnano da sempre l’evoluzione della sinistra -, Bersani, D’Alema e Cofferati dicono no. Il paradosso è che i leader che più si sono spesi per costruire una sinistra riformista, ora invece si oppongono e non riconoscono a Renzi, non tanto il diritto di fare ciò che ha in testa, ma di farlo alla sua maniera.
Così difendono un mondo che loro stessi hanno contribuito a superare: il comunismo italiano condannato, da limiti ideologici e internazionali, a stare all’opposizione per quasi cinquant’anni; ma non per questo escluso dalle grandi scelte. Il vecchio partito «di lotta e di governo», il gruppo dirigente «forgiato nella lotta antifascista», il Pci berlingueriano del «non si governa senza di noi». 
Ora che il Pd ha un segretario nato nel ’75, e una segreteria fatta di trenta-quarantenni, è difficile spiegare ai ragazzi che hanno preso il loro posto che una stagione, finita quanto si vuole (e finita da venticinque anni, verrebbe da aggiungere), non può essere messa da parte sbrigativamente. Senza quelle riflessioni, liturgie, pedagogie, di cui appunto si nutriva il Pci. Il partito delle grandi battaglie e manifestazioni popolari, eternamente riconvertite negli accordi e negli inevitabili compromessi di cui è fatta la politica. Il partito del centralismo democratico, in cui tutti discutevano, ma presto o tardi dovevano adeguarsi alla linea del segretario. Il partito dei grandi intellettuali, Moravia, Calvino, di cineasti come Visconti e Pasolini, di pittori come Guttuso. Il partito in cui un buon dirigente, per crescere, non doveva fare a botte con la polizia e doveva andare a distribuire i volantini davanti ai cancelli della Fiat.
La dimensione dell’antagonismo - operai contro capitalisti - era sempre fondata sul rispetto. Gianni Agnelli ricordava che «per un periodo i segretari comunisti parlavano solo piemontese». Quando Agnelli morì, nel gennaio 2003, gli operai torinesi, inaspettatamente, per un giorno e una notte sfilarono davanti al feretro, in segno di rimpianto. Questo perché la fabbrica era, sì, il teatro dello scontro: eppure, il sistema di relazioni tra parti avversarie prevedeva di fermarsi un attimo o un centimetro prima dell’irrimediabile: non a caso - e fu l’eccezione che confermava la regola - l’unica volta che quest’imperativo non venne rispettato, dalla fabbrica insorse la rivolta dei «colletti bianchi». 
La «marcia dei quarantamila» del 14 ottobre 1980 a Torino, con quasi dieci anni di anticipo sull’89 della caduta del Muro di Berlino, rappresentava la fine di quel mondo e di quel modo di essere, in cui perfino il calendario era segnato da scadenze corrispondenti: la riunione delle «Alte direzioni» Fiat in cui i vertici del gruppo si confrontavano sul modo di accrescere i profitti e aumentare la produttività, anche a costo di ridurre i posti di lavoro. E, parallelamente, la «Conferenza di produzione» in cui Pci e Cgil facevano il lavoro opposto. A quel tempo - è trascorso più di un trentennio, lo Statuto dei lavoratori aveva dieci anni, Craxi e il grande scontro sul taglio della scala mobile evocato in questi giorni erano alle porte - la fabbrica fordista era già finita. Dario Fo continuava a cantare nei teatri la ballata del lavoratore «parcellizzato» sottoposto alla rigorosa «misurazione dei tempi e dei metodi» («Prima prendere/poi lasciare/destra sinistra/ quindi posare/dare un giro/poi sorridere/questa è la vita del parcellizzato/l’operaio sincronizzato»), ma negli stabilimenti era già stata introdotta la lavorazione «a isola», che integrava il rispetto dell’autonomia artigiana del singolo dipendente con l’esigenza di contrarre gli organici.
È il periodo in cui il capitalismo nostrano comincia a interrogarsi sulle conseguenze della globalizzazione e la sinistra di opposizione, al contrario, si rifiuta di farlo. Errore imperdonabile, che condizionerà tutto il decennio successivo, quello in cui sulle macerie della Prima Repubblica arriva a sorpresa Berlusconi. E il Pci, poi Pds e Ds, invece di competerci sul piano dei programmi di governo, decide di combatterlo e basta, magari a ragion veduta, ma senza porsi il problema di cosa accadrà se e quando ad andare al governo sarà la sinistra. Così che quando succede, nei sette anni complessivi dei governi Prodi, D’Alema, Amato e ancora Prodi, il partito ha cambiato nome varie volte, ma sotto sotto è ancora quello «di lotta e di governo»: pro e contro i magistrati, secondo se se la prendono con Berlusconi o con i primi gravi casi di corruzione che affiorano all’interno del centrosinistra; pro e contro le riforme economiche, se è al governo o all’opposizione; e addirittura pro e contro la tv privata, con D’Alema che in campagna elettorale va a Cologno Monzese a elogiare Mediaset come parte importante del patrimonio culturale del Paese, ma poi cambia idea quando il Cavaliere torna a Palazzo Chigi.
Per questa strada si arriva alla grande manifestazione del 23 marzo 2002, contro la cancellazione dell’articolo 18 decisa da Berlusconi. Tre milioni di persone a Roma, nel catino del Circo Massimo, Cofferati sul palco e il governo di centrodestra, spaventato dalla prova di forza, che fa marcia indietro. È l’ultima foto di gruppo della generazione post-comunista, prima della confluenza nel Pd e della diaspora correntizia. Da quella radiosa «giornata di lotta», alla malinconica chiusura della campagna elettorale del 2013, quando Bersani si rivolge ai suoi dal palcoscenico dell’Ambra Jovinelli, un teatro romano di cabaret, sembra passato un secolo. A riempire la piazza del Primo maggio, una San Giovanni traboccante, è arrivato Grillo. È la vigilia della terribile sconfitta, pardon, della «non vittoria», come sarà definita, del 25 febbraio, che porterà Renzi alla guida del partito e poi a Palazzo Chigi, e riporterà Napolitano al Quirinale.
Ma se tutto era finito da un pezzo, viene da chiedersi cosa c’entri ancora questo con l’articolo 18 e l’accelerata impressa dal premier al Jobs Act. In fondo in fondo, quasi niente. Bersani e D’Alema lo sanno, anche se vorrebbero che questo pezzo di storia, il passato che non passa mai e gli errori di questi anni, venissero archiviati con un po’ più di cura. Senza i calci nel sedere e le maniere spicce con cui Renzi li ha trattati finora.

Corriere 20.9.14
La spallata finale pensando a Blair
Ma non basta l’innovazione della «flexsecurity»
Il governo spieghi cosa vuole fare
di Dario Di Vico

Quella che si è aperta tra il premier e la Cgil è una battaglia che cova da lungo tempo all’interno della sinistra italiana. I protagonisti di oggi sono in qualche modo nuovi, Matteo Renzi e Susanna Camusso ma i rispettivi ruoli sono stati già interpretati da altri attori nel recente passato. La disfida che viene in mente per prima, se non altro per l’analogia con l’iniziativa governativa di abolire l’articolo 18, è quella tra Massimo D’Alema e Sergio Cofferati. Un duello per certi versi epico, condotto in un tempo — la seconda metà degli anni 90 — nel quale ci si confrontava ancora davanti a platee in carne e ossa e non negli studi di qualche talk show. Un tempo nel quale contavano gli applausi dei compagni e la capacità di convincerli — verrebbe da dire — uno a uno. Il match alla fine fu risolto non da un referendum, né da un congresso ma da una fiumana, quella che riempì il Circo Massimo e fu conteggiata dagli amanti del genere in tre milioni di persone convenute per applaudire un segretario generale della Cgil capello al vento, vagamente alla Mao. Ma prima ancora che in Italia lo scontro tra partito e sindacato si era pienamente dispiegato in Gran Bretagna. Tony Blair, schernito come nient’altro che una variante del thatcherismo, sfidò le Unions e le travolse creando i presupposti di un lungo ciclo politico durante il quale la sinistra inglese cambiò totalmente sangue. Non altrettanto epico fu lo scontro tra Gerhard Schröder e i potenti sindacati tedeschi ma in quel caso la posta in gioco era comunque altissima e alla fine i risultati non solo hanno dato ragione al cancelliere ma hanno contribuito a dare un vantaggio competitivo alla Germania e a farne quella potenza economico-sociale che è oggi. Insomma guai a banalizzare un conflitto di questo tipo, la storia recente dell’Europa (e non della sola sinistra) ne è stata sempre fortemente influenzata. Certo questa volta non siamo più nel Novecento, siamo nell’era dello smartphone e insieme della Grande Crisi per cui non è detto che il copione sia lo stesso. La fedeltà al partito e al sindacato ha lasciato il posto allo zapping, il sindacato per molti è una struttura di servizio (fisco e patronato) e le sezioni di partito fanno già parte del modernariato. Ma soprattutto né Blair né Schröder erano degli osservati speciali da parte degli organismi sovranazionali e invece il duello Renzi-Camusso avviene in una zona intermedia tra piena sovranità nazionale e commissariamento. Sul piano dei contenuti il giovane Matteo in fondo non sta inventando niente e guarda caso a primeggiare sono le idee di Pietro Ichino, uno che le cose di oggi le scriveva già negli anni 90 e i big del centrosinistra lo attaccavano in pubblico mentre in privato gli mandavano messaggi di piena condivisione. Anche la Cgil in fondo recita il copione conservatore di tutti i sindacati che hanno paura di cosa c’è dietro l’angolo ma non possiamo dimenticare che quella tradizione ha prodotto in passato due giganti come Giuseppe Di Vittorio e Luciano Lama, che ai loro tempi erano più pragmatici e responsabili dei loro segretari di partito.
Dunque per Renzi il dado è tratto e non ci resta che vedere l’andamento della battaglia. Una cosa però gli va chiesta: eviti di farne solo un conflitto nel campo della comunicazione, terreno che predilige. La vittoria del Pd alle europee si deve a molte scelte azzeccate inclusa, al Nord, la contrapposizione con la Cgil. Stavolta però non c’è da convincere l’elettore di centrodestra a tradire il suo campo, in ballo ci sono assetti di medio periodo della società italiana. Ci sono da riperimetrare i rapporti di forza tra insider e outsider, tra i lavoratori rappresentati da Cgil-Cisl-Uil e i giovani precari a vita, persino tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. E ci vuole, dunque, una cassetta degli attrezzi che non sia limitata alla pur importante innovazione della flexsecurity. Insomma se la pars destruens del premier (non a caso chiamato ancora «il rottamatore») è tutto sommato chiara, è quella construens che ancora è indistinta. Sembra più elaborata dagli spin doctor che devono conquistare i titoli dei tg che da qualcuno che ne capisca davvero di sviluppo, lavoro e imprese.

Corriere 20.9.14
C’è chi evoca i «tecnici». E spunta il nome di Visco
di Francesco Verderami

È davvero «l’ultima spiaggia»? E per chi: per l’Italia, per Renzi o per i suoi oppositori? Nel momento in cui la crisi economica incrocia (ancora una volta) i destini della politica, è come se il premier invitasse i suoi avversari ad uscire allo scoperto. L’ha fatto l’altro giorno alle Camere, evocando le elezioni anticipate: ma ciò che è parso un desiderio nascosto dietro una minaccia, in realtà era un messaggio i cui destinatari stanno dentro e fuori il Parlamento, e ai quali Renzi ha tenuto a dire che non esistono alternative al suo governo, che in questa legislatura dopo di lui c’è solo il voto
È la sfida lanciata a chi «pensa a una operazione tipo Monti e immagina una soluzione di riserva», concetto che il leader democrat ha esplicitato davanti alla segreteria del suo partito. Se nessuno al Nazareno è stato colto di sorpresa da un’affermazione tanto grave, è perché «nel Pd c’è chi discute di questa eventualità», come rivela Civati, che nel suo racconto — pur senza farne esplicito riferimento — sembra alludere a certi incontri conviviali della minoranza dem, organizzati da vecchie glorie della «ditta». Il tema è così noto agli abitanti del Palazzo, che c’è un’assoluta coincidenza tra la ricostruzione del dirigente pd e quella del capogruppo ncd Sacconi, visto che entrambi raccontano persino gli stessi dettagli della stessa storia, e il nome su cui si farebbe affidamento: «Quello del governatore di Bankitalia, Visco», a cui Bersani meditava di offrire il ministero dell’Economia, se fosse andato a Palazzo Chigi.
Sia chiaro, nessuno in Parlamento avrebbe oggi la forza per realizzare una simile operazione, che pertanto non sarebbe frutto di un processo politico ma conseguenza dell’ennesima crisi di sistema, a cui aprire intanto un varco — smontando l’idea renziana che «questo governo è per l’Italia l’ultima spiaggia» — così da costruire una rete di protezione per portarla a compimento. Ora si capisce meglio la battaglia del premier per il «primato della politica» contro i «tecnici che non hanno mai azzeccato nulla», e si delineano i profili dei «gufi» a cui fa spesso riferimento. In fondo, per gli avversari del rottamatore questa sarebbe l’unica possibilità per rottamarlo, per farne una breve parentesi servita a fermare il populismo grillino.
Ed ecco che davanti alla sfida del premier — secondo il quale dopo il suo governo ci sono solo le elezioni — nel Pd iniziano a fiorire i distinguo. Cuperlo, per esempio, dice che «ragionevolmente dopo Matteo c’è solo il voto, anche se la politica a volte ti mette di fronte a degli scarti imprevedibili». E Fassina, dal canto suo, sostiene di lavorare «per cambiare l’agenda di governo piuttosto che cambiare governo. Anche perché in un quadro europeo difficilissimo, una nostra giostra elettorale rischierebbe di far saltare tutto».
Che si tratti quindi di un’ultima spiaggia è evidente. Bisogna capire per chi, perché Renzi dopo aver vinto le primarie, preso il governo, imposto la riforma del Senato e la riforma elettorale, si approssima alla riforma del lavoro con lo stesso «metodo», tanto da aver fatto venire le vertigini ai giovani esponenti della segreteria pd l’altro giorno: «La difesa dell’articolo 18 è uno slogan del passato e chi non lo capisce è un retrogrado. Questa sarà anche la nostra risposta all’Europa e a chi vorrebbe fermarci».
Ecco la sfida, che non sfocia nella minaccia di elezioni anticipate, anche perché se Renzi avesse la bacchetta magica fisserebbe questa situazione politica anche oltre il 2018: sta al governo con un alleato leale e con cui ha stabilito un solido rapporto, alla sua sinistra ha un’area radicale declinante e in cerca di apparentamento, all’opposizione un «comico impresentabile», e un avversario che gli fa da sponda e (per ora) nemmeno candidabile. Perciò se qualcuno «pensa a una soluzione di riserva» e vuol tornare ai «tecnici» deve solo dirlo. Gli effetti sarebbero devastanti.
Il premier si sente al sicuro, e c’è la prova poi che non mira alle elezioni il prossimo anno, se è vero che — come sottolinea il coordinatore di Ncd, Quagliariello — «la sua idea di affrontare subito la riforma del sistema di voto non avvicina le urne, bensì le allontana. Perché l’Italicum è costruito per un solo ramo del Parlamento e dunque senza la modifica del Senato non si potrebbe applicare».
L’accelerazione semmai è stata (anche) un modo per assecondare le richieste del Colle: è noto infatti che Napolitano attende il varo della nuova legge elettorale e un altro voto sulla riforma costituzionale per considerare raggiunto l’obiettivo del suo mandato, e auspica che tutto ciò avvenga entro fine anno. A quel punto sceglierà se e quando dichiarare conclusa la sua missione. A quel punto inizierà un’altra sfida di sistema: al Quirinale salirà un «politico» o un «tecnico»?

Repubblica 20.9.14
Draghi, i governi e i passi falsi
di Eugenio Scalfari

SUI giornali di tutta Europa ieri mattina campeggiava nelle prime pagine l’asta della Bce che sperava di collocare almeno 100 se non addirittura 150 miliardi di prestiti alle banche, ma ne aveva erogati soltanto 83. La richiesta di liquidità del sistema bancario per quattro anni di durata e a bassissimo tasso di interesse (lo 0,15 per cento) era stata circa metà del previsto. Draghi aveva dunque sbagliato diagnosi e ricetta per sconfiggere la deflazione?
La risposta a questa domanda nella maggior parte dei media era prudente nella forma ma critica nella sostanza: sì, Draghi aveva sbagliato. Ma qual era stato l’errore? Risposta: sopravvalutare il bisogno di liquidità in un’economia senza crescita.
RIDOTTO all’osso: non è la Bce e quindi non è Draghi che può salvare l’Europa e la sua moneta. I fattori sono altri e riguardano l’economia reale, non quella monetaria. I vessilliferi di questa tesi sono da sempre alcuni grandi giornali americani ed europei e in particolare il Financial Times, il Frankfurter Allgemeine, il Wall Street Journal e cioè, per dirlo con chiarezza, la business community della Germania, la City di Londra e Wall Street; banche d’affari, fondi d’investimento speculativi, interessi che vedono l’euro come il fumo negli occhi.
I siti internet ieri avevano invece già cambiato tema e le Borse, che giovedì erano state piuttosto pesanti, ieri erano in eccezionale euforia: la secessione scozzese era stata battuta al referendum, il Regno Unito restava tale, la sterlina saliva ad un tasso di cambio nettamente più forte del dollaro e dell’euro, le critiche a Draghi confinate nelle sezioni economiche.
Non c’è di che stupirsi, il circuito mediatico segue l’attualità. Del resto il referendum scozzese aveva sconfitto la tesi della secessione e la sorte dell’Europa era cambiata. Se il risultato fosse stato l’opposto probabilmente l’Europa oggi sarebbe agitata da un’altra tempesta che si aggiungerebbe a quelle già esistenti.
Il tema della deflazione, della liquidità, del credito bancario, resta dunque, superato senza danni lo scoglio scozzese, un elemento dominante della situazione. L’Europa supererà la recessione che l’ha colpita e la deflazione che la sta soffocando? * * * La deflazione dipende da un crollo della domanda, la recessione dal crollo dell’offerta. L’Europa sta soffrendo di entrambi questi fenomeni ed è evidente che questa contemporaneità aggrava la crisi. Fino all’anno scorso si diceva che avevamo purtroppo raggiunto il livello di squilibrio del 1929; adesso si dice giustamente che l’abbiamo superato.
Per sconfiggere la deflazione occorre una liquidità che tonifichi il sistema bancario e il volume dei prestiti che esso è in grado di offrire alle imprese. Ma se le imprese non hanno nuovi beni e nuovi servizi da offrire, non chiederanno prestiti alle banche. Il reddito nazionale diminuirà e con esso l’occupazione, i prezzi delle merci e dei servizi e le attese di ulteriori ribassi.
La Banca centrale offre liquidità alle banche ed esorta le autorità europee e i singoli governi nazionali ad effettuare riforme che rendano le imprese più competitive e con maggiore produttività. Le esorta, ma non spetta a lei di manovrare il fisco e influire sull’economia reale.
Questo compito è assegnato alla Commissione europea. Sono la Commissione e il Parlamento a dover creare le condizioni di rilancio dell’offerta produttiva e quindi della crescita. Se questo non avviene il disagio sociale aumenta e altrettanto aumentano le diseguaglianze tra i ricchi, il ceto medio, i poveri.
Mi domando se la realtà di quanto sta accadendo sotto i nostro occhi sia chiara ai governi confederati nell’Unione europea. A mio parere no, non è affatto chiara perché ciascuno di loro pensa a se stesso, al proprio egoismo nazionalistico, al proprio potere politico.
Trionfo della politica sull’economia? Questo slogan esprime una volontà di potenza localizzata e sballa un sistema debole e incompleto. La Germania pensa a se stessa e idem la Francia, l’Italia e tutti gli altri. Questo è lepenismo allo stato puro, leghismo a 24 carati ed è ciò che voleva il 45 per cento degli scozzesi. Sembra paradossale sottolineare che il nazionalismo imperante coincide con le varie leghe antieuropee. Sono tutti e due fenomeni negativi che differiscono sulla localizzazione ma hanno la medesima natura: la politica deve dominare l’economia.
Questo è il clima che alimenta i governi autoritari e le dittature che non si accorgono dell’insufficienza degli Stati nazionali o regionali di fronte ai continenti.
L’America del Nord è un continente, la Cina, l’Indonesia, la Russia dal Don a Vladivostok è un continente, l’America del sud è un continente. E noi ci battiamo per gli staterelli europei o addirittura per molte regioni inventate come la Padania? È la stessa cosa, lo stesso terrore, la stessa corta vista che ha la sua motivazione nella volontà di potenza dei singoli leader e nell’indifferenza di gran parte dei popoli ad essi politicamente soggetti.
Noi europei per uscire dalla crisi che ci attanaglia ormai da cinque anni dobbiamo riformare lo Stato con riforme mirate contro la recessione e la deflazione. La Banca centrale mette una massa monetaria a disposizione ma farà anche di più: sconterà titoli emessi dalle aziende, acquisterà titoli sovrani sul mercato secondario, punterà (e in parte c’è già riuscita) a svalutare il tasso di cambio euro/dollaro per favorire le esportazioni.
Ma nel frattempo i governi, seguendo la politica della Commissione di Bruxelles dovranno privilegiare le riforme economiche su tutte le altre. Il nostro presidente del Consiglio vuole fare insieme una quantità di riforme per portare al termine le quali ci vorrebbero almeno due legislature. Chi può credere a programmi di questo genere?
Forse ignorano le cifre che riflettono la realtà, oppure hanno deciso di non tenerne conto.
Faccio un esempio (ne ha già parlato il collega Fubini ma merita d’essere sottolineato). Si tratta della disoccupazione tra Italia e Spagna. Le cifre ufficiali dicono che in Italia è al 12 per cento e in Spagna al 24.
La Spagna è dunque al doppio di noi calcolato sul numero degli abitanti quale che ne sia l’età.
Ma la realtà non è questa. Se calcoliamo sulla popolazione attiva l’occupazione è in tutte e due i paesi del 36 per cento. Se calcoliamo sull’età dai 16 ai 64 anni gli occupati in Spagna sono il 74 per cento e in Italia il 63. Il governo conosce queste cifre? E se ne domanda il perché? La Spagna cresce più di noi. Come mai? Dov’è che stiamo sbagliando? L’ho già detto varie volte perciò non mi ripeterò. Dico soltanto che non è Draghi che sbaglia e neppure le autorità di Bruxelles cui la Spagna ha obbedito passo dopo passo. C’è anche un modo di fare i passi giusti e quelli sbagliati.

il Fatto 20.9.14
Bruno è impresentabile, ma piace un sacco al Pd
Il candidato di Renzusconi alla Corte costituzionale nega di essere indagato (“Non ho ricevuto avvisi di garanzia”). Invece lo è
Per il Pd nulla di strano: “Non è una condanna”
Il suo coinvolgimento nella gestione del crac di Itr Holding non turba la Serracchiani che lo appoggia: “Non è condannato”
di Antonio Massari
qui

il Fatto 20.9.14
Alla Corte può restare impunito per 9 anni
di Marco Lillo

Donato Bruno non ha fatto una piega quando gli hanno chiesto un commento alla notizia pubblicata ieri in esclusiva sul Fatto: “Sono sereno e non rinuncerei alla candidatura anche se fossi indagato”. Mentre Matteo Renzi attivava un canale con la Procura di Isernia, sperando in una smentita che non è arrivata, Debora Serracchiani alle 9 e 30 di mattina, alla trasmissione Agorà confermava l’appoggio a Violante aggiungendo a beneficio di Bruno: “Un avviso di garanzia non è una sentenza”.
A QUEL PUNTO Bruno giocava le sue carte abilmente facendo leva sul fatto che l’iscrizione sul registro degli indagati non gli è stata ancora notificata. Alle 14 e 38 le agenzie di stampa pubblicavano una nota nella quale il senatore chiedeva al Fatto una rettifica senza però rettificare alcunché. La nota va letta tra le righe. Bruno non scrive di non essere indagato ma solo: “Non mi è stato mai notificato alcun atto giudiziario dal quale risulti una mia pretesa posizione di ‘inquisito’ e sono stato sentito nella diversa veste di ‘persona informata dei fatti’”. Due affermazioni che non contrastano con la notizia data dal Fatto e mai smentita dalla Procura di Isernia.
Il senatore è indagato per concorso nel reato di interesse privato del curatore negli atti del fallimento, previsto dall’articolo 228 della legge fallimentare anche se, in precedenza, era stato sentito in altra veste e anche se non ha ricevuto ancora un avviso. Nessuno obbliga la Procura a notificare l’avviso se non deve fare atti come un’acquisizione di documenti (vedi il caso Eni-Nigeria) o una proroga indagini dopo i sei mesi (vedi il caso del padre di Renzi) e fino a quel momento la notizia può restare custodita negli archivi del pubblico ministero.
Come l’avvocato Bruno sa bene, però, c’è un modo per sgombrare il campo dagli equivoci. Basta che lui stesso, o un suo legale, oggi si presenti alla cancelleria della Procura di Isernia, salga le scale fino al secondo piano e infili la porta della stanza 8 per presentare un’istanza ex articolo 335 c. p.p.. A quel punto il responsabile sarà tenuto a rilasciare un documento che attesti l’assenza di iscrizioni a carico di Bruno. I pm devono comunicare le iscrizioni “alla persona alla quale il reato è attribuito e ai difensori, ove ne facciano richiesta”. Una regola che soffre solo un’eccezione se ci sono “specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine”. In quel caso il pm potrebbe mantenere il segreto per un periodo non superiore a tre mesi. Questo però non sembra il caso di Bruno.
Il candidato alla Consulta può quindi conoscere prima della prossima votazione del Parlamento, programmata per martedì, il suo status. Di conseguenza il Pd non ha scuse per votare ad occhi chiusi. Se vuole un inquisito alla Consulta può eleggerlo ma con piena scienza e coscienza. Renzi non deve telefonare in Procura per sapere se Bruno è indagato. Deve solo chiedere al candidato di procurarsi il certificato per sventolarlo in aula prima del voto.
CIÒ PREMESSO, sarebbe ben strano che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non facesse sentire la sua moral suasion in tal senso. Ai giuristi del Quirinale non sfuggirà, infatti, la situazione imbarazzante che si determinerebbe con l’ascesa alla Consulta di un indagato. Donato Bruno potrebbe ritrovarsi a decidere (ovviamente è un’ipotesi di scuola) sul suo caso e magari potrebbe scrivere una sentenza che lo aiuti a farla franca, sempre parlando per ipotesi ove mai l’inchiesta e un eventuale processo proseguissero in senso a lui sfavorevole. E già perché la Corte Costituzionale, nel 1999 con l’ordinanza numero 681 si è occupata proprio dell’articolo 228 della legge fallimentare. Un imputato voleva che il reato contestato a Bruno fosse abolito perché riteneva irragionevole che rimanesse dopo l’abrogazione di un reato simile: l’interesse privato in atti d’ufficio. In quel caso la Consulta salvò il reato 228 anche se ammise che il legislatore avrebbe dovuto risolvere qualche problema di coordinamento con la nuova normativa.
A prescindere da questo potenziale conflitto di interesse la nomina di un indagato alla Corte provocherebbe una serie di effetti indesiderati.
I giudici costituzionali godono della stessa immunità dei parlamentari ma con due differenze non da poco: il mandato del possibile giudice costituzionale Bruno scadrà nel 2023 mentre l’immunità del senatore Bruno scadrà al massimo nel 2018. Inoltre l’autorizzazione a intercettazioni o arresti (sempre per mera ipotesi) dovrà essere concessa dagli stessi giudici della Corte. Si verificherebbe una situazione inedita con 14 giudici costituzionali costretti a decidere la sorte del quindicesimo.
Le conseguenze in caso di condanna sarebbero ancora più grottesche. Il reato contestato a Isernia non prevede solo la reclusione da due a sei anni ma anche l’interdizione dai pubblici uffici. Per Bruno deve essere garantita la presunzione di innocenza. Certamente sarà in grado di dimostrare che non c’è nulla di male a ricevere 2,5 milioni di euro per la propria attività legale anche se commissionata da una terna di commissari nominata da un ministero guidato dal compagno di partito Claudio Scajola di cui fa parte anche un avvocato che lavora proprio nello studio di Bruno. Se però per assurdo i giudici si convincessero del contrario, la situazione si farebbe imbarazzante con un giudice costituzionale costretto a lasciare la carica da un giudice ordinario. Sempre che prima il giudice costituzionale non abroghi con i suoi colleghi il reato di interesse privato del curatore spuntando le armi al medesimo giudice penale. Scenari assurdi che però devono essere esplorati mentalmente prima di fare una nomina di rango costituzionale di durata novennale.

il Fatto 20.9.14
L’ennesimo indagato di Matteo
Adesso chi glielo dice a Forza Italia (e a Violante) che Bruno non può essere eletto?
di Wanda Marra

“A questo punto mi aspetto che se Donato Bruno è indagato la Procura lo dica”. Il responsabile Giustizia del Pd, David Ermini, avvocato e renzianissimo, in serata la mette così.
È per tutta la giornata che l’imbarazzo regna sovrano nelle file Dem: come si fa ad eleggere alla Consulta uno con un’indagine in corso per una consulenza di circa 2 milioni e mezzo di euro? Dalle parti di Palazzo Chigi si cercano verifiche ufficiali e intanto si prende tempo. Perché nonostante si sia arrivati giovedì alla fumata nera numero 13 sulla coppia Bruno-Violante, l’altra coppia, Berlusconi e Renzi intendeva procedere, quasi a scopo didattico: niente ricatti da parte di franchi tiratori. Ieri, però, la notizia dell’indagine. E ha un bel dire la vice segretaria dem Deborah Serracchiani che il candidato del Pd è Violante. Hanno un bel dire dirigenti del Pd a vario titolo che Bruno è un problema di Forza Italia. È evidente a tutti che l’assioma principale del Patto del Nazareno è procedere allineati e compatti.
E DUNQUE, una bella grana per il premier. Nonostante lo sbandierato garantismo delle ultime settimane, questo è un caso piuttosto diverso non solo per la carica di cui si parla, ma anche per il tipo di reato ipotizzato, si ragiona in ambienti Pd. Però, per ora Bruno non si può mollare. Da qui a martedì alle 12, quando si vota, le trattative saranno febbrili. L’obiettivo è arrivare ad altri due nomi, ma non è percorso così lineare. Paralisi del Parlamento assicurata, complicazione degli altri dossier in corso pure. Matteo Renzi - che tra l’altro la prossima settimanasaràinAmerica-habisogno dei voti di Forza Italia visto che sta cambiando lo Statuto dei lavoratori contro la volontà di una fetta consistente del suo partito. Senza contare che dovrebbe ripartire anche l’Italicum, dove il parere di Berlusconi è più che vincolante.
I guai giudiziari non arrivano, insomma, proprio a pennello. Martedì Renzi in Parlamento ha chiarito: “Aspettiamo le indagini e rispettiamo le sentenze”. Il giorno prima suo padre, Tiziano, aveva ricevuto un avviso di garanzia per bancarotta fraudolenta. Sempre martedì se l’era presa con gli scoop giornalistici che raccontavano le indagini a carico di Descalzi (per una presunta maxi tangente). Lo stesso ad dell’Eni, da lui nominato nella scorsa primavera, che aveva difeso appassionatamente in un tweet (“Felice di averlo scelto, se potessi lo rifarei”). Il premier non ha chiesto a Stefano Bonaccini di ritirare la sua candidatura alle primarie dell’Emilia Romagna: anche lui ha un’indagine in corso, peculato per 4300 euro.
SONO QUESTI gli ultimi casi, tutti scoppiati nelle ultime due settimane. Il presidente del Consiglio, peraltro, è in guerra con i magistrati dall’inizio della legislatura. E soffre la fine di una luna di miele perfetta con i giornali, mentre in Europa, tra gli imprenditori e più in generale nell’intellighenzia italiana su di lui si cominciano a nutrire dei dubbi. Insomma, è doppiamente accerchiato: da una parte ci sono le indagini, dall’altra quelli che si aspettano dei risultati più concreti. Intanto, al governo sono indagati i sottosegretari, Francesca Barracciu (peculato aggravato per 33mila euro), Vito De Filippo (3.840 euro pare in francobolli), Umberto Del Basso De Caro (per rimborsi facili in Regione), mentre il viceministro Filippo Bubbico è sotto processo a Potenza per abuso d’ufficio. E poi, c’è David Faraone, ex responsabile Welfare del Nazareno, in procinto di migrare a Palazzo Chigi, come Sottosegretario alla Scuola. Anche lui indagato per peculato (per una cifra di 3300 euro) per le “spese pazze” nell’Assemblea siciliana.
Il premier sta tenendo una posizione saldamente garantista. Anche se non è sempre stato così. Basta ricordare come da segretario si scagliava contro l’allora Ministro, Nunzia De Girolamo (indagata per abuso d’ufficio), per dire. Anche nel caso di Bruno, il garantismo potrebbe cedere a valutazioni di opportunità. Anche perché renziani di varia natura raccontano che il premier non ci tiene particolarmente a portare Violante alla Consulta: e dunque, nell’ipotesi più blanda non gli interessa chi ci va, in quella meno blanda potrebbe essere l’occasione di mettere un nome a lui più gradito. Come dimenticare le dichiarazioni di “incommensurabile stima” per Vasco Errani, dal palco della Festa dell’Unità di Bologna? Al di là degli ottimi rapporti tra il premier e l’ex governatore dell’Emilia Romagna, condannato per falso ideologico, con il potere rosso lì non si scherza. E dunque, ancora una volta, più che la giustizia peserà la convenienza.

Repubblica 20.9.14
Nomine alla Consulta Bruno indagato, nel Pd cresce il no al patto con i forzisti
di Giuseppe Caporale e Liana Milella

ROMA La procura di Isernia conferma, il candidato di Forza Italia al posto di giudice costituzionale Donato Bruno è indagato per truffa aggravata e concorso in interesse privato col curatore del fallimento Ittiere. Di mezzo c’è una consulenza da 2,5 milioni di euro. Non basta. Si scopre pure che di mezzo, sempre per una consulenza ma d’importo assai minore (150mila euro) c’è pure il figlio Nicola, già coinvolto nell’inchiesta romana sulle baby squillo. Bruno mette subito le mani avanti, annuncia azioni contro il Fatto che ha pubblicato la notizia, nega di aver ricevuto avvisi di garanzia, corre dall’ex Guardasigilli Paola Severino, nelle sue vesti di avvocato penalista, gli manda tre valigie di documenti, chiede di essere difeso e lei comincia a studiare la questione. Salta la sua candidatura alla Consulta? Nemmeno per sogno. I capigruppo di Camera e Senato, Brunetta e Romani, gli danno fiducia, lui passa la giornata al telefono, continua a definirsi «allibito» perché la consulenza affidatagli da Stanislao Chimenti, «che conosco da una vita », sarebbe «regolare». «È solo una schizzatina di fango che si poteva evitare..., ma un sacco di gente del mio partito e del Pd mi sta chiamando per manifestarmi solidarietà ». In due parole, per Bruno il problema «non esiste». Passo indietro? Nemmeno per sogno. «Si va avanti». Tant’è che il problema di Bruno adesso continua a essere l’analisi dei voti, quei 17-18 che finiscono a lui e a Violante, ma inutilmente per il Csm e non per la Consulta.
E nel Pd che succede? Qui l’imbarazzo si taglia a fette. Dice un magi- strato eletto nelle loro file che chiede l’anonimato: «La verità è una: Bruno non andava candidato. Adesso la situazione si può definire in un solo modo, del tutto imbarazzante ». Un’altra toga dei Dem s’interroga addirittura sulla sua permanenza nel partito. «Qui s’intreccia una questione politica con una tecnica, capire se un candidato sotto inchiesta può scalare la Corte costituzionale, il massimo giudice delle leggi. Poi c’è un coté morale rilevantissimo. Io non so se voglio restare in un partito che passa sopra a un candidato per la Consulta indagato per un reato grave».
La base scalpita, ma i vertici del partito vanno avanti. Ecco Serracchiani, «il nostro candidato è e resta Violante». E Bruno? «l’avviso di garanzia serve all’indagato per fare chiarezza». La teoria renziana dell’avviso di garanzia che «non può essere citofonato» trova la sua prima applicazione per la Consulta proprio nelle stesse ore in cui anche il padre di Renzi è indagato. Chi comanda nel Pd minimizza. Orlando, il ministro Guardasigilli. Zanda il capogruppo al Senato. Molti parlano prima di sapere che dagli uffici del procuratore di Isernia Paolo Albano arriva la conferma che l’indagine c’è, che Bruno è indagato, e che il figlio potrebbe essere coinvolto.
Adesso, per il Pd, il problema è Luciano Violante, legato a Bruno nella corsa alla Consulta. Il rischio è che cadano entrambi, quando si voterà martedì, proprio perché, nel segreto dell’urna, una parte del Pd si rifiuterà di votare per un candidato indagato. Seguire l’esempio di Luigi Vitali che per il Csm ha fatto dietro front? Bruno non ci pensa neppure. E questo imbarazza ancora di più il Pd.

il Fatto 20.9.14
Metamorfosi Serracchiani
L’Obama grillina divenuta previtiana
di Fabrizio d’Esposito

L’ultima frontiera del serracchianismo – anomalia politica sorella del più popolare renzismo – è diversamente previtiana. È stato ieri di buon mattino ad Agorà, su Rai3, che Debora senz’acca Serracchiani ha inaugurato la difesa democratica del valoroso Donato Bruno, berlusconiano indagato per una consulenza plurimilionaria. “L’avviso di garanzia è a tutela dell’indagato”. Stop. Una difesa a mitraglietta, al solito, nonostante quella esse sibilante che a Napoli si chiama zeppola in bocca. Poi, paventando il peggio, si è congedata: “Scusate ma adesso devo andare via”. Un inedito per la pluriquarantenne governatrice del Friuli Venezia Giulia, nonché vicesegretaria del Pd, che sta a suo agio più in televisione che nella sua regione.
La Serracchiani previtiana è il frammento recentissimo di un film horror modello Shining. Solo che qui il mattino non ha l’oro in bocca ma il faccione da furbastro di Donato Bruno. La malattia del potere, che si chiama poterismo, è implacabile, riesce a deformare anche le parabole più impensabili. Cinque anni fa, la numero due renziana partì da una sponda completamente opposta al suo presente. Aveva trentotto anni, la Serracchiani, era la segretaria del circolo di Udine ed era il primo giorno di primavera del 2009. A Roma, il 21 marzo, il Pd radunò a Cinecittà i cosiddetti quadri locali, perlopiù giovani, laddove altri ragazzi cercavano una gloria diversa negli studi del Grande Fratello e di Amici. La Serracchiani parlò dodici minuti ed ebbe in tutto trentacinque ovazioni. L’allora segretario del Pd Dario Franceschini, stordito, chiese ai suoi collaboratori: “E questa da dove esce? ”. Fu un incipit dalle due facce. L’inizio di tutto e l’inizio della fine.
SU YOUTUBE, il video del comizio di Debora senz’acca, a favore del biotestamento – “perché vengo dalla città che ha accolto Eluana Englaro” – fece boom e i giornali scavarono nella biografia di questa “sosia di Amélie che fa sognare i giovani del Pd”. Si scoprì che era romana di periferia, emigrata a Udine per amore del compagno. In Friuli Venezia Giulia, la scoperta del lavoro, da avvocato, e della politica, da liberale. Lo choc per la nomenklatura della vecchia ditta del Pd fu gigantesco. Al governo c’era il Caimano e sull’ispanico El País Miguel Mora vergò: “In due giorni è diventata la speranza di un’opposizione che cerca una voce nuova e unitaria. I più ottimisti la vedono come l’Obama del centrosinistra italiano”. Che anno quel 2009. Debora senz’acca Obama era il termine di paragone del nuovismo rottamatore. Pure per un rampante toscano di provincia che voleva diventare sindaco di Firenze. Scrisse Denis Verdini, sì proprio lui, il Marx del Partito unico renzusconiano, sul Foglio del 4 aprile 2009: “Da dove cominciamo? Ah sì, è vero, volevo buttar giù due riflessioncelle, qualcosa di serio insomma, sulla Debora Serracchiani dei lungarni, il fiorentino Matteo Renzi. Lo conosco bene, è un bravo ragazzo, nutrito a cacio e fave da un amorevole babbo a suo tempo leone della vecchia Dc”. Che anno quel 2009, davvero. Renzi vinse le primarie democrat e poi divenne sindaco. La Serracchiani volò a Strasburgo da eurodeputato e prese più preferenze di Berlusconi, 144mila circa. Lei precisò, da antiberlusconiana dura e pura: “Ho preso più voti di Papi, è vero”. Non solo. Per il Berlusconi a luci rosse “il Pd deve chiedere l’impeachment”. In campagna elettorale, sul suo blog, c’era un cesso virtuale dove buttare tutto quello che non si voleva più della politica. Per Debora senz’acca le priorità erano l’etica e la legalità, “in un partito che deve fare posto anche a Beppe Grillo”. Ma i sintomi della malattia, il poterismo, sotto forma di prudenza tattica e cooptazione, covavano a sua insaputa. Ed esplosero quando, sempre in quell’anno, Bersani si prese il Pd alle primarie. La base voleva Debora candidata ma lei si tirò indietro. In un’intervista disse che avrebbe scelto e sostenuto Franceschini, “perché è più simpatico”. La Serracchiani mancò l’occasione della sua vita (del resto è una Debora cui manca l’acca) e diventò franceschiniana. Da brividi. Da allora sul web per lei è un inferno e tutto cominciò a causa di quell’analisi così forbita, densa e dotta: “Voto Dario perché è più simpatico”. Il poterismo ha fatto piacere a Debora senz’acca non solo Donato Bruno ma lo stesso Renzi. “Matteo”, lei, non lo sopportava, e lui se ne doleva in decine di interviste. Alla fine lei è rimasta una numero due e lui è arrivato in cima. In questo il renzismo è differente dal serracchianismo. Nella segreteria c’era arrivata già con il traghettatore Epifani, dopo il disastro bersaniano del 2013. Oggi è vicesegretaria e ha un doppio ruolo come il Capo. Perché nel frattempo è diventata governatrice della sua regione adottiva. È anche lì il poterismo di Debora senz’acca sembra incurabile: contributi ad associazioni amiche, poltrone per i politici trombati, finanche un volo di Stato per andare a Ballarò. Dopo un lustro, la potenziale Obama con la frangetta è diventata previtiana.

il Fatto 20.9.14
Una strana idea della giustizia
risponde Furio Colombo

CARO FURIO COLOMBO, ormai l’attività principale degli italiani, con e senza lavoro, è ascoltare Matteo Renzi. Un discorso al giorno, secondo lui, leva la crisi di torno. Però sono rimasto incredulo quando gli ho sentito dire, in riguardo a una importante indagine giudiziaria: “Noi non consentiamo a un avviso di garanzia di cambiare la politica aziendale di questo Paese”. Noi chi?
Tommaso

È UN PASSAGGIO (detto in modo particolarmente drammatico, come un avviso da tenere a mente) del “discorso dei mille giorni”. I mille giorni trascorrono, e ormai è evidente che ciascuno dei giorni è dedicato a celebrare quelli appena passati (senza dimenticare ogni giorno la famosa vittoria europea del 41 per cento) e ad annunciare nuovi clamorosi eventi per i giorni che stanno arrivando. Ma la frase, detta ad altissima voce a proposito di una inchiesta appena annunciata che riguarda l’Eni e i suoi uomini di punta, appena nominati da Renzi, è un fatto nuovo. Accade che il capo dell’esecutivo avverta la magistratura di non mettersi in testa di indagare certe persone in certe posizioni. Ora s'intende che la presunzione di innocenza è totale ma, data l’obbligatorietà dell’azione penale, chi o che cosa potrebbe suggerire al giudice di non indagare? Le dimensioni dell’azienda, la sua portata nazionale e internazionale, gli interessi del Paese? Facile, naturalmente, citare Berlusconi e la sua gente e la loro lunga lotta contro l'azione penale obbligatoria, che, se abolita, e accorpata con la separazione delle carriere, rende plausibile la frase di Renzi (non si indaga quando non si deve indagare, punto e basta). Ma qui è non solo il primo ministro, ma anche il segretario del Pd che parla, e si porta dietro tutta la storia dei partiti che hanno formato il Pd. Saranno anche stati (lo sono stati) incredibilmente miti nel fare opposizione agli attacchi continui di Berlusconi contro la magistratura (“cancro da estirpare”). Ma, salvo alcuni, che si sono riposizionati prestissimo per accedere a candidature multiple per nomine bipartitiche, tutto ciò che sta dietro Renzi, persone e voti, è sempre stato dalla parte della magistratura, come sostegno dovuto a quello dei tre poteri democratici seriamente in pericolo, anche di vita. Il dibattito non è se il numero uno dell’Eni appena nominato da Renzi saprà dimostrare che c’è stata una svista clamorosa a suo danno (lo speriamo di cuore). Il problema è il gesto di alt del capo dell’esecutivo al farsi avanti di una iniziativa giudiziaria che, gradita o sgradita, risulta del tutto legittima e nell'ambito dei doveri e dei poteri dei magistrati inquirenti. Mi metto nei panni dei lettori. So che questa frase l'hanno sentita mille volte. Ma parlavamo del mondo illegale di Berlusconi. Nel mondo di Renzi e del Pd l'intimazione di alt alla magistratura appare nuova, incomprensibile e imbarazzante. Sicuro che non richieda una correzione?

il Fatto 20.9.14
Voluta da Renzi nella Segreteria Pd
La Bondi di Renzi: il passato di Covello con B.
di Gianluca Roselli

A parti invertite il pensiero va a Sandro Bondi, l’ex sindaco comunista di Fivizzano folgorato sulla via di Damasco da Silvio Berlusconi. Di transiti contrari finora non se ne aveva notizia. Ora, invece, proprio nella nuova segreteria del Pd, con l’importante delega al Mezzogiorno e ai fondi europei, è arrivata Stefania Covello, ex Margherita con un passaggio in Forza Italia, partito per il quale è stata consigliere comunale a Cosenza nel 2002, all’opposizione di una giunta di centrosinistra. Un passato che lei cerca in tutti i modi di rimuovere. Tanto che nel suo stesso partito alcuni l’hanno scoperto in queste ore. Nel curriculum, naturalmente, non ve n’è traccia. Né in quello parlamentare, né sul suo sito internet. “È stato un secolo fa, arrivavo da una lista civica e mi sono candidata con Forza Italia. Ma ho lasciato quel partito quasi subito, quando ho capito come funzionavano le cose lì dentro. E me ne sono andata quando Silvio Berlusconi era ancora in auge”, ha dichiarato la deputata appena entrata nella segreteria renziana.
IN REALTÀ, secondo gli esponenti cosentini di Forza Italia, la sua permanenza nel partito azzurro durò di più, almeno un paio d’anni, ma tant’è.
Il passaggio, però, le costò non poche critiche. L’accusa di trasformismo le piombò addosso dagli azzurri e non solo. Qualcuno nella Margherita alzò il sopracciglio. E nel 2005 alcuni burloni locali la candidarono al premio “Giuda 2005” riservato ai politici passati da uno schieramento all’altro. La notizia dell’ingresso in segreteria le giunge nel bel mezzo del Transatlantico di Montecitorio, mentre chiacchiera con l’azzurra Jole Santelli, anch’essa cosentina. “Ero con lei quando le è arrivata la telefonata”, racconta l’ex sottosegretaria berlusconiana. “Era molto emozionata, ma ancor di più lo era papà Franco (ex senatore Dc di lungo corso, ndr). Stefania la conosco da una vita. A Cosenza siamo vicine di casa e tra un po’ lo saremo anche a Roma, visto che verrà ad abitare a due passi da me. Sono contenta che nella segreteria di Renzi ci siano due cosentini, lei ed Ernesto Carbone. Anche perché tra di noi ci intendiamo meglio…”, aggiunge la Santelli.
Avvocato e broker assicurativo, Stefania Covello “è sposata con Andrea e ha due figli, biondi e bellissimi, Marco e Carla”, recita la sua biografia. Un altro che la conosce “fin da bambini” è Giacomo Mancini, assessore regionale calabrese di Forza Italia nipote dell’omonimo Giacomo Mancini, ex segretario del Psi, parlamentare dalla I alla XX legislatura, più volte ministro nonché sindaco di Cosenza dal 1993 al 2002. “Suo padre è stato un grande democristiano, mio nonno un grande socialista, abbiamo entrambi mangiato pane e politica fin da ragazzini”, racconta l’assessore forzista, tra l’altro in pole position per la candidatura a governatore. “Mi è dispiaciuto quando Stefania ha lasciato Forza Italia, ma non le ho detto nulla”, continua Mancini, “lei non ha certo bisogno dei miei consigli. Per quello c’è il padre, che la segue passo passo e al quale lei è molto legata”. E quando papà Franco decise di lasciare Forza Italia (per cui fu candidato alle Europee del 99 e alle Politiche del 2001 senza essere eletto) per la Margherita, Stefania lo seguì.
E così, come ci racconta la fotogallery del suo sito, eccola sorridere con Beppe Fioroni, poi a braccetto con Rosy Bindi e con Pierluigi Bersani. Immortalata pure con Mogol e Pippo Baudo. Nel 2006 diventa assessore provinciale alla Pubblica Istruzione. Nel 2009, dopo aver aderito al Pd, entra in consiglio regionale. Infine, nel 2012 - testuale dal sito - “si misura nelle parlamentarie del Pd ottenendo un mirabile risultato che Le permette di essere eletta alle elezioni della Camera dei deputati il 25 febbraio 2013”.
Se il suo mito è Aldo Moro, “un grande leader che ha perso la vita per i suoi ideali”, e il mentore il padre Franco, ora il suo cuore politico batte per Renzi. “Il Pd è un partito bellissimo, plurale, come la sua segreteria”, dice. Siamo “una squadra grandissimi”, insomma. La bionda deputata è anche una tra le più presenti in Aula, con una percentuale del 77, 7 per cento di votazioni, solo 3 in dissenso dal suo gruppo. Speriamo solo che ora non si metta a scrivere poesie come Sandro Bondi.

il Fatto 20.9.14
Reato di autoriciclaggio, tutto bloccato
Il testo nelle mani della Boschi e Ghedini
Ma la legge va verso l'insabbiamento
Nel nome, ovviamente, del patto del Nazareno, sempre più solido quando di mezzo ci sono gli interessi del Cavaliere
di Sara Nicoli
qui

il Fatto 20.9.14
Autoriciclaggio, il governo ha 4 giorni per insabbiare
Tentazione per la coppia Boschi & Ghedini: fermare la norma alla Camera
di Gianni Barbacetto

Milano Il momento della verità sarà mercoledì prossimo: quel giorno si riunirà la commissione Finanze della Camera e sapremo se il disegno di legge sul rientro dei capitali e sull’autoriciclaggio, elaborato dalle commissioni parlamentari, andrà in aula per essere approvato, oppure se il governo lo bloccherà, presentando un suo testo e facendo entrare in azione la nuova coppia di fatto delle larghe intese: Maria Elena Boschi e Niccolò Ghedini, che stanno lavorando sul tema.
IL TESTO DEL DISEGNO di legge ha avuto un cammino lungo e tortuoso. Messo a punto anche grazie al contributo del magistrato di Milano Francesco Greco, è stato approvato il 2 luglio dalla commissione Finanze della Camera e poi modificato a inizio agosto dalla commissione Giustizia. Ora sarebbe pronto per il voto finale. Contiene due provvedimenti: quello sul rientro dei capitali, la cossiddetta “voluntary disclosure, per far tornare in Italia i soldi infrattati all’estero dagli evasori, facendo loro pagare tasse e interessi; e quello sull’autoriciclaggio, per punire chi ripulisce e mette in circolo i proventi di un reato che ha egli stesso commesso. Il primo provvedimento farebbe rientrare nelle casse dello Stato almeno 1,3 miliardi di euro, secondo le stime più al ribasso, addirittura 2 o 3 miliardi secondo quelle più ottimistiche. “Sono mesi che i clienti italiani che hanno conti in Svizzera non dichiarati premono sulle banche e sugli intermediari finanziari italiani per riportare i soldi in Italia, contando che entri in vigore la ‘voluntary disclosure’. Non lo fanno perché si sono pentiti”, spiega la senatrice Pd Lucrezia Ricchiuti, “ma perché sanno che non potranno tenere ancora a lungo i loro soldi in nero: sono le banche svizzere a pretendere che si mettano in regola, su pressione degli Stati Uniti che hanno imposto agli istituti di credito di fornire informazioni sulle posizioni dei clienti americani, minacciando il congelamento dei loro conti. Così anche ai clienti italiani viene chiesto di fornire informazioni sulla provenienza dei loro soldi”.
IL PERCORSO è ormai tracciato. Il 27 settembre, a Parigi, verrà varato il nuovo trattato internazionale Ocse sulla trasparenza delle informazioni finanziarie. Lo firmeranno anche la Svizzera e il Lussemburgo. Sarà la fine del segreto bancario in Europa. Ecco perché è il momento per favorire i processi di emersione dei capitali italiani nascosti all’estero. “Però il rientro dei capitali deve essere fatto insieme all’introduzione del reato di autoriciclaggio”, dice Marco Causi, capogruppo del Pd nella commissione Finanze della Camera, “altrimenti si trasformerebbe in una sanatoria”. Ecco dunque il nodo da sciogliere, quello su cui vorrebbe entrare in partita, all’ultimo minuto, la coppia Boschi-Ghedini: rientro dei capitali sì, autoriciclaggio no. Ma senza il secondo, il primo si ridurrebbe a una sorta di condono. Lo Stato favorisce lo “sbiancamento” dei soldi in nero, ma avvertendo che chi non ci sta commetterà un reato penale grave quando vorrà utilizzare i suoi stessi soldi.
I “garantisti” del fronte berlusconiano vanno ripetendo che il reato di autoriciclaggio contrasta con il principio giuridico “ne bis in idem”, perché punisce due volte per lo stesso fatto (per esempio: per l’evasione fiscale e poi per l’utilizzo dei soldi frutto dell’evasione). “Ma sono invece due comportamenti diversi”, spiega Causi, “il reato di autoriciclaggio non punisce la disponibilità della somma, ma il suo concreto impiego che occulta la sua provenienza illecita”.
ORMAI IL RICICLAGGIO non è faccenda che riguarda soltanto i mafiosi, le organizzazioni criminali e il traffico di droga, ma anche l’evasione fiscale e i mercati finanziari internazionali. Greco, a un convegno della Fiom sulla legalità, ha recentemente affermato che “i costi della criminalità economica, del sommerso, del nero, dell’evasione fiscale sono la causa principale del declino e del mancato sviluppo di questo Paese”. Il magistrato si è poi chiesto: “Per lo Stato è più importante introdurre l’autoriciclaggio e il falso in bilancio, o ridurre per decreto legge le ferie dei magistrati? ”.
Nei mesi del lungo cammino del disegno di legge, il governo Renzi ha già provato una volta a separare i due provvedimenti, facendo sparire l’autoriciclaggio. Poi riapparso grazie alla caparbietà di due parlamentari Pd, Ricchiuti al Senato e Pippo Civati alla Camera, e al lavoro del capogruppo Causi. La coppia Boschi-Ghedini ora ci sta riprovando. Mercoledì sapremo se il patto del Nazareno è più forte del lavoro parlamentare e dei voti in commissione.

il Fatto 20.9.14
Bancarotta fraudolenta
Il papà di Matteo, i 38 milioni di buco e lo strano socio chiamato Massone
Tiziano Renzi, un fallimento tira l’altro (da 38 milioni)
Per “Eventi 6” ora rischia anche la madre
di Ferruccio Sansa e Davide Vecchi

Genova Non è soltanto per un fallimento di tre anni fa, come lamenta Tiziano Renzi. Gli accertamenti della Procura di Genova stanno ricostruendo l’intera vita imprenditoriale del padre del premier. Tutte le società nate nella casa di Rignano sull’Arno, i passaggi di proprietà, i rapporti tra i singoli soci, la rete di contatti, gli scambi commerciali. Tutto. Un lavoro che porta almeno fino al 2006. E alla Mail Service Srl, una società di cui il padre del premier era socio di maggioranza, con il 60% del capitale, e che nel 2011 è stata dichiarata fallita. Proprio come la Chil Post che, secondo l’accusa, è stata svuotata del ramo aziendale sano, e poi accompagnata al cimitero finanziario da Gian Franco Massone con debiti per 1 milione 150 mila euro. La Mail Service potrebbe rappresentare un precedente utile al fine delle indagini perché sembra attuare uno schema poi ripetuto.
La Mail Service nel 2004 aveva un capitale sociale di diecimila euro e dopo tre trasferimenti e numerosi passaggi di proprietà nel 2011 è stata dichiarata fallita con un passivo da brividi: 37 milioni 493 mila 568 euro. Come la Chil Post anche la Mail Service è passata dalle mani di Renzi senior a quelle di Massone, nell’ottobre 2006. Non in quelle di Gian Franco, però, ma in quelle del figlio Mariano. Ed è quest’ultimo infatti a essere indagato per la bancarotta fraudolenta della Chil insieme a Tiziano Renzi e non il padre Gian Franco.
Gian Franco fa solo da prestanome per il figlio Mariano che il 3 novembre 2010, quando il padre riceve da Tiziano Renzi la proprietà della Chil, ha già all’attivo la chiusura di tre società e cambiali in protesto per oltre 250 mila euro. Il giovane Massone, classe 1971, ha un curriculum che attira gli investigatori. Le tre società di cui negli anni diventa amministratore unico, nel giro di poco tempo dichiarano il fallimento: Directa, M&M Trasporti e One Post Adriatica. Stessa sorte tocca ad altre due aziende di cui è socio, Aesse e Mostarda. Fino ad arrivare alla Mail Service portata al fallimento nell’ottobre 2011 con un buco da 38 milioni di euro dopo essere stata ceduta da Massone ad Alberto Cappelli che, ipotizza il curatore fallimentare, figura solo come testa di legno.
COSÌ PER LA CHIL interviene il padre. Ma i rapporti con Tiziano Renzi li ha Mariano. La Chil Srl e la Mail Service negli anni tra il 2004 e il 2006 hanno la sede sociale nello stesso indirizzo: Via Scajola 46 a Firenze. Sono gli anni in cui Matteo Renzi figura come dirigente dell’azienda di famiglia. E lo stesso Gian Franco, interpellato da Giacomo Amadori su Libero, ha confidato: “Tiziano Renzi l’ho visto una sola volta in vita mia, quando mio figlio mi chiese di portargli il pesto al casello dell’autostrada”. Generosità ligure. Come siano nati i rapporti tra la famiglia Massone e Renzi è un altro dei punti che gli inquirenti stanno tentando di ricostruire.
La conferma arriva dal procuratore capo, Michele Di Lecce, che sottolinea ogni volta che può quanto sia ancora difficile avere un quadro complessivo dell'inchiesta. “Siamo appena all’inizio”, ripete. “Infatti a Tiziano Renzi noi abbiamo solo notificato la proroga delle indagini”. E “la notizia dell’avviso di garanzia, a quanto ci è dato sapere, è trapelata da Firenze non da qui”, aggiunge Di Lecce anche per rimandare al mittente le accuse di giustizia a orologeria nei confronti del premier impegnato nella riforma. Al momento l’unico reato ipotizzato è la bancarotta fraudolenta ma l’indagine, come detto, si è estesa anche ad altre società dell’universo renziano, a cominciare dalla Eventi 6 di Laura Bovoli, madre del premier, che secondo l’accusa riceve le attività sane della Chil Post e salva il tfr di Matteo Renzi. “I capi d’accusa come il numero delle persone coinvolte potrebbero aumentare, ma le indagini sono ancora in corso e stiamo ricostruendo tutti i rapporti nel dettaglio”, aggiunge Di Lecce.
Sono inoltre tuttora in corso le verifiche sui creditori della Chil indicati dal curatore fallimentare: 19 aziende che vantano oltre un milione di euro dalla società. C’è il Credito Cooperativo di Pontassieve, presieduto dal renziano Matteo Spanò, con cui l’azienda aveva un debito di 496 mila euro. Insoluto anche un prestito da 50 mila euro con la Unicredit, altri 72 mila con la Bmw, 178 mila euro con l’immobiliare e poi 15 mila d’affitto della sede, multe del Comune e persino le gomme per l’auto. Questo è quanto lasciato nella Chil da Tiziano Renzi prima di cederla a Massone. Ma solo dopo aver trasferito alla Eventi 6, società della moglie, i contratti in essere, i beni e il tfr del figlio.

Corriere 20.9.14
Il caso del papà di Renzi: l’amico scout del figlio e quei 500 mila euro
La relazione del perito depositata un anno fa. Il prestito del Credito cooperativo è arrivato nel 2010, poco prima della cessione della società
di Marco Imarisio
qui

Il Sole 20.9.14
Procura di Genova. Gli inquirenti analizzano il passaggio del ramo sano della Chil Post all'azienda Eventi 6
Indagine sul padre di Renzi, altre società sotto esame
di Raoul de Forcade

GENOVA Ci sarebbero anche altre società, oltre alla Chil Post, nel mirino della Procura di Genova, che ha iscritto nel registro degli indagati, con l'accusa di bancarotta fraudolenta, Tiziano Renzi, il padre del presidente del Consiglio, nonché due ex amministratori della srl (Gian Franco Massone e Antonello Gabelli). Intanto, tra i 19 creditori dell'azienda fallita ne emerge uno in particolare: la Banca di credito cooperativo di Pontassieve, paese dove Matteo Renzi è di casa, che vanta un credito di 496.717 euro, verso la società del padre del premier, il più alto di tutti quelli inseriti nello "stato passivo", che viene calcolato in 1,125 milioni. La banca, peraltro, è presieduta da Matteo Spanò, amico di vecchia data (dai tempi degli scout) del presidente del Consiglio, nonché uno dei suoi consiglieri più fidati.
Tra le aziende che reclamano soldi dalla Chil Post compaiono anche la Asti Asfalti (per 228.648 euro), l'Immobiliare Miro (178.591 euro) ed Equitalia Nord (18.480 euro). Sono stati, però, i creditori più piccoli ad innescare la procedura di fallimento.
In queste ore, gli inquirenti (il sostituto procuratore Marco Airoldi e il procuratore aggiunto, Nicola Piacente), stanno analizzando i diversi passaggi societari, a partire dalla cessione nel 2010, a un prezzo irrisorio (3.878 euro), del ramo sano della Chil Post all'azienda Eventi 6, di proprietà della madre del premier, Laura Bovoli.
«La cessione della società alla Eventi 6 - ha spiegato il procuratore capo di Genova, Michele Di Lecce - è uno dei fatti che può integrare il reato di bancarotta fraudolenta ma ce ne potrebbero essere altri. Per questo stiamo studiando le carte».
Di Lecce ha anche ribadito quanto già dichiarato ieri al Sole 24 Ore, e cioè che non esiste alcuna «giustizia ad orologeria» e, ha aggiunto, «io non tengo in ostaggio nessuno», riferendosi a titoli di giornali secondo cui, con questa inchiesta, la magistratura avrebbe messo sotto scacco il premier. «Cerchiamo di concentrarci sui temi seri, come le riforme», gli ha fatto eco il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, aggiungendo che affermazioni di un certo tipo «vanno bloccate sul nascere».
Intanto, in difesa del premier si è levata la voce del presidente della regione Toscana, Enrico Rossi. «Come dice il dettato costituzionale - ha affermato - fino a sentenza definitiva c'è innocenza. Credo che si debba trovare il modo di raffreddare questo circuito giudiziario-mediatico; credo che sarebbe positivo anche per il Paese. Mi pare che questo sia il punto. Se poi Tiziano Renzi ha fatto bancarotta fraudolenta ne risponderà, sarà rinviato a giudizio. Le colpe dei padri da un po' di tempo non ricadono più sui figli, casomai avviene il contrario». Ma, ha proseguito, «non credo ci sia alcun intervento perverso da parte della magistratura, che fa il suo mestiere e che non può non indagare»

Repubblica 20.9.14
Lo strano caso del papà del premier soffocato da troppo affetto
di Francesco Merlo

LO SOGNANO ai servizi sociali, Belpietro&Travaglio, per costruire meglio l’asse ereditario Berlusconi& Renzi. Si leccano i baffi sia la destra sofisticata del Foglio perché «sono sei mesi che diciamo che doveva succedere», e sia la destra mascherata del Fatto.
PERCHÉ «il partito Renzusconi avanza». Insomma entrambe queste destre pregustano, nella bancarotta fraudolenta imputata a Tiziano Renzi, l’inizio del Terzo Ventennio italiano, con un nuovo “amor nostro” la prima, con un più giovane “caimano” la seconda.
Povero papà Tiziano, dunque, che piace ai ceffi e piace agli sbirri e fa subire al figlio Matteo, molto più dell’avviso di garanzia, il doppio abuso sentimentale dell’amore e dell’odio che, nella politica italiana come nei versi di Catullo, si confondono e si perdono l’uno nell’altro. Da un lato c’è infatti l’appassionata difesa dei berlusconiani che soffocano i Renzi d’abbracci e li ammazzano di bene. «Non la lasceremo solo, presidente» minaccia Alessandro Sallusti sul Giornale sotto il titolone a tutta pagina “Preso in ostaggio il papà di Renzi” che potrebbe essere stato rubato agli anni Settanta, quelli dei commando e del sequestro Moro, o forse alla Secchia Rapita che «fu subito serrata /ne la torre maggior dove ancor stassi / in alto per trofeo posta e legata /con una gran catena ai curvi sassi».
Dall’altro lato a tirare la catena di Tiziano ci sono i prosatori tenebrosi che raccontano le origini di quella società di strillonaggio di giornali (questo era) come fosse l’affare Badalamenti-Dell’Utri che segnò per sempre la mitica Immobiliare San Martino, e poi la Edilnord, la Fininvest, sino a Publitalia, a Forza Italia e infine alla prigione. E infatti la società di strillonaggio dei Renzi si chiamava Chil post «e Tiziano lo sa, Chil vuole dire avvoltoio» nota Il Fatto quotidiano .
Sulle ipotesi di reato indagano i magistrati, e dunque vedremo. Ma il retroterra economico che si intuisce è sicuramente quello delle furbizie familiari di paese. C’è infatti la cessione per due soldi della parte buona della società alla moglie, e c’è pure la vendita del fallimento a un amico forse da fregare o forse da aiutare, un venditore ambulante che si chiama Massone (ecco un’altra malizia dei nomi). E c’è anche la protezione dei contributi e del Tfr di Matteo, il cui piccolo destino era a quei tempi ancora immaginato dentro l’aia del commercio umile: l’omino di burro tra i monelli di Collodi.
È dunque comicità inconsapevole definire berlusconianamente quello strillonaggio «il ramo d’azienda». E quei «48 milioni che nel 1994 a 19 anni» Matteo donò all’impresa di papà e mamma somigliano di più agli zecchini del Gatto e della Volpe che ai denari di Berlusconi. È perciò grottesco notare che Matteo li vinse «alla Ruota della Fortuna due giorni prima — nientemeno, ndr — del celebre discorso di Mike Bongiorno a favore della discesa in campo di Berlusconi». Sembra poi di seguire la trattativa Stato-Mafia nella mappatura degli spostamenti di quel «furgoncino Pavesi simbolo della campagna elettorale del 2009». E, attenzione, «c’erano troppi strilloni extracomunitari e, tra questi, il celebre Manuel, un peruviano con 27 cugini (non sono i Salvo, ndr) tutti senza permesso di soggiorno. Prendeva i giornali, li portava alla stazione di Firenze, girava l’angolo e li dava a un extracomunitario irregolare a cui consegnava la casacchina».
Non fatevi ingannare: l’offesa pesante è amorosa, perché il papà di Renzi diventa così un toscanaccio gaglioffo sapiente di vita, una specie di lupo di Wall Street in versione Valdarno, un Madoff che ha le chiavi della banca di Pontassieve, un Berlusconi allo specchio. La verità è che riemerge dal sottosuolo del Ventennio che stiamo faticosamente archiviando la gioia disperata di ritrovare, per sopravvivere, il nemico-compare, quello che forse un giorno andrà anche lui a spolverare le sedie di Santoro.
Ma se l’oltraggio celebra e santifica il diavolone, la difesa è molto più contundente dell’attacco. E cito per tutti Melania Rizzoli: «C’è una similitudine preoccupante con ciò che è accaduto al nostro presidente Berlusconi. Più le personalità politiche emergono e si espongono più le persone attorno a loro vengono colpite. Una ad una sino ad arrivare alla sfera più intima che è quella familiare>. Insomma, come dice il titolone di Libero: «Babbo avvisato / Matteo sistemato». Ecco, manca solo la telefonata di solidarietà di Previti per stracucinare Renzi.
Certo, fa ridere l’idea che la magistratura italiana di complottardi e sanculotti abbia organizzato la congiura contro papà Tiziano per difendere… le ferie. «Quelle — attacca l’editoriale della Nazione — proprio non doveva toccargliele. Perché sino a quando si parlava di separazione delle carriere, si buttava lì qualche ragionamento sulla riforma della giustizia, si invocava lo smaltimento dell’arretrato dei procedimenti civili, via, passi. Ma le ferie no, sono sacre».
E tuttavia, al di là di queste sapide lepidezze involontarie, la tesi della “giustizia ad orologeria” è alla fine una trappola politica molto insidiosa nella quale per la verità Renzi non è (ancora) caduto. Tentano infatti di assimilarlo per solidarietà pelosa, lo blindano politicamente perché, in un gioco di specchi deformanti, riflettono Berlusconi in lui, difendono questo per ripulire quello, imbrattano l’uno per tutelare l’altro. Sognano davvero che Renzi e Berlusconi diventino “i nazareni” come ha scritto Giuliano Ferrara in un editoriale-manifesto che esprime in italiano sontuoso la stessa identica tesi che il Fatto urla con slogan fantasiosi. Secondo loro Renzi e Berlusconi si abbracciano in segreto, si amano, sono padre e figlio, «sono dolce e gabbano», due uomini e un solo partito, e la magistratura — che per gli uni perseguita e per gli altri smaschera — finalmente e per sempre li ha sposati. Povero Renzi, rischia di restare prigioniero degli auguri che gli porgono il Foglio a nome dei detenuti, e il Fatto a nome di secondini.

Repubblica 20.9.14
Il mutuo dell’amico bancario al vaglio degli inquirenti
Il pm: noi corretti
di M. P.

GENOVA Nell’inchiesta per bancarotta fraudolenta della società Chil Post che vede indagato Tiziano Renzi, padre del premier, spicca tra i creditori del fallimento la banca del Credito Cooperativo di Pontassieve, con un debito di 496 mila euro. La banca della cittadina in cui vive il presidente del consiglio con moglie e figli, è presieduta dal 2010 da Matteo Spanò, uno degli amici e collaboratori più stretti di Matteo Renzi. Spanò era consigliere della stessa banca dal maggio del 2008, ma nel 2010, quando ne diventa presidente, il credito di Pontassieve eroga un sostanzioso mutuo alla Chil Post. Tiziano Renzi lascerà la società a novembre, un mese dopo aver ceduto il ramo d’azienda alla società della moglie la Eventi 6, trasferendovi anche il tfr del figlio Matteo, che nella Chil Post era stato assunto come dirigente nel 2003 poco prima di diventare presidente della Provincia. Il prestito è un mutuo chirografario, ovvero non si basa su garanzie ipotecarie ma, in genere, personali. Intanto, sulle accuse di una vendetta della magistratura contro la riforma della giustizia il procuratore capo di Genova Michele Di Lecce replica sdegnato: «Ma quale giustizia a orologeria. I tempi sono dettati dalle esigenze processuali».

il Fatto 20.9.14
Pd: cari elettori dem, ma voi non vi arrabbiate mai?
di Andrea Scanzi
qui

il Fatto 20.9.14
Perché i cittadini non si indignano più?
di Remo Largaiolli

Mi chiedo che Paese è mai questo. Un Paese che non sa scandalizzarsi, che non si indigna con forza di fronte a certe notizie. Mi riferisco al servizio del programma “Le iene”, andato in onda mercoledì scorso e del quale non ho trovato nessuna notizia nei quotidiani di ieri e di oggi. Nemmeno sul Fatto solitamente attento e sensibile. Il servizio in questione portava a conoscenza il privilegio di una casta (quella dei sindacalisti) che aumentandosi lo stipendio nell’ultimo anno di lavoro riescono ad andare in pensione con una maggiorazione che i cittadini comuni non si sognano nemmeno. Nel caso specifico lo SNALS, sindacato della scuola, ha “assunto” un’insegnante all’ultimo anno di lavoro per il periodo giusto per ricevere una pensione integrativa a quella maturata con l’insegnamento. Il servizio televisivo ha poi messo in rilievo che la prassi è normale, è la legge che lo consente. Evidente che la legge la Casta se l’è costruita ad hoc. E questo sarebbe più che sufficiente per indignarsi, senza se e senza ma, soprattutto pensando ai nostri figli che di pensione difficilmente ne vedranno mezza. Ma c’è di più: sembra che la signora beneficiaria in quel sindacato, non ci abbia mai messo piede per lavorare. Nessuno la conosce, nessuno l’ha incontrata. Se è così al beneficio da casta si aggiunge anche qualcosa di più pesante. Qualcosa che non può non indignare, di cui non ci si può non vergognare pensando che la signora riceverà un benefit illegittimo a carico dell’Inps e quindi dei contribuenti. Perché passa tutto sotto silenzio? Io non ci sto. Mi indigno e mi vergogno per un Paese incapace di un sussulto di dignità.

il Fatto 20.9.14
Il nuovo triumvirato politico in Italia
di Francesco Degni

È evidente che l’Italia è un Paese governato da un nuovo triumvirato: Napolitano, Renzi, Berlusconi. È un tipo di potere che si è ripetuto spesso nella nostra storia. Cesare, Pompeo, Crasso e poi Ottaviano, Antonio e Lepido, trascurando vari triumvirati medioevali e risorgimentali. Arriviamo così alla troika dei giorni nostri. Al di là delle epoche, c’è da considerare comunque che un destino comune li marchia: dopo un breve periodo di funzionamento, scaturivano conflitti da cui usciva un unico vincitore. E se i malumori dei nominati sfociati nella mancata elezione dei giudici costituzionali fossero la cartina di tornasole di uno scontro in atto? Chi sarà il vincitore oggi?

Repubblica 20.9.14
Stato-mafia, si indaga sugli 007 in carcere
di Salvo Palazzolo

PALERMO Una domanda sta lacerando i palazzi dell’antimafia. C’è un suggeritore dietro Sergio Flamia, l’ultimo pentito di Cosa nostra che ha seminato dubbi sul processo Stato-mafia? Il procuratore generale Roberto Scarpinato e i pm del pool trattativa indagano sul ruolo svolto da un agente segreto dell’Aisi, che dal 2008 ha raccolto le confidenze dell’ex boss di Bagheria. In questi ultimi anni, le soffiate di Flamia hanno consentito un centinaio di arresti, ricompensati dai Servizi con 150mila euro. Poi, nei mesi scorsi, all’improvviso, il boss è uscito allo scoperto ed è diventato un collaboratore di giustizia. Ora, fra le cose che sta mettendo a verbale, ce ne sono alcune che potrebbero scagionare definitivamente il generale Mario Mori, già assolto in primo grado dall’accusa di aver favorito la latitanza del capomafia Provenzano.
L’indagine sulle nuove dichiarazioni è scattata perché nella sua lunga confessione Flamia non aveva fatto alcun accenno ai rapporti con l’intelligence. Ma negli archivi della procura c’erano delle vecchie intercettazioni al proposito: i pm Di Matteo, Del Bene, Tartaglia e Teresi le hanno contestate al neo pentito. Nel 2009, durante un colloquio in carcere con il figlio, il boss parlava chiaramente di un suo contatto nei servizi segreti. E avrebbe detto pure dell’altro, che rimane misterioso. Flamia accennava ad alcuni «problemi» del suo contatto. Quali erano i «problemi» dello 007? Sarà solo una coincidenza, ma in quei giorni il pentito Spatuzza parlava del personaggio rimasto senza nome che incontrò nel garage dove si caricava l’autobomba per il procuratore Borsellino. I pm di Palermo hanno chiesto spiegazioni a Flamia. Lui ha ammesso di aver avuto frequentazioni con i Servizi, ma ha minimizzato sui colloqui col figlio. In queste ultime settimane, è stata una corsa contro il tempo per Scarpinato e per il suo sostituto Luigi Patronaggio: il 26 settembre, inizierà il processo d’appello per Mori, e l’accusa vuole smentire il nuovo testimone Flamia, sostenendo che sia il frutto di un’operazione a tavolino, architettata non si sa da chi. Di certo, il caso ha rilanciato anche le indagini dei pm dell’inchiesta trattativa sulle visite dei Servizi nelle carceri. Il neo pentito ammette di avere incontrato il suo contatto anche nel periodo in cui era detenuto. I magistrati hanno convocato Giovanni Tamburino, l’ex capo del dipartimento delle carceri, e gli hanno chiesto notizie dei rapporti con gli 007: l’audizione è arrivata presto al “Protocollo farfalla”, che prevede quei contatti. «Mi sono state chieste informazioni su tre detenuti», ha messo a verbale Tamburino. Nel 2012, i Servizi volevano avere notizie su Rosario Cattafi, che pochi giorni prima aveva chiesto di parlare con i pm della trattativa. Un’altra coincidenza. Tamburino ha consegnato ai pm il protocollo (su cui peraltro nei giorni scorsi Renzi ha tolto il segreto di Stato). Ha spiegato però che «non gli risulta» di incontri fra agenti e boss al 41 bis. «Ma non posso escluderlo», ha aggiunto. C’è da fugare il dubbio che qualche 007, con la scusa di carpire notizie, possa aver coperto esponenti di Cosa nostra. Oppure, trattato con loro.

Repubblica 20.9.14
L’Agenzia della paura che torna in campo per nascondere la verità sulle stragi
di Attilio Bolzoni

QUELLO che fa paura a qualcuno non è il processo sulla trattativa Stato-mafia ma sono le nuove indagini su quel patto. Inseguono tracce dimenticate, incontrano altri personaggi immischiati nella tela dei ricatti fra gli apparati e i boss. Tutti appartenenti ai servizi segreti italiani. Appena l’inchiesta giudiziaria ha cominciato a scavare nei misteri dell’intelligence per le vicende stragiste del 1992, in quel momento, esattamente in quel momento, si è scatenata la caccia grossa al magistrato. C’è chi vuole seppellire per sempre bombe e morti.
Per capire cosa sta accadendo in questi mesi a Palermo bisogna mettere in fila i fatti e scoprire chi c’è dietro quell’ “Agenzia della Paura” che fabbrica falsi, imbecca testimoni, minaccia sostituti procuratori, invade fisicamente uffici super blindati, piazza microspie, spedisce lettere anonime con lo stemma della Repubblica italiana. I magistrati indagano sulle spie e le spie scivolano alle spalle dei magistrati. Questa è la guerra che si sta combattendo nell’ombra in Sicilia.
È un “metodo” che ritorna. Dopo più di 25 anni dall’attentato all’Addaura (e nessuno ci ha ancora spiegato chi sarebbero state quelle “menti raffinatissime” alle quali alludeva Giovanni Falcone subito dopo il tentativo di ucciderlo con la dinamite), sono sempre gli stessi a provocare quello stato di fibrillazione permanente ogni qualvolta un’inchiesta fuoriesce dai tradizionali binari della Cosa nostra nuda e pura per inoltrarsi nelle complicità in alta uniforme.
Sono loro ancora oggi - come allora, quando tenevano sotto controllo le linee telefoniche di Falcone - a spadroneggiare nelle stanze della procura generale e lasciare missive minatorie («Ti raggiungiamo ovunque») a Roberto Scarpinato. Quelli che rubano dalla scrivania di casa una chiavetta al pubblico ministero Roberto Tartaglia (lì dentro aveva dati appena acquisiti a Forte Braschi, il quartiere generale del servizio segreto per la sicurezza esterna) o che sabotano la centralina elettrica dell’abitazione del sostituto Nino Di Matteo. Un avvertimento dopo l’altro, un’ “operazione” partita quando in procura c’era ancora Antonio Ingroia e che non si fermerà certo con la scorribanda contro Roberto Scarpinato. «Sembra firmata», si è lasciato sfuggire il procuratore Vittorio Teresi. Sembra? È firmatissima. Nel linguaggio, nello stile grafico (simile se non identico ad altre minacce arrivate recentemente via lettera), scritta allo stesso tipo di computer e probabilmente nello stesso luogo. Chi l’ha recapitata, violando rigidi controlli e guardie armate, sapeva bene che su quella lettera stava lasciando le sue impronte digitali. È la guerra psicologica, sono gli specialisti della strategia della tensione che avvisano i pubblici ministeri: state attenti, sappiamo tutto di voi, cosa fate, dove indagate, cosa cercate.
Le incursioni dell’ “Agenzia” si sono intensificate proprio quando le nuove indagini hanno virato. Rovistando nel labirinto losco delle carceri, individuando le scorrerie degli 007 nei bracci del 41 bis per invitare mafiosi al loro servizio. Smascherando falsi testimoni come quel Flamia, ufficialmente amico di Provenzano ma in realtà agganciato dagli spioni tanto tempo prima. Svelando sempre di più la figura di Mario Mori, colonnello del Ros negli anni delle stragi, poi capo del servizio segreto civile quando Berlusconi era presidente del Consiglio, ma anche con una militanza nel vecchio Sid, nome in codice “dottor Giancarlo Amici”.
A Palermo hanno acquisito carte sulla Falange Armata e su quelle inquietanti rivendicazioni dopo le bombe di Firenze, Roma e Milano del 1993, a Caltanissetta cercano ancora l’uomo “estraneo a Cosa Nostra” che caricò di tritolo - insieme a Gaspare Spatuzza – l’utilitaria che fece saltare in aria Paolo Borsellino. E cercano ancora anche l’agenda rossa. Ecco su cosa stanno indagando i magistrati che sono sorvegliati passo dopo passo.
Tutte attività investigative che non sono orientate su Totò Riina e il suo esercito di corleonesi ormai in disfatta, ma sull’altro volto della mafia. Toccano fili di alta tensione istituzionale. Si può indagare su Cosa Nostra ma lì bisogna fermarsi. Territorio nemico.
Un ultimo capitolo di questa guerra riguarda gli sproloqui di Totò con quell’Alberto Lorusso, un mezzo balordo senza quarti di nobiltà criminale ma a quanto pare molto vicino a certa sbirraglia. Perché Riina parla con lui? Perché parla pur sapendo di essere ascoltato? A chi sono destinate le sue invettive? La partita si sta giocando anche attraverso i “discorsi” di Totò Riina e di chi li ispira. Una parte ancora inedita dei suoi comizi nel carcere di Opera è sul famigerato covo del boss e sulla misteriosissima mancata perquisizione. Incalzato da Lorusso il capo dei capi a un certo punto dice: «Perché... perché...non ho potuto mai capire io…perché sospendono questa (la perquisizione, ndr)».
Dopo più di 20 anni non lo sa ancora neanche lui. Se i magistrati di Palermo vogliono davvero scoprire qualcosa di più sulla trattativa Stato-mafia dovrebbero ricominciare da lì, da quel covo. Di sicuro nessuno ci ha mai raccontato tutto. Né i carabinieri naturalmente, quelli che fecero credere di sorvegliarlo e poi furono assolti dall’accusa di favoreggiamento «perché il fatto non costituisce reato». Né le carte degli stessi magistrati, ricostruzione imperfetta di ciò che avvenne la mattina del 15 gennaio del 1993, giorno della cattura di Riina. Né l’ex procuratore Caselli che - ancora oggi - non dà chiarimenti sufficienti sul perché non fu aperta subito un’indagine quando la casa di Riina fu svuotata. L’inchiesta venne aperta solo 4 anni e 9 mesi dopo. Troppo tardi.

Corriere 20.9.14
Costi della politica
La maxi indennità di funzione
Così si aggira il tetto agli stipendi
Il primo tentativo di riordino e le resistenze di un sistema abituato ad aumenti a pioggia: all’ultimo esame per l’avanzamento il 99% è passato
di Sergio Rizzo
qui

Repubblica 20.9.14
Tagli in Parlamento, alt dei sindacati

ROMA Nessuna delle oltre venti sigle sindacali dei dipendenti di Camera e Senato ha sottoscritto l’accordo proposto dalle due presidenze: un piano di risparmi da 60 milioni di euro a Montecitorio e 36 a Palazzo Madama, attraverso l’imposizione di tetti alle retribuzioni (dai 240 mila euro per i consiglieri ai 99 mila degli assistenti). I rappresentanti di impiegati e funzionari avevano tempo fino alle 20 di ieri per aderire. Ma come preannunciato nell’incontro con le vicepresidenti Valeria Fedeli (Senato) e Marina Sereni (Camera), nessuno ha aderito. I presidenti Grasso e Boldrini convocheranno a questo punto i rispettivi uffici di presidenza (martedì 30 settembre) per adottare unilateralmente il piano. Le organizzazioni di categoria si preparano invece a opporsi con i ricorsi. «Bene i tagli, lo abbiamo fatto anche coi nostri stipendi» dice il vicepresidente della Camera, il grillino Luigi Di Maio.

Corriere 20.9.14
Tasi più cara dell’Imu per le famiglie povere
La beffa Tasi, più cara dell’Imu. Detrazioni solo in un Comune su tre
Aliquota media dell'1,95 per mille. Il conto sulle case piccole
di Mario Sensini

La Tasi rischia di essere ben più cara dell’Imu nella maggior parte dei Comuni per molte famiglie italiane, in particolare quelle più povere e quelle con i figli. E più leggera per chi sta meglio. Secondo l’associazione dei Comuni, nei municipi dove le aliquote sono state già fissate a maggio, sulla prima casa, si è pagato il 30% in meno, ma i Caf e molti centri studi sono convinti che, alla fine, il conto complessivo sarà più salato dell’Imu 2012, che fu di 4,4 miliardi. Oltre alle aliquote, molti contribuenti dovranno far fronte anche alla mancanza di detrazioni, previste solo nel 35,9% dei Comuni.
Il termine è scaduto alla mezzanotte di ieri e i Comuni che non hanno deliberato in tempo le aliquote della nuova Tasi dovranno accontentarsi, a dicembre, di un incasso ridotto. Tutti gli altri sindaci possono sorridere, ed i loro cittadini preoccuparsi. Messe tutte le carte sul tavolo — le delibere comunali — l’imposta destinata a superare l’Imu rischia di essere ben più salata della progenitrice nella maggior parte dei Comuni per molte famiglie italiane, in particolare quelle più povere e quelle con i figli. E più leggera per chi sta meglio. L’Associazione dei Comuni dice che nei municipi dove le aliquote sono state già fissate a maggio, sulla prima casa, si è pagato il 30% in meno, ma i Caf e molti centri studi sono convinti che, alla fine, il conto complessivo sarà più salato dell’Imu 2012, che fu di 4,4 miliardi.
Sugli 8.057 Comuni italiani, quelli che hanno fissato le aliquote Tasi entro la scadenza definitiva sono stati 7.405. Nei poco più di 600 municipi che non hanno voluto o non sono stati in grado di decidere, la Tasi sulla prima casa si pagherà il 16 dicembre in una sola rata, con l’aliquota di base dell’1 per mille (applicata allo stesso imponibile della vecchia Imu: rendita catastale rivalutata del 5% e moltiplicata per 160). Negli altri Comuni la tassa sulla casa di abitazione, dovuta in due rate il 16 ottobre e il 16 dicembre, sarà ben più cara.
Secondo i calcoli del Caf si pagherà l’1,95 per mille, ma è una media di tutti i Comuni, piccoli e grandi: nelle città maggiori il conto sarà di sicuro più salato. Secondo il Servizio Politiche Territoriali della Uil, l’aliquota media deliberata dai municipi capoluogo di provincia è del 2,6%. La Cgia di Mestre sostiene che in un grande Comune su due la Tasi sarà più cara dell’Imu. Tra i capoluoghi di provincia, vale la pena di sottolineare, la Tasi non si paga solo a Olbia e a Ragusa. È tuttavia e soprattutto il meccanismo caotico delle detrazioni, più delle aliquote, a generare gli effetti meno gradevoli. Con l’Imu c’era una detrazione fissa di 200 euro, più 50 euro per ogni figlio a carico, mentre stavolta i sindaci sono stati lasciati liberi di scegliere, potendo applicare una maggiorazione dello 0,8 per mille proprio per finanziare le detrazioni, e si sono sbizzarriti con la fantasia. A conti fatti, però, le agevolazioni sono state drasticamente tagliate.
Solo il 35,9% dei Comuni ha previsto uno sconto. Il 15% ha optato per una detrazione fissa, il 19% le ha legate alla rendita catastale della casa, e solo il 13,3% del totale (appena 869 Comuni) le ha concesse per i figli a carico, e quasi in tutti i casi solo a partire dal terzo o quarto figlio. Uno sparuto gruppo di 37 Comuni ha tarato le agevolazioni sul reddito del proprietario, altri 173 si sono affidati all’Isee. Ma solo 179 hanno tenuto conto dei figli con handicap, e 146 hanno previsto sconti in base all’età dei proprietari. Premiando i più anziani, over 65 e over 70, quando uno degli effetti dell’Imu era quello di spostare il carico fiscale dalle nuove alle vecchie generazioni.
Quel poco di funzione redistributiva della vecchia Imu, in ogni caso, non c’è più. Un esempio di come sono destinate a cambiare le cose lo fa Paolo Conti, direttore generale del Caf Acli. Con la vecchia Imu del 2012 (nel 2013 è stata sospesa, e solo in alcuni Comuni si è pagato una quota minima) su una prima casa con valore catastale di 60 mila euro, tassata all’aliquota massima del 4 per mille, si pagavano 40 euro: 240 d’imposta meno i 200 della detrazione fissa. Se ci fosse stato anche solo un figlio, addirittura niente. In un Comune dove non sono previste detrazioni, e sono i due terzi del totale, con la Tasi al 2 per mille (il tetto massimo è il 2,5), quest’anno si pagheranno 120 euro. Al contrario, una casa di abitazione più lussuosa, con un valore di 150 mila euro, se pagava 400 euro di Imu (600 di imposta meno 200 di detrazione), domani pagherà 300 euro di Tasi.
Nei Comuni che hanno optato per le detrazioni è molto più difficile capire fin d’ora, basandosi sulle carte, come andrà a finire. Anche perché la maggiorazione poteva essere spalmata anche sulle seconde case, i terreni, gli esercizi commerciali, i capannoni industriali, dove la Tasi si somma all’Imu, e dove i sindaci, ad ogni buon conto, non hanno rinunciato a fare cassa. Là dove l’Imu non era già ai livelli massimi, e dunque si potevano alzare le tasse, in tanti ci hanno infilato anche la Tasi: metà dei Comuni ha «arrotondato» con la Tasi l’Imu sulle seconde e terze case, sugli esercizi commerciali e gli studi professionali, sulle aree edificabili, sugli immobili agricoli, sui capannoni industriali. Pochissimi, appena il 5%, hanno assimilato alla prima casa gli immobili concessi in comodato ai figli.
La metà dei Comuni, piuttosto, ha imposto la Tasi anche sulle case affittate, colpendo anche gli inquilini. Pagheranno, in media, poco meno del 20%. Molti, tra l’altro, ne sono ignari. Ed è un’altra complicazione, perchè inquilini e proprietari dovranno provvedere ciascuno per proprio conto ai calcoli e al pagamento della Tasi. Se l’inquilino non paga la sua quota, riceverà prima o poi una cartella esattoriale, ma dopo esser stata esclusa, ora è prevista la responsabilità solidale dei proprietari, che alla fine potranno esser chiamati a pagare.

il Fatto 20.9.14
Adozioni gay: le alchimie di Lorenzin smentite da Freud (e dal buon senso)
di Matteo Winkler
qui

il Fatto 20.9.14
Costituzione
Apologia di fascismo: una condanna salutare
di Maurizio Viroli

La recente sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna ai neofascisti che nel corso di una pubblica manifestazione hanno esibito il saluto romano e intonato “presente”, è a mio giudizio una delle rare perle di correttezza giuridica e costituzionale, e di saggezza politica, che di questi tempi abbiamo la possibilità di apprezzare, e per questo merita un commento più approfondito di quelli che i giornali le hanno dedicato.
C’è una Costituzione, per fortuna, che contiene una norma finale (XII) – non transitoria – che recita: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”; c’è la legge 645/1952 che ne da attuazione e recita: “Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione o un movimento persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politico o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”. E all’art. 5 specifica che “chiunque con parole, gesti o in qualunque altro modo compie pubblicamente manifestazioni usuali al disciolto partito fascista è punito con l’arresto fino a tre mesi o con ammenda”. C’è la legge 152/1975 che qualifica le espressioni esteriori evocative del disciolto partito fascista e ne sottolinea il carattere lesivo per l’ordinamento democratico. Se dei cittadini esaltano pubblicamente con parole e gesti il fascismo o ne imitano i rituali devono dunque essere puniti.
COMPRENSIBILE e seria la preoccupazione di antifascisti come Angelo d’Orsi (La Stampa, 13 settembre) che teme una sorta di “panpenalismo” e sostiene che “la dialettica politica deve essere libera finché non sfoci nella violenza, praticata o incitata; e il giudizio sul fascismo, sul comunismo, sul negazionismo e sul razzismo, deve essere lasciato dai magistrati agli studiosi”. Ma non condivisibile per tre ordini di ragioni. La prima è che se c’è una legge, bisogna farla rispettare. La differenza fondamentale fra una repubblica seria e una repubblica da operetta consiste appunto nel fatto che la prima applica le sue leggi e la seconda no. Una sentenza che discende dall’applicazione rigorosa e corretta della legge va dunque lodata e non biasimata. La seconda è che le manifestazioni fasciste, di qualsivoglia natura, offendono la coscienza morale di chi crede nella dignità della persona umana, il valore supremo del nostro ordinamento costituzionale. Poiché offende vanno punite. La terza è che in Italia non possiamo tollerare, prendere alla leggera, sottovalutare il pericolo di una recrudescenza e rafforzamento di movimenti neofascisti, come dimostrano gli esempi tratti dalla cronaca quotidiana. La storia poi insegna che il movimento fascista ascese al governo del Regno d’Italia grazie alla stupidità e vigliaccheria delle classi dirigenti liberali, oltreché all’irresponsabilità dei socialisti massimalisti e dei comunisti e alla codardia di Vittorio Emanuele III. Le rarissime volte che le squadre fasciste sono state affrontate dai Regi Carabinieri, o da cittadini con poca paura, come nel caso di Emilio Lussu (si legga il suo Marcia su Roma e dintorni) se la sono date a gambe. Saggezza consiglia, dunque, che per combattere il neofascismo è necessaria la più assoluta intransigenza nel punire secondo la legge, e senza violenza illegale anche le
più piccole manifestazioni di esaltazione del fascismo. L’Italia è diventata un paese anti-antifascista più che antifascista, senza memoria storica, indifferente. Una sentenza come quella che sto discutendo, ove la si facesse conoscere e la si commentasse, avrebbe un benefico effetto di pedagogia civile. E potrebbe incoraggiare una svolta nell’atteggiamento dei pubblici poteri nei confronti delle manifestazioni neofasciste, a cominciare dall’indegna adunata che si terrà come ogni anno attorno al 28 ottobre a Predappio per esaltare la marcia su Roma. Sono anni, mi sia permesso un riferimento personale, che segnalo quella vergogna, chissà che ora altre e più autorevoli voci si facciano sentire.

il Fatto 20.9.14
Adozioni ai single: sette ragioni per il sì
di Elisabetta Ambrosi
qui

Corriere 20.9.14
Roma
Diciassettenne uccide a pugni un immigrato per la strada
Parte del quartiere lo difende
di Rinaldo Frignani

ROMA — «Gli ho dato solo un pugno, uno solo. Quello mi aveva sputato addosso». Daniel B., 17 anni, ha la maglietta ancora sporca di sangue quando i carabinieri lo fermano in via Ludovico Pavoni, al confine fra il quartiere multietnico di Tor Pignattara e il Pigneto, rione della movida. Sul marciapiede, ormai morto, con il volto sfigurato, c’è un pachistano di 28 anni, Koan Muhamad Shazad. In tasca ha un permesso di soggiorno valido per motivi umanitari. Secondo alcuni testimoni il diciassettenne lo ha massacrato di botte, prendendolo a calci in testa anche quando il ventottenne era già a terra malconcio. Lui, della zona, incensurato ma con parenti con trascorsi giudiziari anche per associazione mafiosa, nega il pestaggio. È stato arrestato per omicidio preterintenzionale e spedito in un centro di accoglienza minorile al Portuense, in attesa dell’autopsia che dovrà stabilire se si è davvero accanito su Shazad — e in questo caso potrebbe scattare l’accusa di omicidio volontario — e se quest’ultimo è morto per le percosse o altri motivi. Per i carabinieri, che hanno sentito alcuni residenti, «il pakistano era ubriaco, gridava e cantava in mezzo alla strada». Ora qualcuno a Tor Pignattara si schiera con Daniel: «Ha fatto bene, se uno ti sputa addosso cos’altro dovresti fare? — si chiede un ragazzo — Certo, poveraccio, ora dovrà andare in carcere. Ma qui gli immigrati sono troppi, non ce la facciamo più». Commenti che non sono una novità in una zona spesso al centro di aggressioni e omicidi fra stranieri (l’ultimo a metà settimana in un parco pubblico sotto gli occhi di mamme e bambini). Ma i carabinieri della compagnia Casilina smentiscono tutto: «Sono stati proprio gli abitanti di via Pavoni a chiamarci subito». Così il diciassettenne non ha avuto il tempo di allontanarsi, come ha fatto un suo amico, ora ricercato.

Il Sole 20.9.14
Per i quotidiani destino legato a brand e sinergie carta-digitale
di Andrea Biondi

«In genere il giorno successivo alla nostra assemblea annuale la prima cosa che ci interessa sapere è quali quotidiani hanno scritto di noi, nelle edizioni cartacee». Va subito al punto il direttore dell'Upa (associazione che riunisce gli investitori pubblicitari), Giovanna Maggioni, durante il suo intervento alla seconda e conclusiva giornata di Wan-Ifra Italia, la conferenza internazionale per l'industria editoriale e della stampa quotidiana italiana, promossa da Wan-Ifra (Associazione mondiale degli editori), Fieg (editori) e Asig (stampatori) che si è tenuta a Padova.
Una due giorni che si è conclusa ieri con una tavola rotonda cui hanno preso parte i vertici delle principali concessionarie di pubblicità italiane e in cui gli operatori si sono soffermati sul ruolo della stampa nell'epoca della global audience. Un'epoca di grandi cambiamenti e di difficoltà per i quotidiani, alle prese con crisi della pubblicità e modalità comunicative di flusso che si stanno moltiplicando. Ma la frase del direttore dell'Upa punta dritto al plus della carta stampata: la riconosciuta autorevolezza. Che è evidenziata da tanti piccoli e grandi indizi numerici, come il confronto fra le cifre "social" di un blogger di successo e di un direttore di un quotidiano di primo piano, portate all'attenzione durante il dibattito. Ai 209mila followers del blogger fanno da contraltare i 241mila fans del direttore, ma a fronte di 39mila tweets del blogger contro i 5.100 tweets del direttore del quotidiano. Certo, questo plus della carta stampata non può ovviare a tutte le difficoltà esistenti e di cui Il “Rapporto sull'industria dei quotidiani in Italia” presentato a Padova è l'evidente testimonianza. Solo per citare qualche indice, i ricavi per il 2013 sono stimati in flessione del 12% a quota 2,268 miliardi di euro con Mol atteso in peggioramento dai -33 milioni del 2012 a -109 milioni di euro del 2013. Per dare un'altra indicazione, nel periodo 2010-2013 i ricavi da vendita sono diminuiti del 12%, mentre il calo di quelli da pubblicità (scesi a 823 milioni di euro con una flessione del 19% nel solo 2013) è stato del 28%, con il risultato di far salire i ricavi diffusionali dal 51 al 58% del totale, ma non per aumento delle vendite, quanto piuttosto per una flessione più che proporzionale dei ricavi pubblicitari. Anche i lettori sono scesi, per una stima a fine 2013 di 20,6 milioni: tre milioni e mezzo in meno rispetto all'inizio del 2010. Sergio Vitelli, segretario Asig, va giù abbastanza duro nel suo intervento: la carta continuerà a perdere copie, la pubblicità si stabilizzerà a un livello più basso di quello precedente, i ricavi digitali cresceranno molto lentamente senza compensare la diminuzione di quellio cartacei. Serviranno quindi risparmi, ma anche «creatività su contenuti, nuovi servizi marketing, armonizzazione delle strategie cross-media». Il punto è centrale, nel suo toccare le questioni cruciali delle strategie e delle tecnologie. Sul primo versante «la Tv – ha spiegato Giovanna Maggioni – ha guadagnato il 25% di aziende investitrici, mentre i quotidiani ne hanno perse il 6 per cento». Quindi, se è vero che c'è la crisi e che il mercato pubblicitario «è molto polarizzato con 116 aziende che fanno il 30% di investimenti sulle 10mila che investono in advertising», è anche vero che «ci sono ambiti che sono stati scartati o non curati, come il mercato immobiliare per esempio o gli annunci». Allargare la platea degli investitori sarà dunque essenziale come trovare nuove formule anche grazie al digitale che sta crescendo in maniera esponenziale, con una diffusione arrivata a 500mila copie giornaliere, pari al 12% del totale.
In quest'ottica contenuti e "brand" editoriali potranno fare la differenza, ma solo se non si cercherà la contrapposizione fra copie cartacee (che comunque fanno ancora il 90% del mercato) e copie digitali (che rappresentano un ottimo driver se sfruttato in maniera opportuna). Un test importante sarà l'operazione Edicola Italiana, il "chiosco virtuale" nato dalla collaborazione fra i principali editori italiani. Facilità d'acquisto, accesso immediato alle app di tutte le testate, offerte in bundle e modello all can you read (valido però al momento solo per mensili e settimanali) sono i punti su cui gli editori scommettono. Partenza prevista a metà ottobre.

Corriere 20.9.14
All’Onu l’asse fra Usa e Iran per combattere contro l’Isis
In azione jet francesi. Mogherini esclude raid italiani
di Massimo Gaggi

NEW YORK — L’Assemblea generale dell’Onu che si riunirà la prossima settimana al Palazzo di Vetro, sarà l’occasione per rafforzare e dare contenuto alla coalizione internazionale contro l’Isis, ma anche per allargare il consenso e il livello di consapevolezza della necessità di una lotta senza riserve al terrorismo tra i Paesi delle Nazioni Unite. Uno sforzo iniziato già ieri sera nella riunione del Consiglio di sicurezza sull’Iraq presieduta dal segretario di Stato Usa, John Kerry.
E le novità non sono mancate, a partire dal riconoscimento dello stesso Kerry che «anche l’Iran ha un ruolo per distruggere l’Isis». Parole significative soprattutto perché arrivano dopo giorni di colloqui diplomatici in margine al negoziato sul nucleare di Teheran nei quali si è discusso approfonditamente della minaccia mortale rappresentata dall’Isis. E così, mentre sui campi di battaglia continuano i raid aerei americani ai quali ora si è aggiunta anche la Francia che nella prima incursione dei suoi cacciabombardieri Rafale ha distrutto un deposito di armi ed esplosivi in Iraq uccidendo decine di terroristi (parole del presidente Hollande), a New York è iniziata una nuova fase del lavoro della coalizione alla quale hanno aderito una quarantina di Paesi.
Qui da un lato c’è da stabilire chi fa che cosa per distruggere l’Isis perché, come ha detto chiaramente Barack Obama e come Kerry ha ripetuto anche ieri alle Nazioni Unite, «davanti a una simile barbarie, c’è una sola opzione possibile: un’azione collettiva» contro il califfato. Insomma, viene ribadito ancora una volta che questa non è una guerra americana, non c’è uno sforzo militare che gli Stati Uniti sosterranno da soli. Del resto lo stesso ministro degli Esteri italiano, Federica Mogherini, che ieri è intervenuta al dibattito in Consiglio di sicurezza, parlando poco prima dell’inizio dei lavori coi giornalisti ha sottolineato che è importante chiarire il ruolo di ognuno nella coalizione, ma anche coinvolgere al massimo i Paesi dell’area mediorientale per dimostrare al mondo che questa non è una guerra dell’Occidente ma una sollevazione planetaria contro il terrorismo più efferato. E, in effetti, ieri, i 15 membri del Consiglio di sicurezza hanno votato all’unanimità un documento che giudica l’offensiva su vasta scala dell’Isis una minaccia mortale in primo luogo per la regione e ribadisce «l’urgente necessità di fermare qualsiasi commercio diretto o indiretto di petrolio dall’Iraq che coinvolge l’Isis, con l’obiettivo di porre fine al finanziamento del terrorismo».
Un contributo all’unanimità su questa materia lo stanno dando anche i russi che hanno giudicato accettabile il linguaggio di una bozza di risoluzione per bloccare i movimenti dei terroristi stranieri (soprattutto occidentali) che si sono arruolati nell’Isis, predisposta dagli americani che in questo mese di settembre hanno la presidenza del Consiglio di sicurezza. Washington spera che i 15 del Consiglio votino la risoluzione contro i «foreign fighters» entro la metà della prossima settimana.
Quanto alle cose da fare, la Mogherini ha escluso che l’Italia possa partecipare ai bombardamenti come sta facendo la Francia: «Non è un tema oggi in discussione nel nostro Paese: è stata già presa la decisione di dare un sostegno umanitario, a cominciare dai sei voli che hanno raggiunto Erbil nelle settimane scorse, mentre altri due seguiranno domani. Alla fine arriveremo complessivamente a 18 velivoli cargo carichi di aiuti». Quanto a quelli militari, il ministro italiano ha ricordato che stiamo fornendo armi e munizioni ai combattenti curdi nel nord dell’Iraq e, a fronte dell’impegno di Paesi come Australia e Germania che manderanno in Iraq militari in veste di consiglieri o di esperti impegnati nell’addestramento delle forze armate irachene, la Mogherini ha detto che questa è una strada che potrebbe essere esplorata anche dall’Italia. Che del resto si è già detta pronta a contribuire nei campi dell’addestramento, della logistica e del rifornimento in volo degli aerei militari della coalizione. Una parola del ministro anche per le iniziative per arginare l’epidemia di Ebola: massimo impegno per debellare una minaccia spaventosa per la sicurezza e lo sviluppo dell’Africa Occidentale, sperando che non abbiano fondamento le voci di un tentativo di usare i germi dell’epidemia a scopi terroristici.

il Fatto 20.9.14
Contro l’Isis e  i regimi autoritari per l’incontro delle civiltà
di Shady Hamadi
qui

il Fatto 20.9.14
Né con i tagliagole né con gli Stati Uniti
di Massimo Fini

NEI “FRAMMENTI alle istituzioni repubblicane” Saint-Just, uno dei leader della Rivoluzione francese da cui è nato il nostro mondo, afferma: “La virtù è una sola e quindi deve essere ammesso solo il partito che in essa si riconosce, mentre tutti gli altri, che le sono contrari, vanno soppressi”. La pretesa di possedere una verità assoluta che esclude tutte le altre non appartiene solo alle religioni monoteiste, nelle loro varie declinazioni di cui l'Isis è l'ultima espressione, ma anche alla cultura laica.
Oggi la proposizione di Saint-Just può essere tradotta così: “La virtù è solo democratica, tutti i popoli che in essa non si riconoscono vi vanno ricondotti, con le buone o con le cattive”. È la storia dell’Occidente degli ultimi 15 anni, dall’aggressione alla Serbia in poi. In Iraq sono quindi a confronto due totalitarismi, uguali e contrari, quello dell'Isis che vuole convertire tutti, con la violenza, alla propria fede, e quello occidentale che fa lo stesso. Con la differenza che il primo è consapevole di essere tale, il secondo no, crede di essereliberale. Lasciamopurperdere la filastrocca delle guerre d’aggressione perpetrate dagli americani negli ultimi anni, ma se da più di un ventennio si inserisce l'Iran khomeinista, cioè un Paese strutturato, di grande cultura, colpevole di aver cacciato a pedate lo Scià, un dittatore feroce, per quanto patinato, nell’“Asse del Male”, è evidente che si pongono le premesse per la nascita di fenomeni incontrollabili come l’Isis. Anche se adesso uno dei tanti paradossi della Storia vuole che proprio ai pasdaran iraniani ci aggrappiamo perché sono i soli che hanno le palle per affrontare i guerriglieri islamici sul campo. Gli americani hanno sempre bisogno di “punire” qualcuno, si tratti di Iran, di Milosevic, di Talebani, di Saddam, di Gheddafi. Sta nella loro cultura protestante. Un tempo, non tanto lontano, i bambini e le bambine riottosi venivano fustigati davanti a tutta la famiglia, a culo nudo per umiliarli (nelle scuole inglesi è esistita per tutto l'Ottocento e oltre, la pratica del “flogging”: frustare lo studente o la studentessa indisciplinati davanti a tutta la classe, con le vesti rialzate o i calzoni abbassati (Abu Ghraib si spiega anche così). Sono sempre lì a segnare “linee rosse” invalicabili, “diritti umani” inviolabili in nome di una morale (Saint-Just avrebbe detto una “virtù”) superiore, la loro. Io non riconosco agli americani alcuna superiorità morale.
Hanno cominciato con un genocidio infame e vile (winchester contro frecce), usando anche le ‘armi chimiche’ del tempo (whisky) per distruggere un popolo spirituale come i pellerossa (e adesso si scandalizzano per gli yazidi). Durante la II Guerra Mondiale bombardarono Dresda, Lipsia, Berlino uccidendo volutamente milioni di civili col preciso scopo, dichiarato dai loro comandi politici e militari, di “fiaccare il morale del popolo tedesco”. Sono gli unici ad aver usato l’atomica, e Nagasaki venne tre giorni dopo Hiroshima quando si conoscevano i suoi spaventosi effetti. Sono l’unico Paese occidentale ad aver praticato la schiavitù in epoca moderna, scomparsa in Europa dalla fine dell’Impero romano. Hanno avuto l'apartheid fino al 1960, salvo scagliarsi subito dopo contro quello sudafricano che qualche ragione in più ce l’aveva. Io non sto con l’Isis. Ma l’ipocrisia americana mi fa più ribrezzo dei tagliatori di teste.

Repubblica 20.9.14
E l’Islam moderato scende in piazza in Germania “Jihadisti assassini”
Centinaia di musulmani manifestano contro l’Is nella capitale tedesca Berlino, davanti alla Porta di Brandeburgo
di Andrea Tarquini

BERLINO IN TUTTA la Germania sono scesi in piazza contro «i criminali assassini che vogliono scipparci l’Islam». Erano tantissimi, dopo la preghiera del venerdì davanti a duemila moschee in nove grandi città, a fianco dei leader della comunità ebraica e di ministri del governo Merkel. In Arabia saudita, esponenti religiosi hanno lanciato fatwa contro il “Califfato” terrorista. E nelle metropoli arabe, dal Cairo a Beirut, la satira dura di umoristi fedeli al Corano, si scatena contro gli integralisti e la loro sfida di morte. L’Occidente ha potuto vederlo ieri: sta accadendo qualcosa nell’animo e memoria collettiva della stragrande maggioranza pacifica di musulmani: in Europa, in Medio Oriente, ovunque. «Manifestiamo contro l’odio che usurpa la nostra fede, a fianco delle vittime, e contro l’ingiustizia, la discriminazione, l’esclusione e l’ostilità sempre maggiori cui siamo sottoposti, in Germania e in Europa », dice il loro appello. Dopo la preghiera insieme a ospiti ebrei e cristiani, dopo i cortei, veglie insieme per le vittime fino a tarda sera. Da Berlino multietnica alla ricca Monaco, dalla Francoforte delle banche a Hannover capitale del nordovest industriale, è stato un venerdì particolare. Il giorno sacro dell’Islam vissuto come mobilitazione. A Francoforte l’ospite d’onore nella moschea era Dieter Graumann, leader della comunità ebraica. «Grazie, il vostro segnale viene dal cuore», ha detto. A Hannover, era nel tempio islamico il ministro dell’Interno Thomas de Maizière, vicinissimo alla cancelliera. «Lodo l’iniziativa straordinaria dei nostri concittadini musulmani, solo insieme possiamo vincere», ha affermato, «e bene fanno a ricordarci le vittime islamiche del razzismo di casa nostra: ogni violenza contro i musulmani è un attentato contro noi tutti».
Il movimento dei musulmani corre su Internet, dove le notizie dello Aktionstag tedesco dei fedeli si diffondono nel mondo intero, come su Twitter dove è partita la mobilitazione contro l’intolleranza della “polizia dei costumi” saudita. «Gli assassini fanatici dell’Is finiranno come le loro vittime, o se avranno fortuna in tribunale, soprattutto perché i musulmani si distanziano da loro in tutto il pianeta», scrive Torsten Krauel, editorialista del quotidiano liberalconservatore e filogovernativo Die Welt.
Il discorso più duro l’ha tenuto Aiman Mazyek, presidente del Consiglio centrale dei musulmani di Germania: «Dicono di agire in nome di Allah, in nome di Allah torturano, deportano, uccidono. E allora eccoci, noi veri musulmani, in piazza a fianco delle loro vittime, musulmane o di religione ebraica, yazidi o cristiane. I loro carnefici sono criminali orrendi, assassini che vogliono strapparci l’Islam, è la peggiore perversione del messaggio del Profeta. Noi glielo impediremo, vogliamo fermarli così come vogliamo fermare chi qui dà fuoco alle moschee e semina odio contro di noi».
La mobilitazione è tanto più importante sullo sfondo della sfida degli estremisti e dei tedeschi convertiti all’integralismo, parte attiva nel terrorismo del califfato. Indagini sono in corso contro almeno trenta di loro, e si teme che tornati dai campi d’addestramento preparino attentati, come quello sventato in Australia. Sono circa seimila — tanti, eppure pochissimi su 4 milioni di musulmani viventi nella Bundesrepublik — i presunti ultrà. La maggioranza è con Mazyek, che predica ogni settimana in diverse moschee, ed è conteso dai talkshow. Oppure con donne coraggiose, come Du’A Zeitun, che in poche ore ha conquistato duemila sostenitori nella sua campagna su Facebook. Bisogna combattere gli ultrà ora, dice Mazyek. Consiglia anche ai non pochi cabarettisti arabi e turchi di qui di attaccare il Califfato con l’umorismo più tagliente. Come i programmi della tv libanese, con pseudo interviste a sanguinari leader integralisti, o uno sketch d’umor nero in cui due armati dell’Is catturano un cristiano, quello muore d’infarto per il terrore, e loro si maledicono per non averlo potuto assassinare. Il messaggio dei musulmani di Germania e dei milioni di musulmani moderati di tutto il mondo è chiaro: il terrorismo minaccia tutti, anche una risata deve seppellirlo.

il Fatto 20.9.14
Palestina, diario di bordo
Combattenti, rapper e birrette
di Kento
qui

La Stampa 20.9.14
Ballano “Happy” sui tetti di Teheran
Sei giovani condannati a 91 frustate
di Maurizio Molinari

Sei mesi di prigione e 91 frustate: è la pena che il tribunale di Teheran ha stabilito per i sei giovani autori del video «Happy we are from Teheran» finora visto da un milione di persone su YouTube.
Nelle immagini si vedono ballare assieme tre ragazzi e tre ragazze senza il capo coperto, in palese violazione delle norme vigenti nella Repubblica Islamica dell’Iran.
Girato sui tetti e anche in alcune strade della capitale iraniana, sulle note della canzone «Happy» di Pharrel William, il video innescò la reazione delle autorità iraniane in maggio, quando gli autori vennero arrestati. Il tribunale, stabilendo ora le 6 condanne prevede per una delle ragazze il massimo di 12 mesi di prigione – perché è stata lei a metterlo online – riconoscendo agli imputati «atti illeciti e osceni» paragonabili «alla pornografia», come osservato dal giudice del tribunale.
Al contempo però lo stesso tribunale ha sospeso l’applicazione della sentenza punitiva nei confronti di tutti gli imputati, limitandosi a minacciare di «applicarla se nei prossimi 3 anni i condannati torneranno a commettere reati».
La scelta di far seguire alla dura sentenza «per pornografia» la «sospensione dell’esecuzione» appare un compromesso fra le diverse posizioni all’interno della Repubblica Islamica, anche perché quando i sei vennero arrestati, il presidente della Repubblica Hassan Rohani intervenne di persona affermando che «è stagliato punire chi vuole solo esprimere la gioia».
Rohani è in partenza per New York, dove parteciperà ai lavori dell’Assemblea generale dell’Onu, e «potrebbe trovarsi a dover rispondere di questa sentenza» afferma Hadi Ghaemi, direttore esecutivi della Campa internazionale.

Corriere 20.9.14
Alibaba, a Wall Street vale 240 miliardi
Superata Facebook
Il cinese Jack Ma: io come Forrest Gump
di Daniela Polizzi

Alibaba batte ogni record. Ieri, al debutto al New York Stock Exchange, il titolo del colosso cinese del commercio online non è riuscito subito a fare il prezzo, talmente forte è stato il rialzo con 100 milioni di azioni scambiate nei primi dieci minuti. È stato un rialzo mozzafiato: un picco del 46% sopra il prezzo di collocamento, un livello che ha messo al tappeto gli Ipo (Initial public offering ) di tutta la storia americana. E a fissare una tappa così importante nella storia del listino Usa è una società made in China. Gli investitori di Wall Street hanno valorizzato la matricola circa 245 miliardi di dollari, battendo un colosso come Facebook. Gioisce Jack Ma, il fondatore del sito di ecommerce, uno dei più grandi mercati mondiali del web, in grado di vendere libri, giocattoli, abbigliamento, auto, con 300 milioni di clienti, canalizzando così l’80% del traffico di acquisti via web in Cina. E la sua figura entra così nella leggenda finanziaria degli Usa. Nella galleria di personaggi che include Steve Jobs di Apple, Jeff Bezos di Amazon e Mark Zuckerberg di Facebook. Ma la sua rischia di essere una storia ancora più speciale, nelle vesti di ex maestro di inglese che in un monolocale in Cina ha avuto l’idea geniale, anche grazie a un viaggio negli Stati Uniti dove scoprì Internet. Ma anche in virtù di un prestito di 60 mila dollari ottenuto dai suoi amici che lo aiutarono a compiere l’impresa. Sul trading floor, la sala della Borsa dove si osservano i titoli scambiati, Ma ieri ha raccontato la sua filosofia di vita: «Mi ispiro a Forrest Gump, il personaggio interpretato da Tom Hanks, ogni volta che mi sento frustrato lo guardo — ha raccontato l’imprenditore cinese —. La lezione che ho tratto dal film è che qualunque cosa cambisi resta sempre noi stessi».
Jack Ma sorride, anche perché in Borsa la sua Alibaba ha raccolto circa 21 miliardi di dollari. E brinda anche Yahoo! perché il sito online cinese si è rivelato un grande affare. Nel 2005 il gruppo statunitense del web aveva investito un miliardo e adesso dall’Ipo di Alibaba dovrebbe aver incassato tra gli 8,3 e i 9,5 miliardi vendendo 121,7 milioni di azioni. Yahoo! ne manterrà comunque in portafoglio 401 milioni. Alla vendita del pacchetto di Alibaba la Borsa ha reagito a sua volta scaricando titoli Yahoo!, tanto che la società guidata da Marissa Mayer ha perso subito circa il 5% del valore per poi contenere le perdite e recuperare un paio di punti percentuali. Un fatto che dimostra chiaramente che il valore nascosto di Yahoo! è nella sua quota del gruppo di Jack Ma.
A metà giornata borsistica il rally è rallentato ma il valore del titolo Alibaba è comunque rimasto sopra il 30% rispetto al prezzo di collocamento. Adesso il nuovo fenomeno di Wall Street potrà cominciare l’espansione negli Usa e in Europa, un progetto che ha in mente da tempo. E intanto per la fine dell’esercizio in corso prevede di chiudere con 420 miliardi di ricavi. Tre volte tanto quelli di eBay e Amazon.

Il Sole 20.9.14
Il debutto di Alibaba a Wall Street
La Cina comunista che seduce i capitalisti
di Mario Platero

Venerdì 19 settembre è una di quelle giornate che resterà nella storia. È la giornata in cui la Cina Comunista è sbarcata in grande stile a Wall Street, ha trovato la fiducia dei capitalisti americani e ha chiuso la più grande emissione in borsa che si ricordi negli annali: riceverà 22 miliardi di dollari. Cina e America a braccetto dunque, il trionfo del G2: New York garante del mercato finanziario, Pechino di quello commerciale. L'equazione, in piccolo, si inverte. La Cina che ha dato biliardi di dollari al Tesoro Usa di modo che gli americani potessero continuare a comprare i suoi prodotti, oggi riceve soldi dagli Usa per poter ampliare la sua base commerciale dove si venderanno anche prodotti americani. Insomma, qui non si parla solo di Alibaba e del suo fondatore Jack Ma o del suo controllo del commercio elettronico in Cina, o del potenziale di crescita di questa azienda che ha 302 milioni di consumatori iscritti quando in Cina ci sono già 602 milioni di utenti. Nè si parla solo del controllo del mercato cinese: vero, le vendite di Alibaba, 11,6 miliardi di ordini all'anno e 296 miliardi di fatturato superano di gran lunga quelle combinate di Ebay 17 miliardi e di Amazon 82 miliardi di dollari. Tutto giusto per questo Alibaba è balzato dai $68 in apertura a quello di punta di $99.
Ma in una giornata così dobbiamo anche riflettere su come siamo arrivati a questo. E su quanto sono cambiati i rapporti macrofinanziari e macropolitici. Da una parte il nuovo G-2. Dall'altra noi italiani in mano alle Camusso di questo mondo o ai parlamentari piccini che non parlano inglese. Da una parte un modello cinese nominalmente comunista che ha seguito passo passo il modello capitalista americano, per crescere, per fare business, per creare adattabilita', per dare spazio. Dall'altra la fiera delle occasioni perdute per colpa di chi ci costringe a guardare indietro. Non consente che l'innovazione tecnologia trovi spazio in azienda per creare nuovo lavoro. Non che si dica nulla di nuovo, lo sappiamo quanto sia grande il costo che paghiamo per il nostro futuro. Con un paradosso: chi cerca di proteggere lo status quo in nome di diritti acquisiti sta in realta' impoverendoi lavoratori. E questo vale per l'Europa intera: qualcuno si e' mai chiesto come mai in Europa domina l'americana Amazon.com mentre in Cina ci sono i cinesi di Alibaba?
Se i due modelli americano e cinese sono agli antipodi per liberta' civili e politiche, su quello piano economico la Cina ha capito che in un'economia globale non poteva rischiare di essere vassalla degli americani. E dunque li ha copiatyi e ha creato le condizioni perche' Alibaba potesse trionfare. Due note aggiuntive. Ieri a New York non abbiamo visto solo le code virtuali per comprare i titoli Alibaba. C'erano anche quelle reali per acquistare il nuovo modello iPhone6. Il fermento che a noi manca e' presente in Cina e in America. E proprio ora il Presidente del Consiglio Matteo Renzi arriva domani in California, a Silicon Valley. Potrà implorare coi fatti, dal "fronte" di procedere rapidamente con le riforme per il cambiamento. Il suo problema? Lo sanno tutti. Ma vince l'ostruzionismo. Chissà che la nuova svolta del grande G2 finanziario/commerciale sino-americano non faccia scattare un campanello di allarme fra coloro che sanno quanto il cambiamento sia importante, ma preferiscono rifiutarlo.

La Stampa TuttoLibri 20.9.14
Gödel, lampi di genio grazie alla ballerina
L’avventura d’amore dalla Vienna Anni 20 agli Usa tra il grande logico e una ragazza del cabaret
di Mirella Serri

Adele e Kurt sposi nel 1938; Yannick Grannec ha raccontato il loro amore in un romanzo basato su documenti reali che ha venduto in Francia 100 mila copie e vinto il Prix des Libraires

Il genio e la ballerina. Lei lo incontrava alle prime luci dell’alba rientrando dal Nachtfalter, il cabaret dove si esibiva in costume da marinaretta. Lui passeggiava alle cinque di mattina con le braccia incrociate dietro il pesante cappottone in cui era infagottato nonostante l’aria tiepida della primavera. Per una bionda come Adele Porkert, platinata alla maniera di Jean Harlow, le strade deserte di Vienna potevano riservare brutte sorprese e lei brandiva come arma contundente un sacchetto di pepe da gettare negli occhi dell’eventuale aggressore. Adele si era accorta, però, che quel ventiduenne allampanato di nome Kurt, dietro gli occhialetti cerchiati di nero, aveva lo sguardo perso e sognante. Che fosse un tipo speciale lo capì quando la invitò al caffè e, mentre lei divorava una gigantesca fetta di sacher-torte, Kurt misurava attento mezzo cucchiaino di zucchero da mettere nel suo scipito tè.
Si annidava in lui quella bestia nera che lo avrebbe divorato lentamente negli anni, portandolo a morire di fame in America, a Princeton, vittima delle sue paranoie e della sua anoressia. Adesso, a raccontarci la bellissima storia de La dea delle piccole vittorie, ovvero la vicenda di Adele, ragazza del café-chantant trasformatasi in angelo della Provvidenza per Kurt Gödel, uno dei maggiori logici di tutti i tempi, è l’esordiente francese Yannick Grannec. Di professione designer con il pallino della matematica, la Grannec ha venduto in breve tempo circa 100 mila copie del romanzo (fondato su documenti veri) dell’ex danzatrice di varietà che, con la sua eccezionale energia, tenne ancorato alla realtà lo studioso psicotico che ha gettato le basi del pensiero informatico moderno e ha influenzato la filosofia contemporanea.
Adele aveva una personalità agli antipodi di quella del «suo» scienziato: non aveva studiato, non aveva mai letto un libro, suo padre aveva un negozietto da fotografo, si abbigliava con gonne e corsetti di gusto improbabile, cambiava continuamente colore dei capelli. Gödel, invece, proveniva da una famiglia di ricchi industriali, vestiva con camicie di lino e completi che gli cadevano a pennello. Quando Kurt conobbe la giovane donna cattolica e divorziata che aveva sette anni più di lui, già frequentava il Circolo di Vienna ed era intimo del filosofo della scienza Rudolf Carnap. Lavorava al dottorato che conseguì con una splendida dissertazione, a seguito della quale verrà invitato a insegnare negli Stati Uniti, presso l’Institute for Advanced Study (Ias) di Princeton, da due cervelloni della teoria degli insiemi e della fisica atomica, John von Neumann e Oswald Veblen. Ma già era perseguitato dai suoi fantasmi: tagliava il cibo in pezzi piccolissimi e lo faceva assaggiare alla futura moglie per timore di essere avvelenato.
A seguito dell’assassinio, nel 1936, di Moritz Schlick, uno dei suoi amati insegnanti e fondatore del circolo positivista, ucciso da uno studente di matematica nazista, le paure di Gödel si moltiplicarono. La minaccia hitleriana contro i pensatori non allineati non era il parto di una fantasia malata e spinse i neosposi, convolati a nozze nonostante le resistenze della famiglia di lui, a una fuga avventurosa attraverso l’Urss e il Giappone verso gli Stati Uniti. Nel lungo percorso in Transiberiana, Gödel custodiva un segreto che gli aveva confidato Hans Thirring a Berlino e che, appena approdato a New York, avrebbe dovuto riferire ad Albert Einstein: la Germania di lì a poco sarebbe stata in grado di controllare la fissione nucleare.
A Princeton, Adele, che non parlava bene inglese e veniva guardata con sospetto, troverà uno straordinario alleato nel tenere in vita il fragile scienziato sempre più dominato dalle sue ossessioni: Einstein divenne per Kurt un’importante figura di riferimento. Il premio Nobel per la fisica lo aiuterà a riconquistare fiducia nella vita. La strana coppia formata dal taciturno ed elegante matematico e dall’originale scopritore della teoria della relatività, con indosso un vecchio maglione militare, un paio di pantaloni sdruciti, senza calze o con i calzini spaiati, e con la nota coiffure tutta scompigliata mescolata a fili di tabacco e di chissà cos’altro, si aggirava discutendo per le strade di Princeton. Sarà proprio la scomparsa di Einstein, il 18 aprile del 1955, e poi la perdita della salute da parte di Adele, colpita da un ictus, che avvieranno Gödel su una lenta strada del tramonto: quando si spegnerà, nel 1978, sarà un mucchietto di pelle e ossa che non raggiungeva i 40 chili.
Dopo la sua morte, Adele ritroverà non solo migliaia di quaderni in cui lui registrava tutti i giorni la temperatura corporea e il volubile andamento del suo intestino, ma anche la corrispondenza con la madre in cui le esponeva le sue elaborazioni filosofiche-matematiche. Non faceva mai nessun riferimento alla sua donna, a colei che gli permetteva di sopravvivere. Adele gli fu essenziale: ballerina senza arte né parte fu paradossalmente la sua musa. Senza di lei le scoperte di un fuoriclasse della matematica e del pensiero filosofico non sarebbero maturate né venute alla luce.

Repubblica 20.9.14
Oltraggiati e curati l’uso politico dei corpi
Emerge l’idea di una “potenza destituente” capace di disinnescare i meccanismi del potere
Il punto di approdo di una riflessione al centro della quale si pone l’Homo sacer
Da Aristotele a Marx. Da Heidegger a Foucault. Il nuovo saggio di Giorgio Agamben raccoglie i frutti di una ventennale ricerca filosofica
di Antonio Gnoli

NON so se il nuovo lavoro di Giorgio Agamben – L’uso dei corpi in uscita per Neri Pozza – sia il testo conclusivo di una ricerca ventennale nella quale l’autore ha posto al centro della riflessione la figura dell’ Homo sacer e le sue declinazioni (lo stato d’eccezione, Auschwitz, lo scavo nella teologia paolina e in quella francescana, l’archèe il giuramento). Sembrerebbe di sì. Dopotutto, vi è un punto di approdo rispetto al quale la parola fine ha un senso.
E quel senso lo si percepisce nella serietà con cui Agamben ha affrontato il dispositivo della nuda vita. Ma può davvero una ricerca considerarsi conclusa? Può fornirci tutte le risposte che in qualche modo ci saremmo aspettati da essa? O non è forse vero che una ricerca conserva un residuo, un resto, qualcosa che si può solo interrompere, abbandonare, lasciare ad altri come eredità o compito supplementare? Nel chiudere questo libro importante si ha la netta sensazione che nel momento in cui Agamben metta un punto definitivo, lì qualcos’altro dovrà generarsi.
Intanto cos’è l’”uso dei corpi”? L’espressione mostra una certa familiarità con ciò che si è letto in passato. Aristotele – e in generale il mondo greco – paragona lo schiavo a uno strumento animato il cui uso lo rende simile alle suppellettili della casa. Lo schiavo non smette di essere uomo ma l’uso che viene fatto del suo corpo lo rende simile a uno strumento animato.
Il mondo moderno modellerà le proprie esigenze sulla figura dell’uomo libero. Sarà Marx a svelarci che il paradigma antropologico ereditato dal mondo classico, e posto in vario modo al centro dal liberalismo, non fosse poi così privo di inquietanti somiglianze con la schiavitù. Come avrebbe dimostrato l’analisi del lavoratore ai tempi del capitalismo.
Se questo è il possibile sfondo dal quale affiora l’idea di un corpo, in qualche modo oltraggiato (si pensi, tanto per indicare uno dei punti estremi del discorso, al modo in cui Sade teorizza come un fatto naturale la differenza corporea tra padroni e schiavi) resta da considerare il risvolto positivo che il corpo prospetta ove insieme all’uso se ne vede anche la cura.
Ma qual è la relazione tra “uso” e “cura”? Per intenderla – anche nelle sue aporie – Agamben si sofferma sulla riflessione di Michel Foucault. Che in un corso dedicato all’”ermeneutica del soggetto” richiamò l’attenzione su come Socrate distingue “colui che usa” da “ciò che usa”. È evidente la differenza tra me che uso un coltello per tagliare il pane e lo strumento in questione. Socrate ne conclude che anche l’uomo che usa il proprio corpo (prendendosene cura) sta usando qualcosa che è suo e non è suo. Non è suo perché il corpo non appartiene al corpo (una tesi grazie alla quale Aristotele poté giustificare la schiavitù). È suo perché il corpo non potrebbe essere usato senza la presenza di un’anima. Di un sé. Ciò che Platone, attraverso Socrate, scopre, ci dice Foucault, è la prima esperienza del soggetto. Senza la distinzione e la relazione tra uso e cura, difficilmente sarebbe emersa la figura della soggettività. Che il cristianesimo immobilizzerà dentro pretese universalistiche.
La filosofia moderna ha spesso rivestito la figura del soggetto di astratte considerazioni: sia immaginando che ci possa essere un “soggetto sovrano” separato dal mondo che pensa, desidera, anticipa e in seconda battuta riversa tutto questo all’esterno (posizione idealista); sia che vi è un mondo dal quale il “soggetto” si lascia condizionare in forza delle percezioni che prova (posizione materialista). Foucault – ma già Nietzsche e ancor prima Spinoza – respinge la logica del “prima e del dopo” (il dispositivo aristotelico della potenza e dell’atto) e dice che “soggetto” è colui che fa un certo numero di cose: si occupa di sé, entra in rapporto con il mondo e con altri soggetti. Non c’è il soggetto e poi l’oggetto distinto. C’è la relazione tra essi.
È stato Heidegger a spingere con forza il tema della relazione e del soggetto in quella espressione, resa familiare dalle molteplici interpretazioni, per cui l’esserci è da sempre gettato nel mondo. Come l’esserci (diciamo in senso lato l’uomo) si muova dentro questo mondo e si orienti, non è una questione scontata. Quello che l’esserci fa, lo realizza, strano il ripensamento radicale della figura del soggetto e preparano il campo alle analisi successive. In particolare a quelle svolte da Foucault. È difficile, come osserva Agamben, che egli, nonostante le dichiarazioni, non conoscesse i capitoli che Heidegger, nel testo del 1927, dedicò alla cura. Non ultimo c’è poi la questione dell’etica che il ripensamento del soggetto mette in discussione. Foucault smise di pensare l’etica come il portato di un insieme di norme e la legò con forza all’idea che un “soggetto morale” si forma nelle diverse pratiche del mondo. Non è un caso che egli dedicasse l’ultimo corso a un tema apparentemente lontano e dal sapore vagamente retorico: “Il coraggio della verità”. Che è da intendere come il tentativo di cercare attraverso la vita filosofica la vita vera. E di trovarla non in una dottrina (come farà Platone) ma in una pratica esistenziale scandalosa e sovvertitrice dei modelli correnti della società.
Siamo dunque in pieno tentativo di dare alla politica uno dei significati che sembrano essersi persi: avvicinarla a una forma d’arte. Come dimostrano le esperienze delle avanguardie novecentesche. Fino al situazionismo teorizzato da Guy Debord, figura assai presente nella riflessione di Agamben. Il quale proprio alla politica – come orizzonte entro cui l’Occidente ha cercato la propria fondabilità – ha rivolto costantemente la sua attenzione. È il punto conclusivo. Su cui vorremmo richiamare l’attenzione del lettore. Come la metafisica ha cercato di fondare qualcosa che si è dimostrato infondabile, ossia il dispositivo soggetto-oggetto, così la politica ha cercato il fondamento nella giustificazione del potere. Diciamo la sua legittimazione attraverso il potere costituente. Che è un potere originario e illimitato che prende corpo ogni qualvolta la storia ci mette di fronte a una rivoluzione, a una sommossa, alla nascita di un nuovo diritto. Si tratta di figure che spesso si sono imposte nella violenza e nel sangue. La desolante dialettica tra potere costituente e potere costituito – come ci insegnano i grandi e piccoli eventi – si iscrive in questo tragico orizzonte. Sapremo superarlo?
Agamben suggerisce l’idea di una “potenza destituente”, capace cioè di rendere inoperanti i meccanismi del potere. Quanto il “destituente” sia difficile, rischioso e complicato lo si può capire constatando i fallimenti che il Novecento ha vissuto ogni qual volta ha provato a mettere in discussione un potere costituito. Nondimeno resta viva l’esigenza di un soggetto che destituendo il potere (neutralizzandolo non distruggendolo) si prenda cura della vita. Quale vita, quale forma, resta tutta da inventare.

IL LIBRO L’uso dei corpi, di Giorgio Agamben (Neri Pozza, pagg. 208, euro 18)

Corriere 20.9.14
Le acrobazie di Churchill e i molti trasformismi italiani
risponde Sergio Romano


Ignoravo che l’eroe della Seconda guerra mondiale Sir Winston Churchill fosse stato eletto al Parlamento britannico per la prima volta nel 1901 tra le fila del partito conservatore per poi passare armi e bagagli dopo tre anni tra le fila del partito liberale, dove restò per una ventina di anni per poi ritornare tra i conservatori e continuare la sua lunga carriera politica. Significa che il «trasformismo» non è una prerogativa solo italiana, se addirittura si è verificato a così alto livello e in un Paese di così forte tradizione bipolare, oppure ci sono altre spiegazioni che giustificano i cambi di campo dell’illustre statista d’Oltremanica? Mi aiuta a comprendere meglio?
Francesco Valsecchi

Caro Valsecchi,
Q uello di Churchill non fu trasformismo, ma l’effetto di una combinazione fra impazienza e irrequietudine che caratterizzò tutta la sua esistenza. Quando terminò gli studi aveva di fronte a sé tre possibili strade. Poteva fare la carriera politica sulle orme del padre, uno dei maggiori esponenti del partito conservatore nell’Inghilterra vittoriana ed eduardiana. Poteva fare la carriera delle armi, a cui era stato preparato sin dagli anni della scuola. Poteva essere giornalista e scrittore. Non fece mai una scelta netta ed esclusiva, mescolò e incrociò i suoi talenti saltando spesso da un ruolo all’altro, e fu per parecchi anni, con grande imbarazzo del suo partito, il più imprevedibile degli uomini politici britannici. Commise molti errori, fra cui il maggiore, probabilmente, fu la fallita spedizione di Gallipoli contro i turchi quando era primo Lord dell’Ammiragliato, all’inizio della Grande guerra. Ma li pagò uscendo di scena per un esilio più o meno lungo e tornò sempre in campo ringiovanito e irrobustito. Supporre che Churchill abbia «attraversato l’Aula» (come viene chiamato in Inghilterra il passaggio da un partito all’altro) per convenienza, significherebbe attribuirgli calcoli che non erano nella sua natura.
Mi chiedo d’altronde se il trasformismo abbia sempre avuto la connotazione negativa con cui viene generalmente ricordato. Il fenomeno si manifestò in Italia dopo la riforma della legge elettorale e la vittoria della Sinistra nelle elezioni parlamentari del 1876. Del suo leader, Agostino Depretis, un giovane contemporaneo, Ferdinando Martini, scrisse che era preoccupato dai possibili effetti della partecipazione di nuovi strati sociali alla vita pubblica. Temeva che «avesse per logica conseguenza profondi sovvertimenti negli ordini dello Stato e (…) stimò dovere suo raccogliere maggioranze comunque composte». L’Italia unita era troppo giovane e fragile per essere governata «all’inglese» con piccole maggioranze che si sarebbero alternate precariamente alla guida del Paese.
Vi furono altri trasformismi, caro Valsecchi. Vi fu quello della classe politica democratica che confluì nel fascismo dopo l’avvento di Mussolini al potere. Vi fu quello di molti fascisti che andarono a rafforzare i ranghi della Democrazia cristiana dopo il crollo del regime. Vi fu quello degli intellettuali fascisti che risposero ai richiami della maga Circe Togliatti e divennero comunisti. Ma ciascuno di questi trasformisti meriterebbe un discorso a parte.

Corriere 20.9.14
Picasso ritrova il suo museo
Cinque anni e 52 milioni: un restauro difficile. Tra politica e litigi
di Stefano Montefiori


PARIGI — Ci sono voluti cinque anni, molto denaro e litigi tra ministri, eredi ed esperti ma alla fine il Museo Picasso di Parigi è pronto per la riapertura. Il pubblico potrà visitarlo già oggi e domani in occasione delle Giornate del Patrimonio «ma con un’avvertenza — dice il neodirettore Laurent Le Bon—: è un museo ancora quasi vuoto, le opere esposte per adesso sono solo una decina. Tutte le altre arriveranno per l’inaugurazione ufficiale del 25 ottobre», giorno del compleanno dell’artista nato nel 1881 a Malaga.
Ieri, nell’anteprima per la stampa, è stato possibile comunque vedere la profonda ristrutturazione al quale l’architetto Jean-François Bodin ha sottoposto l’Hôtel Salé, il grande edificio nel Marais che prende il nome di «salato» in omaggio al suo costruttore, Pierre Aubert, esattore dell’imposta sul sale nel XVII secolo. «È un luogo magico, uno degli edifici più belli di Francia — dice Le Bon —, e credo che sia davvero adatto a ospitare l’opera di Picasso».
Il museo ha una storia gloriosa e tormentata. La collezione di cinquemila opere (sulle circa 50 mila prodotte in tutta la sua vita da Picasso) si è formata a cominciare dalla donazione dei pezzi di proprietà dell’artista nel 1973, al momento della sua morte. Si è ingrandita con le opere donate dagli eredi nel 1979 e con quelle di Jacqueline Picasso, la seconda e ultima moglie, nel 1990. Cinque anni fa la decisione di chiudere l’edifico per procedere ai lavori di ristrutturazione, a cominciare dall’impianto elettrico e in generale la messa in sicurezza per finire con la completa redistribuzione degli spazi e il nuovo design degli interni. «È un stile molto semplice e sobrio, fatto per valorizzare al massimo le opere di Picasso», dice il direttore.
Negli anni i costi del cantiere sono levitati fino ad arrivare a 52 milioni di euro (19 dei quali forniti dallo Stato), ma 31 milioni sono entrati nelle casse grazie ai prestiti di quadri e sculture nei maggiori musei del mondo. Un colpo di scena si è avuto a primavera, quando l’allora ministro della Cultura Aurélie Filippetti ha licenziato la direttrice Anne Baldassari, giudicata co-responsabile dei ritardi e soprattutto del «degrado del clima lavorativo». Baldassari, indiscussa esperta di Picasso, ha lavorato per anni alla riapertura del museo ed è stata cacciata a pochi mesi dal traguardo. Claude Picasso, figlio del maestro e membro del consiglio di amministrazione, disse in quell’occasione «ho l’impressione che il governo francese si prenda gioco di mio padre e anche di me. Lo scopo di un ministro è trovare soluzioni, non creare problemi». La beffa è che nel frattempo anche Filippetti ha perso il posto, sostituita al dicastero della Cultura da Fleur Pellerin nel rimpasto governativo di inizio settembre.
Va comunque a merito del nuovo direttore Laurent Le Bon, che già aveva ottenuto ottimi risultati al Centre Pompidou di Metz, il fatto di essere riuscito a mettere d’accordo tutti. L’accrochage, cioè la scelta e la disposizione delle opere, resta affidato alla direttrice uscente Baldassari, che così non getterà al vento un lavoro di anni.
«Uno degli aspetti più importanti del nuovo museo è che abbiamo guadagnato circa 1000 metri quadrati in più, che ci permettono di esporre 400 opere — dice Le Bon —: abbastanza perché il nostro museo sia senz’altro la più grande esposizione pubblica e anche privata dedicata a Picasso. Quadri, sculture, disegni, hanno più respiro e assumono un carattere nuovo».
Quali sono le novità? «La collezione sarà strutturata in questo modo: il livello meno 1 sarà dedicato agli atelier del maestro, i luoghi più importanti dove ha lavorato nel corso della sua vita. Al pianoterra e ai piani 1 e 2 una sorta di percorso cronologico con il meglio della sua opera e all’ultimo piano, questa è la novità maggiore, i pezzi della collezione personale di Picasso: Matisse, Derain, Rousseau il Doganiere... Il pubblico pensa che la visita sia finita, invece arriva in alto, si gode la vista sui tetti di Parigi e scopre un dialogo, a mio avviso molto interessante, tra Picasso e gli artisti che lui amava».
Tra i pezzi già presenti in questo fine settimana ci sono un disegno-ritratto di Guillaume Apollinaire, donato da Maya Picasso (una delle figlie), un bloc notes con disegni di nudi femminili, il grande collage Les femmes à leur toilette , uno splendido «busto di donna» scolpito nel 1931 in Normandia prendendo come modella l’amante di allora Marie-Thérèse Walter, e l’opera preferita del direttore Laurent de Bon, La Flûte de Pan , dipinta nel 1923 a Cap d’Antibes, «omaggio a tutto il grande classicismo del vostro Paese».

il Fatto 20.9.14
Storie Maledette
Essere Franca Leosini: meglio di un tribunale
di Fulvio Abbate


Di Franca Leosini, tornata nei giorni scorsi con le sue proverbiali Storie Maledette, lei che di Raitre, da sempre, è una cuspide degli ascolti, abbiamo più volte detto ogni bene, sia riferendoci al suo talento ipnotico sia segnalandone il tratto da monotipo, pezzo unico mediatico, e forse dipenderà anche da questa sua altrove irriproducibilità (tu ce la vedi a Mediaset?) se Franca, sempre nel tempo, è diventata un’autentica diva di prima grandezza giornalistica e narrativa, con quel suo modo unico di incedere che va assai oltre lo stesso specifico criminale che la fa brillare nei palinsesti.
Dimenticavo, personalmente memore della sua intervista a Pino Pelosi, l’assassino di Pasolini, nella prospettiva dell’imminente anniversario tondo della morte dello scrittore, sento di poter aggiungere che soltanto da lei ci farà piacere sentire buone nuove processuali, se davvero ci sono, sul caso dell’Idroscalo, quanto invece agli altri, ci torna in mente l’uso strumentale che della memoria di PPP hanno fatto in funzione “elettorale” i molti Veltroni del mondo.
Il delitto, suggerisce Franca Leosini, “non è mai una storia individuale, ma l’espressione estrema del malessere profondo, del disagio, dell’inquietudine, della solitudine morale, che a diversi livelli attraversa la società”, questo per dire che Storie Maledette prova a raccontare ogni cosa muovendo dal dubbio.
LA STORIA di Stefania Albertani è in questo senso paradigmatica: ventisei anni nel 2009, i giorni del delitto, famiglia di imprenditori del comasco, ha ucciso la sorella e ne ha incendiato il corpo; ha poi strangolato la madre che, salvata in extremis, Stefania era in procinto di dare alle fiamme a sua volta. Condannata a venti anni di reclusione più tre di Ospedale Psichiatrico Giudiziario, Stefania Albertani in questo momento sta scontando la pena presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Al processo, la Albertani si è rifiutata di parlare, meglio, non ha mai motivato il suo gesto, ha dichiarato di “non ricordare”, di non sapere il perché dei delitti commessi, la loro modalità, il movente stesso. A Franca Leosini, misteri del talento e forse della pervasività mediatica, ha invece raccontato ogni dettaglio. L’avventura processuale in questione custodisce un caso unico: per la prima volta, in Italia, in un procedimento giudiziario, entrano, con peso determinante per la definizione della pena, le neuroscienze. Ossia quelle tecniche di accertamento che consentono di studiare aree del cervello che regolano funzioni specifiche del comportamento: nel caso di Stefania Albertani le aree cerebrali che sembrano regolare gli istinti aggressivi e, per estensione, riferite al gesto criminoso. Questa storia, fatto salvo il contesto storico e culturale mutato, pur senza possedere il medesimo riverbero simbolico di quella della francese Violette Nozière che negli anni Trenta ebbe un notevole riverbero mediatico suggerendo perfino un film a Claude Chabrol, custodisce comunque uno spunto esemplare sul nostro attuale esistente.