sabato 7 novembre 2009

l’Unità 7.11.09
Un sistema da copione
di Dario Fo

La relazione è immobile e funziona sempre: se un cittadino commette errori il sistema può sventrare la sua privacy per metterlo in sicurezza alla luce delle sue responsabilità. Ma se è il sistema a commettere degli errori, ogni tentativo di penetrarne la dinamica viene cassato, respinto. Il potere si garantisce soprattutto in caso di errori. Ecco perché faremo molta fatica per sapere cosa è successo a Stefano Cucchi. Del resto, è un sistema sapiente, riesce perfino a passare dei copioni standard alle sue vittime, alle vittime del suo «temperamento», copioni che le vittime sono tenute a recitare, come una litania nel caso abbiano fatto i conti con la rituale violenza di una istituzione carceraria. Devono dire e ripetere: «Mi sono fatto male da solo cadendo per le scale», quando qualcuno chiederà spiegazioni per i lividi e le ossa rotte. Tutti lo sanno, ma tutti devono fingere di non saperlo, è una sorta di convenzione teatrale che impone soggezione e omertà a una società intera. Tanto, in cella finiscono solo i «residui» di quella società, gli «scarti», i «vuoti a perdere»; un patto non pronunciato regge così quella veccchia relazione di potere: a igienizzare il tuo ambiente di vita ci penso io, tu, però, non fare troppe domande, sennò quel lavoro te lo fai da solo e non lo sai fare. Poi, però, ci muore tra le braccia un ragazzetto lieve lieve di meno di quaranta chili, che non ha ucciso nessuno, non ha fatto resistenza
all’arresto, non sa cosa voglia dire far del male a chicchessia. Uno che dice candido di essere caduto dalle scale di un edificio gestito dalle forze di sicurezza. Ma prima di morire minaccia: voglio il mio avvocato sennò non mangio e non bevo più. E allora è più difficile fingere che non sia successo niente: quel bersaglio ispira tenerezza e la tenerezza è una brutta bestia se si infila tra le maglie di una meccanica repressiva. Ecco: allora si può cercare di dare qualcosa al pubblico avvelenato dalla tenerezza, magari cercando le «mele marce», i responsabili della violazione sventurata di un codice non scritto ma che sappiamo a memoria e che disgraziatamente è venuto a galla. Questo è il vero errore. Insomma, conviene porgere qualche responsabile del pestaggio mortale: sarà sgradevole ma va fatto. Così come andrebbe fatto che ogni cittadino italiano a partire dal presidente del Consiglio fosse prelevato di tanto in tanto dalla sua casa e trasferito per qualche tempo in una cella del nostro sistema di sicurezza. Non per provare il peso della punizione, ma per sapere di che pasta è fatta la sua civiltà. Diceva Voltaire a un amico che voleva proporgli di trasferirsi, fuggendo, a Brema: «...perché io possa capire la civiltà e la democrazia che si respira nel tuo paese, parlami delle vostre carceri». E tuttavia, nessuno può oggi nascondersi l’evidenza: l’infamia, l’inciviltà del carcerare. La segregazione in un luogo che normalmente senza annaspare in casi limite insegna la violenza, la furbizia, la falsità, un vademecum esattamente contrario al senso di una positiva educazione alla vita. Un breviario che viene consegnato in prima battuta ai poveri diavoli che fanno uso di droghe e che, sulla base di una disgraziata legge di questa destra, intasano oggi le celle italiane. Ingiustamente. Lì impareranno che se fossero stati truffatori non sarebbero mai stati privati della libertà.

l’Unità 7.11.09
L’Associazione Mazziniana e il crocefisso
di Stefano Covello

La presidenza nazionale dell'Associazione Mazziniana Italiana ha diramato la seguente nota: «I mazziniani italiani invitano la classe politica a considerare la recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sulla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche come uno spunto di riflessione. Piuttosto che denunciare complotti ideologici e lamentare la sconfessione delle radici cristiane, occorrerebbe doman-
darsi come mai l'Italia sia sempre più lontana dal resto dell'Europa nel campo dei diritti civili e delle relazioni tra Stato e Chiesa. Lascia perplessi la fretta del Governo di ricorrere contro la decisione di Strasburgo, prima ancora di una adeguata valutazione delle motivazioni, e prima di una reazione ufficiale della Santa Sede. Non si può continuare ad ignorare che la società del XXI secolo deve fondarsi sulla laicità, il pluralismo e il reciproco rispetto. Nella scuola, in particolare, è opportuno rimettere in discussione tutti i residui del confessionalismo, inclusa l’ora di religione: come scongiurare altrimenti il pericolo che l'odierna realtà multietnica si traduca in una nazione ''a spicchi'', in cui ciascuna confessione faccia parte per se stessa in un clima di odio e di avversione? L'appello dei mazziniani è che la scuola educhi alla coscienza religiosa e non faccia catechismo».

l’Unità 7.11.09
I furbetti del crocefisso
di Moni Ovadia

La vicenda della “ostensione” dei crocefissi nelle scuole e la sentenza della Corte Suprema del Parlamento Europeo ha dato la stura all’ennesima cagnara dei soliti politici che hanno imbracciato la spada del crociato per correre in difesa della presenza dei crocefissi nelle aule scolastiche. Povero crocefisso usato come libretto di assegni per comprare qualche piccola rendita di potere. Del vero merito della questione, la laicità dell’Europa, accettata come valore fondante da tutte le serie democrazie del vecchio continente in Italia non gliene frega niente quasi a nessuno. La laicità da noi è stata condannata a morte per il reato capitale di laicismo, reato immaginario inventato dai chierici dell’integralismo nostrano. La Corte Suprema del Parlamento Europeo ha fatto semplicemente la sua parte perché non è tenuta a conformarsi alle anomalie di una classe politica di piccolo cabotaggio incistita solo nei propri piccoli interessi di potere e che non ha rispetto per il ruolo delle istituzioni preposte a tutelare i principi universali su cui l’Unione Europea si fonda. Personalmente non ho niente contro il crocefisso, sono cresciuto fra crocefissi alle pareti di centinaia di luoghi in cui sono stato, ho lavorato e ho vissuto e non mi hanno certo condizionato. Per quanto mi riguarda possono rimanere dove stanno. Del resto, in un Paese in cui ci sono migliaia di chiese e chiesette, di campanili possenti e svettanti o intimi e modesti, anche se i crocefissi venissero rimossi la situazione della “ostensione” non cambierebbe granché. Ma è grave invece il fatto che i crociati di casa nostra invece di preoccuparsi dei valori cristiani universali si abbandonino ad una invereconda cagnara su questioni di lana caprina.❖

Repubblica 7.11.09
I nunzi in giro per le capitali. Il cardinal Bertone: "Faremo tutti i passi per reagire al provvedimento Ue"
Vaticano, pressing sull´Europa "I governi rifiutino quella sentenza"
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - E intanto i nunzi apostolici vanno all´attacco in tutta Europa per convincere i governi dell´Unione a respingere al mittente la sentenza del Tribunale dei diritti umani di Strasburgo. Mentre le polemiche sul crocifisso non accennano a diminuire, gli ambasciatori del Papa da qualche giorno sono stati riservatamente invitati a far presente presso le cancellerie europee «il disappunto, l´amarezza e la delusione» con cui Oltretevere è stata accolta la «bocciatura» del crocifisso nelle scuole italiane. Nessun comunicato ufficiale, nessun ordine scritto, ma solo indicazioni verbali trasmesse attraverso i canali diplomatici pontifici, lungo i quali i collaboratori di papa Ratzinger hanno incaricato i nunzi di spiegare ai governanti europei le ragioni per cui il Vaticano intende fare tutto il possibile per «difendere» la presenza del crocifisso nei luoghi pubblici. Una battaglia - ragionano in Segreteria di Stato - che «per ora» riguarda solo le scuole pubbliche d´Italia, ma che non è escluso che si possa allargare a macchia d´olio in altri ambiti pubblici e in tutto il vecchio continente.
Il cardinale segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone già aveva indirettamente fatto capire qualche cosa del genere mercoledì scorso quando, parlando all´ospedale Bambino Gesù di Roma, aveva annunciato che «la Santa Sede farà i passi che le spettano per stimolare i cristiani a reagire alla sentenza». Pur precisando che «non possiamo interferire nelle decisioni della Corte europea», il porporato aveva auspicato che «anche altri governi facciano ricorso contro la sentenza il governo italiano... «. L´input ai nunzi sembra partito proprio dall´»auspicio» esternato dal cardinal Bertone, anche se nei Sacri Palazzi ci si limita a far notare solo che «è prassi consolidata che la Santa Sede attraverso i nunzi apostolici apostolici informi gli altri governi delle questioni che riguardano la Chiesa... come appunto potrebbe essere il caso esploso in seguito alla sentenza sui crocifissi nelle scuole italiane».
Fulmini sul pronunciamento di Strasburgo arrivano anche da altri due cardinali, il presidente della Cei Angelo Bagnasco - che parla di «sentenza fortemente ideologica, non certamente condivisa dal sentire comune», e Stanislao Dziwicsz, storico segretario di papa Wojtyla. Entrambi si dicono «perplessi per il futuro dell´Europa» perché così - spiega Bagnasco a un convegno su minori e tv a Genova dove è arcivescovo - «la gente si allontanerà dal vecchio continente». Mentre Dziwicsz, in un commento fatto ieri dalla sua diocesi di Cracovia (Polonia), teme che «quanto stabilito da Strasburgo possa mettere a rischio anche la libertà religiosa in Europa, perché così facendo si tenta di eliminare il cristianesimo dalla vita pubblica». Severo, infine, il giudizio del quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, che in un editoriale a firma di Domenico Delle Foglie accusa i giudici di Strasburgo di essere «professionisti di cattiva laicità» e di «peccato di presunzione».

Repubblica 7.11.09
Crocifisso, il governo fa ricorso alla Ue
Berlusconi: resteranno nelle aule, la decisione di Strasburgo non è vincolante
Di Pietro: "Giusto tentare di sospendere l´esecuzione del pronunciamento"
di Marina Cavalieri

ROMA - Continua la battaglia del governo in difesa del crocifisso. «La decisione di Strasburgo è assolutamente non rispettosa della realtà per un paese cattolico come il nostro. Come ebbe a dire Benedetto Croce, il nostro paese non può non dirsi cristiano e il Cdm ha deciso di ricorrere immediatamente contro questa sentenza».
L´annuncio è stato fatto da Berlusconi al termine del consiglio dei ministri, in una conferenza stampa durante la quale ha però precisato che non sarà fatto nessun referendum: «Penso non ci sia nessuna necessità, la nostra storia è quella cristiana, anche un ateo non può che essere d´accordo».
Per la Corte europea dei diritti dell´uomo la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche è «una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni». Una sentenza che ha scatenato fortissime polemiche in Italia, nel mondo politico molti i contrari, pochi quelli schierati a favore. E nessuna guerra tra destra e sinistra. Il governo comunque liquida la sentenza come senza fondamento. «Non è vincolante», ha detto Berlusconi. E nessun crocifisso sarà staccato dalle pareti.
Nella guerra per il crocefisso il governo ha una linea «ferma e decisa», ha detto Calderoli e si schierano accanto al premier i ministri. «La sentenza di Strasburgo resterà in ogni caso una grida manzoniana», prevede Ignazio La Russa, che ha annunciato che nei prossimi giorni verrà avviata una raccolta di firme a sostegno del ricorso del governo. Danno il loro sostegno anche le ministre Gelmini e Meloni.
Per l´opposizione il crocifisso non va escluso dalle aule anche se il governo sbaglia nel tipo di difesa. «La nostra interpellanza al presidente del Consiglio», spiega Vannino Chiti vicepresidente del Senato, «è per dire al governo che le motivazioni dell´Italia davanti alla Corte non possono essere sostenute, così come è stato fatto, su argomenti di opportunità politica. Noi vorremmo che ci fosse un confronto serio in Parlamento e che si presenti un ricorso che abbia il sostegno dell´insieme delle forze politiche». Antonio Di Pietro, leader dell´Italia dei Valori, definisce «senza capo né coda» la pronuncia. «Qualora giuridicamente ci sia la possibilità di sospendere l´esecutività della sentenza ben venga. La figura di Cristo in croce è un segno di pace, valido per chi pratica qualsiasi religione o è ateo».
Se in Parlamento non esistono sostanziali spaccature, nelle strade e nelle aule c´è chi alza barricate. Il sindaco di Ostra Vetere nelle Marche ha stabilito una sanzione di 500 euro a chi toglie il crocifisso dalle aule. Mentre l´ex ministro Ferrero di Rifondazione comunista commenta: «Invece del ricorso il governo pensi al taglio dei supplenti».

l’Unità 7.11.09
Pd, Bersani vuole un «bambino nuovo» Letta il suo vice, oggi l’Assemblea
I mille scelti attraverso le primarie si riuniscono a Roma. Verrà votata la Direzione del partito. Venti nomi saranno scelti dal segretario. Franceschini e Finocchiaro capigruppo. Ventura, Calipari, Zanda e Casson i vice.
di Simone Collini

Presidenza. Alla Bindi saranno affiancati come vice Marina Sereni e Ivan Scalfarotto
Deciso anche il tesoriere: sarà Antonio Misiani. Fioroni vuole un incarico

È la giornata di Pier Luigi Bersani, della proclamazione ufficiale del nuovo segretario, del discorso che segna il «Pd che riparte e si pone come alternativa» al governo Berlusconi. E poi dei mille scelti attraverso le primarie, dell’Assemblea nazionale del partito che si riunisce ed elegge i 120 membri della Direzione (più quelli di diritto e i 20 nominati dal segretario), della “Canzone popolare” che torna a farsi sentire («mi sarebbe piaciuto metterla anche da candidato ma ho pensato che non fosse giusto usarla come canzone di una mozione, l’Ulivo è di tutti»). È la giornata dell’elezione a presidente del Pd di Rosy Bindi, di un deputato bergamasco finora pressoché sconosciuto come Antonio Misiani che sarà eletto tesoriere, di Enrico Letta che sarà vicesegretario e forse anche coordinatore della segreteria, anche se c’è Beppe Fioroni che scalpita per avere uno dei due incarichi. È la giornata di Dario Franceschini che non interviene perché non è il caso di fare oggi da «contraltare», di Ignazio Marino che interviene perché Bersani l’ha chiamato e gli ha detto che gli farebbe piacere, di Massimo D’Alema che starà solo ad ascoltare perché c’è troppa Europa nei suoi pensieri (ieri è andato alla sede del Pd e con il segretario ha parlato dell’incarico di “Mister Pesc”, oltre che del futuro del partito).
IL DISCORSO DI BERSANI
Ai mille riuniti alla Nuova Fiera di Roma Bersani prometterà «un bambino nuovo»: «Il mio Pd guarda avanti». Un modo per mettere in chiaro che non ha nessuna intenzione di «tornare indietro», di guardare alla socialdemocrazia, perché quello che serve oggi è «un partito popolare dei tempi moderni». Un modo per rispondere senza citarli agli «ingenerosi», ai Rutelli, ai Cacciari, ai Calearo che hanno detto addio senza aspettare le prime mosse, a quelli che credono in una separazione dei compiti: «Io non credo nel centro-sinistra, col trattino, partiti di centro che puntano ai consensi dei moderati e partiti di sinistra che pensano al resto. Il Pd non è una coperta che tiri di qua o di là, avrà capacità attrattiva in tutti gli ambiti».
Il nuovo leader del Pd parlerà della necessità di «recuperare il rapporto con i ceti popolari e produttivi», metterà al centro le «politiche industriali e il lavoro», criticherà un governo che in questi mesi «non è stato in grado di mettere in campo una manovra economica per far fronte alla crisi», darà la «disponibilità per un confronto sulle riforme, giustizia inclusa, ma non sui problemi personali del premier», anche avanzando delle proposte sul terreno istituzionale (in primis, superamento del bicameralismo perfetto e riduzione del numero dei parlamentari), parlerà di politica estera, Europa e anche della caduta del Muro. Altro che nostalgia per il rosso, che restaurazione: «Dovunque sono andato ho cambiato quello che ho trovato», dirà. Ringrazierà tra gli altri Romano Prodi, che oggi non ci sarà ma al quale si deve l’intuizione dell’Ulivo: «Va recuperato il movimento di riscossa civica a cui diede vita».
L’ORGANIGRAMMA
Oggi si inizierà a delineare anche l’organigramma del Pd. Ad affiancare la Bindi ci saranno due vicepresidenti del Pd: Marina Sereni per l’area Franceschini e Ivan Scalfarotto per quella Marino. Vice di Franceschini, capogruppo alla Camera, saranno Michele Ventura (bersaniano) e Rosa Calipari (elettrice del senatore chirurgo). Vice di Anna Finocchiaro, riconfermata capogruppo al Senato, saranno Luigi Zanda e Felice Casson. Ci sarà una segreteria composta da giovani «che sono già in campo» e un ufficio politico con dentro tutti i big.❖

Corriere della Sera 7.11.09
«I cattolici? Sentono il Pd come loro partito»
di Virginio Rognoni



L’uscita di Rutelli dal Pd ha provocato una serie di opi­nioni sulle con­seguenze. È sta­to il progetto del Pd a essere giu­dicato. Si è parlato del fallimen­to della auspicata fusione; di un partito che si modella, anche per la vittoria di Bersani, come l’ennesima riposizione dei Ds. C’è, però, un fatto che spazza via tutte le analisi: oltre tre mi­lioni di cittadini hanno espres­so la preferenza per il segretario di un partito che ritengono affi­dabile. È stato un voto democra­tico, per così dire laico. È lecita la conseguenza che Rutelli riten­ga giusto puntare sul «grande centro». Può essere, e forse è co­sì; ma qui mi sembra più conve­niente osservare che sono i cat­tolici democratici e i popolari nel Pd a essere interpellati. Sen­tono questo partito come il «lo­ro » partito? Io ritengo di sì. Non ho mai pensato che alla base del Pd vi sia una sorta di meticciato di culture. La storia dei cattolici democratici è legata, con i suoi valori, alla comprensione della laicità della politica, al gioco del­la libertà e al dovere della giusti­zia. Questa coscienza i cattolici l’hanno trovata nel Pd. 
L’intervento completo di Virginio Rognoni su www.corriere.it

l’Unità 7.11.09
Letta sull’Osservatore «Profonda osmosi tra Chiesa e Stato»

Tra Chiesa e Stato in Italia c'è una «profonda e feconda osmosi», «una situazione del tutto eccezionale» da cui l'Italia «sta imparando progressivamente a trarre la massima utilità»: lo scrive il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, nella presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia», curato da Pierluca Azzaro e pubblicato dalla Libreria editrice vaticana in collaborazione con l'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, anticipata ieri dall'Osservatore romano. Ancora un articolo del gentiluomo di «Sua Santità» ospitato dal quotidiano della Santa Sede ricco di riconoscimenti verso il pontificato. «Oggi si può affermare con soddisfazione scrive Letta che nella città di Roma convivono pacificamente e collaborano fruttuosamente lo Stato Italiano e la Sede apostolica».

l’Unità 7.11.09
La Cgil porta la «scuola in piazza»
«Cento piazze» per la scuola. La Cgil oggi in tutta Italia farà iniziative per sensibilizzare gli italiani sui problemi che i tagli del governo stanno comportando. Interverranno personalità della cultura e dello spettacolo.
di G. V.

In cento luoghi del paese oggi iniziativa per parlare di quel che si fa negli istituti scolastici
E di quanto pesino i tagli voluti dal governo. A Roma nel pomeriggio in piazza Navona

Oggi la CGIL sarà in piazza per la seconda giornata nazionale della tutela individuale: "100 piazze per la Conoscenza". Con questa iniziativa la Federazione Lavoratori della Conoscenza Cgil intende sensibilizzare i cittadini su cosa fanno quotidia-
namente i ricercatori precari, i docenti "fannulloni", i "bidelli che non puliscono", gli studenti a cui stanno togliendo il futuro. Un appuntamento che vedrà anche la partecipazione di personalità del mondo della cultura e dello spettacolo e, ovviamente, non mancherà la musica ad accompagnare le nostre iniziative. Un pomeriggio con lezioni all'aperto, esperimenti, musica e cultura: i lavoratori della conoscenza informano, divertono e coinvolgono per mostrare quanto valgono ed esigere il rispetto che meritano.
Le iniziative nelle piazze più importanti di tutto il Paese. A Roma, in Piazza Navona, a partire dalle ore 15.00 un ricco programma di avvenimenti. In molte altre città le iniziative della FLC si accompagneranno a quella della CGIL. In Veneto manifestazione regionale a Treviso in Piazza dei Signori ore 11,00 interviene Guglielmo Epifani, segretario generale CGIL. Tante le iniziative previste in Toscana. A Firenze il sistema dei servizi CGIL sarà in piazza Gino Bartali dalle 9:00 alle ore 13:00, mentre a partire dalle 14, saranno i lavoratori della scuola, dell'università e della ricerca, a parlare alla città. A Pisa, alle ore 9, partenza del corteo da piazza Vittorio Emanuele II che si concluderà con un comizio in Piazza Martiri della libertà. Fra gli interventi, previsto quello di Enrico Panini, segreterio nazionale CGIL. L'appuntamento con la FLC Campania è a Napoli, in Piazza Dante a partire dalle ore 10.00 e fino alle 21. In Sicilia: «Diritti & Cultura in piazza», è il titolo dell'iniziativa che si svolgerà a partire dalle ore 9.00 e fino alle 20.00 a Palermo in Piazza Giuseppe Verdi (Teatro Massimo). Dalle ore 14,30 lezioni in piazza con Margherita Hack, Mary Cipolla, Antonio Ingroia, docenti e alunni. ❖

l’Unità 7.11.09
Intervista a Carol Beebe Tarantelli
«Fort Hood, un pazzo o un terrorista. La guerra non c’entra»
La psicanalista, esperta di America: «La paura di andare a Kabul non genera massacri, verificherei la pista di un attentato modello metrò di Londra»
di Rachele Gonnelli

Il perché degli spari
«Chi soffre di stress
post traumatico è stato
a rischio, lui no. Vorrei
capire se è entrato
in un gruppo estremista»

In Italia è più facile vedere uomini che uccidono la moglie, i figli, la suocera, in America la violenza si scatena più facilmente sul vicinato, i compagni di università o i commilitoni come in questo caso». Carol Beebe Tarantelli, psicanalista, docente dell’Università La Sapienza di Roma, studia in particolare i meccanismi della violenza e della violenza politica, terrorismo incluso, sia in Italia sia in America. Sul caso di Fort Hood ha iniziato ieri mattina presto, seduta a colazione davanti ai programm tv americani, a cercare una spiegazione. O almeno a cercare di ricostruire la storia di questa tragedia.
Il killer era un ufficiale medico, pacifista, a quanto sembra. Aveva i tratti di un personaggio buono, invece... «Uno psichiatra, più di un medico. Ma credo però che sul suo personaggio ci sia ancora molta confusione. Guardando bene nelle dichiarazioni del cugino non viene mai confermato che stesse per essere inviato in Afghanistan. Aveva molta paura di andarci, ma la paura di per sé non produce stragi».
La sindrome di burnout colpisce i medici che curano i soldati con forti traumi di guerra. Si ammalano per empatia. Lo dice l’Iraq War Clinician Guide 2009.
«Naturalmente stiamo parlando in via ipotetica, nessuno di noi lo conosce o ci ha parlato. Ma no, io non credo che una traumatizzazione vicaria, cioè di ordine secondario, possa provocare una esplosione di violenza di questo tipo. Lavoro con due gruppi di donne, uno è di donne torturate e l’altro di vittime della tratta. Parlare con le prime è molto duro, quindi so cosa significa questo lavoro. Resto convinta che per arrivare a questi estremi allora doveva avere una patologia sottostante. I soldati che soffrono di disturbi da stress post traumatico o patologie simili sono stati a rischio di vita. Lui no. Anche se fosse stato mandato in Afghanistan non avrebbe combattuto. Per fare una strage così ci possono essere due motivi: una motivazione ideologica e un appoggio collettivo come nel caso di quelli che si fanno esplodere oppure una disintegrazione della personalità per cui l’uomo che non contiene più se stesso passa all’azione perchè si sente lui a rischio di morte psichica».
Allora lei propende per ipotizzare che si tratti di un terrorista. Ma non potrebbe aver covato odio per essere stato tartassato in quanto islamico? «Varie fonti hanno detto che aveva in effetti incontrato un clima di sospetto e anche dubbi sulla sua religione. Ciò può produrre una grande amarezza ma anche questa non può essere una precondizione del massacro. Altrimenti i neri americani dopo 150 anni di razzismo avrebbero dovuto sterminare metà della popolazione bianca. E poi i suoi genitori erano naturalizzati americani, lui è nato americano. Non ho gli elementi per avanzare un sospetto. Ma se fossi io a dover rendere conto del caso cercherei innanzitutto di verificare se si fosse unito a degli estremisti islamici come è stato negli attentati alla metro di Londra del 2 luglio 2005. Cercherei di escludere intanto questa pista».
Il colonnello Lee suo superiore alla Fox ha detto che aveva sperato in un ritiro delle truppe Usa da Iraq e Afghanistan e disilluso, covava ora molta rabbia.
«Inverosimile anche solo come sfondo. Si sta parlando di un soldato non di qualcuno seduto sul divano a mille miglia di distanza dai problemi logistici della guerra. Doveva sapere che ci vogliono anni anche solo per inviare rinforzi. Inoltre Obama sull’Afghanistan non ha preso ancora alcuna decisione mentre dall’Iraq sta ritirando le truppe. Dovrebbe anche qui essere completamente fuori dalla realtà, incapace di percepirla, primo sintomo della follia. Ci deve essere una faglia per produrre un terremoto, non una fenditura nella terra».
Lei studia anche gli stupratori, i serial killer. Che cosa caratterizza la violenza politica e ne differenzia i meccanismi?
«È complesso, ci sto scrivendo un saggio per The International Journal of Psychoanalysis. Gli attori della violenza politica vengono abilitati dai singoli e dai valori della loro collettività ma c’è anche qualcosa di personale. Molti in Italia condividevano l’ideologia del terrorismo ma non dedicavano la loro vita ad atti violenti. L’ideologia è la foglia di fico che giustifica desideri violenti che altrimenti non si esprimerebbero». ❖

Repubblica 7.11.09
Il disagio delle truppe dopo 8 anni di guerre: già 134 suicidi nel 2009
Stress, violenza, ansia quel male oscuro che divora i Marines
di Francesca Cafarri

La grande famiglia è malata. Non serviva la strage di Fort Hood a scoprirlo, ma ora nasconderlo è diventato impossibile. Unità, solidarietà, coraggio: sono gli slogan delle Forze armate americane. Li vedi stampati ovunque, girando nelle caserme, negli accampamenti e negli ospedali. Siamo una "famiglia" e ci prendiamo cura di ogni membro, è il messaggio. Una parola sola aleggia costante nell´aria ma non compare mai: stress. O, nella sua forma più corretta, PTSD post-traumatic stress disorder.
Il male oscuro dei militari Usa, che il maggiore Nidal Malik Hasan aveva guardato in faccia per anni come medico al Walter Reed Hospital e che temeva l´aggredisse in Afghanistan, è racchiuso in queste quattro lettere: tradotte nella vita di tutti i giorni significano incubi, difficoltà di riadattamento a un´esistenza normale, violenza fisica, depressione, alcolismo. Come il male abbia potuto aggredire "la famiglia" è facile capirlo: due guerre che vanno avanti da otto anni ormai con turni sul terreno di 12 mesi che per un lungo periodo sono diventati di 15, hanno piegato le forze armate più potenti del mondo. Lo scorso anno 140 soldati si sono suicidati, il numero più alto mai registrato. Che sarà con tutta probabilità superato nel 2009: fra gennaio e ottobre ci sono già stati 134 suicidi. E non è questa l´unica statistica a evidenziare il disagio: il 35% di quelli che tornano da Iraq e Afghanistan, dicono gli esperti, soffre o soffrirà di PTSD. Il numero delle persone che hanno mostrato sintomi di disagio è cresciuto del 50% nel 2008 rispetto all´anno precedente. I tassi di divorzio sono in costante crescita, così come quelli sugli ex militari homeless e senza lavoro. E tutti i problemi aumentano proporzionalmente alla lunghezza dello schieramento sul terreno.
Il Pentagono ha cercato negli ultimi mesi di correre ai ripari: sono stati aumentati i finanziamenti, potenziati i servizi di assistenza e introdotto un test obbligatorio per i militari di rientro dai teatri di guerra. Inoltre il capo supremo delle Forze armate americane, generale Mike Mullen, ha invitato a più riprese i suoi uomini a non vergognarsi e a farsi curare senza temere conseguenze. Basterà? L´unica soluzione reale che gli esperti raccomandano è proprio quella che lo Stato maggiore non può scegliere in questo momento: tempi di permanenza a casa più lunghi per dare modo ai militari di recuperare il loro equilibrio. Un´utopia o quasi: secondo un recente studio dell´Institute for the Study of war, un think tank di Washington, solo tre brigate dell´esercito e una dei Marines (fra gli 11mila e i 15mila uomini e donne) potrebbero in questo momento mandare sul terreno soldati che sono rimasti a casa 12 mesi fra uno schieramento e l´altro. Un dato che Obama non può non tenere presente nel momento in cui deve decidere se inviare nuove truppe in Afghanistan.

Repubblica 7.11.09
L´integrazione impossibile del maggiore che ha fatto strage nella base Usa
Le due anime del maggiore Hasan tra il Corano e il sogno americano
di Vittorio Zucconi

Il maggiore della US Army dottor Nidal Malik Hasan cominciò a morire la mattina dell´11 settembre 2001, quando da un televisione nell´ospedale della Marina a Washington dove studiava psichiatria, guardò due aerei conficcarsi dentro due grattacieli a Manhattan e spezzare per sempre la sua identità di americano e di arabo.
Il suo corpo non riportò neppure un graffio, e ancora oggi resiste, affidato alla misericordia di respiratori e tubi. Fu la sua anima di palestinese nato in America da profughi fuggiti dalle rive del Giordano nel 1967, di musulmano e cittadino, di giovane uomo cresciuto tra la devozione al Corano e la devozione al sogno americano, che cominciò a morire, quando scoprì di essere diventato il nemico più temuto dell´uniforme che indossava e della nazione che aveva giurato di difendere. Non per qualche cosa che avesse fatto, ma soltanto perché si chiamava Nidal, che significa "la lotta", come Abu Nidal, il superterrorista; perché gli arabi sono il male nello «scontro di civiltà» che ha rimpiazzato la «minaccia rossa»; e perché ogni venerdì, vestendo ancora l´uniforme, pregava in una moschea di Silver Spring, il sobborgo più multietnico di Washington.
La storia della sua vita fa dunque più spavento della biografia di un fanatico, perché la sua sembrava una storia perfetta di integrazione e di assimilazione voluta, avvenuta e compiuta. Suo padre era fuggito dal giardino di ulivi che possedeva e coltivava nella Palestina della Bibbia e dei Vangeli, quando Israele l´aveva strappata alla Giordania nel 1967, per sistemarsi nel piccolo mondo dei profughi arabi che vivono di negozietti e di voglia di farcela. Nidal, "la lotta", era stato spinto sulla strada maestra che gli immigrati più intelligenti e più laboriosi imboccano, quella dello studio, con la scorciatoia e i soldi dei militari sempre affamati di reclute. Aveva preso una laurea in biologia al Politecnico della Virginia, quello stesso dove nel 2007 uno studente coreano, Seung-Hui Cho, aveva fatto fuori 32 fra studente e professori. Perché follia, armi automatiche e odio non sono monopolio di nessun popolo e di nessuna religione.
Da soldato semplice, Nidal era divenuto cadetto nel corso allievi ufficiali che le università offrono. Da sottotenente era stato accettato alla facoltà di Medicina dell´Ospedale navale di Bethesda, che è un altro sobborgo di Washington con un nome mistico, Bethesda, la località della piscina miracolosa. Nei formulari in triplice copia che le burocrazie militari divorano non aveva mai indicato una preferenza religiosa né ai compagni, poi camerati, poi colleghi nel reparto di psichiatria specializzata nei traumi da grandi disastri, aveva mai dato l´impressione di essere un credente devoto. Semmai uno psichiatra mediocre, sul quale i superiori dovevano periodicamente intervenire per guidarlo nei rapporti coi pazienti. Alla domanda sulla nazionalità, indicava sempre «palestinese», anche se era nato in Virginia. Era l´unico segno che dentro di lui il sogno americano non aveva cancellato l´incubo palestinese, convivendoci soltanto.
Fino a quel mattino di settembre, e a quegli aerei che si abbatterono sulla fragilità di tutte le doppie nature, delle doppie nazionalità, delle doppie culture che dormono sotto le copertine del passaporti. Il suo nome divenne oggetto di sospetti, di battute, di allusioni che lui inghiottiva perché, ci informa per coprirsi il didietro la US Army, non fece mai denunce per «molestie», sapendo bene che negli eserciti è spesso il querelante a rovinarsi la carriera, con la fama di "rompicoglioni".
La sua carriera avanzava. Tenente, capitano, poi maggiore, già un grado superiore, come avanzava la guerra fra la sua anima americana e quella palestinese, fra la sua nazione, gli Usa, e la sua natura, arabo-palestinese. Se fosse rimasto a occuparsi di vittime di catastrofi naturali, non avremmo mai conosciuto il suo nome. Ma nella Forze armate americane, dove le guerre senza fine in Iraq e Afghanistan stanno logorando nervi e cervelli anche dei più duri e sicuri, i suoi pazienti erano quei reduci che a decine di migliaia non sanno vivere con gli spettri di quello che hanno visto, che hanno fatto, che hanno subito.
«Ci raccontava degli orrori e degli incubi che i suoi soldati gli rovesciavano addosso», spiega ora la zia di Nidal, Noel Hasan. Parlava apertamente contro le due guerre, soprattutto quella più insensata, l´invasione dell´Iraq senza reali motivi, protestava con i colleghi, aveva votato e sperato in Obama per un ritiro rapido, cominciava ad affacciarsi ai siti internet dell´Islam radicale, sollevando l´attenzione delle autorità che lo sorvegliavano, ma senza agire. «Un soldato che si butta su una bomba a mano per salvare i compagni» gli sembrava paragonabile al kamikaze che si fa esplodere per difendere la propria gente, massacrando innocenti.
Quando gli fu detto che presto avrebbe dovuto raggiungere il Primo Cavalleria in Iraq, la sua anima, morta otto anni or sono, finì di decomporsi. «No, in Iraq no, meglio l´Afghanistan», implorava, ma con la Cavalleria non si negozia. Ora si dice che gridasse Allah akhbar mentre sparava sul mucchio a Fort Hood. «L´orrore, troppo orrore», aveva detto poco prima Nidal, l´uomo rimasto due volte senza identità, senza quella natale che non esiste, senza quella adottiva che lo aveva, nella sua testa, tradito. Se il suo Dio è davvero misericordioso, come lui crede, spegnerà anche il suo corpo, dopo avere lasciato uccidere la sua anima.


l’Unità 7.11.09
Intervista a Saeber Erekat
«Abu Mazen lascia per protesta
Israele vuole la nostra resa»
Il capo negoziatore dell’Anp: le nuove colonie in Cisgiordania rendono impossibile la nascita dello stato di Palestina, ne fanno un bantustan»
di Umberto De Giovannangeli

Così si affossa la pace
«Netanyahu non riconosce
nessuno dei nostri diritti
Le sue pregiudiziali
rendono impossibile riaprire
il tavolo del negoziato»
Chiacchiere e fatti
«Se Usa e Europa vogliono
che il nostro presidente
torni indietro, devono
fermare la colonizzazione
nei Territori»

La decisione del presidente Abbas è l’esatto opposto di una fuga dalle proprie responsabilità. Con la sua scelta, il presidente Abbas ha lanciato al mondo un grido d’allarme: Israele sta affossando ogni speranza di pace. Ed è inutile, ipocrita da parte della comunità internazionale lanciare appelli al dialogo e sostenere a parole la leadership di Abbas, quando nei fatti si è succubi, se non complici, della politica dei fatti compiuti perseguita da Israele».
A parlare è uno dei dirigenti più autorevoli in campo palestinese: Saeber Erekat, capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), il più stretto consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen).
Erekat è stato a fianco di Abu Mazen nella lunga notte che ha portato il rais palestinese ad annunciare di non volersi ricandidare alla presidenza dell’Anp nelle elezioni fissate per il 24 gennaio 2010.
Il mondo s’interroga sulla decisione di Abu Mazen. Lei che è stato vicino al rais nei momenti cruciali, può spiegarne le ragioni?
«Il presidente Abbas ha messo tutti di fronte ad una realtà drammatica, che in molti fingono di non vedere...».
E quale sarebbe questa realtà amara? «L’impotenza della comunità internazionale, le parole mai seguite da atti conseguenti. A parole tutti, dal presidente Obama ai leader europei, ribadiscono il loro sostegno ad un negoziato che porti ad un accordo globale fra Israele e Anp; tutti, a parole, premono su Israele perché ponga fine alla colonizzazione dei territori occupati. Tutti, a parole, si dicono sostenitori del principio “due popoli, due Stati”, A parole...».
E nei fatti?
«Nei fatti Israele continua ad avere mano libera nel portare avanti la politica dei fatti compiuti». Ma il premier israeliano, Benjamin Netanyahu ripete di essere pronto a riaprire da subito il tavolo negoziale.
«Netanyahu meriterebbe l’Oscar dell’ambiguità. Netanyahu ha imposto al presidente Abbas un diktat che lui spaccia per disponibilità, dichiarando che Gerusalemme unificata resterà l'eterna capitale di Israele, che la questione dei profughi (palestinesi) non sarà discussa, che il nostro Stato sarà smilitarizzato, che dovremo riconoscere lo Stato ebraico, che i confini (dello Stato palestinese) non saranno quelli del 1967 (antecedenti il conflitto arabo-israeliano e che lo spazio aereo palestinese resterà sotto il controllo di Israele". E questo sarebbe voler negoziare senza pregiudiziali?».
Lei è stato tra i protagonisti delle diverse fasi dei negoziato israelo-palestinesi. La conosciamo come un dirigente abile, prudente nelle sue esternazioni. Eppure, qualche giorno fa, una sua affermazione ha fatto il giro del mondo: “È forse giunta l’ora che il presidente Abbas dica la verità al suo popolo...”. Qual è questa verità?
«La verità è che con la continuazione delle attività israeliane di insediamento nella Cisgiordania occupata la soluzione di due Stati non è più un'opzione praticabile».
Ma quale alternativa resterebbe in campo?
«L’alternativa rimasta ai palestinesi è di riportare la loro attenzione alla soluzione di un solo Stato, in cui musulmani, cristiani ed ebrei possano vivere su basi di uguaglianza. Per noi questo e' molto serio. È il momento della verità. In passato abbiamo commesso un grave errore nel non legare la nostra disponibilità a negoziare con il blocco degli insediamenti da parte israeliana. Ora basta».
Ma Israele non prenderà mai in considerazione l’idea di uno Stato binazionale che metterebbe fine alla propria identità nazionale ebraica. «E allora dicano chiaramente che il loro intento è di realizzare un bantustan palestinese spacciandolo per Stato. E il mondo si esprima su questo. Vogliono l’apartheid in Palestina? E si pretende che il presidente Abbas avalli questo scempio?».
Gli Usa, le cancellerie europee, i leader arabi moderati chiedono al presidente Abbas di tornare sui suoi passi.
«C’è un unico modo per convincerlo: dimostrare con i fatti che si vuole imprimere una svolta in Medio Oriente, agendo su Israele perché ponga fine alla colonizzazione dei territori occupati. Il tempo delle chiacchiere è finito». Di fronte all’annuncio di Abu Mazen, le autorità israeliane si sono trincerate dietro “è un fatto interno ai palestinesi”.
«In questi anni, dal dopo Rabin, Israele ha di fatto operato per indebolire, delegittimare la controparte palestinese. Negoziare significa riconoscere i diritti dell’altro, significa rispettare la legalità internazionale. Significa abbandonare una logica militarista per cui la pace è la ratifica dei rapporti di forza imposti al nemico. Questa non è pace. È una resa. Che Abu Mazen non firmerà mai». ❖

l’Unità 7.11.09
Piantiamo la democrazia
Ben Jelloun: L’idea di Mediterraneo è un’opportunità per sradicare dittatura e totalitarismo
intervista di Maria Serena Palieri

sÈpalieri@unita.it natoaFessessantacinque anni fa ma da trentotto vive in Francia. Tahar Ben Jelloun di cui appare in queste settimane per le Edizioni del Leone l’antologia di versi Doppio esilio ha ricevuto ieri a Treviso il Premio Mediterraneo di Poesia. Un riconoscimento che, dalla «a» di Albania alla «t» di Turchia, seleziona l’opera di scrittori nati su tutte le sponde del «mare nostrum». Ecco il nostro colloquio con l’autore di romanzi come Creatura di sabbia, raccolte poetiche come Stelle velate, ma anche d’una saggistica su temi roventi, come razzismo e Islam.
Lei ha trascorso da giovane molti mesi in un campo di disciplina dell’Esercito. Ma, quando ha lasciato il Marocco, non fu per ragioni direttamente politiche. Quale significato dà, allora, per ciò che la concerne, alla parola «esilio»?
«È una forma di fuga; cerchi di salvarti la vita o almeno di viverla in condizioni umanamente accettabili. Nel 1971 in Marocco vigeva lo “stato di eccezione”: niente libertà, niente democrazia, lo Stato era uno Stato poliziesco e gli intellettuali sotto controllo, alcuni torturati e incarcerati. Quando ho avuto l’opportunità di abbandonarlo per la Francia non ho esitato. Fu una liberazione, soprattutto perché sapevo di cosa fossero capaci i militari, avendoli subiti per diciotto mesi».
Uno scrittore mediterraneo Tahar Ben Jelloun, in Italia per il Premio Mediterraneo Poesia e per il Med-Film
Lei è in Italia in questi giorni per il Premio Mediterraneo, presiede la giuria del Festival del cinema mediterraneo e poi sarà a Marsiglia per un incontro sulla cultura mediterranea. È un’enfasi, questa sulla cultura mediterranea, che produce frutti?
«Il Mediterraneo ormai è una specie di gadget per chi organizza eventi! Ma resta importante parlarne, celebrarlo, spiegarlo. Per me è una visione del mondo, un umanesimo particolare che dona virtù a uomini e donne. La poesia è per sua essenza mediterranea, perché parla del mare, del cielo, della solitudine dell’anima, della bellezza e del fato. Dice, di quest’entità, le contraddizioni. Bisogna fare del Mediterraneo un’opportunità per piantare la democrazia nei paesi mediterranei che ancora non la hanno. Il Mediterraneo deve essere allergico a dittatura e totalitarismo». Un suo connazionale, lo scrittore
Mohammed Bennis, ci diceva di recente che l’idea francese (sarkoziana) di «unione mediterranea» è neocolonialista. Concorda?
«Potrebbe essere una buona idea a condizione che non si compia con capi di Stato che si fanno “eleggere” col 90% dei voti! Così è un’unione impossibile, contronatura, non è neocoloniale, è irrealizzabile. Prima, bisogna bonificare la situazione in quei paesi dove gli oppositori vengono uccisi e si organizzano carnevalate elettorali. Bisogna rompere con quei paesi».
Il suo pamphlet «Il razzismo spiegato a mia figlia» è stato tradotto in 25 lingue, esperanto compreso. Vuol dire che il razzismo è un problema universale? E come può spiegarlo a un Paese, l’Italia, che il Ku Klux Kklan, notizia fresca, ha scelto come luogo ideale per la sua prima «filiale» all’estero?
«Il razzismo è universale. S’incolla alla pelle, che tu sia africano, asiatico, europeo, arabo, musulmano, ebreo, cattolico... E purtroppo non è una moda che passa, è vecchio come il mondo. Nessuna società al mondo è al riparo dalla deriva razzista. L’Italia ha dimenticato che i suoi stessi cittadini hanno subito il razzismo. Così oggi apre la porta all’intolleranza e confonde immigrazione e clandestinità. I politici hanno sempre sfruttato le paure dei cittadini per conquistare il potere. Succede in Italia come in Francia, come in Olanda. Sfruttare ignoranza e paura, mischiare religione e terrorismo, confondere rom e rumeni, ecco il regno dell’ignoranza e della stupidità. Se uno straniero commette un delitto, va giudicato come qualunque altro cittadino. Se non ha fatto niente, va rispettato. È inammissibile che si nutra un pregiudizio perché una persona è straniera o di un colore diverso. È un peccato che l’Italia si abbandoni a questa pericolosa deriva».
Nel 1987 lei è stato il primo scrittore non francese a vincere il premio Goncourt. Ora, per il secondo anno, esso va a un naturalizzato, Atiq Rahimi l’anno scorso, quest’anno a Marie Ndiaye. A proposito di integrazione culturale in Francia, il Goncourt registra un dato di
fatto oppure una speranza, un po’ come il Nobel per la Pace a Barack Obama? «Il Goncourt è il premio letterario più prestigioso, in Francia. Da quando sono membro dell’Accademia, cerco di farlo aprire ad altri orizzonti, agli scrittori che scrivono in francese ma non sono nati su questo suolo. Quest’anno però Marie Ndyaie si è imposta con la forza e la potenza della sua scrittura, come Atiq l’anno scorso. Difendiamo anzitutto la letteratura, quando è di qualità, l’origine etnica non è un criterio, sennò cadremmo nel razzismo. A volte bisogna guardar altrove e scoprire delle perle. È il caso di questi due ultimi Goncourt. La stampa americana ha titolato La Francia per la prima volta assegna il premio Goncourt a una donna nera!. Ecco, questa è aneddotica. Il suo libro in realtà da settembre sta ottenendo un successo magnifico».
Dopo la poesia, dopo il saggio, Tahar Ben Jelloun ci regalerà un altro romanzo? «Sì, io scrivo ogni giorno».●

l’Unità 7.11.09
Viaggio pulp nella biblioteca senza libri
Alla Nazionale Centrale di Roma ci sono la caffetteria, il bookshop, i computer per i cataloghi, le sale di lettura, i bagni, le mostre temporanee, un corridoio che pare una pista di atterraggio... Ma i volumi no, non si vedono
di Chiara Valerio

Io ho sempre avuto una grande passione per le cartoline. Da adolescente ne avevo più di seicento appiccicate una di fianco all’altra sulle pareti della mia camera. Ovviamente molte le avevo comprate io stessa. Se vi capita di aprire una volta il sito della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma o di Firenze o della Marciana di Venezia e
vi capita poi di consultare il sito della Biblioteca Nazionale di Francia o della British Library, vi accorgerete che se gli italiani amano le cartoline, i francesi e gli inglesi amano i libri. Quello che c’è scritto dentro. Mi piacerebbe pensare che questo non significhi per forza che in Italia trattiamo libri come illustrazioni. Come scatole ornamentali. Come oggetti che stanno in un posto dove c’è Palazzo Ducale, la cupola di Brunelleschi o un cielo blu dipinto di blu. In ogni modo. La Biblioteca Nazionale Centrale di Ro-
ma sembra un giocattolo. L’edificio principale è un parallelepipedo di vetri specchiati e mattoni rossi, forse alluminio. Dietro c’è un altro parallelepipedo, bianco, e a sinistra dell’edificio principale, un anfiteatro, probabilmente di cemento. Tutto è megalitico. Il complesso sta acquattato in mezzo a pezze di verde molto più disordinate di una aiuola e quindi molto più accoglienti. Io spesso, in estate mi ci stendo a leggere. Anche se poi l’umido mi perfora le ossa del collo. E d’autunno un poco ci cammino, tra una foglia caduta e un’altra, giocando alle prime righe de I Peccatori di Peyton Place. Che più o meno suonano L’estate indiana è come una donna appassionata e incostante, che va e viene a suo piacimento in modo che non si è mai sicuri se arriverà a tutti, né per quanto tempo rimarrà. Un po’ è che io ho sempre bisogno di impalcature narrative per rendere reali i luoghi, un po’ è che quando frequenti la Nazionale di Roma, sai benissimo che puoi accedere più facilmente ai libri se li sai a memoria. Comunque. Una biblioteca si presenta anche dal suo guardaroba. Perché all’entrata, a meno che tu non sia uscito di casa con i pantaloni, una giacca e una penna, cosa che qualche volta capita, al guardaroba devi passare. D’inverno è più difficile. Non so, per esempio hai un cappotto pesante, o uno zaino con un cappello e qualche foglio in fotocopia. O un paio di blocchi di appunti. Da quando la Nazionale di Roma è stata ristrutturata, o rimodernata, o ripensata, riqualcosa insomma, il settore guardaroba sembra la parete esterna di una nave da crociera. La sigla anni ottanta di Love Boat, ma senza musica. Sportellini piccoli e grandi tutti con un oblò ovale. Forse perché chi non si ricorda il numero, si ricorda come era vestito o cosa si era portato dietro. Forse perché, come per i secchi della spazzatura, le trasparenze scoraggiano l’attacco bombe. Come se qualcuno potesse decidere di far saltare l’edificio delle sale di lettura della biblioteca. E non i libri. E se la mia questione vi pare oziosa, dovete andare a farci un giro. Perché nell’edificio principale della Nazionale di Roma, ci sono la caffetteria, il bookshop, le sale di lettura, i computer per i cataloghi online, i cataloghi cartacei, un corridoio che pare una pista di atterraggio, vetrate che paiono serre, un linoleum lucidissimo, i bagni, le mostre temporanee, ma i libri no. Giuro. Ci sono scaffali laschi e quasi smarriti in mezzo alle sale delle scienze o della letteratura e linguistica. Il grosso delle collezioni è nel palazzo bianco e altissimo che se uscite fuori per una boccata d’aria o una di fumo, incombe alle spalle dell’edificio dal quale siete appena riemersi. Quando entro alla Biblioteca Nazionale Centrale mi sento in una fabbrica di caramelle, negli antibagni americani di film sempre americani sugli stadi di baseball, oppure in una gigantesca sala d’aspetto per un viaggio spaziale. E questo perché non ho accesso alla complessa rete di rulli che portano i libri dai magazzini ai lettori, che somiglieranno di certo a una asettica ma capillare biblioteca di Alessandria. Da questo punto di vista la Biblioteca Nazionale Centrale sembrerebbe Nightmare before Christmas (tra l’altro stesse iniziali, anche se riarrangiate), quando Jack cerca di sostituirsi a Babbo Natale e vien fuori l’orrore. Un orrore molto ordinato. Tornelli, cartellonistica che incombe sulla testa a ricordarti dove girare, la caffetteria in agguato sulla destra appena passate le porte a vetri riquadrati bianchi e soprattutto le strutture fisse ma pop-up che azzurrissime ti vengono incontro mentre cerchi di capire solo e sempre dove si consultano i cataloghi. D’altronde sei lì per cercare un libro. Ma mi raccomando non cercarne più di tre alla volta. Un po’ mi distraggo sempre, un po’ ci si distrae quando intorno ti occhieggia qualsiasi cosa che maschera la funzione dell’edificio nel quale stai camminando almeno da quattro minuti senza vedere un volume, anche pubblicitario. Tranne quelli nell’acquario sulla sinistra, prima delle porte a vetri. Ma sono davvero libri o è una istallazione? Che so, la versione tridimensionale di Nighthawk di Hopper? La prima volta che sono entrata alla Nazionale di Roma era il millenovecentonovantacinque, avevo diciassette anni e menomale che mia madre aveva insistito per accompagnarmi. Perché altrimenti, al di qua della fantomatica soglia dei diciotto anni, non sarei potuta entrare. Neanche oggi potrei, se avessi diciassette anni. Sono ancora così umiliata per quel rifiuto che non mi ricordo nemmeno che libri ero andata a consultare ma solo mia madre che entra e esce dalle porte a vetri brandendo la patente tutta rosa come se tenesse lontano il male e vantandosi dei cassettini di ferro a scorrimento del catalogo cartaceo. Perché nel millenovecentonovantacinque e oggi i minorenni non possano entrare e leggere è una domanda che ancora mi gira in testa e la risposta migliore, e anche complottista e Potere Operaio, mi è sempre sembrata che questa impossibilità fosse un cascame dell’indice dei libri proibiti. In fondo se invece di proibire la lettura di certi libri proibisci i libri a certe fasce d’età, è quasi lo stesso. È un controllo, che oggi è solo di insopportabile natura economica, sull’accesso alla cultura.
ACCESSO ALLO STUDIO?
Comunque, io a Potere Operaio non mi sarei iscritta, la lotta deve essere democratica e i libri sono la cosa più democratica del mondo. Quando riesci a prenderli in mano e a leggerli. Faccenda che alla Nazionale di Roma non è sempre scontata. L’accesso ai libri non è easy quanto il restilyng, gli orari di richiesta sono stitici, il numero di volumi consultabili è irrisorio, la sera dopo le sette e mezza la biblioteca è chiusa. Se le strutture sono amichevoli e le uniche barriere abbattute sono quelle architettoniche allora siamo ancora alla sola forma. Non voglio la forma su un bisogno essenziale come l’accesso allo studio. Io so che un’altra soluzione è possibile. Perché ci ho camminato dentro. La biblioteca centrale dell’università di Cambridge è un edificio che somiglia alla Tate Modern, e infatti è dello stesso architetto, Sir Giles Gilbert Scott. Quando apro wikipedia per guardare in faccia Sir Giles leggo che ha anche disegnato le cabine del telefono rosse. Sir Giles è la Gran Bretagna quasi quanto Elisabetta II. La facciata della biblioteca è il logo che sta su ogni tessera di ingresso. Mattoni rossi e vetro, una porta girevole con le finiture di ottone. Sei piani per due corpi, nord e sud, cinque piani per due ali, est e ovest, una stanza dei libri rari, sale di lettura, otto milioni di libri. Otto milioni di libri tutti ad accesso libero, senza limitazioni di numero di volumi da poter tenere sul proprio tavolo. A questo pensavo. Che alla Nazionale di Roma di milioni di libri ce ne sono solo sei.●

Repubblica 7.11.09
Negli ultimi anni il maestro compie una rivoluzione testimoniata da una straordinaria mostra al Grand Palais
Le Bagnanti dipinte con il pennello legato alla mano

PARIGI. La straordinaria mostra su Renoir nel XX secolo s´è inaugurata al Grand Palais di Parigi (ove rimarrà fino al 4 gennaio 2010; andrà poi a Los Angeles e a Filadelfia); ampia per quanto attiene l´opera tarda di Renoir, essa documenta anche gli esiti delle sue influenze esercitate sulla generazione successiva, presentando opere del Picasso mediterraneo e post-cubista, del Matisse orientaleggiante d´anni Venti, di Maillol, di Bonnard.
Muove dagli ultimi anni dell´Ottocento, la mostra: un decennio che vedrà Renoir dedito a numerosissimi viaggi di studio, tra l´altro in Italia, a Madrid, poi a Londra, a Dresda, ad Amsterdam. Già un viaggio precedente, sempre in Italia, a Roma e Pompei in particolare, l´aveva fatto dubitare dei passi compiuti nel settimo e nell´ottavo decennio, a fianco della nuova pittura impressionista. Raffaello, allora, aveva risvegliato in lui la lezione di Ingres: così che, tornato in Francia, Renoir aveva scambiato la luce trasparente e mutevole, filtrata attraverso le chiome degli alberi, della Altalena e del Ballo al Moulin de la Galette con quella immobile e eterna delle Grandi bagnanti, il dipinto che egli aveva impiegato tre anni a licenziare, terminandolo solo nel 1887. Stava per compiere, allora, cinquant´anni, Renoir. E può dirsi che, passati pochi anni ancora, cominci da lì la sua età tarda: che durerà fino al 1919, l´anno della morte. Sarà gravida di capolavori e rimetterà questo pittore così alieno da ogni atteggiamento e pensiero d´avanguardia nel cuore dell´età moderna, in un momento in cui essa, consumati all´inizio del secolo nuovo i passi più arrischiati, avvertiva - dopo i disastri della Grande Guerra - il bisogno d´una pausa, e di un ritorno alle radici classiche dell´arte occidentale.
Questa tarda età di Renoir non era mai stata oggetto di un´indagine particolare: del che s´incarica la mostra del Grand Palais. Che s´inizia con le Giovanette al pianoforte del ‘92: un dipinto che, tramato com´è attorno allo sguardo intento che le due giovani posano sullo spartito, e sul silenzioso legame sentimentale che le stringe l´un l´altra, sembrerebbe appartenere ancora al Renoir dei decenni trascorsi. Ma l´interno in cui esse sono ritratte rinuncia a narrarsi con l´attenzione che un tempo Renoir aveva destinato ai suoi ambienti borghesi; e sveltamente egli ritrae un vaso di fiori sul pianoforte, riassumendo poi l´ampio tendaggio che chiude lo sguardo alle spalle delle fanciulle solo con un gran soffio di morbido colore. La medesima sintesi del visibile, la stessa concentrazione sul dialogo muto che intessono i protagonisti è nei dipinti immediatamente successivi: prefigurando il modo ancor più drastico che verrà, in cui i verdi e i rosa ovattati del fondo si fondono come una lava, non descrivono più nulla, e solo ribaltano sul primo piano la figura che il poco spazio contiene ormai a stento.
Così avviene nelle molte, splendide Bagnanti che Renoir immagina a partire dal 1903. La salute, ormai, è seriamente compromessa dalla malattia (un´artrite reumatoide che lo spingerà a trascorrere sempre più tempo nel clima caldo del Sud). Cammina ormai a stento, con l´aiuto del bastone; le sue dita cominciano a ripiegarsi su sé stesse, contratte in quello spasmo che lo costringerà a farsi legare il pennello alla mano, per dipingere; inventa un sistema di carrucole collegate al cavalletto che gli consentono di governare tele di grande dimensione pur immobilizzato com´è sulla sedia a rotelle. Eppure, nella pittura, trova insospettati momenti di benessere, e fin di allegrezza: quando, scelto con un´occhiata il pennello, volgeva lo sguardo sul paesaggio, o più spesso sulla modella e, a dispetto delle atroci sofferenze, «dipingendo si metteva a canticchiare», secondo quanto ricorderà Jean Renoir. Vanno a rendergli omaggio molti dei padri della nuova pittura: su tutti Matisse, che vede a più riprese gli ultimi quadri del vecchio pittore, «dipinti sempre più stupefacenti», fino a che la «facilità» con cui sono affrontati non lo conduce a comporre, nelle Bagnanti del 1918-´19, «i nudi più meravigliosi che siano mai stati dipinti».
Le "Bagnanti" ultime sono il termine estremo d´un processo avviato vent´anni prima. Da allora Tiziano e Rubens,, ma anche Velàzquez e Goya, avevano sostituito, per Renoir, la grazia del Settecento francese, di Boucher e Fragonard; da allora l´antico, e il museo, sono stati per lui non più canone e norma, ma dismisura e trasgressione. E la donna si farà trionfo di carne, immensa e quasi senz´ossa, «fantasma regressivo della donna tellurica archetipale», è stato detto con malevolenza. Certo «eccessiva», questa donna (come eccessive saranno le donne di Picasso dei primi anni Venti, che tanto devono a quelle di Renoir), essa pur tuttavia nasce da pensieri colmi di una seduzione che è insieme atemporale e flagrante, datata all´inizio del secolo: dalle Bagnanti di Vienna e di Filadelfia, almeno, due dei più straordinari dipinti in mostra, ove il nudo femminile occupa tutta la superficie, eludendo il fondo inessenziale - carne da toccare, veramente, come è stato scritto - mentre la fanciulla, svelata ormai d´ogni pudore, guarda intensa, gli occhi semichiusi e come intorpiditi, il pittore che la ritrae.

Corriere della Sera 7.11.09
Nizza con Matisse
Qui i pittori scoprirono il «cielo perfetto» Un giro in tram tra le opere d’avanguardia
di Stefano Montefiori

Nizza d’inverno, come Matisse. Il principe dei «Fauves» arrivò per la prima volta il giorno di Natale del 1917. La città del sole tutto l’anno gli riservò un’accoglienza d’ecce­zione, una tempesta di vento e pioggia talmente violenta che l’arti­sta fu tentato di lasciare subito la stanza sul mare presa all’allora mo­desto Hotel du Beau Rivage. Il tem­po di salutare Auguste Renoir, nel­la vicina Cagnes-sur-Mer, e il gior­no dopo il cielo era di nuovo blu brillante. «Quando ho capito che ogni mattina avrei rivisto quella lu­ce, non riuscivo a capacitarmi del­la mia fortuna». Matisse sarebbe ri­masto a Nizza fino alla morte, il 3 novembre del 1954.

Da pochi giorni, e fino al 18 gen­naio, al Musée Matisse sulla colli­na di Cimiez viene esposta la colle­zione di immagini sull’artista scat­tate da grandi fotografi dell’epoca (da Hélène Adant al cineasta Frie­drich Wilhelm Murnau all’agenzia URoger-Viollet): la capitale della Co­sta Azzurra celebra il più amato tra i tanti suoi figli adottivi.

Un viaggio a Nizza d’inverno può cambiare la vita, come accad­de a Matisse, o almeno divertire. La quinta città di Francia sta viven­do una fase di rinascita, simile a quella che qualche anno fa ha toc­cato la Marsiglia di Zidane: impan­tanata per decenni nell’immobili­smo e nell’affarismo della dinastia dei Médecin (il sindaco Jacques Médecin fuggì in Uruguay dopo 37 anni di scandali e imbarazzanti di­chiarazioni di sostegno a Le Pen e al Sudafrica dell’apartheid), oggi Nizza sta ringiovanendo. Accanto alle statue di Giuseppe Garibaldi, che qui è nato nel 1807, ecco final­mente la nuova gloria del premio Nobel per la letteratura Jean-Marie Le Clézio. Metà dei 350 mila nizzar­di hanno meno di 40 anni, quasi 30 mila ragazzi studiano nel vicino polo universitario di Sophia Antipolis, la cri­minalità (che ancora affligge la periferia Nord) è in calo e il sin­daco nizzardo Chri­stian Estrosi, ex cam­pione di motocicli­smo, cerca di fare del­lo stretto legame con il presidente Sarkozy una leva per lo sviluppo urbano della città: una «Grande Nizza città verde del Me­diterraneo » sul modello della «Grande Parigi», con un tram che taglia in modo spettacolare la zona pedonale di Place Massena (presto arriverà una seconda linea), 900 bi­ciclette a disposizione dei cittadini come a Parigi (e a Milano), e il pro­getto di un Tgv che unirà la spiag­gia a Parigi in quattro ore.

Un itinerario nella Nizza di Ma­tisse, che unisca l’epoca d’oro della città con il dinamismo di questi an­ni, può partire dall’Hotel du Beau Rivage prima dimora dell’artista, da poco completamente rinnovato da Jean-Michel Wilmotte, per pro­seguire fino all’estremità dell’affol­lato Cours Saleya, nel cuore del Vieux Nice dei ristoranti e del mer­cato di fiori, frutta e verdura. Qui, al numero 1 di Place Charles Felix, al terzo e quarto piano dello splen­dido palazzo ocra chiamato Caïs de Pierlas, Matisse ha abitato dal 1921 al 1938 e creato tra gli altri «Il violinista alla finestra», «Tempesta a Nizza», «La siesta», «Odalisca con cofanetto rosso»; eppure non c’è neppure una targa commemo­rativa. La vista su Quai des Eta­ts- Unis e sulla Promenade des An­glais è fantastica, e i più coraggiosi potrebbero chiedere una sbirciata agli inquilini (sperando nella buo­na sorte, perché non tutti sono pro­dighi di gentilezze). Proseguendo verso il porto, al numero 50 del boulevard Franck Pilatte c’è il Club Nautico da dove ogni pomeriggio Matisse partiva per fare canottag­gio.

Tra le decine di gallerie d’arte, da non perdere l’Atelier Soardi, al numero 8 di rue Désiré Niel. Qui nel 1930 Matisse stabilì il suo stu­dio, dove per tre anni lavorò alla monumentale «Danza» commissio­natagli dal collezionista americano Albert C. Barnes. E qui espongono oggi gli emergenti del collettivo South Art: giovedì 19 novembre vernissage di «Hypothétiques», di­segni di sei artisti in mostra fino al 16 gennaio.

Unità 07.11.09
Stefano Cucchi
E così inciderete una targa per dare il suo nome a un vicolo sperduto della Capitale. Poi la toglierete. Ne parlerete ancora l'anno prossimo, quando ricorrerà l'anniversario della sua morte. Poi lo dimenticherete. Peserà sulle vostre coscienze per un po'. Poi scomparirà, leggero come una piuma, come il suo corpo martoriato. Di lui rimarranno soltanto le lacrime di chi gli ha voluto bene, macigni salati sui vostri inconsci anaffettivi.
Paolo Izzo

venerdì 6 novembre 2009

l’Unità 6.11.09
I numeri della follia carceraria
di Luigi Manconi

Degli imputati che lasciano il carcere la metà vi è rimasta non più di dieci giorni. Una detenzione inutile che tuttavia contribuisce al sovraffolamento

Molte possono essere le concezioni della pena – anche anticipata e in attesa di giudizio – che si possono coltivare (alcune condivisibili, altre meno, altre ancora ripugnanti): ma, tutte, hanno, o si presume che abbiano, un loro senso, una loro razionalità, una qualche forma di rapporto tra mezzi da adottare (tipo di sanzioni) e fini da perseguire (scopo delle sanzioni). E se, invece, scoprissimo che ciò che manca all’esecuzione della pena, in Italia, è esattamente un qualunque senso? Proprio uno straccio di significato, pure il più miserevole e sdrucito. I dati che qui presento, elaborati sulla base delle statistiche e di alcuni studi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sembrano dirlo in maniera inequivocabile e definitiva. Questo carcere è né più né meno che una follia. Nel periodo considerato, 2002-2007 la percentuale di soggetti imputati, che vengono reclusi, per non più di dieci giorni, rappresenta oltre la metà di tutti coloro che passano attraverso il carcere nel corso di dodici mesi. Ed è assai significativo che il dato rimanga costante negli anni e che un evento importante come l’Indulto lo lasci inalterato.
Avete letto bene: oltre la metà degli imputati che lasciano il carcere vi sono rimasti non più di dieci giorni; e circa il 35% esce dopo 48 ore. Serve altro per proclamare il fallimento totale e incondizionato dell’Istituto della pena detentiva, specie quando è anticipata, nel nostro sistema di giustizia? È sufficiente riflettere un po’: 48 o 240 ore di permanenza in carcere, a quale finalità rispondono? Non alla finalità più tetra e regressiva (la pena come vendetta) perché si tratta, a ben vedere, di una “vendetta” sostanzialmente assai lieve: appena 2 giorni o 3, 4, 5, 6... di reclusione. E non risponde nemmeno alla concezione della pena come retribuzione: in primo luogo perché la gran parte di quei soggetti è ancora in attesa di giudizio e poi perché quelle ore e quei giorni non corrispondono ad alcuna misura di equità rispetto al reato di cui si è imputati. Non all’idea della pena come salvaguardia sociale, dal momento che la tutela della sicurezza affidata a una reclusione tanto breve risulta semplicemente priva di qualunque efficacia anche solo deterrente e intimidatoria. Per non parlare, poi, della funzione “rieducativa” della pena: in due o dieci giorni si fa giusto in tempo ad apprendere qualche rudimento del vocabolario carcerario e qualche modalità di rapporto con i compagni di cella e con i superiori. Tanto meno, quella reclusione breve, potrà svolgere un ruolo “espiativo”: in qui pochi giorni si potrà, a mala pena, scrivere ai familiari e all’avvocato, difendere la propria incolumità, attrezzarsi nell’evenienza che la reclusione si protragga. Dunque, si torna al punto di partenza: all’assoluta inutilità di quella detenzione, alla sua totale mancanza di senso, alla sua inefficacia rispetto a un qualsivoglia fine si attribuisca a quella cella chiusa a chiave.
All’opposto, da tale insensatezza, discende un effetto abnorme. Ed è il sabotaggio del sistema penitenziario. Un sabotaggio diretto e rovinoso, esplicito e irreparabile, che avvicina il collasso del sistema stesso. Perché quella reclusione, breve, brevissima un risultato, certo, lo produce: ovvero l’intasamento, il sovraffollamento, il blocco. Cioè la disfunzione cieca e ottusa e totale. Con l’intento di perseguire una pulsione punitiva e penalizzante, con la volontà di sanzionare pesantemente comportamenti devianti e irregolari e, tuttavia, incapaci di suscitare allarme sociale, con la tendenza alla carcerizzazione di stati di marginalità, debolezza, e miseria (immigrati, tossicomani, poveri, senzacasa, malati di mente...) si arriva fatalmente a ricorrere al carcere – magari per periodi irrisori – pur di affermare, prima sul piano ideologico che su quello sociale, un principio d’ordine e un esercizio di autorità.
Le conseguenze sono nefaste: si pensi solo a quale gigantesca dissipazione di energie, di risorse umane ed economiche, comporti un simile turnover. Si pensi a quale defaticante stress si induca negli operatori del sistema penitenziario, negli agenti come negli psicologi, negli educatori come nel personale amministrativo, costringendo un’intera macchina a farsi carico, affannosamente e sbrigativamente, di una popolazione di migliaia di persone che entrano, soggiornano per qualche tempo, vengono dimessi, e tutto ciò senza che nessuno sia in grado di trovare, in questo flusso ininterrotto e cieco, alcuna razionalità. Se non l’idea, forse più ottusa che barbarica, che un simile carcere possa funzionare come modello di controllo sociale e forma della giustizia. ❖

l’Unità 6.11.09
Nomine Ue Pressing di Berlusconi per D’Alema
Il premier in campo per l’ex ministro degli Esteri. Berlusconi avrebbe chiamato anche la cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Sarkozy per spingere la candidatura D’Alema a capo della diplomazia europea.
di Marco Mongiello

Il presidente del Consiglio avrebbe contattato le più importanti cancellerie
La Polonia evoca il «passato comunista» dell’ex ministro degli Esteri

Si accende la partita per l'assegnazione delle cariche europee combattuta a colpi di consultazioni e insinuazioni.
In questi giorni, secondo fonti della maggioranza, Berlusconi avrebbe contattato le principali cancellerie del Continente per promuovere la candidatura di Massimo D'Alema a futuro Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell'Ue. Una candidatura che, ha ripetuto il ministro Frattini, «sosterremo con convinzione».
IL NODO INGLESE
Le possibilità dell'Italia sembrano sempre più concrete man mano che aumentano le prese di distanza del super favorito, l'attuale capo della diplomazia britannica David Miliband. Lui ha continuato a ripetere di essere «non disponibile» ad andare a Bruxelles e il suo Governo continua a promuovere un improbabile Tony Blair alla carica di Presidente del Consiglio Ue, l'altra poltrona in gioco. Su Londra pesano anche le dichiarazioni euroscettiche del leader conservatore e probabile futuro premier David Cameron, che ha promesso: «Mai più trasferimenti di sovranità a Bruxelles». I bookmaker inglesi, che prima scommettevano su Miliband, ora lo danno a pari possibilità con D'Alema.
Al momento non è certa neanche la disponibilità dell'altro super favorito, il premier belga Herman Van Rompuy, che Sarkozy e Merkel vorrebbero fare presidente, ma che i belgi vorrebbero tenere a fare da mediatore tra valloni e fiamminghi.
In questo clima di fibrillazione qualcuno tra i Paesi dell'Est Europa si gioca le proprie carte, rivendicando uno dei due posti per i nuovi Stati membri dell'Ue.
D'Alema è «stato menzionato più volte in passato come qualcuno di affidabile e autorevole», ha detto l'ambasciatore polacco presso l'Ue Jan Tombinski, ma il suo passato comunista «sarebbe un problema» e «sarebbe meglio ci fosse una persona la cui autorità non fosse contesta-
bile per le sue passate affiliazioni». La Polonia, si è affrettato a chiarire il portavoce della rappresentanza polacca Kacper Chmielewski, «non si oppone ad alcuna candidatura», Più esplicito il presidente polacco dell'Europarlamento, Jerzy Buzek, che ha chiesto un «equilibrio geografico» nelle nomine, che secondo lui «al momento non riflettono la realtà di un'Unione europea a 27». Il comunismo non c'entra, ha spiegato all'Unità l'eurodeputato romeno Adrian Severin. Ex ministro degli Esteri socialista e membro della commissione Affari esteri dell'Europarlamento, Severin è tra nomi inseriti nella lista dei possibili capi della diplomazia Ue stilata dal Pse. «Contano i meriti e non qualche pregiudizio ideologico», ha detto, e «in ogni caso l'ultima parola spetta al Parlamento europeo che dovrà approvare le nomine dei commissari, inclusa di quello dell'Alto rappresentante che è anche vicepresidente della Commissione». Secondo lui le voci che danno Miliband in testa «ignorano i fatti oggettivi: lui non è disponibile, il Governo non lo promuove e, secondo i sondaggi, il 48% dei britannici sarebbero contrari». Secondo il vicepresidente del Parlamento Ue, Gianni Pittella (Pd), quello del comunismo «è un argomento ridicolo».
D'Alema è gradito alla maggioranza dell'Europarlamento: è stato anche eurodeputato, ha spiegato, e «con la missione in Libano ha dato prova di europeismo. Con Miliband, non si avrebbe la certezza di avere un filoeuropeo».
LE TAPPE
Chiunque sarà scelto il 4 dicembre dovrà passare l'audizione della commissione Affari esteri dell'Assemblea di Strasburgo, che oggi è presieduta dall'ex sindaco di Milano Gabriele Albertini (Pdl). «Io come italiano sarei entusiasta di avere un connazionale in questa posizione di altissimo profilo.❖

Repubblica 6.11.09
La responsabilità del potere
di Ezio Mauro

Per le vie tortuose che ritiene evidentemente più comode, in forma obliqua e non diretta, senza mai citare un fatto concreto e incontestabile, il presidente del Consiglio dopo sei mesi ha finalmente deciso di rispondere alle dieci domande che Repubblica gli rivolge dal 14 maggio, rilanciate dai giornali di tutto il mondo.
È positivo che un leader di governo senta infine la responsabilità di rendere conto all´opinione pubblica, o almeno a quella parte di opinione che lo interroga. Anche se questo avviene con un ritardo politicamente di grande significato, dopo insulti rivolti ai cronisti del nostro giornale che gli ponevano in pubblico le domande, dopo l´invito alle aziende a non fare pubblicità sui giornali "catastrofisti", dopo l´appello agli imprenditori perché boicottassero Repubblica, dopo l´accusa esplicita di eversione, dopo la decisione di citare le dieci domande per un milione di euro di danni, portandole in tribunale perché un giudice le facesse tacere. Questa strategia del Premier, accompagnata dai violenti attacchi personali – a colpi di dossier – della stampa di famiglia a chiunque criticasse il suo operato, non ha evidentemente pagato. Le dieci domande sono rimaste al loro posto per il semplice motivo giornalistico per cui erano nate, e cioè per chiedere conto di contraddizioni e bugie sugli scandali che da sei mesi circondano il Capo del governo, dopo la denuncia del "ciarpame politico" da parte della first lady: lo scambio di favori di giovani ragazze in cambio di candidature politiche.
Molto semplicemente, avevamo chiesto al Premier di cancellare quei dubbi, rispondendo alle domande con un´intervista. Dopo i quattro giorni di attesa concordati, non avendo ricevuto una risposta, abbiamo pubblicato le domande. Da allora, le abbiamo ripresentate ogni giorno per la buona ragione che non c´era stata alcuna risposta. Il bisogno di capire, il diritto di sapere, ci hanno autorizzati ad andare avanti, nella convinzione che là dove si aprono spazi di opacità e di menzogna nel potere pubblico, si apre anche uno spazio che noi consideriamo naturale e obbligatorio per il giornalismo.
Questa indagine giornalistica permanente ha provocato molte reazioni in Italia. I lettori hanno risposto con grandissimo interesse, prendendo parte in ogni modo come cittadini a questa richiesta di rendiconto del potere. Alcuni giornali ci hanno spiegato invece che non si fa così, in Italia non usa: e si vede. Più significative due accuse – tra le tante – che in questi mesi sono state lanciate contro Repubblica. La prima sostiene che la critica di un giornale ad un leader è un atto contro la sovranità popolare, contro l´unione in un solo corpo mistico tra il Capo e il suo popolo, intangibile e insindacabile: basta rispondere che nei Paesi democratici il potere è sottoposto ogni giorno al giudizio della stampa e della pubblica opinione, e il voto non è un salvacondotto, anche perché nella nostra Costituzione la sovranità appartiene al popolo, non "emana" dal popolo verso il leader. Ma questa prima accusa prepara la seconda: l´antipatriottismo, l´azione anti-nazionale di chi criticando il potere indebolisce la sacra unzione che consacra l´unione carismatica tra leader e popolo nel destino della nazione.
È ovvio che chi critica il legittimo potere – di fronte a ciò che ritiene un errore, una menzogna, un abuso – ama il suo Paese almeno quanto chi detiene quel potere, o chi sta a guardare: lo ama attraverso la democrazia, la Costituzione, il rispetto delle istituzioni, della regola civica dei diritti e dei doveri che deve valere per tutti, governanti e cittadini. In più, il proprio Paese si serve quando ognuno realizza in libertà e coscienza il proprio compito svolgendo il proprio ruolo. E le democrazie contemplano e annoverano i casi molteplici in cui – nello svolgere ognuno le sue libere funzioni– stampa e potere giungono ad un confronto anche duro, che spesso diventa conflitto. Con una differenza: negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna le inchieste e le campagne sul potere di giornali che nessuno si è sognato di definire «nemici» o «fabbriche di odio» non sono mai state tacciate di antipatriottismo né di violazione della volontà popolare. Nemmeno quando i leader messi sotto accusa erano eletti dal popolo davvero.
La realtà e la verità sanno comunque farsi strada, in questo falso rumore italiano di comodo. Lo scandalo berlusconiano ha posto prima una questione di verità, con le bugie non spiegate, poi una questione di libertà, con gli attacchi ai giornali. La reazione violenta ha fatto vittime. Il direttore di Avvenire ha perso il posto e il lavoro dopo aver criticato il Premier perché un giornale di famiglia ha pubblicato un foglio anonimo scritto nel linguaggio dei servizi che lo tacciava di omosessualità. Il presidente della Camera, per le sue opinioni costituzionali e dunque non ortodosse è stato ammonito a mettersi in riga, pena il ricorso a presunte vecchie dicerie a sfondo sessuale: si è cioè cercato di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato. Il giudice Mesiano, colpevole di aver pronunciato una sentenza civile non favorevole a Fininvest nella causa con la Cir in seguito all´accertata corruzione che ha deviato fraudolentemente il corso imprenditoriale della Mondadori, è stato pestato mediaticamente, con l´arma del dileggio, sulle televisioni di proprietà del Premier.
È un panorama impressionante, sullo sfondo delle 10 domande. Lo ha disegnato il Capo del governo, pur di non rispondere, pur di non chiarire, pur di non assumersi una responsabilità. Come se una grande democrazia, in mezzo all´Europa e al 2009, si potesse governare a colpi di dossier, di intimidazioni, di minacce, seminando la paura al posto dell´autorevolezza, usando i telegiornali sotto dominio per occultare e re-inventare la realtà, i giornali per colpire non le idee avverse, ma gli avversari fisicamente, togliendoli di mezzo, se possibile rovistando nei loro letti.
Di fronte a questo quadro italiano, i giornali di ogni Paese (di altri Paesi) hanno usato lo stesso canone di Repubblica, con il medesimo allarme, uguali interrogativi e giudizi assai simili. Si sono mossi intellettuali, giuristi, migliaia di cittadini. Roberto Saviano ha spiegato che «la libertà di stampa significa anche libertà di non avere la vita distrutta, senza un clima di minaccia, senza avere contro non un´opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime». Gustavo Zagrebelsky, Franco Cordero e Stefano Rodotà hanno raccolto mezzo milione di firme denunciando l´"intimidazione" contro chi esercita il diritto dovere di informare. Il direttore del Guardian ha scritto che Repubblica ha «tutti i diritti del mondo» di fare le sue 10 domande. La Nieman Foundation per il giornalismo e la Kennedy School di Harvard hanno spiegato che «il governo deve essere responsabile nei confronti dei cittadini e il ruolo della stampa è pretendere questa responsabilità».
La ragione delle dieci domande, per tutti questi mesi, sta infatti proprio qui: la responsabilità del potere davanti alla pubblica opinione. Ed è la stessa ragione che infine ha sopravanzato - per ora - gli insulti e i dossier, le querele e gli attacchi, costringendo il Premier a rispondere. Lo ha fatto in forma obliqua, evitando il confronto con Repubblica, in forma ambigua, facendosi riformulare le domande dal suo intervistatore-notaio, in un libro edito dalla casa editrice di sua proprietà. Un´operazione politica controllata e protetta, dunque. Dove l´interesse del Premier non è la verità da chiarire, ma la pressione dei giornali da allentare.
Il risultato, come i lettori possono constatare, è una prudentissima navigazione al largo delle vere questioni, senza fatti, senza veri chiarimenti, senza circostanze che possano spiegare la verità ai cittadini. È come la denuncia – tutta politica, esplicita, certificata dal suo notaio, che ieri ha annunciato alle agenzie "la risposta alle dieci domande di Repubblica"– di un limite. Dobbiamo prendere atto di ciò che il Premier ha fatto, e anche del modo in cui ha voluto e potuto farlo: ha dovuto infine rispondere, dopo sei mesi, dimostrando che le domande erano legittime e doverose, com´era doveroso affrontarle, tanto che il ritardo nei confronti dei nostri lettori è politicamente colpevole. E ha risposto nell´unico modo imbarazzato, generico e circospetto che può oggi permettersi. La vera risposta – ecco il punto – è la coscienza politica di questo limite, che mentre il Premier replica, lascia la questione fondamentale della verità intatta, e irrisolta. Questo è un problema aperto non con Repubblica, ma con il Paese, insieme con un´ultima inevitabile domanda: signor Presidente, qual è la ragione che su queste vicende le impedisce di dire davvero la verità ai suoi concittadini? Come se fossimo in un Paese normale, noi continueremo a chiederlo, finché lo capiremo.

Repubblica 6.11.09
Ma ora è sfiorita la rosa d´Europa
di Timothy Garton Ash

Il 1989 è stato l´anno più importante nella storia del mondo dal 1945 in poi. In ambito politico internazionale ha portato un cambiamento totale: ha segnato la fine del comunismo in Europa, dell´Unione Sovietica, della guerra fredda e del breve ventesimo secolo. Ha aperto la strada all´unificazione tedesca, a una estensione senza precedenti dell´Unione Europea, da Lisbona a Tallin, all´allargamento della Nato, a due decenni di supremazia americana, alla globalizzazione e all´ascesa dell´Asia. L´unica cosa che non ha cambiato è la natura umana.
Nel 1989 gli europei proposero un nuovo modello di rivoluzione non violenta, la rivoluzione di velluto, in contrapposizione all´esempio violento del 1789, che per due secoli ha rappresentato il concetto comune di "rivoluzione".
Al posto dei giacobini e della ghigliottina misero il people power e i negoziati attorno a un tavolo rotondo. Con la sensazionale rinuncia all´uso della forza da parte di Mikhail Gorbaciov (fulgido esempio del peso dell´individuo nella storia), un impero dotato di armi nucleari che agli occhi di molti europei era sembrato perenne e inespugnabile come le Alpi, non da ultimo proprio perché possedeva quelle armi di distruzione totale, svanì all´improvviso in punta di piedi. Ma poi, un po´ come se tutto questo fosse troppo bello per essere vero, il 1989 portò anche la fatwa dell´Ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie – dando il via ad un altro lungo conflitto in Europa, ancor prima che l´ultimo si fosse davvero concluso.
Anni così capitano una o due volte al massimo in una lunga vita. Anche il 2001, con gli attacchi terroristici dell´11 settembre, è stato un anno importante, certo, soprattutto perché ha cambiato le priorità degli Stati Uniti nel mondo, ma non ha prodotto trasformazioni paragonabili a quelle frutto del 1989. La guerra fredda aveva interessato fino al più minuscolo stato africano rendendolo un potenziale pedone nella partita a scacchi tra Est e Ovest, e la sua fine fu altrettanto pervasiva. Luoghi come l´Afghanistan finirono nel dimenticatoio, trascurati da Washington dato che non contavano più nulla nel contesto globale con l´ormai ex Unione Sovietica. Il mujahiddin ha fatto il suo lavoro, il mujahiddin può andare. Ma il mujahiddin di nome Osama bin Laden la pensava in maniera un po´ diversa.
L´epicentro del 1989 era l´Europa tra il Reno e gli Urali ed è lì che si è verificato il grosso dei cambiamenti. Tutti i paesi confinanti con la Polonia oggi sono nuovi, diversi da com´erano nel 1989. A dire il vero molti degli stati e parecchie delle frontiere dell´Europa orientale oggi sono più recenti di quelli africani. E la vita di ogni uomo, donna e bambino è cambiata tanto da essere irriconoscibile, più che mai nella ex Ddr, la cui condanna a morte compie vent´anni il prossimo lunedì, anniversario della caduta del muro di Berlino.
Così, da una parte abbiamo le esistenze di tanti individui: dei giovani cechi, ungheresi e tedeschi dell´est, nati nel 1989, che stanno beneficiando delle opportunità di libertà, e le storie dei molti anziani, meno fortunati, che da allora se la passano male e sono arrabbiati e delusi.
All´estremo opposto abbiamo il balletto globale delle superpotenze, vecchie e nuove. Potenzialmente oggi sono tre: gli Usa, la Cina e l´Ue. Gli Stati Uniti sono ancora l´unica vera superpotenza a tre dimensioni. La settimana scorsa gli ex presidenti Gorbaciov e Bush si sono incontrati a Berlino con l´ex cancelliere Helmut Kohl e Bush senior ha ampiamente ossequiato il suo amico "Mikhail". Poteva permettersi tanta generosità, dopotutto l´America ha vinto. Per l´esattezza gli Usa sono risultati vincitori, grazie in parte alla loro politica, ma anche all´operato degli altri. Ma sarebbe difficile sostenere che hanno fatto buon uso dei due successivi decenni di supremazia – e men che meno sotto Bush figlio. Il paese ha scialacquato ricchezze accumulando un enorme debito pubblico e delle famiglie. Non ha creato un nuovo ordine internazionale durevole. Ora ha un meraviglioso presidente che ha in mente quell´obiettivo ma probabilmente non ha più i mezzi per realizzarlo.
Il vero vincitore a sorpresa è la Cina. Ricordate quando Gorbaciov, in visita a Pechino all´inizio dell´estate del 1989, fu fatto entrare di soppiatto nello Zhongnanhai, sede del partito comunista cinese, passando da un ingresso secondario perché piazza Tienanmen era invasa dai dimostranti. La Cina pareva allora sull´orlo di una sua rivoluzione di velluto. Ma poi venne il massacro del 4 giugno. Un brivido percorse l´Eurasia, da Pechino a Berlino. La Cina e l´Europa imboccarono strade nettamente diverse. Traumatizzati dalle proteste di Tienanmen e dal crollo del comunismo in Unione Sovietica e in Europa orientale, i vertici del partito comunista cinese fecero tesoro dell´esperienza altrui per evitare il destino dei loro compagni europei. Cogliendo le opportunità economiche offerte dalla globalizzazione, a sua volta decisamente stimolata dalla fine del comunismo in Europa, proseguirono sulla via su cui li aveva instradati Deng Xiaoping (un individuo accostabile a Gorbaciov quanto a impatto sulla storia).
Risultato: un sistema ibrido che può essere rozzamente definito per sommi capi come Capitalismo leninista, qualcosa di semplicemente inimmaginabile nel 1989. E una superpotenza emergente con riserve in valuta estera per 2000 miliardi di dollari, che tiene gli Usa stretti in una morsa finanziaria. Certo, è una superpotenza fragile, con molte tensioni e contraddizioni interne, e troppo poca libertà, ma resta un formidabile antagonista per il capitalismo democratico liberale di stampo occidentale. Ben più formidabile, detto per inciso, dell´islamismo militante, orientato al passato, che è sì una reale minaccia, ma non un serio rivale ideologico.
E poi ci siamo noi: la vecchia Europa, da cui è partito tutto. In altra sede, in un saggio per la New York Review of Books, ho definito il 1989 come l´anno migliore della storia d´Europa. È un´affermazione ardita e invito i lettori a contestarla indicando un altro anno. Ma a vent´anni di distanza e nei miei momenti più bui il 1989 a volte mi appare come l´ultima fioritura tardiva di una vecchissima rosa. Senza dubbio da allora abbiamo fatto grandi cose. Abbiamo allargato l´Unione Europea. Abbiamo (o quantomeno alcuni di noi hanno) la moneta unica. La nostra economia è, per dimensioni, la maggiore del mondo. Sulla carta l´Europa sta bene. Ma la realtà politica è assai diversa.
Questa non è l´Europa dal cuore grande che sognavano i visionari come Vaclav Havel nel 1989. È l´Europa dell´altro Vaclav, Vaclav Klaus, che firma il trattato di Lisbona digrignando i denti, dopo aver preteso qualche piccola concessione. È l´Europa di David Cameron che, per la sua visione ristretta e nazionale ben rappresenta in effetti l´europeo contemporaneo. (Parafrasando Wordsworth invoco: Churchill! Ah, se tu fossi in vita. L´Europa di te ha bisogno). Immersi nel narcisismo delle piccole differenze, solo parzialmente consci del mondo di giganti che li circonda, la media dei politici in Francia, Germania o Polonia è di poco migliore.
Così a vent´anni di distanza l´interrogativo che si pone a noi europei è il seguente: siamo in grado di riappropriarci delle ardite strategie e dell´immaginazione storica del 1989? Oppure lasceremo agli altri il compito di plasmare il mondo mentre noi ci rannicchiamo sottoterra come Hobbit nelle nostre tane nazionali, facendo finta di non sentire il passo pesante dei giganti sopra le nostre teste? www.timothygartonash.com

Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 6.11.09
L’apocalisse in casa
Lo psichiatra che ha ucciso preparava i soldati a morire
di Vittorio Zucconi

Li avrebbe dovuti curare, e programmare come diligenti soldatini di piombo da fondere nel crogiolo delle guerre fantasma del terzo millennio, l´ufficiale medico psichiatra, ma nessuno aveva pensato a curare lui, il medico, che ha ucciso i suoi pazienti futuri.

Una nuova apocalisse in casa per l´America sempre più fragile

Quei soldati che a migliaia tornano dalle guerre per «esportare la democrazia» avendo perduto per sempre, come lui, l´anima e la mente. Erano pronti e preparati a morire in Iraq o in Afghanistan, i suoi soldati, come quei cinquemila e 281 loro fratelli nelle uniformi delle forze armate americane che già sono tornati indietro nelle bare d´acciaio verniciato, non a essere abbattuti nella loro casa, nel forte più forte del Texas, Fort Hood, dove si sentivano invulnerabili e invincibili dentro i loro mezzi corazzati e sotto le insegne della Cavalleria, la più nobile delle armi. E da chi avrebbe dovuto convincerli e «strizzargli il cervello», come si dice nello slang americano di psichiatri e psicologi clinici.
E se non sappiamo davvero nulla dell´autore di questa Apocalisse «now and here», ora e qui, oltre il grado e la specializzazione medica, dell´ufficiale che ha aperto il fuoco sui propri soldati nel momento della loro promozione, alla vigilia della partenza per il fronte, oltre quel nome arabo che subito suscita pensieri sinistri, il maggiore Malik Nadai Hasan, nè dei suoi due complici arrestati, la domanda che da otto anni i comandi americani si pongono torna prepotente: fino a quando si può tendere l´elastico di un esercito formidabile, addestratissimo, armatissimo, motivatissimo, ma pur sempre fatto di essere umani? Bastano lo psichiatra, il cappellano militare, i discorsi, le marcette, le parole di circostanza dette da ogni presidente e anche ieri sera da Barack Obama, per illudersi che l´elastico di una mente non si strappi mai?
Sono ormai nove anni che in Afghanistan e sei in Iraq, più tempo di ogni altra guerra americana e vicinissimo all´orribile record del Vietnam, uomini e donne sono spremuti in combattimenti che non hanno altro che tunnel alla fine del tunnel, nonostante le solite promesse di tutti i generali e di tutti i governanti di tornare a casa per Natale, ma senza mai specificare «quale Natale». Il maggiore psichiatra che ha guidato questo ammutinamento, che a chi conosce la storia della guerra ricorda gli ammutinamenti dei soldati francesi sulla Marna nelle ore più truci della Grande Guerra, sarebbe dovuto partire per l´Iraq nelle prossime ore e in lui l´elastico troppo teso è saltato. Che lo abbia spezzato il suo essere evidentemente di sangue arabo, sembra nato in Giordania, di fronte alla continua strage di arabi e di mussulmani nel nome della loro liberazione, che sia stata la umana paura di andare a saltare su una mina, a essere catturato e torturato e sgozzata da terroristi mussulmani decisi a punire nell´orrore il suo tradimento della «umma», della comunità islamica, ancora non sappiamo. Si indaga sul suo passato, sulle possibile affinità ideologiche con i combattenti e i terrorirsti anti cristiani, sull´ipotesi di cellule maligne infiltrate nel corpo della US Army, che a Fort Hood ha una delle proprie fortezze più gigantesche. Quasi 50 mila soldati, panzer M1A1, trasporti corazzati e le insegne della divisione di cavalleria più gloriosa nella storia militare americana, la Prima Divisione. Quella che da sola, nel 1950, rallentò l´invasione dei nord coreani e salvò almeno la metà di quella penisola. E che i registi dei film di guerra, come Coppola in Apocalipse Now, amano raccontare come i più coraggiosi, i più matti, i più temerari, nel segno della testa di cavallo nero sul fondo giallo.
Ma questa volta, la cavalleria non è arrivata in tempo a salvare la cavalleria. Nessun generale, nessun colonnello, nessun camerata o collega si era accorto che qualcosa era saltato nell´anima di quel Giordano divenuto medico, psichiatra, americano, ufficiale e gentiluomo sotto il segno della nazione che lo aveva adottato, gli Stati Uniti e che la sua fosse semplice e comprensibile pazzia, o tentacolo di un complotto arrivato dentro il santuario dell´americanità e delle sue forze corazzate, il Texas e già questo è, in ogni caso, «orribile» come ha detto Obama. Addirittura, nella confusione della notte, qualcuno aveva dubitato che la facoltà di medicina e psichiatria dove lui si era laureato, a Bethesda, nei sobborghi di Washington, esistesse, come invece esiste, parte dell´ospedale della Marina. Questa è la materia per indagini, ispezioni e polemiche. Quello che rimane di questa Apocalisse ora, e qui, non a diecimila chilometri, è il fatto di essere il settimo incidente, dall´invasione dell´Iraq, di soldati americani che sparano ad altri soldati americani, con ormai più di 40 caduti. Il settimo.
Situazione normale, dunque. All´Ovest, generale, niente di nuovo.

Repubblica 6.11.09
La giustizia e la vendetta
di Nadia Urbinati

All´origine del sentimento di giustizia c´é un sentimento naturale di vendetta – gli utilitaristi lo chiamavano sentimento "animale" per sottolinarne l´utilitá immediata per l´individuo ma anche la necessitá della sua rieducazione. È un sentimento "naturale" nel senso che viene prima di ogni educazione morale e intellettuale, prima della riflessione ragionata e delle istituzioni, e serve a orientare la nostra risposta all´ambiente in vista della nostra sopravvivenza, il bene primario.
Uno dei padri fondatori del liberalismo, John Locke, sosteneva per questo che benché capaci di naturale giudizio morale e di ragionevolezza, gli esseri umani non riescono a vivere fuori dello stato per una ragione molto semplice: perché non sanno essere imparziali. Quando vengono offesi o danneggiati giudicano in maniera parziale perché danno a se stessi e alle proprie cose un valore sproporzionato in eccesso. Per questo serve un giudice esterno: una norma che non sia fatta né da chi ha subito il danno (giustizia come vendetta) né da chi il danno vuole perpetrarlo (giustizia come licenza) ma da chi si mette ipoteticamente nella condizione ideale di un giudice disancorato o di chi non é parte in causa e che per questo riesce a valutare spassionatamente. Su queste premesse riposa la possibilitá di creare la pace sociale.
La civilitá puó essere a ragione definita come un processo faticoso, e a quanto pare mai compiuto, per superare o domare il sentimento "animale" della giustizia come vendetta e ritorsione in un sentimento riflessivo che sappia giudicare a prescindere dalle passioni che l´ingiustizia provoca nella vittima o dagli interessi che un comportamento equo puó imporre di sacrificare. Come si puó intuire, ragionare secondo giustizia é un esercizio tutt´altro che spontaneo e facile: l´educazione che i genitori ci impartiscono quando siamo bambini e che l´obbedienza delle leggi ci conferma quando siamo adulti é un segno di quanto sia innaturale ragionare secondo giustizia e quanto venga invece spontaneo farci guidare dall´istinto di proteggere noi stessi e le nostre cose con tutti i mezzi e sopra tutto e tutti. Lo Stato di diritto, la norma uguale per tutti, l´autonomia della sfera giuridica da quella politica sono gli esiti piú importanti di questo grande e difficile cammino della civilitá dalla naturalitá del sentimento di vendetta al sentimento ragionato di giustizia.
In Italia si assiste a una trasvalutazione dei valori, a un rovesciamento vero e proprio del sentimento di giustizia per cui si sente dire con rituale frequenza e impudica chiarezza che i giudici perseguitano o che la giustizia si vendica, mentre la giustizia vera sarebbe quella più vicina ai propri desideri e interessi. Ovviamente la giustizia che si fa vendetta é un atto gravissimo. Ma quando ciò succede si é già fuori della giustizia, si é già nella dimensione del reato, per giudicare del quale é comunque necessaria una visione della giustizia come imparzialità. Per questo é sempre sbagliatissimo e improvvido associare la giustizia alla persecuzione o alla vendetta, anche quando per le ragioni le più diverse si dissente dall´operato dei giudici. Ed é sbagliatissimo soprattutto quando a fare questi proclami non sono cittadini ordinari che chiacchierano davanti a un bicchiere di vino, ma invece uomini delle istituzioni e mezzi di informazione. Siamo qui di fronte a un caso di stravolgimento di quella che é la relazione impersonale ordinata dalla legge tra il cittadino (potenzialmente tutti senza distinzione) che può aver o ha violato la legge e il magistrato che ha il compito di verificare che ciò sia avvenuto per poter giudicare il reato, comminare la pena e così restaurare l´integrità della legge.
Quando questa relazione viene stravolta dichiarandola vendicativa e questo stravolgimento addirittura esaltato in nome di più vera giustizia e fatto passare nel linguaggio ordinario si produce gravissimo danno non tanto o soltanto alle istituzioni, ma anche e soprattutto alla nostra personale sicurezza, poiché a cadere insieme al senso di giustizia é la fiducia reciproca (se giustizia é vendetta di chi ci si può più fidare?) e con essa la tranquillità della vita quotidiana. E purtroppo questo stravolgimento valoriale e linguistico ha effetti che sono difficili perfino da immaginare e controllare e che vanno ben al di là del fatto specifico per il quale esso é stato ad arte creato, ovvero la protezione degli interessi particolari di chi ci governa. Il paradosso é che proprio colui dal quale vengono le accusa di persecuzione rivolte ai giudici, poi quando deve trovare un argomento di difesa del suo operato si appella proprio a una giustizia dei giudici. Rispondendo alle domande di Bruno Vespa sulla sua ricattabilitá, il Presidente del consiglio ha detto che quando nei suoi «confronti sono state avanzate richieste che secondo il giudizio [suo] e dei [suoi] legali si configuravano come ricattatorie, [egli si é] immediatamente rivolto all´autorità giudiziaria» – e se questo é vero é perché egli stesso deve presumere che questa autorità sia imparziale e per questo meritevole di autorità.

Corriere della Sera 6.11.09
Uso di cocaina, Italia tra i primi 5 Paesi
I consumatori sono il doppio della media Ue. Davanti a tutti per la cannabis
di Alessandra Arachi


ROMA — Polvere. Bianca e leggera. In gergo ha un nome lieve: neve. In pratica è quell’ar­ma letale con un nome interna­zionale: cocaina. Si consuma da decenni. Ma è un consumo che non passa di moda. Anzi: aumenta, sempre di più. In Eu­ropa, come ci segnala l’ultimo rapporto che arriva dall’osser­vatorio di Bruxelles, sono di­ventati 13 milioni i cittadini che ne hanno fatto uso almeno una volta (7,5 milioni hanno tra i 15 e i 34 anni). E anche la cannabis tiene il passo. Anzi, supera di gran carriera: 74 mi­lioni i consumatori europei, l’Italia in pole position.
Per gli spinelli, come per la neve. Il consumo della cocai­na, dice il Cnr, nell’ultimo de­cennio è praticamente raddop­piato, passando dai 400 mila consumatori del 2001 al milio­ne dell’anno passato. Di più: è proprio l’osservatorio di Bru­xelles che ci segnala come l’Ita­lia sia fra i cinque paesi che consumano più cocaina in Eu­ropa, insieme alla Spagna, la Gran Bretagna, la Danimarca, l’Irlanda.
Per capire: la media Europea di consumo della polvere bian­ca è di circa lo 0,4% della popo­lazione. In Italia è dello 0,8%. Per capire meglio: a dispetto di un consumo dell’1,1% spagno­lo e dell’1% inglese non c’è pa­ragone fra la cocaina che si con­suma a Milano e a Londra. Mi­lano stravince.
Le analisi le hanno fatte al­l’Istituto Mario Negri di Mila­no, analizzando le acque reflue delle città (oltre Milano e Lon­dra anche Lugano e altre quat­tro città italiane). I risultati li spiega Silvio Garattini, respon­sabile della ricerca: «Abbiamo calcolato che a Milano si consu­mano ogni giorno una media di 9,1 dosi di cocaina per mille abitanti, contro le 6,9 di Lon­dra (le 6,1 di Lugano, 7,4 di La­tina, 4,7 Cagliari, 3,2 Varese, 2,1 Cuneo). Siamo rimasti dav­vero sorpresi. Non ce lo aspet­tavamo ».
Milano sorprende e spiazza. Sempre. E non è un caso che la Lombardia guida (dati Cnr) la classifica delle regioni che con­sumano più cocaina: 3,4% del­le persone fra i 15 e i 64 anni, seguita dal 3,2% del Lazio, 3% del Piemonte, 2,6% della Ligu­ria. Non è un caso che proprio qui sia nato il primo centro di recupero dedicato e mirato al­la cocaina.
Una comunità mista fra pub­blico e privato sociale (associa­zione Saman, Lotta contro l’emarginazione, cooperativa di Bessino). Ha aperto i batten­ti un mese e mezzo fa. Ed è sta­ta letteralmente presa d’assal­to.
Spiega Riccardo De Facci, il presidente: «Nel nostro addic­tion center si cura principal­mente il consumo di cocaina abbinato all’alcool. E da noi si usa una formula nuova per il recupero. Modulare. Nel sen­so: si rivolgono a noi professio­nisti, manager, giovani rampol­li di famiglie in vista, consulen­ti finanziari. Persone, cioè, che non hanno in testa il vecchio metodo di chiudersi per anni dentro una comunità. Che arri­vano da noi per un primo step di qualche settimana. Anche se più di uno ci ha già chiesto di tornare».
Milano che spiazza. Sempre all’Istituto Mario Negri di Mila­no hanno calcolato negli scari­chi che ogni giorno a Milano entra un chilo di cocaina e che diventa un chilo e mezzo du­rante il fine settimana. Anche i giovani italiani sono abbon­dantemente sopra la media del consumo europeo, ci segnala l’osservatorio di Bruxelles. E sono ben tre milioni i giovani europei che l’hanno provata nell’ultimo anno, così a certifi­care il consumo che aumenta.
Ma c’è una voce che si leva forte dal coro contro questa ca­tastrofe. E non è una voce da nulla, visto che è quella di Gio­vanni Serpelloni, capo del no­stro dipartimento nazionale an­tidroga. Dice: «Dobbiamo guar­dare al futuro con ottimismo. Perché se scorporiamo i dati e li puntiamo sui 15-16enni, ve­diamo che per la prima volta in questa fascia il consumo del­la cocaina in Italia diminuisce. E non è certo una cosa da po­co, visto che sono loro, gli ado­lescenti, a segnare il trend». 


Corriere della Sera 6.11.09
Gentile e l’ora di religione. Sì ma solo nelle elementari
risponde Sergio Romano 


Lei ha sostenuto che la Chiesa avrebbe chiesto e ottenuto l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane.
Se questo è vero sarebbe però utile ricordare come l’insegnamento della religione fosse stato già introdotto dalle riforme gentiliane della scuola, le quali non possono, data la statura intellettuale del proponente, essere liquidate come semplice tappa di avvicinamento alla Conciliazione, tanto più che Gentile stesso fornì ripetutamente motivazioni filosofiche della sua scelta pedagogica. Il problema era tanto sentito tra i cattolici italiani che Alcide De Gasperi, nel primo dopoguerra, caldeggiava il mantenimento di tale insegnamento nelle scuole delle terre redente, ove era previsto in virtù della normativa Imperiale al riguardo, la quale però prevedeva, come a Trieste, anche l'insegnamento della religione israelitica.
David Rettura 


Caro Rettura, 
Il problema dell’insegna­mento della religione nel­le scuole elementari fu concretamente affrontato quando Benedetto Croce di­venne ministro della Pubbli­ca istruzione nel governo di Giovanni Giolitti fra il 1920 e il 1921. Il filosofo era convin­to che la scuola elementare non potesse essere «neutra» e che la religione cattolica, se i genitori ne desideravano l’insegnamento, potesse esse­re «appaltata» ai sacerdoti. Era la naturale reazione di un liberale a cui sembrava che lo Stato, nelle questioni che non erano di sua diretta responsa­bilità, facesse un passo indie­tro e garantisse ai cattolici una sorta di «autogestione». Gentile, che in quel momen­to era il più intimo consiglie­re di Croce, riteneva invece che l’insegnamento della reli­gione fosse una sorta d’intro­duzione allo studio della filo­sofia e che lo Stato, quindi, dovesse tenerlo saldamente nelle sue mani.
Il passaggio di Croce al pa­lazzo della Minerva (dove era allora il ministero) durò sol­tanto dodici mesi, dal giugno 1920 al giugno 1921, e il com­pito della riforma cadde final­mente, dopo la formazione del primo governo Mussoli­ni, su Giovanni Gentile. A proposito della natura e dei compiti della scuola elemen­tare il filosofo siciliano non aveva dubbi. Disse che dove­va essere «aderente al senti­mento, all’esperienza, alle tendenze, ai costumi, alla lin­gua, all’anima del popolo, reli­giosa insieme e poetica, lega­ta alle forme venerande delle credenze tradizionali, ma aperta e pronta alle suggestio­ni e ispirazioni della poesia e dell’arte che sorgono sponta­nee dalla psicologia più inge­nua e sognante della moltitu­dine dei fanciulli». La religio­ne quindi sarebbe stata inse­gnata come mito, favola, rac­conto poetico. Sarebbe stata cattolica perché il cristianesi­mo romano era la forma stori­ca della spiritualità italiana. Ma avrebbe lasciato il posto alla filosofia non appena il bambino fosse divenuto ado­lescente.
 È inutile dire che questa im­postazione non poteva piace­re alla Chiesa. Ed è altrettanto superfluo ricordare che Genti­le fu contrario al Concordato. In un discorso a Bologna, nel 1926, disse: «Lo Stato (...) contiene e garantisce tutti i valori spirituali, la religione compresa, né può ammette­re, senza spogliarsi d’ogni principio di sovranità, potere superiore». Gentile non pote­va ignorare che il governo sta­va negoziando con la Santa Sede la «conciliazione», ma sperò sino all’ultimo momen­to di evitare quella che a lui sembrava una resa dello Sta­to alla Chiesa. Perdette la par­tita l’11 febbraio 1929.

Repubblica 6.11.09
Scrupoli ideologici. Il film sul caso Englaro. I pugni in tasca
I 70 anni di Bellocchio il ribelle "Ho smesso di bruciare il mondo"
E ora il regista rompe il tabù della pubblicità
di Paolo D’Agostini


Tutti i vecchi scrupoli ideologici contro la pubblicità "al servizio del capitalismo e della borghesia" non hanno più senso
Ho in testa un film sul caso Englaro Ma l´architettura non è ancora chiara Sta lì, in attesa di prendere forma

ROMA. Marco Bellocchio festeggia i 70 anni (lunedì) debuttando nella pubblicità. Il primo spot della sua vita, realizzato per il Monte dei Paschi, è in circolazione da qualche giorno sul web e sulle tv. «Percepisco una pensione di 824 euro. Dunque devo sperare di mantenere buona salute, cervello funzionante e immaginazione vivace perché ho bisogno di lavorare. Mi hanno chiamato, mi hanno fatto questa offerta e l´ho accettata. Siamo nel 2009 e sempre che non venga offesa la dignità professionale tutti i vecchi scrupoli ideologici contro la pubblicità "al servizio del capitalismo e della borghesia" non hanno più senso. Non ho tradito alcun ideale o principio. Appartiene al passato remoto la contraddizione secondo cui il comunista che faceva la pubblicità si era venduto».
Senza offesa questo ragionamento denuncia la sua età. Molti oggi stenterebbero a capirlo.
«È vero. Appartiene a un bagaglio di moralismi e utopie oggi incomprensibile».
Per lei essere "il regista dei Pugni in tasca" è stato condizionante, o addirittura una condanna?
«Questa etichetta mi ha inseguito per molti anni e un po´ l´ho subita. Cioè ho sentito trascurate o sottovalutate le mie tappe successive. Cristallizzato, bloccato lì: ai miei 25 anni. Certamente, me ne rendo conto oggi più pacatamente e senza sentirmi perseguitato, quel titolo ha una sua "mitologia": se vado in giro per il mondo è sempre la prima cosa che salta fuori. Pazienza, comunque. Che continuino a classificarmi e limitarmi, ciò che conta è il presente e quello che si fa e si ha voglia di fare».
È corretto dire che lei è stato segnato e accompagnato da un forte sentimento anticlericale?
«È stato uno dei temi ricorrenti. Rappresentato in modo diverso nel tempo. Nel nome del padre faceva riferimento alle complicità con la classe politica democristiana, c´erano molte forzature ideologiche. L´ora di religione è tutt´altra cosa: non c´è lo stesso risentimento distruttivo: non voglio più "bruciare" niente. Il mio cuore batte in un altro modo, per altre cose. Qualche sacerdote, in quest´ultima fase, ha perfino sostenuto che sono molto religioso. Nel mio nuovo progetto ispirato al caso di Eluana Englaro - che però è ancora da mettere a punto, non ho ancora trovato il centro - difendo la vita ma rifiuto la costrizione imposta dalla Chiesa e dai partiti che per ingraziarsela ipocritamente le ubbidiscono. Nel frattempo, qualcuno mi ha suggerito di fare un film su Craxi. Ma sinceramente non mi convince. Non basta qualche immagine potente - il lancio di monetine fuori dall´hotel Raphael - per fare una storia, per costruire un film».
La statura del personaggio ci sarebbe, no?
«Sì, la politica - anche quella odierna - mi suggerisce spesso tentazioni. Ma non sono sufficienti. Non per me. La materia, pur interessante, non è di per sé cinema. Scusi l´immodestia ma il mio modello resta Ejzenstejn».
E andiamo alla sua parentesi maoista, ´68 e dintorni. Qualche pentimento, un po´ di vergogna? Sotto il famoso appello contro il commissario Calabresi nel ´71, compariva anche la sua firma.
«Il fatto che io manco me lo ricordo dimostra…».
È anche peggio: indica una specie di automatismo conformista, frutto di un clima diffuso tra gli "intellettuali di sinistra".
«Sì, ma era un clima genericamente "contro", che credeva alla tesi dell´assassinio di Pinelli. Talmente generico, e diffuso, che se non sbaglio lì dentro c´è anche la firma di Fellini. Io non sono stato mai coinvolto in niente di violento, non saprei dire se per coraggio o per viltà. Ma non diminuisco né nascondo uno sbaglio che rimane. Anche se, dovendo pentirmi di qualcosa, penso più agli errori della sfera privata. Per me è stata importantissima, un decennio dopo, l´esperienza dell´analisi fagioliana».
Ecco il punto più controverso. L´incontro e poi la collaborazione artistica con lo psicoanalista Massimo Fagioli, che ha investito almeno quattro suoi film a partire da Il diavolo in corpo.
«Che resta, me lo lasci dire, un film bellissimo».
Però le voltarono le spalle in tanti.
«Sì, ero diventato succube e rincoglionito. Ma avevano torto loro. Ho guadagnato molto da quell´esperienza, di novità e di "scandalo". E non mi ha impedito di riprendermi poi pienamente la mia libertà e autonomia».
A partire da Il principe di Homburg e La balia, per arrivare poi a Buongiorno, notte ha dato l´idea di una nuova raggiunta felicità. Creativa, forse anche personale.
«Direi che è vero. E il punto più alto di libertà e felicità è stato L´ora di religione. Che, non lo dimentico, ricevette solo il David di Donatello a Piera Degli Esposti mentre meritava di più. Una costante nel mio percorso. Di persona che occupa una posizione non controllabile, un po´ "fuori". Cui viene permesso di lavorare ma tenuto un po´ in disparte».
Non abbastanza riconosciuto.
«Non del tutto accettato, dalla stessa famiglia della sinistra. Ma fa parte ed è la conseguenza di una scelta, che difendo».
Famiglia nella quale invece si è sempre più integrato il suo compagno di ribellione giovanile Bernardo Bertolucci. C´è mai stata amicizia tra voi?
«Per essere sinceri da giovani c´era una certa rivalità. E da parte mia, quando Bernardo ha preso il volo con Ultimo tango e Novecento dimostrando ad appena 30 anni quelle capacità e conquistando quella notorietà, l´ho invidiato».
Tra i suoi temi più cari è giusto mettere al primo posto il sentimento ribelle verso codici e costrizioni familiari?
«La parola ribellione è giusta. Continua a definirmi. Ribellione ai padri, a chi vive di una rendita che non merita, a chi trucca il gioco, agli ipocriti. Certo, la famiglia esaltata come l´estrema difesa dal caos e dal disordine non la condivido. Dentro le famiglie può esserci tanta falsità, dolore, angoscia».
Sono cambiati nel tempo gli oggetti d´ispirazione?
«Forse sì. Nel progetto ispirato al caso Englaro la costrizione violenta nel tenere in vita chi è morto si opponeva a quella di un medico che impone la vita a una ragazza che vuole morire ma ha tutte le potenzialità per vivere».
Perché usa l´imperfetto?
«Il progetto c´è, ma l´architettura non è ancora chiara. Sta lì in una cartellina, in attesa di prendere forma».

Repubblica 6.11.09
Scrittori, registi, autori: verranno ricevuti il 21 novembre, chiamati da Benedetto XVI
In visita. Dal papa 250 artisti. Giallo sull’invito a Dario Fo


L´iniziativa è stata organizzata da Monsignor Ravasi. Fra i presenti Mario Botta e Nanni Moretti, Margaret Mazzantini e Paolo Sorrentino, i Pooh e Morricone

CITTA DEL VATICANO. Papa Ratzinger chiama e gli artisti rispondono. In massa. Sono infatti 260 gli esponenti del mondo dell´arte, della letteratura e dello spettacolo che saranno ricevuti il 21 novembre prossimo da Benedetto XVI in Vaticano. L´elenco, però, è destinato ad allungarsi perché sono oltre 500 gli inviti diramati dal Vaticano in tutto il mondo. Scopo dichiarato dell´iniziativa, commemorare il il 45esimo anniversario del primo incontro di Paolo VI con gli artisti e il decennale della Lettera al mondo dell´arte scritta da Giovanni Paolo II. Due ricorrenze storiche che ora Benedetto XVI intende celebrare nella Cappella Sistina con uno scopo ancora più ambizioso, «rilanciare e rivitalizzare il dialogo tra Chiesa cattolica e arti contemporanee», spiega alla presentazione dell´iniziativa - ieri in Vaticano - l´arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della Cultura.
Praticamente tutte le discipline artistiche saranno rappresentate all´udienza. Moltissimi i nomi, da Paolo Portoghesi, Daniel Libeskind, Santiago Calatrava, Mario Botta per la sezione architettura, a Mimmo Paladino, Arnaldo Pomodoro, Jannis Kounells per la pittura e la scultura. Tra gli invitati per la letteratura, Edoardo Albinati, Alberto Bevilacqua, Vincenzo Cerami, Maurizio Cucchi, Margaret Mazzantini, Susanna Tamaro. Per cinema, teatro, danza e fotografia Franco Zeffirelli, Marco Bellocchio, Pupi Avati, Lino Banfi, Sergio Castellitto, Carla Fracci, Ugo Gregoretti, Monica Guerritore, Mario Monicelli, Laura Morante, Arnoldo Foà, Paolo Sorrentino, Alma Manera, la Madonna del recital Maria di Nazareth patrocinato dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone. Ci sarà anche Nanni Moretti, il cui prossimo film sarà dedicato all´elezione di un Papa che, dopo la nomina, sarà oppresso dalla paura e avrà bisogno di uno psichiatra, impersonato dallo stesso Moretti. Altrettanto folto il gruppo dei musicisti con Claudio Baglioni, Andrea Bocelli, Riccardo Cocciante, I Pooh, Antonello Venditti ed Ennio Morricone.
Molti artisti non hanno potuto partecipare «a causa di impegni precedentemente presi», puntualizza Ravasi. Tra questi il maestro Riccardo Muti, «che per quella data ha un concerto a Filadelfia», e Daniel Barenboim, «impegnato nelle prove generali al Teatro alla Scala». Giallo, invece, sul premio Nobel Dario Fo. «Lo abbiamo invitato, ma finora non ci ha risposto», assicura Ravasi. «Non è vero, non mi è arrivato nessun invito», risponde piuttosto seccato Dario Fo, il quale chiude l´incidente con una battuta, «sarà stato uno scherzo da prete, come al solito». «Gli artisti invitati non appartengono solo al mondo cattolico. Sono stati scelti - assicura Ravasi - prescindendo dal loro credo o dalle appartenenze nazionali, etniche e politiche». Si tratta, quindi, di una udienza tutta particolare con la quale la Chiesa - auspica Ravasi - «punterà a ricostruire il rapporto con l´arte contemporanea dopo il divorzio consumato il secolo scorso». «Ho accettato con entusiasmo questo invito per incontrare il Papa, ma anche perché la Chiesa ha avuto un ruolo molto importante per la mia formazione culturale», confessa l´architetto Mario Botta. «Quando si riceve un invito del genere si accetta con piacere», ammette il regista Paolo Sorrentino.
Per lo scrittore Alberto Bevilacqua l´udienza porterà alla mente «i precedenti incontri che ebbi con Paolo VI al quale, su suo invito, dedicai anche un poemetto scritto per i 75 anni che fu pubblicato dall´Osservatore Romano». «Incontrare il papa nella Cappella Sistina, i luoghi di Michelangelo per eccellenza - per Mimmo Paladino - è una esperienza unica ed irripetibile che mi auguro possa servire ad aprire un nuovo rapporto tra Chiesa e mondo dell´arte».

Caterina Deregibus
Repubblica Roma 6.11.09
Caterina, dai ricordi di Etiopia a una Medea con la lingua dell´Africa
di Carola Susani


"Sono tornata nella casa dove era cresciuta mia madre, era un posto che avevamo dentro, che apparteneva alla nostra geografia degli affetti. Quando sono tornata non ero più la stessa"
Di cognome fa Deregibus e ora vive a Monteverde La mamma è nata a Addis Abeba e il papà è un musicista Storia di un´attrice

Caterina abita al confine di Monteverde, una strada dalle palazzine piccole, i balconi larghi su cui spazzano i cedri del libano. Caterina ha lineamenti precisi e nobili, una voce profonda. Fa l´attrice. L´ho vista recitare solo un paio di volte, era un racconto di Cristina Ali Farah, un´adolescente del Corno d´Africa timida e scontrosa. Ma Caterina ha interpretato Medea con la regia di Fabio Sonzogni e le recensioni raccontano della sua mobile atroce intensità. La sua Medea parla in italiano, ma a volte anche in amarico. Medea è la straniera e la maga, ma parla in amarico anche per ragioni più intime. Perché Caterina Deregibus è per parte di madre etiope. Per parte di padre invece è piemontese. "Sono nata in Italia, a Casale Monferrato". Suo padre era andato in Etiopia a suonare la tromba e il trombone. Aveva un contratto in un hotel frequentato da italiani. "È ad Addis che ha incontrato mia madre. Penso che lei cercasse un filo per andare via e mio padre ha fatto di tutto per farla venire in Italia". Sediamo in cucina, davanti a un tè. Caterina si fa pensierosa: "Tra mia madre e mio padre c´era l´amore, ma non c´era linguaggio. Adesso nelle giovani coppie miste ci sono più strumenti". Sorride. "Vivevo a Casale sentendomi italiana. Eravamo andati in Etiopia una volta sola. Sentivo che c´era un tesoro legato a mia madre. Vedevo la sua espressività: era qualcosa che non c´entrava assolutamente niente con il mondo che mi circondava. Ci ho messo molti anni a integrare. In mio padre amo la musica. Un po´ mi sento formata dalla musica di mio padre". Per andare all´Università, da Casale Monferrato i ragazzi partono tutti. "Mi ero iscritta a Filosofia, ma ho mollato subito. Ho fatto un provino per la Scuola del Teatro stabile di Torino e mi hanno preso. Sentivo che avevo un´espressività dentro che premeva".
A Roma Caterina ha una parte in Quel pasticciaccio brutto di via Merulana. Resta. Fa provini per la televisione, per la pubblicità, per altri spettacoli, ma - mi spiega: "Non avevo veramente una direzione. Quando decidi di diventare attrice senza avere alle spalle una tradizione familiare, capisci con gli anni quello che vuoi essere, che immagine vuoi dare. Ho capito che voglio realizzare un´immagine di donna che ha un´identità, un´affettività, una professione, che vuole avere una famiglia. E riuscire a coordinare tutto non è sempre facile. Questo è un mestiere in cui in genere si hanno i figli molto tardi o non si hanno i figli. Quando sono partita non avevo davvero un´idea del percorso. Avevo diciannove anni, ero giovane. Adesso mi permetto di cercare i registi con cui voglio lavorare. Mi piacerebbe fare cinema, mi piacerebbe lavorare con Belloccio, con registi che siano autori", molto spesso, mi racconta, un attore deve far da sé, mentre la relazione con un regista è importante per crescere. Ma sta imparando a fare i conti anche con quello che effettivamente il mercato richiede, me lo spiega come un fatto di maturità.
Nel 2004 va in Etiopia con la madre. "La cosa bella è stata che una volta arrivate in aeroporto, siamo salite su un minibus e ci sembrava di essere lì da sempre. Era un posto che avevamo dentro, che apparteneva alla nostra geografia degli affetti. Abbiamo incontrato parenti, zii, zie. Io mi sentivo in dovere di aiutare, facevo l´occidentale; ho fatto anche un viaggio con mia nonna. Mia nonna era una contadina nella città. La sua casa era molto povera, piccola, fatta di un letto, di una cucina". Quando torna in Italia, è frastornata: "Non mi riconoscevo più. Ero qui e mi domandavo: perché non sono là". Qualcosa era stato evocato dalla lingua, dai rapporti, dalla geografia, dal paesaggio. "Questa parte etiope l´ho sentita in maniera violenta, vulcanica. Ho fatto un progetto sulla storia della regina di Saba e l´identità femminile. La storia etiope, le leggende. Nel 2004 ero nel pieno della rivalutazione delle mie radici africane... ma poi vedevo i film di Olmi e tutta quella nebbia e dicevo: casa! Olmi, Bellocchio, il film di Maselli Il sospetto. Anche il film di Mazzacurati, La giusta distanza. Sentirmi a casa in quei paesaggi mi ha sciolto".
Roma è stata la città dello spaesamento. "Negli ultimi anni sto cominciando ad amarla. Il mio pensiero si è pulito. In questi anni ho cercato di integrare la mia componente meticcia. Ora l´innamoramento per l´Etiopia è decantato sul fondo e non ho più bisogno di rappresentarlo. Ho cominciato a usarlo nel lavoro, per questo in Medea ho messo dei pezzi in amarico. Mi piace quando posso tirarlo fuori. Insieme al mio essere attrice, essere donna, essere italiana. Trovare un dialogo che sia creativo. Certo in un momento come questo mi piace anche lavorare su progetti che mostrino come l´Altro non è poi così diverso." "Cos´è che abbiamo tutti in comune?", le domando. "Penso alla nascita, all´affettività, alla capacità di volere, di scegliere. Ho scelto di fare l´attrice per la libertà. E poi mi piace essere sul palcoscenico e dire delle parole importanti per la comunità". Il suo ultimo spettacolo, Sotto un velo di sabbia, parla dei campi di detenzione per gli immigrati in Libia. Di Roma ama il Gianicolo. "Quando mi perdevo andavo là. Ora che non mi sento più persa vado al Gianicolo per guardare la città dall´alto, come se l´avessi domata. Amo Piazza Santa Cecilia. E camminare lungo i Fori. E l´Auditorium. Una volta ho fatto un sogno in cui c´era tutto: c´era Roma, c´era l´Etiopia, c´erano le colline di Casale Monferrato".