sabato 16 aprile 2016

Il Sole 16.4.16
Pechino detta legge anche per il legname Usa
di S.Bel.

L’industria forestale statunitense, una delle più antiche, che risale all’epoca dei primi coloni europei, dipende ormai a filo doppio dalla Cina e più in generale dall’Asia, che insieme assorbono quasi il 60% delle esportazioni di legni duri dagli Usa. È una trasformazione significativa quella descritta da Mike Snow, direttore esecutivo dell’American Hardwood Export Council (Ahec), che ha incontrato il Sole 24 Ore a Milano in occasione della Design Week.
L’Italia in particolare ha perso peso negli ultimi anni come mercato di destinazione. «È ancora importante e dopo tanto tempo oggi finalmente vediamo qualche segno di risveglio della domanda, anche se la forza del dollaro ci svantaggia - afferma Snow - Oggi però l’Italia conta meno di un tempo. Fino al 2007 era il nostro maggiore mercato in Europa e il terzo nel mondo. Inoltre dettava legge in termini di stile. Adesso è al sesto posto, superata in Europa dalla Gran Bretagna, forse anche perché?la sterlina si è svalutata meno rispetto al dollaro».
Il vero fenomeno è comunque la Cina. «A determinare i prezzi del legname - osserva Snow - non sono più le costruzioni di nuove case negli Usa, ma la domanda cinese, che è esplosa dall’inizio dello scorso decennio, quando Pechino oltre ad accelerare la crescita economica ha introdotto una moratoria sul taglio delle foreste». Oggi si dirige in Cina oltre la metà dell’export di latifoglie dagli Usa, che a sua volta è cresciuto moltissimo. «L’estensione delle nostre foreste è raddoppiata in 50 anni - racconta Snow - e negli ultimi 10-15 anni la quota di legni duri esportati è salita dal 15% a oltre la metà».
L’anno scorso la Cina, pur rallentando leggermente gli acquisti, ha rappresentato il 46,6% del valore dell’export Usa, che a livello globale ha superato 2 miliardi di dollari, il secondo miglior risultato nella storia. Contando anche il Sudest asiatico, in particolare il Vietnam, si sale al 57,1%. Le esportazioni verso l’Europa valevano invece appena 277 milioni, in calo del 9,9% rispetto al 2014, quelle in Italia 43,3 milioni (-22%).
Il Sole 16.4.16
La Cina cresce, obiettivo sostenibilità
Pechino deve puntare su una maggiore qualità del suo sistema economico
di Giuliano Noci

La crescita del Pil cinese (+6,7%), è notizia di ieri, è un dato apparentemente incoraggiante in quanto si inserisce perfettamente nella forchetta obiettivo (+6,5%-7%) definita dall’Assemblea del Popolo lo scorso marzo. I dati mensili evidenziano, in particolare, che l’economia è accelerata in misura significativa questo marzo dopo una debole partenza ad inizio anno. La crescita del settore dei servizi (+7,6%) continua ad essere superiore a quella dell’industria (+5,8%).
E così, apparentemente, la Cina sembra attestarsi nel corridoio di crescita pianificato dalla sua leadership e il mondo può tornare a tirare un respiro di sollievo: il motore economico globale con più cavalli è ritornato in carreggiata. Tutto a posto dunque? Niente affatto. Il tema chiave riguarda la sostenibilità di medio periodo di questo percorso di crescita e una lettura più dettagliata dei dati pubblicati non ci può fare dormire sonni tranquilli. Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, vi è da considerare che il risultato del primo trimestre è stato ottenuto grazie al combinato disposto di una forte crescita degli investimenti in asset fisici (+10,7%) e la concessione di un ammontare enorme di credito al sistema industriale (nel solo mese di marzo sono stati concessi nuovi debiti per 351 miliardi di dollari ). Hanno subito poi una improvvisa accelerazione sia le vendite immobiliari (+33% nei primi tre mesi dell’anno) sia i nuovi investimenti in proprietà immobiliari (+6,2%).
Segnali, in altre parole, che evidenziano come in questo momento l’economia cinese sia sotto l’effetto di una piuttosto vigorosa politica di stimolo ed il rischio è che la crescita di breve periodo possa creare ulteriori criticità sulla esigibilità dei debiti di medio-lungo periodo. Il piano di azione adottato è in altre parole simile a quella avviato da Hu Jintao nel 2008 quando in un momento di grave crisi si utilizzò il bazooka del denaro facile.
Una strada, quella intrapresa, probabilmente inevitabile nel breve – la Cina non può permettersi di abbassare in misura troppo significativa la sua crescita – ma che richiede di essere accompagnata da altre misure. Insistere in politiche di stimolo che agiscono sul fronte dell’offerta non può che tradursi in nuova capacità produttiva in eccesso. Già oggi il Partito cerca faticosamente di combatterla attraverso la riorganizzazione del sistema dell’offerta – secondo una logica di stampo reaganiano - ma il risultato ed il rischio sono di creare una massa impressionante di disoccupati.
Che cosa fare dunque? Una premessa prima di tutto: la Cina detiene ancora oggi riserve monetarie enormi, che possono essere messe in circolazione; ha avuto negli ultimi anni deficit di bilancio inferiori al livello di crescita della sua economia e il premier Li Keqiang ha fissato un deficit-obiettivo per il 2016 pari al 3%. Da qui occorre partire per adottare una politica più aggressiva di deficit fiscale orientata alla creazione di infrastrutture immateriali indispensabili per il Paese.
Introduzione di un sistema di welfare e sanitario efficaci in primis: per incentivare il livello di propensione al consumo delle persone, che ad oggi risparmiano molto nella prospettiva di una vecchiaia insicura e molto dispendiosa. Altrettanto importante è il sistema educativo nelle sue differenti articolazioni: per formare così maestranze in grado di far fronte alle nuove esigenze di imprese sempre più impegnate nella realizzazione di prodotti a maggior contenuto di valore aggiunto, visto che i costi della manodopera non sono più sostenibili; per fare in modo che le università cinesi siano in grado di produrre laureati all’altezza di un sistema industriale sempre più alla ricerca di innovazione; per supportare l’agricoltura nel decisivo passaggio verso livelli di automazione maggiori. È infine fondamentale lavorare sul rafforzamento della capacità normativa delle istituzioni del Dragone: per la sicurezza alimentare e dei farmaci, la piena affermazione dei diritti di proprietà intellettuale, solo per fare alcuni esempi.
Si osservi peraltro che l’incentivazione alla spesa e la creazione di una nuova forza lavoro in grado di far fronte autonomamente ai propri bisogni, e di creare così nuova domanda, produce due benefici: riduce significativamente l’intensità delle riforme necessarie dal lato dell’offerta (proprio perché gli interventi dal lato della domanda ridurranno l’eccedenza di output del sistema industriale) e può creare lo spazio per il Politburo per azioni volte a ridurre il degrado ambientale, migliorare la qualità della vita nelle città e ridurre la diseguaglianza che ancora attanaglia l’ex Impero di Mezzo.
In conclusione, vista in questa prospettiva, la Cina deve introdurre una forte discontinuità rispetto al suo recente passato. Un cambiamento necessario perché per la prima volta si affaccia una crescita a disoccupazione e disuguaglianze crescenti. E non deve certo imparare dall’Unione Europea; una crescita sostenibile vale bene infatti qualche punto di percentuale in più di deficit di bilancio. In questo modo, si possono creare i fondamentali per una Cina che puntando sulla qualità della sua economia e della società diventi stabilmente – grazie anche all’enorme dimensione del suo mercato e della sua industria – un affidabile motore economico del Pianeta. Leggendo il XIII° piano quinquennale recentemente approvato possiamo certo nutrire qualche speranza.
il manifesto 16.4.16
Tsipras difende i risultati del governo e attacca l’Fmi
L'articolo sul Financial Times. «Ma perché insistete a voler cambiare il piano di riforme. Noi eletti per garantire: il risanamento finanziario, la nostra credibilità ma anche la giustizia sociale»
di Teodoro Andreadis Synghellakis

In un suo articolo sul Financial Times, il primo ministro greco Alexis Tsipras ha difeso ieri l’operato del suo governo e attaccato il Fondo Monetario Internazionale accusandolo, sostanzialmente, di voler impedire alla Grecia di uscire dalla crisi economica.
Il leader di Syriza ha ricordato che ad ottobre del 2015 l’Fmi aveva previsto, per la Grecia, una recessione del 2,3%. Previsioni rivelatesi totalmente inesatte, dal momento che il Pil, alla fine, ha fatto registrare una frenata minima, dello 0,2%. Tsipras ribadisce anche che nell’anno passato le entrate dello stato ellenico sono aumentate di due miliardi di euro, che le banche sono state ricapitalizzate usando solo un quinto delle risorse che erano state messe a disposizione, mentre la disoccupazione -seppur ancora altissima- è scesa dal 26,5% del 2014, al 24,9%.
Oltre a tutto ciò, la Grecia è riuscita ad assorbire il 97% dei fonti comunitari, mentre per il turismo, quello passato è stato un anno record, con ventisei milioni di arrivi e quindici milioni e mezzo di euro di ricavi.
Quanto alla fase attuale, Tsipras ritiene che il 2016 possa essere l’anno della svolta, in cui si gettano le basi per uno sviluppo sostenibile, cercando di fare in modo che nessuno ne venga tagliato fuori. E qui iniziano le incongnite, cosa che il primo ministro greco certamente non si nasconde: il leader della sinistra greca scrive chiaramente che si deve concludere il prima possibile, da parte del Meccanismo Europeo di Stabilità, la valutazione dei progressi che Atene ha compiuto nell’applicazione di quanto concordato l’estate scorsa con i creditori. Si è pattuito, appunto, di riformare il sistema fiscale- con cui si punta a far aumentare le entrate per una somma pari all’1% del Pil- ed anche di dare il via alla riforma della previdenza, per ridurre le spese dello stato per un altro 1,5% del prodotto interno lordo.
Alexis Tsipras, nel suo articolo sul Financial Times ricorda poi che il governo greco si è impegnato a combattere in modo molto più deciso il contrabbando di sigarette e di carburante, aumentando, d’altro canto, anche la riscossione dell’Iva. Il problema principale, tuttavia, si chiama, nuovamente, Fondo Monetario.
«La Grecia non comprende per quale motivo l’Fmi insiste nel voler cambiare il piano di riforme in un modo che non influisce positivamente sulla semplicità e la sua concreta attuazione, ma rende queste riforme meno progressiste, facendo ricadere parte del peso sui cittadini considerati più poveri».
Il quarantunenne primo ministro greco scrive chiaramente che il suo governo è stato eletto con un duplice scopo: garantire il risanamento finanziario e la credibilità del paese, ma anche la giustizia sociale. E non vuole certo nascondersi e nascondere che “chi insiste nel voler ignorare il contenuto letterale ma anche lo spirito di quanto pattuito, non rende un servizio ai principi con i quali l’Europa è riuscita a prosperare”.
Tsipras spera che la valutazione dei creditori arrivi quanto prima e che “ il 2016 costituisca un nuovo punto di partenza per la ripresa economica e sociale della Grecia”. Bisognerà, però, attendere le reazioni della controparte, ed in primis, appunto, del Fondo Monetario Internazionale. Secondo le ultime indiscrezioni che filtrano dai responsabili dei dicasteri –chiave impegnati nei colloqui, ad Atene ci si auspica che entro il 23 aprile si possa arrivare ad una conclusione dell’esame delle misure applicate sinora, approvando anche quelle che dovrebbero garantire sostenibilità economica al paese, per i prossimi anni. Se tutto dovesse andare come previsto -o meglio sperato- per il 24 si potrebbe convocare un Eurogruppo straordinario, in modo da sancire ufficialmente l’accordo sul proseguo del cammino del paese. Tuttavia, secondo stretti collaboratori del primo ministro greco, gli auspici non finiscono qui. Come dimostra, in parte, anche l’articolo sui Financial Times, la Grecia ha delle chiare e ben precise priorità. Atene preferirebbe, d’ora in poi, una “collaborazione a due velocità”.
Più stretta con l’Europa, ma molto meno vincolante con l’Fmi. Una nuova sfida, per portare tutta questa “eterna trattativa” nel contesto dei valori fondanti e delle realtà sociali di questo nostro Vecchio Continente. Cose, ovviamente, che per le istituzioni economiche internazionali con sede Washington, non significano quasi nulla.
Il Sole 16.4.16
Se l’Europa accetta lezioni di libertà dalla Turchia
di Alberto Negri

L’Europa adesso prende lezioni di libertà di parola e di satira da un Erdogan sempre più irascibile. Questo avviene perché quando si stringe la mano a un raìs mediorientale è possibile che lui si prenda anche il braccio. È successo al premier italiano Matteo Renzi che per primo in Europa aveva sdoganato il generale Al Sisi che ora nasconde le prove dell’assassinio di Giulio Regeni, diventato un caso internazionale nonostante la Francia di Hollande, sulla via del Cairo per una commessa di armi da un miliardo di euro, faccia finta di nulla. Accade ora alla cancelliera Angela Merkel.
Continua pagina 20 Alberto Negri
Continua da pagina 1 Che sulla scena mediorientale è brava in affari e un po’ meno in politica perché le sue soluzioni come l’accordo sui profughi con la Turchia hanno effetti collaterali assai spiacevoli. Il caso del comico Jan Böhmermann ha innescato un’aperta crisi diplomatica tra Berlino e Ankara, proprio nei giorni successivi alla firma dell’intesa sul rimpatrio dei rifugiati dalla Grecia alla Turchia. Si può dire che Ankara e il presidente Tayyip Erdogan non aspettassero altro per attendere al varco gli improvvidi tedeschi.
Ridere del raìs in Medio Oriente è vietato, soprattutto in Turchia dove il senso dell’umorismo è un reato, per non parlare di quanto accade ai giornalisti, come il direttore di «Chumurriyet Dundar», che rischiano l’ergastolo quando pubbicano le prove del coinvolgimento dei servizi turchi con l’Isis. La satira nel mondo arabo-musulmano è diffusa ma perennemente sotto il tiro della censura e della magistratura. Il sorriso o il ghigno beffardo dell’umorista sono violazioni gravi, soprattutto quando solleticano il potere politico o la religione. L’accusa di blasfemìa è all’ordine del giorno.
Tutto è iniziato con l’irritazione di Ankara per un programma di satira politica della tv Ndr che aveva trasmesso un rap in cui si criticava la gestione di Erdogan. Come reazione alle reprimende turche, Böhmermann ha letto un poema intitolato «Critica diffamatoria» nel suo show sulla rete pubblica Zdf. Su di lui adesso pendono due azioni penali: una richiesta da Ankara e un’altra personale di Erdogan, in base a un articolo del codice penale tedesco che punisce gli insulti contro un rappresentante di uno stato straniero.
La legge deve essere rispettata ma la Germania sta facendo comunque una pessima figura alla quale però potrebbe subito rimediare. Il 23 aprile la cancelliera Merkel si recherà a Gaziantep da Erdogan per un incontro sui flussi migratori, accompagnata dal vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans e dal presidente dell’Ue Donald Tusk. In quell’occasione Merkel e i rappresentanti europei, prima di dare in pasto il comico germanico a Erdogan, dovrebbero chiedere conto al presidente turco delle continue violazioni dei diritti umani e delle leggi sulla stampa messe in luce dall’ultimo rapporto del Consiglio europeo, molto simile a quello degli Stati Uniti in cui si afferma che la Turchia ha usato le leggi antiterrorismo e di sicurezza nazionale per «reprimere l’attività della società civile, asfissiare il legittimo confronto politico e il giornalismo investigativo».
Nella lotta contro il terrorismo la Turchia sta calpestando i diritti dei cittadini e la libertà di stampa, afferma il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks. Sono sempre di più le città a maggioranza curda dove viene imposto il coprifuoco e l’esercito nei raid contro il Pkk non colpisce soltanto i guerriglieri ma anche civili. Strasburgo lancia l’allarme anche per il deterioramento della libertà d’espressione e punta il dito sull’«aumento esponenziale dei processi per insulto al presidente», sul fatto che la Turchia detiene il record di giornalisti in carcere e sui danni irreparabili al pluralismo causati dalla presa di controllo di giornali e televisioni.
Se la Merkel e i vertici europei avranno il coraggio di interrogare Erdogan su questi temi allora faranno sorridere soddisfatti anche noi cittadini europei e forse persino l’imputato Jan Böhmermann.
Il Sole 16.4.16
Il fragore dei populismi
di Adriana Cerretelli

Il presidente della Repubblica l’aveva detto solennemente davanti all'emiciclo di Strasburgo il 25 novembre scorso: «Di fronte alle fortissime pressioni migratorie e alle minacce del terrorismo, ci si interroga se chiudere le frontiere, ponendo in discussione alcuni valori europei, a partire dalla libera circolazione delle persone».
«Io credo – aveva continuato - che dobbiamo affrontare queste sfide alla luce dei valori per i quali dichiariamo di combattere, valori senza tempo come democrazia, tolleranza e accoglienza, unità, solidarietà e coesione, che sono stati e devono restare le fondamenta e il cemento armato della costruzione europea».
Sono passati cinque mesi da quell’intervento sommesso nei toni ma appassionato nei contenuti di Sergio Matterella e del suo europeismo lucido e convinto. Nel frattempo però, invece di retrocedere, le divisioni intra-europee sono aumentate, i muri dentro e fuori dall’Unione si sono moltiplicati, nazionalismi ed egoismi sembrano ogni giorni di più farla da padrone in un’Europa apparentemente incapace di ritrovare il filo di Arianna nel labirinto della propria miopia esistenziale.
Ultimo episodio di una serie esecrabile, il muro del Brennero, l’ansia dell’Austria di erigere una barriera al confine con l’Italia, dopo aver sigillato la rotta dei Balcani per impedire ai disperati in fuga dalla guerra civile siriana di chiedere e trovare asilo in Europa. Meglio, nel Nord Europa.
Le tensioni diplomatiche tra Roma e Vienna in questi giorni sono forti in attesa, si spera, che la Commissione Ue risolva il contenzioso limitandosi semplicemente a pretendere e ottenere che l’Austria applichi le regole di Schengen. Le quali prevedono il ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere solo di fronte a emergenze reali, non semplicemente paventate. In breve, i muri preventivi non sono contemplati dal codice di comportamento comunitario.
Nel pieno dell’ennesima brutta crisi intra-europea, che coinvolge in prima persona il nostro paese, Sergio Matterella ieri ha rotto il silenzio lanciando un nuovo richiamo alla ragione europea, che è quella dell’interesse generale nel quale far confluire le vari ragioni nazionali, oggi in piena anarchia.
«Le risposte che alcuni paesi cercano di dare su base individuale sono spesso inadeguate e miopi. Le soluzioni durature possono nascere solo da un esame obiettivo delle cause alla base del fenomeno e devono trovare un solido ancoraggio nei principi e nel valori europei».
Ancora una volta, dunque, il presidente della Repubblica ribadisce che, qualunque sia la crisi e la sua gravità, l’Europa non è il problema ma la sola soluzione possibile. E tale deve essere per tutti i suoi paesi membri. Peccato che per ora tutti gli appelli alla logica e al buon senso, tutti i richiami degli europeisti di buona volontà sembrino destinati a perdersi nel fragore dei populismi e degli estremismi di ogni segno e colore.
Il Sole 16.4.16
Le scommesse di Renzi, Emiliano, Grillo
di Lina Palmerini

In ogni caso il referendum sarà un’occasione di bilancio politico, sia con il quorum sia senza. Perché se sarà molto evidente la sconfitta di Renzi nel caso andasse a votare il 50% più uno degli elettori, anche la mancanza del quorum porterà a qualche conclusione. Per esempio si misurerà il peso di Emiliano nel Pd che si è così impegnato per il sì e contro il premier.
E sarà una spia per i 5 Stelle che affrontano le urne due giorni dopo la perdita di Casaleggio.
Come si è visto in queste ultime settimane, alcuni esponenti politici hanno molto scommesso sul quesito no-Triv. Anzi per alcuni, questo appuntamento elettorale è stato scelto come piccola prova generale per verificare la presa sull’elettorato. Una sorta di test di popolarità per aspiranti leader, soprattutto nel campo del Pd. Così almeno appare l'esposizione di Michele Emiliano, governatore della Puglia, il più attivo e impegnato nella battaglia a difesa del “mare dei pugliesi” e dunque schierato contro le trivelle. Nel suo caso, anche se la soglia del quorum non dovesse essere raggiunta, sarà importante vedere quanti elettori ha trascinato nella “sua” Puglia o almeno nel Mezzogiorno. Il presidente della Regione si è infatti preso la bandiera contro il leader del suo stesso partito, Renzi, come se volesse in qualche modo anticipare una futura gara dentro il Pd. Gli ha dato del “venditore di pentole”, scavalcando la normale dialettica politica e su un tema che è sempre stato divisivo all’interno del centro-sinistra: quello dell’energia e dell’ambiente. E questo tema è diventato un primo terreno di scontro che ha consentito a Emiliano di emergere come figura nazionale anti-Renzi e non solo come “portavoce” di una realtà locale.
Ecco, se la sua battaglia non dovesse superare il quorum nemmeno in Puglia o al Sud, è evidente che l’aspirazione a contrastare la leadership renziana nascerebbe molto debole. Insomma, l’esito di domenica non sarà banale per lui che leggerà le schede anche per prendere – o no – la rincorsa contro il premier e immaginare una nuova battaglia magari al referendum costituzionale e poi verso lo scontro congressuale.
Stesso discorso per Roberto Speranza, lui che è il “titolare” della guida della sinistra interna contro il premier, si trova a dover affrontare lo stesso giudizio popolare. Almeno nella “sua” Lucania, per altro scossa dalle inchieste di Potenza che hanno portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo Federica Guidi. Anche per Speranza è un piccolo test di leadership: capire quanti ne porterà dalla sua parte nella sua Regione, la Basilicata, ma anche fuori dove – in qualche modo – si peserà anche la consistenza della minoranza interna del Pd. Nonostante l'ex leader Bersani abbia dichiarato che voterà – ma voterà “no” – la fetta più grande della sinistra del Pd è schierata sul sì e ha quindi giocato una carta importante sul referendum di domenica.
E non sarà banale questo passaggio per i 5 Stelle. Ieri Beppe Grillo ha tuonato contro Renzi e Napolitano schierati per l’astensione ma se l’è presa anche contro i “silenzi” di Mattarella sul referendum. Una esposizione necessaria a poche ore dall’apertura delle urne anche perché cadono in un momento particolare per il Movimento: solo due giorni fa sono stati celebrati i funerali di Casaleggio e ci si aspetta un segnale di reazione dell’elettorato pentastellato dalle urne di domani. Ci sarà? È una prima verifica di come si senta il popolo dei 5 Stelle orfano della sua guida.
il manifesto 16.4.16
Dopo il 17 aprile tocca agli altri referendum
di Corrado Oddi

Allora siamo partiti. La scorsa settimana in tante piazze è iniziata la raccolta delle firme sui referendum sociali. Quattro contro la “cattiva” scuola, contro tutte le trivellazioni di idrocarburi, contro il piano nazionale inceneritori a cui si aggiunge la petizione popolare contro i decreti attuativi Madia che intendono privatizzare i servizi pubblici locali. Contemporaneamente, sono stati presenti anche i banchetti della Cgil che raccoglie le firme su 3 quesiti referendari contro il Jobs Act e la legislazione sul lavoro e anche quelli animati dal Coordinamento per la democrazia costituzionale che propongono i 2 quesiti contro l’Italicum.
Quello che ho visto nella città dove vivo, Ferrara, somiglia a quel che è successo anche in altre città, sia metropolitane che di provincia, da Roma a Pescara. Nella bella Piazzetta Municipale, crocevia tra la sede del Comune e la cattedrale, a poche decine di metri di distanza sono collocati i banchetti per i referendum sociali, quello della Cgil e quello per la raccolta delle firme contro l’Italicum. Le persone affluiscono in buon numero, non sono del tutto informate, ma quando si spiega l’oggetto della raccolta delle firme, in gran parte, senza distinzioni tra le tre iniziative, si mettono pazientemente in fila e fanno la spola tra i vari banchetti («ma non potevate mettervi tutti insieme, così facevamo prima?».
Permane una disponibilità, anzi una volontà di partecipazione diffusa. Sarebbe superficiale trarre conclusioni generali da quest’inizio di campagna, ma, due anni e più di esperienza dell’ “uomo solo al comando”, di propaganda sul fatto che è meglio stare a casa, che ci si può solo rassegnare o urlare uno alla volta, che, se va bene, si può dire “mi piace””a dibattiti preconfezionati, che la democrazia consentita è quella del pubblico che assiste, non hanno anestetizzato le persone. E lo strumento referendario, per quanto imperfetto e volutamente spuntato da questo e dai governi precedenti, è ancora visto come utile a questo fine.
Le persone che decidono di firmare per i quesiti referendari e per le altre proposte hanno ben chiaro che tutte le questioni, quelle sollevate dai referendum sociali, quelle del lavoro e anche la legge elettorale, sono legate, compongono una trama unitaria. Una delle idee forza della vasta stagione referendaria trova qui una conferma importante: quello di cui occorre discutere e su cui promuovere un’iniziativa conseguente è proprio il tema del modello sociale e della qualità della democrazia nel nostro Paese.
Esiste e resiste una domanda forte di cambiamento dei rapporti sociali e di potere, dello stato della democrazia nel Paese. Per darle forza si deve favorire e promuovere una grande partecipazione al voto per il referendum del 17 aprile. E raccogliere tante adesioni per tutti i referendum e le raccolte di firme, costitutivi di questa primavera dei referendum “sociali”, del lavoro e della democrazia.
* Forum Italiano Movimenti per l’Acqua
il manifesto 16.4.16
Cgil, rush finale verso il Sì: «Per rilanciare le rinnovabili»
Referendum trivelle. Appello di 186 sindacalisti dall'Emilia Romagna, "capitale" dell'Eni. Almeno 700 le firme nazionali. Stefania Crogi (Flai): «Pensiamo anche all'occupazione dei pescatori». Maurizio Landini (Fiom) e Domenico Pantaleo (Flc): «Investiamo nelle energie alternative, i posti di lavoro arriveranno»
di Antonio Sciotto

Cgil al rush finale per lo sforzo sul referendum di domani sulle trivelle, e il bilancio è decisamente pro-Sì. Nonostante rimangano schierati per il No/astensione, come abbiamo già scritto più volte, i petrolchimici della Filctem. Da segnalare l’appello per il Sì di 186 sindacalisti dell’Emilia Romagna, significativo perché la regione, in particolare nel territorio di Ravenna, è ricca di stabilimenti che fanno capo ai big del fossile, da Eni in giù.
«Come sindacalisti – scrivono i 186 rappresentanti della Cgil – siamo convinti della necessità e dell’urgenza della transizione a un nuovo modello energetico, democratico e decentrato, 100% efficienza energetica e rinnovabili, grande opportunità di crescita economica e di nuova e qualificata occupazione per il nostro paese».
«Le trivellazioni, il petrolio, le fonti fossili – proseguono i sindacalisti emiliano-romagnoli – rappresentano un passato fatto di inquinamento, dipendenza energetica, interessi e pressioni decisionali delle lobby, conflitti, devastazione ambientale e della salute, cambiamenti climatici. Noi vogliamo un futuro basato sull’efficienza energetica e le fonti rinnovabili distribuite, un’economia sostenibile e equa, la piena occupazione e la democrazia partecipativa».
Nei giorni scorsi la segreteria nazionale Cgil, guidata da Susanna Camusso, ha invitato i cittadini (dai lavoratori ai pensionati) a recarsi alle urne, comunque la pensino. Messaggio che si contrappone a quelli del premier Matteo Renzi e del Presidente emerito Giorgio Napolitano, che invece hanno difeso le ragioni dell’astensione. La Cgil ha deciso di non fare una sintesi al suo interno per pronunciarsi a favore del Sì o del No – visto che la Filctem mette in guardia rispetto all’occupazione legata alle estrazioni gas/petrolifere – ma nell’ultimo mese tanti iscritti, segretari e delegati hanno lavorato per la vittoria del Sì.
La mobilitazione è partita da Simona Fabiani, del Dipartimento Ambiente della Cgil nazionale, che ha raccolto le firme di centinaia di segretari e quadri di tutta Italia, favorevoli al Sì.  Appello che «nelle ultime settimane – dice Fabiani – è arrivato almeno a 700 firme».
Un’intera categoria, quella dei metalmeccanici Fiom, è fan della prima ora del Sì, essendo entrata nel comitato promotore del referendum. «Si sono dette molte bugie sul fatto che questo referendum sia contro l’occupazione», ha detto il segretario Maurizio Landini. «Negli anni passati si era arrivati a 20 mila posti di lavoro nelle energie alternative, ma con le politiche del governo si sono dimezzati. Il voto del 17 aprile non è risolutivo ma pone un tema: o si fa una riconversione ecologica del sistema produttivo ed economico o noi non ne veniamo fuori».
La Flai (agroindustria) non ha preso posizioni univoche ufficiali, ma la segretaria Stefania Crogi assicura che «la scelta del Sì è ampiamente condivisa in tutta la segreteria e nella categoria». Crogi pone il problema dei lavoratori della pesca: «In tutte le località in cui si trovano le trivelle, in particolare sulle coste adriatiche, la fauna ittica è meno presente, perché disturbata dal rumore e dall’inquinamento. Il salario dei pescatori non è fisso, ma è calcolato sulla cosiddetta “parte”, ovvero in base al pescato. Dobbiamo comunque andare a votare, per tutelare l’istituto del referendum, e io scelgo il Sì. Per l’ambiente, per andare verso il rinnovabile, e per i pescatori».
Invita «innanzitutto a recarsi alle urne» Domenico Pantaleo, segretario della Flc (scuola, università, ricerca): «Il voto è un dovere civico, importante per la partecipazione dei cittadini. Io voterò Sì per l’ambiente, per la mia Puglia, perché credo sia possibile costruire un’occupazione diversa. Il turismo, la ricerca e le energie rinnovabili: capisco le preoccupazioni per i posti legati al fossile, e le rispetto, ma se prepariamo una transizione con i dovuti investimenti, potremo riconvertirli». Secondo Pantaleo, «questa opinione è condivisa nella scuola, dove si educa all’ambiente, e nella ricerca. Ricordo che al referendum sul nucleare gran parte dei ricercatori del Cnr, nonostante fosse coinvolto in studi per quel tipo di energia, si pronunciò a favore del suo abbandono».
il manifesto 16.4.16
De Magistris: «Con il voto di domenica due Italie a confronto»
Intervista. Il sindaco di Napoli De Magistris difende l’istituto referendario e attacca Renzi: «Altro che rottamatore, difende le lobby e non rispetta la sovranità popolare. Ma nel paese cresce il dissenso»
di Adriana Pollice

NAPOLI Martedì scorso i climber di Greenpeace erano entrati in azione a Napoli, srotolando in Galleria Umberto un’immagine raffigurante la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, andata in fiamme nel Golfo del Messico nel 2010. Ieri, ancora a Napoli, i Verdi hanno chiesto al parroco della chiesa di Piedigrotta di benedire il mare di Mergellina per propiziare il raggiungimento del quorum. Schierati per il sì anche la giunta partenopea e il sindaco, Luigi de Magistris.
Sindaco, perché è importante andare a votare?
Il referendum di domani è in continuità con le battaglie in difesa della costituzione, dell’acqua pubblica, del paesaggio, del mare, del patrimonio storico-artistico. Proviamo a mettere un tassello per contrastare le politiche liberiste di commistione e concentrazione di poteri, come l’inchiesta Tempa Rossa ci ha mostrato. Si tratta di fermare politiche fatte di concessioni infinite alle società petrolifere, percentuali di favore nell’estrazione del greggio a costo del massacro del territorio, com’è accaduto in Val d’Agri e poteva accadere alle Tremiti o nei Campi Flegrei. È un referendum che mette di fronte due differenti modelli politici, culturali, economici e alla fine anche di legalità.
Renzi invita a non votare perché il «referendum è una bufala». Napolitano parla di consultazione «pretestuosa»…
Entrambi sono legati a questo sistema che sta dietro, o avanti, alle politiche del governo, vicine alle lobby: i petrolieri, le banche, le multiutility degli inceneritori e dei servizi idrici. Il governo non ha voluto accorpare il referendum alle amministrative e Renzi attacca un istituto previsto dalla democrazia. Il premier non rispetta la sovranità popolare, tanto che vuole cambiare le leggi sull’acqua ribaltando il referendum del 2011. Napoli è l’unica città che ha mantenuto fede al voto popolare sul sistema idrico.
Renzi schiera governo e maggioranza Pd per l’astensionismo. Per invertire la tendenza si stanno impegnando soprattutto le realtà locali.
Lo slancio democratico negli ultimi anni è arrivato soprattutto da movimenti e comitati in difesa dei territori, contro discariche, inceneritori, Tav, Ponte sullo stretto, centrali nucleari. Il governo è insofferente e sta cercando di intervenire con impostazioni di tipo securitario contro le proteste. Renzi sa che nel paese i movimenti sono forti. Non a caso si sta disinteressando delle amministrative ma ha scelto di attaccare il sindaco di Napoli, perché qui si sta realizzando una vicinanza, nell’autonomia, tra amministrazione e un nuovo modo di fare politica dal basso. Renzi, invece, vuole consolidare e far ripartire le politiche liberiste, non è un rottamatore ma il saldatore del sistema intorno alle lobby. Nel paese però cresce il dissenso.
La Campania è tra le regioni che hanno promosso il referendum. Il governatore De Luca prima ha cavalcato la protesta, poi ci ha ripensato.
Si è creato un asse Renzi-De Luca. Era già successo con l’acqua: la legge regionale sul sistema idrico voluta dal governatore è pessima e va nella direzione che piace al governo. E poi è successo ancora con il piano di trasformazione urbana di Bagnoli affidato al commissario dal governo: non vorrei che si usassero le vesti istituzionali per fare campagna elettorale contro il sindaco di Napoli, perché non va bene che a quattr’occhi si dica che il commissariamento è una cosa grave però lo fa il presidente del consiglio, viva il presidente del consiglio.
Le norme sulle trivellazioni sono state inserite nello Sblocca Italia, le regioni hanno promosso i referendum e il governo è intervenuto in legge di Stabilità, facendo decadere tutti i quesiti tranne uno. Lo stesso a Bagnoli: lo Sblocca Italia commissaria l’area e l’affida a una società mista pubblico-privata, l’amministrazione fa ricorso così il governo modifica il decreto nel Milleproroghe. Si forzano le norme e, in caso di protesta, si aggiusta il tiro.
Il governo Renzi sta attentando alla costituzione a colpi di maggioranza con le opposizioni che escono dall’aula. Sta svuotando la Carta a colpi di leggi ordinarie, decreti e fiducie. Sta mettendo da parte la sovranità popolare e la democrazia di prossimità, come a Bagnoli: cancella sindaco e cittadini, mette un commissario e realizza la commistione tra presunto interesse pubblico e predeterminati interessi privati, cioè la stessa logica che c’è dietro le trivelle, come le vicende lucane dimostrano. La sua posizione sul referendum fa capire come il governo sia insofferente al bilanciamento costituzionale dei poteri, alle autonomie, ai controlli democratici, ora diventa insofferente anche ai magistrati. E ai diritti, come ha dimostrato col Jobs act e sul luogo primario della democrazia che è la scuola. Insofferente ai giovani perché come vede una protesta va in tilt. È un disegno che tende a sovvertire la costituzione repubblicana.
il manifesto 16.4.16
Votare sì per dire no all’economia dei sudditi
17 aprile. È un diritto-dovere votare su scelte che riguardano tutti. E rispondere a chi irride il voto dei cittadini
di Moni Ovadia

Il referendum di domani, al di là del suo portato specifico, rivela, l’esistenza di due opposte concezioni del mondo, della politica e, in ultima analisi, del senso del vivere nel nostro Paese ma anche oltre i nostri confini.
Buon ultimo, il governo Renzi, coerente con i precedenti esecutivi e in ossequienza a tutti coloro che esso rappresenta, – ovvero i grandi interessi industriali e finanziari – è allergico già in prima istanza, a misurarsi con l’espressione diretta della volontà popolare.
Non tragga in inganno il referendum inevitabile sulla “deforma” costituzionale; Renzi non lo vive per ciò che dovrebbe essere, un confronto con la volontà popolare, ma come la proiezione plebiscitaria sulla sua personale narcisistica leadership.
Sulle questioni strategiche che attengono praticamente e simbolicamente al futuro delle persone e alla qualità della loro esistenza, ritiene che esprimersi direttamente sia una perdita di tempo. Davvero una singolare idea del valore della democrazia diretta, ma Renzi e i suoi hanno sposato a monte un’ideologia che si fonda esclusivamente sugli interessi dei potentati di ogni settore delle attività economico finanziarie. L’azione legislativa e la sua comunicazione, si iscrivono in una visione frusta e consunta del modo di governare una società che fa leva sulle presunte ragioni della millantata creazione e/o conservazione di posti di lavoro, come se la prosperità economica potesse essere pensata solo a senso unico. Lo scopo di questa ideologia è quello di fare apparire le alternative all’economia del privilegio come chimere o, peggio, come il frutto di un conservatorismo deteriore nemico dello sviluppo ipercapitalistico dichiarato assiomaticamente come l’unica via possibile, l’unica soluzione virtuosa.
Tutto lo sforzo di coloro che si oppongono al confronto sul merito del referendum è di screditarne il valore, di screditare quei cittadini che, con passione civile e non per servire interessi precostituiti e favoriti per titolarità a priori, vogliono il referendum per fare sentire la propria voce.
Qual è la richiesta dei cittadini sostenitori dell’opzione referendaria? Essi chiedono che per ogni decisione che attiene alla salute degli esseri umani e dell’ambiente, sulle questioni che attengono al rapporto fra scelte economiche e qualità della vita, sia garantita la loro partecipazione attiva. Il malcelato sentimento di sufficienza, quando non di disprezzo nei confronti di chi si schiera con impegno per il voto, la dice lunga su come pensano il confronto sui grandi temi coloro che invitano i cittadini italiani a disertare le urne per sabotare il raggiungimento del quorum.
La democrazia che vogliono è quella dei governi non eletti, o dei governi eletti da elezioni formali, esito di una routine di cui si è perso il senso, visto che la classe politica è sempre più lontana dagli elettori e sempre più impegnata in un’autoperpetuazione svuotata di significato.
Colpisce e sconcerta qualunque cittadino si sia formato attraverso l’insuperato ammaestramento della nostra mirabile Costituzione, la protervia con cui un presidente del consiglio che ha ricevuto la fiducia da un parlamento delegittimato per essere stato invece eletto con una legge vergognosa definita dal suo stesso estensore una porcata, invita alla diserzione dall’atto di massima espressione di una democrazia autentica.
Il significato del voto in occasione di questo particolare referendum, assume una valenza di particolare rilievo etico. Andando a votare in massa, noi dichiariamo che sono i cittadini a decidere l’ordine delle priorità, che il bene comune è superiore a qualsivoglia ambizione di chi governa, che la volontà dei cittadini partecipanti si oppone all’improntitudine di chi la considera irrilevante. Dichiariamo che noi non siamo i sudditi degli interessi di pochi potentati, che le migliori scelte economiche sono quelle che si rivolgono alle opportunità offerte da uno sviluppo economico fondato sul benessere delle persone e la salute del pianeta, a fortiori oggi dopo la conferenza sul clima di Parigi che, pur con tutti i suoi limiti, ha affermato l’urgenza della questione ecologica.
Il decisionista di Rignano sull’Arno ci vuole far credere che lui ritiene inutile questo specifico referendum, ma non è così. Non è difficile intuire cosa il Matteo nazionale pensi per esempio del referendum sull’acqua pubblica che vide una travolgente partecipazione degli italiani che, quasi unanimemente chiesero che l’acqua fosse bene pubblico. È in questa direzione che intende andare il governo? Neanche per sogno. Quindi non è difficile intuire che per il nostro presidente del consiglio la partecipazione attiva e diretta dei cittadini sia solo un fastidioso ingombro ed è allarmante constatare che lo stesso pensiero sprezzante animi il nostro ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
C’è seriamente da chiedersi: ma noi italiani, per oltre un settennato abbiamo avuto un Presidente della Repubblica super partes o un ottimizzatore di governi con legittimità a scartamento ridotto?
il manifesto 16.4.16
Sì, si vota. E qualcuno ha paura del quorum
Referendum. La chiusura di una campagna ostacolata con ogni mezzo e tanta slealtà dal governo e dalla lobby dei petrolieri. Lo sforzo di centinaia di organizzazioni e migliaia di volontari. Ambientalisti e pescatori, sostenitori delle energie alternative e agricoltori... Tutti in piazza perché le piattaforme vengano rimosse al termine delle concessioni. In gioco c’è il futuro dell’Italia
di Serena Giannico

ROMA «Matteo Renzi ha detto che “è più efficace non andare a votare”. Ma se i cittadini rimangono a casa, questo fa bene al Paese? Anche l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano è sceso in campo per l’astensione. Evidentemente hanno paura del quorum…».
Il messaggio parte da Piazza del Popolo, dove il comitato nazionale «Vota sì per fermare le trivelle» chiude la campagna referendaria, limitata al minimo di legge (59 giorni) e che è costata 360 milioni, che si sarebbero potuti risparmiare accorpando – ma il governo non l’ha voluto – la consultazione popolare alle amministrative di giugno. «Abbiamo avuto pochissimo tempo per informare sulle ragioni del voto, ma subito dopo Pasqua è partita la mobilitazione spontanea in tutta Italia. Sono centinaia le organizzazioni e i gruppi sorti e migliaia i volontari che si sono attivati – dice Maria Maranò del comitato -. La posta in gioco è alta, dato che in ballo c’è il futuro dell’Italia e dei nostri figli. È stata una campagna ostacolata in modo poco leale, perché non sono stati accettati l’accorpamento alle amministrative e il confronto pubblico».
Senza contare l’ostruzionismo sistematico del premier. Nonostante ciò «abbiamo avuto già due vittorie – viene sottolineato -: con lo Sblocca Italia sono state cancellate le norme che permettevano di estrarre idrocarburi sulle nostre coste indistintamente. Poi c’è stata una grande opera di sensibilizzazione, perché devono essere i cittadini a poter decidere, non le lobby. Manca la terza vittoria: cancellare, alle urne, il regalo fatto alle compagnie petrolifere. Ossia piattaforme a tempo indeterminato, lasciate ad arrugginire, senza pagare il costo dello smantellamento».
Dalla piazza un mare… di voci. «Ci auguriamo tanti sì perché la pesca è sul banco dei danneggiati – afferma Raffaella de Rosa, Alleanza Coop Italiane Pesca -. Le trivelle sottraggono spazio alla marineria, danneggiano i fondali, le onde d’urto allontanano gli stock e impediscono la riproduzione. Sono nocive per le risorse ittiche e per la pesca che conta 100 mila occupati e 300 milioni di fatturato all’anno. La pesca viene sottoposta a rigido controllo, mentre alle piattaforme petrolifere non è chiesta neanche la Vas, la Valutazione ambientale strategica (preventiva) e questo non è accettabile». «Mare e turismo sono il vero patrimonio dell’Italia – evidenzia Tullio Galli, di Assoturismo -. Immaginate se ci fosse una fuoruscita di petrolio dagli impianti offshore. Solo in Emila Romagna ci sono 15mila imprese che operano nel turismo e 50mila addetti».
Il referendum è stato voluto da 10 Consigli regionali: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania, Molise e Abruzzo. Quest’ultima, nel mezzo dello scontro giudiziario e politico, ha battuto in ritirata. Un’iniziativa richiesta in buona parte da governatori del Pd che, in sostanza, si oppongono alla strategia energetica del capo del governo e loro segretario di partito. I cittadini dovranno decidere se i permessi per estrarre idrocarburi in mare, entro 12 miglia nautiche (22,224 chilometri), debbano durare fino all’esaurimento del giacimento, come avviene attualmente, grazie a una modifica ad hoc apportata dallo Sblocca Italia, oppure fino al termine della concessione.
Se il referendum dovesse passare le piattaforme piazzate attualmente a meno di 12 miglia dal litorale verranno smantellate una volta scaduta la concessione, senza poter sfruttare completamente il gas o il petrolio sotto i fondali. Non cambierà invece nulla per le perforazioni su terra e in mare oltre le 12 miglia, che proseguiranno, né ci saranno variazioni per le nuove perforazioni entro le 12 miglia, già vietate dalla legge.
«Siamo produttori di energia – dice in piazza il presidente di Assorinnovabili, Agostino Re Rebaudengo – ci occupiamo di idroelettrico, fotovoltaico e biomasse. E non approviamo l’automatica estensione illimitata delle concessioni per le aziende petrolifere». «Tutti i Paesi del mondo hanno affermato a Parigi la grande emergenza dettata dai cambiamenti climatici e l’importanza di tenere le temperature sotto il grado e mezzo – dichiara Andrea Masullo di GreenAccord -. Entro il 2030 dobbiamo provvedere a una riduzione del 40% delle emissioni. Il punto è che l’Italia non ha un piano energetico: che ne sarà, ad esempio, dei lavoratori dell’Eni? La vera scelta è tra passato e futuro. Siamo al 18mo posto in Europa per modernità e innovazione delle reti elettriche, retaggio del passato basato su fonti fossili e ostacolo per le rinnovabili».
Tra le forze produttive anche la Confederazione italiana agricoltori. «Abbiamo aderito al sì anche perché va nella direzione di quello che dice l’Unione Europea – sostiene Alessandro Mastrocinque -. Da sempre noi siamo per le rinnovabili anche perché le tecniche di estrazione inquinano le produzioni che arrivano sulle nostre tavole». Claudio Albonetti, presidente di Assoturismo Confesercenti ricorda che il «vero petrolio sta nei giacimenti culturali, artistici e ambientali dei nostri territori». E così, col flash mob del dio Nettuno che, nel cuore di Roma, scaglia le trivelle fuori dalle acque optando per i pannelli solari, inizia il countdown.
Repubblica 16.4.16
“Risiera di San Sabba”, su RaiStoria il gioiello ritrovato
di Antonio Dipollina

ERA il 1995 ed era il 50° della Liberazione, alla Risiera di San Sabba andò in scena una serata irripetibile di lettura teatrale e altro, c’erano Giorgio Strehler, Omero Antonutti, Paolo Rossi, Bebo Storti, c’era soprattutto Mira Sardoc – magnifica nell’impegno – e c’era Renato Sarti che recitò e realizzò anche il documento video di quella specialissima occasione. All’improvviso, e decidendolo anche all’ultimo minuto, si è scoperto che la Rai non lo aveva mai mandato e alla fine, peraltro in tarda serata, giovedì Risiera di San Sabba 1945 – 1995, la memoria dell’offesa è andato in onda, su RaiStoria. Ventun anni dopo. Cose imperscrutabili – il lavoro, almeno al momento, risulta disponibile sul sito Rai-Storia. Le logiche di ritardi e chissà che altro non devono però oscurare la potenza del lavoro, basato sulla lettura di testi ufficiali d’epoca e di divoranti testimonianze di gente comune, vittime dell’unico campo di sterminio in terra italiana.
Repubblica 16.4.16
Quando il Re Sole governava con le regole dell’etichetta
di Benedetta Craveri

Nell’autunno del Medioevo furono il cerimoniale papale della Chiesa di Roma e quello messo a punto nella loro splendida corte dai duchi di Borgogna a servire da modello alle due grandi monarchie che nel corso dei secoli successivi si sarebbero contese il primato sullo scacchiere politico europeo. Mentre gli Asburgo si servirono dell’etichetta per potenziare un’immagine liturgica della regalità che non consentiva ai profani di oltrepassare la soglia degli appartamenti privati del monarca, i Valois si spinsero oltre. Francesco I volle infatti fare di ogni momento della sua giornata, dal risveglio al ritiro serale, lo spettacolo stesso della sovranità. Rinunciando ad avere una esistenza privata per vivere sotto gli occhi dei suoi cortigiani, il re francese chiedeva loro un uguale sacrificio, legandoli a sé con i lacci insolubili di un’etichetta che rendeva immediatamente visibili le gerarchie e le preminenze di cui egli si voleva l’arbitro. Ma doveva trascorrere ancora un secolo perché Luigi XIV facesse di questa messa in scena fastosa la carta da visita dell’assolutismo regio e, a cominciare dai classici saggi di Norbert Elias, sono infatti innumerevoli gli studiosi che hanno passato al vaglio la politica teatrale di Re Sole. Ma se vogliamo avere un caleidoscopio di immagini parlanti di uno spettacolo rimasto unico negli annali della storia dell’Europa moderna affidiamoci a quelle che Daria Galateria ha scelto ora per noi ne L’etichetta alla corte di Versailles. Forte di una agguerrita conoscenza dei memorialisti seicenteschi, la nostra francesista dà loro la parola dopo averceli presentati nelle pagine iniziali del libro, ma è l’eloquenza visionaria del più grande di tutti, il “piccolo duca” di Saint-Simon, a fare qui la parte del leone.
Mosso dall’ossessione di difendere i privilegi di un titolo di fresca data, Saint Simon ha infatti istruito contro Luigi XIV e la sua corte un processo di migliaia e migliaia di pagine dove è il rispetto dell’etichetta a costituire il principale metro di giudizio. Ed è attingendo a questo archivio della memoria che Daria Galateria ha messo a punto, con sorridente perizia, un “Dizionario dei privilegi” composto da 160 brevi voci che ci introducono nel bel mezzo dello spettacolo barocco di Versailles. La prima impressione davanti a rituali, prerogative, funzioni di cui non afferriamo più il senso è di spaesamento, ma man mano che ci addentriamo in questa casistica dalla terminologia per noi così esoterica, ci rendiamo conto che anche le mansioni più ridicole che essa contempla rispondono tutte a una stessa esigenza: mostrare la maggiore o minore distanza di chi le esercita dalla persona fisica del sovrano e dei suoi stretti congiunti. E chi ha visto il film su Maria Antonietta di Sofia Coppola non avrà dimenticato la scena in cui la giovane regina, già svestita e intirizzita dal freddo, aspetta pazientemente che si decida a quale delle dame presenti competa l’onore di passarle la camicia da notte. Al momento di andare a letto, ci dice infatti Daria Galateria, alla voce “Camicia” questa «doveva essere porta al re, alla regina o ai figli di Francia dalla persona più altolocata presente, a meno che non fosse di rango uguale o superiore». Come dunque stupirci che proprio una principessa della casa d’Asburgo come Maria Antonietta, che aveva conosciuto bambina l’intimità di una vita familiare al riparo dagli sguardi della corte, abbia deciso di sottrarsi all’etichetta di Versailles? Ma, così facendo, l’Autrichienne dimenticava che nel paese in cui cingeva ora la corona, era proprio questo rituale a garantire a ciascuno il rispetto che gli era dovuto. Come ricorda Daria Galateria, Luigi XIV aveva ammonito i suoi discendenti sull’importanza politica delle apparenze: «Si sbaglia di grosso chi pensa che si tratti di semplici questioni cerimoniali. I popoli su cui regniamo, non potendo penetrare il fondo delle cose, regolano il pensiero normalmente su quello che vedono sull’esterno, e per lo più misurano sulle precedenze e i ranghi il loro rispetto e l’obbedienza».
L’etichetta di Versailles altro non era per lui che arte di governo.
IL LIBRO L’etichetta alla corte di Versailles di Daria Galateria ( Sellerio pagg. 344 euro 14)
Repubblica 16.4.16
Dall’invidia di Faulkner alla palla da baseball che fulminò Murakami
L’attimo esatto in cui si diventa scrittori
di Nicola Lagioia

Haruki Murakami scoprì di voler fare lo scrittore in un radioso pomeriggio di aprile del 1978, guardando una partita di baseball al Jingu Stadium di Tokyo. Prima di allora non aveva mai scritto un rigo. Lo racconta lui stesso nell’introduzione a “Wind/Pinball”, la riedizione dei suoi romanzi giovanili pubblicati in inglese per la prima volta da Knopf l’estate scorsa. Il futuro autore di “Norwegian Wood” aveva compiuto il suo percorso di formazione in modo non canonico: sposandosi prima di cominciare a lavorare, e laureandosi (“in qualche modo”) dopo essersi inventato un mestiere. Con il coraggio della giovinezza, Murakami e sua moglie avevano aperto nella periferia di Tokyo il jazz club dei loro sogni, un posto dove fosse possibile
ascoltare musica e incontrare gente interessante. In pratica si trattò di sfacchinare come schiavi, avendo per compagni di viaggio (insieme al be-bop) l’incubo dei debiti che non finivano mai. A un certo punto il locale ingranò («eravamo convinti che la felicità portasse fortuna»). Fu in quel periodo che Murakami assistette alla partita di baseball dove avrebbe incontrato il suo destino. Yakult Swallows contro Hiroshima Carp. Lui era un tifoso degli Swallows, e quando un battitore della squadra del cuore colpì con tanta forza la pallina che il crak della mazza risuonò tra gli spalti, Murakami ebbe l’illuminazione. «Mi sembrò che qualcosa arrivasse svolazzando giù dal cielo e io l’accogliessi delicatamente tra le mani. In quel momento, non so perché, pensai: credo che potrei scrivere un romanzo ».
Un’epifania bella e buona. Ma come si decide di diventare scrittori, ammesso che una decisione del genere possa essere presa?
Non credo che la letteratura segua i percorsi delle religioni rivelate, e sarei pronto a scommettere che qualcosa in Murakami avesse già deciso di voltare pagina e aspettasse l’occasione giusta per informare l’interessato.
Un episodio simile accadde al García Márquez degli esordi. Poco più che ventenne, Gabo non riusciva a trovare la sua cifra. Scriveva improbabili racconti kafkiani che a lui per primo suonavano fasulli. Poi successero due cose: García Márquez lesse William Faulkner e sua madre lo portò ad Aracataca, il paesino in cui Gabriel era nato e che sarebbe diventato la Macondo della trasfigurazione letteraria. La situazione si sbloccò: «fu come se quello che vedevo fosse già stato scritto, dovevo sedermi e copiare ciò che era lì. Solo una tecnica come quella di Faulkner mi avrebbe consentito di farlo: l’atmosfera, la decadenza, il calore del piccolo villaggio erano simili a ciò che avevo provato leggendo i suoi libri».
Ecco che vediamo in modo un po’ più chiaro il funzionamento di certi processi creativi: scopri la voce di un maestro che ti aiuta a riconoscere la tua, ma a patto di trapiantare ogni cosa in un mondo che appartiene a te e non a lui.
Anche gli incontri con i maestri in carne e ossa possono servire. William Faulkner iniziò a scrivere guardando vivere Sherwood Anderson, all’epoca già autore affermato. I due erano compagni di bevute e Faulkner osservandolo pensò: «bel mestiere scrivere: la mattina lavori, il pomeriggio correggi un po’ e la sera sei libero di ubriacarti con chi vuoi». Così Faulkner comunicò all’amico che anche lui avrebbe scritto un libro. Da quel momento Sherwood Anderson sparì dalla circolazione. Un mese dopo sua moglie bussò alla porta dei Faulkner: «mio marito non ne può più di starsene tappato in casa per paura di incontrarti. Vuole fare un patto con te: se non sarà costretto a leggere il tuo manoscritto, dirà al suo editore di pubblicarlo ». Questo aneddoto, che Faulkner condiva con infinite varianti, nasconde un motore ben più oscuro della creazione letteraria: la competizione, la necessità di un maestro da mangiare in salsa piccante. Non è forse un caso che dopo aver cominciato a pubblicare, Faulkner scrisse una raccolta di satire intitolata Sherwood Anderson and Other Famous Creoles che costò la rottura dell’amicizia.
Non del tutto diverso dovette essere il sentimento di Tomasi di Lampedusa quando accompagnò il cugino Lucio Piccolo (poeta appena scoperto da Montale) al convegno di San Pellegrino, dove il gotha della letteratura italiana si riunì tra nel luglio del 1954. «Fummo giudicati due mezzi contadini venuti da chissà dove», dirà Piccolo. E Tomasi di Lampedusa, includendo nel discorso il pur amato cugino: «mi sentii pungere nel vivo, avevo la certezza di non essere più fesso di loro... così sono tornato e mi sono messo a scrivere un romanzo ».
Per Mary Shelley la situazione si sbloccò sul lago di Ginevra, dove nel 1816 arrivò con P.B. Shelley (non ancora suo marito) alla corte di Lord Byron (amante della sorellastra di lei) e del suo medico personale John Polidori. Per ingannare l’estate piovosa, Byron propose agli amici di scrivere una storia di fantasmi. In pochi giorni Mary diede alla luce Frankenstein.
Anche qui il gioco di società è il pretesto per una partita più complessa. È probabile che attraverso i personaggi del romanzo, Mary Shelley avesse esorcizzato i legami (pericolosamente ambigui) che univano i componenti di quel circolo, i quali – salvo le due ragazze – sarebbero morti l’uno dopo l’altro nel giro di pochi anni.
Letteratura e vampirismo. Cosa dire di Emily e Charlotte Brontë, dee della brughiera, che amarono il fratello scapestrato Branwell, costruendo sull’ombroso fallimento di lui i protagonisti maschili dei loro magnifici romanzi?
Con tutti questi aneddoti sto solo cercando di spiegare come spesso si cominci a diventare scrittori prima di averlo deciso. Il talento letterario, al suo nascere, è spietato come certe piantine che farebbero di tutto per trovare luce. E poiché l’inconsapevole scrittore in erba è impegnato di solito a fare altro, è necessario che la vocazione gli si manifesti in modo narrativamente comprensibile. L’amore per un fratello sfortunato. L’invidia del successo altrui. Un marito ingombrante. Il pomeriggio di primavera in cui una mazza da baseball colpì fragorosamente la pallina e noi vedemmo sfrecciare la nostra giovinezza verso la direzione giusta.
Corriere 16.4.16
Gli avi di Leonardo e il doppio volto della «Gioconda»

Leonardo fa sempre notizia, a volte anche più di una in poche ore. Così Alessandro Vezzosi, direttore del Museo ideale «Leonardo da Vinci» (a Vinci), giovedì ha dichiarato di aver ricostruito assieme alla storica Agnese Sabato (dopo oltre 43 anni di ricerche) l’albero genealogico della famiglia dell’artista, partendo da Ser Piero, padre di Leonardo, e svelando che tra i discendenti ci sarebbe anche il regista Franco Zeffirelli. Quasi in contemporanea il ricercatore Silvano Vinceti, già responsabile della scoperta a Porto Ercole dei presunti resti di Caravaggio, dava l’annuncio (anticipato dall’agenzia LaPresse) che il viso della celebre Gioconda , sempre di Leonardo, sarebbe il risultato dell’incrocio di due volti, quelli di un uomo e di una donna. Il «lato femminile», secondo Vinceti, potrebbe essere Lisa Gherardini, detta anche Lisa del Giocondo o Monna Lisa (e dunque non a caso la conferenza stampa di presentazione dei risultati di queste ricerche è prevista per il 20 aprile nella chiesa di Sant’Orsola a Firenze, dove sono stati trovati i suoi resti). Il «lato maschile» sarebbe invece quello dell’allievo prediletto di Leonardo, Gian Giacomo Caprotti, detto il Salaì, spesso usato dal maestro come modello, anche per i ritratti femminili, per i suoi tratti androgini. «Dopo una lunga ricerca e grazie a photoshop — ha detto Vinceti — siamo finalmente riusciti a mettere insieme prove scientifiche e documenti storici».
Corriere 16.4.16
Anche Shakespeare andava al cinema: l’anniversario arriva in tv
di Paolo Conti

«Un tempo la Rai proponeva sempre pièce teatrali. Poi siamo arrivati noi e la Rai è forse andata troppo dietro alla tv commerciale. Ai tempi della presidenza di Enzo Siciliano, un raffinato scrittore, avevamo progettato con la Rai un “patto della grandezza” per rilanciare insieme la cultura in tv. Oggi proponiamo su Iris questo appuntamento con Shakespeare e se si riesce ad attrarre un volume di pubblico di 500-600 mila spettatori, è una cosa positiva…». Il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, si è appena esibito (un po’ di Gershwin e altro) al pianoforte a coda della splendida residenza romana dell’ambasciatore britannico in Italia, Christopher Prentice, a villa Wolkonski.
Introdotto da Prentice, Confalonieri presenta (con Marco Paolini, direttore generale palinsesto Mediaset, e Marco Costa, direttore Iris e canali tematici free Mediaset) la rassegna Il resto è silenzio: William Shakespeare , che andrà in onda su Iris, canale tema- tico Mediaset (canale 22 del digitale terrestre e canale 11 di TivùSat) dal 18 al 23 aprile per il quattrocentesimo anniversario della morte del grande drammaturgo (avvenuta appunto il 23 aprile 1616). Una serie di famosi film (da Shakespare in Love di John Madden al Romeo + Giulietta di Baz Lhurmann con Leonardo DiCaprio e al Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli, approdando al Riccardo III scritto, diretto e interpretato da Al Pacino, ad Hamlet di Tony Richardson con Anthony Hopkins, a Othello di Oliver Parker con Laurence Fishburne, a La bisbetica domata di Franco Zeffirelli e ad altri appuntamenti, tra cui l’ Otello di Verdi, sempre per la regia di Zeffirelli, con Placido Domingo e Katia Ricciarelli.
Non mancherà la contemporaneità, con West Side Story di Jerome Robbins e Robert Wise, e Il pianeta proibito , di Fred McLeod Wilcox, rispettivamente rivisitazioni di Romeo e Giulietta e de La tempesta . Si tratterà di serate tematiche: due film e poi la serie di documentari Shakespeare Undercovered , realizzati dalla Bbc e dedicati all’analisi dell’opera del Bardo.
Soddisfatto Fedele Confalonieri, che elogia gli spazi offerti dal digitale: «Con lo sviluppo tecnologico si può fare anche questa opera divulgativa straordinaria, si gettano dei semi e si diventa migliori con i cittadini. Mediaset spera di portare un tributo al grande poeta e un sassolino per compiere un’opera culturalmente pregevole».

Corriere 16.4.16
I camaleonti del Cielo
Coltissimi, educati all’obbedienza, avversati dagli altri cattolici, volevano convertire il mondo trasformando se stessi e il messaggio di Cristo: «La vocazione» di Adriano Prosperi (Einaudi) racconta i Gesuiti tra XVI e XVII secolo
di Pietro Citati

Sotto il titolo La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento (Einaudi), Adriano Prosperi pubblica un ricco e intelligente studio sulla Compagnia di Gesù tra la fine del XVI e la prima parte del XVII secolo. Siamo nel cuore del Rinascimento. Fondata da Sant’Ignazio, la Compagnia di Gesù suscitava straordinari entusiasmi e avversioni. Per gli uni, essa era prossima a Dio e al cielo come nessun ordine religioso; per gli altri, era una iniqua contraffazione, che imitava le parole dei Vangeli soltanto per volgerle al male.
I gesuiti entravano nella Compagnia molto giovani: a 14 o 15 anni, prima di conoscere il mondo e quelli che avrebbero giudicato i suoi inganni. La maggior parte di essi avevano studiato nei Collegi gesuitici, che erano numerosissimi: nel 1750 settecentocinquanta nel mondo, cinquecento in Europa. Questi Collegi avevano una grande fama: tutta l’Europa esaltava la loro cultura e qualità intellettuale. L’insegnamento era vario e ricco: a metà del Cinquecento, al Collegio Romano si insegnavano «lettere umane», tre lingue, filosofia, matematica, teologia, mentre si svolgevano eccellenti rappresentazioni teatrali; il latino era quello classico, Cicerone e Virgilio, non, come negli altri Ordini, il latino medioevale. Le autorità della Compagnia prestavano la massima attenzione all’insegnamento dei Collegi. Sant’Ignazio aveva scritto a Filippo II di Spagna che dalla formazione dei giovani gesuiti dipendeva il benessere del mondo intero: padre Pedro de Ribadeneira aveva aggiunto che «la sorte della religione e del mondo dipendeva dalla difesa della mente dei giovani, ancora molli, ed aperte al pervertimento da parte del Nemico».
L’iniziazione che permetteva di entrare nella Compagnia di Gesù era vasta, lunga e complessa, sebbene, in casi straordinari, come quello di Antonio Possevino, potesse diventare rapidissima. Il neofita sceglieva un direttore spirituale: ogni giorno faceva l’esame di coscienza: alla fine di ogni settimana consegnava al direttore l’elenco dei peccati commessi: si confessava e comunicava molto spesso, quasi sempre due volte la settimana; nulla era importante, per i gesuiti, quanto la ripetizione e la perseveranza nel bene. Il peccato stava lì, in agguato, dietro ogni angolo, e bisognava essere più veloci e sottili di lui per sconfiggerlo. Il gesuita doveva essere versatile: dotato di molte attitudini; «memoria finissima», conoscenza perfetta della Bibbia, possesso di molte lingue. La qualità suprema era l’obbedienza ai superiori e al Papa. Sant’Ignazio aveva detto: «Per non sbagliare, dobbiamo sempre ritenere che quello che vediamo bianco sia nero, se lo dice la Chiesa gerarchica».
I gesuiti scrivevano molto. Tutto cominciava all’inizio, quando preparavano il racconto della propria vocazione. Questi racconti si sono conservati negli archivi della Compagnia di Gesù: oggi noi possediamo una straordinaria ricchezza di testimonianze, raccolte in modo sistematico alla fine del XVI secolo, e studiate da Giancarlo Roscioni ( Il desiderio delle Indie. Storie, sogni e fughe di giovani gesuiti italiani , Einaudi 2001). Con il soccorso dei direttori spirituali, i neofiti si addentravano nel mondo. Avevano un modello altissimo: come diceva Sant’Ignazio, imitavano e continuavano la missione degli apostoli. Il ritorno di Cristo era vicino: la sua promessa storica stava per compiersi; e i gesuiti, predicando i Vangeli a tutte le genti, affrettavano questo ritorno.
Non ignoravano di avere molti nemici. I più terribili erano quelli più prossimi: le famiglie. Le madri cercavano di dissuaderli dalla conversione alla Compagnia con «carnali lachrime»: poi, non contente delle lacrime, li tenevano chiusi in casa per settimane, «et hora con clamori, hora con blanditie, hora con bastonate, hora con dehortatione di parenti prossimi, pensavano rimoverli». Sebbene amassero il padre e la madre, i giovani gesuiti non temevano le famiglie. Avevano letto i Vangeli e la vita di san Francesco: sapevano che Cristo aveva consigliato ai suoi fedeli di abbandonare le famiglie; mentre san Francesco, trascinato davanti al vescovo di Assisi, «senza dire o aspettare parole, si tolse tutte le vesti e le gettò tra le braccia di suo padre, restando nudo davanti a tutti».
I giovani gesuiti sapevano che esisteva un diritto paterno: basata su questo diritto, si innalzava l’Autorità del sovrano, fondamento di ogni Stato. Ma essi sfidavano entrambi questi diritti, in nome della Compagnia di Gesù, che, per loro, stava al di sopra di ogni legge e autorità visibile. Non accettavano né padre né sovrano, giungendo a teorizzare il tirannicidio. In un durissimo atto di accusa, Antoine Arnauld sostenne che essi erano pericolosissimi, perché col loro insegnamento armavano le menti dei loro allievi, spingendoli a rompere il vincolo tra figli e padri, sudditi e sovrani. «Dicono — scrisse un nemico dei gesuiti — che dovunque sono i Giesuiti si turba lo Stato, si guastano i studi et università, et si altera la pace». Nel novembre 1622 Paolo Sarpi aggiunse: «L’educazione dei PP. Gesuiti sta in ispogliare l’alunno di ogni obbligazione verso il padre, verso la patria, verso il principe naturale, e voltare tutto l’amore, e ’l timore verso il padre spirituale. Dalle scuole de’ Gesuiti non è mai uscito un figlio obbediente al padre, affezionato alla patria, devoto al suo principe».
Mentre i giovani gesuiti lasciavano i Collegi, in pochi anni il mondo diventò sterminato: non era più ristretto ai Paesi del Mediterraneo, ma si allargava agli immensi Paesi che i navigatori portoghesi e spagnoli avevano appena scoperto. Come scriveva Antonio Possevino, «si aprono frequentissimi popoli alla fede di Christo, laonde la Compagnia ha ultimamente mandato molte decine di Padri e di giovani in quelle parti per cooperare alla volontà di Dio». Con una specie di ebbrezza, i gesuiti si inoltravano in questo mondo nuovo, non curando muri e difese .
Sotto la protezione dei direttori spirituali, essi si abbandonavano con animo tranquillo alla volontà di Dio: non più l’incertezza o l’insidiosa malinconia, ma serenità e coraggio. La libertà non era pericolosa, perché la deponevano nelle mani della Compagnia. Dovevano convertire gli infedeli, gli eretici, e gli stessi cattolici, così diffidenti verso di loro. Dovevano diventare flessibili e cedevoli: mascherarsi e persino mentire; quando andavano in Inghilterra o nella Francia delle guerre di religione, ma anche quando assumevano le funzioni di tutori privati dei figli dei potenti. Questo, soprattutto, era il loro luogo, in alto; perché di lì, sebbene mascherati, potevano guidare il mondo.
Secondo Francesco Saverio, nel lontano Oriente il testimone occidentale scopriva non solo la conoscenza dei misteri fondamentali cristiani, ma un ambiente benevolo e accogliente, aperto a coloro che volevano portare l’annuncio di Cristo. Guillaume Postel aveva scritto: «Tutta l’isola di Giapangui (il Giappone, ndr ) diventerà facilmente cristiana, perché di cristiano non le manca che il nome». Se volevano conquistare la Cina, i gesuiti compresero che, in primo luogo, dovevano mutare sé stessi. L’immenso Paese d’acque, che li aveva accolti, era disposto ad accettare le cose più estranee, purché assumessero forme cinesi. Così essi si trasformarono: con una capacità camaleontica, con quella straordinaria mobilità che il loro Ordine aveva sempre dimostrato. Nati a Dôle o a Issoudun o ad Avignone, nella più tenace provincia francese, assunsero nomi cinesi: indossavano le fogge dei mandarini, le vesti di seta blu, l’abito nero o viola, il cappello a cono, l’ombrello azzurro, il ventaglio: mangiarono cibi cinesi, ebbero funerali cinesi; uccisero in sé stessi le tracce dell’Occidente, acquistando la prudenza, la calma, la gravità, la moderazione, la lentezza maestosa e passiva che ammiravano nei loro allievi.
Per convertire e conquistare, i Gesuiti erano disposti a tutto. Persino a trasformare completamente il messaggio di Cristo. Quando i missionari predicavano lo scandalo della Croce, i Cinesi insorsero: un Dio che soffre, un Dio che muore sulla Croce, era un annuncio inconcepibile, degno dei «barbari dell’Occidente». Così Matteo Ricci rinunciò al cuore del messaggio cristiano: la caduta dell’uomo, l’incarnazione, la passione e la redenzione da parte di Cristo. Il suo era un annuncio più stoico che cristiano: i mandarini potevano accoglierlo, e convertirsi. Forse non si accorse di quanto fosse terribile la sua rinuncia ai Vangeli .
Corriere 16.4.16
Violenza familiare crescono i casi in Argentina
a cura di Carlo Baroni

Aumentano i casi di violenza familiare in Argentina. Lo segnala un editoriale de La Naciòn , diretta da Bartolomé Mitre III . Nella sola provincia di Buenos Aires ci sono state circa 600 denunce, il 20 per cento in più rispetto a un anno fa. E a livello nazionale si registra un femminicidio ogni 31 ore. Al punto da indurre le autorità dello Stato a interventi radicali per mettere freno all’emergenza, prima di procedere a iniziative per prevenire i reati. Per questo sono stati creati luoghi dove le vittime possono rivolgersi per trovare soccorso e avere ospitalità. Oltre che fondi per sostenerle.
Repubblica 16.4.16
Nella tendopoli dei fan di Dilma “No all’impeachment, è un golpe”
Il Tribunale supremo respinge il ricorso del governo, adesso l’opposizione si dice certa di ottenere domani lo stato d’accusa per la presidente. Le due piazze si fronteggiano e per il paese inizia il giorno più lungo
di Omero Ciai

In parlamento i nemici della Rousseff dovrebbero superare il quorum necessario: ma lei promette di dare battaglia A sostituirla è pronto il suo vice Temer, ma l’incubo è che a causa degli scandali si entri in una crisi politica senza fine

BRASILIA. Questo giorno, con l’inizio della sessione del Parlamento brasiliano sull’impeachment di Dilma Rousseff, doveva arrivare. Ma nessuno s’immaginava che fosse così carico di presagi ostili al futuro politico della presidente. L’ultimo colpo è stato, l’altra notte, la decisione del Tribunale Supremo. Con una maggioranza quasi bulgara, otto a due, i magistrati della più alta istanza legale del Brasile, convocati d’urgenza e in diretta tv, hanno bocciato il ricorso che pretendeva di sospendere il voto dei deputati sulla richiesta di destituzione. Un gesto disperato, quello dell’avvocato del governo José Eduardo Cardozo, che ha avuto l’effetto di un boomerang. Abbandonata dal Supremo, Dilma ha soltanto visto crescere i suoi nemici, e già ieri mattina sembrava evidente che i deputati all’opposizione, con il nastro verdeoro della bandiera nazionale attorno al collo, avevano raggiunto e superato il quorum necessario all’avvio dell’impeachment che la Camera voterà domani. L’ex presidente Lula, sceso in campo al fianco dalla sua erede con tutto il carisma che gli resta, è da giorni blindato in un hotel di Brasilia, il Royal Tulip, a poche centinaia di metri dalla residenza presidenziale, il palazzo dell’Alvorada sul lago Paranoà, e riceve politici fedeli e politici indecisi ma non è riuscito a invertire il trend negativo di un governo sempre più frantumato, né di un partito, il suo, sempre più isolato. Così, ieri mattina presto, scendendo dalle amache o uscendo dalle tende, nell’accampamento a lato dello stadio di calcio “Mané Garrincha”, anche le centinaia di fan di Dilma arrivati da tutto il Paese per sostenerla in questo scontro finale, temevano la disfatta. Sugli striscioni, le parole d’ordine sono «L’impeachment è un golpe» e «Difendiamo la democrazia», ma l’aria del campo è mesta come se il voto notturno del Tribunale Supremo avesse pronunciato già l’ultima sentenza.
Dilma resiste e resisterà. Ieri sera, quando in Italia era già notte, ha pronunciato un ultimo discorso al Paese a reti unificate. L’obiettivo è quello di rendere la vita più difficile possibile a chi le succederà nei sei mesi in cui, per legge, il Congresso esaminerà i suoi presunti delitti prima della destituzione definitiva o del suo ritorno. Dopo il voto domani della Camera, bisognerà attendere anche quello del Senato, previsto ora intorno al 10 maggio, per l’effettiva sospensione di Dilma e l’assunzione di Michel Temer, il suo vice che ormai appartiene a un partito, il Pmdb (Movimento democratico brasiliano), che le ha voltato le spalle. Ma il vero rischio è che il Brasile entri in una spirale politica simile a quella dell’Argentina post-default 2001 con una girandola di presidenti in pochissimo tempo. Lo stesso Temer infatti rischia l’impeachment perché coinvolto nello stesso reato, il maquillage del bilancio statale (qui si chiama “pedalada”), per il quale potrebbe cadere Dilma. E, dopo di lui, lo rischia anche Eduardo Cunha, il presidente del Parlamento, terzo nella linea costituzionale di successione alla presidenza, indagato per numerosi conti correnti segreti in Svizzera e nei paradisi fiscali. Una prospettiva da incubo, che a Brasilia nessuno si sente di escludere. Anche perché Dilma in realtà non viene travolta soltanto dai suoi errori ma dal clima indemoniato di un Paese in tumulto per la recessione - sarà il meno 3,6% del Pil quest’anno secondo l’Fmi - e gli scandali di corruzione. Scandali che hanno colpito molti esponenti del partito di Dilma ma mai lei. E dai quali non sono affatto estranei importanti esponenti dell’opposizione.
Così l’idea che domani con il possibile avvio dell’impeachment a Dilma la crisi brasiliana si chiuda è solo un miraggio. In realtà inizia. Anche perché il governo che arriverà dovrà varare un piano economico che già s’annuncia d’emergenza, e contro il quale, gli sconfitti di oggi potrebbero avere facile gioco in una battaglia che si sposterà nelle piazze e sui luoghi di lavoro. Se l’opposizione vince alla Camera e poi al Senato, Dilma potrà continuare a risiedere nel palazzo dell’Alvorada, ma non potrà più andare a quello di Planalto, sede del governo, che sarà riservato a Temer. Nelle ultime settimane la sua vita quotidiana è già cambiata. Prima, era facile vederla, poco dopo l’alba, correre in bicicletta lungo il lago con casco e giacca a vento nera. Ora, al massimo, corre a piedi, circondata da guardie del corpo, senza mai uscire dai giardini del palazzo residenziale. Ha rinunciato anche ai viaggi. A marzo ha cancellato quello a Washington per il vertice sulla sicurezza nucleare. Poi quello previsto in Grecia per l’accensione della fiaccola olimpica e, infine quello a New York, il prossimo 22 aprile, per la firma dell’accordo mondiale sul cambiamento climatico. Se perde domani il suo stipendio di 8.800 dollari al mese verrà anche tagliato della metà, ma probabilmente sarà l’ultimo dei suoi problemi.
Corriere 16.4.16
Ascesa e declino di Dilma ex guerrigliera al capolinea
di Franco Venturini

Sopravvissuta da ragazza agli arresti e alle torture della dittatura militare, Dilma Rousseff rischia di soccombere domani al marchio d’infamia di un Parlamento democratico. Ora che la Corte suprema ha rigettato l’ultimo ricorso, la procedura di impeachment della presidente del Brasile parte con i favori del pronostico nel voto domenicale della Camera bassa. E sarà poi il Senato a sottoporre Dilma all’ultimo e decisivo giudizio. Questo se l’ex guerrigliera diventata capo di Stato terrà fede a se stessa e manterrà la sua promessa di lottare fino all’ultimo, respingendo la tentazione di scegliere le dimissioni.
Dilma Rousseff non è innocente. Le accuse secondo cui avrebbe «aggiustato» il bilancio dello Stato per favorire la sua rielezione nel 2014 non sono mai state provate ma hanno qualche verosimiglianza. Certa invece è la sua ostruzione alla giustizia il mese scorso, quando nominò ministro l’ex presidente Lula da Silva per sottrarlo alle indagini e a un possibile arresto. Oltretutto facendosi intercettare dalla polizia mentre spiegava al suo mentore l’utilità giudiziaria della mossa .
No, Dilma Rousseff non è innocente. Ma quanto innocenti sono i suoi giudici? Quanto credibile è una magistratura divisa e apertamente schierata nella battaglia politica? Quanto rispettabile è un Parlamento ad altissimo tasso di corruzione, e dove i presidenti di Camera e Senato, il cui ruolo è cruciale nelle votazioni, sono entrambi indagati? Quanto edificante è l’abbandono della nave da parte dei partiti centristi che con Dilma hanno governato a lungo, ma che in caso di impeachment potrebbero succederle nella persona del fresco ex vicepresidente Michel Temer?
La verità è che non c’è nessuno da salvare, nel dramma politico che sta vivendo il Brasile mentre si avvicina l’apertura, il 5 agosto, dei Giochi olimpici. L’intera classe politica ha perso la sua legittimità partecipando a inauditi scandali di corruzione. Il mondo del business che ora appoggia l’ascesa di Temer è stato spesso all’origine di questi scandali. Lo Stato di diritto somiglia, come è stato osservato, a quello della saga televisiva della House of Cards . E i vecchi problemi, la mancanza di sicurezza, i casi di corruzione nella polizia, il veleno che scende dalle favelas , sono ancora tutti attuali. Con l’aggiunta di quella zanzara Zika che sembra volersi accanire su chi è già allo stremo delle forze.
Come si è ridotto così il Brasile, l’ex gigante addormentato che pareva essersi svegliato, il protagonista tra i Brics, la patria dell’eterno ottimismo di chi proclamava che «Deus è brasileiro»? A voler essere schematici la spiegazione esiste, e benché la corruzione avesse rotto gli argini da ben prima la fase che è premessa di quanto accade oggi, comincia nel 2003 con l’elezione alla presidenza del leader della sinistra Lula da Silva.
Lula trova una congiuntura favorevole e la cavalca. Strappa alla povertà venticinque milioni di brasiliani, porta alle stelle la spesa sociale ma se lo può permettere. È un socialdemocratico filo occidentale. E quando lascia dopo il secondo mandato, nel 2010, la sua popolarità è all’ottanta per cento. Sceglie lui chi deve succedergli: Dilma, che naturalmente viene eletta. Ma ben presto il mondo cambia. Al posto della crescita c’è la recessione. Il prezzo del petrolio crolla. L’inflazione è alle stelle. Il consenso non c’è più. C’è invece lo tsunami di una corruzione che si era andata accumulando quando con Lula tutto andava bene, e che esplode ora che tutto va male. Una gigantesca rete di connivenze miliardarie avvolge il colosso energetico statale Petrobras. Da lì partono infine derivazioni, la pentola del demonio è ormai scoperchiata. E non basta silurare ministri (cosa che Dilma fa più di tutti) o annunciare cambi di rotta.
Semmai, nel disastro generale economico ed etico la speranza nel futuro viene tenuta in vita dal protagonista più giusto: il popolo, i brasiliani. Certo, alcune dimostrazioni oceaniche vogliono la destituzione di Dilma e altre la respingono. Ma la maggioranza non ne può più della politica e delle manette. Protesta contro tutti «loro». Vuole un cambiamento radicale senza etichette di parte. Populismo? Sì, ma il populismo può essere anche una speranza quando la provocazione ha superato ogni limite. La classe media e i giovani occuperanno sempre di più la prima linea della riscossa. Che dovrà passare, superando gli ostacoli istituzionali, dall’anticipo delle elezioni politiche generali previste per il 2018.
Negli anni Sessanta il Brasile ebbe un presidente, Janio Quadros, rimasto celebre perché il suo simbolo era una scopa. Mezzo secolo dopo ci risiamo, e questa volta bisognerà usarla .
La Stampa 16.4.16
Dilma a un passo dall’impeachment
di Emiliano Guanella

Dilma Rousseff doveva parlare nella notte ai brasiliani, ma all’ultimo istante ha preferito annullare la trasmissione del video messaggio che aveva registrato in mattinata. Lo trasmetteranno, forse, solo oggi sui social media.
La presidente resta comunque determinata a convincere i brasiliani che contro di lei è in atto un golpe. E per scongiurare l’impeachment deve convincere i deputati.
Secondo gli ultimi calcoli l’opposizione avrebbe superato il quorum di 342 voti, due terzi del totale. La votazione inizia domani nel primo pomeriggio; uno a uno, i 513 deputati si alzeranno dalle loro sedie e andranno al centro dell’aula, con dieci secondi a testa per esprimere il loro Sì o No all’impeachment. Nel prato davanti all’imponente palazzo del Parlamento progettato da Oscar Niemeyer i movimenti pro governo hanno installato una grande tenda «in difesa della democrazia»; è un via vai di contadini «sem terra», sindacalisti, giovani dell’Unione degli studenti. Cinquemila tra poliziotti e vigili del fuoco vigilerà la spianata dei ministeri che è stata divisa da una doppia parete per separare le due opposte fazioni.
Il verdetto finale dovrebbe arrivare alle dieci di sera e sarà seguito in televisione da un intero Paese, quasi fosse una partita della «seleçao». Anche Lula ha lasciato un messaggio ai deputati, diffuso sui social media. «In questi anni abbiamo fatto grandi sforzi perché il Brasile conquisti credibilità davanti al mondo, Tutto può essere distrutto da un’avventura pericolosa di chi ha perso nelle urne e oggi opera nell’ombra. Vi avviso; nessuno riuscirà a governare un Paese da duecento milioni di abitanti senza il mandato del voto popolare». Dopo il voto della Camera c’è ancora quello del Senato, ma lì le opposizione sono in netta maggioranza. Se domani vincerà il Sì, in meno di un mese Dilma potrebbe essere costretta a lasciare la presidenza per affrontare il processo politico, lasciando al vice Michel Temer, oggi all’opposizione, il comando del Brasile.
La Stampa 16.4.16
Sanders, incontro privato con il Papa a Santa Marta
Il democratico invitato al convegno sulla Centesimus Annus in Vaticano
di Paolo Mastrolilli

«Dobbiamo rigettare le fondamenta di questa economia immorale e insostenibile». Bernie Sanders ha rubato un giorno alla campagna presidenziale per lanciare il suo messaggio contro la disuguaglianza economica a tutto il mondo, attraverso la conferenza della Pontificia Accademia per le Scienze Sociali per l’anniversario dell’enciclica Centesimus Annus. L’occasione per cementare la sua alleanza con Papa Francesco, con un incontro privato avvenuto poi in serata alla residenza di Santa Marta.
La conferenza ha riunito una specie di internazionale anti capitalista, che andava da Sanders ai presidenti boliviano Morales ed ecuadoregno Correa. L’ospite più atteso però era il senatore del Vermont. Citando brani dell’enciclica di Giovanni Paolo II, e dichiarazioni più recenti di Francesco, ha detto che «negli ultimi 25 anni la situazione è peggiorata, provocando la peggior crisi finanziaria dalla Grande Depressione». Secondo Sanders, «la globalizzazione non regolata ha creato le banche troppe grandi per fallire», mentre negli Usa la sentenza “Citizens United” della Corte Suprema ha aperto una «inondazione di soldi nella politica. Così abbiamo perso la nostra anima. Come dice il Papa, non comanda più l’uomo, ma i soldi. L’adulazione del vitello d’oro è stata sostituita da una ideologia che consegna il controllo assoluto al mercato. Il sistema finanziario comanda gli uomini, invece di servirli». Ora «la disuguaglianza è diventata l’emergenza del nostro tempo. Francesco l’ha definita la globalizzazione dell’indifferenza. La frode a Wall Street è la norma, senza vergogna. Molti dicono che dobbiamo accettare lo status quo, perché un’economia morale non è possibile, ma il Papa ci ha aperto gli occhi, e i giovani non accettano più questo sistema».
Fuori dalle mura vaticane, decine di fans sono venuti a salutarlo. E lui ha spiegato così la visita a Roma: «Abbiamo bisogno di una economia morale. L’1% della popolazione ha più ricchezza del restante 99%. È inaccettabile, immorale e insostenibile. Insieme dobbiamo cambiarlo. Sono rimasto enormemente impressionato dalla visione di Francesco per creare un’economia che funzioni per tutti. Ha detto che non possiamo permettere al mercato di fare il mercato, dobbiamo inserire principi morali».
Un campo molto simbolico sono i cambiamenti climatici: «L’avidità dell’industria dell’energia fossile sta distruggendo il pianeta. Gli scienziati sono unanimi sul fatto che il riscaldamento è vero e provocato dalle attività umane, e crea già problemi devastanti. Che piaccia o no all’industria dell’energia fossile, dobbiamo cambiare il sistema verso le fonti sostenibili. Francesco lo ripete spesso, sottolineando che abbiamo la ricchezza e la tecnologia per farlo, ma dobbiamo affrontare l’avidità di persone più preoccupate dei loro miliardi, che del futuro dei bambini e del pianeta».
In America dicono che Sanders ha scelto di venire a Roma per attirare l’elettorato cattolico, molto forte in stati dove si vota adesso, come New York, Pennsylvania e New Jersey. Lui ha risposto così: «Credo che il Papa stia giocando un ruolo storico incredibile per creare una nuova economia mondiale non dominata dall’avidità distruttiva, e la sua enciclica sui cambiamenti climatici ha avuto un grande impatto per cambiare le opinioni delle persone sull’urgenza del momento. Quando ho ricevuto l’invito a venire, è stato così commovente che non potevo rifiutare».
L’incontro pubblico con Francesco non c’è stato, perché avrebbe avuto il sapore di un appoggio esplicito e un’ingerenza nelle presidenziali americane, offendendo Hillary Clinton e gli altri candidati. Dopo la conferenza però Sanders è andato a Santa Marta, per un appuntamento privato che ha consolidato l’intesa sui temi di fondo condivisi.
La Stampa 16.4.16
Il Pil cinese a +6,7%, il minimo da 25 anni, ma ci sono spiragli di ripresa con l’export
Gli analisti: Pechino rischia una serie di crac delle banche
di Cecilia Attanasio Ghezzi

Il primo trimestre del 2016 la Cina è cresciuta del 6,7%. In lieve calo rispetto al 6,8 registrato nel 2015, si attesta nella forbice di crescita indicata dal governo. L’obiettivo dichiarato è di non scendere sotto il 6,5 prima del 2020. Sono in molti a tirare un sospiro di sollievo anche a seguito della recente impennata delle esportazioni (+6,8%) in controtendenza rispetto agli ultimi otto mesi. Rispetto allo stesso trimestre del 2015, crescono anche gli investimenti industriali, quelli in infrastrutture (+10,7%) e i consumi (+10,5%). In questo primo trimestre la Cina ha contribuito alla crescita globale quanto, se non di più, degli Stati Uniti. Ma la crescita del Pil è comunque la più bassa degli ultimi 25 anni. E se si considerano il movimento di merci, i consumi di elettricità e i prezzi all’ingrosso – fanno notare gli analisti più scettici – ci sono i segnali per parlare di una crescita molto più bassa di quella dichiarata. Si tratta di stime, perché nessuno sa esattamente come il Pil del Paese venga calcolato. Una cosa è certa: il modello economico cinese che ha portato la Cina a diventare la seconda economia mondiale non funziona più. Milioni di lavoratori dell’industria pesante e della manifattura stanno perdendo il lavoro e ancora non è chiaro come verranno ricollocati. Soprattutto bisognerà vedere se i nuovi settori dei servizi e del mercato interno riusciranno a fare da traino.
Pechino spera nella ripresa e cerca di evitare la politica di stimoli massicci che aveva sperimentato con ottimi risultati, anche se a breve termine, durante la crisi del 2008. Ma le banche a marzo, nonostante l’alto rischio di inesigibilità, hanno espanso la possibilità di credito a 180 miliardi di euro, quasi il doppio del mese precedente. Nessuno per il momento teme il fallimento dei singoli istituti perché sono spalleggiati direttamente dal governo, ma il rischio che l’intero sistema si inceppi è alto. Dall’inizio del 2009, i prestiti concessi da banche e governi locali sono più che triplicati arrivando alla cifra record di oltre 13 mila miliardi di euro. Si tratta del 144% del prodotto interno lordo della Repubblica popolare. E come ha sottolineato Goldman Sachs a gennaio, i Paesi che sono incappati in questa situazione si sono poi trovati ad affrontare o una crisi finanziaria o un prolungato rallentamento. Gli economisti si aspettano una serie di fallimenti nei mesi a venire.
Detto questo sono già un paio di anni che la Repubblica popolare si confronta con problemi strutturali che la mettono a dura prova. La popolazione in età da lavoro sta invecchiando, la disoccupazione aumenta ed è calata la mobilità sociale. Arrancano l’industria pesante e la produzione di beni a basso costo che l’ha resa famosa come fabbrica del mondo. Ma siamo di fronte alle difficoltà di un’economia in transizione. Altri segnali fanno ben sperare. Se terziario e consumi dovessero veramente decollare, il rallentamento dell’economia sarà dolce anziché brusco.
Repubblica 16.4.16
Michael Stuermer
“Un errore cedere alle pressioni Angela non doveva immischiarsi”
“Non avrebbe mai dovuto trattare come un affare di Stato un’orrenda poesia piena di insulti sciocchi”
intervista di Tonia Mastrobuoni

BERLINO. Ex consigliere di Kohl, influente storico e intellettuale cristianodemocratico, Michael Stuermer è incredulo dinanzi al “caso Böhmermann”.
Professore, cosa pensa del “caso Böhmermann”?
«Merkel ha fatto un errore madornale: è un pessimo esempio di satira di cui la cancelliera si sarebbe dovuta occupare il meno possibile».
Invece ha deciso di occuparsene in prima persona
«Esatto, è stato quello l’errore. E’ una vicenda di così basso livello. Avrebbe dovuto lasciare la faccenda in mano ad altri, guadagnare tempo, non abbassarsi assolutamente a commentare o decidere».
Invece ora sembra aver riesumato persino la debolissima Spd, che si è detta contraria.
«Adesso non esageriamo. Io sono convinto che questa cosa non interessi nessuno. Nel paese sono altri i temi che stanno facendo preoccupare le persone. La crisi epocale dei profughi, l’integrazione di quelli già arrivati qui, le guerre alle porte dell’Europa. Figuriamoci se ci si può occupare di un’orrenda poesiola piena di insulti sciocchi».
Erdogan non sembra ritenerla così stupida. E Merkel sembra aver ceduto alle sue pressioni.
«Sono d’accordo. Ma la cancelliera è debole perché si rende debole. Erdogan non le sta affatto facendo un favore. Otterrà la liberalizzazione dei visti, ha incassato sei miliardi di euro, la prospettiva di entrare nella Ue. Non bisogna dimenticarsene».
Ieri Merkel ha ributtato la palla in campo giudiziario, dopo essersi voluta occupare del caso in prima persona. Perché?
«Una decisione incomprensibile. La sua proverbiale abilità tattica è andata a farsi benedire. Spostare ora la vicenda su un piano giudiziario, dopo averla trattata come un affare di Stato, è una mossa a dir poco goffa».
Corriere 16.4.16
Il comico tedesco «sottomesso» alla Turchia
di Pierluigi Battista

Bei tempi, quando si diceva che la Turchia, per entrare in Europa, avrebbe dovuto adeguarsi agli standard di libertà e al rispetto dei diritti di cui il nostro continente si faceva vanto. Bei tempi: ora è l’Europa che si deve adeguare agli standard autoritari e alla spirale repressiva della Turchia per non rompere con Ankara. Il governo Merkel si affretta a dare in pasto giudiziario al premier turco Erdogan, quello che teorizza apertamente l’inferiorità e la sottomissione della donna, la testa del comico Jan Boehmermann, che nella sua satira certamente poco sofisticata ha satireggiato sulla figura del padrone della Turchia. Tra la libertà d’espressione e la diplomazia con Erdogan, il governo tedesco ha decisamente optato per la seconda scelta e ha autorizzato un procedimento giudiziario del tutto inedito nella democrazia tedesca. Ha calpestato un valore molto caro come la libertà d’espressione rendendo paradossale la sua partecipazione al corteo di Parigi dopo la carneficina di Charlie Hebdo. «Je suis Charlie» è solo un ricordo. Oggi è il turno di «Sto con chi vorrebbe farla finita con Charlie». Un altro arretramento. Un altro passo indietro. Un’ulteriore prova che l’Europa non è più capace di tenere duro sui suoi valori e che la difesa dei diritti umani, dalla Turchia all’Iran all’Arabia Saudita, diventa piccola e timida quando sono in questione i flussi di scambi economici e la centralità degli equilibri geo-strategici. Forse però con la scelta del governo Merkel l’arretramento appare più traumatico, troppo zelante, troppo accondiscendente con chi occupa militarmente i giornali e mette in galera gli scrittori che osano discutere la linea del padrone-premier. Stavolta si poteva dire un secco no per non dover dire sì ancora più umilianti tra qualche mese o anno. Intanto: «Je suis Boehmermann».
Repubblica 16.4.16
Jn Germania governo diviso
Merkel si arrende a Erdogan “Quel comico va processato”
La ragion di Stato uccide la satira
di Michele Serra

CHE la ragion di Stato sembri fatta apposta per intorbidare le questioni di principio, mettendo a dura prova l’azione dei governanti, è cosa nota. Il caso Regeni lo ha appena ricordato agli italiani e al loro governo.
MA una mossa come quella della cancelliera Merkel, che ha elargito al suscettibile capo della Turchia, Erdogan, una sorta di “autorizzazione a procedere” (in Germania) contro il comico Jan Böhmermann, dunque contro un cittadino tedesco, è quasi incredibile per la sua totale indifendibilità di fronte alle opinioni pubbliche europee di ogni ordine e grado. Böhmermann andrà alla sbarra, presso un tribunale tedesco, perché Erdogan non ha gradito una poesia satirica contro di lui. La legge tedesca contempla il reato di “vilipendio di capo di Stato estero”, subordinando però l’iter processuale al nulla osta governativo. Quel nulla osta è stato concesso (non all’unanimità) dal governo tedesco, che si è dunque scomodato per dare udienza al malumore di uno degli autocrati più discussi del globo; e poi ha inteso – con correttezza tedesca – dare rilievo ufficiale alla decisione, con tanto di comunicato della cancelliera.
Oltre a essere reboante e arcaico (la parola “vilipendio”, mi scusino i giuristi, fa ridere già di suo) quel reato è vistosamente ipocrita, perché l’eventuale derisione del re di Tonga, con conseguente protesta formale dello stesso, difficilmente assumerebbe il peso di un affaire diplomatico; mentre l’ingombrante rapporto dell’Europa - e soprattutto della Germania - con la Turchia e con il suo leader musulmano ha caricato una trascurabile disputa legale di un significato simbolico micidiale. Questo: che la libertà di espressione è una bandiera da sventolare fino a che non faccia ombra alla suscettibilità di un alleato potente e agli interessi economici in ballo.
Merkel si è affrettata ad aggiungere che quel reato sarà abolito a breve. Ma intanto ha permesso a Erdogan di snudarlo, come una spada arrugginita, e brandirlo in Europa contro un europeo. A giovarsi di questa inammissibile e incomprensibile debolezza saranno, come è inevitabile che sia, i fautori dell’intransigenza belluina nei confronti dell’Islam e della sua inamovibile suscettibilità nei confronti della satira e della libera critica. Quando si dimentica di esercitare in forme civili la difesa delle nostre prerogative di liberalità, si offre spazio al nazionalismo becero e all’islamofobia da trivio. Nel vuoto lasciato dai ragionevoli, si insinueranno i faziosi: ma la colpa sarà anche dei ragionevoli e della loro abdicazione.
Quanto ai capi di Stato esteri: se Obama oppure Hollande oppure Cameron volessero impugnare la montagna di produzione satirica che li riguarda, i tribunali del mondo non avrebbero altro di cui occuparsi per anni. Qualcuno spieghi a Erdogan, anche se non capisce le battute, che se la Turchia ha ambizioni di grandezza non può avere per capo un tipo così piccino.