il manifesto Alias 12.3.16
La Spagna e noi, ottant’anni dopo
L'anniversario
del bombardamento di Barcellona potrebbe essere l'accasione per tentare
un'opera di divulgazione sulle politiche imperaliste italiane nel '900
di Alessandro Barile
A
luglio si ricorderanno gli ottant’anni dallo scoppio della Guerra
civile spagnola (17-18 luglio 1936). Nonostante sia uno degli eventi più
indagati dalla storiografia contemporanea, anche italiana, rimangono
insoluti alcuni nodi politici che dal quel conflitto generarono per il
nostro paese. La mancata resa dei conti con quell’evento, che vide gli
italiani due volte protagonisti, fa parte del nostro rimosso storico.
Parafrasando Elio Apih, la Spagna fa parte del nostro passato che non
passa, sineddoche della mancata costruzione di una coscienza nazionale
sui nostri crimini di guerra. Incagliati nel mito dell’italiano
costruttore di ospedali e dispensatore di pace, fatichiamo a percepirci
come protagonisti di una storia fatta di crimini quantomeno speculari a
quelli delle altre potenze coloniali. Manca, in Italia, un’elaborazione
del proprio ruolo storico coloniale che altrove si è invece prodotta o
quantomeno tentata. Le valide ricerche storiografiche non riescono a
rompere il muro della divulgazione, raggiungendo il grande pubblico e
sedimentando una coscienza critica collettiva. Questo importante
anniversario potrebbe essere l’occasione per tentare nuovamente un’opera
di divulgazione sulle politiche imperialiste italiane nel corso del
Novecento. Partendo, ad esempio in questi giorni, dal riconoscimento
pubblico dei crimini di guerra perpetrati dal nostro paese nel
bombardamento della città di Barcellona tra il 16 e il 18 marzo 1938.
Due volte protagonisti, dicevamo. Da un lato gli italiani, attraverso i
canali più o meno formali della militanza politica, furono interpreti
privilegiati della difesa della Repubblica. Nelle ore immediatamente
successive al golpe, le milizie del Partito comunista diedero vita al
famoso V Reggimento, diretto da Vittorio Vidali – in Spagna conosciuto
col nome di Carlos Contreras – vero e proprio embrione del futuro
esercito popolare ricostituito della Repubblica. Gli italiani furono tra
i maggiori componenti stranieri delle Brigate internazionali, cioè le
unità militari costituite (in maggioranza) da gruppi di volontari giunti
dall’estero. Circa 4.000 furono gli italiani inquadrati nella XII
Brigata internazionale definita Battaglione (e poi Brigata) Garibaldi,
guidata dal repubblicano Randolfo Pacciardi e successivamente dal
comunista Luigi Longo, che diverrà in seguito Commissario ispettore
generale delle Brigate internazionali, di fatto il dirigente più alto in
carica. Purtroppo, come Stato nazionale, fummo al contrario i
protagonisti indiscussi anche dell’attacco alla Repubblica democratica.
L’italiano prima ancora del tedesco, per molte ragioni. Per il numero
complessivo di soldati spediti ai fronti di guerra, stimato in più di
50.000 unità, più del doppio dell’alleato nazista. Per il ruolo
dirigente degli ufficiali militari, mandati per guidare le operazioni
belliche e non (solo) per assistervi da consiglieri. Per la quantità di
materiale bellico inviato, in particolare aerei da bombardamento (circa
750 pezzi), carri armati, navi da guerra e corsare, dedite cioè
all’affondamento piratesco dei mezzi – civili e militari – legati alla
Repubblica o all’Unione sovietica. Numerosi di questi aiuti rimasero
generosamente alla Spagna franchista dopo la fine della guerra,
rimarcando il rapporto di subordinazione al fascismo italiano, un
rapporto che d’altronde provocò più di qualche incomprensione con Franco
nella gestione della vicenda militare. È in tale contesto che si situa
la vicenda del bombardamento italiano di Barcellona. Già dal ’37,
secondo lo storico liberale Gabriele Ranzato, autore del prezioso volume
L’eclissi della democrazia, «l’atteggiamento e la condotta dell’Italia
si erano fatti così aggressivi e tracotanti che la pur prudente Francia
riuscì a convincere la Gran Bretagna a convocare una conferenza
internazionale per porre fine agli episodi di pirateria». Messa da parte
ogni remora nel tentativo non tanto di instaurare un regime fascista in
Spagna, ma di sottomettere politicamente il paese agli interessi
italiani, Mussolini e Ciano avviarono una «campagna di bombardamenti
senza precedenti», raggiungendo il culmine nelle giornate di marzo dove
Barcellona venne investita da molteplici ondate di incursioni aeree che
produssero conseguenze rovinose: 57 raid aerei in 41 ore, 1043 morti e
1626 feriti, tutti civili residenti nel centro cittadino, soprattutto
nel barrio gotico, nessun obiettivo militare colpito. L’ambasciatore
tedesco in Spagna, Stohrer, telegrafava così al suo Ministro degli
esteri: «Mi si informa da Barcellona che gli effetti degli attacchi
aerei compiuti qualche giorno fa su Barcellona dai bombardieri italiani
sono stati letteralmente terribili. Quasi tutti i quartieri della città
ne hanno sofferto. Non c’è indizio che si sia cercato di colpire degli
obiettivi militari». La risposta di Mussolini alle critiche
internazionali rivolte a seguito dei bombardamenti terroristi è
d’altronde nota: «lieto che gli italiani riescano a destare orrore per
la loro aggressività anziché compiacimento come mandolinisti».
Settantotto anni dopo un’operazione catalogabile come crimine di guerra,
i cittadini di Barcellona (e delle altre città, catalane e non,
parimenti bombardate, come Valencia) ancora aspettano il riconoscimento
dello Stato italiano per il ruolo criminale svolto. Se la Germania,
valutando storicamente il proprio ruolo nel bombardamento di Guernica,
ammise le proprie responsabilità con un atto parlamentare (anche se in
maniera ambigua e deficitaria, salvaguardando contestualmente «l’onore»
dell’esercito e la disciplina dei soldati), l’Italia ancora insiste
pubblicamente a celare momenti tragici della sua storia. Questo
ottantesimo anniversario potrebbe in questo senso essere più di una
semplice ricorrenza memorialistica.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 12 marzo 2016
il manifesto Alias 12.3.16
Il prestito dell’utero e la prostituzione
Verità nascoste. Nella gravidanza surrogata il fantasma del concepimento verginale è ovviamente attivo, ma nelle donne surroganti manca, di regola, la serialità dell’offerta che confermerebbe il potere condizionante del fantasma
di Sarantis Thanopulos
L’equiparazione del prestito dell’utero con la prostituzione rischia di dare una lettura semplificata a una questione complessa.
La prostituzione ha due risvolti diversi, per quanto interconnessi. Il suo sfruttamento (che crea un plusvalore per lo sfruttatore) la pone sul piano dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Quest’ultimo è espressione di uno spostamento delle relazioni di scambio dalla parità dei soggetti sul piano del desiderio alla loro ineguaglianza sul piano del bisogno materiale, che le costituisce come rapporti di potere. Più le relazioni di scambio diventano relazioni di potere, quindi di sfruttamento, più l’appagamento del desiderio diventa un miraggio e il piacere tende a essere scarica pura dell’eccitazione, sollievo più che esperienza di trasformazione sensuale, emotiva e mentale.
Lo sfruttamento dell’operaio esclude l’impiego diretto del corpo sessuale che è, invece, l’oggetto da sfruttare nel campo della prostituzione. Tuttavia, in entrambi i casi l’uso del corpo, della donna come dell’uomo, è centrato sulla sua componente maschile. La componente femminile diventa periferica fino ad essere inibita, silenziata nella prostituzione. Più la componente femminile del corpo – sciogliersi, coinvolgersi, lasciarsi andare, aprirsi- si marginalizza, più la componente maschile- concentrarsi, disciplinarsi, coordinarsi, dirigersi- si irrigidisce, perdendo la sua creatività e la sua forza espressiva. Diventa lo strumento di un agire meccanico, esecutivo. Lo sfruttamento della prostituzione illumina la natura profonda dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo: esso trae il massimo vantaggio dal totale eclissarsi del corpo femminile.
L’altro risvolto della prostituzione, la sua realizzazione come lavoro autonomo, senza padroni, mostra la velleità della pretesa di usare liberamente il proprio corpo in dissociazione dallo scambio di doni nella relazione amorosa: la donazione reciproca del proprio coinvolgimento e della propria vulnerabilità da parte degli amanti. Il sesso a pagamento fa del denaro la protesi inerte con cui si ripara la mutilazione del tessuto vivo della femminilità, che consente lo scambio di doni. Se lo sfruttamento della prostituzione spiega il meccanismo dello sfruttamento del corpo del lavoratore, la prostituzione senza sfruttatori fa capire che la mercificazione delle relazioni umane trae il suo consenso da una riparazione disumanizzante, ma percepita come salda, compatta. Questa riparazione è mediata inconsciamente dal fantasma della “madre virginale”: il permanere del corpo femminile nel commercio erotico in superficie, che garantisce la sua inaccessibilità al piacere profondo.
Nella gravidanza surrogata il fantasma del concepimento verginale è ovviamente attivo, ma nelle donne surroganti manca, di regola, la serialità dell’offerta che confermerebbe il potere condizionante del fantasma. Le motivazioni inconsce soggiacenti al prestito dell’utero vanno cercate altrove. Nella delegittimazione del desiderio di disporre pienamente della propria creatività. Nel desiderio di donare ai propri genitori la genitorialità: offrire loro un altro figlio come riparazione per il fatto di averli delusi o, nella direzione opposta, dare loro una seconda opportunità, visto che sono stati deludenti. Il compenso finanziario, che è anche una forma surrettizia di legittimazione, non sarebbe sufficiente da sé, in assenza di questo tipo di motivazioni.
Il prestito dell’utero non è prostituzione, non è vendita di eccitazione: si trova in bilico tra il mercato dei corpi, che cerca di appropriarsene, e la donazione.
Il prestito dell’utero e la prostituzione
Verità nascoste. Nella gravidanza surrogata il fantasma del concepimento verginale è ovviamente attivo, ma nelle donne surroganti manca, di regola, la serialità dell’offerta che confermerebbe il potere condizionante del fantasma
di Sarantis Thanopulos
L’equiparazione del prestito dell’utero con la prostituzione rischia di dare una lettura semplificata a una questione complessa.
La prostituzione ha due risvolti diversi, per quanto interconnessi. Il suo sfruttamento (che crea un plusvalore per lo sfruttatore) la pone sul piano dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Quest’ultimo è espressione di uno spostamento delle relazioni di scambio dalla parità dei soggetti sul piano del desiderio alla loro ineguaglianza sul piano del bisogno materiale, che le costituisce come rapporti di potere. Più le relazioni di scambio diventano relazioni di potere, quindi di sfruttamento, più l’appagamento del desiderio diventa un miraggio e il piacere tende a essere scarica pura dell’eccitazione, sollievo più che esperienza di trasformazione sensuale, emotiva e mentale.
Lo sfruttamento dell’operaio esclude l’impiego diretto del corpo sessuale che è, invece, l’oggetto da sfruttare nel campo della prostituzione. Tuttavia, in entrambi i casi l’uso del corpo, della donna come dell’uomo, è centrato sulla sua componente maschile. La componente femminile diventa periferica fino ad essere inibita, silenziata nella prostituzione. Più la componente femminile del corpo – sciogliersi, coinvolgersi, lasciarsi andare, aprirsi- si marginalizza, più la componente maschile- concentrarsi, disciplinarsi, coordinarsi, dirigersi- si irrigidisce, perdendo la sua creatività e la sua forza espressiva. Diventa lo strumento di un agire meccanico, esecutivo. Lo sfruttamento della prostituzione illumina la natura profonda dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo: esso trae il massimo vantaggio dal totale eclissarsi del corpo femminile.
L’altro risvolto della prostituzione, la sua realizzazione come lavoro autonomo, senza padroni, mostra la velleità della pretesa di usare liberamente il proprio corpo in dissociazione dallo scambio di doni nella relazione amorosa: la donazione reciproca del proprio coinvolgimento e della propria vulnerabilità da parte degli amanti. Il sesso a pagamento fa del denaro la protesi inerte con cui si ripara la mutilazione del tessuto vivo della femminilità, che consente lo scambio di doni. Se lo sfruttamento della prostituzione spiega il meccanismo dello sfruttamento del corpo del lavoratore, la prostituzione senza sfruttatori fa capire che la mercificazione delle relazioni umane trae il suo consenso da una riparazione disumanizzante, ma percepita come salda, compatta. Questa riparazione è mediata inconsciamente dal fantasma della “madre virginale”: il permanere del corpo femminile nel commercio erotico in superficie, che garantisce la sua inaccessibilità al piacere profondo.
Nella gravidanza surrogata il fantasma del concepimento verginale è ovviamente attivo, ma nelle donne surroganti manca, di regola, la serialità dell’offerta che confermerebbe il potere condizionante del fantasma. Le motivazioni inconsce soggiacenti al prestito dell’utero vanno cercate altrove. Nella delegittimazione del desiderio di disporre pienamente della propria creatività. Nel desiderio di donare ai propri genitori la genitorialità: offrire loro un altro figlio come riparazione per il fatto di averli delusi o, nella direzione opposta, dare loro una seconda opportunità, visto che sono stati deludenti. Il compenso finanziario, che è anche una forma surrettizia di legittimazione, non sarebbe sufficiente da sé, in assenza di questo tipo di motivazioni.
Il prestito dell’utero non è prostituzione, non è vendita di eccitazione: si trova in bilico tra il mercato dei corpi, che cerca di appropriarsene, e la donazione.
Corriere 12.3.16
«Dagli Uffizi a Mauthausen contro gli orrori di ieri e di oggi»
Il direttore della Galleria di Firenze nel campo di sterminio per ricordare le vittime del nazismo e la miopia dell’Europa sui profughi
di Paolo Ermini
A Linz, Austria, città di Hitler, un Hitler giovane che ancora coltivava velleità artistiche, martedì prossimo 15 marzo si inaugura la mostra sui legami tra i Medici e gli Asburgo. Un pezzo importante di storia, ricostruita con opere arrivate anche dagli Uffizi. Eike Schmidt, direttore della Galleria da tre mesi e qualche giorno, ci sarà. Non sarebbe potuto mancare: «Poche ore prima, al mattino, però andrò a Mauthausen». Per lui, nato a Friburgo 47 anni fa, sarà una giornata piena di significati, a un incrocio tra passato e presente: «Il nome di Linz evoca una pagina paurosa del Novecento. E Linz chiama Mauthausen, poco lontano, dove persero la vita tanti italiani». Lì la storia tedesca e quella del nostro Paese si toccano nella loro tragicità: «Ci vado da tedesco, a rendere omaggio alla memoria, anche della città dove vivo e lavoro adesso».
Nella scelta c’è qualcosa di più di un gesto personale. L’ombra del nazismo si è allungata fino ai giorni nostri. Sono riapparsi i fili spinati, volti disperati lungo i confini, gli occhi sgranati dei più piccoli. È tornata la paura di veder morire la speranza. Davanti ai profughi la civile Mitteleuropa è tentata dal rifiuto. Dalla voglia di sbarrare le sue porte. Alla guida di uno dei più importanti musei del mondo, Schmidt non ci sta: «C’è un filo che viene da lontano e che tiene insieme gli orrori che accompagnarono la seconda guerra mondiale, le mine tedesche che ferirono Firenze, le stragi mafiose che non hanno risparmiato neppure gli Uffizi, e, ora, le case degli immigrati date alle fiamme in Germania. Quando si bruciano le case vuol dire che si è pronti a uccidere, come fecero i nazisti. E c’è il dovere di dire no, con tutta la forza che si ha. Anche con la forza della nostra arte».
Un filo comune, dunque. Ideale. Ma ce n’è uno fatto anche di pietre e mattoni. È un corridoio, però con la «c» maiuscola: il Corridoio che Vasari costruì in soli otto mesi, nel 1565, per ordine di Cosimo I. E che unisce Palazzo Vecchio, gli Uffizi, Palazzo Pitti e Boboli passando l’Arno, quasi nascosto, sopra le botteghe degli orafi del Ponte Vecchio . Un Corridoio che attraversa la città e, insieme, le stagioni della storia. Il granduca lo volle per potersi spostare liberamente, camminando sopra le teste del popolo, in totale sicurezza.
Ma sarà proprio il Corridoio, nell’agosto del 1944, dopo che tutti gli altri ponti erano stati fatti saltare, a consentire ai partigiani asserragliati nel centro, ancora in mano alle truppe del Reich, di mantenere i contatti con i partigiani dell’Oltrarno già liberato. A qualche metro dagli elmetti tedeschi, ignari. «Scene memorabili fissate per sempre in Paisà di Roberto Rossellini», ricorda Schmidt. E il Corridoio sarà di nuovo protagonista anche nel maggio del 1993, quando fu colpito dalla bomba che Cosa Nostra fece scoppiare all’Accademia dei Georgofili: quadri semidistrutti, terrore a freddo, del tutto imprevisto.
Il Corridoio ora sta al centro dei pensieri di Schmidt: «Se ne parlerà anche a Linz perché fu inaugurato proprio per festeggiare il matrimonio tra Francesco, figlio di Cosimo, e Giovanna d’Austria, una delle Asburgo entrate nella storia della Toscana». Ma il Vasariano rappresenterà, soprattutto, la priorità di Schmidt nei prossimi mesi. Il dado lui l’ha già tratto, d’accordo con il ministro Franceschini e in sintonia anche con Renzi che ne parlava da sindaco: il Corridoio sarà presto aperto a tutti, con le dovute cautele e dopo non pochi aggiustamenti. «Basta con i piccoli gruppi di privilegiati — ha detto e ripete il direttore — questa opera va restituita alla collettività perché ne è un simbolo. Sposteremo la collezione degli autoritratti agli Uffizi, in una collocazione che li valorizzerà ulteriormente, e poi, spero entro l’anno, avvieremo i lavori».
È la vocazione sociale degli Uffizi. Niente Uffizi 2 ad Abu Dhabi, come ha fatto il Louvre. Per ora neppure se ne parla. La Galleria ha scelto un’altra strada. «Nei mesi scorsi — spiega Schmidt — grazie all’impegno di Antonio Natali e con la collaborazione di First Social Life la Galleria ha portato alcuni suoi capolavori a Casal di Principe, nel Casertano, terra di beni e campi sottratti alla camorra. Il titolo è La luce vince l’ombra e non ha bisogno di tante spiegazioni».
Con lo stesso spirito, nei prossimi mesi, e sempre con l’aiuto dell’associazione di Giacinto Palladino e Alessandro De Lisi, gli Uffizi faranno con altri grandi musei dell’area mediterranea una grande mostra a Lampedusa. Una iniziativa di grande impatto, culturale e mediatico. «Cercheremo di dare un’emozione e far pensare, come fa Fuocammare , il film che Francesco Rosi ha girato lì, sul dramma quotidiano degli sbarchi. L’ho visto. Bellissimo. A Berlino lo hanno premiato con l’Orso d’oro. Da tedesco, questa volta, ne sono stato orgoglioso».
«Dagli Uffizi a Mauthausen contro gli orrori di ieri e di oggi»
Il direttore della Galleria di Firenze nel campo di sterminio per ricordare le vittime del nazismo e la miopia dell’Europa sui profughi
di Paolo Ermini
A Linz, Austria, città di Hitler, un Hitler giovane che ancora coltivava velleità artistiche, martedì prossimo 15 marzo si inaugura la mostra sui legami tra i Medici e gli Asburgo. Un pezzo importante di storia, ricostruita con opere arrivate anche dagli Uffizi. Eike Schmidt, direttore della Galleria da tre mesi e qualche giorno, ci sarà. Non sarebbe potuto mancare: «Poche ore prima, al mattino, però andrò a Mauthausen». Per lui, nato a Friburgo 47 anni fa, sarà una giornata piena di significati, a un incrocio tra passato e presente: «Il nome di Linz evoca una pagina paurosa del Novecento. E Linz chiama Mauthausen, poco lontano, dove persero la vita tanti italiani». Lì la storia tedesca e quella del nostro Paese si toccano nella loro tragicità: «Ci vado da tedesco, a rendere omaggio alla memoria, anche della città dove vivo e lavoro adesso».
Nella scelta c’è qualcosa di più di un gesto personale. L’ombra del nazismo si è allungata fino ai giorni nostri. Sono riapparsi i fili spinati, volti disperati lungo i confini, gli occhi sgranati dei più piccoli. È tornata la paura di veder morire la speranza. Davanti ai profughi la civile Mitteleuropa è tentata dal rifiuto. Dalla voglia di sbarrare le sue porte. Alla guida di uno dei più importanti musei del mondo, Schmidt non ci sta: «C’è un filo che viene da lontano e che tiene insieme gli orrori che accompagnarono la seconda guerra mondiale, le mine tedesche che ferirono Firenze, le stragi mafiose che non hanno risparmiato neppure gli Uffizi, e, ora, le case degli immigrati date alle fiamme in Germania. Quando si bruciano le case vuol dire che si è pronti a uccidere, come fecero i nazisti. E c’è il dovere di dire no, con tutta la forza che si ha. Anche con la forza della nostra arte».
Un filo comune, dunque. Ideale. Ma ce n’è uno fatto anche di pietre e mattoni. È un corridoio, però con la «c» maiuscola: il Corridoio che Vasari costruì in soli otto mesi, nel 1565, per ordine di Cosimo I. E che unisce Palazzo Vecchio, gli Uffizi, Palazzo Pitti e Boboli passando l’Arno, quasi nascosto, sopra le botteghe degli orafi del Ponte Vecchio . Un Corridoio che attraversa la città e, insieme, le stagioni della storia. Il granduca lo volle per potersi spostare liberamente, camminando sopra le teste del popolo, in totale sicurezza.
Ma sarà proprio il Corridoio, nell’agosto del 1944, dopo che tutti gli altri ponti erano stati fatti saltare, a consentire ai partigiani asserragliati nel centro, ancora in mano alle truppe del Reich, di mantenere i contatti con i partigiani dell’Oltrarno già liberato. A qualche metro dagli elmetti tedeschi, ignari. «Scene memorabili fissate per sempre in Paisà di Roberto Rossellini», ricorda Schmidt. E il Corridoio sarà di nuovo protagonista anche nel maggio del 1993, quando fu colpito dalla bomba che Cosa Nostra fece scoppiare all’Accademia dei Georgofili: quadri semidistrutti, terrore a freddo, del tutto imprevisto.
Il Corridoio ora sta al centro dei pensieri di Schmidt: «Se ne parlerà anche a Linz perché fu inaugurato proprio per festeggiare il matrimonio tra Francesco, figlio di Cosimo, e Giovanna d’Austria, una delle Asburgo entrate nella storia della Toscana». Ma il Vasariano rappresenterà, soprattutto, la priorità di Schmidt nei prossimi mesi. Il dado lui l’ha già tratto, d’accordo con il ministro Franceschini e in sintonia anche con Renzi che ne parlava da sindaco: il Corridoio sarà presto aperto a tutti, con le dovute cautele e dopo non pochi aggiustamenti. «Basta con i piccoli gruppi di privilegiati — ha detto e ripete il direttore — questa opera va restituita alla collettività perché ne è un simbolo. Sposteremo la collezione degli autoritratti agli Uffizi, in una collocazione che li valorizzerà ulteriormente, e poi, spero entro l’anno, avvieremo i lavori».
È la vocazione sociale degli Uffizi. Niente Uffizi 2 ad Abu Dhabi, come ha fatto il Louvre. Per ora neppure se ne parla. La Galleria ha scelto un’altra strada. «Nei mesi scorsi — spiega Schmidt — grazie all’impegno di Antonio Natali e con la collaborazione di First Social Life la Galleria ha portato alcuni suoi capolavori a Casal di Principe, nel Casertano, terra di beni e campi sottratti alla camorra. Il titolo è La luce vince l’ombra e non ha bisogno di tante spiegazioni».
Con lo stesso spirito, nei prossimi mesi, e sempre con l’aiuto dell’associazione di Giacinto Palladino e Alessandro De Lisi, gli Uffizi faranno con altri grandi musei dell’area mediterranea una grande mostra a Lampedusa. Una iniziativa di grande impatto, culturale e mediatico. «Cercheremo di dare un’emozione e far pensare, come fa Fuocammare , il film che Francesco Rosi ha girato lì, sul dramma quotidiano degli sbarchi. L’ho visto. Bellissimo. A Berlino lo hanno premiato con l’Orso d’oro. Da tedesco, questa volta, ne sono stato orgoglioso».
il manifesto 12.3.16
L’America latina secondo il «socialista» Sanders
Usa. Il dibattito televisivo alle primarie
di Geraldina Colotti
Sta facendo discutere, in America latina, il dibattito televisivo tra Bernie Sanders e Hillary Clinton che si è svolto a Miami nell’ambito delle primarie Usa. Il senatore del Vermont, che aspira alla nomination democratica per la presidenza degli Stati uniti, ha attaccato l’ex segretaria di Stato sulle ingerenze Usa nell’ex «cortile di casa». «Non credo che la nostra funzione – ha detto – sia quella di far cadere piccoli governi nel mondo». Sanders ha fatto riferimento ai «tentativi di invadere Cuba, di far cadere il governo sandinista del Nicaragua e quello del Guatemala», e ha ricordato le implicazioni nordamericane nel golpe cileno. Ha spiegato che, negli anni ’80, si è recato in Nicaragua e che si è opposto agli «sforzi» del governo di Ronald Reagan (1981-1989) per «tombare il governo sandinista», così come si era opposto all’ex segretario di Stato Henry Kissinger per il suo intervento contro il Cile di Allende l’11 settembre del 1973.
Clinton ha ribattuto attaccando la Cuba di Raul e Fidel Castro, definiti «autoritari e dittatoriali», e augurandosi «che un giorno Cuba abbia leader eletti dal popolo». Poi, ha ricordato a Sanders un’intervista del 1985, in cui aveva lodato Cuba per la sua «rivoluzione dei valori». Allora, il «socialista democratico» Sanders (come si definisce) ha cercato di rientrare nei ranghi: «Cuba – ha rettificato – è un paese autoritario e non democratico. Spero che presto lo diventi. Se i valori sono reprimere, far scomparire, mettere in prigione la gente per le sue idee, non sono quelli che vorrei per il mio paese. Ma non sarebbe giusto negare i progressi nella salute e nell’educazione. Cuba invia medici in tutto il mondo».
I «valori» di reprimere e far scomparire non hanno però turbato troppo la ex Segretaria di Stato. Nel suo libro di memorie, Hard Choices, (lanciato anche come siluro politico interno contro Obama), Clinton decanta le posizioni assunte durante il golpe in Honduras contro Manuel Zelaya nel 2009 come grande esempio di pragmatismo. Racconta di aver fatto di tutto per impedire il ritorno del pur moderato Zelaya, colpevole di aver voluto volgersi alle nuove alleanze solidali sud-sud, inaugurate con l’Alba da Cuba e Venezuela: «Nei giorni seguenti – scrive Clinton- ho parlato con le mie controparti nell’emisfero, compreso con la segretaria Espinosa in Messico. Abbiamo elaborato un piano per restaurare l’ordine in Honduras e assicurare che si possano tenere subito elezioni libere e imparziali, che renderebbero irrilevante la questione di Zelaya». Una posizione che, allora, fece cadere ai minimi storici le relazioni statunitensi con molti paesi latinoamericani che pretesero il ripristino di quella «irrilevante» legittimità istituzionale. E che condannarono le violenze e le scomparse di cui fu vittima l’opposizione in uno dei paesi più diseguali e violenti al mondo: dove gli ambientalisti come Berta Caceres continuano a venire uccisi impunemente.
Il golpe in Honduras chiuse la porta alle speranze suscitate dall’elezione di Obama e dalle sue dichiarazioni distensive. Obama ha ricordato adesso in una intervista alla rivista The Atlantic che allora fece bene a non trattare Hugo Chavez, «come un nemico gigante» perché «il Venezuela, anche se non ci piaceva, non era una minaccia per noi». E questo «servì a distendere i rapporti nella regione». Allora, Chavez gli regalò il libro di Galeano Le vene aperte dell’America latina. Oggi, invece, Obama ha deciso di rinnovare per un anno le sanzioni al Venezuela, considerato «una minaccia inusuale e straordinaria» per la sicurezza Usa. E Clinton, di certo, non farà meglio. Caracas ha ritirato l’incaricato d’affari a Washington e, come già l’anno scorso, si stanno svolgendo manifestazioni in tutto il Latinoamerica.
Sanders ha anche auspicato la fine del blocco economico contro Cuba, di cui Obama discuterà durante la sua prossima visita sull’isola, dal 20 al 22 marzo. Al riguardo, il governo dell’Avana ha ribadito i punti «lesivi della sovranità cubana» che restano in sospeso e ha chiesto agli Usa di «abbandonare la pretesa di fabbricare un’opposizione interna, pagata col denaro dei contribuenti statunitensi». Intanto, «sulla base del rispetto, la reciprocità e i mutui benefici», Cuba e Ue hanno firmato ieri «uno storico accordo di cooperazione».
L’America latina secondo il «socialista» Sanders
Usa. Il dibattito televisivo alle primarie
di Geraldina Colotti
Sta facendo discutere, in America latina, il dibattito televisivo tra Bernie Sanders e Hillary Clinton che si è svolto a Miami nell’ambito delle primarie Usa. Il senatore del Vermont, che aspira alla nomination democratica per la presidenza degli Stati uniti, ha attaccato l’ex segretaria di Stato sulle ingerenze Usa nell’ex «cortile di casa». «Non credo che la nostra funzione – ha detto – sia quella di far cadere piccoli governi nel mondo». Sanders ha fatto riferimento ai «tentativi di invadere Cuba, di far cadere il governo sandinista del Nicaragua e quello del Guatemala», e ha ricordato le implicazioni nordamericane nel golpe cileno. Ha spiegato che, negli anni ’80, si è recato in Nicaragua e che si è opposto agli «sforzi» del governo di Ronald Reagan (1981-1989) per «tombare il governo sandinista», così come si era opposto all’ex segretario di Stato Henry Kissinger per il suo intervento contro il Cile di Allende l’11 settembre del 1973.
Clinton ha ribattuto attaccando la Cuba di Raul e Fidel Castro, definiti «autoritari e dittatoriali», e augurandosi «che un giorno Cuba abbia leader eletti dal popolo». Poi, ha ricordato a Sanders un’intervista del 1985, in cui aveva lodato Cuba per la sua «rivoluzione dei valori». Allora, il «socialista democratico» Sanders (come si definisce) ha cercato di rientrare nei ranghi: «Cuba – ha rettificato – è un paese autoritario e non democratico. Spero che presto lo diventi. Se i valori sono reprimere, far scomparire, mettere in prigione la gente per le sue idee, non sono quelli che vorrei per il mio paese. Ma non sarebbe giusto negare i progressi nella salute e nell’educazione. Cuba invia medici in tutto il mondo».
I «valori» di reprimere e far scomparire non hanno però turbato troppo la ex Segretaria di Stato. Nel suo libro di memorie, Hard Choices, (lanciato anche come siluro politico interno contro Obama), Clinton decanta le posizioni assunte durante il golpe in Honduras contro Manuel Zelaya nel 2009 come grande esempio di pragmatismo. Racconta di aver fatto di tutto per impedire il ritorno del pur moderato Zelaya, colpevole di aver voluto volgersi alle nuove alleanze solidali sud-sud, inaugurate con l’Alba da Cuba e Venezuela: «Nei giorni seguenti – scrive Clinton- ho parlato con le mie controparti nell’emisfero, compreso con la segretaria Espinosa in Messico. Abbiamo elaborato un piano per restaurare l’ordine in Honduras e assicurare che si possano tenere subito elezioni libere e imparziali, che renderebbero irrilevante la questione di Zelaya». Una posizione che, allora, fece cadere ai minimi storici le relazioni statunitensi con molti paesi latinoamericani che pretesero il ripristino di quella «irrilevante» legittimità istituzionale. E che condannarono le violenze e le scomparse di cui fu vittima l’opposizione in uno dei paesi più diseguali e violenti al mondo: dove gli ambientalisti come Berta Caceres continuano a venire uccisi impunemente.
Il golpe in Honduras chiuse la porta alle speranze suscitate dall’elezione di Obama e dalle sue dichiarazioni distensive. Obama ha ricordato adesso in una intervista alla rivista The Atlantic che allora fece bene a non trattare Hugo Chavez, «come un nemico gigante» perché «il Venezuela, anche se non ci piaceva, non era una minaccia per noi». E questo «servì a distendere i rapporti nella regione». Allora, Chavez gli regalò il libro di Galeano Le vene aperte dell’America latina. Oggi, invece, Obama ha deciso di rinnovare per un anno le sanzioni al Venezuela, considerato «una minaccia inusuale e straordinaria» per la sicurezza Usa. E Clinton, di certo, non farà meglio. Caracas ha ritirato l’incaricato d’affari a Washington e, come già l’anno scorso, si stanno svolgendo manifestazioni in tutto il Latinoamerica.
Sanders ha anche auspicato la fine del blocco economico contro Cuba, di cui Obama discuterà durante la sua prossima visita sull’isola, dal 20 al 22 marzo. Al riguardo, il governo dell’Avana ha ribadito i punti «lesivi della sovranità cubana» che restano in sospeso e ha chiesto agli Usa di «abbandonare la pretesa di fabbricare un’opposizione interna, pagata col denaro dei contribuenti statunitensi». Intanto, «sulla base del rispetto, la reciprocità e i mutui benefici», Cuba e Ue hanno firmato ieri «uno storico accordo di cooperazione».
Repubblica 12.3.16
Tra i libri proibiti di Hong Kong “Spie e censura addio libertà”
Nell’ex colonia la Cina distrugge i testi “sovversivi” e fa sparire librai ed editori
“Pechino ha cambiato strategia: non arresta più scrittori e intellettuali, ma chi vende e diffonde le opere non gradite”
La testimonianza delle vittime dell’ultima purga del regime “Clienti terrorizzati, così chiudiamo”
di Giampaolo Visetti
HONG KONG UN cancello cromato sbarra la porta della libreria «Causeway Bay Books». Sul lucchetto ci sono i sigilli. Tre uomini in nero fotografano chi sale la scala che porta anche al centro d’estetica «Hot Nail». Articoli di giornale, incollati alle pareti del pianerottolo, suggeriscono che la «guerra dei libri» è scoppiata qui. Il numero 533 di Lockhart Road è un edificio giallo e stretto. Sulla strada vendono farmaci tradizionali cinesi e gabinetti. L’odore di una pescheria impregna il negozio dei «libri proibiti», al primo piano. Dall’uscita del metro si vede la vetrina: gli scaffali sono vuoti, sul cristallo c’è il cartello «Affittasi». Un’auto e un furgone neri sostano davanti all’ingresso. I passanti li aggirano per il timore di essere ripresi da una telecamera che sporge da un finestrino.
Nessuno sale più nella libreria e nella casa editrice «Mighty Current», travolte dalla più plateale repressione contro la libertà di stampa mai scatenata da Pechino contro Hong Kong. I due proprietari e tre dipendenti, tra ottobre e fine dicembre, sono spariti. Riapparsi in Guangdong, nella Cina continentale, hanno detto ai famigliari di essere stati arrestati. L’accusa è contrabbando di testi che le autorità comuniste considerano critici. Woo Chih-wai ha 75 anni, è autore di 120 «opere politicamente sovversive» e fino all’ultimo ha lavorato per la casa editrice. «Sono sfuggito alla retata – dice – perché Pechino nell’ex colonia non arresta scrittori e intellettuali, ma i commercianti che diffondono i testi banditi dalla censura». La comunità internazionale, anche all’Onu, chiede alla leadership rossa di liberare i due soci della “Mighty Current”, Lee Po e Gui Minhai, i loro dipendenti Lui Por, Cheung Chi-ping e Lam Wing-kee. Dietro il braccio di ferro sulla loro libertà personale, emerge però una resa dei conti politica ben più ampia e spaventosa. «Pechino – dice Paul Tang – ha ufficialmente represso la libertà di stampa anche a Hong Kong e per la prima volta ha arrestato hongkonghesi e cittadini con passaporto straniero, al di fuori dei confini nazionali». Il signor Tang ha 41 anni e gestisce il caffè-libreria «Comunità ricreativa del popolo» a “Causeway Bay”. Il suo è l’ultimo covo di libri vietati nella metropoli finanziaria che la Gran Bretagna ha restituito alla Cina nel 1997.
Dietro il neon rosso, con il profilo di Mao in nero, vende testi storici e politici, biografie, le opere dei dissidenti, più un po’ di porno nascosto sotto copertine di romanzi rosa: da Liu Xiaobo a Henry Kissinger, da Tienanmen al «Grande balzo in avanti», dal Dalai Lama alle razzie della Rivoluzione culturale, dalla «storia sconosciuta» del Grande Timoniere a quella “vera” dell’attuale presidente Xi Jinping. In tutto il mondo sono opere acquistabili: in Cina sono proibite, il possesso costa il carcere per «sovversione». A Hong Kong sono ancora legali, ma sono entrate nel limbo. «Fino a un mese fa – dice Paul Tang – ne vendevo cento al giorno. Ora il business è finito: nessuno stampa, nessuno compra, i clienti sono terrorizzati». Anche lui è sotto controllo. Agenti in borghese, alla fermata dei taxi di fronte allo shopping center di Times Square, identificano per «ragioni di sicurezza» chi sale in libreria, passando dal piccolo cambiavalute. Per pagare l’affitto Paul Tang adesso vende anche latte in polvere e vitamine per neonati.
I travolti dal caso “Mighty Current” evitano di comunicare tra loro. Telefoni, web e alloggi sono monitorati. Colloqui dal vivo permettono però di ricomporre il quadro della grande purga. La repressione è stata scatenata da Xi Jinping in persona. Piccoli contrabbandi di libri proibiti prosperavano da sempre. Dall’autunno 2014, mentre il potere filo-cinese era assediato dalla «Rivoluzione degli ombrelli» dei pro-democratici, lo spaccio sarebbe diventato «su larga scala». A Pechino è scattato il piano-sicurezza. I cinque librai spariti erano tra i primi obbiettivi. «Ci accusano – dice Sophie Choi ka-ping, moglie del direttore della “Causeway Bay Books – di aver consegnato 4 mila testi vietati». Cifra modesta, ma nelle mani giuste in Cina gli effetti si moltiplicano. Il best-seller era «Xi Jinping e le sue sei mogli », sui retroscena segreti del presidente.
Affiora un precedente. «L’editore della “Morning Bell Press” – dice lo scrittore Bei Ling – ricevette la telefonata di un amico. Lo pregava di portargli alcuni barattoli di vernice a Shenzhen. Fermato al posto di blocco di Lo Wu e accusato di contrabbando, è stato condannato a dieci anni. Aveva appena pubblicato il libro “Il padrino della Cina”, sempre su Xi Jinping». Anche questo testo risulta scomparso, ma nella democratica e occidentale Hong Kong il primo “rogo” di opere censurate assume ora dimensioni-shock. Dai magazzini della “Mighty Current”, a Chai Wan, 45 mila libri sono partiti per il macero. Altri 55 mila sono stati sequestrati per «irregolarità». Decine di migliaia vengono «ritirati per controlli» dai chioschi che li offrono sottobanco, pena il ritiro della licenza. «L’ordine di distruggere i testi – dice l’editore Jin Zhong – è partito dalla moglie di Lee Po. La libreria è già stata data in affitto e il 13 maggio chiuderà. Cerca così di ottenere il rilascio del marito». Anche gli spedizionieri rifiutano di consegnare libri sul continente. Prima la tariffa per il trasporto di «letteratura specialistica» era di 10 dollari al chilo. Adesso è caccia agli spalloni, che ne chiedono 50 per fare passare in Cina un solo testo. Ad allarmare ancora di più è però il fatto che Pechino mandi i suoi agenti in città e all’estero per sequestrare la gente, violando lo statuto «un Paese due sistemi», valido fino al 2047. Le autorità comuniste negano, ma i documenti provano il contrario. «Una mail inviata alla figlia di Gui Minhai – dice l’attivista Albert Ho – conferma che suo padre è stato prelevato nel proprio appartamento di Pattaya in Thailandia. L’ultimo dipendente della “Causeway Bay Books” racconta che il pomeriggio del 30 dicembre Lee Po è improvvisamente uscito «per una consegna», scortato da uno sconosciuto che parlava in mandarino». Una farsa sarebbero anche le confessioni in tivù e la “liberazione” per buona condotta di due dei librai scomparsi. «Sono rientrati a Hong Kong – dice Woo Chih-wai – per dire alla polizia di non occuparsi più di loro. Poche ore dopo hanno dovuto rientrare nel Guangdong». Il conto alla rovescia per libertà d’espressione e incolumità dei cittadini allarma anche i mercati finanziari. Jack Ma, il magnate preferito di Xi Jinping e fondatore del colosso dell’e-commerce Alibaba, ha appena acquistato il South China Morning Post, storico quotidiano liberal dell’ex colonia. Ora è in corsa per il magazine economico Caixin. Nelle redazioni si teme che il miliardario rosso faticherà a garantire i livelli di indipendenza. «Pechino è sconvolta dal voto indipendentista di Taiwan – dice Audrey Ou Yuet-mee, presidentessa del movimento civico – e accusa Hong Kong di estremismo secessionista. Capisce di non poter assorbire nella Cina autoritaria una potenza democratica come questa». I librai spariscono, i testi proibiti vanno al macero, le case editrici chiudono, i giornali vengono venduti. L’epoca ricca della sicurezza finisce, a Hong Kong si apre l’era incerta della paura. Davanti alle sbarre della “Causeway Bay Books” un uomo brucia con la sigaretta un articolo con la notizia dell’arresto di Lee Po. Qualcuno l’ha incollato sul cartello «Sotto sequestro ». «Qui dobbiamo demolire – dice – ma è tutto da risanare».
Tra i libri proibiti di Hong Kong “Spie e censura addio libertà”
Nell’ex colonia la Cina distrugge i testi “sovversivi” e fa sparire librai ed editori
“Pechino ha cambiato strategia: non arresta più scrittori e intellettuali, ma chi vende e diffonde le opere non gradite”
La testimonianza delle vittime dell’ultima purga del regime “Clienti terrorizzati, così chiudiamo”
di Giampaolo Visetti
HONG KONG UN cancello cromato sbarra la porta della libreria «Causeway Bay Books». Sul lucchetto ci sono i sigilli. Tre uomini in nero fotografano chi sale la scala che porta anche al centro d’estetica «Hot Nail». Articoli di giornale, incollati alle pareti del pianerottolo, suggeriscono che la «guerra dei libri» è scoppiata qui. Il numero 533 di Lockhart Road è un edificio giallo e stretto. Sulla strada vendono farmaci tradizionali cinesi e gabinetti. L’odore di una pescheria impregna il negozio dei «libri proibiti», al primo piano. Dall’uscita del metro si vede la vetrina: gli scaffali sono vuoti, sul cristallo c’è il cartello «Affittasi». Un’auto e un furgone neri sostano davanti all’ingresso. I passanti li aggirano per il timore di essere ripresi da una telecamera che sporge da un finestrino.
Nessuno sale più nella libreria e nella casa editrice «Mighty Current», travolte dalla più plateale repressione contro la libertà di stampa mai scatenata da Pechino contro Hong Kong. I due proprietari e tre dipendenti, tra ottobre e fine dicembre, sono spariti. Riapparsi in Guangdong, nella Cina continentale, hanno detto ai famigliari di essere stati arrestati. L’accusa è contrabbando di testi che le autorità comuniste considerano critici. Woo Chih-wai ha 75 anni, è autore di 120 «opere politicamente sovversive» e fino all’ultimo ha lavorato per la casa editrice. «Sono sfuggito alla retata – dice – perché Pechino nell’ex colonia non arresta scrittori e intellettuali, ma i commercianti che diffondono i testi banditi dalla censura». La comunità internazionale, anche all’Onu, chiede alla leadership rossa di liberare i due soci della “Mighty Current”, Lee Po e Gui Minhai, i loro dipendenti Lui Por, Cheung Chi-ping e Lam Wing-kee. Dietro il braccio di ferro sulla loro libertà personale, emerge però una resa dei conti politica ben più ampia e spaventosa. «Pechino – dice Paul Tang – ha ufficialmente represso la libertà di stampa anche a Hong Kong e per la prima volta ha arrestato hongkonghesi e cittadini con passaporto straniero, al di fuori dei confini nazionali». Il signor Tang ha 41 anni e gestisce il caffè-libreria «Comunità ricreativa del popolo» a “Causeway Bay”. Il suo è l’ultimo covo di libri vietati nella metropoli finanziaria che la Gran Bretagna ha restituito alla Cina nel 1997.
Dietro il neon rosso, con il profilo di Mao in nero, vende testi storici e politici, biografie, le opere dei dissidenti, più un po’ di porno nascosto sotto copertine di romanzi rosa: da Liu Xiaobo a Henry Kissinger, da Tienanmen al «Grande balzo in avanti», dal Dalai Lama alle razzie della Rivoluzione culturale, dalla «storia sconosciuta» del Grande Timoniere a quella “vera” dell’attuale presidente Xi Jinping. In tutto il mondo sono opere acquistabili: in Cina sono proibite, il possesso costa il carcere per «sovversione». A Hong Kong sono ancora legali, ma sono entrate nel limbo. «Fino a un mese fa – dice Paul Tang – ne vendevo cento al giorno. Ora il business è finito: nessuno stampa, nessuno compra, i clienti sono terrorizzati». Anche lui è sotto controllo. Agenti in borghese, alla fermata dei taxi di fronte allo shopping center di Times Square, identificano per «ragioni di sicurezza» chi sale in libreria, passando dal piccolo cambiavalute. Per pagare l’affitto Paul Tang adesso vende anche latte in polvere e vitamine per neonati.
I travolti dal caso “Mighty Current” evitano di comunicare tra loro. Telefoni, web e alloggi sono monitorati. Colloqui dal vivo permettono però di ricomporre il quadro della grande purga. La repressione è stata scatenata da Xi Jinping in persona. Piccoli contrabbandi di libri proibiti prosperavano da sempre. Dall’autunno 2014, mentre il potere filo-cinese era assediato dalla «Rivoluzione degli ombrelli» dei pro-democratici, lo spaccio sarebbe diventato «su larga scala». A Pechino è scattato il piano-sicurezza. I cinque librai spariti erano tra i primi obbiettivi. «Ci accusano – dice Sophie Choi ka-ping, moglie del direttore della “Causeway Bay Books – di aver consegnato 4 mila testi vietati». Cifra modesta, ma nelle mani giuste in Cina gli effetti si moltiplicano. Il best-seller era «Xi Jinping e le sue sei mogli », sui retroscena segreti del presidente.
Affiora un precedente. «L’editore della “Morning Bell Press” – dice lo scrittore Bei Ling – ricevette la telefonata di un amico. Lo pregava di portargli alcuni barattoli di vernice a Shenzhen. Fermato al posto di blocco di Lo Wu e accusato di contrabbando, è stato condannato a dieci anni. Aveva appena pubblicato il libro “Il padrino della Cina”, sempre su Xi Jinping». Anche questo testo risulta scomparso, ma nella democratica e occidentale Hong Kong il primo “rogo” di opere censurate assume ora dimensioni-shock. Dai magazzini della “Mighty Current”, a Chai Wan, 45 mila libri sono partiti per il macero. Altri 55 mila sono stati sequestrati per «irregolarità». Decine di migliaia vengono «ritirati per controlli» dai chioschi che li offrono sottobanco, pena il ritiro della licenza. «L’ordine di distruggere i testi – dice l’editore Jin Zhong – è partito dalla moglie di Lee Po. La libreria è già stata data in affitto e il 13 maggio chiuderà. Cerca così di ottenere il rilascio del marito». Anche gli spedizionieri rifiutano di consegnare libri sul continente. Prima la tariffa per il trasporto di «letteratura specialistica» era di 10 dollari al chilo. Adesso è caccia agli spalloni, che ne chiedono 50 per fare passare in Cina un solo testo. Ad allarmare ancora di più è però il fatto che Pechino mandi i suoi agenti in città e all’estero per sequestrare la gente, violando lo statuto «un Paese due sistemi», valido fino al 2047. Le autorità comuniste negano, ma i documenti provano il contrario. «Una mail inviata alla figlia di Gui Minhai – dice l’attivista Albert Ho – conferma che suo padre è stato prelevato nel proprio appartamento di Pattaya in Thailandia. L’ultimo dipendente della “Causeway Bay Books” racconta che il pomeriggio del 30 dicembre Lee Po è improvvisamente uscito «per una consegna», scortato da uno sconosciuto che parlava in mandarino». Una farsa sarebbero anche le confessioni in tivù e la “liberazione” per buona condotta di due dei librai scomparsi. «Sono rientrati a Hong Kong – dice Woo Chih-wai – per dire alla polizia di non occuparsi più di loro. Poche ore dopo hanno dovuto rientrare nel Guangdong». Il conto alla rovescia per libertà d’espressione e incolumità dei cittadini allarma anche i mercati finanziari. Jack Ma, il magnate preferito di Xi Jinping e fondatore del colosso dell’e-commerce Alibaba, ha appena acquistato il South China Morning Post, storico quotidiano liberal dell’ex colonia. Ora è in corsa per il magazine economico Caixin. Nelle redazioni si teme che il miliardario rosso faticherà a garantire i livelli di indipendenza. «Pechino è sconvolta dal voto indipendentista di Taiwan – dice Audrey Ou Yuet-mee, presidentessa del movimento civico – e accusa Hong Kong di estremismo secessionista. Capisce di non poter assorbire nella Cina autoritaria una potenza democratica come questa». I librai spariscono, i testi proibiti vanno al macero, le case editrici chiudono, i giornali vengono venduti. L’epoca ricca della sicurezza finisce, a Hong Kong si apre l’era incerta della paura. Davanti alle sbarre della “Causeway Bay Books” un uomo brucia con la sigaretta un articolo con la notizia dell’arresto di Lee Po. Qualcuno l’ha incollato sul cartello «Sotto sequestro ». «Qui dobbiamo demolire – dice – ma è tutto da risanare».
Corriere 12.3.16
La Tunisia che resiste alla minaccia dell’Isis
di Antonio Ferrari
Tra pochi giorni, il 18 marzo, sarà passato un anno dal feroce attentato dell’Isis contro il museo del Bardo di Tunisi, costato decine di morti e centinaia di feriti. Era la prima dimostrazione che i tagliagole dello Stato Islamico avevano scelto proprio la Tunisia, dolce e ospitale Paese arabo, come un luogo-simbolo da colpire ferocemente.
Gli obiettivi erano evidenti: annientare le poche risorse del Paese, che vive soprattutto di turismo; indebolire la volontà democratica di un piccolo Stato che ha saputo fare tesoro della purezza originaria delle «primavere», che cominciarono proprio laggiù con la rivolta popolare dopo il sacrificio di Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco come Ian Palach; lanciare un messaggio di terrore all’intero mondo musulmano, e soprattutto ai suoi leader più pavidi.
La Tunisia, con il suo governo, offre invece l’immagine di una coalizione aperta a tutti, anche alla collaborazione dei Fratelli musulmani. Tuttavia, come molti temevano, il Paese continua a pagare il conto della propria diversità rispetto all’Egitto, alla Libia, alla Siria, dove le «primavere arabe» sono miseramente fallite.
La decisione della giuria del Nobel di assegnare la massima onorificenza del 2015, nel nome della pace, al Quartetto del dialogo tunisino, cioè a quei rappresentanti della società civile che hanno saputo trasformare la resistenza contro la dittatura in un’alleanza tra differenti posizioni, è davvero nobile. Perché indica la volontà di aiutare un Paese fragile e assediato.
L’ambasciata d’Italia a Tunisi, per iniziativa del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ospiterà tra breve un giardino dei Giusti, il primo in un Paese arabo. Gesto generoso e significativo. Per l’Italia e per Gariwo, la foresta dei Giusti voluta da Gabriele Nissim, che si sta diffondendo dappertutto.
La Tunisia che resiste alla minaccia dell’Isis
di Antonio Ferrari
Tra pochi giorni, il 18 marzo, sarà passato un anno dal feroce attentato dell’Isis contro il museo del Bardo di Tunisi, costato decine di morti e centinaia di feriti. Era la prima dimostrazione che i tagliagole dello Stato Islamico avevano scelto proprio la Tunisia, dolce e ospitale Paese arabo, come un luogo-simbolo da colpire ferocemente.
Gli obiettivi erano evidenti: annientare le poche risorse del Paese, che vive soprattutto di turismo; indebolire la volontà democratica di un piccolo Stato che ha saputo fare tesoro della purezza originaria delle «primavere», che cominciarono proprio laggiù con la rivolta popolare dopo il sacrificio di Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco come Ian Palach; lanciare un messaggio di terrore all’intero mondo musulmano, e soprattutto ai suoi leader più pavidi.
La Tunisia, con il suo governo, offre invece l’immagine di una coalizione aperta a tutti, anche alla collaborazione dei Fratelli musulmani. Tuttavia, come molti temevano, il Paese continua a pagare il conto della propria diversità rispetto all’Egitto, alla Libia, alla Siria, dove le «primavere arabe» sono miseramente fallite.
La decisione della giuria del Nobel di assegnare la massima onorificenza del 2015, nel nome della pace, al Quartetto del dialogo tunisino, cioè a quei rappresentanti della società civile che hanno saputo trasformare la resistenza contro la dittatura in un’alleanza tra differenti posizioni, è davvero nobile. Perché indica la volontà di aiutare un Paese fragile e assediato.
L’ambasciata d’Italia a Tunisi, per iniziativa del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ospiterà tra breve un giardino dei Giusti, il primo in un Paese arabo. Gesto generoso e significativo. Per l’Italia e per Gariwo, la foresta dei Giusti voluta da Gabriele Nissim, che si sta diffondendo dappertutto.
Il Sole 12.3.16
L’ascesa e le strategie. La politica degli Usa e degli «alleati»
Le sei mosse per finire la guerra in Siria
di Jeffrey Sachs
La Siria rappresenta oggi la più grande catastrofe umanitaria al mondo e un focolaio geopolitico molto pericoloso. La popolazione siriana è intrappolata in un bagno di sangue, con oltre 400.000 morti e 10 milioni di profughi.
I violenti gruppi jihadisti appoggiati da mecenati esterni devastano senza pietà e vessano la popolazione. Tutte le parti coinvolte nel conflitto – il regime del presidente Bashar al-Assad, le forze anti-Assad supportate dagli Stati Uniti e da suoi alleati e lo Stato islamico – hanno commesso, e continuano a commettere, gravi crimini di guerra. È tempo che si giunga a una soluzione, basata su una trasparente e realistica considerazione dei fattori che hanno scatenato la guerra.
Questa è la succinta cronologia dei fatti. Nel febbraio del 2011 si verificano una serie di proteste pacifiche nelle maggiori città della Siria, nate sull’onda della “Primavera araba”. Il regime di Assad reagisce con un mix variabile di repressione violenta (sparando sui manifestanti) e offerte di riforma. Poi l’escalation di violenza. Gli opponenti di Assad accusano il regime di aver usato la forza contro i civili senza limiti, mentre il governo indica la morte di soldati e poliziotti a riprova delle violente azioni dei dimostranti jihadisti. È probabile che sin da marzo o aprile 2011 i combattenti e gli eserciti sunniti anti-regime inizino a entrare in Siria dai Paesi vicini. Secondo diverse testimonianze, alcuni jihadisti stranieri sarebbero i fautori di violenti attacchi nei confronti di poliziotti.
Gli Stati Uniti e i loro alleati nella regione cercano di destituire Assad nella primavera del 2011, pensando di farlo decadere rapidamente come Hosni Mubarak in Egitto e Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia. Gli Usa impongono così un giro di vite di sanzioni commerciali e finanziarie sul regime. Il Brookings Institution, spia della politica ufficiale degli Usa, invoca l’estradizione di Assad, e la propaganda anti-Assad nei media Usa registra un picco. (Fino ad allora, Assad viene considerato dai media americani un capo piuttosto affabile, per quanto autoritario). La guerra si scatena il 18 agosto 2011, quando il presidente Barack Obama e Hillary Clinton dichiarano: «Assad deve andarsene». Fino a quel momento la violenza era ancora contenibile. Il numero dei morti, inclusi civili e combattenti, si aggirava forse attorno a 2.900 (secondo il conteggio fatto dagli opponenti al regime).
Dopo agosto, il numero dei morti sale alle stelle. Talvolta si accusano gli Usa di non aver agito con fermezza a questo punto. I nemici politici di Obama generalmente lo attaccano per essersi attivato poco, e non il contrario. Ma gli Usa di fatto agiscono per rovesciare Assad, anche se perlopiù segretamente e per mano degli alleati, in particolare Arabia Saudita e Turchia.
Ovviamente la cronologia della guerra non spiega nulla in merito. Per questo dobbiamo anche esaminare le motivazioni degli attori principali. Prima di tutto, quella in Siria è una guerra per procura, che vede principalmente il coinvolgimento di Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita, Turchia e Iran. Usa e alleati, Arabia Saudita e Turchia, hanno iniziato la guerra nel 2011 allo scopo di sovvertire il regime di Assad. L’alleanza degli Stati Uniti si è scontrata con l’escalation della forza nemica di Russia e Iran, il cui esercito per procura dell’Hezbollah libanese combatte al fianco del governo di Assad. Gli Usa intendevano sovvertire il regime di Assad perché dipendeva dai finanziamenti di Iran e Russia. La destituzione di Assad, così credevano le autorità per la sicurezza americana, avrebbe indebolito l’Iran, indebolito l’Hezbollah e ridotto la portata geopolitica della Russia.
Credendo che Assad sarebbe stato destituito con facilità, gli Usa si sono affidati alla propaganda del regime, che doveva fare i conti con una forte opposizione, ma poteva contare anche su un notevole supporto interno. E cosa più importante, il regime vantava potenti alleati, soprattutto Iran e Russia. È stato ingenuo pensare che non avrebbe reagito nessuno. Secondo i tradizionali media americani ed europei, l’intervento militare della Russia in Siria sarebbe infido ed espansionistico. La verità, a mio parere, è un’altra. Gli Usa non possono, in base alla Carta delle Nazioni Unite, organizzare un’alleanza, finanziare mercenari e contrabbandare armi pesanti per rovesciare il governo di un altro Paese.
Per mettere fine alla guerra andrebbero, a mio avviso, osservati sei principi. Il primo: gli Usa dovrebbero cessare le operazioni sotto copertura e non, tese a rovesciare il governo siriano. Il secondo: il Consiglio di Sicurezza Onu dovrebbe implementare il cessate il fuoco attualmente in corso di negoziazione, chiedendo a tutti i Paesi, inclusi Usa, Russia, Arabia Saudita, Turchia, Qatar e Iran, di smettere di armare e finanziare le forze militari in Siria. Il terzo: tutte le attività paramilitari dovrebbe cessare, comprese quelle dei cosiddetti “moderati” sostenuti dagli Usa. Il quarto: Usa e Russia – e quindi il Consiglio di Sicurezza Onu – dovrebbero ritenere il governo siriano gravemente responsabile di eventuali azioni punitive nei confronti degli opponenti al regime. Il quinto: la transizione politica deve avvenire gradualmente, instillando fiducia su tutti i fronti, piuttosto che con una corsa arbitraria e destabilizzante alle “libere elezioni”. Infine il sesto: gli Stati del Golfo, la Turchia e l’Iran dovrebbero essere incoraggiati a negoziare faccia a faccia i termini di un piano regionale che possa garantire una pace futura. Arabi, turchi e iraniani hanno vissuto insieme per millenni. Spetta a loro indicare la strada verso l’ordine e la stabilità della regione.
Traduzione di Simona Polverino
L’ascesa e le strategie. La politica degli Usa e degli «alleati»
Le sei mosse per finire la guerra in Siria
di Jeffrey Sachs
La Siria rappresenta oggi la più grande catastrofe umanitaria al mondo e un focolaio geopolitico molto pericoloso. La popolazione siriana è intrappolata in un bagno di sangue, con oltre 400.000 morti e 10 milioni di profughi.
I violenti gruppi jihadisti appoggiati da mecenati esterni devastano senza pietà e vessano la popolazione. Tutte le parti coinvolte nel conflitto – il regime del presidente Bashar al-Assad, le forze anti-Assad supportate dagli Stati Uniti e da suoi alleati e lo Stato islamico – hanno commesso, e continuano a commettere, gravi crimini di guerra. È tempo che si giunga a una soluzione, basata su una trasparente e realistica considerazione dei fattori che hanno scatenato la guerra.
Questa è la succinta cronologia dei fatti. Nel febbraio del 2011 si verificano una serie di proteste pacifiche nelle maggiori città della Siria, nate sull’onda della “Primavera araba”. Il regime di Assad reagisce con un mix variabile di repressione violenta (sparando sui manifestanti) e offerte di riforma. Poi l’escalation di violenza. Gli opponenti di Assad accusano il regime di aver usato la forza contro i civili senza limiti, mentre il governo indica la morte di soldati e poliziotti a riprova delle violente azioni dei dimostranti jihadisti. È probabile che sin da marzo o aprile 2011 i combattenti e gli eserciti sunniti anti-regime inizino a entrare in Siria dai Paesi vicini. Secondo diverse testimonianze, alcuni jihadisti stranieri sarebbero i fautori di violenti attacchi nei confronti di poliziotti.
Gli Stati Uniti e i loro alleati nella regione cercano di destituire Assad nella primavera del 2011, pensando di farlo decadere rapidamente come Hosni Mubarak in Egitto e Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia. Gli Usa impongono così un giro di vite di sanzioni commerciali e finanziarie sul regime. Il Brookings Institution, spia della politica ufficiale degli Usa, invoca l’estradizione di Assad, e la propaganda anti-Assad nei media Usa registra un picco. (Fino ad allora, Assad viene considerato dai media americani un capo piuttosto affabile, per quanto autoritario). La guerra si scatena il 18 agosto 2011, quando il presidente Barack Obama e Hillary Clinton dichiarano: «Assad deve andarsene». Fino a quel momento la violenza era ancora contenibile. Il numero dei morti, inclusi civili e combattenti, si aggirava forse attorno a 2.900 (secondo il conteggio fatto dagli opponenti al regime).
Dopo agosto, il numero dei morti sale alle stelle. Talvolta si accusano gli Usa di non aver agito con fermezza a questo punto. I nemici politici di Obama generalmente lo attaccano per essersi attivato poco, e non il contrario. Ma gli Usa di fatto agiscono per rovesciare Assad, anche se perlopiù segretamente e per mano degli alleati, in particolare Arabia Saudita e Turchia.
Ovviamente la cronologia della guerra non spiega nulla in merito. Per questo dobbiamo anche esaminare le motivazioni degli attori principali. Prima di tutto, quella in Siria è una guerra per procura, che vede principalmente il coinvolgimento di Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita, Turchia e Iran. Usa e alleati, Arabia Saudita e Turchia, hanno iniziato la guerra nel 2011 allo scopo di sovvertire il regime di Assad. L’alleanza degli Stati Uniti si è scontrata con l’escalation della forza nemica di Russia e Iran, il cui esercito per procura dell’Hezbollah libanese combatte al fianco del governo di Assad. Gli Usa intendevano sovvertire il regime di Assad perché dipendeva dai finanziamenti di Iran e Russia. La destituzione di Assad, così credevano le autorità per la sicurezza americana, avrebbe indebolito l’Iran, indebolito l’Hezbollah e ridotto la portata geopolitica della Russia.
Credendo che Assad sarebbe stato destituito con facilità, gli Usa si sono affidati alla propaganda del regime, che doveva fare i conti con una forte opposizione, ma poteva contare anche su un notevole supporto interno. E cosa più importante, il regime vantava potenti alleati, soprattutto Iran e Russia. È stato ingenuo pensare che non avrebbe reagito nessuno. Secondo i tradizionali media americani ed europei, l’intervento militare della Russia in Siria sarebbe infido ed espansionistico. La verità, a mio parere, è un’altra. Gli Usa non possono, in base alla Carta delle Nazioni Unite, organizzare un’alleanza, finanziare mercenari e contrabbandare armi pesanti per rovesciare il governo di un altro Paese.
Per mettere fine alla guerra andrebbero, a mio avviso, osservati sei principi. Il primo: gli Usa dovrebbero cessare le operazioni sotto copertura e non, tese a rovesciare il governo siriano. Il secondo: il Consiglio di Sicurezza Onu dovrebbe implementare il cessate il fuoco attualmente in corso di negoziazione, chiedendo a tutti i Paesi, inclusi Usa, Russia, Arabia Saudita, Turchia, Qatar e Iran, di smettere di armare e finanziare le forze militari in Siria. Il terzo: tutte le attività paramilitari dovrebbe cessare, comprese quelle dei cosiddetti “moderati” sostenuti dagli Usa. Il quarto: Usa e Russia – e quindi il Consiglio di Sicurezza Onu – dovrebbero ritenere il governo siriano gravemente responsabile di eventuali azioni punitive nei confronti degli opponenti al regime. Il quinto: la transizione politica deve avvenire gradualmente, instillando fiducia su tutti i fronti, piuttosto che con una corsa arbitraria e destabilizzante alle “libere elezioni”. Infine il sesto: gli Stati del Golfo, la Turchia e l’Iran dovrebbero essere incoraggiati a negoziare faccia a faccia i termini di un piano regionale che possa garantire una pace futura. Arabi, turchi e iraniani hanno vissuto insieme per millenni. Spetta a loro indicare la strada verso l’ordine e la stabilità della regione.
Traduzione di Simona Polverino
La Stampa 12.3.16
Se la guerra uccide anche la politica
di Domenico Quirico
La pace è diventata solo un armistizio, lo stato naturale è la guerra, una specie di cancro che assorbe tutte le forze vive, occupa tutti gli spazi, schiaccia la vita. E’ così: solo che quando ce n’è troppa, allora diventa monotona come la pace. Ecco: in Libia la politica è stata uccisa, di vivo c’è solo guerra. La frase di Von Clausewitz secondo cui i conflitti non sono altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi oggi non ha più alcun significato, è inattuabile. Perché dopo una guerra come questa, così naturale e assoluta, non ci sarà nulla, negoziato, spartizione altro regime. Solo un’altra guerra. Tutto ciò che è politica sembra gettato via e dimenticato, in questo luogo non si fa che sbrigare il lavoro che la battaglia, imperiosamente, richiede. Come in fabbrica e nei campi. Noi chiediamo ai libici atti politici. Loro possono darci solo atti di guerra. Le stesse soluzioni diventano una parte del problema, lo complicano. Non ci si batte per uno scopo. Non ci sono più scopi. Si combatte e basta.
Lo capisci guardando i combattenti che presidiano Tripoli o questi villaggi dall’aspetto di mucchi di macerie biancastre come se fossero precipitati dal cielo sulla terra. Più le nazioni come Siria, Somalia o Libia hanno i confini erosi dal massacro e più si strappano dal cuore guerrieri piene di sangue. A Nord a Sud ad Ovest: dappertutto battaglie di queste guerre nuove che si autoalimentano. Dovunque ci si volti la guerra è in qualunque punto di questa vastità. Questa massa smisurata di poveri manovali delle battaglie che hanno costruito con le loro mani questa immensa guerra sono manovrati da quelli che, grandi o piccoli sensali del caos, vivono in guerra e sono in pace durante la guerra, che proclamano l’irriducibile antagonismo tra le tribù, o che abbindolano e addormentano, perché il massacro non si plachi, con la morfina dei loro futuri paradisi. Trasformano la ricchezza del paese, il petrolio, in famelica patologia. La guerra, qui, ha partoriti uomini nuovi, il loro rapporto con il conflitto permanente definisce la loro identità.
Noi pensiamo e agiamo come se ci fosse un fine, un momento in cui le armi dovranno necessariamente tacere e tra le fazioni o «i governi», (che spesso costruiamo noi per dare volto ai nostri progetti) emergeranno nuovi equilibri. E allora, automaticamente, le trattative la diplomazia il mercanteggiamento politico la fragile concordia troveranno un assestamento.
Questo ai tempi delle guerre antiche: quelle che leggendo lo stratega prussiano erano facili a capirsi come un film, di quelli che in qualunque momento entri in sala, dopo due o tre scene, conosci subito l’intreccio, chi ha ragione e chi ha torto. Ora nessuno tra i protagonisti ha interesse che la guerra in Libia finisca. Perché segnerebbe così la propria fine. A Tripoli una milizia controlla il catasto, vende i titoli di proprietà di coloro che sono fuggiti o militano per altre fazioni. Come potrebbe desiderare la pace? Sono moderni capitani di ventura, spesso più imprenditori che strateghi, che la guerra nutre arricchisce e giustifica nella loro esistenza. Perfino la vittoria sarebbe una sciagura, li renderebbe inutili. L’equilibrio permanente della mischia è lo stato perfetto. I gruppi di banditi lo vogliono perché la pace segnerebbe la loro scomparsa, la fine dei sequestri e della gozzoviglia, i «partiti», fratelli musulmani, uomini di Tobruk, governo in esilio, perché nessuno di loro ha, contemporaneamente, la forza e la legittimità. Se ne ha una manca dell’altra. E allora la guerra garantisce di restare in scena.
Gli uomini del califfato, loro sì, hanno un progetto politico che va oltre la guerra permanente e imporrebbe una pace cimiteriale, il paradiso in terra: ma la conclusione è remota nel tempo e per ora solo la confusione della guerra offre loro uno spazio e possibilità di azione.
La guerra è una cosa semplice. Occorrono solo tre cose in fondo: armi uomini e denaro. Soprattutto denaro, che assicura le altre due. E in Libia non manca. C’è il petrolio, risorsa senza fine. Farla finita con la guerra sarebbe come impedire le tempeste. Oscuri sciami di umanità si ritirano uno dopo l’altro in se stessi, riassorbiti dal loro male misterioso. Un amico libico indica con la mano l’intera larghezza dell’indescrivibile paesaggio del deserto e ripete la frase: questa è la guerra… ed è così dappertutto, tremila chilometri di tragedie eguali, dal confine egiziano a quello tunisino e giù giù fino in fondo al deserto…. domani si ricomincia e come si è ricominciato l’altro ieri e tutti i giorni precedenti… volete venire qui per salvarci ma sapete che per farlo dovrete uccidere la guerra nel ventre della Libia…?
Se la guerra uccide anche la politica
di Domenico Quirico
La pace è diventata solo un armistizio, lo stato naturale è la guerra, una specie di cancro che assorbe tutte le forze vive, occupa tutti gli spazi, schiaccia la vita. E’ così: solo che quando ce n’è troppa, allora diventa monotona come la pace. Ecco: in Libia la politica è stata uccisa, di vivo c’è solo guerra. La frase di Von Clausewitz secondo cui i conflitti non sono altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi oggi non ha più alcun significato, è inattuabile. Perché dopo una guerra come questa, così naturale e assoluta, non ci sarà nulla, negoziato, spartizione altro regime. Solo un’altra guerra. Tutto ciò che è politica sembra gettato via e dimenticato, in questo luogo non si fa che sbrigare il lavoro che la battaglia, imperiosamente, richiede. Come in fabbrica e nei campi. Noi chiediamo ai libici atti politici. Loro possono darci solo atti di guerra. Le stesse soluzioni diventano una parte del problema, lo complicano. Non ci si batte per uno scopo. Non ci sono più scopi. Si combatte e basta.
Lo capisci guardando i combattenti che presidiano Tripoli o questi villaggi dall’aspetto di mucchi di macerie biancastre come se fossero precipitati dal cielo sulla terra. Più le nazioni come Siria, Somalia o Libia hanno i confini erosi dal massacro e più si strappano dal cuore guerrieri piene di sangue. A Nord a Sud ad Ovest: dappertutto battaglie di queste guerre nuove che si autoalimentano. Dovunque ci si volti la guerra è in qualunque punto di questa vastità. Questa massa smisurata di poveri manovali delle battaglie che hanno costruito con le loro mani questa immensa guerra sono manovrati da quelli che, grandi o piccoli sensali del caos, vivono in guerra e sono in pace durante la guerra, che proclamano l’irriducibile antagonismo tra le tribù, o che abbindolano e addormentano, perché il massacro non si plachi, con la morfina dei loro futuri paradisi. Trasformano la ricchezza del paese, il petrolio, in famelica patologia. La guerra, qui, ha partoriti uomini nuovi, il loro rapporto con il conflitto permanente definisce la loro identità.
Noi pensiamo e agiamo come se ci fosse un fine, un momento in cui le armi dovranno necessariamente tacere e tra le fazioni o «i governi», (che spesso costruiamo noi per dare volto ai nostri progetti) emergeranno nuovi equilibri. E allora, automaticamente, le trattative la diplomazia il mercanteggiamento politico la fragile concordia troveranno un assestamento.
Questo ai tempi delle guerre antiche: quelle che leggendo lo stratega prussiano erano facili a capirsi come un film, di quelli che in qualunque momento entri in sala, dopo due o tre scene, conosci subito l’intreccio, chi ha ragione e chi ha torto. Ora nessuno tra i protagonisti ha interesse che la guerra in Libia finisca. Perché segnerebbe così la propria fine. A Tripoli una milizia controlla il catasto, vende i titoli di proprietà di coloro che sono fuggiti o militano per altre fazioni. Come potrebbe desiderare la pace? Sono moderni capitani di ventura, spesso più imprenditori che strateghi, che la guerra nutre arricchisce e giustifica nella loro esistenza. Perfino la vittoria sarebbe una sciagura, li renderebbe inutili. L’equilibrio permanente della mischia è lo stato perfetto. I gruppi di banditi lo vogliono perché la pace segnerebbe la loro scomparsa, la fine dei sequestri e della gozzoviglia, i «partiti», fratelli musulmani, uomini di Tobruk, governo in esilio, perché nessuno di loro ha, contemporaneamente, la forza e la legittimità. Se ne ha una manca dell’altra. E allora la guerra garantisce di restare in scena.
Gli uomini del califfato, loro sì, hanno un progetto politico che va oltre la guerra permanente e imporrebbe una pace cimiteriale, il paradiso in terra: ma la conclusione è remota nel tempo e per ora solo la confusione della guerra offre loro uno spazio e possibilità di azione.
La guerra è una cosa semplice. Occorrono solo tre cose in fondo: armi uomini e denaro. Soprattutto denaro, che assicura le altre due. E in Libia non manca. C’è il petrolio, risorsa senza fine. Farla finita con la guerra sarebbe come impedire le tempeste. Oscuri sciami di umanità si ritirano uno dopo l’altro in se stessi, riassorbiti dal loro male misterioso. Un amico libico indica con la mano l’intera larghezza dell’indescrivibile paesaggio del deserto e ripete la frase: questa è la guerra… ed è così dappertutto, tremila chilometri di tragedie eguali, dal confine egiziano a quello tunisino e giù giù fino in fondo al deserto…. domani si ricomincia e come si è ricominciato l’altro ieri e tutti i giorni precedenti… volete venire qui per salvarci ma sapete che per farlo dovrete uccidere la guerra nel ventre della Libia…?
il manifesto 12.2.16
464 inchieste contro gli accademici turchi
Turchia. Dopo la petizione contro la campagna anti-kurda prosegue l'attacco ai professori universitari. Erdogan reprime tutti, anche le donne che scendono in piazza per chiedere uguaglianza
di Chiara Cruciati
Ieri la corte di Istanbul ha emesso un ordine di arresto per Ekrem Dumanli, ex redattore di Zaman (quotidiano di opposizione commissariato una settimana fa) con l’accusa di aver insultato il presidente turco Erdogan.
Per l’impellenza delle censure più recenti, forse qualcuno se ne era dimenticato ma sul capo di oltre mille accademici turchi pesa ancora il pericolo di finire dietro le sbarre: dall’11 gennaio sono stati aperti 464 fascicoli di inchiesta contro professori universitari colpevoli di aver firmato, quel giorno, una petizione per chiedere la fine delle operazioni militari contro la popolazione kurda.
Due mesi fa 33 di loro erano già finiti in prigione per qualche giorno, per poi essere rilasciati. Ma la ragnatela della censura di Stato ha continuato a intrappolarli: dalla pubblicazione della petizione 9 dei firmatari sono stati licenziati dalle proprie università, 5 hanno lasciato il posto a causa delle incessanti pressioni esterne, 27 sono stati sospesi.
Ad operare, per mano del governo, sono le stesse istituzioni accademiche pubbliche, piegate al volere del sultano. Ma si muovono anche le università private: qui 21 professori sono stati cacciati, uno è stato costretto al pre-pensionamento e 43 sono sotto inchiesta amministrativa.
Agli altri pensa la longa manus della magistratura: 153 procedimenti penali sono già stati aperti, mentre i fascicoli totali di inchiesta contro gli accademici sono 464. Ciò significa che 153 di loro sono già accusati di reati penali, ovvero insulto alle istituzioni dello Stato e propaganda terroristica, crimini per i quali si rischia fino a 5 anni di prigione. Sugli altri si sta investigando.
La petizione incriminata (firmata anche da autorevoli colleghi stranieri, tra cui Noam Chomsky e David Harvey) era stata accolta da 1.128 accademici di 89 diverse università. Dal titolo «Non saremo parte di questo crimine», svelava «il massacro» in corso nel sud est a maggioranza kurda per mano dell’esercito e della polizia.
Quell’operazione è ancora in corso: sebbene alcune campagne locali siano state ufficialmente chiuse, altre sono state aperte. Dall’altra parte del paese a subire le repressione sono le donne, tornate in piazza per l’8 marzo. Il 6 centinaia di donne avevano protestato per le discriminazioni strutturali in ambito economico, sociale e politico: la Turchia è 125° su 140 paesi secondo il Global Gender Gap Index 2014; il tasso di occupazione è solo al 28% (contro il 63% della media europea); e il 40% delle turche denuncia di aver subito violenze domestiche almeno una volta nella vita.
La risposta del governo sono stati i proiettili di gomma. Ankara non era riuscita a impedire le manifestazioni: «Abbiamo sempre detto che non avremmo mai lasciato le strade l’8 marzo e non lo faremo – raccontava una manifestante – Né la polizia né il governo ci fermeranno». Il bilancio finale è stato di una donna arrestata e decine ferite.
Due giorni dopo Istanbul e Ankara sono state presidiate per evitare altre proteste e molte donne hanno reagito con piccoli raggruppamenti nelle strade principali e il lancio di uova e ceretta contro i poliziotti. Intanto il presidente Erdogan celebrava la Giornata della Donna con il più trito dei machismi: «Una donna è prima di tutto una madre».
Una dichiarazione che segue a exploit precedenti: perle come ‘le donne dovrebbero avere almeno tre figli’ o ‘il controllo delle nascite è tradimento’. Ma non si tratta solo di parole: il governo dell’Akp lavora da tempo per intaccare il diritto all’aborto e alla pillola del giorno, mentre non interviene in merito agli abusi di genere.
464 inchieste contro gli accademici turchi
Turchia. Dopo la petizione contro la campagna anti-kurda prosegue l'attacco ai professori universitari. Erdogan reprime tutti, anche le donne che scendono in piazza per chiedere uguaglianza
di Chiara Cruciati
Ieri la corte di Istanbul ha emesso un ordine di arresto per Ekrem Dumanli, ex redattore di Zaman (quotidiano di opposizione commissariato una settimana fa) con l’accusa di aver insultato il presidente turco Erdogan.
Per l’impellenza delle censure più recenti, forse qualcuno se ne era dimenticato ma sul capo di oltre mille accademici turchi pesa ancora il pericolo di finire dietro le sbarre: dall’11 gennaio sono stati aperti 464 fascicoli di inchiesta contro professori universitari colpevoli di aver firmato, quel giorno, una petizione per chiedere la fine delle operazioni militari contro la popolazione kurda.
Due mesi fa 33 di loro erano già finiti in prigione per qualche giorno, per poi essere rilasciati. Ma la ragnatela della censura di Stato ha continuato a intrappolarli: dalla pubblicazione della petizione 9 dei firmatari sono stati licenziati dalle proprie università, 5 hanno lasciato il posto a causa delle incessanti pressioni esterne, 27 sono stati sospesi.
Ad operare, per mano del governo, sono le stesse istituzioni accademiche pubbliche, piegate al volere del sultano. Ma si muovono anche le università private: qui 21 professori sono stati cacciati, uno è stato costretto al pre-pensionamento e 43 sono sotto inchiesta amministrativa.
Agli altri pensa la longa manus della magistratura: 153 procedimenti penali sono già stati aperti, mentre i fascicoli totali di inchiesta contro gli accademici sono 464. Ciò significa che 153 di loro sono già accusati di reati penali, ovvero insulto alle istituzioni dello Stato e propaganda terroristica, crimini per i quali si rischia fino a 5 anni di prigione. Sugli altri si sta investigando.
La petizione incriminata (firmata anche da autorevoli colleghi stranieri, tra cui Noam Chomsky e David Harvey) era stata accolta da 1.128 accademici di 89 diverse università. Dal titolo «Non saremo parte di questo crimine», svelava «il massacro» in corso nel sud est a maggioranza kurda per mano dell’esercito e della polizia.
Quell’operazione è ancora in corso: sebbene alcune campagne locali siano state ufficialmente chiuse, altre sono state aperte. Dall’altra parte del paese a subire le repressione sono le donne, tornate in piazza per l’8 marzo. Il 6 centinaia di donne avevano protestato per le discriminazioni strutturali in ambito economico, sociale e politico: la Turchia è 125° su 140 paesi secondo il Global Gender Gap Index 2014; il tasso di occupazione è solo al 28% (contro il 63% della media europea); e il 40% delle turche denuncia di aver subito violenze domestiche almeno una volta nella vita.
La risposta del governo sono stati i proiettili di gomma. Ankara non era riuscita a impedire le manifestazioni: «Abbiamo sempre detto che non avremmo mai lasciato le strade l’8 marzo e non lo faremo – raccontava una manifestante – Né la polizia né il governo ci fermeranno». Il bilancio finale è stato di una donna arrestata e decine ferite.
Due giorni dopo Istanbul e Ankara sono state presidiate per evitare altre proteste e molte donne hanno reagito con piccoli raggruppamenti nelle strade principali e il lancio di uova e ceretta contro i poliziotti. Intanto il presidente Erdogan celebrava la Giornata della Donna con il più trito dei machismi: «Una donna è prima di tutto una madre».
Una dichiarazione che segue a exploit precedenti: perle come ‘le donne dovrebbero avere almeno tre figli’ o ‘il controllo delle nascite è tradimento’. Ma non si tratta solo di parole: il governo dell’Akp lavora da tempo per intaccare il diritto all’aborto e alla pillola del giorno, mentre non interviene in merito agli abusi di genere.
Il Sole 12.3.16
Il ricatto di Erdogan sui migranti
La debolezza Ue favorisce la spregiudicatezza turca: indignarsi non basta
di Sergio Fabbrini
Il Consiglio europeo che si è concluso lunedì scorso non ha fatto “un passo in avanti” (come hanno detto il nostro premier e il cancelliere tedesco) con riguardo alla politica migratoria. Anzi l’ha aggrovigliata ancora di più collegandola alla ‘questione turca’. Nelle conclusioni di quel Consiglio europeo, l'Unione europea (Ue) riconosce che non è in grado di gestire da sola l’afflusso di milioni di migranti e rifugiati che arrivano nel nostro continente. È divisa al suo interno, con ogni Stato membro preoccupato della propria situazione politica. Alcuni di essi (7), più altri (2) che non ne fanno parte, hanno deciso unilateralmente di chiudere le proprie frontiere o di introdurre controlli rigidi ai passaggi. Lo spazio Schengen di libera circolazione si sta sgretolando. Non riuscendo a gestire autonomamente l'afflusso di migranti e rifugiati, i leader europei si sono rivolti alla Turchia affinché ne blocchi il movimento verso i paesi europei. Quest’ultima, che pure ospita nel suo territorio più di 2,5 milioni di rifugiati siriani, ha colto l’occasione per rientrare, da protagonista, nel gioco europeo. Il suo presidente Erdogan sa che il cancelliere Merkel ha bisogno di una riduzione drastica degli arrivi dei rifugiati e migranti in Germania (che sono attualmente molto più di 1 milione), se vuole avere la possibilità di vincere le prossime elezioni federali (ottobre 2017) oltre che le elezioni che si terranno domani in 3 laender importanti. Quindi, come fa Putin con il gas, apre o chiude il rubinetto dei rifugiati che vogliono spostarsi verso nord in base alla risposta dei leader europei alle sue richieste. Ovvero: ulteriori finanziamenti, anticipazione della libera circolazione dei cittadini turchi nella Ue, accelerazione delle procedure per fare entrare la Turchia nella Ue. La debolezza europea favorisce così la spregiudicatezza turca. È legittimo indignarsi. Ma non basta.
Occorrerebbe invece tener distinte la questione migratoria e quella turca. La questione migratoria richiede una riforma del policy-making. A Maastricht, nel 1992, la politica migratoria fu inserita tra le politiche della giustizia e degli affari interni, politiche da gestire attraverso un metodo intergovernativo nel cosiddetto Terzo Pilastro. Negli anni successivi, quel Pilastro fu gradualmente sovra-nazionalizzato, in particolare per quanto riguarda gli aspetti della sicurezza e dell'anti-terrorismo. La Commissione ha accresciuto il suo potere di iniziativa legislativa, promuovendo un coordinamento più stretto tra gli Stati membri. Tuttavia, la politica dell’ordine interno ha continuato ad essere gestita attraverso accordi intergovernativi, con ogni Stato membro geloso di preservare le proprie prerogative nazionali in questo campo. Tant’è che quando è arrivato lo tsunami dei rifugiati siriani, la Ue si è trovata senza una comune politica dell'asilo, una comune definizione dei paesi non-europei da considerare a rischio, una comune polizia di protezione delle sue frontiere esterne. Possiamo prendercela con il premier ungherese Orban o con il cancelliere austriaco Fayman perché chiudono unilateralmente le frontiere dei loro paesi, ma dobbiamo prima di tutto prendercela con un sistema della politica migratoria che non consente di giungere a decisioni efficienti e vincolanti. I sistemi decisionali (come quello per la politica migratoria) che si basano solamente sul consenso vanno bene per tempi di bonaccia, non già di tempesta. Se la politica dei rifugiati non verrà sottratta alla logica intergovernativa, allora non ci sarà soluzione al dramma che stiamo vivendo. Un primo passo potrebbe essere una cooperazione volontaria e rafforzata tra quegli Stati membri dell'Ue che concordano sulla necessità di giungere alla gestione sovranazionale del problema dei rifugiati.
Diversa è la questione turca. La sua soluzione richiede necessariamente una revisione dei Trattati. Invece l’ambiguità continua a connotare la risposta europea alla richiesta turca di entrare nella Ue. La Turchia é un membro della Nato al cui interno assolve il ruolo importante di garantire la sicurezza dell’Alleanza sul versante orientale. La Turchia é un grande mercato importante per le imprese e le esportazioni europee. Ma la Turchia è anche un Paese altamente nazionalistico, sia nella sua versione religiosa che in quella laica. È una democrazia illiberale che legittima il potere attraverso le elezioni, ma rifiuta di controllarne l’esercizio attraverso bilanciamenti costituzionali e sociali. Come, ad esempio, attraverso una libera stampa. La “rule of law” non sempre è di casa nel Palazzo Bianco di Ankara, come abbiamo visto con la chiusura del principale giornale di opposizione una settimana fa. È evidente che la collaborazione militare ed economica con la Turchia è strategica per l’Europa. Ma è anche evidente che una Turchia nazionalista e illiberale, se entrasse nella Ue, costituirebbe un fattore di ulteriore destabilizzazione di quest'ultima. Ma a Bruxelles, e non solo lì, si continua a coltivare l'ambigua idea che la Turchia, prima o poi, entrerà nella Ue. E allora perché stupirsi che, al Consiglio europeo di lunedì scorso, il governo turco abbia avanzato richieste che assomigliano ad un ricatto? Accettando quel ricatto, la Ue accentuerà la sua crisi anche se il cancelliere tedesco potrà forse vincere le prossime elezioni.
Non si può risolvere la questione turca senza una differenziazione costituzionale tra l’unione economica del mercato e l’unione politica della moneta. Se rispetta precise condizioni, il nazionalismo turco è compatibile con un mercato comune, ma non con un'unione politica. Ecco perché occorre tenere distinte la questione migratoria e quella turca. La prima richiede un accelerato processo di riforma interna ai Trattati, la seconda un cambiamento di questi ultimi. Aggrovigliando le due questioni, non si risolve la prima e si peggiora la seconda.
Il ricatto di Erdogan sui migranti
La debolezza Ue favorisce la spregiudicatezza turca: indignarsi non basta
di Sergio Fabbrini
Il Consiglio europeo che si è concluso lunedì scorso non ha fatto “un passo in avanti” (come hanno detto il nostro premier e il cancelliere tedesco) con riguardo alla politica migratoria. Anzi l’ha aggrovigliata ancora di più collegandola alla ‘questione turca’. Nelle conclusioni di quel Consiglio europeo, l'Unione europea (Ue) riconosce che non è in grado di gestire da sola l’afflusso di milioni di migranti e rifugiati che arrivano nel nostro continente. È divisa al suo interno, con ogni Stato membro preoccupato della propria situazione politica. Alcuni di essi (7), più altri (2) che non ne fanno parte, hanno deciso unilateralmente di chiudere le proprie frontiere o di introdurre controlli rigidi ai passaggi. Lo spazio Schengen di libera circolazione si sta sgretolando. Non riuscendo a gestire autonomamente l'afflusso di migranti e rifugiati, i leader europei si sono rivolti alla Turchia affinché ne blocchi il movimento verso i paesi europei. Quest’ultima, che pure ospita nel suo territorio più di 2,5 milioni di rifugiati siriani, ha colto l’occasione per rientrare, da protagonista, nel gioco europeo. Il suo presidente Erdogan sa che il cancelliere Merkel ha bisogno di una riduzione drastica degli arrivi dei rifugiati e migranti in Germania (che sono attualmente molto più di 1 milione), se vuole avere la possibilità di vincere le prossime elezioni federali (ottobre 2017) oltre che le elezioni che si terranno domani in 3 laender importanti. Quindi, come fa Putin con il gas, apre o chiude il rubinetto dei rifugiati che vogliono spostarsi verso nord in base alla risposta dei leader europei alle sue richieste. Ovvero: ulteriori finanziamenti, anticipazione della libera circolazione dei cittadini turchi nella Ue, accelerazione delle procedure per fare entrare la Turchia nella Ue. La debolezza europea favorisce così la spregiudicatezza turca. È legittimo indignarsi. Ma non basta.
Occorrerebbe invece tener distinte la questione migratoria e quella turca. La questione migratoria richiede una riforma del policy-making. A Maastricht, nel 1992, la politica migratoria fu inserita tra le politiche della giustizia e degli affari interni, politiche da gestire attraverso un metodo intergovernativo nel cosiddetto Terzo Pilastro. Negli anni successivi, quel Pilastro fu gradualmente sovra-nazionalizzato, in particolare per quanto riguarda gli aspetti della sicurezza e dell'anti-terrorismo. La Commissione ha accresciuto il suo potere di iniziativa legislativa, promuovendo un coordinamento più stretto tra gli Stati membri. Tuttavia, la politica dell’ordine interno ha continuato ad essere gestita attraverso accordi intergovernativi, con ogni Stato membro geloso di preservare le proprie prerogative nazionali in questo campo. Tant’è che quando è arrivato lo tsunami dei rifugiati siriani, la Ue si è trovata senza una comune politica dell'asilo, una comune definizione dei paesi non-europei da considerare a rischio, una comune polizia di protezione delle sue frontiere esterne. Possiamo prendercela con il premier ungherese Orban o con il cancelliere austriaco Fayman perché chiudono unilateralmente le frontiere dei loro paesi, ma dobbiamo prima di tutto prendercela con un sistema della politica migratoria che non consente di giungere a decisioni efficienti e vincolanti. I sistemi decisionali (come quello per la politica migratoria) che si basano solamente sul consenso vanno bene per tempi di bonaccia, non già di tempesta. Se la politica dei rifugiati non verrà sottratta alla logica intergovernativa, allora non ci sarà soluzione al dramma che stiamo vivendo. Un primo passo potrebbe essere una cooperazione volontaria e rafforzata tra quegli Stati membri dell'Ue che concordano sulla necessità di giungere alla gestione sovranazionale del problema dei rifugiati.
Diversa è la questione turca. La sua soluzione richiede necessariamente una revisione dei Trattati. Invece l’ambiguità continua a connotare la risposta europea alla richiesta turca di entrare nella Ue. La Turchia é un membro della Nato al cui interno assolve il ruolo importante di garantire la sicurezza dell’Alleanza sul versante orientale. La Turchia é un grande mercato importante per le imprese e le esportazioni europee. Ma la Turchia è anche un Paese altamente nazionalistico, sia nella sua versione religiosa che in quella laica. È una democrazia illiberale che legittima il potere attraverso le elezioni, ma rifiuta di controllarne l’esercizio attraverso bilanciamenti costituzionali e sociali. Come, ad esempio, attraverso una libera stampa. La “rule of law” non sempre è di casa nel Palazzo Bianco di Ankara, come abbiamo visto con la chiusura del principale giornale di opposizione una settimana fa. È evidente che la collaborazione militare ed economica con la Turchia è strategica per l’Europa. Ma è anche evidente che una Turchia nazionalista e illiberale, se entrasse nella Ue, costituirebbe un fattore di ulteriore destabilizzazione di quest'ultima. Ma a Bruxelles, e non solo lì, si continua a coltivare l'ambigua idea che la Turchia, prima o poi, entrerà nella Ue. E allora perché stupirsi che, al Consiglio europeo di lunedì scorso, il governo turco abbia avanzato richieste che assomigliano ad un ricatto? Accettando quel ricatto, la Ue accentuerà la sua crisi anche se il cancelliere tedesco potrà forse vincere le prossime elezioni.
Non si può risolvere la questione turca senza una differenziazione costituzionale tra l’unione economica del mercato e l’unione politica della moneta. Se rispetta precise condizioni, il nazionalismo turco è compatibile con un mercato comune, ma non con un'unione politica. Ecco perché occorre tenere distinte la questione migratoria e quella turca. La prima richiede un accelerato processo di riforma interna ai Trattati, la seconda un cambiamento di questi ultimi. Aggrovigliando le due questioni, non si risolve la prima e si peggiora la seconda.
Repubblica 12.3.16
Europa e Turchia, se la realpolitik diventa un’umiliazione
Quale futuro avremo se con Ankara rinunciamo ai nostri principi democratici?
di Massimo Riva
PEGGIO che penoso, davvero umiliante lo spettacolo offerto dai maggiorenti europei genuflessi dinanzi alle sfrontate pretese del governo di Ankara. Ma quale Europa si vuole costruire per il futuro, quale lascito si vuol preparare per figli e nipoti da parte di una classe dirigente continentale così tremebonda da aver perfino paura di difendere i principi essenziali del convivere in una comunità democratica? La libertà d’informazione, che in Turchia oggi viene sistematicamente conculcata e repressa, non è un ricco e superfluo accessorio della macchina democratica. Ma ne costituisce — sembra purtroppo il caso di ricordarlo — un valore fondante e al tempo stesso uno strumento a presidio di tutte le altre libertà.
La “realpolitik” può forse giustificare i termini cinici di un negoziato sui migranti che assume a momenti i contorni di una tratta di essere umani. Ma non può spingere i rappresentanti di quella che ama definirsi la culla della democrazia a ignorare quanto accade, giorno dopo giorno, in Turchia dove una sorta di Mussolini in terra anatolica consolida il suo potere monocratico spegnendo con la forza le voci di opposizione e perseguitando le minoranze. Gli infelici esperimenti del giovane Bush hanno sepolto definitivamente la folle illusione che la democrazia si possa esportare sulla punta delle baionette. Ma di qui a far finta di nulla dinanzi a un regime che fa strame della libertà di stampa ci sta di mezzo un abisso tremendamente pericoloso. Perché l’indifferenza su temi così cruciali in casa altrui rischia di essere sintomo allarmante di una sensibilità parimenti indebolita dentro le mura domestiche. L’arrendevolezza di Bruxelles a fronte delle scelte repressive del pluralismo dell’informazione in atto in Ungheria e in Polonia ne sono già drammatica avvisaglia.
Si obietterà che qualcuno, al recente incontro con i turchi, ha pur sollevato la questione. Lo ha fatto il presidente del parlamento europeo, Martin Schulz, e pure il nostro presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Verissimo, ma l’esito di queste loro pronunce è stato quasi nullo o addirittura controproducente. Il fatto che tutto si sia risolto in una riga del comunicato ufficiale nella quale si dice che il tema della libertà di stampa in Turchia è stato discusso si ritorce come un boomerang. Perché è come confessare che sì, si sarebbe anche sensibili all’argomento, ma al tempo stesso non si vuol far nulla. Cosicché anche le parole di Schulz e di Renzi suonano come una condanna senza pena. In sostanza pratica, un’assoluzione.
Oltre a quello dell’informazione, il dossier Turchia imporrebbe alle democrazie europee di aprire un altro contenzioso non meno pressante: quello del trattamento riservato alle minoranze, segnatamente a quella curda. In materia l’Europa ha un debito secolare, anzitutto verso se stessa e i suoi conclamati valori, per l’inerzia totale mostrata a suo tempo durante la persecuzione degli armeni. Ebbene, su questo punto il silenzio di Bruxelles e delle altre capitali europee è addirittura totale. Chissà, forse ci toccherà aspettare che fra qualche anno un epigono di Franz Werfel scuota tardivamente le coscienze del Vecchio continente con un nuovo sconvolgente racconto di un altro Mussa Dagh in terra curda.
Quel che più turba di questo stato dell’arte politica in Europa è il ritorno di fantasmi del passato in un continente che sembra però aver smarrito la sua memoria storica. Su tutto e tutti sembra così dominare un crescente sentimento di paura che dalle basi della società risale pericolosamente ai vertici dei singoli stati. Un clima debilitante che ricorda fin troppo da vicino quello che un’ottantina di anni fa fu chiamato lo “spirito di Monaco” per rimarcare l’imbelle e pavido atteggiamento delle allora residue democrazie europee dinanzi alle sopraffazioni della dilagante onda nazi-fascista. Oggi è come se queste lezioni della storia non avessero lasciato traccia alcuna nelle menti di chi governa nell’Unione europea. Si arriva al punto di affidarsi al filo spinato in Paesi che dovrebbero avere qualcuno l’orrore e altri la vergogna di evocare la parola stessa. Si farnetica di immaginare l’Europa chiusa come una fortezza, immemori di quel che diceva lapidario e lungimirante il generale De Gaulle ai tempi della mitica e inutile Maginot: «Le fortezze sono fatte apposta per essere espugnate».
Ora la partita con la Turchia è aggiornata al prossimo round fra qualche giorno. C’è ancora un po’ di tempo per sperare che la classe dirigente europea abbia quel soprassalto di coraggio politico per contrastare la deriva della paura che finora con la propria irresolutezza ha alimentato nelle diverse opinioni nazionali. Non si vorrebbe dover tornare malinconicamente a rileggere quella stupenda pagina scritta da Sartre sul ritorno di Daladier da Monaco nel 1938 nella quale il premier francese guarda la folla esultante per gli “accordi di pace” e — consapevole dell’inganno sottoscritto — mormora sconsolato: “Ma che coglioni!”.
Europa e Turchia, se la realpolitik diventa un’umiliazione
Quale futuro avremo se con Ankara rinunciamo ai nostri principi democratici?
di Massimo Riva
PEGGIO che penoso, davvero umiliante lo spettacolo offerto dai maggiorenti europei genuflessi dinanzi alle sfrontate pretese del governo di Ankara. Ma quale Europa si vuole costruire per il futuro, quale lascito si vuol preparare per figli e nipoti da parte di una classe dirigente continentale così tremebonda da aver perfino paura di difendere i principi essenziali del convivere in una comunità democratica? La libertà d’informazione, che in Turchia oggi viene sistematicamente conculcata e repressa, non è un ricco e superfluo accessorio della macchina democratica. Ma ne costituisce — sembra purtroppo il caso di ricordarlo — un valore fondante e al tempo stesso uno strumento a presidio di tutte le altre libertà.
La “realpolitik” può forse giustificare i termini cinici di un negoziato sui migranti che assume a momenti i contorni di una tratta di essere umani. Ma non può spingere i rappresentanti di quella che ama definirsi la culla della democrazia a ignorare quanto accade, giorno dopo giorno, in Turchia dove una sorta di Mussolini in terra anatolica consolida il suo potere monocratico spegnendo con la forza le voci di opposizione e perseguitando le minoranze. Gli infelici esperimenti del giovane Bush hanno sepolto definitivamente la folle illusione che la democrazia si possa esportare sulla punta delle baionette. Ma di qui a far finta di nulla dinanzi a un regime che fa strame della libertà di stampa ci sta di mezzo un abisso tremendamente pericoloso. Perché l’indifferenza su temi così cruciali in casa altrui rischia di essere sintomo allarmante di una sensibilità parimenti indebolita dentro le mura domestiche. L’arrendevolezza di Bruxelles a fronte delle scelte repressive del pluralismo dell’informazione in atto in Ungheria e in Polonia ne sono già drammatica avvisaglia.
Si obietterà che qualcuno, al recente incontro con i turchi, ha pur sollevato la questione. Lo ha fatto il presidente del parlamento europeo, Martin Schulz, e pure il nostro presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Verissimo, ma l’esito di queste loro pronunce è stato quasi nullo o addirittura controproducente. Il fatto che tutto si sia risolto in una riga del comunicato ufficiale nella quale si dice che il tema della libertà di stampa in Turchia è stato discusso si ritorce come un boomerang. Perché è come confessare che sì, si sarebbe anche sensibili all’argomento, ma al tempo stesso non si vuol far nulla. Cosicché anche le parole di Schulz e di Renzi suonano come una condanna senza pena. In sostanza pratica, un’assoluzione.
Oltre a quello dell’informazione, il dossier Turchia imporrebbe alle democrazie europee di aprire un altro contenzioso non meno pressante: quello del trattamento riservato alle minoranze, segnatamente a quella curda. In materia l’Europa ha un debito secolare, anzitutto verso se stessa e i suoi conclamati valori, per l’inerzia totale mostrata a suo tempo durante la persecuzione degli armeni. Ebbene, su questo punto il silenzio di Bruxelles e delle altre capitali europee è addirittura totale. Chissà, forse ci toccherà aspettare che fra qualche anno un epigono di Franz Werfel scuota tardivamente le coscienze del Vecchio continente con un nuovo sconvolgente racconto di un altro Mussa Dagh in terra curda.
Quel che più turba di questo stato dell’arte politica in Europa è il ritorno di fantasmi del passato in un continente che sembra però aver smarrito la sua memoria storica. Su tutto e tutti sembra così dominare un crescente sentimento di paura che dalle basi della società risale pericolosamente ai vertici dei singoli stati. Un clima debilitante che ricorda fin troppo da vicino quello che un’ottantina di anni fa fu chiamato lo “spirito di Monaco” per rimarcare l’imbelle e pavido atteggiamento delle allora residue democrazie europee dinanzi alle sopraffazioni della dilagante onda nazi-fascista. Oggi è come se queste lezioni della storia non avessero lasciato traccia alcuna nelle menti di chi governa nell’Unione europea. Si arriva al punto di affidarsi al filo spinato in Paesi che dovrebbero avere qualcuno l’orrore e altri la vergogna di evocare la parola stessa. Si farnetica di immaginare l’Europa chiusa come una fortezza, immemori di quel che diceva lapidario e lungimirante il generale De Gaulle ai tempi della mitica e inutile Maginot: «Le fortezze sono fatte apposta per essere espugnate».
Ora la partita con la Turchia è aggiornata al prossimo round fra qualche giorno. C’è ancora un po’ di tempo per sperare che la classe dirigente europea abbia quel soprassalto di coraggio politico per contrastare la deriva della paura che finora con la propria irresolutezza ha alimentato nelle diverse opinioni nazionali. Non si vorrebbe dover tornare malinconicamente a rileggere quella stupenda pagina scritta da Sartre sul ritorno di Daladier da Monaco nel 1938 nella quale il premier francese guarda la folla esultante per gli “accordi di pace” e — consapevole dell’inganno sottoscritto — mormora sconsolato: “Ma che coglioni!”.
il manifesto 12.3.16
Shujayea torna a vivere
Striscia di Gaza. Reportage dal sobborgo orientale di Gaza city ridotto in macerie nel 2014 dai bombardamenti israeliani
Le famiglie palestinesi stanche di aspettare cominciano a ricostruire da sole. Ma l'emergenza sfollati resta alta. Ancora senza casa 88.000 abitanti, metà dei quali bambini
di Michele Giorgio
SHUJAYEA (GAZA) È un giorno di festa per i fratellini Hatem e Ahmad, 6 e 8 anni, e per tutti gli altri bambini di questa parte di Shujayea, conosciuta come “Tawfiq”, dal nome della moschea distrutta dai bombardamenti israeliani dell’estate 2014, come gran parte di questo sobborgo di Gaza city a ridosso delle linee di confine. Qui fino alla notte del 19 luglio di due anni fa vivevano circa 100mila persone, oggi è abitata solo in minima parte. «Voglio la nostra casa accanto al campo di calcio» dice quello più grandicello, Ahmad. «Mi porterai a giocare con te, vero?» gli domanda preoccupato Hatem mentre prova ad incastrare due moduli di cartone, due “edifici” della Shujayea che sognano i più piccoli, una città a misura di bambino. Intorno a loro, tra colonne di cemento di una casa in costruzione, altri ragazzini, aiutati da giovani volontari, si affrettano a montare i moduli colorati. La Shujayea ideale per i più piccoli è una iniziativa di due associazioni palestinesi, legata al nome di Vittorio Arrigoni. A sponsorizzarla è il centro culturale italiano di Gaza che porta il nome dell’attivista e scrittore, nonchè collaboratore del manifesto, assassinato cinque anni fa da un sedicente gruppo salafita. «Sono moduli di formazione preparati durante il seminario ‘Ricostruzione ed Educazione’ che abbiamo tenuto a Gaza tra dicembre e gennaio, grazie alla presenza di 20 educatori italiani giunti da Milano. Lo scopo è stato quello di permettere ai bambini di indicare agli adulti in che direzione muoversi per ricostruire a Shujayea», spiega Meri Calvelli, responsabile del centro “Vittorio Arrigoni”.
A dire il vero non è proprio quella che desiderano i bambini la Shujayea che sta rinascendo poco alla volta. Da alcuni mesi grazie all’arrivo di fondi internazionali e arabi (il Qatar in particolare) e ai finanziamenti ricevuti da un buon numero di famiglie che hanno avuto la casa distrutta dai bombardamenti aerei e dalle cannonate, e grazie alla rimozione del 79% delle macerie fatta dall’Undp e da alcune Ong (anche straniere) che hanno lavorato con le municipalità, i palestinesi di Shujayea hanno cominciato a darsi un tetto. Si lavora in fretta, l’urbanistica è una materia abbastanza sconosciuta da queste parti. Però è difficile dare torto a chi aspetta da troppo tempo. Le promesse di miliardi di dollari fatte alla conferenza dei donatori al Cairo nell’autunno del 2014 e mantenute solo in parte, le forti restrizioni imposte all’ingresso a Gaza dei materiali per l’edilizia che solo da qualche mese Israele ha cominciato ad allentare, hanno spinto tante famiglie a prendere l’iniziativa. «Anche la mia famiglia ha ricevuto una piccola somma dal Qatar. Qui siamo tutti muratori e la casa abbiamo deciso di costruircela noi. Siamo stanchi di vivere nei rifugi, la vita è già difficile a casa nostra», dice Amer al Helo, 25 anni, impegnato ad impastare la calce. Anche l’Italia sta dando il suo contributo. «Il nostro finanziamento è di oltre 16 milioni di euro ed è mirato a ridare una casa in tempi ragionevolmente brevi a 28mila palestinesi nella zona di al Nada, a Beit Hanun, non lontano dal valico di Erez», riferisce Vicenzo Racalbuto, direttore dell’ufficio di Gerusalemme dell’Agenzia Italiana della Cooperazione allo Sviluppo. Il progetto, al quale partecipano anche la società italiana “Studioazue” (Architettura sostenibile) e l’associazione palestinese “Dar”, prevede inoltre la redazione del piano regolatore della zona e la ricostruzione, a Gaza city, dell’Italian Mall, un edificio di 17 piani distrutto dall’aviazione israeliana negli ultimi giorni di “Margine Protettivo”, quando furono prese di mira le “torri” di Gaza. Alla fine della guerra oltre a distruzioni immense e a una massa enorme di sfollati interni, si contarono tra i palestinesi oltre 2.200 morti e più di 10.000 feriti. I morti israeliani furono circa 70, quasi tutti soldati.
Servono le case qui a Shujayea e in tutta la Striscia per accogliere decine migliaia di persone che ad un anno e mezzo dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo” vivono in alloggi di fortuna, a casa di parenti, in tende, in case prefabbricate, in abitazioni affittate con contributi delle agenzie umanitarie e ancora in qualche edificio scolastico. Sono 88.849: 24.104 uomini, 20.331 donne e 44.414 bambini e ragazzi, secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Ocha, l’ufficio di coordinamento delle attività umanitarie dell’Onu. A Shujayea, tra le aree più devastate di Gaza assieme a Rafah e Khuzaa, bombe e cannonate nel 2014 distrussero completamente 670 edifici, altri 608 furono danneggiati gravemente, 576 danneggiati in parte e 1800 in modo limitato.
Tutto cominciò alle 23 del 19 luglio, quando Israele diede inizio all’offensiva di terra contro Gaza dopo quasi due settimane di bombardamenti aerei. Sostenendo che l’ala militare di Hamas aveva sparato 140 razzi da Shujayea, i comandi israeliani entrarono nel sobborgo dopo aver sganciato volantini che invitavano la popolazione a fuggire. Molte famiglie però non seppero nulla di quell’avvertimento, anche a causa della mancanza di energia elettrica che limitava le comunicazioni. All’inizio la Brigata Golani non incontrò particolare resistenza da parte dei combattenti palestinesi. Poi gli uomini scelti di Hamas, quelli delle Brigate “Ezzedin al Qassam”, evidenziarono ottime capacità di combattimento che colsero di sorpresa gli israeliani. Si dimostrarono ben addestrati soprattutto nell’uso dei razzi anticarro. Fino al punto da colpire e far saltare in aria, proprio nella zona della moschea “Tawfiq”, un veicolo corazzato uccidendo i 7 soldati a bordo. I resti di uno di questi, Oron Shaul, assieme a quelli di un altro soldato, Hadar Goldin, ucciso a Rafah, sono ancora nelle mani del movimento islamico. La reazione delle forze armate israeliane fu devastante. Secondo fonti del Pentagono, citate da al Jazeera, quella notte fino al giorno successivo entrarono in azione 258 pezzi di artiglieria che spararono circa 7.000 colpi ad alto potenziale sulle case di Shujayea. Una pioggia di fuoco alla quale partecipò anche l’aviazione. Le vie Nazaz, Shaath e Beltaji si trasformarono in un inferno. Il servizio di pronto soccorso palestinese registrò in quelle ore almeno 200 richieste di aiuto. Le ambulanze tentarono di entrare, quasi sempre senza successo, talvolta a costo della vita di autisti e paramedici. Sotto i bombardamenti migliaia di civili si misero in fuga, tra urla e scene di panico e morte. Secondo fonti di Gaza i morti palestinesi furono 120 di cui un terzo donne e bambini, quasi 300 i feriti. Le famiglie Ayyad, Helo, Sheikh Khalil e Jamal furono decimate. Gli israeliani in quelle ore ebbero 13 soldati uccisi e 56 feriti.
I fratellini Hatem e Ahmad continuano, assieme ai loro amici, a giocare e a “costruire” la Shujayea che vorrebbero. E le agenzie umanitarie internazionali proseguono (lentamente) i progetti di ricostruzione e riabilitazione muovendosi a fatica tra le restrizioni israeliane all’ingresso dei materiali e al boicottaggio reciproco che le due leadership palestinesi rivali, Fatah e Hamas, si fanno dal 2007 incuranti dei danni che provocano alla popolazione di Gaza. Alcuni Paesi arabi cominciano a dare aiuti finanziari concreti. Ma è ancora poco per la Striscia devastata dall’offensiva del 2014, senza infrastrutture, senza acqua, senza lavoro per i suoi abitanti, sotto blocco israeliano da dieci anni. Ed il mondo intanto dimentica la questione palestinese.
Shujayea torna a vivere
Striscia di Gaza. Reportage dal sobborgo orientale di Gaza city ridotto in macerie nel 2014 dai bombardamenti israeliani
Le famiglie palestinesi stanche di aspettare cominciano a ricostruire da sole. Ma l'emergenza sfollati resta alta. Ancora senza casa 88.000 abitanti, metà dei quali bambini
di Michele Giorgio
SHUJAYEA (GAZA) È un giorno di festa per i fratellini Hatem e Ahmad, 6 e 8 anni, e per tutti gli altri bambini di questa parte di Shujayea, conosciuta come “Tawfiq”, dal nome della moschea distrutta dai bombardamenti israeliani dell’estate 2014, come gran parte di questo sobborgo di Gaza city a ridosso delle linee di confine. Qui fino alla notte del 19 luglio di due anni fa vivevano circa 100mila persone, oggi è abitata solo in minima parte. «Voglio la nostra casa accanto al campo di calcio» dice quello più grandicello, Ahmad. «Mi porterai a giocare con te, vero?» gli domanda preoccupato Hatem mentre prova ad incastrare due moduli di cartone, due “edifici” della Shujayea che sognano i più piccoli, una città a misura di bambino. Intorno a loro, tra colonne di cemento di una casa in costruzione, altri ragazzini, aiutati da giovani volontari, si affrettano a montare i moduli colorati. La Shujayea ideale per i più piccoli è una iniziativa di due associazioni palestinesi, legata al nome di Vittorio Arrigoni. A sponsorizzarla è il centro culturale italiano di Gaza che porta il nome dell’attivista e scrittore, nonchè collaboratore del manifesto, assassinato cinque anni fa da un sedicente gruppo salafita. «Sono moduli di formazione preparati durante il seminario ‘Ricostruzione ed Educazione’ che abbiamo tenuto a Gaza tra dicembre e gennaio, grazie alla presenza di 20 educatori italiani giunti da Milano. Lo scopo è stato quello di permettere ai bambini di indicare agli adulti in che direzione muoversi per ricostruire a Shujayea», spiega Meri Calvelli, responsabile del centro “Vittorio Arrigoni”.
A dire il vero non è proprio quella che desiderano i bambini la Shujayea che sta rinascendo poco alla volta. Da alcuni mesi grazie all’arrivo di fondi internazionali e arabi (il Qatar in particolare) e ai finanziamenti ricevuti da un buon numero di famiglie che hanno avuto la casa distrutta dai bombardamenti aerei e dalle cannonate, e grazie alla rimozione del 79% delle macerie fatta dall’Undp e da alcune Ong (anche straniere) che hanno lavorato con le municipalità, i palestinesi di Shujayea hanno cominciato a darsi un tetto. Si lavora in fretta, l’urbanistica è una materia abbastanza sconosciuta da queste parti. Però è difficile dare torto a chi aspetta da troppo tempo. Le promesse di miliardi di dollari fatte alla conferenza dei donatori al Cairo nell’autunno del 2014 e mantenute solo in parte, le forti restrizioni imposte all’ingresso a Gaza dei materiali per l’edilizia che solo da qualche mese Israele ha cominciato ad allentare, hanno spinto tante famiglie a prendere l’iniziativa. «Anche la mia famiglia ha ricevuto una piccola somma dal Qatar. Qui siamo tutti muratori e la casa abbiamo deciso di costruircela noi. Siamo stanchi di vivere nei rifugi, la vita è già difficile a casa nostra», dice Amer al Helo, 25 anni, impegnato ad impastare la calce. Anche l’Italia sta dando il suo contributo. «Il nostro finanziamento è di oltre 16 milioni di euro ed è mirato a ridare una casa in tempi ragionevolmente brevi a 28mila palestinesi nella zona di al Nada, a Beit Hanun, non lontano dal valico di Erez», riferisce Vicenzo Racalbuto, direttore dell’ufficio di Gerusalemme dell’Agenzia Italiana della Cooperazione allo Sviluppo. Il progetto, al quale partecipano anche la società italiana “Studioazue” (Architettura sostenibile) e l’associazione palestinese “Dar”, prevede inoltre la redazione del piano regolatore della zona e la ricostruzione, a Gaza city, dell’Italian Mall, un edificio di 17 piani distrutto dall’aviazione israeliana negli ultimi giorni di “Margine Protettivo”, quando furono prese di mira le “torri” di Gaza. Alla fine della guerra oltre a distruzioni immense e a una massa enorme di sfollati interni, si contarono tra i palestinesi oltre 2.200 morti e più di 10.000 feriti. I morti israeliani furono circa 70, quasi tutti soldati.
Servono le case qui a Shujayea e in tutta la Striscia per accogliere decine migliaia di persone che ad un anno e mezzo dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo” vivono in alloggi di fortuna, a casa di parenti, in tende, in case prefabbricate, in abitazioni affittate con contributi delle agenzie umanitarie e ancora in qualche edificio scolastico. Sono 88.849: 24.104 uomini, 20.331 donne e 44.414 bambini e ragazzi, secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Ocha, l’ufficio di coordinamento delle attività umanitarie dell’Onu. A Shujayea, tra le aree più devastate di Gaza assieme a Rafah e Khuzaa, bombe e cannonate nel 2014 distrussero completamente 670 edifici, altri 608 furono danneggiati gravemente, 576 danneggiati in parte e 1800 in modo limitato.
Tutto cominciò alle 23 del 19 luglio, quando Israele diede inizio all’offensiva di terra contro Gaza dopo quasi due settimane di bombardamenti aerei. Sostenendo che l’ala militare di Hamas aveva sparato 140 razzi da Shujayea, i comandi israeliani entrarono nel sobborgo dopo aver sganciato volantini che invitavano la popolazione a fuggire. Molte famiglie però non seppero nulla di quell’avvertimento, anche a causa della mancanza di energia elettrica che limitava le comunicazioni. All’inizio la Brigata Golani non incontrò particolare resistenza da parte dei combattenti palestinesi. Poi gli uomini scelti di Hamas, quelli delle Brigate “Ezzedin al Qassam”, evidenziarono ottime capacità di combattimento che colsero di sorpresa gli israeliani. Si dimostrarono ben addestrati soprattutto nell’uso dei razzi anticarro. Fino al punto da colpire e far saltare in aria, proprio nella zona della moschea “Tawfiq”, un veicolo corazzato uccidendo i 7 soldati a bordo. I resti di uno di questi, Oron Shaul, assieme a quelli di un altro soldato, Hadar Goldin, ucciso a Rafah, sono ancora nelle mani del movimento islamico. La reazione delle forze armate israeliane fu devastante. Secondo fonti del Pentagono, citate da al Jazeera, quella notte fino al giorno successivo entrarono in azione 258 pezzi di artiglieria che spararono circa 7.000 colpi ad alto potenziale sulle case di Shujayea. Una pioggia di fuoco alla quale partecipò anche l’aviazione. Le vie Nazaz, Shaath e Beltaji si trasformarono in un inferno. Il servizio di pronto soccorso palestinese registrò in quelle ore almeno 200 richieste di aiuto. Le ambulanze tentarono di entrare, quasi sempre senza successo, talvolta a costo della vita di autisti e paramedici. Sotto i bombardamenti migliaia di civili si misero in fuga, tra urla e scene di panico e morte. Secondo fonti di Gaza i morti palestinesi furono 120 di cui un terzo donne e bambini, quasi 300 i feriti. Le famiglie Ayyad, Helo, Sheikh Khalil e Jamal furono decimate. Gli israeliani in quelle ore ebbero 13 soldati uccisi e 56 feriti.
I fratellini Hatem e Ahmad continuano, assieme ai loro amici, a giocare e a “costruire” la Shujayea che vorrebbero. E le agenzie umanitarie internazionali proseguono (lentamente) i progetti di ricostruzione e riabilitazione muovendosi a fatica tra le restrizioni israeliane all’ingresso dei materiali e al boicottaggio reciproco che le due leadership palestinesi rivali, Fatah e Hamas, si fanno dal 2007 incuranti dei danni che provocano alla popolazione di Gaza. Alcuni Paesi arabi cominciano a dare aiuti finanziari concreti. Ma è ancora poco per la Striscia devastata dall’offensiva del 2014, senza infrastrutture, senza acqua, senza lavoro per i suoi abitanti, sotto blocco israeliano da dieci anni. Ed il mondo intanto dimentica la questione palestinese.
Repubblica 12.3.16
Il bivio di Angela mamma o matrigna dell’Europa
Domani il test elettorale che può condizionare il futuro della Merkel
di Bernardo Valli
ATTRAVERSO i sentimenti ispirati da Angela Merkel si possono misurare gli umori europei. Funziona come un termometro. “Mutti” può essere mamma o matrigna. Adesso sulla cancelliera si riversano le critiche delle opinioni pubbliche, non solo tedesche, in larga maggioranza traumatizzate dall’arrivo in massa dei migranti. E lei è ritenuta responsabile di averlo favorito allargando le braccia e aprendo le porte della Germania. Domani si va alle urne in tre Laender e benché si tratti di elezioni regionali il risultato sarà letto, non solo nella Repubblica federale, come un voto a Angela Merkel. L’estrema destra potrebbe emergere per la prima volta raccolta in un partito. La colpa ricadrà su di lei che ha provocato questa vergogna evitata finora dalla Germania postnazista. In molte capitali europee si pensa che dalla “sconsiderata” iniziativa umanitaria della cancelliera tragga profitto l’estremismo populista.
INVECE di analizzare l’incapacità dei governi europei di affrontare insieme un’emergenza che può influire sui connotati delle nostre società, si rimprovera ad Angela Merkel il suo moralismo politico Il primo ministro francese, Manuel Valls, trovandosi a Monaco di Baviera, ha parlato della sua ingenuità nel dichiarare la disponibilità ad accogliere milioni di profughi dal Medio Oriente. Lo stesso giudizio è apparso normale in bocca all’ungherese Orbán, che ha messo il filo spinato ai confini, anticipando quel che hanno poi fatto o stanno facendo altri governi. Ma Valls è un socialista che ha accusato la leader democristiana, capo di un partito di centrodestra, in parte moderato in parte conservatore, di essere troppo debole con i disperati della guerra di Siria e di Iraq che chiedono asilo.
In questa crisi che fa vacillare l’Unione europea, la cancelliera ha agito come la figlia del pastore luterano, come la donna nata e cresciuta nell’Est comunista, dove ha conosciuto il filo spinato e ha subito la proibizione di raggiungere il mondo al di là del Muro. Anche lei ha visto da vicino le pene dei profughi. La sua sensibilità ha suscitato ammirazione ed esasperazione. Quest’ultima ha finito col superare la prima.
L’estate scorsa, quando lei ha deciso di aprire le frontiere, l’Europa l’ha lasciata in sostanza sola. Per il filosofo francese Etienne Balibar, nel momento in cui Angela Merkel ha preso la decisione unilaterale di non tener conto delle regole di Dublino (sull’asilo) per poter accogliere liberamente in Germania i migranti, bisognava scegliere tra due atteggiamenti: affiancarsi a lei e mobilitare l’Unione, che conta cinquecento milioni di abitanti ed è una delle aree più ricche del mondo, oppure organizzare il sabotaggio di quel che la cancelliera tedesca proponeva. Dopo lunghe esitazioni alcuni paesi hanno annunciato il loro appoggio, ma di fatto hanno scelto il sabotaggio, magari con l’inerzia, altri sono stati invece più brutali nel rifiuto.
Sembrava un’ingenuità ubbidire all’etica della convinzione e non lasciarsi guidare dall’etica della responsabilità, alla quale gli uomini di governo devono attenersi. Ma in questo caso convinzione e responsabilità si confondevano. Rispondere all’urgenza umanitaria significava anche rispettare i principi fondatori dell’Europa. Era un atto di responsabilità politica, da assumere collettivamente.
Nei mesi, negli anni precedenti, l’immagine di Angela Merkel era diversa. A Atene, ma anche in altre capitali, era rappresentata con i baffi di Hitler o l’elmo chiodato di Bismarck. Predicava l’austerità. Era detestata. Era giudicata senza pietà. Le accuse erano pesanti. Le regole imposte dalla Germania governata da “Mutti”, nella versione matrigna, riducevano alla fame i greci e dividevano i paesi della zona euro in due categorie: in una erano compresi gli inetti del Club Med, nell’altra quelli meritevoli della moneta unica discendente dal marco tedesco.
La sbiadita società politica europea, divisa e incapace di affrontare la tragedia umana abbattutasi sul continente, lascia intravedere adesso un’altra Angela Merkel. Una cancelliera cinica. Furba. Maestra di tartuferia. La dissacrazione è stata rapida. E assomiglia a una rivalsa di chi era apparso egoista al momento del suo slancio umanitario. Dopo avere messo in riga l’Europa, dopo avere attirato orde di profughi nelle nostre contrade, cerca adesso di affidare ai turchi il compito di proteggerci da quella marea umana. Niente più pianti per i bambini annegati nell’Egeo e nel Mediterraneo, ma una disinvolta, fredda trattativa con il governo islamo-conservatore di Erdogan, non certo esempio di democrazia.
Alla Turchia verrebbe affidata la guardia dell’Europa in cambio (per il momento) di sei miliardi di euro e di una più spedita procedura per l’ingresso nell’Unione. Lasciata sola dagli europei Angela Merkel è rimasta con un milione di profughi in Germania e alla ricerca di soluzioni che calmino la crescente opposizione interna, alla vigilia di una elezione che sarà un importante test politico. La situazione si è rovesciata: chi l’accusava di moralismo adesso le rimprovera, nel nome della morale, di voler vendere le chiavi dell’Europa al turco Erdogan, che viola la libertà di stampa, massacra i curdi e vuole entrare di forza nell’Unione europea. Tutto è ancora da negoziare, nulla è stato deciso, ma a preparare il grande baratto è stata lei, di soppiatto. Senza neppure avvisare Parigi, l’altra capitale dell’asse franco-tedesco, che in questa congiuntura non ha funzionato. Dal dramma ancora lontano dalla fine si trae l’impressione che il solo grande protagonista, ad ogni tappa (economica, umanitaria, diplomatica) sia la cancelliera. Troppo severa? Troppo sentimentale? Troppo cinica? Senza veri partner sulla ribalta è lei che interpreta tutti i ruoli.
Il bivio di Angela mamma o matrigna dell’Europa
Domani il test elettorale che può condizionare il futuro della Merkel
di Bernardo Valli
ATTRAVERSO i sentimenti ispirati da Angela Merkel si possono misurare gli umori europei. Funziona come un termometro. “Mutti” può essere mamma o matrigna. Adesso sulla cancelliera si riversano le critiche delle opinioni pubbliche, non solo tedesche, in larga maggioranza traumatizzate dall’arrivo in massa dei migranti. E lei è ritenuta responsabile di averlo favorito allargando le braccia e aprendo le porte della Germania. Domani si va alle urne in tre Laender e benché si tratti di elezioni regionali il risultato sarà letto, non solo nella Repubblica federale, come un voto a Angela Merkel. L’estrema destra potrebbe emergere per la prima volta raccolta in un partito. La colpa ricadrà su di lei che ha provocato questa vergogna evitata finora dalla Germania postnazista. In molte capitali europee si pensa che dalla “sconsiderata” iniziativa umanitaria della cancelliera tragga profitto l’estremismo populista.
INVECE di analizzare l’incapacità dei governi europei di affrontare insieme un’emergenza che può influire sui connotati delle nostre società, si rimprovera ad Angela Merkel il suo moralismo politico Il primo ministro francese, Manuel Valls, trovandosi a Monaco di Baviera, ha parlato della sua ingenuità nel dichiarare la disponibilità ad accogliere milioni di profughi dal Medio Oriente. Lo stesso giudizio è apparso normale in bocca all’ungherese Orbán, che ha messo il filo spinato ai confini, anticipando quel che hanno poi fatto o stanno facendo altri governi. Ma Valls è un socialista che ha accusato la leader democristiana, capo di un partito di centrodestra, in parte moderato in parte conservatore, di essere troppo debole con i disperati della guerra di Siria e di Iraq che chiedono asilo.
In questa crisi che fa vacillare l’Unione europea, la cancelliera ha agito come la figlia del pastore luterano, come la donna nata e cresciuta nell’Est comunista, dove ha conosciuto il filo spinato e ha subito la proibizione di raggiungere il mondo al di là del Muro. Anche lei ha visto da vicino le pene dei profughi. La sua sensibilità ha suscitato ammirazione ed esasperazione. Quest’ultima ha finito col superare la prima.
L’estate scorsa, quando lei ha deciso di aprire le frontiere, l’Europa l’ha lasciata in sostanza sola. Per il filosofo francese Etienne Balibar, nel momento in cui Angela Merkel ha preso la decisione unilaterale di non tener conto delle regole di Dublino (sull’asilo) per poter accogliere liberamente in Germania i migranti, bisognava scegliere tra due atteggiamenti: affiancarsi a lei e mobilitare l’Unione, che conta cinquecento milioni di abitanti ed è una delle aree più ricche del mondo, oppure organizzare il sabotaggio di quel che la cancelliera tedesca proponeva. Dopo lunghe esitazioni alcuni paesi hanno annunciato il loro appoggio, ma di fatto hanno scelto il sabotaggio, magari con l’inerzia, altri sono stati invece più brutali nel rifiuto.
Sembrava un’ingenuità ubbidire all’etica della convinzione e non lasciarsi guidare dall’etica della responsabilità, alla quale gli uomini di governo devono attenersi. Ma in questo caso convinzione e responsabilità si confondevano. Rispondere all’urgenza umanitaria significava anche rispettare i principi fondatori dell’Europa. Era un atto di responsabilità politica, da assumere collettivamente.
Nei mesi, negli anni precedenti, l’immagine di Angela Merkel era diversa. A Atene, ma anche in altre capitali, era rappresentata con i baffi di Hitler o l’elmo chiodato di Bismarck. Predicava l’austerità. Era detestata. Era giudicata senza pietà. Le accuse erano pesanti. Le regole imposte dalla Germania governata da “Mutti”, nella versione matrigna, riducevano alla fame i greci e dividevano i paesi della zona euro in due categorie: in una erano compresi gli inetti del Club Med, nell’altra quelli meritevoli della moneta unica discendente dal marco tedesco.
La sbiadita società politica europea, divisa e incapace di affrontare la tragedia umana abbattutasi sul continente, lascia intravedere adesso un’altra Angela Merkel. Una cancelliera cinica. Furba. Maestra di tartuferia. La dissacrazione è stata rapida. E assomiglia a una rivalsa di chi era apparso egoista al momento del suo slancio umanitario. Dopo avere messo in riga l’Europa, dopo avere attirato orde di profughi nelle nostre contrade, cerca adesso di affidare ai turchi il compito di proteggerci da quella marea umana. Niente più pianti per i bambini annegati nell’Egeo e nel Mediterraneo, ma una disinvolta, fredda trattativa con il governo islamo-conservatore di Erdogan, non certo esempio di democrazia.
Alla Turchia verrebbe affidata la guardia dell’Europa in cambio (per il momento) di sei miliardi di euro e di una più spedita procedura per l’ingresso nell’Unione. Lasciata sola dagli europei Angela Merkel è rimasta con un milione di profughi in Germania e alla ricerca di soluzioni che calmino la crescente opposizione interna, alla vigilia di una elezione che sarà un importante test politico. La situazione si è rovesciata: chi l’accusava di moralismo adesso le rimprovera, nel nome della morale, di voler vendere le chiavi dell’Europa al turco Erdogan, che viola la libertà di stampa, massacra i curdi e vuole entrare di forza nell’Unione europea. Tutto è ancora da negoziare, nulla è stato deciso, ma a preparare il grande baratto è stata lei, di soppiatto. Senza neppure avvisare Parigi, l’altra capitale dell’asse franco-tedesco, che in questa congiuntura non ha funzionato. Dal dramma ancora lontano dalla fine si trae l’impressione che il solo grande protagonista, ad ogni tappa (economica, umanitaria, diplomatica) sia la cancelliera. Troppo severa? Troppo sentimentale? Troppo cinica? Senza veri partner sulla ribalta è lei che interpreta tutti i ruoli.
Corriere 12.3.16
Il gip di Milano: il Senato paralizza l’inchiesta su Tremonti
Ipotesi di corruzione, il Tribunale si rivolge alla Consulta: «Non può essere la politica a qualificare il reato»
di Luigi Ferrarella
MILANO Con l’espediente di dichiararsi incompetente, il Senato sta di fatto paralizzando l’inchiesta per corruzione sull’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, usurpando nella sostanza e menomando nella procedura le attribuzioni del potere giudiziario: perciò, senza precedenti tra i pur già rari conflitti di attribuzioni tra poteri dello Stato, il gip del Tribunale di Milano, Livio Cristofano, ieri ne ha sollevato uno con il Senato, chiedendo alla Corte Costituzionale di affermare che il 2 luglio 2015 non spettasse al Senato dare ai 2,5 milioni di Finmeccanica a Tremonti una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dal Tribunale dei ministri.
Questo collegio, competente a fare l’istruttoria e stabilire se fosse ministeriale la natura del reato iscritto nel 2014 dai pm Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi, il 22 gennaio 2015 aveva ritenuto che nel 2008-2009 Tremonti, in concorso con Enrico Vitali (socio nel suo studio tributario) si fosse fatto pagare dalla Finmeccanica del presidente Pierfrancesco Guarguaglini e del direttore finanziario Alessandro Pansa una tangente di 2,5 milioni «mascherata» da finta consulenza fiscale sull’acquisto da parte di Finmeccanica della società americana Drs Technologies: tangente volta a far superare l’iniziale ostilità all’operazione di Tremonti quand’era già in predicato di divenire ministro dell’Economia (maggiore azionista di Finmeccanica).
Ma il 2 luglio 2015 il Senato, invece di verificare solo se Tremonti avesse agito «a tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante» o «nel perseguimento di un interesse pubblico preminente», «si dichiara incompetente per difetto della condizione di ministerialità del reato»: pattuizione illecita «collocabile l’8 maggio 2008, giorno della firma dell’apparente consulenza ma anche del giuramento di Tremonti come ministro, da cui poi la necessità, inespressa, di posizionare anche nell’ora il tempus dell’accordo corruttivo». La prosa è criptica: «A dispetto del ragionamento giuridico sui binari del tecnicismo esegetico, il ragionamento politico-istituzionale deve muovere dall’impulso delinquenziale e indagarne le ragioni politiche che eventualmente ne hanno guidato la genesi, sapendo persino di poter sovrapporre questa analisi escatologica sulla concorrente (e divergente) valutazione penologica». E l’esito è l’inedita decisione di non decidere, restituendo gli atti all’autorità giudiziaria «che potrà proseguire il procedimento penale nelle forme ordinarie». Ignote però all’ordinamento.
Il 3 marzo i pm scrivono al gip che «non è agevole riassumere» il «ragionamento non poco circonvoluto» e «contraddittorio» con il quale il Senato «interviene pesantemente» con «passaggi azzardati» sulla qualificazione del reato già valutata dal competente Tribunale dei ministri, e «si ritrae in una sorta di non liquet » che ambiguamente produce «gli stessi effetti paralizzanti» di un diniego formale. Obbligata è la richiesta di archiviazione al gip, «salvo che ravvisi elementi per sollevare conflitto di attribuzione». Ed è quanto ieri fa il gip Cristofano: se il Senato avesse voluto contestare la ministerialità del reato riconosciuta dal Tribunale dei ministri, avrebbe dovuto sollevare conflitto di attribuzione alla Consulta. Invece ha restituito gli atti al giudice con decisione che «sottende la soluzione, unilateralmente assunta, di un monopolio assoluto in capo al Parlamento sulla qualificazione giuridica a prescindere dal vaglio del competente Tribunale dei ministri, finendo così con l’imporre al giudice ordinario di procedere sulla prospettazione giuridica decisa dall’organo politico».
Il gip di Milano: il Senato paralizza l’inchiesta su Tremonti
Ipotesi di corruzione, il Tribunale si rivolge alla Consulta: «Non può essere la politica a qualificare il reato»
di Luigi Ferrarella
MILANO Con l’espediente di dichiararsi incompetente, il Senato sta di fatto paralizzando l’inchiesta per corruzione sull’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, usurpando nella sostanza e menomando nella procedura le attribuzioni del potere giudiziario: perciò, senza precedenti tra i pur già rari conflitti di attribuzioni tra poteri dello Stato, il gip del Tribunale di Milano, Livio Cristofano, ieri ne ha sollevato uno con il Senato, chiedendo alla Corte Costituzionale di affermare che il 2 luglio 2015 non spettasse al Senato dare ai 2,5 milioni di Finmeccanica a Tremonti una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dal Tribunale dei ministri.
Questo collegio, competente a fare l’istruttoria e stabilire se fosse ministeriale la natura del reato iscritto nel 2014 dai pm Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi, il 22 gennaio 2015 aveva ritenuto che nel 2008-2009 Tremonti, in concorso con Enrico Vitali (socio nel suo studio tributario) si fosse fatto pagare dalla Finmeccanica del presidente Pierfrancesco Guarguaglini e del direttore finanziario Alessandro Pansa una tangente di 2,5 milioni «mascherata» da finta consulenza fiscale sull’acquisto da parte di Finmeccanica della società americana Drs Technologies: tangente volta a far superare l’iniziale ostilità all’operazione di Tremonti quand’era già in predicato di divenire ministro dell’Economia (maggiore azionista di Finmeccanica).
Ma il 2 luglio 2015 il Senato, invece di verificare solo se Tremonti avesse agito «a tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante» o «nel perseguimento di un interesse pubblico preminente», «si dichiara incompetente per difetto della condizione di ministerialità del reato»: pattuizione illecita «collocabile l’8 maggio 2008, giorno della firma dell’apparente consulenza ma anche del giuramento di Tremonti come ministro, da cui poi la necessità, inespressa, di posizionare anche nell’ora il tempus dell’accordo corruttivo». La prosa è criptica: «A dispetto del ragionamento giuridico sui binari del tecnicismo esegetico, il ragionamento politico-istituzionale deve muovere dall’impulso delinquenziale e indagarne le ragioni politiche che eventualmente ne hanno guidato la genesi, sapendo persino di poter sovrapporre questa analisi escatologica sulla concorrente (e divergente) valutazione penologica». E l’esito è l’inedita decisione di non decidere, restituendo gli atti all’autorità giudiziaria «che potrà proseguire il procedimento penale nelle forme ordinarie». Ignote però all’ordinamento.
Il 3 marzo i pm scrivono al gip che «non è agevole riassumere» il «ragionamento non poco circonvoluto» e «contraddittorio» con il quale il Senato «interviene pesantemente» con «passaggi azzardati» sulla qualificazione del reato già valutata dal competente Tribunale dei ministri, e «si ritrae in una sorta di non liquet » che ambiguamente produce «gli stessi effetti paralizzanti» di un diniego formale. Obbligata è la richiesta di archiviazione al gip, «salvo che ravvisi elementi per sollevare conflitto di attribuzione». Ed è quanto ieri fa il gip Cristofano: se il Senato avesse voluto contestare la ministerialità del reato riconosciuta dal Tribunale dei ministri, avrebbe dovuto sollevare conflitto di attribuzione alla Consulta. Invece ha restituito gli atti al giudice con decisione che «sottende la soluzione, unilateralmente assunta, di un monopolio assoluto in capo al Parlamento sulla qualificazione giuridica a prescindere dal vaglio del competente Tribunale dei ministri, finendo così con l’imporre al giudice ordinario di procedere sulla prospettazione giuridica decisa dall’organo politico».
La Stampa 12.3.16
Il Colle teme la crisi del centrodestra. Troppo spazio per i populismi
Il presidente Mattarella aveva già espresso preoccupazione per la pericolosa “radicalizzazione delle opinioni pubbliche”
di Francesco Bei
La lenta ma apparentemente inarrestabile eclissi della leadership berlusconiana inizia a preoccupare il Quirinale. Come d’abitudine, il Presidente non entra nella mischia tra partiti, eppure quel campo di Agramante in cui si è trasformato il vecchio centrodestra è da giorni al centro delle sue attenzioni.
Nei colloqui privati con vari esponenti politici e istituzionali, il Capo dello Stato non ha fatto mistero di quale sia il suo cruccio. Un sistema politico democratico per funzionare ha bisogno infatti di due polmoni, la destra e la sinistra. E se uno dei due collassa, è l’intero organismo a entrare in crisi. Proprio quello che sembra stia avvenendo nello schieramento che una volta si radunava obbediente sotto le insegne del Cavaliere.
L’anziano leader sembra sempre più disinteressato alla vicenda politica. Quando interviene lo fa in ritardo, spesso solo per provare a parare i colpi contundenti di un arrembante Matteo Salvini. Le truppe forziste sono allo sbando, i parlamentari non sanno cosa fare, gran parte dei gruppi dirigenti pensano a come ricollocarsi all’ombra di Renzi. Lo spettacolo finale offerto dal centrodestra a Roma ha sconcertato Mattarella. Un suicidio politico collettivo di tale proporzioni ha pochi precedenti, con il moltiplicarsi di candidature, il caos intorno alla figura di Bertolaso, i veti reciproci.
Il Presidente della Repubblica è convinto a questo punto che il dissolvimento in corso della destra italiana non sia un affare che riguardi soltanto gli elettori e i leader di quella parte politica. Riguarda l’Italia. Chi ha avuto modo di raccoglierne le confidenze riferisce un aneddoto, legato alla storia recente della Repubblica, che Mattarella usa per spiegare le ragioni della sua preoccupazione. Quando nel 1989 cadde il muro di Berlino, il Pci si avvitò in una lunga crisi d’identità che lo distolse dal ruolo d’opposizione e lo fece ripiegare tutto al proprio interno. Anche allora, e per un lungo periodo, venne meno uno dei due polmoni e l’organismo iniziò a deperire. «Fu un danno anche per noi democristiani», ricorda in privato il Capo dello Stato. Paradossalmente fu l’inizio della fine anche per la Dc, abbarbicata a un potere ministeriale senza più controlli, destinato di lì a poco a essere abbattuto dai colpi delle procure. Un periodo che Mattarella rammenta benissimo per averlo vissuto da protagonista, nelle postazioni avanzate di ministro dei Rapporti con il Parlamento (fino al fatidico 1989, appunto) e poi da ministro della Pubblica Istruzione.
Non è ovviamente il timore di una nuova stagione di Mani Pulite che assilla il Capo dello Stato. Quanto un rischio sistemico legato al venir meno di uno dei due perni dell’asse sinistra-destra. E siccome il vuoto in politica non esiste e viene subito riempito, lo spazio dell’opposizione lo stanno occupando per intero il Movimento cinque stelle e quella parte del vecchio centrodestra che ormai guarda, con Matteo Salvini, a Le Pen, Orban, Putin e a tutta la galassia di estrema destra europea. Una traiettoria che spinge il centrodestra italiano lontano dalla famiglia del Ppe nelle braccia del populismo più deteriore. Berlusconi non sembra più in grado di fare argine.
E quanto Mattarella consideri questa prospettiva disastrosa non è un mistero. Il Presidente l’ha ripetuto l’ultima volta lo scorso 11 febbraio, davanti agli studenti della Columbia a New York. Quando ha denunciato la «radicalizzazione delle opinioni pubbliche» europee di fronte alla crisi migratoria. E il «rafforzamento di forze populiste e del loro messaggio solo apparentemente seducente». Lasciare campo libero a queste forze non è un problema solo di Berlusconi. Per il Quirinale è un problema dell’Italia.
Il Colle teme la crisi del centrodestra. Troppo spazio per i populismi
Il presidente Mattarella aveva già espresso preoccupazione per la pericolosa “radicalizzazione delle opinioni pubbliche”
di Francesco Bei
La lenta ma apparentemente inarrestabile eclissi della leadership berlusconiana inizia a preoccupare il Quirinale. Come d’abitudine, il Presidente non entra nella mischia tra partiti, eppure quel campo di Agramante in cui si è trasformato il vecchio centrodestra è da giorni al centro delle sue attenzioni.
Nei colloqui privati con vari esponenti politici e istituzionali, il Capo dello Stato non ha fatto mistero di quale sia il suo cruccio. Un sistema politico democratico per funzionare ha bisogno infatti di due polmoni, la destra e la sinistra. E se uno dei due collassa, è l’intero organismo a entrare in crisi. Proprio quello che sembra stia avvenendo nello schieramento che una volta si radunava obbediente sotto le insegne del Cavaliere.
L’anziano leader sembra sempre più disinteressato alla vicenda politica. Quando interviene lo fa in ritardo, spesso solo per provare a parare i colpi contundenti di un arrembante Matteo Salvini. Le truppe forziste sono allo sbando, i parlamentari non sanno cosa fare, gran parte dei gruppi dirigenti pensano a come ricollocarsi all’ombra di Renzi. Lo spettacolo finale offerto dal centrodestra a Roma ha sconcertato Mattarella. Un suicidio politico collettivo di tale proporzioni ha pochi precedenti, con il moltiplicarsi di candidature, il caos intorno alla figura di Bertolaso, i veti reciproci.
Il Presidente della Repubblica è convinto a questo punto che il dissolvimento in corso della destra italiana non sia un affare che riguardi soltanto gli elettori e i leader di quella parte politica. Riguarda l’Italia. Chi ha avuto modo di raccoglierne le confidenze riferisce un aneddoto, legato alla storia recente della Repubblica, che Mattarella usa per spiegare le ragioni della sua preoccupazione. Quando nel 1989 cadde il muro di Berlino, il Pci si avvitò in una lunga crisi d’identità che lo distolse dal ruolo d’opposizione e lo fece ripiegare tutto al proprio interno. Anche allora, e per un lungo periodo, venne meno uno dei due polmoni e l’organismo iniziò a deperire. «Fu un danno anche per noi democristiani», ricorda in privato il Capo dello Stato. Paradossalmente fu l’inizio della fine anche per la Dc, abbarbicata a un potere ministeriale senza più controlli, destinato di lì a poco a essere abbattuto dai colpi delle procure. Un periodo che Mattarella rammenta benissimo per averlo vissuto da protagonista, nelle postazioni avanzate di ministro dei Rapporti con il Parlamento (fino al fatidico 1989, appunto) e poi da ministro della Pubblica Istruzione.
Non è ovviamente il timore di una nuova stagione di Mani Pulite che assilla il Capo dello Stato. Quanto un rischio sistemico legato al venir meno di uno dei due perni dell’asse sinistra-destra. E siccome il vuoto in politica non esiste e viene subito riempito, lo spazio dell’opposizione lo stanno occupando per intero il Movimento cinque stelle e quella parte del vecchio centrodestra che ormai guarda, con Matteo Salvini, a Le Pen, Orban, Putin e a tutta la galassia di estrema destra europea. Una traiettoria che spinge il centrodestra italiano lontano dalla famiglia del Ppe nelle braccia del populismo più deteriore. Berlusconi non sembra più in grado di fare argine.
E quanto Mattarella consideri questa prospettiva disastrosa non è un mistero. Il Presidente l’ha ripetuto l’ultima volta lo scorso 11 febbraio, davanti agli studenti della Columbia a New York. Quando ha denunciato la «radicalizzazione delle opinioni pubbliche» europee di fronte alla crisi migratoria. E il «rafforzamento di forze populiste e del loro messaggio solo apparentemente seducente». Lasciare campo libero a queste forze non è un problema solo di Berlusconi. Per il Quirinale è un problema dell’Italia.
Repubblica 12.3.16
Guerini non convince Bassolino, ricorso bis
di Dario Del Porto
NAPOLI. «Lorenzo, io sono l’unico in grado di vincere», ha ripetuto Antonio Bassolino al vice segretario del Pd Lorenzo Guerini, in trasferta a Napoli per provare a sciogliere il nodo delle primarie, segnate da una guerra di ricorsi. Un’ora di colloquio a quattr’occhi, in un albergo cittadino, che però non è servita a sciogliere il gelo calato tra l’ex sindaco e i vertici del partito né ad escludere l’ipotesi di una lista civica.
In mattinata, Bassolino aveva presentato il secondo ricorso contro l’esito del voto che lo ha visto sconfitto per 452 voti da Valeria Valente. «È un suo diritto, è previsto dal regolamento», ha convenuto Guerini, che nel corso del colloquio aveva invitato l’ex sindaco a ricordare lo spirito delle primarie: il candidato che perde sostiene quello che ha vinto. Bassolino però insiste sulle immagini degli scambi di denaro all’esterno dei seggi documentate da Fanpage e sembra deciso a tirare dritto.
«Antonio ha chiesto rigore nella decisione. Lo stesso sentimento anima anche la nostra volontà. Grande rigore e grande attenzione. Poi, esperite tutte le verifiche, si rispetta il dato delle primarie. Se sarà confermato oppure no lo deciderà la commissione di garanzia», afferma Guerini, che ribadisce: «Il valore delle primarie non viene messo in discussione ». Anche la Valente ha presentato ricorso. Non al comitato organizzatore, come Bassolino, bensì alla commissione di garanzia provinciale, competente per il comportamento dei singoli iscritti al Pd, per chiedere che venga esaminato l’intero video girato.
Così, dopo Bassolino, il vice segretario vede in rapida successione proprio la Valente, poi il candidato di Area riformista Marco Sarracino, i segretari regionale e provinciale, Assunta Tartaglio e Venanzo Carpentieri. «Ho voluto fare il punto della situazione per capire come si possano superare le difficoltà.È interesse di tutti fare chiarezza su quanto accaduto e lavorare, come Pd, ad una tenuta di insieme», spiega Guerini. Bassolino invece torna nel suo quartier generale, la fondazione Sudd, per preparare la convention di questa mattina al teatro Augusteo. Nell’entourage dell’ex sindaco c’è soddisfazione per la mossa del braccio destro del premier-segretario, ma pur con un «passo in avanti» il confronto viene considerato «interlocutorio ». Pertanto non si esclude nulla, lista civica compresa. Un’ipotesi che Guerini sembra voler allontanare: «Non c’è, non c’è», risponde ai cronisti. Ma non basta il fronte napoletano, a turbare i vertici del Nazareno. Fanno rumore anche le bordate di Massimo D’Alema. Guerini fa il pompiere e prova a stemperare: «Va bene la dialettica interna, ma aprire ogni giorno un fronte polemico credo che non sia utile».
Guerini non convince Bassolino, ricorso bis
di Dario Del Porto
NAPOLI. «Lorenzo, io sono l’unico in grado di vincere», ha ripetuto Antonio Bassolino al vice segretario del Pd Lorenzo Guerini, in trasferta a Napoli per provare a sciogliere il nodo delle primarie, segnate da una guerra di ricorsi. Un’ora di colloquio a quattr’occhi, in un albergo cittadino, che però non è servita a sciogliere il gelo calato tra l’ex sindaco e i vertici del partito né ad escludere l’ipotesi di una lista civica.
In mattinata, Bassolino aveva presentato il secondo ricorso contro l’esito del voto che lo ha visto sconfitto per 452 voti da Valeria Valente. «È un suo diritto, è previsto dal regolamento», ha convenuto Guerini, che nel corso del colloquio aveva invitato l’ex sindaco a ricordare lo spirito delle primarie: il candidato che perde sostiene quello che ha vinto. Bassolino però insiste sulle immagini degli scambi di denaro all’esterno dei seggi documentate da Fanpage e sembra deciso a tirare dritto.
«Antonio ha chiesto rigore nella decisione. Lo stesso sentimento anima anche la nostra volontà. Grande rigore e grande attenzione. Poi, esperite tutte le verifiche, si rispetta il dato delle primarie. Se sarà confermato oppure no lo deciderà la commissione di garanzia», afferma Guerini, che ribadisce: «Il valore delle primarie non viene messo in discussione ». Anche la Valente ha presentato ricorso. Non al comitato organizzatore, come Bassolino, bensì alla commissione di garanzia provinciale, competente per il comportamento dei singoli iscritti al Pd, per chiedere che venga esaminato l’intero video girato.
Così, dopo Bassolino, il vice segretario vede in rapida successione proprio la Valente, poi il candidato di Area riformista Marco Sarracino, i segretari regionale e provinciale, Assunta Tartaglio e Venanzo Carpentieri. «Ho voluto fare il punto della situazione per capire come si possano superare le difficoltà.È interesse di tutti fare chiarezza su quanto accaduto e lavorare, come Pd, ad una tenuta di insieme», spiega Guerini. Bassolino invece torna nel suo quartier generale, la fondazione Sudd, per preparare la convention di questa mattina al teatro Augusteo. Nell’entourage dell’ex sindaco c’è soddisfazione per la mossa del braccio destro del premier-segretario, ma pur con un «passo in avanti» il confronto viene considerato «interlocutorio ». Pertanto non si esclude nulla, lista civica compresa. Un’ipotesi che Guerini sembra voler allontanare: «Non c’è, non c’è», risponde ai cronisti. Ma non basta il fronte napoletano, a turbare i vertici del Nazareno. Fanno rumore anche le bordate di Massimo D’Alema. Guerini fa il pompiere e prova a stemperare: «Va bene la dialettica interna, ma aprire ogni giorno un fronte polemico credo che non sia utile».
Corriere 12.3.16
Gli schieramenti in conflitto favoriscono m5s nelle città
di Massimo Franco
Sembra che stiano lavorando tutti per il Movimento 5 Stelle. Alcuni forse calcolando di trarne qualche beneficio, altri in modo involontario. I conflitti paralleli dentro l’area del Pd e nel centrodestra dimostrano la volatilità delle alleanze che hanno segnato l’ultimo ventennio; e l’impossibilità di tenere in vita schieramenti del passato, segnati da uno scontro per il primato che rivela una profonda crisi di identità. I brogli, gli accordi siglati e saltati in poche ore, sono misteri spiegabili facilmente: nessuno riconosce non solo gli avversari ma gli alleati.
La frantumazione della società e la prevalenza di microinteressi sono riflessi fedelmente dalle forze politiche. I partiti si mostrano incapaci di andare oltre un’astratta rivendicazione di leadership, di disciplina interna, di retorica sul rispetto delle regole, contraddette in modo maldestro. Quanto avviene all’ombra del Pd romano ha un aspetto locale dovuto alle inchieste giudiziarie. Ma Mafia Capitale rischia di diventare un alibi per velare problemi di politica nazionale. Altrimenti non si capirebbero le tensioni sulle primarie a Napoli, che potrebbero essere annullate dopo la denuncia delle irregolarità.
Né si spiegherebbero le tensioni diplomatizzate ma evidenti che a Milano accompagnano la candidatura di Giuseppe Sala; o lo scontro tra Pd nazionale e presidenti di regione come Michele Emiliano in Puglia. Il tentativo è di opporre il «profumo d’Ulivo» di Romano Prodi, evocato dall’ex segretario Pier Luigi Bersani, al «partito della Nazione» di Renzi. Lo schema, però, suona troppo semplicistico. A scontrarsi sono pezzi di nomenklatura, e grumi di potere economico che ruotano intorno alle giunte locali. Vale a sinistra, e a destra.
Il «no» di Matteo Salvini al candidato berlusconiano a Roma, Guido Bertolaso, indurrà pure al sospetto di un «patto scellerato» tra Renzi e Silvio Berlusconi per far perdere il centrodestra. Ma in realtà è il prodotto della volontà leghista, con la destra di Giorgia Meloni, di marcare il primato sull’area egemonizzata un tempo da FI; di umiliare Berlusconi; e di legittimare il Carroccio sotto il Po. Anche se Salvini scivola su attacchi violenti contro i giudici, che è costretto a rettificare. Ma al di là di questo, si intravede il conflitto di interessi di un blocco sociale privo di referenti.
La «leggerezza» opaca del movimento di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio prospera sulle patologie degli schieramenti. Se ne nutre. E di fronte al gioco al ribasso dei partiti fa apparire candidabile chiunque. La caricatura di democrazia offerta dal M5S con le sue primarie online, con le consultazioni che gli avversari vedono pilotate dal vertice, funziona. Sceneggia un modello alternativo di partecipazione rispetto a partiti che a volte offrono un’immagine non meno scoraggiante.
Gli schieramenti in conflitto favoriscono m5s nelle città
di Massimo Franco
Sembra che stiano lavorando tutti per il Movimento 5 Stelle. Alcuni forse calcolando di trarne qualche beneficio, altri in modo involontario. I conflitti paralleli dentro l’area del Pd e nel centrodestra dimostrano la volatilità delle alleanze che hanno segnato l’ultimo ventennio; e l’impossibilità di tenere in vita schieramenti del passato, segnati da uno scontro per il primato che rivela una profonda crisi di identità. I brogli, gli accordi siglati e saltati in poche ore, sono misteri spiegabili facilmente: nessuno riconosce non solo gli avversari ma gli alleati.
La frantumazione della società e la prevalenza di microinteressi sono riflessi fedelmente dalle forze politiche. I partiti si mostrano incapaci di andare oltre un’astratta rivendicazione di leadership, di disciplina interna, di retorica sul rispetto delle regole, contraddette in modo maldestro. Quanto avviene all’ombra del Pd romano ha un aspetto locale dovuto alle inchieste giudiziarie. Ma Mafia Capitale rischia di diventare un alibi per velare problemi di politica nazionale. Altrimenti non si capirebbero le tensioni sulle primarie a Napoli, che potrebbero essere annullate dopo la denuncia delle irregolarità.
Né si spiegherebbero le tensioni diplomatizzate ma evidenti che a Milano accompagnano la candidatura di Giuseppe Sala; o lo scontro tra Pd nazionale e presidenti di regione come Michele Emiliano in Puglia. Il tentativo è di opporre il «profumo d’Ulivo» di Romano Prodi, evocato dall’ex segretario Pier Luigi Bersani, al «partito della Nazione» di Renzi. Lo schema, però, suona troppo semplicistico. A scontrarsi sono pezzi di nomenklatura, e grumi di potere economico che ruotano intorno alle giunte locali. Vale a sinistra, e a destra.
Il «no» di Matteo Salvini al candidato berlusconiano a Roma, Guido Bertolaso, indurrà pure al sospetto di un «patto scellerato» tra Renzi e Silvio Berlusconi per far perdere il centrodestra. Ma in realtà è il prodotto della volontà leghista, con la destra di Giorgia Meloni, di marcare il primato sull’area egemonizzata un tempo da FI; di umiliare Berlusconi; e di legittimare il Carroccio sotto il Po. Anche se Salvini scivola su attacchi violenti contro i giudici, che è costretto a rettificare. Ma al di là di questo, si intravede il conflitto di interessi di un blocco sociale privo di referenti.
La «leggerezza» opaca del movimento di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio prospera sulle patologie degli schieramenti. Se ne nutre. E di fronte al gioco al ribasso dei partiti fa apparire candidabile chiunque. La caricatura di democrazia offerta dal M5S con le sue primarie online, con le consultazioni che gli avversari vedono pilotate dal vertice, funziona. Sceneggia un modello alternativo di partecipazione rispetto a partiti che a volte offrono un’immagine non meno scoraggiante.
Repubblica 12.3.16
Dietro alle frecce della sinistra c’è una partita più complessa
È la diaspora l’ultima frontiera di una minoranza senza progetto
di Stefano Folli
PIÙ che una scissione, oggi la prospettiva che si apre davanti alla minoranza del Pd è quella di una dispersione. Una lenta, inesorabile diaspora intessuta di rancori personali e di insofferenza politica verso la guida di Renzi. Le liste di sinistra di cui si vocifera, da mettere in campo nelle varie città contro i candidati “renziani” alle amministrative, equivarrebbero a una frattura insanabile.
EPPURE non segnerebbero l’avvio di una classica scissione. Per la quale manca un progetto politico coerente, una tensione di fondo e un’idea del “che fare”. Sulla base di una generica frustrazione si può contribuire alla sconfitta elettorale di Renzi, ma non si alimenta ancora un disegno alternativo.
Ecco perché le dichiarazioni rese ieri da D’Alema al
Corriere della Sera hanno fatto rumore, certo, e suscitato persino sconcerto per la durezza degli attacchi personali rivolti non solo al premier, ma a qualcuno dei suoi ex collaboratori. Eppure l’intervista non può esser letta come l’annuncio che sta per nascere una nuova formazione alla sinistra di Renzi. La partita è molto più complessa e tutti devono saper distinguere le speranze dalla realtà. Chi è contro Renzi nel Pd giocherà con attenzione le proprie carte, se non vorrà dissolversi in modo definitivo agevolando, anziché frenarla, la marcia del premier- segretario.
Un critico assai severo dell’attuale presidente del Consiglio, ossia l’anziano Emanuele Macaluso, uno dei superstiti dell’antico gruppo dirigente del Pci, ha scritto sul suo “blog” frasi piuttosto critiche nei confronti di questa uscita di D’Alema. Di cui non contesta l’analisi quando vuole descrivere il malessere del Pd e la crisi oggettiva della sinistra. Tuttavia Macaluso non ritiene che D’Alema sia oggi credibile come ricostruttore del centrosinistra. E lo spiega con argomenti politici, ricordando che «quando Renzi vinse le primarie e fece fuori Letta (anche lui fondatore del Pd) non protestò, non si schierò, non avviò una lotta allora. La lotta per lui cominciò quando Renzi gli preferì la Mogherini nell’incarico europeo per la politica estera ». Questo per dire che talvolta «è difficile capire quando comincia la lotta politica e quando finisce una questione personale».
Tuttavia è vero che D’Alema ha posto una serie di interrogativi che non possono essere ignorati con un’alzata di spalle. Lo ha fatto con un linguaggio aspro mentre a Perugia si apriva il convegno della minoranza Pd, occasione per riflettere sulle amarezze del presente e sugli errori commessi. E qui anche chi non lo ama, chi lo vorrebbe tenere a distanza o lo considera un personaggio del passato, non può non tener conto del suo “contributo culturale” al dibattito. Perché in effetti l’area a sinistra di Renzi è di fronte a un bivio cruciale. Lo scenario della diaspora equivale a una condanna all’irrilevanza. Ma riscoprire un profilo riformatore legato alla tradizione rischia di essere un esercizio tardivo.
In ogni caso, Cuperlo chiede al gruppo dirigente del Pd, cioè a Renzi, di non rigettare i problemi posti da D’Alema. Ed Enrico Rossi, convinto che la “battaglia per rifare la sinistra” debba svolgersi all’interno del partito, si appella a Renzi affinché imbocchi la via del confronto. Entro domani sapremo quale sarà la risposta del premier. L’uomo è capace anche di pragmatismo, quando gli conviene, ma stavolta la sfida è molto dura. Sono in gioco le amministrative nelle grandi città e il centrosinistra ha offerto fino a oggi uno spettacolo di divisioni che ne ha accentuato tutti i limiti politici. Anziché duellare con D’Alema sui media, forse a Renzi converrebbe pagare qualche prezzo per evitare l’inizio del logoramento. Che può cominciare anche sul terreno concreto dell’azione di governo. Per esempio la lettera dei venti senatori che contestano la riforma del credito cooperativo rappresenta per lui un’insidia persino peggiore delle guerre di corrente. Da dove cominciare quindi per far rientrare le tensioni? Il caso Bassolino può essere un buon terreno, visto che il rigetto del ricorso presentato dall’ex sindaco dopo le primarie è un episodio non solo grave, ma umiliante. Soprattutto è un danno per l’intero Pd.
Dietro alle frecce della sinistra c’è una partita più complessa
È la diaspora l’ultima frontiera di una minoranza senza progetto
di Stefano Folli
PIÙ che una scissione, oggi la prospettiva che si apre davanti alla minoranza del Pd è quella di una dispersione. Una lenta, inesorabile diaspora intessuta di rancori personali e di insofferenza politica verso la guida di Renzi. Le liste di sinistra di cui si vocifera, da mettere in campo nelle varie città contro i candidati “renziani” alle amministrative, equivarrebbero a una frattura insanabile.
EPPURE non segnerebbero l’avvio di una classica scissione. Per la quale manca un progetto politico coerente, una tensione di fondo e un’idea del “che fare”. Sulla base di una generica frustrazione si può contribuire alla sconfitta elettorale di Renzi, ma non si alimenta ancora un disegno alternativo.
Ecco perché le dichiarazioni rese ieri da D’Alema al
Corriere della Sera hanno fatto rumore, certo, e suscitato persino sconcerto per la durezza degli attacchi personali rivolti non solo al premier, ma a qualcuno dei suoi ex collaboratori. Eppure l’intervista non può esser letta come l’annuncio che sta per nascere una nuova formazione alla sinistra di Renzi. La partita è molto più complessa e tutti devono saper distinguere le speranze dalla realtà. Chi è contro Renzi nel Pd giocherà con attenzione le proprie carte, se non vorrà dissolversi in modo definitivo agevolando, anziché frenarla, la marcia del premier- segretario.
Un critico assai severo dell’attuale presidente del Consiglio, ossia l’anziano Emanuele Macaluso, uno dei superstiti dell’antico gruppo dirigente del Pci, ha scritto sul suo “blog” frasi piuttosto critiche nei confronti di questa uscita di D’Alema. Di cui non contesta l’analisi quando vuole descrivere il malessere del Pd e la crisi oggettiva della sinistra. Tuttavia Macaluso non ritiene che D’Alema sia oggi credibile come ricostruttore del centrosinistra. E lo spiega con argomenti politici, ricordando che «quando Renzi vinse le primarie e fece fuori Letta (anche lui fondatore del Pd) non protestò, non si schierò, non avviò una lotta allora. La lotta per lui cominciò quando Renzi gli preferì la Mogherini nell’incarico europeo per la politica estera ». Questo per dire che talvolta «è difficile capire quando comincia la lotta politica e quando finisce una questione personale».
Tuttavia è vero che D’Alema ha posto una serie di interrogativi che non possono essere ignorati con un’alzata di spalle. Lo ha fatto con un linguaggio aspro mentre a Perugia si apriva il convegno della minoranza Pd, occasione per riflettere sulle amarezze del presente e sugli errori commessi. E qui anche chi non lo ama, chi lo vorrebbe tenere a distanza o lo considera un personaggio del passato, non può non tener conto del suo “contributo culturale” al dibattito. Perché in effetti l’area a sinistra di Renzi è di fronte a un bivio cruciale. Lo scenario della diaspora equivale a una condanna all’irrilevanza. Ma riscoprire un profilo riformatore legato alla tradizione rischia di essere un esercizio tardivo.
In ogni caso, Cuperlo chiede al gruppo dirigente del Pd, cioè a Renzi, di non rigettare i problemi posti da D’Alema. Ed Enrico Rossi, convinto che la “battaglia per rifare la sinistra” debba svolgersi all’interno del partito, si appella a Renzi affinché imbocchi la via del confronto. Entro domani sapremo quale sarà la risposta del premier. L’uomo è capace anche di pragmatismo, quando gli conviene, ma stavolta la sfida è molto dura. Sono in gioco le amministrative nelle grandi città e il centrosinistra ha offerto fino a oggi uno spettacolo di divisioni che ne ha accentuato tutti i limiti politici. Anziché duellare con D’Alema sui media, forse a Renzi converrebbe pagare qualche prezzo per evitare l’inizio del logoramento. Che può cominciare anche sul terreno concreto dell’azione di governo. Per esempio la lettera dei venti senatori che contestano la riforma del credito cooperativo rappresenta per lui un’insidia persino peggiore delle guerre di corrente. Da dove cominciare quindi per far rientrare le tensioni? Il caso Bassolino può essere un buon terreno, visto che il rigetto del ricorso presentato dall’ex sindaco dopo le primarie è un episodio non solo grave, ma umiliante. Soprattutto è un danno per l’intero Pd.
La Stampa 12.3.16
Milioni di vecchi elettori in fuga ma altrettanti si avvicinano
E a sinistra un’altra casa non c’è
I sondaggi parlano di tradizionalisti che si allontanano
Ma le “nuove” proposte non riescono ad attrarre elettori
di Fabio Martini
È un fenomeno silenzioso, ancora non certificato dal sistema politico-mediatico eppur imponente: milioni di «vecchi» elettori stanno abbandonando il Pd e più o meno un numero analogo di nuovi elettori vi si stanno avvicinando. Le intenzioni di voto al Pd ancora in queste ore restano su percentuali significative (tra il 30 e il 34%, a seconda degli istituti) ma quelle intenzioni sono la somma di un imponente ricambio di elettori, come dimostrano da due anni gli studi dei flussi elettorali del Cattaneo di Bologna e tutti i principali istituti di sondaggi.
Un ricambio di elettori all’interno di uno stesso partito che non ha precedenti nella recente storia della Repubblica: in entrata quasi tutti gli ex elettori di Mario Monti e (in misura minore) di Forza Italia; in uscita c’è un elettorato di sinistra, ma non soltanto, che dopo un innamoramento iniziale per Renzi (boom alle Europee 2014), non ama lo stile e le politiche del premier: un elettorato prevalentemente over 60 e under 25.
È esattamente questo bacino potenziale l’innesco non dichiarato, della fiammata di queste ore attorno alla suggestione di una scissione, evocata da Massimo D’Alema, in una intervista al «Corriere della Sera» nella quale l’ex premier ha indicato esplicitamente l’ipotesi di una «nuova forza». Ma quella di D’Alema non è l’unica sirena nell’area ai confini del Pd.
Attorno allo spazio politico rappresentato da milioni di elettori delusi e in gran parte «parcheggiati» nell’astensione (come dimostrano gli studi del Cattaneo) si sono manifestati diversi «acquirenti», diverse offerte, un rosario di leader potenziali dell’area, sempre in litigio tra loro: Sel senza più Vendola; i fuoriusciti dal Pd, divisi tra i «tradizionalisti» come Fassina e D’Attorre e Civati; la minoranza Pd; un leader potenziale come Maurizio Landini, che non ne vuole sapere di beghe politiche e pensa ancora a conquistare la guida della Cgil, strappandola a Susanna Camusso.
Eloquente quanto sta accadendo nelle quattro città nelle quali si voterà alle amministrative di giugno. A Torino i sondaggi sono concordi nel quotare Giorgio Airaudo, ex Fiom oggi Sel, su percentuali sorprendenti, poco al di sotto del 10 per cento; a Napoli Antonio Bassolino ha già detto che, se non avrà «giustizia» sulla questione delle Primarie, si presenterà in contrapposizione con la candidata ufficiale; ieri il vice di Renzi al Pd, Lorenzo Guerini, da Napoli diceva: «Non ci sarà una lista Bassolino». Ma se non gli daranno soddisfazione, l’ex sindaco di liste in appoggio ne ha già pronte tre. A Milano fino a 48 ore fa l’area a sinistra del Partito democratico scommetteva su una candidatura prestigiosa, quella dell’ex pm Gherardo Colombo; a Roma da settimane è in atto un pressing su un personaggio fuori dagli schemi partitici, capace di catalizzare un elettorato colto e di sinistra, l’ex ministro dei Beni Culturali Massimo Bray.
Un «poker rosso» che è entrato parzialmente in crisi nel giro di poche ore: Colombo ha declinato, mentre Bray (che resiste anche in quanto direttore di una istituzione come la Treccani) non ha ancora sciolto la riserva e nelle prossime ore potrebbe spuntare un appello di intellettuali per farlo candidare. Si tratta di quattro operazioni che insistono sullo stesso elettorato ma con registi e motivazioni diverse.
Antonio Bassolino col suo slogan «Di nuovo ci sono io», si propone come collaudato uomo di governo e al tempo stesso come espressione dell’anti-establishment, ma sicuramente non con un’etichetta di sinistra. Massimo Bray invece è sospinto da Massimo D’Alema, con l’idea esplicita di intercettare la scissione in atto nell’elettorato del Pd. Ma la minoranza di sinistra, dal suo “congresso” gli ha detto no: «Noi vogliamo dare una mano», ha detto Roberto Speranza nel passaggio più esplicito della sua relazione. E quanto a Giorgio Airaudo, la sua è sfida a viso aperto al sindaco del Pd Piero Fassino, che con il ponte lanciato verso personalità (ed elettori) del centro-destra, ha scoperto il lato sinistro. Dice Pippo Civati: «Da tempo ripeto che questa è un’area politicamente molto estesa, ma bisogna saperla coltivare con candidature di rinnovamento e comunque di alto profilo, come poteva essere quella di Gherardo Colombo o, come potrebbe essere quella di Massimo Bray. Altre candidature sembrano rispondere di meno a quei requisiti».
Milioni di vecchi elettori in fuga ma altrettanti si avvicinano
E a sinistra un’altra casa non c’è
I sondaggi parlano di tradizionalisti che si allontanano
Ma le “nuove” proposte non riescono ad attrarre elettori
di Fabio Martini
È un fenomeno silenzioso, ancora non certificato dal sistema politico-mediatico eppur imponente: milioni di «vecchi» elettori stanno abbandonando il Pd e più o meno un numero analogo di nuovi elettori vi si stanno avvicinando. Le intenzioni di voto al Pd ancora in queste ore restano su percentuali significative (tra il 30 e il 34%, a seconda degli istituti) ma quelle intenzioni sono la somma di un imponente ricambio di elettori, come dimostrano da due anni gli studi dei flussi elettorali del Cattaneo di Bologna e tutti i principali istituti di sondaggi.
Un ricambio di elettori all’interno di uno stesso partito che non ha precedenti nella recente storia della Repubblica: in entrata quasi tutti gli ex elettori di Mario Monti e (in misura minore) di Forza Italia; in uscita c’è un elettorato di sinistra, ma non soltanto, che dopo un innamoramento iniziale per Renzi (boom alle Europee 2014), non ama lo stile e le politiche del premier: un elettorato prevalentemente over 60 e under 25.
È esattamente questo bacino potenziale l’innesco non dichiarato, della fiammata di queste ore attorno alla suggestione di una scissione, evocata da Massimo D’Alema, in una intervista al «Corriere della Sera» nella quale l’ex premier ha indicato esplicitamente l’ipotesi di una «nuova forza». Ma quella di D’Alema non è l’unica sirena nell’area ai confini del Pd.
Attorno allo spazio politico rappresentato da milioni di elettori delusi e in gran parte «parcheggiati» nell’astensione (come dimostrano gli studi del Cattaneo) si sono manifestati diversi «acquirenti», diverse offerte, un rosario di leader potenziali dell’area, sempre in litigio tra loro: Sel senza più Vendola; i fuoriusciti dal Pd, divisi tra i «tradizionalisti» come Fassina e D’Attorre e Civati; la minoranza Pd; un leader potenziale come Maurizio Landini, che non ne vuole sapere di beghe politiche e pensa ancora a conquistare la guida della Cgil, strappandola a Susanna Camusso.
Eloquente quanto sta accadendo nelle quattro città nelle quali si voterà alle amministrative di giugno. A Torino i sondaggi sono concordi nel quotare Giorgio Airaudo, ex Fiom oggi Sel, su percentuali sorprendenti, poco al di sotto del 10 per cento; a Napoli Antonio Bassolino ha già detto che, se non avrà «giustizia» sulla questione delle Primarie, si presenterà in contrapposizione con la candidata ufficiale; ieri il vice di Renzi al Pd, Lorenzo Guerini, da Napoli diceva: «Non ci sarà una lista Bassolino». Ma se non gli daranno soddisfazione, l’ex sindaco di liste in appoggio ne ha già pronte tre. A Milano fino a 48 ore fa l’area a sinistra del Partito democratico scommetteva su una candidatura prestigiosa, quella dell’ex pm Gherardo Colombo; a Roma da settimane è in atto un pressing su un personaggio fuori dagli schemi partitici, capace di catalizzare un elettorato colto e di sinistra, l’ex ministro dei Beni Culturali Massimo Bray.
Un «poker rosso» che è entrato parzialmente in crisi nel giro di poche ore: Colombo ha declinato, mentre Bray (che resiste anche in quanto direttore di una istituzione come la Treccani) non ha ancora sciolto la riserva e nelle prossime ore potrebbe spuntare un appello di intellettuali per farlo candidare. Si tratta di quattro operazioni che insistono sullo stesso elettorato ma con registi e motivazioni diverse.
Antonio Bassolino col suo slogan «Di nuovo ci sono io», si propone come collaudato uomo di governo e al tempo stesso come espressione dell’anti-establishment, ma sicuramente non con un’etichetta di sinistra. Massimo Bray invece è sospinto da Massimo D’Alema, con l’idea esplicita di intercettare la scissione in atto nell’elettorato del Pd. Ma la minoranza di sinistra, dal suo “congresso” gli ha detto no: «Noi vogliamo dare una mano», ha detto Roberto Speranza nel passaggio più esplicito della sua relazione. E quanto a Giorgio Airaudo, la sua è sfida a viso aperto al sindaco del Pd Piero Fassino, che con il ponte lanciato verso personalità (ed elettori) del centro-destra, ha scoperto il lato sinistro. Dice Pippo Civati: «Da tempo ripeto che questa è un’area politicamente molto estesa, ma bisogna saperla coltivare con candidature di rinnovamento e comunque di alto profilo, come poteva essere quella di Gherardo Colombo o, come potrebbe essere quella di Massimo Bray. Altre candidature sembrano rispondere di meno a quei requisiti».
La Stampa 12.3.16
Gli strappi e le ricuciture
di Marcello Sorgi
All’ombra delle prossime amministrative, decisive molto di più di altre volte perché rappresentano una prova d’appello per Renzi, dopo il successo del 40 per cento alle europee del 2014 e il deludente risultato alle regionali del 2015, sta accadendo qualcosa che può cambiare lo scenario degli ultimi vent’anni: i due principali poli, centrosinistra e centrodestra, sono in dissoluzione. Da Torino e Milano, a Napoli, passando per tutte le grandi città chiamate ad eleggere i sindaci, i candidati scelti con le primarie, o concordati tra i leader dei partiti, non riescono a tenere insieme le coalizioni che dovrebbero votarli, creando così le premesse per un’inedita competizione tra politica e antipolitica e per ballottaggi, quasi ovunque, con gli esponenti del Movimento 5 stelle.
Si dirà che quel che sta accadendo era già avvenuto alle elezioni politiche del 2013, quando appunto il movimento di Grillo a sorpresa era risultato primo partito e il Parlamento non era stato in grado di esprimere una maggioranza. Ma è vero fino a un certo punto.
L’exploit di Renzi nell’anno successivo, accompagnato dal crollo grillino, aveva fatto pensare a una possibile stabilizzazione attorno alla novità del governo del leader del Pd. Ora invece il centrosinistra, non solo si divide, com’era già accaduto in passato, ma lo fa seguendo l’itinerario opposto a quello percorso dalla nascita del bipolarismo e della sinistra di governo. Invece di un accordo tra post-democristiani e post-comunisti confluiti nel Pd, e ove possibile anche con la componente più radicale della sinistra, a sorpresa si sta ricucendo lo «strappo» che portò, esattamente un quarto di secolo fa, alla scissione tra la generazione che aveva ammainato il nome e le bandiere del vecchio Pci, dopo la caduta del Muro di Berlino, e la pattuglia di irriducibili da cui ebbe origine Rifondazione comunista e poi Sel. L’aspetto più sorprendente di questo processo è che non avviene per un simmetrico riavvicinamento dei due tronconi, ma con D’Alema e buona parte dei dirigenti storicamente responsabili dell’abbandono della falce e martello che dichiarano il Pd inagibile per una politica di sinistra, e si preparano a ricongiungersi con l’anima più estremista da cui si erano separati, accusando Renzi di voler rifare un partito pigliatutto stile vecchia Dc, in nome della nostalgia del vecchio Pci.
Sembra incredibile: gli ulivisti con i radicali; i riformisti con i duri e puri che gli sbarravano la strada in Parlamento; quelli che per due volte portarono al governo Prodi accanto a quelli che lo affossarono. E conta poco o nulla che le riforme varate dal governo Renzi (anche con l’aiuto di Alfano, Verdini e dello stesso Berlusconi) siano le stesse che il centrosinistra aveva invano progettato per due decenni, rivelandosi infine incapace di realizzarle.
Alle radici di quanto sta accadendo, e della fioritura di candidature alternative a quelle renziane, c’è dunque la vecchia questione della contaminazione con il berlusconismo, accettata da Renzi in nome del realismo e della necessità di trovare l’appoggio parlamentare per realizzare il suo programma, e rifiutata in blocco dai suoi oppositori interni, anche quelli, come D’Alema, che in passato con l’ex-Cavaliere avevano tentato più di un approccio.
Ma non è solo questo. Per capire, basta volgere lo sguardo dall’altra parte, dove Salvini, dopo averlo sottoscritto, ha fatto saltare per aria l’accordo del centrodestra su Bertolaso candidato sindaco per Roma. Il leader della Lega non è il solo a contestare la leadership ormai definitivamente logorata di Berlusconi, che ha cercato di imporre l’ex-capo della Protezione civile: a destra per il Campidoglio si fa avanti l’ex-presidente della Regione Lazio Storace, la leader di Fratelli d’Italia Meloni è stata a un passo dall’entrata in corsa, ed è in campo la candidatura civica, ma aperta all’alleanza con il campo moderato, di Marchini. La vera divisione è tra chi pensa che la donna da battere, con un nome nuovo e non con il riciclato Bertolaso, sia la candidata M5s Raggi, non a caso scelta con un profilo compatibile con l’elettorato di destra, e chi, come l’ex-Cavaliere, è rimasto prigioniero del vecchio schema.
A ben vedere, la crepa che s’è aperta nel centrosinistra è la stessa. Renzi è stato il primo, finora, a riconoscere la consistenza niente affatto provvisoria dell’ondata grillina e a contrapporvisi efficacemente: ed essendo anche lui nato sul terreno antipolitico della rottamazione, ha il Dna adatto per continuare la sfida. Ma proprio questo ha portato al limite della rottura il confronto con i suoi avversari, preoccupati che le regole del gioco possano cambiare definitivamente. Strano calcolo, questo dei politici consumati che guidano la minoranza del Pd: perché se Renzi vince, è vero, di spazio per nostalgie comuniste o democristiane ne resterà pochino. Ma se invece vince Grillo, non ne rimarrà proprio niente.
Gli strappi e le ricuciture
di Marcello Sorgi
All’ombra delle prossime amministrative, decisive molto di più di altre volte perché rappresentano una prova d’appello per Renzi, dopo il successo del 40 per cento alle europee del 2014 e il deludente risultato alle regionali del 2015, sta accadendo qualcosa che può cambiare lo scenario degli ultimi vent’anni: i due principali poli, centrosinistra e centrodestra, sono in dissoluzione. Da Torino e Milano, a Napoli, passando per tutte le grandi città chiamate ad eleggere i sindaci, i candidati scelti con le primarie, o concordati tra i leader dei partiti, non riescono a tenere insieme le coalizioni che dovrebbero votarli, creando così le premesse per un’inedita competizione tra politica e antipolitica e per ballottaggi, quasi ovunque, con gli esponenti del Movimento 5 stelle.
Si dirà che quel che sta accadendo era già avvenuto alle elezioni politiche del 2013, quando appunto il movimento di Grillo a sorpresa era risultato primo partito e il Parlamento non era stato in grado di esprimere una maggioranza. Ma è vero fino a un certo punto.
L’exploit di Renzi nell’anno successivo, accompagnato dal crollo grillino, aveva fatto pensare a una possibile stabilizzazione attorno alla novità del governo del leader del Pd. Ora invece il centrosinistra, non solo si divide, com’era già accaduto in passato, ma lo fa seguendo l’itinerario opposto a quello percorso dalla nascita del bipolarismo e della sinistra di governo. Invece di un accordo tra post-democristiani e post-comunisti confluiti nel Pd, e ove possibile anche con la componente più radicale della sinistra, a sorpresa si sta ricucendo lo «strappo» che portò, esattamente un quarto di secolo fa, alla scissione tra la generazione che aveva ammainato il nome e le bandiere del vecchio Pci, dopo la caduta del Muro di Berlino, e la pattuglia di irriducibili da cui ebbe origine Rifondazione comunista e poi Sel. L’aspetto più sorprendente di questo processo è che non avviene per un simmetrico riavvicinamento dei due tronconi, ma con D’Alema e buona parte dei dirigenti storicamente responsabili dell’abbandono della falce e martello che dichiarano il Pd inagibile per una politica di sinistra, e si preparano a ricongiungersi con l’anima più estremista da cui si erano separati, accusando Renzi di voler rifare un partito pigliatutto stile vecchia Dc, in nome della nostalgia del vecchio Pci.
Sembra incredibile: gli ulivisti con i radicali; i riformisti con i duri e puri che gli sbarravano la strada in Parlamento; quelli che per due volte portarono al governo Prodi accanto a quelli che lo affossarono. E conta poco o nulla che le riforme varate dal governo Renzi (anche con l’aiuto di Alfano, Verdini e dello stesso Berlusconi) siano le stesse che il centrosinistra aveva invano progettato per due decenni, rivelandosi infine incapace di realizzarle.
Alle radici di quanto sta accadendo, e della fioritura di candidature alternative a quelle renziane, c’è dunque la vecchia questione della contaminazione con il berlusconismo, accettata da Renzi in nome del realismo e della necessità di trovare l’appoggio parlamentare per realizzare il suo programma, e rifiutata in blocco dai suoi oppositori interni, anche quelli, come D’Alema, che in passato con l’ex-Cavaliere avevano tentato più di un approccio.
Ma non è solo questo. Per capire, basta volgere lo sguardo dall’altra parte, dove Salvini, dopo averlo sottoscritto, ha fatto saltare per aria l’accordo del centrodestra su Bertolaso candidato sindaco per Roma. Il leader della Lega non è il solo a contestare la leadership ormai definitivamente logorata di Berlusconi, che ha cercato di imporre l’ex-capo della Protezione civile: a destra per il Campidoglio si fa avanti l’ex-presidente della Regione Lazio Storace, la leader di Fratelli d’Italia Meloni è stata a un passo dall’entrata in corsa, ed è in campo la candidatura civica, ma aperta all’alleanza con il campo moderato, di Marchini. La vera divisione è tra chi pensa che la donna da battere, con un nome nuovo e non con il riciclato Bertolaso, sia la candidata M5s Raggi, non a caso scelta con un profilo compatibile con l’elettorato di destra, e chi, come l’ex-Cavaliere, è rimasto prigioniero del vecchio schema.
A ben vedere, la crepa che s’è aperta nel centrosinistra è la stessa. Renzi è stato il primo, finora, a riconoscere la consistenza niente affatto provvisoria dell’ondata grillina e a contrapporvisi efficacemente: ed essendo anche lui nato sul terreno antipolitico della rottamazione, ha il Dna adatto per continuare la sfida. Ma proprio questo ha portato al limite della rottura il confronto con i suoi avversari, preoccupati che le regole del gioco possano cambiare definitivamente. Strano calcolo, questo dei politici consumati che guidano la minoranza del Pd: perché se Renzi vince, è vero, di spazio per nostalgie comuniste o democristiane ne resterà pochino. Ma se invece vince Grillo, non ne rimarrà proprio niente.
il manifesto 12.3.16
Lo strappino di D’Alema
Democrack. L’ex premier alzo zero sul partito, ma è solo. Opposizione interna alle prese con il referendum costituzionale: ma Renzi non consente defezioni. L’attacco: «Dirigenti arroganti e stupidi, dal malessere del Pd nascerà una nuova sinistra. La minoranza non dà battaglia». Gelo di Speranza: «Noi stiamo nel partito con tutti e due i piedi»
di Daniela Preziosi
È un fiume in piena, l’esplosione del tappo da una bottiglia troppo a lungo sotto pressione. Massimo D’Alema dalle colonne del Corriere della Sera cannoneggia il Pd, «finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali», che respinge il ricorso di Bassolino «perché in ritardo. Ma qui siamo oltre l’arroganza. Siamo alla stupidità», le primarie «manipolate da gruppetti di potere», diventate «un gioco per falsificare e gonfiare dati». Ce n’è per tutto il partito, da Renzi in giù, passando per Orfini, appunto quello «arrogante», giù fino al candidato sindaco di Roma Roberto Giachetti inchiodato a un fotomontaggio della rete in cui traina un risciò in cui è seduto Renzi («la città ha bisogno di una personalità più forte»). Giù giù fino alla minoranza Pd per la quale ha parole di compatimento: «non mi pare che riesca a incidere sulle decisioni fondamentali», anche perché «non c’è nessuna battaglia nel Pd». Giù ancora fino alla sinistra fuori dal Pd alla quale pure voleva suggerire, o imporre, un candidato sindaco al posto di Stefano Fassina, ovvero l’ex ministro Massimo Bray. A questa sinistra che si sforza di rifondarsi ancora una volta D’Alema non dà molto credito: «Inutile costruire nuovi partitini».
Quando di buon mattino l’ex premier si materializza a piazza Montecitorio per recitare un magistrale intervento in un seminario sulla guerra organizzato dal professore Carlo Galli (Si), rincara la dose: «La rottura a sinistra rischia di far perdere le elezioni, i voti che porteranno Verdini e Alfano non compenseranno i voti persi», ma se il Pd perderà le amministrative «non credo che Renzi si scolli dalla poltrona».
La contraerea del Pd renziano e diversamente renziano si alza subito: sono solo «le ultime ruote di un pavone dai colori sbiaditi» (l’ortodosso Federico Gelli), «la strategia che per ricostruire il centrosinistra va sfasciato il Pd ricorda Tafazzi» (il turco Francesco Verducci), «è ormai un antagonismo radicale al Pd» (il veltroniano Walter Verini). Matteo Orfini, ex pupillo dell’ex premier risponde con ironia tagliente: «È un non senso essere disconosciuti da D’Alema per l’arrganza». Il pezzo grosso dell’artiglieria, c’è da scommettere, arriverà domenica da Renzi, che parlerà alla scuola di formazione politica del Pd.
Ma a occhio i più arrabbiati per le esternazioni dell’ex premier sono quelli della minoranza interna, soprattutto quelli di rito bersaniano che ieri inauguravano la tre giorni a San Martino in Campo (Perugia) che dovrà consacrare Roberto Speranza candidato alternativo al futuro congresso. D’Alema «gli ha rovinato la festa», come sbotta Stefano Fassina con un collega. C’è del vero: l’ex premier ruba la scena a una minoranza del resto ormai ridotta all’afasia. Era già successo esattamente un anno fa: durante un’altra kermesse della minoranza, stavolta all’Acquario di Roma, D’Alema dal palco aveva fatto numeri a colori e i titoli erano stati tutti per lui. Anche quella volta. Quella volta Gianni Cuperlo, altro ex pupillo dell’ex premier, aveva replicato don durezza, stavolta suggerisce ai dirigenti Pd di interrogarsi «sulle ragioni che spingono una personalità di spicco della sinistra italiana a un’accusa così severa».
Su tutto aleggia l’eterno spettro della scissione. D’Alema non ne parla, ma stavolta fa un passo in più: prevede che «l’enorme malessere» alla sinistra del Pd può trasformarsi in un «nuovo partito», chiede di «ricostruire il centrosinistra» «dall’interno del Pd e dall’esterno, perché in molti se ne sono andati». Per quanto lo riguarda dichiara che a Roma voterà «liberamente da cittadino romano» quindi non necessariamente il candidato del Pd (e aggiunge che la candidatura dell’ex ministro Bray, quella che spaventa il Pd, sarebbe «quella di maggior prestigio per la capitale»). Infine sul referendum costituzionale spiega di non sentirsi vincolato «se non dalla coscienza». Non è l’annuncio di un imminente addio ma poco ci manca. Infatti da Perugia scende il gelo sulle sue parole. Roberto Speranza, senza mai nominarlo, gli risponde: «La nostra sfida è dentro il Pd, senza ambiguità: abbiamo due piedi dentro il Pd. È il nostro partito, ci crediamo, lo amiamo».
Certo, a parole anche qui viene invocato il ritorno al centrosinistra. È stato anche invitato Ciccio Ferrara, che in Sinistra italiana è il capofila di quelli che temono la deriva minoritaria della nuova forza politica postvendoliana. Ferrara dal palco chiede di «preparare, già adesso, la prospettiva della sinistra italiana del futuro». Pier Luigi Bersani risponde sì, ma a condizione che questo non significhi uscire dal Pd: «Può esistere un centrosinistra di governo se si dà per perso il Pd? No, può esistere una sinistra di testimonianza, cosa nobile ma che a noi riformisti non può bastare». Bersani incita i suoi a «alzare la voce su cose indigeribili». In realtà i suoi lo fanno da sempre. Salvo poi votarle.
Lo strappino di D’Alema
Democrack. L’ex premier alzo zero sul partito, ma è solo. Opposizione interna alle prese con il referendum costituzionale: ma Renzi non consente defezioni. L’attacco: «Dirigenti arroganti e stupidi, dal malessere del Pd nascerà una nuova sinistra. La minoranza non dà battaglia». Gelo di Speranza: «Noi stiamo nel partito con tutti e due i piedi»
di Daniela Preziosi
È un fiume in piena, l’esplosione del tappo da una bottiglia troppo a lungo sotto pressione. Massimo D’Alema dalle colonne del Corriere della Sera cannoneggia il Pd, «finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali», che respinge il ricorso di Bassolino «perché in ritardo. Ma qui siamo oltre l’arroganza. Siamo alla stupidità», le primarie «manipolate da gruppetti di potere», diventate «un gioco per falsificare e gonfiare dati». Ce n’è per tutto il partito, da Renzi in giù, passando per Orfini, appunto quello «arrogante», giù fino al candidato sindaco di Roma Roberto Giachetti inchiodato a un fotomontaggio della rete in cui traina un risciò in cui è seduto Renzi («la città ha bisogno di una personalità più forte»). Giù giù fino alla minoranza Pd per la quale ha parole di compatimento: «non mi pare che riesca a incidere sulle decisioni fondamentali», anche perché «non c’è nessuna battaglia nel Pd». Giù ancora fino alla sinistra fuori dal Pd alla quale pure voleva suggerire, o imporre, un candidato sindaco al posto di Stefano Fassina, ovvero l’ex ministro Massimo Bray. A questa sinistra che si sforza di rifondarsi ancora una volta D’Alema non dà molto credito: «Inutile costruire nuovi partitini».
Quando di buon mattino l’ex premier si materializza a piazza Montecitorio per recitare un magistrale intervento in un seminario sulla guerra organizzato dal professore Carlo Galli (Si), rincara la dose: «La rottura a sinistra rischia di far perdere le elezioni, i voti che porteranno Verdini e Alfano non compenseranno i voti persi», ma se il Pd perderà le amministrative «non credo che Renzi si scolli dalla poltrona».
La contraerea del Pd renziano e diversamente renziano si alza subito: sono solo «le ultime ruote di un pavone dai colori sbiaditi» (l’ortodosso Federico Gelli), «la strategia che per ricostruire il centrosinistra va sfasciato il Pd ricorda Tafazzi» (il turco Francesco Verducci), «è ormai un antagonismo radicale al Pd» (il veltroniano Walter Verini). Matteo Orfini, ex pupillo dell’ex premier risponde con ironia tagliente: «È un non senso essere disconosciuti da D’Alema per l’arrganza». Il pezzo grosso dell’artiglieria, c’è da scommettere, arriverà domenica da Renzi, che parlerà alla scuola di formazione politica del Pd.
Ma a occhio i più arrabbiati per le esternazioni dell’ex premier sono quelli della minoranza interna, soprattutto quelli di rito bersaniano che ieri inauguravano la tre giorni a San Martino in Campo (Perugia) che dovrà consacrare Roberto Speranza candidato alternativo al futuro congresso. D’Alema «gli ha rovinato la festa», come sbotta Stefano Fassina con un collega. C’è del vero: l’ex premier ruba la scena a una minoranza del resto ormai ridotta all’afasia. Era già successo esattamente un anno fa: durante un’altra kermesse della minoranza, stavolta all’Acquario di Roma, D’Alema dal palco aveva fatto numeri a colori e i titoli erano stati tutti per lui. Anche quella volta. Quella volta Gianni Cuperlo, altro ex pupillo dell’ex premier, aveva replicato don durezza, stavolta suggerisce ai dirigenti Pd di interrogarsi «sulle ragioni che spingono una personalità di spicco della sinistra italiana a un’accusa così severa».
Su tutto aleggia l’eterno spettro della scissione. D’Alema non ne parla, ma stavolta fa un passo in più: prevede che «l’enorme malessere» alla sinistra del Pd può trasformarsi in un «nuovo partito», chiede di «ricostruire il centrosinistra» «dall’interno del Pd e dall’esterno, perché in molti se ne sono andati». Per quanto lo riguarda dichiara che a Roma voterà «liberamente da cittadino romano» quindi non necessariamente il candidato del Pd (e aggiunge che la candidatura dell’ex ministro Bray, quella che spaventa il Pd, sarebbe «quella di maggior prestigio per la capitale»). Infine sul referendum costituzionale spiega di non sentirsi vincolato «se non dalla coscienza». Non è l’annuncio di un imminente addio ma poco ci manca. Infatti da Perugia scende il gelo sulle sue parole. Roberto Speranza, senza mai nominarlo, gli risponde: «La nostra sfida è dentro il Pd, senza ambiguità: abbiamo due piedi dentro il Pd. È il nostro partito, ci crediamo, lo amiamo».
Certo, a parole anche qui viene invocato il ritorno al centrosinistra. È stato anche invitato Ciccio Ferrara, che in Sinistra italiana è il capofila di quelli che temono la deriva minoritaria della nuova forza politica postvendoliana. Ferrara dal palco chiede di «preparare, già adesso, la prospettiva della sinistra italiana del futuro». Pier Luigi Bersani risponde sì, ma a condizione che questo non significhi uscire dal Pd: «Può esistere un centrosinistra di governo se si dà per perso il Pd? No, può esistere una sinistra di testimonianza, cosa nobile ma che a noi riformisti non può bastare». Bersani incita i suoi a «alzare la voce su cose indigeribili». In realtà i suoi lo fanno da sempre. Salvo poi votarle.