Un sistema da copione
di Dario Fo
La relazione è immobile e funziona sempre: se un cittadino commette errori il sistema può sventrare la sua privacy per metterlo in sicurezza alla luce delle sue responsabilità. Ma se è il sistema a commettere degli errori, ogni tentativo di penetrarne la dinamica viene cassato, respinto. Il potere si garantisce soprattutto in caso di errori. Ecco perché faremo molta fatica per sapere cosa è successo a Stefano Cucchi. Del resto, è un sistema sapiente, riesce perfino a passare dei copioni standard alle sue vittime, alle vittime del suo «temperamento», copioni che le vittime sono tenute a recitare, come una litania nel caso abbiano fatto i conti con la rituale violenza di una istituzione carceraria. Devono dire e ripetere: «Mi sono fatto male da solo cadendo per le scale», quando qualcuno chiederà spiegazioni per i lividi e le ossa rotte. Tutti lo sanno, ma tutti devono fingere di non saperlo, è una sorta di convenzione teatrale che impone soggezione e omertà a una società intera. Tanto, in cella finiscono solo i «residui» di quella società, gli «scarti», i «vuoti a perdere»; un patto non pronunciato regge così quella veccchia relazione di potere: a igienizzare il tuo ambiente di vita ci penso io, tu, però, non fare troppe domande, sennò quel lavoro te lo fai da solo e non lo sai fare. Poi, però, ci muore tra le braccia un ragazzetto lieve lieve di meno di quaranta chili, che non ha ucciso nessuno, non ha fatto resistenza
all’arresto, non sa cosa voglia dire far del male a chicchessia. Uno che dice candido di essere caduto dalle scale di un edificio gestito dalle forze di sicurezza. Ma prima di morire minaccia: voglio il mio avvocato sennò non mangio e non bevo più. E allora è più difficile fingere che non sia successo niente: quel bersaglio ispira tenerezza e la tenerezza è una brutta bestia se si infila tra le maglie di una meccanica repressiva. Ecco: allora si può cercare di dare qualcosa al pubblico avvelenato dalla tenerezza, magari cercando le «mele marce», i responsabili della violazione sventurata di un codice non scritto ma che sappiamo a memoria e che disgraziatamente è venuto a galla. Questo è il vero errore. Insomma, conviene porgere qualche responsabile del pestaggio mortale: sarà sgradevole ma va fatto. Così come andrebbe fatto che ogni cittadino italiano a partire dal presidente del Consiglio fosse prelevato di tanto in tanto dalla sua casa e trasferito per qualche tempo in una cella del nostro sistema di sicurezza. Non per provare il peso della punizione, ma per sapere di che pasta è fatta la sua civiltà. Diceva Voltaire a un amico che voleva proporgli di trasferirsi, fuggendo, a Brema: «...perché io possa capire la civiltà e la democrazia che si respira nel tuo paese, parlami delle vostre carceri». E tuttavia, nessuno può oggi nascondersi l’evidenza: l’infamia, l’inciviltà del carcerare. La segregazione in un luogo che normalmente senza annaspare in casi limite insegna la violenza, la furbizia, la falsità, un vademecum esattamente contrario al senso di una positiva educazione alla vita. Un breviario che viene consegnato in prima battuta ai poveri diavoli che fanno uso di droghe e che, sulla base di una disgraziata legge di questa destra, intasano oggi le celle italiane. Ingiustamente. Lì impareranno che se fossero stati truffatori non sarebbero mai stati privati della libertà.
l’Unità 7.11.09
L’Associazione Mazziniana e il crocefisso
di Stefano Covello
La presidenza nazionale dell'Associazione Mazziniana Italiana ha diramato la seguente nota: «I mazziniani italiani invitano la classe politica a considerare la recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sulla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche come uno spunto di riflessione. Piuttosto che denunciare complotti ideologici e lamentare la sconfessione delle radici cristiane, occorrerebbe doman-
darsi come mai l'Italia sia sempre più lontana dal resto dell'Europa nel campo dei diritti civili e delle relazioni tra Stato e Chiesa. Lascia perplessi la fretta del Governo di ricorrere contro la decisione di Strasburgo, prima ancora di una adeguata valutazione delle motivazioni, e prima di una reazione ufficiale della Santa Sede. Non si può continuare ad ignorare che la società del XXI secolo deve fondarsi sulla laicità, il pluralismo e il reciproco rispetto. Nella scuola, in particolare, è opportuno rimettere in discussione tutti i residui del confessionalismo, inclusa l’ora di religione: come scongiurare altrimenti il pericolo che l'odierna realtà multietnica si traduca in una nazione ''a spicchi'', in cui ciascuna confessione faccia parte per se stessa in un clima di odio e di avversione? L'appello dei mazziniani è che la scuola educhi alla coscienza religiosa e non faccia catechismo».
l’Unità 7.11.09
I furbetti del crocefisso
di Moni Ovadia
La vicenda della “ostensione” dei crocefissi nelle scuole e la sentenza della Corte Suprema del Parlamento Europeo ha dato la stura all’ennesima cagnara dei soliti politici che hanno imbracciato la spada del crociato per correre in difesa della presenza dei crocefissi nelle aule scolastiche. Povero crocefisso usato come libretto di assegni per comprare qualche piccola rendita di potere. Del vero merito della questione, la laicità dell’Europa, accettata come valore fondante da tutte le serie democrazie del vecchio continente in Italia non gliene frega niente quasi a nessuno. La laicità da noi è stata condannata a morte per il reato capitale di laicismo, reato immaginario inventato dai chierici dell’integralismo nostrano. La Corte Suprema del Parlamento Europeo ha fatto semplicemente la sua parte perché non è tenuta a conformarsi alle anomalie di una classe politica di piccolo cabotaggio incistita solo nei propri piccoli interessi di potere e che non ha rispetto per il ruolo delle istituzioni preposte a tutelare i principi universali su cui l’Unione Europea si fonda. Personalmente non ho niente contro il crocefisso, sono cresciuto fra crocefissi alle pareti di centinaia di luoghi in cui sono stato, ho lavorato e ho vissuto e non mi hanno certo condizionato. Per quanto mi riguarda possono rimanere dove stanno. Del resto, in un Paese in cui ci sono migliaia di chiese e chiesette, di campanili possenti e svettanti o intimi e modesti, anche se i crocefissi venissero rimossi la situazione della “ostensione” non cambierebbe granché. Ma è grave invece il fatto che i crociati di casa nostra invece di preoccuparsi dei valori cristiani universali si abbandonino ad una invereconda cagnara su questioni di lana caprina.❖
Repubblica 7.11.09
I nunzi in giro per le capitali. Il cardinal Bertone: "Faremo tutti i passi per reagire al provvedimento Ue"
Vaticano, pressing sull´Europa "I governi rifiutino quella sentenza"
di Orazio La Rocca
CITTÀ DEL VATICANO - E intanto i nunzi apostolici vanno all´attacco in tutta Europa per convincere i governi dell´Unione a respingere al mittente la sentenza del Tribunale dei diritti umani di Strasburgo. Mentre le polemiche sul crocifisso non accennano a diminuire, gli ambasciatori del Papa da qualche giorno sono stati riservatamente invitati a far presente presso le cancellerie europee «il disappunto, l´amarezza e la delusione» con cui Oltretevere è stata accolta la «bocciatura» del crocifisso nelle scuole italiane. Nessun comunicato ufficiale, nessun ordine scritto, ma solo indicazioni verbali trasmesse attraverso i canali diplomatici pontifici, lungo i quali i collaboratori di papa Ratzinger hanno incaricato i nunzi di spiegare ai governanti europei le ragioni per cui il Vaticano intende fare tutto il possibile per «difendere» la presenza del crocifisso nei luoghi pubblici. Una battaglia - ragionano in Segreteria di Stato - che «per ora» riguarda solo le scuole pubbliche d´Italia, ma che non è escluso che si possa allargare a macchia d´olio in altri ambiti pubblici e in tutto il vecchio continente.
Il cardinale segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone già aveva indirettamente fatto capire qualche cosa del genere mercoledì scorso quando, parlando all´ospedale Bambino Gesù di Roma, aveva annunciato che «la Santa Sede farà i passi che le spettano per stimolare i cristiani a reagire alla sentenza». Pur precisando che «non possiamo interferire nelle decisioni della Corte europea», il porporato aveva auspicato che «anche altri governi facciano ricorso contro la sentenza il governo italiano... «. L´input ai nunzi sembra partito proprio dall´»auspicio» esternato dal cardinal Bertone, anche se nei Sacri Palazzi ci si limita a far notare solo che «è prassi consolidata che la Santa Sede attraverso i nunzi apostolici apostolici informi gli altri governi delle questioni che riguardano la Chiesa... come appunto potrebbe essere il caso esploso in seguito alla sentenza sui crocifissi nelle scuole italiane».
Fulmini sul pronunciamento di Strasburgo arrivano anche da altri due cardinali, il presidente della Cei Angelo Bagnasco - che parla di «sentenza fortemente ideologica, non certamente condivisa dal sentire comune», e Stanislao Dziwicsz, storico segretario di papa Wojtyla. Entrambi si dicono «perplessi per il futuro dell´Europa» perché così - spiega Bagnasco a un convegno su minori e tv a Genova dove è arcivescovo - «la gente si allontanerà dal vecchio continente». Mentre Dziwicsz, in un commento fatto ieri dalla sua diocesi di Cracovia (Polonia), teme che «quanto stabilito da Strasburgo possa mettere a rischio anche la libertà religiosa in Europa, perché così facendo si tenta di eliminare il cristianesimo dalla vita pubblica». Severo, infine, il giudizio del quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, che in un editoriale a firma di Domenico Delle Foglie accusa i giudici di Strasburgo di essere «professionisti di cattiva laicità» e di «peccato di presunzione».
Repubblica 7.11.09
Crocifisso, il governo fa ricorso alla Ue
Berlusconi: resteranno nelle aule, la decisione di Strasburgo non è vincolante
Di Pietro: "Giusto tentare di sospendere l´esecuzione del pronunciamento"
di Marina Cavalieri
ROMA - Continua la battaglia del governo in difesa del crocifisso. «La decisione di Strasburgo è assolutamente non rispettosa della realtà per un paese cattolico come il nostro. Come ebbe a dire Benedetto Croce, il nostro paese non può non dirsi cristiano e il Cdm ha deciso di ricorrere immediatamente contro questa sentenza».
L´annuncio è stato fatto da Berlusconi al termine del consiglio dei ministri, in una conferenza stampa durante la quale ha però precisato che non sarà fatto nessun referendum: «Penso non ci sia nessuna necessità, la nostra storia è quella cristiana, anche un ateo non può che essere d´accordo».
Per la Corte europea dei diritti dell´uomo la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche è «una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni». Una sentenza che ha scatenato fortissime polemiche in Italia, nel mondo politico molti i contrari, pochi quelli schierati a favore. E nessuna guerra tra destra e sinistra. Il governo comunque liquida la sentenza come senza fondamento. «Non è vincolante», ha detto Berlusconi. E nessun crocifisso sarà staccato dalle pareti.
Nella guerra per il crocefisso il governo ha una linea «ferma e decisa», ha detto Calderoli e si schierano accanto al premier i ministri. «La sentenza di Strasburgo resterà in ogni caso una grida manzoniana», prevede Ignazio La Russa, che ha annunciato che nei prossimi giorni verrà avviata una raccolta di firme a sostegno del ricorso del governo. Danno il loro sostegno anche le ministre Gelmini e Meloni.
Per l´opposizione il crocifisso non va escluso dalle aule anche se il governo sbaglia nel tipo di difesa. «La nostra interpellanza al presidente del Consiglio», spiega Vannino Chiti vicepresidente del Senato, «è per dire al governo che le motivazioni dell´Italia davanti alla Corte non possono essere sostenute, così come è stato fatto, su argomenti di opportunità politica. Noi vorremmo che ci fosse un confronto serio in Parlamento e che si presenti un ricorso che abbia il sostegno dell´insieme delle forze politiche». Antonio Di Pietro, leader dell´Italia dei Valori, definisce «senza capo né coda» la pronuncia. «Qualora giuridicamente ci sia la possibilità di sospendere l´esecutività della sentenza ben venga. La figura di Cristo in croce è un segno di pace, valido per chi pratica qualsiasi religione o è ateo».
Se in Parlamento non esistono sostanziali spaccature, nelle strade e nelle aule c´è chi alza barricate. Il sindaco di Ostra Vetere nelle Marche ha stabilito una sanzione di 500 euro a chi toglie il crocifisso dalle aule. Mentre l´ex ministro Ferrero di Rifondazione comunista commenta: «Invece del ricorso il governo pensi al taglio dei supplenti».
l’Unità 7.11.09
Pd, Bersani vuole un «bambino nuovo» Letta il suo vice, oggi l’Assemblea
I mille scelti attraverso le primarie si riuniscono a Roma. Verrà votata la Direzione del partito. Venti nomi saranno scelti dal segretario. Franceschini e Finocchiaro capigruppo. Ventura, Calipari, Zanda e Casson i vice.
di Simone Collini
Presidenza. Alla Bindi saranno affiancati come vice Marina Sereni e Ivan Scalfarotto
Deciso anche il tesoriere: sarà Antonio Misiani. Fioroni vuole un incarico
È la giornata di Pier Luigi Bersani, della proclamazione ufficiale del nuovo segretario, del discorso che segna il «Pd che riparte e si pone come alternativa» al governo Berlusconi. E poi dei mille scelti attraverso le primarie, dell’Assemblea nazionale del partito che si riunisce ed elegge i 120 membri della Direzione (più quelli di diritto e i 20 nominati dal segretario), della “Canzone popolare” che torna a farsi sentire («mi sarebbe piaciuto metterla anche da candidato ma ho pensato che non fosse giusto usarla come canzone di una mozione, l’Ulivo è di tutti»). È la giornata dell’elezione a presidente del Pd di Rosy Bindi, di un deputato bergamasco finora pressoché sconosciuto come Antonio Misiani che sarà eletto tesoriere, di Enrico Letta che sarà vicesegretario e forse anche coordinatore della segreteria, anche se c’è Beppe Fioroni che scalpita per avere uno dei due incarichi. È la giornata di Dario Franceschini che non interviene perché non è il caso di fare oggi da «contraltare», di Ignazio Marino che interviene perché Bersani l’ha chiamato e gli ha detto che gli farebbe piacere, di Massimo D’Alema che starà solo ad ascoltare perché c’è troppa Europa nei suoi pensieri (ieri è andato alla sede del Pd e con il segretario ha parlato dell’incarico di “Mister Pesc”, oltre che del futuro del partito).
IL DISCORSO DI BERSANI
Ai mille riuniti alla Nuova Fiera di Roma Bersani prometterà «un bambino nuovo»: «Il mio Pd guarda avanti». Un modo per mettere in chiaro che non ha nessuna intenzione di «tornare indietro», di guardare alla socialdemocrazia, perché quello che serve oggi è «un partito popolare dei tempi moderni». Un modo per rispondere senza citarli agli «ingenerosi», ai Rutelli, ai Cacciari, ai Calearo che hanno detto addio senza aspettare le prime mosse, a quelli che credono in una separazione dei compiti: «Io non credo nel centro-sinistra, col trattino, partiti di centro che puntano ai consensi dei moderati e partiti di sinistra che pensano al resto. Il Pd non è una coperta che tiri di qua o di là, avrà capacità attrattiva in tutti gli ambiti».
Il nuovo leader del Pd parlerà della necessità di «recuperare il rapporto con i ceti popolari e produttivi», metterà al centro le «politiche industriali e il lavoro», criticherà un governo che in questi mesi «non è stato in grado di mettere in campo una manovra economica per far fronte alla crisi», darà la «disponibilità per un confronto sulle riforme, giustizia inclusa, ma non sui problemi personali del premier», anche avanzando delle proposte sul terreno istituzionale (in primis, superamento del bicameralismo perfetto e riduzione del numero dei parlamentari), parlerà di politica estera, Europa e anche della caduta del Muro. Altro che nostalgia per il rosso, che restaurazione: «Dovunque sono andato ho cambiato quello che ho trovato», dirà. Ringrazierà tra gli altri Romano Prodi, che oggi non ci sarà ma al quale si deve l’intuizione dell’Ulivo: «Va recuperato il movimento di riscossa civica a cui diede vita».
L’ORGANIGRAMMA
Oggi si inizierà a delineare anche l’organigramma del Pd. Ad affiancare la Bindi ci saranno due vicepresidenti del Pd: Marina Sereni per l’area Franceschini e Ivan Scalfarotto per quella Marino. Vice di Franceschini, capogruppo alla Camera, saranno Michele Ventura (bersaniano) e Rosa Calipari (elettrice del senatore chirurgo). Vice di Anna Finocchiaro, riconfermata capogruppo al Senato, saranno Luigi Zanda e Felice Casson. Ci sarà una segreteria composta da giovani «che sono già in campo» e un ufficio politico con dentro tutti i big.❖
Corriere della Sera 7.11.09
«I cattolici? Sentono il Pd come loro partito»
di Virginio Rognoni
L’uscita di Rutelli dal Pd ha provocato una serie di opinioni sulle conseguenze. È stato il progetto del Pd a essere giudicato. Si è parlato del fallimento della auspicata fusione; di un partito che si modella, anche per la vittoria di Bersani, come l’ennesima riposizione dei Ds. C’è, però, un fatto che spazza via tutte le analisi: oltre tre milioni di cittadini hanno espresso la preferenza per il segretario di un partito che ritengono affidabile. È stato un voto democratico, per così dire laico. È lecita la conseguenza che Rutelli ritenga giusto puntare sul «grande centro». Può essere, e forse è così; ma qui mi sembra più conveniente osservare che sono i cattolici democratici e i popolari nel Pd a essere interpellati. Sentono questo partito come il «loro » partito? Io ritengo di sì. Non ho mai pensato che alla base del Pd vi sia una sorta di meticciato di culture. La storia dei cattolici democratici è legata, con i suoi valori, alla comprensione della laicità della politica, al gioco della libertà e al dovere della giustizia. Questa coscienza i cattolici l’hanno trovata nel Pd. L’intervento completo di Virginio Rognoni su www.corriere.it
l’Unità 7.11.09
Letta sull’Osservatore «Profonda osmosi tra Chiesa e Stato»
Tra Chiesa e Stato in Italia c'è una «profonda e feconda osmosi», «una situazione del tutto eccezionale» da cui l'Italia «sta imparando progressivamente a trarre la massima utilità»: lo scrive il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, nella presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia», curato da Pierluca Azzaro e pubblicato dalla Libreria editrice vaticana in collaborazione con l'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, anticipata ieri dall'Osservatore romano. Ancora un articolo del gentiluomo di «Sua Santità» ospitato dal quotidiano della Santa Sede ricco di riconoscimenti verso il pontificato. «Oggi si può affermare con soddisfazione scrive Letta che nella città di Roma convivono pacificamente e collaborano fruttuosamente lo Stato Italiano e la Sede apostolica».
l’Unità 7.11.09
La Cgil porta la «scuola in piazza»
«Cento piazze» per la scuola. La Cgil oggi in tutta Italia farà iniziative per sensibilizzare gli italiani sui problemi che i tagli del governo stanno comportando. Interverranno personalità della cultura e dello spettacolo.
di G. V.
In cento luoghi del paese oggi iniziativa per parlare di quel che si fa negli istituti scolastici
E di quanto pesino i tagli voluti dal governo. A Roma nel pomeriggio in piazza Navona
Oggi la CGIL sarà in piazza per la seconda giornata nazionale della tutela individuale: "100 piazze per la Conoscenza". Con questa iniziativa la Federazione Lavoratori della Conoscenza Cgil intende sensibilizzare i cittadini su cosa fanno quotidia-
namente i ricercatori precari, i docenti "fannulloni", i "bidelli che non puliscono", gli studenti a cui stanno togliendo il futuro. Un appuntamento che vedrà anche la partecipazione di personalità del mondo della cultura e dello spettacolo e, ovviamente, non mancherà la musica ad accompagnare le nostre iniziative. Un pomeriggio con lezioni all'aperto, esperimenti, musica e cultura: i lavoratori della conoscenza informano, divertono e coinvolgono per mostrare quanto valgono ed esigere il rispetto che meritano.
Le iniziative nelle piazze più importanti di tutto il Paese. A Roma, in Piazza Navona, a partire dalle ore 15.00 un ricco programma di avvenimenti. In molte altre città le iniziative della FLC si accompagneranno a quella della CGIL. In Veneto manifestazione regionale a Treviso in Piazza dei Signori ore 11,00 interviene Guglielmo Epifani, segretario generale CGIL. Tante le iniziative previste in Toscana. A Firenze il sistema dei servizi CGIL sarà in piazza Gino Bartali dalle 9:00 alle ore 13:00, mentre a partire dalle 14, saranno i lavoratori della scuola, dell'università e della ricerca, a parlare alla città. A Pisa, alle ore 9, partenza del corteo da piazza Vittorio Emanuele II che si concluderà con un comizio in Piazza Martiri della libertà. Fra gli interventi, previsto quello di Enrico Panini, segreterio nazionale CGIL. L'appuntamento con la FLC Campania è a Napoli, in Piazza Dante a partire dalle ore 10.00 e fino alle 21. In Sicilia: «Diritti & Cultura in piazza», è il titolo dell'iniziativa che si svolgerà a partire dalle ore 9.00 e fino alle 20.00 a Palermo in Piazza Giuseppe Verdi (Teatro Massimo). Dalle ore 14,30 lezioni in piazza con Margherita Hack, Mary Cipolla, Antonio Ingroia, docenti e alunni. ❖
l’Unità 7.11.09
Intervista a Carol Beebe Tarantelli
«Fort Hood, un pazzo o un terrorista. La guerra non c’entra»
La psicanalista, esperta di America: «La paura di andare a Kabul non genera massacri, verificherei la pista di un attentato modello metrò di Londra»
di Rachele Gonnelli
Il perché degli spari
«Chi soffre di stress
post traumatico è stato
a rischio, lui no. Vorrei
capire se è entrato
in un gruppo estremista»
In Italia è più facile vedere uomini che uccidono la moglie, i figli, la suocera, in America la violenza si scatena più facilmente sul vicinato, i compagni di università o i commilitoni come in questo caso». Carol Beebe Tarantelli, psicanalista, docente dell’Università La Sapienza di Roma, studia in particolare i meccanismi della violenza e della violenza politica, terrorismo incluso, sia in Italia sia in America. Sul caso di Fort Hood ha iniziato ieri mattina presto, seduta a colazione davanti ai programm tv americani, a cercare una spiegazione. O almeno a cercare di ricostruire la storia di questa tragedia.
Il killer era un ufficiale medico, pacifista, a quanto sembra. Aveva i tratti di un personaggio buono, invece... «Uno psichiatra, più di un medico. Ma credo però che sul suo personaggio ci sia ancora molta confusione. Guardando bene nelle dichiarazioni del cugino non viene mai confermato che stesse per essere inviato in Afghanistan. Aveva molta paura di andarci, ma la paura di per sé non produce stragi».
La sindrome di burnout colpisce i medici che curano i soldati con forti traumi di guerra. Si ammalano per empatia. Lo dice l’Iraq War Clinician Guide 2009.
«Naturalmente stiamo parlando in via ipotetica, nessuno di noi lo conosce o ci ha parlato. Ma no, io non credo che una traumatizzazione vicaria, cioè di ordine secondario, possa provocare una esplosione di violenza di questo tipo. Lavoro con due gruppi di donne, uno è di donne torturate e l’altro di vittime della tratta. Parlare con le prime è molto duro, quindi so cosa significa questo lavoro. Resto convinta che per arrivare a questi estremi allora doveva avere una patologia sottostante. I soldati che soffrono di disturbi da stress post traumatico o patologie simili sono stati a rischio di vita. Lui no. Anche se fosse stato mandato in Afghanistan non avrebbe combattuto. Per fare una strage così ci possono essere due motivi: una motivazione ideologica e un appoggio collettivo come nel caso di quelli che si fanno esplodere oppure una disintegrazione della personalità per cui l’uomo che non contiene più se stesso passa all’azione perchè si sente lui a rischio di morte psichica».
Allora lei propende per ipotizzare che si tratti di un terrorista. Ma non potrebbe aver covato odio per essere stato tartassato in quanto islamico? «Varie fonti hanno detto che aveva in effetti incontrato un clima di sospetto e anche dubbi sulla sua religione. Ciò può produrre una grande amarezza ma anche questa non può essere una precondizione del massacro. Altrimenti i neri americani dopo 150 anni di razzismo avrebbero dovuto sterminare metà della popolazione bianca. E poi i suoi genitori erano naturalizzati americani, lui è nato americano. Non ho gli elementi per avanzare un sospetto. Ma se fossi io a dover rendere conto del caso cercherei innanzitutto di verificare se si fosse unito a degli estremisti islamici come è stato negli attentati alla metro di Londra del 2 luglio 2005. Cercherei di escludere intanto questa pista».
Il colonnello Lee suo superiore alla Fox ha detto che aveva sperato in un ritiro delle truppe Usa da Iraq e Afghanistan e disilluso, covava ora molta rabbia.
«Inverosimile anche solo come sfondo. Si sta parlando di un soldato non di qualcuno seduto sul divano a mille miglia di distanza dai problemi logistici della guerra. Doveva sapere che ci vogliono anni anche solo per inviare rinforzi. Inoltre Obama sull’Afghanistan non ha preso ancora alcuna decisione mentre dall’Iraq sta ritirando le truppe. Dovrebbe anche qui essere completamente fuori dalla realtà, incapace di percepirla, primo sintomo della follia. Ci deve essere una faglia per produrre un terremoto, non una fenditura nella terra».
Lei studia anche gli stupratori, i serial killer. Che cosa caratterizza la violenza politica e ne differenzia i meccanismi?
«È complesso, ci sto scrivendo un saggio per The International Journal of Psychoanalysis. Gli attori della violenza politica vengono abilitati dai singoli e dai valori della loro collettività ma c’è anche qualcosa di personale. Molti in Italia condividevano l’ideologia del terrorismo ma non dedicavano la loro vita ad atti violenti. L’ideologia è la foglia di fico che giustifica desideri violenti che altrimenti non si esprimerebbero». ❖
Repubblica 7.11.09
Il disagio delle truppe dopo 8 anni di guerre: già 134 suicidi nel 2009
Stress, violenza, ansia quel male oscuro che divora i Marines
di Francesca Cafarri
La grande famiglia è malata. Non serviva la strage di Fort Hood a scoprirlo, ma ora nasconderlo è diventato impossibile. Unità, solidarietà, coraggio: sono gli slogan delle Forze armate americane. Li vedi stampati ovunque, girando nelle caserme, negli accampamenti e negli ospedali. Siamo una "famiglia" e ci prendiamo cura di ogni membro, è il messaggio. Una parola sola aleggia costante nell´aria ma non compare mai: stress. O, nella sua forma più corretta, PTSD post-traumatic stress disorder.
Il male oscuro dei militari Usa, che il maggiore Nidal Malik Hasan aveva guardato in faccia per anni come medico al Walter Reed Hospital e che temeva l´aggredisse in Afghanistan, è racchiuso in queste quattro lettere: tradotte nella vita di tutti i giorni significano incubi, difficoltà di riadattamento a un´esistenza normale, violenza fisica, depressione, alcolismo. Come il male abbia potuto aggredire "la famiglia" è facile capirlo: due guerre che vanno avanti da otto anni ormai con turni sul terreno di 12 mesi che per un lungo periodo sono diventati di 15, hanno piegato le forze armate più potenti del mondo. Lo scorso anno 140 soldati si sono suicidati, il numero più alto mai registrato. Che sarà con tutta probabilità superato nel 2009: fra gennaio e ottobre ci sono già stati 134 suicidi. E non è questa l´unica statistica a evidenziare il disagio: il 35% di quelli che tornano da Iraq e Afghanistan, dicono gli esperti, soffre o soffrirà di PTSD. Il numero delle persone che hanno mostrato sintomi di disagio è cresciuto del 50% nel 2008 rispetto all´anno precedente. I tassi di divorzio sono in costante crescita, così come quelli sugli ex militari homeless e senza lavoro. E tutti i problemi aumentano proporzionalmente alla lunghezza dello schieramento sul terreno.
Il Pentagono ha cercato negli ultimi mesi di correre ai ripari: sono stati aumentati i finanziamenti, potenziati i servizi di assistenza e introdotto un test obbligatorio per i militari di rientro dai teatri di guerra. Inoltre il capo supremo delle Forze armate americane, generale Mike Mullen, ha invitato a più riprese i suoi uomini a non vergognarsi e a farsi curare senza temere conseguenze. Basterà? L´unica soluzione reale che gli esperti raccomandano è proprio quella che lo Stato maggiore non può scegliere in questo momento: tempi di permanenza a casa più lunghi per dare modo ai militari di recuperare il loro equilibrio. Un´utopia o quasi: secondo un recente studio dell´Institute for the Study of war, un think tank di Washington, solo tre brigate dell´esercito e una dei Marines (fra gli 11mila e i 15mila uomini e donne) potrebbero in questo momento mandare sul terreno soldati che sono rimasti a casa 12 mesi fra uno schieramento e l´altro. Un dato che Obama non può non tenere presente nel momento in cui deve decidere se inviare nuove truppe in Afghanistan.
Repubblica 7.11.09
L´integrazione impossibile del maggiore che ha fatto strage nella base Usa
Le due anime del maggiore Hasan tra il Corano e il sogno americano
di Vittorio Zucconi
Il maggiore della US Army dottor Nidal Malik Hasan cominciò a morire la mattina dell´11 settembre 2001, quando da un televisione nell´ospedale della Marina a Washington dove studiava psichiatria, guardò due aerei conficcarsi dentro due grattacieli a Manhattan e spezzare per sempre la sua identità di americano e di arabo.
Il suo corpo non riportò neppure un graffio, e ancora oggi resiste, affidato alla misericordia di respiratori e tubi. Fu la sua anima di palestinese nato in America da profughi fuggiti dalle rive del Giordano nel 1967, di musulmano e cittadino, di giovane uomo cresciuto tra la devozione al Corano e la devozione al sogno americano, che cominciò a morire, quando scoprì di essere diventato il nemico più temuto dell´uniforme che indossava e della nazione che aveva giurato di difendere. Non per qualche cosa che avesse fatto, ma soltanto perché si chiamava Nidal, che significa "la lotta", come Abu Nidal, il superterrorista; perché gli arabi sono il male nello «scontro di civiltà» che ha rimpiazzato la «minaccia rossa»; e perché ogni venerdì, vestendo ancora l´uniforme, pregava in una moschea di Silver Spring, il sobborgo più multietnico di Washington.
La storia della sua vita fa dunque più spavento della biografia di un fanatico, perché la sua sembrava una storia perfetta di integrazione e di assimilazione voluta, avvenuta e compiuta. Suo padre era fuggito dal giardino di ulivi che possedeva e coltivava nella Palestina della Bibbia e dei Vangeli, quando Israele l´aveva strappata alla Giordania nel 1967, per sistemarsi nel piccolo mondo dei profughi arabi che vivono di negozietti e di voglia di farcela. Nidal, "la lotta", era stato spinto sulla strada maestra che gli immigrati più intelligenti e più laboriosi imboccano, quella dello studio, con la scorciatoia e i soldi dei militari sempre affamati di reclute. Aveva preso una laurea in biologia al Politecnico della Virginia, quello stesso dove nel 2007 uno studente coreano, Seung-Hui Cho, aveva fatto fuori 32 fra studente e professori. Perché follia, armi automatiche e odio non sono monopolio di nessun popolo e di nessuna religione.
Da soldato semplice, Nidal era divenuto cadetto nel corso allievi ufficiali che le università offrono. Da sottotenente era stato accettato alla facoltà di Medicina dell´Ospedale navale di Bethesda, che è un altro sobborgo di Washington con un nome mistico, Bethesda, la località della piscina miracolosa. Nei formulari in triplice copia che le burocrazie militari divorano non aveva mai indicato una preferenza religiosa né ai compagni, poi camerati, poi colleghi nel reparto di psichiatria specializzata nei traumi da grandi disastri, aveva mai dato l´impressione di essere un credente devoto. Semmai uno psichiatra mediocre, sul quale i superiori dovevano periodicamente intervenire per guidarlo nei rapporti coi pazienti. Alla domanda sulla nazionalità, indicava sempre «palestinese», anche se era nato in Virginia. Era l´unico segno che dentro di lui il sogno americano non aveva cancellato l´incubo palestinese, convivendoci soltanto.
Fino a quel mattino di settembre, e a quegli aerei che si abbatterono sulla fragilità di tutte le doppie nature, delle doppie nazionalità, delle doppie culture che dormono sotto le copertine del passaporti. Il suo nome divenne oggetto di sospetti, di battute, di allusioni che lui inghiottiva perché, ci informa per coprirsi il didietro la US Army, non fece mai denunce per «molestie», sapendo bene che negli eserciti è spesso il querelante a rovinarsi la carriera, con la fama di "rompicoglioni".
La sua carriera avanzava. Tenente, capitano, poi maggiore, già un grado superiore, come avanzava la guerra fra la sua anima americana e quella palestinese, fra la sua nazione, gli Usa, e la sua natura, arabo-palestinese. Se fosse rimasto a occuparsi di vittime di catastrofi naturali, non avremmo mai conosciuto il suo nome. Ma nella Forze armate americane, dove le guerre senza fine in Iraq e Afghanistan stanno logorando nervi e cervelli anche dei più duri e sicuri, i suoi pazienti erano quei reduci che a decine di migliaia non sanno vivere con gli spettri di quello che hanno visto, che hanno fatto, che hanno subito.
«Ci raccontava degli orrori e degli incubi che i suoi soldati gli rovesciavano addosso», spiega ora la zia di Nidal, Noel Hasan. Parlava apertamente contro le due guerre, soprattutto quella più insensata, l´invasione dell´Iraq senza reali motivi, protestava con i colleghi, aveva votato e sperato in Obama per un ritiro rapido, cominciava ad affacciarsi ai siti internet dell´Islam radicale, sollevando l´attenzione delle autorità che lo sorvegliavano, ma senza agire. «Un soldato che si butta su una bomba a mano per salvare i compagni» gli sembrava paragonabile al kamikaze che si fa esplodere per difendere la propria gente, massacrando innocenti.
Quando gli fu detto che presto avrebbe dovuto raggiungere il Primo Cavalleria in Iraq, la sua anima, morta otto anni or sono, finì di decomporsi. «No, in Iraq no, meglio l´Afghanistan», implorava, ma con la Cavalleria non si negozia. Ora si dice che gridasse Allah akhbar mentre sparava sul mucchio a Fort Hood. «L´orrore, troppo orrore», aveva detto poco prima Nidal, l´uomo rimasto due volte senza identità, senza quella natale che non esiste, senza quella adottiva che lo aveva, nella sua testa, tradito. Se il suo Dio è davvero misericordioso, come lui crede, spegnerà anche il suo corpo, dopo avere lasciato uccidere la sua anima.
l’Unità 7.11.09
Intervista a Saeber Erekat
«Abu Mazen lascia per protesta
Israele vuole la nostra resa»
Il capo negoziatore dell’Anp: le nuove colonie in Cisgiordania rendono impossibile la nascita dello stato di Palestina, ne fanno un bantustan»
di Umberto De Giovannangeli
Così si affossa la pace
«Netanyahu non riconosce
nessuno dei nostri diritti
Le sue pregiudiziali
rendono impossibile riaprire
il tavolo del negoziato»
Chiacchiere e fatti
«Se Usa e Europa vogliono
che il nostro presidente
torni indietro, devono
fermare la colonizzazione
nei Territori»
La decisione del presidente Abbas è l’esatto opposto di una fuga dalle proprie responsabilità. Con la sua scelta, il presidente Abbas ha lanciato al mondo un grido d’allarme: Israele sta affossando ogni speranza di pace. Ed è inutile, ipocrita da parte della comunità internazionale lanciare appelli al dialogo e sostenere a parole la leadership di Abbas, quando nei fatti si è succubi, se non complici, della politica dei fatti compiuti perseguita da Israele».
A parlare è uno dei dirigenti più autorevoli in campo palestinese: Saeber Erekat, capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), il più stretto consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen).
Erekat è stato a fianco di Abu Mazen nella lunga notte che ha portato il rais palestinese ad annunciare di non volersi ricandidare alla presidenza dell’Anp nelle elezioni fissate per il 24 gennaio 2010.
Il mondo s’interroga sulla decisione di Abu Mazen. Lei che è stato vicino al rais nei momenti cruciali, può spiegarne le ragioni?
«Il presidente Abbas ha messo tutti di fronte ad una realtà drammatica, che in molti fingono di non vedere...».
E quale sarebbe questa realtà amara? «L’impotenza della comunità internazionale, le parole mai seguite da atti conseguenti. A parole tutti, dal presidente Obama ai leader europei, ribadiscono il loro sostegno ad un negoziato che porti ad un accordo globale fra Israele e Anp; tutti, a parole, premono su Israele perché ponga fine alla colonizzazione dei territori occupati. Tutti, a parole, si dicono sostenitori del principio “due popoli, due Stati”, A parole...».
E nei fatti?
«Nei fatti Israele continua ad avere mano libera nel portare avanti la politica dei fatti compiuti». Ma il premier israeliano, Benjamin Netanyahu ripete di essere pronto a riaprire da subito il tavolo negoziale.
«Netanyahu meriterebbe l’Oscar dell’ambiguità. Netanyahu ha imposto al presidente Abbas un diktat che lui spaccia per disponibilità, dichiarando che Gerusalemme unificata resterà l'eterna capitale di Israele, che la questione dei profughi (palestinesi) non sarà discussa, che il nostro Stato sarà smilitarizzato, che dovremo riconoscere lo Stato ebraico, che i confini (dello Stato palestinese) non saranno quelli del 1967 (antecedenti il conflitto arabo-israeliano e che lo spazio aereo palestinese resterà sotto il controllo di Israele". E questo sarebbe voler negoziare senza pregiudiziali?».
Lei è stato tra i protagonisti delle diverse fasi dei negoziato israelo-palestinesi. La conosciamo come un dirigente abile, prudente nelle sue esternazioni. Eppure, qualche giorno fa, una sua affermazione ha fatto il giro del mondo: “È forse giunta l’ora che il presidente Abbas dica la verità al suo popolo...”. Qual è questa verità?
«La verità è che con la continuazione delle attività israeliane di insediamento nella Cisgiordania occupata la soluzione di due Stati non è più un'opzione praticabile».
Ma quale alternativa resterebbe in campo?
«L’alternativa rimasta ai palestinesi è di riportare la loro attenzione alla soluzione di un solo Stato, in cui musulmani, cristiani ed ebrei possano vivere su basi di uguaglianza. Per noi questo e' molto serio. È il momento della verità. In passato abbiamo commesso un grave errore nel non legare la nostra disponibilità a negoziare con il blocco degli insediamenti da parte israeliana. Ora basta».
Ma Israele non prenderà mai in considerazione l’idea di uno Stato binazionale che metterebbe fine alla propria identità nazionale ebraica. «E allora dicano chiaramente che il loro intento è di realizzare un bantustan palestinese spacciandolo per Stato. E il mondo si esprima su questo. Vogliono l’apartheid in Palestina? E si pretende che il presidente Abbas avalli questo scempio?».
Gli Usa, le cancellerie europee, i leader arabi moderati chiedono al presidente Abbas di tornare sui suoi passi.
«C’è un unico modo per convincerlo: dimostrare con i fatti che si vuole imprimere una svolta in Medio Oriente, agendo su Israele perché ponga fine alla colonizzazione dei territori occupati. Il tempo delle chiacchiere è finito». Di fronte all’annuncio di Abu Mazen, le autorità israeliane si sono trincerate dietro “è un fatto interno ai palestinesi”.
«In questi anni, dal dopo Rabin, Israele ha di fatto operato per indebolire, delegittimare la controparte palestinese. Negoziare significa riconoscere i diritti dell’altro, significa rispettare la legalità internazionale. Significa abbandonare una logica militarista per cui la pace è la ratifica dei rapporti di forza imposti al nemico. Questa non è pace. È una resa. Che Abu Mazen non firmerà mai». ❖
l’Unità 7.11.09
Piantiamo la democrazia
Ben Jelloun: L’idea di Mediterraneo è un’opportunità per sradicare dittatura e totalitarismo
intervista di Maria Serena Palieri
sÈpalieri@unita.it natoaFessessantacinque anni fa ma da trentotto vive in Francia. Tahar Ben Jelloun di cui appare in queste settimane per le Edizioni del Leone l’antologia di versi Doppio esilio ha ricevuto ieri a Treviso il Premio Mediterraneo di Poesia. Un riconoscimento che, dalla «a» di Albania alla «t» di Turchia, seleziona l’opera di scrittori nati su tutte le sponde del «mare nostrum». Ecco il nostro colloquio con l’autore di romanzi come Creatura di sabbia, raccolte poetiche come Stelle velate, ma anche d’una saggistica su temi roventi, come razzismo e Islam.
Lei ha trascorso da giovane molti mesi in un campo di disciplina dell’Esercito. Ma, quando ha lasciato il Marocco, non fu per ragioni direttamente politiche. Quale significato dà, allora, per ciò che la concerne, alla parola «esilio»?
«È una forma di fuga; cerchi di salvarti la vita o almeno di viverla in condizioni umanamente accettabili. Nel 1971 in Marocco vigeva lo “stato di eccezione”: niente libertà, niente democrazia, lo Stato era uno Stato poliziesco e gli intellettuali sotto controllo, alcuni torturati e incarcerati. Quando ho avuto l’opportunità di abbandonarlo per la Francia non ho esitato. Fu una liberazione, soprattutto perché sapevo di cosa fossero capaci i militari, avendoli subiti per diciotto mesi».
Uno scrittore mediterraneo Tahar Ben Jelloun, in Italia per il Premio Mediterraneo Poesia e per il Med-Film
Lei è in Italia in questi giorni per il Premio Mediterraneo, presiede la giuria del Festival del cinema mediterraneo e poi sarà a Marsiglia per un incontro sulla cultura mediterranea. È un’enfasi, questa sulla cultura mediterranea, che produce frutti?
«Il Mediterraneo ormai è una specie di gadget per chi organizza eventi! Ma resta importante parlarne, celebrarlo, spiegarlo. Per me è una visione del mondo, un umanesimo particolare che dona virtù a uomini e donne. La poesia è per sua essenza mediterranea, perché parla del mare, del cielo, della solitudine dell’anima, della bellezza e del fato. Dice, di quest’entità, le contraddizioni. Bisogna fare del Mediterraneo un’opportunità per piantare la democrazia nei paesi mediterranei che ancora non la hanno. Il Mediterraneo deve essere allergico a dittatura e totalitarismo». Un suo connazionale, lo scrittore
Mohammed Bennis, ci diceva di recente che l’idea francese (sarkoziana) di «unione mediterranea» è neocolonialista. Concorda?
«Potrebbe essere una buona idea a condizione che non si compia con capi di Stato che si fanno “eleggere” col 90% dei voti! Così è un’unione impossibile, contronatura, non è neocoloniale, è irrealizzabile. Prima, bisogna bonificare la situazione in quei paesi dove gli oppositori vengono uccisi e si organizzano carnevalate elettorali. Bisogna rompere con quei paesi».
Il suo pamphlet «Il razzismo spiegato a mia figlia» è stato tradotto in 25 lingue, esperanto compreso. Vuol dire che il razzismo è un problema universale? E come può spiegarlo a un Paese, l’Italia, che il Ku Klux Kklan, notizia fresca, ha scelto come luogo ideale per la sua prima «filiale» all’estero?
«Il razzismo è universale. S’incolla alla pelle, che tu sia africano, asiatico, europeo, arabo, musulmano, ebreo, cattolico... E purtroppo non è una moda che passa, è vecchio come il mondo. Nessuna società al mondo è al riparo dalla deriva razzista. L’Italia ha dimenticato che i suoi stessi cittadini hanno subito il razzismo. Così oggi apre la porta all’intolleranza e confonde immigrazione e clandestinità. I politici hanno sempre sfruttato le paure dei cittadini per conquistare il potere. Succede in Italia come in Francia, come in Olanda. Sfruttare ignoranza e paura, mischiare religione e terrorismo, confondere rom e rumeni, ecco il regno dell’ignoranza e della stupidità. Se uno straniero commette un delitto, va giudicato come qualunque altro cittadino. Se non ha fatto niente, va rispettato. È inammissibile che si nutra un pregiudizio perché una persona è straniera o di un colore diverso. È un peccato che l’Italia si abbandoni a questa pericolosa deriva».
Nel 1987 lei è stato il primo scrittore non francese a vincere il premio Goncourt. Ora, per il secondo anno, esso va a un naturalizzato, Atiq Rahimi l’anno scorso, quest’anno a Marie Ndiaye. A proposito di integrazione culturale in Francia, il Goncourt registra un dato di
fatto oppure una speranza, un po’ come il Nobel per la Pace a Barack Obama? «Il Goncourt è il premio letterario più prestigioso, in Francia. Da quando sono membro dell’Accademia, cerco di farlo aprire ad altri orizzonti, agli scrittori che scrivono in francese ma non sono nati su questo suolo. Quest’anno però Marie Ndyaie si è imposta con la forza e la potenza della sua scrittura, come Atiq l’anno scorso. Difendiamo anzitutto la letteratura, quando è di qualità, l’origine etnica non è un criterio, sennò cadremmo nel razzismo. A volte bisogna guardar altrove e scoprire delle perle. È il caso di questi due ultimi Goncourt. La stampa americana ha titolato La Francia per la prima volta assegna il premio Goncourt a una donna nera!. Ecco, questa è aneddotica. Il suo libro in realtà da settembre sta ottenendo un successo magnifico».
Dopo la poesia, dopo il saggio, Tahar Ben Jelloun ci regalerà un altro romanzo? «Sì, io scrivo ogni giorno».●
l’Unità 7.11.09
Viaggio pulp nella biblioteca senza libri
Alla Nazionale Centrale di Roma ci sono la caffetteria, il bookshop, i computer per i cataloghi, le sale di lettura, i bagni, le mostre temporanee, un corridoio che pare una pista di atterraggio... Ma i volumi no, non si vedono
di Chiara Valerio
Io ho sempre avuto una grande passione per le cartoline. Da adolescente ne avevo più di seicento appiccicate una di fianco all’altra sulle pareti della mia camera. Ovviamente molte le avevo comprate io stessa. Se vi capita di aprire una volta il sito della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma o di Firenze o della Marciana di Venezia e
vi capita poi di consultare il sito della Biblioteca Nazionale di Francia o della British Library, vi accorgerete che se gli italiani amano le cartoline, i francesi e gli inglesi amano i libri. Quello che c’è scritto dentro. Mi piacerebbe pensare che questo non significhi per forza che in Italia trattiamo libri come illustrazioni. Come scatole ornamentali. Come oggetti che stanno in un posto dove c’è Palazzo Ducale, la cupola di Brunelleschi o un cielo blu dipinto di blu. In ogni modo. La Biblioteca Nazionale Centrale di Ro-
ma sembra un giocattolo. L’edificio principale è un parallelepipedo di vetri specchiati e mattoni rossi, forse alluminio. Dietro c’è un altro parallelepipedo, bianco, e a sinistra dell’edificio principale, un anfiteatro, probabilmente di cemento. Tutto è megalitico. Il complesso sta acquattato in mezzo a pezze di verde molto più disordinate di una aiuola e quindi molto più accoglienti. Io spesso, in estate mi ci stendo a leggere. Anche se poi l’umido mi perfora le ossa del collo. E d’autunno un poco ci cammino, tra una foglia caduta e un’altra, giocando alle prime righe de I Peccatori di Peyton Place. Che più o meno suonano L’estate indiana è come una donna appassionata e incostante, che va e viene a suo piacimento in modo che non si è mai sicuri se arriverà a tutti, né per quanto tempo rimarrà. Un po’ è che io ho sempre bisogno di impalcature narrative per rendere reali i luoghi, un po’ è che quando frequenti la Nazionale di Roma, sai benissimo che puoi accedere più facilmente ai libri se li sai a memoria. Comunque. Una biblioteca si presenta anche dal suo guardaroba. Perché all’entrata, a meno che tu non sia uscito di casa con i pantaloni, una giacca e una penna, cosa che qualche volta capita, al guardaroba devi passare. D’inverno è più difficile. Non so, per esempio hai un cappotto pesante, o uno zaino con un cappello e qualche foglio in fotocopia. O un paio di blocchi di appunti. Da quando la Nazionale di Roma è stata ristrutturata, o rimodernata, o ripensata, riqualcosa insomma, il settore guardaroba sembra la parete esterna di una nave da crociera. La sigla anni ottanta di Love Boat, ma senza musica. Sportellini piccoli e grandi tutti con un oblò ovale. Forse perché chi non si ricorda il numero, si ricorda come era vestito o cosa si era portato dietro. Forse perché, come per i secchi della spazzatura, le trasparenze scoraggiano l’attacco bombe. Come se qualcuno potesse decidere di far saltare l’edificio delle sale di lettura della biblioteca. E non i libri. E se la mia questione vi pare oziosa, dovete andare a farci un giro. Perché nell’edificio principale della Nazionale di Roma, ci sono la caffetteria, il bookshop, le sale di lettura, i computer per i cataloghi online, i cataloghi cartacei, un corridoio che pare una pista di atterraggio, vetrate che paiono serre, un linoleum lucidissimo, i bagni, le mostre temporanee, ma i libri no. Giuro. Ci sono scaffali laschi e quasi smarriti in mezzo alle sale delle scienze o della letteratura e linguistica. Il grosso delle collezioni è nel palazzo bianco e altissimo che se uscite fuori per una boccata d’aria o una di fumo, incombe alle spalle dell’edificio dal quale siete appena riemersi. Quando entro alla Biblioteca Nazionale Centrale mi sento in una fabbrica di caramelle, negli antibagni americani di film sempre americani sugli stadi di baseball, oppure in una gigantesca sala d’aspetto per un viaggio spaziale. E questo perché non ho accesso alla complessa rete di rulli che portano i libri dai magazzini ai lettori, che somiglieranno di certo a una asettica ma capillare biblioteca di Alessandria. Da questo punto di vista la Biblioteca Nazionale Centrale sembrerebbe Nightmare before Christmas (tra l’altro stesse iniziali, anche se riarrangiate), quando Jack cerca di sostituirsi a Babbo Natale e vien fuori l’orrore. Un orrore molto ordinato. Tornelli, cartellonistica che incombe sulla testa a ricordarti dove girare, la caffetteria in agguato sulla destra appena passate le porte a vetri riquadrati bianchi e soprattutto le strutture fisse ma pop-up che azzurrissime ti vengono incontro mentre cerchi di capire solo e sempre dove si consultano i cataloghi. D’altronde sei lì per cercare un libro. Ma mi raccomando non cercarne più di tre alla volta. Un po’ mi distraggo sempre, un po’ ci si distrae quando intorno ti occhieggia qualsiasi cosa che maschera la funzione dell’edificio nel quale stai camminando almeno da quattro minuti senza vedere un volume, anche pubblicitario. Tranne quelli nell’acquario sulla sinistra, prima delle porte a vetri. Ma sono davvero libri o è una istallazione? Che so, la versione tridimensionale di Nighthawk di Hopper? La prima volta che sono entrata alla Nazionale di Roma era il millenovecentonovantacinque, avevo diciassette anni e menomale che mia madre aveva insistito per accompagnarmi. Perché altrimenti, al di qua della fantomatica soglia dei diciotto anni, non sarei potuta entrare. Neanche oggi potrei, se avessi diciassette anni. Sono ancora così umiliata per quel rifiuto che non mi ricordo nemmeno che libri ero andata a consultare ma solo mia madre che entra e esce dalle porte a vetri brandendo la patente tutta rosa come se tenesse lontano il male e vantandosi dei cassettini di ferro a scorrimento del catalogo cartaceo. Perché nel millenovecentonovantacinque e oggi i minorenni non possano entrare e leggere è una domanda che ancora mi gira in testa e la risposta migliore, e anche complottista e Potere Operaio, mi è sempre sembrata che questa impossibilità fosse un cascame dell’indice dei libri proibiti. In fondo se invece di proibire la lettura di certi libri proibisci i libri a certe fasce d’età, è quasi lo stesso. È un controllo, che oggi è solo di insopportabile natura economica, sull’accesso alla cultura.
ACCESSO ALLO STUDIO?
Comunque, io a Potere Operaio non mi sarei iscritta, la lotta deve essere democratica e i libri sono la cosa più democratica del mondo. Quando riesci a prenderli in mano e a leggerli. Faccenda che alla Nazionale di Roma non è sempre scontata. L’accesso ai libri non è easy quanto il restilyng, gli orari di richiesta sono stitici, il numero di volumi consultabili è irrisorio, la sera dopo le sette e mezza la biblioteca è chiusa. Se le strutture sono amichevoli e le uniche barriere abbattute sono quelle architettoniche allora siamo ancora alla sola forma. Non voglio la forma su un bisogno essenziale come l’accesso allo studio. Io so che un’altra soluzione è possibile. Perché ci ho camminato dentro. La biblioteca centrale dell’università di Cambridge è un edificio che somiglia alla Tate Modern, e infatti è dello stesso architetto, Sir Giles Gilbert Scott. Quando apro wikipedia per guardare in faccia Sir Giles leggo che ha anche disegnato le cabine del telefono rosse. Sir Giles è la Gran Bretagna quasi quanto Elisabetta II. La facciata della biblioteca è il logo che sta su ogni tessera di ingresso. Mattoni rossi e vetro, una porta girevole con le finiture di ottone. Sei piani per due corpi, nord e sud, cinque piani per due ali, est e ovest, una stanza dei libri rari, sale di lettura, otto milioni di libri. Otto milioni di libri tutti ad accesso libero, senza limitazioni di numero di volumi da poter tenere sul proprio tavolo. A questo pensavo. Che alla Nazionale di Roma di milioni di libri ce ne sono solo sei.●
Repubblica 7.11.09
Negli ultimi anni il maestro compie una rivoluzione testimoniata da una straordinaria mostra al Grand Palais
Le Bagnanti dipinte con il pennello legato alla mano
PARIGI. La straordinaria mostra su Renoir nel XX secolo s´è inaugurata al Grand Palais di Parigi (ove rimarrà fino al 4 gennaio 2010; andrà poi a Los Angeles e a Filadelfia); ampia per quanto attiene l´opera tarda di Renoir, essa documenta anche gli esiti delle sue influenze esercitate sulla generazione successiva, presentando opere del Picasso mediterraneo e post-cubista, del Matisse orientaleggiante d´anni Venti, di Maillol, di Bonnard.
Muove dagli ultimi anni dell´Ottocento, la mostra: un decennio che vedrà Renoir dedito a numerosissimi viaggi di studio, tra l´altro in Italia, a Madrid, poi a Londra, a Dresda, ad Amsterdam. Già un viaggio precedente, sempre in Italia, a Roma e Pompei in particolare, l´aveva fatto dubitare dei passi compiuti nel settimo e nell´ottavo decennio, a fianco della nuova pittura impressionista. Raffaello, allora, aveva risvegliato in lui la lezione di Ingres: così che, tornato in Francia, Renoir aveva scambiato la luce trasparente e mutevole, filtrata attraverso le chiome degli alberi, della Altalena e del Ballo al Moulin de la Galette con quella immobile e eterna delle Grandi bagnanti, il dipinto che egli aveva impiegato tre anni a licenziare, terminandolo solo nel 1887. Stava per compiere, allora, cinquant´anni, Renoir. E può dirsi che, passati pochi anni ancora, cominci da lì la sua età tarda: che durerà fino al 1919, l´anno della morte. Sarà gravida di capolavori e rimetterà questo pittore così alieno da ogni atteggiamento e pensiero d´avanguardia nel cuore dell´età moderna, in un momento in cui essa, consumati all´inizio del secolo nuovo i passi più arrischiati, avvertiva - dopo i disastri della Grande Guerra - il bisogno d´una pausa, e di un ritorno alle radici classiche dell´arte occidentale.
Questa tarda età di Renoir non era mai stata oggetto di un´indagine particolare: del che s´incarica la mostra del Grand Palais. Che s´inizia con le Giovanette al pianoforte del ‘92: un dipinto che, tramato com´è attorno allo sguardo intento che le due giovani posano sullo spartito, e sul silenzioso legame sentimentale che le stringe l´un l´altra, sembrerebbe appartenere ancora al Renoir dei decenni trascorsi. Ma l´interno in cui esse sono ritratte rinuncia a narrarsi con l´attenzione che un tempo Renoir aveva destinato ai suoi ambienti borghesi; e sveltamente egli ritrae un vaso di fiori sul pianoforte, riassumendo poi l´ampio tendaggio che chiude lo sguardo alle spalle delle fanciulle solo con un gran soffio di morbido colore. La medesima sintesi del visibile, la stessa concentrazione sul dialogo muto che intessono i protagonisti è nei dipinti immediatamente successivi: prefigurando il modo ancor più drastico che verrà, in cui i verdi e i rosa ovattati del fondo si fondono come una lava, non descrivono più nulla, e solo ribaltano sul primo piano la figura che il poco spazio contiene ormai a stento.
Così avviene nelle molte, splendide Bagnanti che Renoir immagina a partire dal 1903. La salute, ormai, è seriamente compromessa dalla malattia (un´artrite reumatoide che lo spingerà a trascorrere sempre più tempo nel clima caldo del Sud). Cammina ormai a stento, con l´aiuto del bastone; le sue dita cominciano a ripiegarsi su sé stesse, contratte in quello spasmo che lo costringerà a farsi legare il pennello alla mano, per dipingere; inventa un sistema di carrucole collegate al cavalletto che gli consentono di governare tele di grande dimensione pur immobilizzato com´è sulla sedia a rotelle. Eppure, nella pittura, trova insospettati momenti di benessere, e fin di allegrezza: quando, scelto con un´occhiata il pennello, volgeva lo sguardo sul paesaggio, o più spesso sulla modella e, a dispetto delle atroci sofferenze, «dipingendo si metteva a canticchiare», secondo quanto ricorderà Jean Renoir. Vanno a rendergli omaggio molti dei padri della nuova pittura: su tutti Matisse, che vede a più riprese gli ultimi quadri del vecchio pittore, «dipinti sempre più stupefacenti», fino a che la «facilità» con cui sono affrontati non lo conduce a comporre, nelle Bagnanti del 1918-´19, «i nudi più meravigliosi che siano mai stati dipinti».
Le "Bagnanti" ultime sono il termine estremo d´un processo avviato vent´anni prima. Da allora Tiziano e Rubens,, ma anche Velàzquez e Goya, avevano sostituito, per Renoir, la grazia del Settecento francese, di Boucher e Fragonard; da allora l´antico, e il museo, sono stati per lui non più canone e norma, ma dismisura e trasgressione. E la donna si farà trionfo di carne, immensa e quasi senz´ossa, «fantasma regressivo della donna tellurica archetipale», è stato detto con malevolenza. Certo «eccessiva», questa donna (come eccessive saranno le donne di Picasso dei primi anni Venti, che tanto devono a quelle di Renoir), essa pur tuttavia nasce da pensieri colmi di una seduzione che è insieme atemporale e flagrante, datata all´inizio del secolo: dalle Bagnanti di Vienna e di Filadelfia, almeno, due dei più straordinari dipinti in mostra, ove il nudo femminile occupa tutta la superficie, eludendo il fondo inessenziale - carne da toccare, veramente, come è stato scritto - mentre la fanciulla, svelata ormai d´ogni pudore, guarda intensa, gli occhi semichiusi e come intorpiditi, il pittore che la ritrae.
Corriere della Sera 7.11.09
Nizza con Matisse
Qui i pittori scoprirono il «cielo perfetto» Un giro in tram tra le opere d’avanguardia
di Stefano Montefiori
Nizza d’inverno, come Matisse. Il principe dei «Fauves» arrivò per la prima volta il giorno di Natale del 1917. La città del sole tutto l’anno gli riservò un’accoglienza d’eccezione, una tempesta di vento e pioggia talmente violenta che l’artista fu tentato di lasciare subito la stanza sul mare presa all’allora modesto Hotel du Beau Rivage. Il tempo di salutare Auguste Renoir, nella vicina Cagnes-sur-Mer, e il giorno dopo il cielo era di nuovo blu brillante. «Quando ho capito che ogni mattina avrei rivisto quella luce, non riuscivo a capacitarmi della mia fortuna». Matisse sarebbe rimasto a Nizza fino alla morte, il 3 novembre del 1954. Da pochi giorni, e fino al 18 gennaio, al Musée Matisse sulla collina di Cimiez viene esposta la collezione di immagini sull’artista scattate da grandi fotografi dell’epoca (da Hélène Adant al cineasta Friedrich Wilhelm Murnau all’agenzia URoger-Viollet): la capitale della Costa Azzurra celebra il più amato tra i tanti suoi figli adottivi. Un viaggio a Nizza d’inverno può cambiare la vita, come accadde a Matisse, o almeno divertire. La quinta città di Francia sta vivendo una fase di rinascita, simile a quella che qualche anno fa ha toccato la Marsiglia di Zidane: impantanata per decenni nell’immobilismo e nell’affarismo della dinastia dei Médecin (il sindaco Jacques Médecin fuggì in Uruguay dopo 37 anni di scandali e imbarazzanti dichiarazioni di sostegno a Le Pen e al Sudafrica dell’apartheid), oggi Nizza sta ringiovanendo. Accanto alle statue di Giuseppe Garibaldi, che qui è nato nel 1807, ecco finalmente la nuova gloria del premio Nobel per la letteratura Jean-Marie Le Clézio. Metà dei 350 mila nizzardi hanno meno di 40 anni, quasi 30 mila ragazzi studiano nel vicino polo universitario di Sophia Antipolis, la criminalità (che ancora affligge la periferia Nord) è in calo e il sindaco nizzardo Christian Estrosi, ex campione di motociclismo, cerca di fare dello stretto legame con il presidente Sarkozy una leva per lo sviluppo urbano della città: una «Grande Nizza città verde del Mediterraneo » sul modello della «Grande Parigi», con un tram che taglia in modo spettacolare la zona pedonale di Place Massena (presto arriverà una seconda linea), 900 biciclette a disposizione dei cittadini come a Parigi (e a Milano), e il progetto di un Tgv che unirà la spiaggia a Parigi in quattro ore. Un itinerario nella Nizza di Matisse, che unisca l’epoca d’oro della città con il dinamismo di questi anni, può partire dall’Hotel du Beau Rivage prima dimora dell’artista, da poco completamente rinnovato da Jean-Michel Wilmotte, per proseguire fino all’estremità dell’affollato Cours Saleya, nel cuore del Vieux Nice dei ristoranti e del mercato di fiori, frutta e verdura. Qui, al numero 1 di Place Charles Felix, al terzo e quarto piano dello splendido palazzo ocra chiamato Caïs de Pierlas, Matisse ha abitato dal 1921 al 1938 e creato tra gli altri «Il violinista alla finestra», «Tempesta a Nizza», «La siesta», «Odalisca con cofanetto rosso»; eppure non c’è neppure una targa commemorativa. La vista su Quai des Etats- Unis e sulla Promenade des Anglais è fantastica, e i più coraggiosi potrebbero chiedere una sbirciata agli inquilini (sperando nella buona sorte, perché non tutti sono prodighi di gentilezze). Proseguendo verso il porto, al numero 50 del boulevard Franck Pilatte c’è il Club Nautico da dove ogni pomeriggio Matisse partiva per fare canottaggio. Tra le decine di gallerie d’arte, da non perdere l’Atelier Soardi, al numero 8 di rue Désiré Niel. Qui nel 1930 Matisse stabilì il suo studio, dove per tre anni lavorò alla monumentale «Danza» commissionatagli dal collezionista americano Albert C. Barnes. E qui espongono oggi gli emergenti del collettivo South Art: giovedì 19 novembre vernissage di «Hypothétiques», disegni di sei artisti in mostra fino al 16 gennaio.
Unità 07.11.09
Stefano Cucchi
E così inciderete una targa per dare il suo nome a un vicolo sperduto della Capitale. Poi la toglierete. Ne parlerete ancora l'anno prossimo, quando ricorrerà l'anniversario della sua morte. Poi lo dimenticherete. Peserà sulle vostre coscienze per un po'. Poi scomparirà, leggero come una piuma, come il suo corpo martoriato. Di lui rimarranno soltanto le lacrime di chi gli ha voluto bene, macigni salati sui vostri inconsci anaffettivi.
Paolo Izzo