sabato 31 marzo 2012

La Stampa 31.3.12
Gli imprenditori dichiarano meno dei loro dipendenti
E un contribuente su due dice di guadagnare una cifra sotto i 15 mila euro
di Tonia Mastrobuoni


È urgente spostare il carico fiscale dai dipendenti e dalle imprese alle rendite e ai patrimoni Luca Montezemolo Presidente Ntv I dati resi noti oggi dal ministero delle Finanze sono l’eterna raffigurazione della vergogna dell’evasione fiscale Pier Luigi Bersani Segretario nazionale del Pd
Nel 2010 un contribuente italiano su due ha dichiarato al fisco meno di 15 mila euro. Si tratta di 20,2 milioni di persone, delle quali 14 milioni un terzo del totale si mettono in tasca ogni anno addirittura meno di 10 mila euro. Un altro 30 per cento dice di guadagnare tra 15 e 26 mila euro e il 20 per cento arriva a 100 mila. Soltanto lo 0,07 per cento degli italiani che arriva a compilare la dichiarazione dei redditi incassa più di 300 mila euro: si tratta di appena 30 mila persone Ma tra i dati forniti ieri dal ministero dell’Economia, non sono questi a far cascare la mascella, simili peraltro a quelli degli anni precedenti, ma quelli che riguardano le singole categorie di lavoratori.
Anzitutto, desta un lieve sospetto anche il livello medio di stipendio degli italiani: 19.250 euro. Ma se si va poi nel dettaglio delle tipologie di reddito, i paradossi diventano lampanti: i lavoratori dipendenti guadagnano più degli imprenditori. Mentre gli autonomi guadagnano in media 41.320 euro e sulla carta sono i più «ricchi», i dipendenti possono contare su neanche metà di quella cifra, 19.810 euro e dichiarano più dei loro «padroni», degli imprenditori, che si fermano a 18.170 euro. I pensionati hanno un assegno che annualmente totalizza 14.980 euro mentre il reddito medio da partecipazione è di 16.500 euro.
C’è di più. Quasi 11 milioni di italiani, il 10,7 per cento del totale dei contribuenti, dichiara zero, non paga un centesimo di Irpef. Si tratta di contribuenti a basso reddito che possono contare sulle soglie di esenzione o la cui imposta lorda si azzera con le numerose detrazioni del Fisco.
Quanto alla distribuzione territoriale, è la Lombardia la regione con reddito medio complessivo più elevato (22.710 euro), seguita dal Lazio (21.720 euro), mentre la Calabria ha il reddito medio più basso con 13.970 euro.
Un aspetto positivo è che la crisi non ha impedito a 915 mila italiani di fare donazioni alle onlus, alle organizzazioni senza scopo di lucro. Ed è altrettanto importante notare, come emerge da un dossier preparato dal ministero che c’è stato un «aumento del numero dei contribuenti (+18 mila circa) che ha sostenuto spese per addetti all’assistenza personale (badanti), con un incremento del 21,8% dell’ammontare totale di tali spese». Un altro dettaglio interessante è che gli sconti Irpef hanno consentito di dedurre o detrarre dalle tasse ben 50 miliardi di euro. Gli oneri deducibili quelli che vengono tagliati dall’imponibile complessivo sono stati pari a 22 miliardi di euro, mentre gli oneri detraibili quelli cancellabili una volta ottenuta l’imposta hanno pesato per 28 miliardi. Infine, il fisco rende noto che c’è stato un «forte aumento» delle spese per la riqualificazione energetica detraibili al 55% (+23%) e delle spese per il recupero edilizio detraibili al 36% (+12%) ».
Numerose le reazioni dal mondo politico e sindacale. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha osservato che è indispensabile mettere in campo «nuove politiche per la crescita e lo sviluppo» e favorire così «l’occupazione». Ma soprattutto «non si deve esitare a proseguire nel cammino delle riforme», ma sempre con «la necessaria severità fiscale».
Molto dura la reazione di Pier Luigi Bersani, che ha parlato dell’«eterna raffigurazione della vergogna dell’evasione fiscale». Secondo il segretario del Partito democratico «resta il punto principale per riprendere la strada della crescita». Cisl e Uil hanno chiesto un provvedimento per abbassare le tasse ai lavoratori e ai pensionati mentre Luca Montezemolo ha chiesto di spostare il carico fiscale «dal lavoro e dalla produzione alle rendite e ai patrimoni».

il Fatto 31.3.12
Ora sì che sembrate l’Argentina
di Horacio Verbitsky


Le polemiche italiane sull’articolo 18 hanno per gli argentini uno sgradevole sapore di déjà vu e lo stesso dicasi per le reazioni nei confronti del governo tecnico di Mario Monti. Se la nostra esperienza può servire a qualcosa eccone un breve resoconto. Il presidente Carlos Menem (1989-1999) abolì le leggi a tutela dei lavoratori che garantivano diritti ottenuti dopo decenni di lotte sociali, cosa questa che non aveva osato fare nemmeno la dittatura militare (1976-1983). Il tecnico che preparò la riforma del mercato del lavoro fu Domingo Cavallo, incaricato di porre fine al “populismo peronista”. In Italia settori che si considerano progressisti o comunque facenti parte di una delle anime della sinistra, hanno accolto con sollievo il rappresentante delle banche e di quel mitologico personaggio che va sotto il nome di “Merkozy”. Dicono sia un uomo serio, che gode di notevole prestigio in Europa e che ora non bisogna più vergognarsi di essere italiani.
LA SITUAZIONE ha qualche analogia con l’Argentina di 20 anni fa anche se in Argentina il problema non era il bunga bunga, ma la superinflazione. Stabilendo il rapporto di parità tra dollaro americano e peso argentino, Cavallo fece calare immediatamente l’inflazione e avviò un programma di riforme il cui scopo era quello di migliorare la competitività dell’economia. La brusca stabilizzazione così ottenuta permise a Menem, che somigliava più a Berlusconi che a Mario Monti, di vincere le elezioni successive e di portare avanti un programma di smantellamento delle conquiste sociali, di liberalizzazione finanziaria, di deregulation e di privatizzazioni che causò indebitamento con l’estero per sostenere la finzione secondo cui un peso valeva quanto un dollaro, deindustrializzazione e dismissione delle industrie pubbliche. La flessibilità del lavoro fu una delle pietre angolari di questo modello. La perdita di stabilità del lavoro e la legalizzazione dei contratti a tempo determinato o a salario ridotto o senza benefici sociali per i nuovi lavoratori ridussero il costo del lavoro e fecero lievitare i profitti delle imprese il cui contributo al sistema pensionistico subì una drastica riduzione. Di conseguenza il sistema pensionistico venne privatizzato e i fondi pensione gestiti dalle grandi banche. Anche Cavallo era un uomo rispettato negli ambienti finanziari internazionali e Menem prometteva che con questa politica l’Argentina sarebbe diventata un Paese del primo mondo, realizzando una vecchia ossessione argentina. Avvenne l’esatto contrario. Invece di registrare aumenti di produttività, il settore industriale entrò in crisi profonda. La chiusura di moltissime attività produttive, che non potevano competere con le importazioni a prezzi molto bassi, fece lievitare la disoccupazione fino a livelli mai toccati in Argentina. Quando Fernando De la Rua successe a Menem (1999-2001), al salvatore tecnico, Domingo Cavallo, fu affidato il ministero dell’Economia. Il modello economico collassò definitivamente nel dicembre 2001.
IL TASSO di disoccupazione toccò il 25%, le banche confiscarono i depositi dei correntisti, i prestiti del Fmi furono utilizzati per finanziare il salvataggio dei grandi capitalisti che riuscirono a far uscire dal Paese migliaia di milioni di dollari prima che il sistema bancario presentasse il conto ai comuni cittadini. Quando venivano licenziati, i lavoratori smettevano di versare i contributi al loro fondo pensione e i loro conti correnti andavano in rosso anche per le esose commissioni delle banche.
LE BANCHE, disponendo di una elevata liquidità, cominciarono a prestare denaro a tassi molto alti allo Stato che si era svenato trasferendo risorse al sistema pensionistico. Circa tre milioni di lavoratori che avevano raggiunto l’età della pensione rimasero senza lavoro e senza pensione. Nestor Kirchner disse molte volte che era stato eletto presidente con un numero di voti (alle elezioni del 2003 ottenne il 22% al primo turno e Menem si ritirò prima del secondo turno prevedendo una clamorosa sconfitta) inferiore al numero di disoccupati. Il programma suo e della sua vedova Cristina Fernandez de Kirchner che governerà dal 2007 e verrà rieletta nel 2011 con il 54% dei voti, consisteva nell’abolire poco alla volta tutte le riforme introdotte dal governo tecnico di Cavallo: i diritti dei lavoratori furono ripristinati, le pensioni, che erano state congelate nel decennio precedente, furono incrementate due volte l’anno in misura superiore all’inflazione, il sistema pensionistico divenne nuovamente pubblico e vennero reintegrati i lavoratori che erano stati esclusi dal mondo del lavoro. Mentre nel decennio precedente solo il 50% dei lavoratori che arrivavano all’età della pensione riuscivano a ottenere un assegno pensionistico, oggi tale percentuale è superiore al 90%. I salari dei lavoratori sono i più alti dell’America Latina e il costo del lavoro per unità di prodotto è inferiore rispetto al 2001 in quanto sono aumentati la produttività e i profitti delle imprese. Questa sorprendente realtà coincide con quella tedesca: sono gli alti salari a stimolare gli investimenti e la produttività.
(*scrittore e giornalista, dirige il Centro Studi Giuridici e Sociali di Buenos Aires) Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 31.3.12
Contraccezione d’emergenza. Farmaco già in commercio in 39 Paesi
Regole: la ricetta non è ripetibile e la paziente non deve essere incinta
Pillola dei 5 giorni dopo Da lunedì arriva in Italia nonostante le polemiche
Arriva anche in Italia, da lunedì, la pillola dei cinque giorni dopo. Per acquistarla in farmacia servirà una ricetta non ripetibile. Il medico dovrà certificare che la paziente non è incinta attraverso l’apposito test.
di Mariagrazia Gerina


Ci sono voluti due anni per il via libera. Da lunedì, però, la pillola dei «cinque giorni dopo» EllaOne sarà in vendita in farmacia, anche in Italia. L’Organizzazione mondiale della Sanità la classifica «anticoncezionale d’emergenza». Come la pillola del «giorno dopo». Ma, diversamente da quella, può essere assunta fino a 120 ore dopo il rapporto a rischio. E, in generale, rispetto alla contraccezione d’emergenza utilizzata finora, a base di Levonorgestrel, è molto più efficace anche se utilizzata nelle prime ore: il doppio nelle prime 72 ore, fino a tre volte di più nelle prime 24 ore. Da noi, però, ci vorrà la ricetta per acquistarla. E il test di gravidanza per accertare che la donna a cui viene prescritta non sia incinta. Costerà 34,89 euro e, inserita tra i farmaci di categoria C, non rimborsabili, la spesa sarà tutta a carico di chi vorrà farne uso.
I PALETTI DELL’AIFA
È la via italiana a questa «nuova» forma di contraccezione d’emergenza, in realtà già commercializzata in 28 paesi e autorizzata in 39 paesi (europei ma anche africani, come il Gabon e il Djibouti, negli Stati Uniti come in Israele, Singapore, Corea del Sud). L’ok, a livello europeo, siglato dalla European Medicines Agency, risale al maggio del 2009. In Italia, ci sono voluti altri due anni perché l’Agenzia per il farmaco (Aifa) ne autorizzasse la vendita. Via libera accordato lo scorso novembre. Non senza polemiche (c’è anche un ricorso al Tar, ancora pendente, presentato dal Movimento per la Vita, ad approvazione già avvenuta). E paletti, imposti dalla stessa Agenzia: ricetta medica non ripetibile e test per accertare che non ci sia una gravidanza già in corso.
«Basta anche un test delle urine», assicurano dall’azienda produttrice, la Hra Pharma, citando la delibera dell’Aifa che parla di «test di gravidanza a esito negativo basato sul dosaggio delle beta Hcg» come esame propedeutico alla prescrizione della EllaOne. In risposta a chi, specie tra i ginecologi, aveva obiettato che un esame del sangue allungherebbe notevolmente i tempi.
L’Aifa ha operato con molta «attenzione», rivendica il ministro Balduzzi, preoccupato di rassicurare chi invece avrebbe voluto scongiurare la commercializzazione dell’EllaOne: «Se le indicazioni dell’Aifa saranno rispettate» spiega il ministro «credo si possa evitare che questi strumenti diventino un’occasione di pericolo e di rischio per la salute».
In ogni caso, test o meno, polemicche o no, dal 2 aprile la «pillola dei cinque giorni dopo» sarà in farmacia. «Avremo uno strumento in più per evitare l’aborto», osserva da ginecologa Anna Pompili. Prezioso, a suo avviso, soprattutto in Italia. Vi-
sto che il fattore tempo è fondamentale per la contraccezione d’emergenza. E invece: «Purtroppo per molte donne italiane, per via della diffusione dell’obiezione di coscienza anche tra i farmacisti, accedere alla contraccezione d’emergenza diventa un calvario». In questo contesto, «avere un farmaco che permette di agire con tempi un po’ più lunghi può essere d’aiuto, proprio per evitare l’aborto», suggerisce la dottoressa Pompili, autrice per altro, insieme a Carlo Flamigni, di un libro divulgativo sulla contraccezione.
Quanto al meccanismo di funzionamento di EllaOne, spiega: «A base di Ulipistral, la pillola agisce fondamentalmente sull’equilibrio ormonale, ovvero sposta in avanti il momento dell’ovulazione o, in qualche caso la inibisce, rendendo impossibile la fecondazione». C’è però il dubbio «non completamente chiarito aggiunge , che essendo un modulatore selettivo dell’inibitore del progesterone, potrebbe anche produrre una azione di inibizione dell’impianto qualora l’ovulo fosse già fecondato». Come avviene per esempio, quando dopo un rapporto a rischio viene impiantata la spirale. «Un tipo di contraccezione d’emergenza che esiste già osserva e che già oggi permette di intervenire entro 5 giorni».

l’Unità 31.3.12
Uno strumento clinico. La morale non c’entra
Su questo farmaco c’è stato un dibattito aspro: serve un passo indietro per la salute delle donne
di Ignazio Marino


In un mondo ideale la contraccezione di emergenza, così come l’aborto, non dovrebbero esistere. Ma sappiamo tutti che la realtà in cui viviamo è fatta per lo più di scelte difficili e dolorose, di dubbi e di fragilità. Viviamo in un Paese in cui manca purtroppo un progetto nazionale organico e strutturato di educazione alla sessualità responsabile, alla salute riproduttiva e alla contraccezione nelle scuole.
A ciò si aggiunga la debolezza della medicina del territorio, sulla quale non si investe abbastanza: manca, nei fatti, da troppi anni una politica di potenziamento dei consultori che sono ormai poco più di 2000, circa 0,7 ogni 20.000 abitanti, mentre dovrebbero essere almeno 1 ogni 20.000. Elementi che rendono più incerta l’assistenza alle donne; elementi essenziali da considerare quando si tratta della contraccezione di emergenza e della pillola dei cinque giorni dopo.
Prima di tutto, è bene sottolineare che la diffusione di questo nuovo strumento è stata autorizzata dopo una valutazione scientifica responsabile e rigorosa da parte dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Il farmaco richiede una ricetta medica non ripetibile. Prima della prescrizione, inoltre, il medico è tenuto a verificare l’assenza di una gravidanza.
Si tratta di due regole ispirate dalla cautela e dalla necessità di porre al centro della decisione clinica il rapporto tra il medico e la sua paziente. Eppure il dibattito su questa pillola è stato rovente e ancora c’è chi dichiara di voler ostacolare la sua diffusione. Sui nuovi farmaci, tuttavia, le decisioni debbono essere di natura clinica e non orientate dalla morale. La pillola dei cinque giorni dopo non è un farmaco per donne «poco attente», ma una soluzione per chi ha vissuto un evento ad alto rischio e chiede quindi aiuto al medico.
Proprio il rapporto tra la donna e il proprio medico è una ulteriore garanzia che, con un confronto sincero e intimo, saranno vagliate tutte le possibilità e sarà assunta la decisione migliore dal punto di vista clinico e psicologico. Il medico dovrà parlare con franchezza ed esporre i percorsi che esistono. Ecco perché, a mio avviso, su questo farmaco non è accettabile alcun appello all’obiezione di coscienza e sarebbe un gravissimo errore cercare di manomettere il dibattito, tentando di insinuare che questa pillola sia abortiva e non anticoncezionale. Io credo davvero che dovremmo fare tutti un passo indietro, per il rispetto dovuto alla salute delle donne che non possono e non devono subire discriminazioni su temi così delicati. Sarebbe invece importante concentrare gli sforzi di tutti, a partire dalla politica, per potenziare una assistenza territoriale che possa essere davvero degna di questo nome. I ginecologi territoriali hanno un ruolo centrale, si deve smettere di parlare di medicina del territorio senza investirci e crederci.
Il ministro della Salute Renato Balduzzi è un esperto della materia e sa assai bene quanto sia necessario avere a cuore la sanità pubblica. Bisogna affrontare un problema chiaro nei numeri: se a 36 anni dalla istituzione dei consultori, l’ottanta per cento delle donne in gravidanza si rivolge alla sanità privata un problema esiste e deve assolutamente essere risolto.

Corriere della Sera 31.3.12
Chiude Il Riformista «Un giorno amarissimo»


ROMA — «Non ce l'abbiamo fatta». L'ultimo editoriale di Emanuele Macaluso, nell'ultimo numero del Riformista, si apre su una presa d'atto, un'amara dichiarazione di resa. Seguita da uno spiraglio. Perché il direttore del quotidiano arancione, che da oggi non sarà più in edicola, parla di «sospensione delle pubblicazioni». Il giornale è in liquidazione, ma questa può essere revocata e la speranza è che si faccia avanti qualcuno. Speranza remota, per un giornale combattivo che chiude con un sostegno bipartisan che finora non è servito. Poche copie vendute, pubblicità quasi inesistente, conti che non tornano, fondi pubblici drasticamente tagliati. Le ragioni del decesso sono anche queste. Macaluso parla di «amarissimo giorno», ammette «le nostre, soprattutto mie, deficienze», ma se la prende anche con il sindacato e il movimento cooperativo che non hanno sostenuto il giornale. Il cdr è in «completo dissenso» con la decisione di chiudere, scrive che «è stata negata la verità sui conti e sugli accordi con la precedente gestione». La direzione respinge gli addebiti. Macaluso parla di «falsità totali: i conti sono pubblici».
Ora si tratta di aspettare un'improbabile novità. Se non arrivasse, i giornalisti dovranno trovarsi un'altra collocazione. Macaluso spera ancora che il Riformista risorga: «Ora che non sono più direttore qualcuno sarà contento e proverà a spostare l'orientamento. Spero che il giornale risorga e rimanga nell'area del centrosinistra». Con il Riformista sono in difficoltà molti altri giornali, per il calo delle vendite e il taglio dei fondi pubblici, a partire dal manifesto. Macaluso spiega che ora si prenderà «un mese sabbatico»: «Ho già diverse proposte di collaborazione ai giornali, ma per ora leggerò e lavorerò al mio nuovo libro».

Corriere della Sera 31.3.12
Socialisti europei, documento in 10 punti per uscire dalla crisi
di Emanuele Buzzi


MILANO — Dieci punti per uscire dalla crisi che attanaglia l'Europa, una risposta all'«Unione Europea di Austerità che abbasserà il tenore di vita di quasi tutti» imposta, a loro avviso, dai governi di centrodestra: i socialisti rivendicano con un manifesto — che vede tra i firmatari Hannes Swoboda, presidente dell'Alleanza Progressista dei socialisti e dei democratici e gli europarlamentari Sergio Cofferati, Leonardo Domenici e Gianni Pittella, il senatore Nicola Latorre — una voce unitaria e compatta nelle politiche del Vecchio Continente. Una svolta comune che ha nel documento «Per un'alleanza socialista europea» soprattutto una matrice economica, anche se «un insieme di diritti e di obiettivi sociali fondamentali deve essere fermamente incluso nel Trattato». L'euro anzitutto. Si incoraggia la «sostenibilità per la moneta unica; il mandato della Bce deve evolversi nel riconoscere il suo diritto di comprare bond governativi quando la valuta è sotto attacco» e si cercano risorse per garantire l'innovazione, le infrastrutture e l'industria. Le soluzioni proposte? Una tassa sulle transazioni finanziarie per stimolare incentivi per l'impiego e per incoraggiare la ricerca, tasse sull'energia e riduzione dell'Iva. Pronta anche una battaglia sul fronte della green economy (con l'intenzione di ridurre la dipendenza da combustibili fossili e nucleare): si va dai «Project Bonds, emessi dall'Unione e garantiti dalla Bce» al prelievo di «tasse sulle importazioni da paesi terzi che non rispettano le norme ambientali europee». Un'indicazione che ricorda la recente querelle con la Cina per la carbon tax. Da rivedere anche la politica internazionale con una presenza «più robusta e unita». Un'azione collettiva, sostengono i socialisti — che hanno presentato il manifesto a Bruxelles insieme a Jacques Delors — è «indispensabile»: «chiunque creda che possiamo proteggere il tenore di vita e mantenere servizi di welfare — si legge nel documento — tornando indietro al modello degli stati nazione del diciottesimo secolo, rimpatriando le competenze da Bruxelles alle capitali nazionali, minando le istituzioni comunitarie sta, volente o nolente, promuovendo la sottomissione delle nostre nazioni alle superpotenze, passate e future, ed alla dittatura del mercato». Necessario anche un «mea culpa» contro la globalizzazione sfrenata e sregolata: «Abbiamo permesso che penalizzasse tutti i paesi con sistemi di welfare avanzati, abbassando il tenore di vita, aumentando le diseguaglianze». Per uscire dalla crisi, la ricetta socialista insiste su «responsabilità condivisa, crescita ed eguaglianza». Un mantra che sta diffondendosi anche tra i leader dei partiti nazionali.

il Fatto 30.3.12
Tra Vaticano e la Magliana
Perché nessuno vuole aprire la tomba di Renatino De Pedis
di Rita Di Giovacchino


Enrico De Pedis, detto Renatino, era il più potente boss della Banda della Magliana. Un killer spietato e intelligentissimo, quando nel febbraio 1990 fu ucciso a Roma, a Campo de' Fiori, aveva solo 36 anni ed era già il capo della malavita romana. O meglio di quella strana organizzazione che il pm Domenico Sica definì Agenzia del crimine, struttura “più potente della mafia e forse dei servizi segreti” spiegò lasciando di stucco la commissione Antimafia.
VENTI ANNI dopo il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, che aveva appena riaperto l'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, chiese a Sabrina Minardi quale fosse la ragione di tanta ascesa: “Lo sapevano tutti che Renatino era l'uomo del Vaticano”, rispose. Ed è forse questa la chiave che aiuta a capire uno dei misteri d'Italia più insondabili: l'augusta sepoltura del boss nella Cripta di Sant'Apollinare, accanto a principi, vescovi e grandi artisti. Ma perché De Pedis da oltre venti anni è seppellito in questa chiesa? Uno è certamente la scomparsa di Emanuela, la ragazzina vaticana sparita il 22 giugno 1983, proprio all'uscita della scuola di musica Tommaso Ludovica De Victoria, che fa parte dello stesso complesso di Sant'Apollinare. Fu rapita e a rapirla sarebbe stato proprio Renatino, per conto di Marcinkus, il vescovo americano presidente dello Ior e garante della sicurezza di papa Wojtyla. Le due vicende sono intrecciate, anche se gli sviluppi dell'ultima inchiesta sulla scomparsa di Emanuela, che vede tre indagati tra cui Sergio Virtù guardiaspalle di De Pedis, si sono all'improvviso. Si dice che l'augusta sepolturariservataalbosssiastatoungesto di riconoscenza per un “favore che solo chi doveva capì, ha capito”, ha detto Sabrina. Non un favore di natura sessuale, anche se il vescovo con “il mitra sotto la tonaca” non era indifferente alla bellezza delle ragazzine. Spiegò Carlo Calvi, il figlio del presidente dell'Ambrosiano, che quella tomba e la scomparsa di Emanuela sono legati all'omicidio del padre a Londra: i soldi della mafia, 250 milioni di dollari, spariti dalle casse dell'Ambrosiano per finanziare Solidarnosc. Questo il motivo del ricatto a Wojtyla legato alla scomparsa di Emanuela: i boss volevano i piccioli. Così il Dandy di Romanzo Criminale è entrato nel “gioco grande” e ora riposa accanto a principi e cardinali.
NEL 1992, il complesso di Sant'Apollinare è passato all'Opus Dei, prima era una parrocchia del Vicariato romano. Lo scorso anno Capaldo mandò a chiamare don Pedro Huidobro, l'ultimo rettore, e monsignor Pietro Vergari, all'epoca parroco e amico di Renatino. Don Pedro non ha fatto opposizione né all'apertura della tomba né alla traslazione della salma, don Vergari ha spiegato che il boss era molto generoso. Quando l'avevano ammazzato si era ricordato della frase che aveva pronunciato il giorno del suo matrimonio: “Quanno me tocca, me piacerebbe esse sepolto qui”. Così aveva scritto una lettera al cardinal Ugo Poletti che aveva firmato il Nulla Osta. Un affare privato. Pochi giorni fa il ministro dell’Interno, Cancellieri, sollecitata da un'interpellanza di Walter Veltroni, è inciampata su una vecchia polemica affermando: “Sant’Apollinare è territorio del Vaticano, pertanto non si conoscono altre autorizzazioni che quelle rilasciate dal comune di Roma per il trasferimento della salma”. Il ministro ha di fatto avallato la versione della Santa Sede secondo la quale ogni Chiesa gode di “extraterritorialità”. Veltroni non ci sta: “A noi non risulta che Sant’Apollinare sia in territorio vaticano, in ogni caso è eticamente inaccettabile che un boss sia sepolto qui”. Sant'Apollinare è proprietà della Santa Sede, ma ai fini dell'esenzione fiscale. Dunque a De Pedis sono resi gli onori in territorio italiano. Tutti protestano, ma nessuno aprirà quella tomba.

Repubblica 31.3.12
"Io, picchiata e umiliata per il velo"
Roma, le tolgono l’hijab con la forza: "Qui non si porta"
La tunisina: "Nessuno mi ha difeso"
di Federica Angeli


Monterotondo (Roma) «Ho sempre pensato che l´Italia fosse un paese libero. Sbagliavo. Ho cercato lavoro e mi hanno sbattuto la porta in faccia perché porto il velo. E per il mio velo tre giorni fa sono stata picchiata, insultata, umiliata da un gruppo di ragazzi. Stavo solo bevendo un caffè». Neila Azzabi è una donna tunisina di 37 anni. Tre giorni fa in un bar che, per una beffa della sorte si chiama "Freedom", nella piazza principale di Monterotondo, un paese alle porte di Roma, mentre beveva un caffè è stata aggredita da un gruppo di ragazzi perché indossava l´hijab. «Ero seduta con mia sorella, quando un ragazzo, insieme ad altri otto amici, ha iniziato a gridare: "dovete tornare al vostro paese, tu sei una puttana musulmana e devi farti esplodere, che aspetti a farti saltare in aria? Kamikaze, devi ucciderti". Poi mi ha dato uno schiaffo in faccia, mi ha tirato giù l´hijab e mi ha detto: "questo in Italia non lo puoi portare"». Le lacrime le scendono a fiumi. Ripensare a quel momento la fa star male. Per lei indossare il velo, oltre a essere un´occasione identitaria, è una scelta religiosa.
«Sono molto credente ripete più volte scossa, quasi a voler trovare nel mantra la forza di cancellare quell´aggressione razziale e a quel ragazzo voglio dire che quando vado a fare la spesa, pago come paga lui, che quando sorrido lo faccio come lui. Non è un velo che crea la diversità. Se mi chiedesse scusa lo perdonerei, ma la denuncia non la ritiro. Mi ha picchiata e insultata. Neanche mio padre né mio marito si sono mai permessi di darmi uno schiaffo. È giusto che paghi».
Tutto è cominciato alle 18. Neila era stata con la sorella Nadia in un parco giochi, dove avevano portato il nipotino di un anno. Poi sono entrate in un bar a prendere un caffè e si sono sedute a un tavolino in via Buozzi, il corso principale di Monterotondo. Accanto a loro un gruppo di otto ragazzi e una ragazza. «Io badavo a mio figlio a parlare ora è Nadia sentivo insulti, frasi offensive ma ho pensato fosse un gioco tra di loro. Mia sorella che è da poco in Italia però a un certo punto mi ha detto che quei ragazzi guardavano proprio lei. E che quegli insulti pesanti erano rivolti a noi. "Musulmane schifose, fuori da qui" e altre cose pesantissime». Una coppia di italiani è intervenuta in difesa delle due donne tunisine, ma la reazione è stata pesantissima. Il leader del gruppo un ventisettenne già identificato e denunciato dai carabinieri per lesioni, percosse e delitti contro i culti ammessi dallo Stato si è alzato, gli altri hanno circondato le sorelle, e hanno iniziato a picchiarle, a tentare di strapparle il velo dalla testa, a prenderle a calci. «È stato umiliante, non si sono fermati neanche di fronte a mio nipote che piangeva disperato per la paura», ha proseguito Neila.
«Io sono caduta per terra, loro mi hanno presa a calci». Poi sono fuggiti, prima dell´arrivo dei carabinieri. «La gente intorno ha guardato la scena interviene Nadia nessuno ha mosso un dito per fermarli, fatta eccezione per la coppia che ha preso le nostre difese dall´inizio. Sono vent´anni che abito a Monterotondo, più di quelli che ho vissuto in Tunisia. Le persone che stavano lì a gustarsi la scena le ho salutate centinaia di volte per strada, al supermercato, in piazza. Ma nessuno ci ha aiutato».
Mentre i carabinieri della compagnia Monterotondo lavorano per identificare e denunciare anche gli altri componenti del gruppo l´unico denunciato ha ammesso ogni responsabilità dal mondo politico arrivano parole di condanna bipartisan per l´episodio. «Ciascun uomo o donna che, proveniente da un altro Paese, nel rispetto delle nostre leggi, deve poter godere di tutti i diritti, essere accolto e messo al riparo da ogni forma di discriminazione ha detto Mara Carfagna, deputato Pdl Solidarietà, dunque, a Neila e a sua sorella». «Quello che è accaduto a Monterotondo è gravissimo ha dichiarato Livia Turco, responsabile immigrazione del Pd Tuttavia questo episodio è anche segno della debolezza della politica italiana. Questi vergognosi episodi di intolleranza razziale e religiosa non possono essere accettati nel nostro Paese».

il Fatto 30.3.12
Merah, il killer supercontrollato libero di uccidere
di Stefan Simons


In Francia infuria la polemica su possibili carenze dei servizi di sicurezza e di intelligence nell’eccidio di Tolosa. L’autore del massacro, Mohamed Merah (che è stato infine seppellito ieri in una tomba anonima, ndr), era stato inserito in un elenco di fondamentalisti islamici potenzialmente pericolosi. L’opinione pubblica si chiede se non si sarebbe potuti intervenire prima. Sulle prime, è stato compatto il coro di lodi alle forze di polizia e in un’improvvisata conferenza stampa nell’appartamento nel quale Merah era stato ucciso, il ministro dell’Interno Gueant sottolineò “la professionalità e la determinazione” degli uomini del Raid. Al coro di lodi si unì anche Sarkozy che preannunciò misure severe “contro chi visita regolarmente i siti web nei quali si giustificano il terrorismo, l’odio e la violenza”. Ma, superato il momento degli elogi, è arrivato subito quello degli interrogativi.
FRANÇOIS BAYROU, candidato del Movimento Democratico centrista, ha detto di essere rimasto colpito dal fatto che Merah era riuscito a procurarsi dozzine di armi da fuoco senza destare alcun sospetto. Marine Le Pen, leader della formazione di estrema destra Fronte Nazionale, ha criticato l’incapacità del governo di contrastare il fondamentalismo islamico da lei ribattezzato “fascismo verde”.
La polemica sembra incentrata sul lavoro della polizia e dei servizi prima che l’appartamento nel quale si era rifugiato il terrorista fosse circondato dai corpi speciali. Merah non era uno sconosciuto. Il suo nome era noto al Dcri, il servizio di intelligence interno della Francia, e figurava in un elenco di circa sei fondamentalisti noti come simpatizzanti delle organizzazioni jihadiste.
Il giovane Merah, di origine algerina, era cresciuto in un quartiere “difficile” di Tolosa. Aveva attirato l’attenzione delle forze di polizia e della giustizia per una mezza dozzina di reati – tra cui furti e rapine – ed era già stato in prigione. Sembra che sia stato proprio il carcere a trasformare il piccolo criminale in un fondamentalista islamico. La conferma è arrivata da una dichiarazione del Procuratore generale François Molins.
Per due volte tentò di entrare nell’esercito e nella Legione straniera, ma si vide opporre un rifiuto. Tre anni fa Merah si recò per la prima volta nella regione al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan. Lì, in campi organizzati da gruppi armati del Waziristan, cercò di stabilire un contatto con la rete terroristica di al Qaeda allo scopo di diventare un combattente mujaheddin. Sembra però abbia rifiutato l’ipotesi di diventare un attentatore suicida. Non è escluso che abbia combattuto a fianco ai talebani. In ogni caso nel 2010 una pattuglia dell’esercito americano arrestò Merah che fu successivamente estradato dagli Usa in Francia. Secondo il Wall Street Journal le autorità americane lo avevano anche inserito nella lista no-fly. Ma la carriera da jihadista terminò l’anno seguente quando Merah si ammalò di epatite A.
TORNATO A TOLOSA finì nel mirino dei servizi proprio per i suoi “strani” e frequenti viaggi. Il giovane fu convocato e interrogato diverse volte. “Nel novembre 2011 il Dcri lo convocò perché spiegasse cosa aveva fatto in Afghanistan e Pakistan”, ha detto il ministro dell’Interno. “Merah rispose che ci era andato per turismo” e mostrò alcune foto che aveva scattato. Nemmeno la denuncia di una madre secondo cui aveva rinchiuso suo figlio in casa e lo aveva costretto a vedere video violenti sugli “infedeli” era stata sufficiente a mettere in allarme la polizia. Come non bastasse i servizi spagnoli avevano comunicato ai colleghi francesi che Merah nel 2011 aveva partecipato a un incontro di Salafiti in Catalogna.
Sta inoltre emergendo che fin dal 2008 si sapeva che Merah e suo fratello Abdelkabir erano legati a un gruppo di jihadisti della zona di Tolosa. Solo dopo l’assassinio del sergente a Montauban, l’11 marzo, gli investigatori cominciarono a occuparsi di Merah. Ci misero sei giorni per risalire al suo nome esaminando il contenuto del pc lasciato in casa della madre. “Per un’operazione del genere ci vogliono da pochi minuti a un massimo di 48 ore”, ha osservato il sito di news online francese Owni. Il Procuratore generale Molins ha difeso gli investigatori: “Ci è voluto del tempo per esaminare il notevole numero di Id dietro i quali si nascondeva”.
Dopo il secondo attentato a Montauban, il Dcri produsse un elenco di possibili sospetti tra i quali figurava anche Mohamed Merah. “Da anni gli agenti del Dcri di Tolosa lo tenevano d’occhio”, ha confermato il ministro dell’Interno. E ciò nonostante nessuno lo ha fermato e Merah è riuscito a compiere l’ultimo attentato contro la scuola ebraica di Tolosa. Da qui le polemiche.

l’Unità 31.3.12
Nuovi insediamenti
Il piano d’Israele nelle mappe segrete
Messe a punto dall’Amministrazione civile dello Stato ebraico delineano l’esproprio del 10% della West Bank palestinese per ampliare gli abitati esistenti o realizzarne di nuovi
di U. D. G.


L e mappe «segrete» raccontano di un piano studiato nei minimi dettagli. Quelle mappe delineano un processo di espropriazione che di fatto rende improponibile la realizzazione di una pace fondata sul principio di «due popoli, due Stati». Improponibile perché lo Stato di Palestina sarebbe più simile ad una sorta di bantustan mediorientale piuttosto che ad un vero Stato, con piena sovranità su tutto il proprio territorio nazionale. Le mappe in questione, di cui l’Unità ha potuto prendere visione, sono quelle tracciate dall’Amministrazione civile israeliana, comparto del ministero della Difesa dello Stato ebraico.
Quelle mappe tratteggiano una espropriazione del 10% del territorio palestinese della Cisgiordania allo scopo di amplare-costruire insediamenti ebraici. Altri dettagli: il territorio «sequestrato» è di 569 appezzamenti, per un totale di 620mila dunam (equivalenti a 155mila ettari». L’espropriazione dall’altro lato del Muro. Una condizione di sofferenza raccontata così nel rapporto 2011 di Amnesty International: «Alla fine dell’anno (2010, ndr) era stata completata la costruzione di circa il 60 per cento dei 700 km pianificati del muro-barriera; oltre l’85 per cento del suo intero percorso è in terra palestinese, all’interno della Cisgiordania. Il muro-barriera ha separato migliaia di palestinesi dai loro terreni agricoli e dalle risorse d’acqua, mentre i palestinesi della Cisgiordania in possesso di permessi d’ingresso hanno potuto accedere a Gerusalemme Est soltanto attraverso tre dei 16 posti di blocco lungo il muro-barriera. Ciò ha avuto conseguenze particolarmente gravi per i pazienti e il personale medico che cercavano di raggiungere i sei ospedali specialistici palestinesi di Gerusalemme Est».
«I palestinesi rimarca ancora Amnesty hanno continuato a veder loro negato l’accesso a vasti appezzamenti di terreno nei pressi delle colonie israeliane, fondate e mantenute in violazione del diritto internazionale». Una situazione insostenibile. Al punto che nei giorni scorsi con 36 voti a favore, 1 contrario (gli Usa) e 10 astensioni (tra cui l’Italia), il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha approvato, per la prima volta nella storia, la costituzione di una commissione d’inchiesta internazionale indipendente che si rechi nei territori palestinesi per verificare le conseguenze della costruzione di colonie israeliane nei territori palestinesi occupati, Gerusalemme Est inclusa. La missione d’inchiesta «dovrà indagare sulle conseguenze che le colonie israeliane hanno sui diritti civili, politici, economici, sociali e culturali del popolo palestinese». Immediata la reazione israeliana: il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman (capofila dei falchi nel governo Netanyahu) ha deciso di «rompere ogni contatto» con l’Agenzia dell’Onu: «Non risponderà più neanche alle loro chiamate telefoniche», taglia corto uno stretto collaboratore di Lieberman.

l’Unità 31.3.12
Cambia il tempo: il massimo di ore settimanali non potrà superare le 49. Ora sono 60
Per anni tollerati soprusi dalla stessa casa americana oggi denunciati in un libro bianco
La Apple ammette: in Cina condizioni disumane
La Apple e la sua fornitrice, la taiwanese Foxconn, hanno ammesso che le condizioni di lavoro nelle loro fabbriche in Cina erano troppo dure e ingiuste. Ora lavoreranno più operai e per meno ore.
di Marco Tedeschi


Apple ammette le proprie colpe, si scusa e dice che d’ora in avanti le cose cambieranno.
È un precedente importante quanto avvenuto negli stabilimenti cinesi della Foxconn, che fornisce colossi informatici come per l’appunto la Apple. Che gli operai della Foxconn lavorassero in condizioni disumane non è una novità, lo denunciano da tempo gli stessi impiegati, decine dei quali sono arrivati nel 2010 al suicidio. Ma adesso ad attestarlo nero su bianco è un lungo rapporto dell’associazione indipendente Fair Labour Association (Fla) che denuncia i soprusi di cui sono vittime i lavoratori della azienda taiwanese che assembla anche prodotti Apple. Ad acconsentire all’indagine della Fla sarebbe stata la stessa Mela morsicata dopo che a gennaio un’inchiesta del New York Times aveva riportato la «fabbrica degli schiavi della Apple» all’attenzione dei media.
IMPEGNI
L’indagine, durata tremila ore e che ha coinvolto 35mila lavoratori, ha portato la Foxconn ad ammettere i problemi e a impegnarsi a rimuovere le violazioni registrate. Sia la Apple che la Foxconn, la multinazionale taiwanese che produce componenti per i prodotti elettronici, hanno concordato una serie di modifiche nel trattamento degli 1,2 milioni di operai cinesi destinate a incidere su tutta la produzione industriale in Cina.
L’accordo prevede che le ore totali di lavoro degli operai non superino le 49 a settimana, anche nei periodi di «picco» e compresi gli straordinari, contro le 60 ore attuali. I salari non subiranno mutamenti. Per far fronte ai «buchi» di produzione, la Foxconn, la cui impresa madre è la Hon Hai Precision Industry di Tucheng, un sobborgo di Taipei, assumerà altre migliaia di lavoratori. La Hon Hai produce nelle sue fabbriche nel sud della Cina, oltre agli iPhone e agli iPad della Apple, i prodotti di Dell, Hewlett-Packard, Motorola, Nokia e Sony, fornendo componenti per circa il 50% di tutti i prodotti elettronici sul mercato.
Il rapporto di Fla è arrivato negli stessi giorni della trasferta cinese del Ceo di Apple Tim Cook, che ieri ha fatto visita allo stabilimento Foxconn a Zhengzhou, nella provincia dell’Henan, che conta oltre 120mila dipendenti.
Una tappa obbligatoria la sua, ma di cui non si conoscono dettagli, solo alcune foto che lo ritraggono sorridente tra gli operai.
Prima di Zhengzhou, Cook ha incontrato a Pechino il vice premier Li Keqiang, che se verrà confermata la linea di successione politica succederà a Wen Jiabao in autunno. Li ha detto all’amministratore delegato di Apple che è necessario per tutte le multinazionali operanti in territorio cinese, prestare più attenzione ai basilari diritti dei lavoratori della più grande economia crescente a livello mondiale.
Da parte sua Tim Cook ha chiesto maggiori garanzie sulla proprietà intellettuale, che il numero due del Partito comunista gli ha garantito sarà molto più tutelata d’ora in avanti.

l’Unità 31.3.12
Antonio Ereditato è il fisico che guidava il Gruppo Opera al Cern
Annunciò un esperimento che smentiva Einstein, ma era un errore
L’uomo dei neutrini più veloci della luce ha lasciato l’incarico
Il fisico Antonio Ereditato, responsabile dell’esperimento che aveva indicato i neutrini come più veloci della luce, si è dimesso ieri. Le misure dell’esperimento erano sbagliate
di Pietro Greco


Antonio Ereditato si è dimesso. L’uomo dei «neutrini più veloci della luce» ha lasciato il suo incarico di coordinatore del Gruppo «Opera», l’esperimento internazionale che studia il comportamento delle elusive particelle generata al Cern di Ginevra e rivelate nei Laboratori che l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare possiede sotto il Gran Sasso.
Le dimissioni di Antonio Ereditato erano state chieste da alcuni componenti del Gruppo «Opera». La richiesta è stata messa in votazione. Ma è stata respinta. Sia pure con margini ristretti Ereditato vanta il consenso della maggioranza del Gruppo. Ma il fisico ha preferito lasciare. Non ha voluto commentare la sua decisione.
L’uomo ma anche il fisico merita l’onore delle armi. Per almeno due motivi. Ma prima di indicarli, conviene ricordare la sua vicenda.
Il Gruppo «Opera» studia da ormai molto tempo il comportamento dei neutrini, le più numerose ed elusive particelle conosciute. Negli anni scorsi, anche con la guida di Ereditato, il gruppo ha potuto confermare la previsione di Bruno Pontecorvo: i neutrini oscillano. Ognuno dei tre tipi viaggiando nello spazio può trasformarsi nell’altro. Il che significa che i neutrini hanno una massa. «Opera» si è così conquistata sul campo un’autorità scientifica assoluta nell’ambito della fisica di queste particelle leptoniche. Negli ultimi tre anni il Gruppo «Opera», senza volerlo in maniera specifica, ha misurato una velocità apparente dei neutrini, lungo il tragitto da Ginevra al Gran sasso, leggermente superiore a quella della luce. Un risultato anomalo, che contraddice una delle teorie fondamentali della fisica, la relatività di Einstein. I fisici per prudenza e i filosofi per approccio epistemologico sostengono che quando un fatto sperimentale è in contrasto con una teoria fondamentale, largamente validata, è il fatto che deve cedere il passo. Almeno momentaneamente. Finché nuove le misure non sono state controllate con cura e un possibile errore non è stato trovato.
Il Gruppo «Opera» ha raccolto dati e riverificato le sue misure per oltre due anni, in gran segreto. Senza trovare una qualche fonte di errore. Dopo tutto questo tempo la larga maggioranza del gruppo con Ereditato ha deciso che non si poteva più aspettare. E che occorreva rendere pubblico il dato anomalo.
È quello che hanno fatto lo scorso mese di settembre. Ereditato e «Opera» hanno puntualizzato che la loro era solo l’annuncio di una misura. E non una sua interpretazione. Che un errore era possibile. Che loro avrebbero continuato a cercarlo. E che altri, in maniera indipendente, lo avrebbero cercato. Solo alla fine del processo si sarebbe tentata un’interpretazione.
MISURE
Ma la notizia era troppo ghiotta perché i media non se ne impossessassero. E la notizia di un dato anomalo si è trasformata, malgrado la prudenza di Ereditato e del Gruppo «Opera», nella scoperta del «neutrino che va più veloce della luce». Va detto, tuttavia, che una parte del Gruppo «Opera» avrebbe preferito attendere ancora. Avrebbe preferito una verifica indipendente prima dell’annuncio. Ma va detto anche che entrambe le posizioni erano deontologicamente legittime.
Come sia andata è poi cosa nota. Lo stesso Gruppo «Opera» nelle settimane scorse ha annunciato di aver scoperto in un cavo mal funzionante la possibile causa dell’errore. Poco dopo un altro esperimento, condotto dal gruppo «Icarus» di Carlo Rubbia sul medesimo fascio di particelle, ha annunciato di aver misurato a sua volta la velocità dei neutrini in viaggio da Ginevra al gran sasso, trovando come atteso una velocità inferiore a quella della luce.
A questo punto l’ipotesi di un errore nella misura di «Opera» è diventata una certezza pressoché assoluta. Le ripercussioni interne al gruppo sono state molto forti. E si è arrivati alla conta. Ereditato ha ottenuto una riconferma di fiducia da parte della maggioranza, ma ha preferito lasciare.
Merita, appunto, due volte l’onore delle armi. Come fisico, perché si è comportato in maniera niente affatto censurabile in una situazione molto delicata, sempre in bilico tra la gloria e il ridicolo. Ereditato e la maggioranza del gruppo «Opera» hanno fatto prevalere il principio, decisivo nel modo di lavorare degli scienziati, della massima trasparenza sul principio, altrettanto importante, della prudenza e dello scetticismo sistematico. Ma non sono stati mai, in nessun caso, trionfalisti. Dunque hanno scelto una via pericolosa, ma dignitosa.
L’ONORE DELLE ARMI
Ma Antonio Ereditato merita l’onore delle armi anche per queste sua dimissioni. Aveva ancora dalla sua la maggioranza del gruppo. Sarebbe potuto restare, in attesa di ulteriori verifiche e della decantazione mediatica della vicenda. Ma nonostante questo ha preferito lasciare, anteponendo il bene di «Opera» al suo personale. Chapeau.

l’Unità 31.3.12
La scienza deve essere libera
di Umberto Guidoni


Voglio prendere spunto dal caso dei «neutrini più veloci della luce» per riflettere sul ruolo della scienza nella società moderna. La notizia delle dimissioni di Antonio Ereditato responsabile dell’esperimento «Opera» che ha dato notizia di un risultato dimostratosi falso riporta alla ribalta il tema dei condizionamenti della ricerca. Negli ultimi decenni, la scienza è apparsa sempre più condizionata dalla dimensione economica: una tendenza che porta a favorire la ricerca applicata rispetto a quella di base, lo sviluppo di nuove tecnologie piuttosto che la scoperta di nuove teorie scientifiche. Secondo uno studio dell’Onu: «la ricerca scientifica e tecnologica è sempre più mirata alla ricerca del profitto, piuttosto che alla soluzione dei problemi fondamentali per l’umanità... Soltanto il 10% della spesa per la ricerca è dedicata ad affrontare il 90% dei problemi più urgenti nel mondo». La comunità scientifica ha tentato di resistere ai tentativi di ingabbiarla. Gli scienziati hanno creato una comunità globalizzata, che ha reso possibile quella grande circolazione di idee che ha portato allo straordinario sviluppo di conoscenze del secolo scorso. Ma proprio grazie a questi successi, la tecnologia è entrata sempre più nei processi produttivi e la ricerca ha finito per essere percepita come un elemento di natura economica, a cui applicare le leggi del mercato.
Dietro l’affanno a pubblicare i risultati ancor prima di una verifica tra la comunità scientifica c’è, forse, la pressione del «mercato», la necessità di ottenere risultati «visibile» per giustificare i costi della ricerca o per ottenere nuovi finanziamenti dagli sponsor. In questo modo si cercano i sentieri più facili, quelli che portano
direttamente sulle pagine dei quotidiani e sui set televisivi, tralasciando cammini più impervi che richiedono anni di «oscuro» lavoro di elaborazione e di studio. Così si rischia di stravolgere la vera missione della ricerca scientifica: la creazione di nuovo sapere.
Il rapporto fra ricerca, innovazione e sviluppo economico è certamente reale, ma va articolata su livelli di maggiore complessità. La scienza, infatti, è un lavoro collettivo di individui e gruppi, in un delicato equilibrio fra competizione e collaborazione. Alterare questa complessa alchimia, favorendo la competizione a danno della diffusione della conoscenza, fa inaridire la creatività e rischia di rallentare il progresso scientifico. Viceversa, quando il frutto della ricerca produce nuove idee diventa un palestra per preparare le persone a risolvere «problemi complessi» e contribuisce all’evoluzione complessiva della società. Ma per farlo, deve mantenere la sua libertà di azione, senza vincoli politici od economici, condizione che può essere garantita solo dall’intervento pubblico. E qui veniamo al caso specifico del nostro Paese: il taglio drastico ai fondi pubblici per la ricerca sta costringendo le Università e gli Epr a cercare risorse private con il rischio di mettere in discussione l’autonomia stessa della scienza.

Corriere della Sera 31.3.12
Dunant e gli altri, svizzeri che hanno fatto l'Italia
di Arturo Colombo


I centocinquant'anni dell'unità d'Italia — le cui celebrazioni ufficialmente si concludono proprio oggi — hanno visto fiorire una serie notevole di pubblicazioni.
Uno degli esempi più recenti è Il Risorgimento italiano e la Svizzera (il titolo di un saggio edito dalla Nicomp di Firenze, tel. 055.2654424), che è nato da un convegno di studi ricco di interesse, e soprattutto testimonia — come sottolinea l'ambasciatore Bernardino Reguzzoni — «il continuo intreccio della storia dei nostri due Paesi».
In queste pagine si ripropone — in modo certo sintetico ma estremamente originale — un tema poco noto come il notevole contributo offerto dalla Confederazione Elvetica al processo di unificazione del nostro Paese (del resto, la Svizzera è rimasta sempre straordinaria «terra ospitale» per quanti, fra noi italiani, sono stati costretti in differenti contesti storici a fare i «fuorusciti»!).
Ne Il Risorgimento italiano e la Svizzera — oltre all'efficace rievocazione che Carlo Moos fa di un personaggio come Carlo Cattaneo, che all'indomani del 1848, trova rifugio in Cantone Ticino, per l'esattezza a Castagnola, presso Lugano, dove passerà il resto della sua vita, fino al 1869, non solo insegnando al liceo ma anche approfondendo i temi a lui molto congegnali del federalismo —, spiccano soprattutto tre personalità svizzere che hanno saputo dare apporti, diversi eppure sempre significativi, alla causa dell'indipendenza del nostro Paese.
Basta considerare il ruolo svolto da Giovan Pietro Vieusseux, di famiglia ginevrina (un autore destinato a diventare molto caro anche a Giovanni Spadolini), che era arrivato a Firenze e fin dal 1819 aveva aperto un «gabinetto scientifico-letterario», per poi fondare la rivista «Antologia»: due iniziative — spiega Cosimo Ceccuti — che avevano raccolto i migliori ingegni d'Europa, ed erano diventati subito un centro di diffusione degli ideali del Risorgimento (tanto è vero che Giuseppe Mazzini vi esordì nel 1826, quando era poco più che ventenne).
Non meno rilevante è stato il ruolo svolto da un altro nativo di Ginevra, Henri Dunant — su cui si sofferma Paolo Vanni —, che aveva preso parte alla battaglia di Solferino nel giugno del 1859, ma soprattutto che si era fatto geniale promotore di una fondamentale istituzione come la Croce Rossa (e un simile personaggio emerge anche dal volume Henri Dunant, la pace e il filo d'Arianna per vincere il Minotauro, curato da Rachele Farina e pubblicato recentemente dall'Unione Femminile Italiana di Milano).
Ma forse la vera novità — quale ci propone Giovanni Cipriani — è Jean Debrunner, che era andato a Zurigo e nel 1848-49 era accorso in difesa della Repubblica Veneta, a capo di quella che si chiamava «compagnia dei cacciatori volontari svizzeri». Oltre al notevole apporto da lui fornito sul piano specificamente militare, il quadro che emerge dalle sue numerose e puntali relazioni costituisce ancor oggi un documento decisivo, per verificare quali fossero state le terribili condizioni delle caserme, delle prigioni e degli ospedali durante quei mesi, così carichi di speranze e di dolori.

Repubblica 31.3.12
Lo Psico comunista
Zizek: Credo nell´emancipazione ma non rinuncio alla democrazia
"Tutti i nostri problemi, dalla crisi all´ambiente, sono problemi del vivere insieme: io questo senso parlo di comunismo"
"Su Occupy Wall Street sono cauto, anche se ha avuto il merito di essere il primo movimento che non cavalca un solo tema"
Il filosofo sloveno racconta, in una lunga intervista di cui pubblichiamo un estratto, le sue posizioni politiche
di Wolfram Eilenberger Svenja Flasspölher


Perché lei, Slavoj Zizek, si interessa tanto alla psicoanalisi? «Per un solo, unico motivo! Arrivare a una nuova comprensione di Hegel. Questo è il vero nucleo del mio lavoro: il mio maniacale entusiasmo per Hegel. Ho appena scritto un libro su Hegel, lo stanno stampando ora, uscirà in inglese tra circa tre mesi. È una roba da matti, più di mille pagine su Hegel».
In un suo libro, afferma che il comunismo rappresenta l´unica via d´uscita dall´attuale crisi sociale…
«Davvero ho detto questo?».
In che senso il comunismo è la soluzione?
«Okay, ecco la mia posizione ufficiale a riguardo. Innanzitutto, so di avere un piccolo problema di pubbliche relazioni. Molti miei amici, ma anche persone con cui non ho rapporti di amicizia, mi chiedono: perché non lasci finalmente perdere questo stupido concetto di comunismo, che porta con sé così tante implicazioni infelici?».
E perché non lo fa?
«Posso darvi tre motivazioni. Da buon freudiano, so che quando si danno troppe motivazioni ci si rende subito sospetti (ride). Primo: vorrei sottolineare che, nonostante tutto, esiste una ben definita tradizione del comunismo che non ha proprio nulla a che fare con lo stalinismo. Ad esempio la linea radicale ed emancipativa rappresentata dal millenarismo, con la sua credenza nella fine dei tempi. Il regno eterno è qui! È possibile trovarla nel cristianesimo, nella rivolta spartachista, nella guerra dei contadini e così via. Ritengo questa tradizione molto importante, mi piacerebbe portarla avanti».
E la seconda motivazione?
«Il problema di tutti gli altri concetti, ad eccezione del comunismo, è che sono compromessi nel senso esattamente opposto: sono troppo leggeri da digerire. Prendiamo il concetto di "solidarietà". Perfino Hitler avrebbe potuto parlare di solidarietà. O "dignità" – ma è chiaro, tutto dipende da cosa intendiamo per "dignità". Vedete, la parola comunismo almeno è destabilizzante: fa capire che non stiamo qui a prenderci in giro, a parlare di concetti onorati e vuoti, come quello di "maggiore giustizia"».
E la terza ragione?
«Forse è addirittura un bene che questo concetto sia gravato da una storia così spaventosa. Essa ci ricorda che progetti di una tale portata pratica sono sempre intrisi di pericolo. (...) Ma la mia vera risposta, quella definitiva, è: la parola "comunismo", come sottolineo più volte nel mio libro, non è il nome della soluzione, bensì quello del problema».
Di quale problema?
«Se si esaminano le questioni di fronte a cui ci troviamo oggi – l´inquinamento dell´ambiente, il capitalismo finanziario, la biogenetica, la difesa della proprietà intellettuale – tutti questi sono "problemi del vivere insieme, in comune": riguardano un ambito che sfugge sia al controllo dello Stato che alle soluzioni pensabili nell´ambito privatistico dell´economia di mercato. Il concetto di "comunismo" (dal latino communis) per me, quindi, identifica il problema. (...)».
Parliamo del movimento Occupy Wall Street. Secondo lei contribuisce, sia pure per piccoli passi, a cambiare le cose, o invece è parte del problema?
«Chi vivrà vedrà, sono molto cauto. La mia opinione su Occupy Wall Street però è la seguente: l´esistenza di esso è significativa, dato che si tratta del primo movimento, negli Stati Uniti, che è riuscito a ottenere una vasta eco sociale e non si occupa di un unico tema, ad esempio solo di razzismo o solo dell´indebitamento creato da speculazioni finanziarie. La gente si è accorta che c´è qualcosa che non va nel sistema. Ma non mi piace la formula "è colpa del capitale finanziario"».
Perché no?
«Il problema è in realtà: qual è la logica alla base dell´odierno sistema capitalistico che permette al capitale finanziario di agire così? Si tratta di una coazione sistemica. I banchieri sono cattivi da sempre – che strano, eh? Non bisogna dare la colpa solo ai banchieri di oggi! È un´idiozia! E penso che l´errore più grave che si possa commettere sia moralizzare questa crisi» (...).
Lei affermerebbe che la nostra attuale forma di democrazia non è in grado di combattere il capitalismo?
«No, no, no, direi quasi il contrario! Certo, la libertà di cui disponiamo è solo formale – ma questo è comunque l´unico ambito in cui la libertà può esistere. Nel momento in cui si abolisce la democrazia formale, non si ottiene la vera democrazia. Piuttosto, si perde la democrazia in quanto tale. Il solo spazio di libertà che abbiamo si trova nel campo intermedio tra la democrazia formale e le forme effettive della nostra illibertà... Si deve cominciare a pensare la politica al di là delle ristrette definizioni proprie dello Stato multipartitico. Voglio dirlo in questi termini: io odio il Sessantotto. Troppa libertà, troppo divertimento. Ma almeno una cosa l´hanno capita: il personale è politico e tutta quella roba là. Non sono cose che vadano sopravvalutate, sia ben chiaro, ma naturalmente sono giuste: l´oppressione delle donne, le strutture famigliari, quello che succede nelle fabbriche… anche in questi ambiti si pongono questioni di libertà, di politica. E qui, a mio parere, si innesta il problema più serio: non si dovrebbe far fuori la democrazia formale. Però, allo stesso tempo, come fare a includere questi ambiti nel processo politico?».
Traduzione di Eleonora Piromalli © Philosophie Magazin

Repubblica 31.3.12
Gli intellettuali e la passione per la catastrofe
di Slavoj Zizek


Dicono che in Cina, se si odia veramente qualcuno, lo si maledice così: «Che tu possa vivere in tempi interessanti!». Storicamente i «tempi interessanti» sono stati periodi di irrequietezza, guerra e lotte per il potere che hanno portato sofferenze a milioni di innocenti. Oggi ci stiamo chiaramente avvicinando a una nuova epoca di tempi interessanti. Dopo decenni di Stato sociale, in cui i tagli finanziari erano limitati a brevi periodi ed erano sostenuti dalla promessa che le cose sarebbero ben presto tornate alla normalità, stiamo entrando in un nuovo periodo in cui la crisi economica è diventata permanente, è ormai un semplice modo di vita.
Questi cambiamenti non possono che frantumare la comoda posizione soggettiva degli intellettuali radicali, ben rappresentata da uno dei loro esercizi mentali preferiti lungo tutto il Novecento: l´impulso a «catastrofizzare» la situazione. Qualsiasi fosse la situazione presente, doveva essere dichiarata «catastrofica», e più le cose sembravano positive, più ci si compiaceva in questo esercizio; quindi, a prescindere dalle nostre differenze «puramente ontiche», prendiamo tutti parte alla stessa catastrofe ontologica. Heidegger accusò la nostra epoca di essere quella del «pericolo» estremo, del nichilismo compiuto; Adorno e Horkheimer videro in essa l´apice della «dialettica dell´illuminismo» nel «mondo amministrato»; Giorgio Agamben è arrivato perfino a definire i campi di concentramento del Novecento come la «verità» dell´intero progetto politico occidentale. Era come se la battuta ironica di Churchill – la democrazia è il peggior sistema politico possibile, se si escludono tutti gli altri – venisse ripetuta in forma seria: la «società amministrata» dell´Occidente è pura barbarie celata sotto le spoglie di civiltà, l´estremo limite dell´alienazione, la disintegrazione dell´individuo autonomo e così via; e tuttavia, dal momento che tutte le altre strutture socio-politiche sono peggiori, tutto sommato non ci resta alternativa che sostenerla... Siamo dunque tentati di proporre un´interpretazione radicale di questa sindrome: forse ciò che questi infelici intellettuali non riescono a sopportare è il fatto di condurre una vita fondamentalmente felice, sicura e comoda, e così, per giustificare la loro più elevata vocazione, sono costretti a costruire uno scenario di catastrofe radicale.
Sotto trattamento psicoanalitico si impara a fare chiarezza sui propri desideri: voglio veramente ciò che penso di volere? Prendiamo il caso proverbiale di un marito coinvolto in una passionale relazione extraconiugale, che sogna il giorno in cui la moglie scomparirà e così lui sarà libero di vivere con l´amante; quando questo finalmente accade, il suo intero mondo collassa e lui scopre che dopo tutto non vuole veramente l´amante. Come dice il vecchio proverbio: c´è solo una cosa peggiore del non avere ciò che si vuole, e cioè arrivare ad averlo. Gli accademici di sinistra si stanno oggi avvicinando a un tale momento di verità: volevate un cambiamento vero, ora l´avrete!

venerdì 30 marzo 2012

l’Unità 30.3.12
Camusso: il Parlamento ha il dovere morale di ascoltare i lavoratori
di Giuseppe Vespo


La controriforma del mercato del lavoro non passerà. Susanna Camusso lancia la sfida al governo Monti dal palco della Camera del Lavoro di Milano, per l’occasione talmente affollata da costringere la segreteria milanese della Cgil a montare degli amplificatori fuori dall’edificio.
La sindacalista è alle prese con un tour per l’Italia per spiegare le ragioni della mobilitazione: pensioni, esodati che sono i temi al centro della manifestazione unitaria del 13 aprile ma soprattutto difesa dell’articolo 18 e dei diritti dei lavoratori. «La gente ha capito di cosa stiamo parlando dice Camusso dal palco milanese e se il Paese lo vorrà, la controriforma del lavoro non passerà». Ma per riuscire nell’impresa c’è bisogno di tutti, anche di «Confindustria e delle associazioni», che hanno chiesto delle modifiche alla norma.
Il sindacato ha organizzato la sua campagna suddividendo le 16 ore di sciopero indetto in due blocchi: le prime otto ore sono destinate agli scioperi, alle assemblee e alle diverse iniziative nei vari luoghi di lavoro; le altre otto ore saranno spese in blocco nello sciopero generale che arriverà quando il disegno di legge sul Lavoro approderà alle fasi finali della discussione parlamentare. «Continueremo il 25 aprile e il Primo maggio e in tutti gli appuntamenti che abbiamo davanti e continueremo quando il dibattito sarà in Parlamento». La data dello sciopero generale sarà decisa «quando capiremo che è il momento in cui bisogna dare la risposta generale».
Perché la guerra sul lavoro si vince sul terreno del consenso: sull’articolo 18 «il governo ha deciso uno strappo, ha immaginato che il consenso fosse tale da consentire questa operazione, ma non ha funzionato». Un concetto che la sindacalista ribadisce anche su twitter, sicura com’è che «sui licenziamenti facili» Monti «non ha convinto nessuno», perché «la riforma cambia brutalmente diritti in essere». La strategia di Corso d’Italia è chiara: conquistare lavoratori e società civile per puntare alle Camere, che hanno «il dovere morale, non il dovere tecnico, di guardare a cosa pensa il Paese e a cosa pensano i lavoratori». Concetti che mettono in allarme il Pdl, che vuole portare a casa il pacchetto del governo così com’è, escludendo qualsiasi passo indietro.
È presto per dire come andrà a finire ma la Cgil sente di avere «il passo di chi resiste e continua a farlo e non quello di chi ha preoccupazioni o qualche paura. Non siamo sicuri di vincere, ma siamo sicuri della nostra battaglia. Noi non basiamo le nostre ragioni sui sondaggi che sono mutevoli ma sulla conoscenza della realtà e dei suoi problemi».
Parole che la segretaria di Corso Italia ripeterà nei prossimi giorni alle riunioni con i delegati di Bologna, Parma, Cremona e Pavia. Intanto da Milano rilancia la lotta su pensionati e esodati, entrambi pesantemente colpiti dal pacchetto governativo «Salva Italia». In particolare i secondi, oggi si trovano senza pensione e senza stipendio: per Camusso è «scandaloso» che neanche l’Inps «sia in grado di quantificare il problema», ovvero il numero di queste persone.

La Stampa 30.3.12
Fallita l’offensiva diplomatica del premier col Pd
Bersani rifiuta “scambi” tra lavoro e Rai
di Fabio Martini


Il professor Monti entra nella hall del Grand Hyatt, scorge il drappello dei giornalisti in attesa, allunga il passo, a quel punto dal crocchio gli chiedono se sia possibile «una domanda», ma lui tira dritto: «No, grazie». E’ la conferma di una ritrovata riservatezza da parte del Professore, un riserbo che il suo staff nelle ore precedenti aveva anticipato e spiegato: una volta letti i giornali, Monti non ha gradito l’enfasi con la quale i mezzi di informazione hanno riportato, decontestualizzandole, le sue riflessioni di due giorni fa sul fatto che il governo sembra godere di maggiori consensi rispetto ai partiti, almeno secondo quanto segnalano i sondaggi. In realtà, nei primi tre giorni del suo importante viaggio in Estremo Oriente, il presidente del Consiglio ha completamente ribaltato la sindrome da accerchiamento che coglie i leader italiani all’estero, costretti quasi sempre a rintuzzare polemiche che si accendono in patria in conseguenza della loro assenza. Invece Monti, lunedì da Seoul e poi mercoledì da Tokyo, ha preso di mira il «quartier generale», con esternazioni a tutto campo sul difficile rapporto governopartiti, sortite che si potrebbero sintetizzare in un concetto: io il consenso non lo cerco, ma ce l’ho, voi partiti l’avete perso.
Ma le robuste reazioni di Pier Luigi Bersani, qualche editoriale critico e il timore di essere travisato hanno consigliato a Monti di restare per un giorno in silenzio. Ma non con le mani in mano. Per via telefonica il presidente del Consiglio ha cercato di riannodare i fili lasciati prima di partire, domenica pomeriggio. E proprio in quelle ore Monti aveva consumato un'offensiva sul Pd, assai significativa per le ragioni dell'insuccesso. Preso atto che il veto di un partito decisivo della maggioranza come il Pd sull’articolo 18 non è valicabile come quello espresso dalla Cgil, il presidente del Consiglio aveva informalmente fatto sapere al Pd di essere pronto a mettere in campo una iniziativa importante sul rinnovo dei vertici Rai. Naturalmente Monti si è ben guardato da alludere a «scambi» la Rai in cambio dell’articolo 18 -, ma se Bersani fosse andato a «vedere», un’ipotesi di quel tipo avrebbe potuto prendere corpo. Ma il segretario del Pd, per via informale, ha fatto sapere a palazzo Chigi che il suo partito, pur pronto a «dialogare», ritiene che le questioni affrontate dal ddl lavoro in qualche modo siano a sé stanti e non scambiabili né con quelle dalla Rai, né con quelle della giustizia, pur molto importanti.
Questa mattina Mario Monti partirà per la tappa più importante del suo viaggio in Asia: oggi e domani sarà a Pechino dove incontrerà il primo ministro Wejn Jiabao, mentre lunedì parteciperà al «Boao Forum», una sorta di Davos asiatica. Ieri ultima giornata della visita di due giorni in Giappone, nel corso della quale, oltre al primo ministro Noda, ha incontrato anche alcuni dei personaggi più influenti della finanza e dell’economia giapponese, ai quali Monti ha cercato di proporre la «nuova» Italia come area di remunerativi investimenti. Un Paese, il Giappone, in recessione da anni, afflitto da un debito pubblico formidabile (il 250%), talmente appesantito dalla tragedia di Fukushima che non era mancata nei giorni scorsi la richiesta a Monti, se ne avesse trovato il tempo, di visitare una delle attrazioni turistiche del Paese. Dopo qualche ripensamento (Kyoto è stata scartata perché nel consolato è stato recentemente reintegrato Mario Vattani, protagonista di episodi molto controversi), ieri Monti ha visitato l’antica capitale di Kamamura. E comunque anche in Giappone (come già negli Usa, in Germania, in Francia, in Inghilterra) il passaggio di Monti è stato salutato dai giornali più autorevoli con grandi applausi: «Il governo di Monti, nato dalla crisi, sta diventando sempre più autorevole, oltre ogni aspettativa», ha scritto ieri il giornale economico Nikkei.

La Stampa 30.3.12
Lusi, scontro nella ex Margherita
Dal Pd duro attacco ai vertici del partito ormai sciolto. Il prodiano Monaco: “Si facciano da parte”
di Grazia Longo


Tensioni L’appropriazione indebita dei fondi dell’ex Margherita oltre alle probabili conseguenze penali per l’ex tesoriere Luigi Lusi sta creando forti tensioni tra gli ex alleati di Francesco Rutelli

I problemi dell’ex Margherita corrono su un doppio binario. Giudiziario e politico. L’inchiesta della procura, per appropriazione indebita di 20 milioni di euro dai rimborsi elettorali, vede l’indagato, l’ex tesoriere Luigi Lusi, scaricare le sue responsabilità sul partito che però replica smentendo e annunciando querele.
Ma s’intravedono guai anche all’orizzonte politico. Tanto più che le critiche piovono anche dagli ex compagni di viaggio del Partito democratico. Come Franco Monaco, della direzione nazionale, che invita i leader dell’ex Margherita «a chiedere scusa agli italiani e farsi da parte. Come può, chi aveva responsabilità di vertice, restare in politica e candidarsi a quale che sia carica pubblica dopo quanto accaduto? Chi mai potrebbe fidarsi?». Perché, secondo il Pd Monaco, al di là di eventuali reati «c’è il fronte delle responsabilità politiche da accertare senza indugio: quelle di chi ha omesso la vigilanza».
Non è tanto tenero neppure il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ex Margherita attualmente Pd: «Lusi ha chiaramente responsabilità penali, perché ha rubato ed è reo confesso. Ma i vertici della Margherita hanno sbagliato a non controllare. E questa è una grave colpa politica». Secondo Renzi è indispensabile controllare chi gestisce il denaro pubblico: «Se un dirigente del Comune di Firenze ha in mano i soldi dei cittadini fiorentini, io lo marco stretto». Un modo per dimostrarsi trasparenti, secondo Renzi, è pubblicare su Internet tutti i dati sui fondi dell’Ex Margherita e di tutti i partiti. Invito che non spaventa minimamente l’avvocato della Margherita Titta Madia. «Sarà fatto sicuramente perché non c’è niente da nascondere. I consulenti incaricati da Rutelli di ripercorre tutte le tappe delle spese stanno lavorando alacremente, ma devono attendere ovviamente l’attività giudiziaria in corso. Non appena la Guardia di Finanza avrà terminato i controlli sugli assegni e sui bonifici emessi da Lusi, sarà tutto pubblicato nella Rete».
Si dovrà attendere l’estate. Entro quel termine è prevista la chiusura delle indagini. Ieri è stato interrogato Emanuele Lusi, nipote dell’ex tesoriere della Margherita: ha confermato di avere ricevuto dallo zio un prestito di 360 mila euro, ma di aver ignorato che il denaro provenisse dalle casse del partito. Davanti all’aggiunto Alberto Caperna e al pm Stefano Pesci, Emanuele Lusi, marito di Micol D’Andrea, intestataria dell’usufrutto, per gli inquirenti fittizio, della villa di Ariccia (motivo per cui risulta indagata), ha precisato che la somma serviva in parte (120 mila euro) per l’acquisto di un appartamento in via Salaria (valore 900 mila euro) e la parte rimanente per la prima tranche dell’usufrutto della villa di Ariccia. Il senatore Lusi aveva spiegato agli inquirenti che la donna era ignara di ciò che c’era dietro l’operazione. Il nipote ha poi confermato anche la paga mensile di 250 euro, dai fondi della Margherita, «per il sito politico personale di mio zio».
Francesco Rutelli, Enzo Bianco e Giampiero Bocci respingono tutte le accuse di Lusi e sottolineano che il caso è stato chiuso «con il sigillo della Procura: Lusi non ha potuto che mettere a verbale la propria incapacità di indicare il nome di un solo dirigente che fosse a conoscenza delle sue attività predatorie». Solidali con loro, il vicesegretario del Pd Enrico Letta e l’ex ministro Paolo Gentiloni. Rutelli annuncia che alla prossima Assemblea Federale, ci sarà la liquidazione del partito e l’attribuzione delle risorse residue. Chissà se per rispondere ai cosiddetti «autoconvocati» della Margherita che hanno chiesto l’Assemblea per fare trasparenza sui bilanci e che minacciano un esposto in procura.

La Stampa 30.3.12
“Diffamazione” Rutelli porta l’Unità in tribunale
di R. I.


«Non è mai esistito un “accordo” per la destinazione delle risorse della Margherita». Si legge in una nota di Francesco Rutelli, Enzo Bianco e Gianpiero Bocci. «La legittima e doverosa destinazione di risorse si precisa nei 10 anni di vita della Margherita non è mai stata effettuata sulla base di una ripartizione per aree e correnti».
I fondi «destinati al personale, alle attività politiche, alle elezioni, ai servizi, ad Europa sono stati disposti direttamente dal Tesoriere, come da Statuto e da sua precisa responsabilità. L’individuazione di quote percentuali, come riportate da alcuni giornali, è priva di fondamento».
«Il quotidiano l’Unità, in particolare, sarà immediato oggetto di azione giudiziaria, per aver pubblicato addirittura un’indicazione economica di un’inesistente spartizione, mai verificatasi. La Magistratura dispone da ormai settimane di tutti i documenti contabili del partito, per cui ogni illegalità, da chiunque compiuta, potrà essere sanzionata; i nostri consulenti stanno predisponendo bilanci puntuali e rigorosi per l’approvazione dell’Assemblea Federale».

l’Unità 30.3.12
I doveri dell’Unità e il rischio della cronaca
di Claudio Sardo


Il caso di Luigi Lusi è sconvolgente. Innanzitutto per le ammissioni che lui stesso ha fatto. Soldi pubblici dirottati verso destinazioni privatissime: roba che sul piano del degrado etico sopravanza persino l’epilogo della Prima Repubblica. Ma il caso Lusi è sconvolgente anche perché getta discredito sul centrosinistra di cui ha fatto parte, perché infanga l’idea stessa di politica in un passaggio così tormentato per il Paese e le sue istituzioni, perché insinua nei confronti di chi gli è stato vicino dubbi e sospetti insopportabili.
Lo scandalo ci impone comunque di affrontare questioni politiche (e anche professionali) non meno importanti di quelle giudiziarie. La questione politica più rilevante riguarda indubbiamente l’onore e la dignità della Margherita. Un’esperienza politica breve, ma decisiva per la nascita del Partito democratico e per il suo orizzonte riformista. Non c’è dubbio che questa vicenda stia ora offrendo il destro per colpire, attraverso accuse generiche e insinuazioni rivolte ai dirigenti della Margherita, l’intero Pd. Non è certo la sola offensiva che i democratici devono fronteggiare. Ma è
molto insidiosa: perché, come ha scritto Pierluigi Castagnetti su l’Unità, delegittimare le ragioni fondative vuol dire snaturare il progetto del Pd, sfigurarne il profilo.
Questa consapevolezza tuttavia non può indurre nessuno ad abbassare la guardia, né consente alibi. La magistratura deve fare il suo lavoro fino in fondo. E speriamo che giunga a provvedimenti rapidi e severi. La politica, per parte sua, deve applicare verso se stessa criteri rigorosi, più di quanto non farà la giustizia ordinaria. Anche per noi giornalisti c’è un dovere supplementare di rigore e di serietà. L’Unità ha sempre dimostrato la propria libertà e la propria etica professionale nell’affrontare casi giudiziari che hanno riguardato uomini del centrosinistra.
Per questo ci amareggia l’annuncio di una querela della Margherita contro di noi. Ci rendiamo conto che il solo riferire le dichiarazioni di Lusi possa prestarsi a insinuazioni e attacchi strumentali contro i dirigenti della Margherita: e questo non è mai stata intenzione di questo giornale. Ieri ci è stato contestato di «aver pubblicato addirittura un’indicazione economica di un’inesistente spartizione, mai verificatasi». Il nostro obiettivo è sempre stato soltanto quella di offrire informazioni ai lettori: il lavoro di cronaca comporta dei rischi e il rischio di sbagliare è per noi il più pesante. È vero che quando trattiamo vicende che riguardano il centrosinistra siamo portati a rischiare di più: ma questa è la prova della nostra buona fede. Anche quando commettiamo errori. In ogni modo penso che si possa riconoscere che la responsabilità di eventuali diffamazioni o calunnie nei confronti dei dirigenti della Margherita siano da attribuire a chi al magistrato ha dichiarato la spartizione. L’Unità resta ciò che i lettori conoscono: non poteva e non potrà rinunciare in futuro al lavoro di cronaca e ai suoi rischi.
C’è infine un’ultima questione che riguarda tutti. Le tensioni che provoca il caso Lusi e l’immoralità di sospetti generici, lanciati da una persona che invece ha ammesso ruberie, hanno fondamento in un grave errore politico. Che per fortuna è stato riparato sul piano legislativo. Le norme sui rimborsi elettorali non devono consentire erogazioni pubbliche a favore di partiti che hanno concluso la loro attività. Quell’errore non va mai più ripetuto e, se alla nascita del Pd i partiti fondatori avessero avuto il coraggio di concordare la messa in comune delle attività e anche definire la copertura dei debiti pregressi, oggi probabilmente la storia sarebbe diversa.

l’Unità 30.3.12
Diritto d’autore web: censure dall’Agcom


Ill mondo del web è già in rivolta, o per lo meno in allarme: in vista regole censorie per chi scarica dalla rete, con l’intento di tutelare il diritto d’autore. Ieri, infatti, sul sito de La Stampa è comparsa quella che dovrebbe essere una «bozza» del regolamento che l’Agcom, l’Authority per le Comunicazioni, starebbe per varare, come aveva annunciato il presidente, Corrado Calabrò in Senato.
Si parla di infatti di un regolamento del governo ma affidato all’Agcom (senza una legge ad hoc) che in pratica rende possibile «staccare la spina», o meglio il collegamento internet, a chi viola le regole sul copyright, magari scaricando un film o un disco. Il comma 2 della «bozza» pubblicata sul sito, prevede che «in caso di violazione dei conseguenti ordini e delle diffide emanati dall’Autorità», oltre alle sanzioni pecuniarie (sempre previste dall’Agcom), l’Authority stessa «possa disporre, in casi di particolare gravità ovvero se le violazioni dovesse-
ro ripetersi, la completa disabilitazione dell’accesso al servizio telematico oppure, nel caso in cui sia tecnicamente possibile, ai soli contenuti resi accessibili in violazione delle norme sul diritto d’autore».
Insomma, «una norma apparentemente interpretativa in realtà è una norma censoria, una “Hadopi” italiana. Speriamo che il governo ci ripensi», commenta Vincenzo Vita, che, insieme a Luigi Vimercati, spera non siavera«la“bozzadileggina”chedovrebbe autorizzare l’Agcom ad occuparsi del diritto d’autore su internet». Perché, spiegano i due senatori, deve essere il Parlamento a legiferare su una materia così controversa, e rimasta alla legge del 1941 sul diritto d’autore. Tra l’altro, proseguono, «appare una norma pericolosa che può dar adito ad un taglio fortemente censorio del futuro regolamento sul diritto d’autore. Un impianto che va oltre lo stesso prudente  orientamento fin qui manifestato dal presidente Calabrò». N.L.

il Riformista 30.3.12
Non ce l’abbiamo fatta


di Emanuele Macaluso

In queste ultime settimane abbiamo reso noto ai nostri lettori le difficoltà che incontravamo per continuare a pubblicare il Riformista. Oggi con grande amarezza vi diciamo che tutti i tentativi fatti per salvare il salvabile, non hanno avuto esito positivo. L’assemblea dei soci, quindi, ha deciso di affidare a un liquidatore l’amministrazione della cooperativa e di sospendere la pubblicazione del giornale. Dico sospendere perché, a norma di legge, se c’è un editore che mostra con i fatti di essere in grado di riprendere la pubblicazione,la liquidazione può essere revocata. A chi nei giorni scorsi si è fatto avanti gli amministratori della cooperativa hanno mostrato carte e conti, che sono in perfetto ordine e alla luce del sole, e la disponibilità a sostituire soci e direttore. Ad oggi nessuno ancora ha deciso di fare il passo decisivo, spero che ci sia chi lo faccia in questi giorni in cui opera solo il liquidatore.
Tuttavia, comunque vadano le cose, da oggi non sarò più il direttore di questo giornale. Avevamo accettato l’offerta dei vecchi editori (sempre incombenti) di provare a resuscitare il giornale già chiuso, entro un anno, solo se si realizzavano tutti gli impegni contrattuali e se il contributo pubblico non fosse stato decurtato. Non è stato così. L’anno che ormai è alle nostre spalle è stato denso di avvenimenti politici e sociali che abbiamo commentato quotidianamente con un nostro punto di vista. E l’abbiamo fatto con ragionamenti pacati anche in momenti in cui lo scontro politico e mediatico era furibondo tra berlusconiani e antiberlusconiani.
Abbiamo scelto una linea, il riformismo socialista ed europeista, come punto di riferimento essenziale alle forze conservatrici in Italia e in Europa. Abbiamo sollecitato l’unità del movimento sindacale come condizione ineludibile per fronteggiare i marosi della crisi che investe l’Europa e particolarmente il nostro paese, per non fare pagare il conto solo al mondo del lavoro. L’abbiamo fatto ponendo con forza l’esigenza di un’opera – anche da parte del sindacato – che metta al centro l’interesse generale e salvezza del paese. Questo anche per evitare che lo scontro sociale si verifichi nelle condizioni in cui l’abbiamo visto in Grecia e ora in Portogallo e Spagna. Abbiamo messo al centro del nostro impegno la battaglia per i diritti civili e un garantismo alternativo a quello peloso di chi, con il suo agire e le sue leggi, ha mortificato la giustizia. Le pagine del giornale sui temi internazionali e della cultura hanno dato un esempio di informazione puntale e di scelte in sintonia con tutte le forze che si battono per la pace, contro ogni razzismo ed egemonismo per la libertà della cultura in Italia e in ogni parte del mondo.
Avevamo messo in orbita anche un domenicale, curato da Paolo Franchi, Ragioni, per dare più senso alla nostra battaglia politico culturale. Come è noto in passato ho diretto un grande quotidiano e riviste della sinistra e ho collaborato a tanti giornali, ho conosciuto il mondo dell’informazione sin dalla rinascita della stampa libera in Italia. Il Riformista è un piccolo ma significativo quotidiano con redattori giovani e di qualità che spero possano continuare a scrivere e lavorare in questo giornale; e un personale “tecnico” di eccezionale professionalità e disponibilità.
Sono particolarmente grato a Marcello Del Bosco che, con professionalità e abnegazione, ha condiviso con me la direzione del giornale. Ringrazio chi ha collaborato scrivendo sul Riformista. Ricorderò tutti con affetto. Mi dispiace che in un momento difficile per il giornale, e amarissimo per me, ci sia stato qualcuno che in redazione con il suo agire scorretto mi ha costretto a chiudere in modo brusco il mio impegno che ho profuso con disinteresse e passione. Infine, voglio ribadire che non ce l’abbiamo fatta, anche per ragioni politico-editoriali, per nostre, soprattutto mie, deficienze. Non ce l’abbiamo fatta, come ho detto in altre occasioni, anche perché chi poteva darci una mano, soprattutto il movimento cooperativo con la pubblicità che concede a destra e a manca, ma anche il sindacato, non ce l’ha data.
E’ un segno dei tempi. Ma non mi arrendo. E con me Gianni Cervetti che ha condiviso questa avventura. In un modo o in un altro, per quel che mi riguarda personalmente, finché avrò forze fisiche, continuerò la mia battaglia.
Grazie a tanti lettori e amici che in questi giorni mi hanno mostrato solidarietà e stima.

il Riformista 30.3.12
Comunicato dell’assemblea dei redattori


Prendiamo atto con profondo rammarico e completo dissenso della decisione votata a stretta maggioranza dall’Assemblea dei soci di procedere alla liquidazione immediata della cooperativa che edita questo giornale e alla immediata sospensione delle pubblicazioni. Rendiamo noto che tre giornalisti su sette membri hanno votato contro.
L’assemblea di redazione giudica inaccettabile e gravissimo l’atto di liquidazione che, di fatto, rende difficile l’interessamento di possibili acquirenti. Chiediamo ai vertici di Fnsi, di Stampa romana, dell’ordine dei giornalisti, al mondo politico, alle forze sociali, agli intellettuali che hanno scritto sul nostro giornale e a tutti i nostri lettori di tenere ancora accese le luci e l’attenzione sulle sorti di questo quotidiano.
Nei suoi dieci anni di vita il Riformista è stato una voce libera, indipendente, coraggiosa, plurale, sempre appassionata, che ha ospitato idee di ogni schieramento, di tutte le aree culturali. La sua fine rappresenta un impoverimento del dibattito pubblico del nostro paese. E la sua fine, per come è avvenuta, rappresenta una ferita per l’intera redazione.
Ai giornalisti, che avevano accettato sacrifici firmando lo stato di crisi tre mesi fa e accettando i contratti di solidarietà, è stato negato dai vertici del giornale il confronto, l’ascolto, un tavolo sindacale, la reale volontà di cercare insieme una via d’uscita. E, soprattutto, è stata negata la verità sui conti e sugli accordi con la precedente gestione, che sarebbero la motivazione vera della chiusura.
Con maggiore chiarezza, ci sarebbe stata una fine meno ingloriosa di questa.
L’ASSEMBLEA DI REDAZIONE DEL RIFORMISTA

Repubblica 30.3.12
"Anche l’Italia responsabile della morte dei migranti"
Naufragio durante la guerra in Libia, il Consiglio d´Europa accusa Guardia costiera e Nato
"Le richieste di soccorso furono ignorate da pescherecci e da navi militari"
di Giampaolo Cadalanu


Se i comandanti avessero seguito la legge del mare, se l´Italia avesse fatto il suo dovere, se la Nato non avesse ignorato gli appelli, i 63 migranti morti sulla barca alla deriva nel Mediterraneo nella primavera scorsa si sarebbero salvati. È una prima condanna, sia pure solo politica, il primo risultato dell´indagine aperta dal Consiglio d´Europa e curata dalla parlamentare olandese Tineke Strik. «Queste persone non dovevano morire», dice il documento intitolato Vite perse nel Mediterraneo: chi è responsabile. E la Tineke punta il dito prima di tutto sul nostro Paese, perché è stata la Guardia Costiera italiana a ricevere la prima richiesta d´aiuto, inoltrata il 27 marzo 2011 dal sacerdote eritreo Mussie Zerai, a sua volta contattato dai migranti disperati nel gommone alla deriva. Va aggiunto che a Bruxelles in quei giorni alla guida del comitato militare della Nato era l´ammiraglio Giampaolo Di Paola, oggi ministro della Difesa del governo Monti: la relazione della Strik non lo sottolinea, ma è evidente che l´ammiraglio non poteva non sapere quello che stava succedendo al largo delle coste libiche.
Dopo nove mesi di inchiesta, il giudizio è severo: «Se i diversi attori fossero intervenuti, si sarebbe potuto mettere in salvo i migranti in molte occasioni. Molto si deve ancora fare per evitare che persone muoiano nel disperato tentativo di raggiungere l´Europa». È vero che le acque del Mediterraneo non sono pietose: l´anno scorso sono morte almeno 1500 persone nel tentativo di raggiungere l´Europa. Ma stavolta, sottolinea la relazione della Strik, il caso è diverso, perché «appare che le richieste di soccorso siano state ignorate da pescherecci, navi militari e da un elicottero militare». Il contatto con quest´ultimo, secondo le testimonianze dei nove sopravvissuti raccolte nella bella inchiesta della Radiotelevisione svizzera Rsi, è stato quasi una beffa: il velivolo militare ha girato a lungo sulla barca, si è allontanato, è tornato solo per lanciare qualche pacchetto di biscotti e poche bottiglie d´acqua.
La condanna a morte per i 63 disperati è dovuta a una serie di "errori": non solo l´Italia e Malta non hanno dato seguito all´allarme lanciato dal Guardacoste, ma anche «la Nato non ha risposto alla richiesta di soccorso, anche se c´erano navi dell´Alleanza vicino alla zona da dove era stata lanciata la richiesta». In particolare, secondo quanto la Strik è riuscita a ricostruire, c´era una nave spagnola, la "Méndez Núñez", ad appena 11 miglia, (dato discusso dalla marina di Madrid), mentre l´italiana "Comandante Borsini" era a 37 miglia. Non è chiaro a quale nave appartenga l´elicottero che ha portato i pochi rifornimenti: entrambe hanno a bordo un velivolo, ma in nessun caso riporta sulla fiancata la dizione "Army", come raccontato dai superstiti. Le testimonianze dei sopravvissuti vengono considerate «credibili» dalla relatrice dell´inchiesta, anche quando parlano di un´altra nave militare, descritta come «molto grande», che si era avvicinata molto al gommone il decimo giorno, ma senza fornire nessuna assistenza. I marinai si erano limitati a osservare con i binocoli e fotografare i migranti.
Di chi sia stata la decisione ultima che ha condannato 63 esseri umani a morire di sete, di fame, o fra le onde, la Strik non lo dice. Il rapporto parla di «fallimento collettivo di Nato, Onu e dei singoli Stati nel pianificare gli effetti le operazioni militari in Libia e nel prepararsi per un atteso esodo via mare». Ma la storia non finisce qui: il documento della Strik sarà al centro del dibattito all´assemblea del Consiglio d´Europa, il 24 aprile prossimo. Con la speranza che le conclusioni non siano: colpa di tutti, quindi di nessuno.

La Stampa 30.3.12
Con Mélenchon la gauche radicale riempie le piazze
Francia, il candidato comunista la vera sorpresa
di Alberto Mattioli


Ognuno ha la sua Marine Le Pen. Quella di François Hollande si chiama Jean-Luc Mélenchon. Se madame Le Pen fa sanguinare Nicolas Sarkozy sulla destra, Mélenchon salassa il candidato socialista sulla sinistra. E, con il suo Front de Gauche, rischia davvero di diventare l’unica novità di una campagna elettorale finora più barbosa di una domenica pomeriggio a Rovigo. Che barba che noia? Non quando entra in scena il bollente Jean-Luc a proporre uno dei suoi «Mélenshow»: a parte tutto, è la dimostrazione che se la vecchia cara oratoria da comizio non si sente troppo bene, non è però nemmeno morta.
Le ultime novità sul fronte dei sondaggi sono due. La prima è che Sarkò avrebbe raggiunto o forse addirittura superato Hollande. L’altra è appunto l’ascesa di Mélenchon, il signore in rosso ormai terza forza delle Presidenziali, che ora oscilla tra il 13 e il 14%. Ovviamente, il terzo uomo è al settimo cielo. Martedì ha riunito a Lilla 15 mila persone e i suoi già teorizzano che «si può battere Sarkozy senza dover portare il lutto di una politica di gauche». Hollande vive il solito dilemma di ogni sinistra ragionevole: o moderarsi scoprendosi a sinistra o radicalizzarsi perdendo per strada i moderati. Per il momento se l’è cavata proponendo un’aliquota del 75% per chi guadagna più di un milione di euro. Se non altro, Mélenchon ha già assicurato che al ballottaggio voterà Hollande, perché la priorità «è battere la destra»: però è chiaro che alzerà il prezzo dell’appoggio.
Questo Mélenchon ha 61 anni ed è un curioso personaggio. Nasce trotzkista, poi per trent’anni è socialista (e massone), sempre alla sinistra del partito ma disciplinato e infatti premiato: senatore, deputato europeo e anche ministro della Formazione professionale nel gabinetto di Lionel Jospin. Ma nel 2008 di botto se ne va dal Ps malato di moderatismo e di euroausterità e inventa il suo Parti de gauche, ispirato fin dal nome alla Linke tedesca. Lancia un’Opa politica sugli sparsi resti del Partito comunista, li riunisce nel Front de gauche e parte all’assalto dell’Eliseo. Certo, alla sua sinistra restano i due trotziski non pentiti, Nathalie Arthaud e Philippe Poutou (non si capisce bene in cosa si differenzino, se non che lei è ansiogena e lui simpaticissimo), però non dovrebbero superare l’1%, quindi non disturbano. E i Verdi hanno una candidata, l’ex giudice Eva Joly, che sono i primi a considerare impresentabile.
Insomma, a sinistra c’è spazio. Lo si è visto domenica 18 in piazza della Bastiglia, per un superMélenshow davanti a 120 mila persone (dice lui) o 40 mila (dicono i giornali): in ogni caso, tante. E qui, come in una macchina del tempo, si è rivista la sinistra storica, l’eterna gauche francese sempre sconfitta e sempre di ritorno, quella della Rivoluzione, della Comune, del Front Populaire e della vittoria di Mitterrand. In un tripudio di bandiere rosse, berretti frigi e cori dell’Internazionale, Mélenchon ha debuttato così, più tribuno o più trombone decidetelo voi: «Genio della Bastiglia che domini questa piazza, eccoci di ritorno, noi popolo delle rivoluzioni e delle ribellioni. Noi siamo la bandiera rossa!».
E avanti con la Sesta Repubblica. E forza con la denuncia dei trattati europei e della tirannia del rigore. E vai con l’«insurrezione cittadina», «l’humain d’abord», «la pianificazione ecologica», programmi che non vogliono dire nulla ma accarezzano l’orecchio sinistro dell’elettorato. Mélenchon è un comunista che ha letto Hessel, un indignato in servizio permanente effettivo, un radicale del radicalismo. Forse non sa bene quel che dice, ma lo dice benissimo. «Se ci impedirete di sognare, noi vi impediremo di dormire», urla citando gli indignados spagnoli.
Le sue battute mordono. Hollande si sta ancora leccando le ferite, dopo essere stato liquidato così: «Capitano di pedalò». Ma il capolavoro di Mélenchon è stato il dibattito tivù con la sua bestia nera, madame Le Pen. Lei si è rifiutata di parlargli se lui non si fosse scusato di averla definita «una mezza demente». E gli ha squadernato davanti il giornale come se fosse al caffé. Lui, sornione: «Madame, non si offenda: le resta sempre l’altra metà».

Repubblica 30.3.12
"Lavoro a vita, pensione a 60 anni, tasse ai ricchi" Così seduce le folle. E mette in difficoltà Hollande
 Mélenchon il rosso il terzo uomo della corsa all´Eliseo
Leader del Fronte di sinistra, stando ad alcuni sondaggi ha superato Marine Le Pen
di Giampiero Martinotti


La battuta pronta, la formula accattivante, l´aggressività che paralizza l´interlocutore, il disprezzo del sans-culottes per chi ha il potere, l´arte di bucare lo schermo e la furbizia del politico navigato: c´è tutto questo in Jean-Luc Mélenchon, candidato anti-sistema che solleva l´entusiasmo delle folle, mette in difficoltà François Hollande e viene vezzeggiato da Nicolas Sarkozy. Da una quindicina di giorni è il nuovo protagonista della campagna elettorale: può sperare di piazzarsi al terzo posto e può influenzare, nel bene e nel male, la sorte del candidato socialista. Mélenchon, che ha sempre detto di voler evitare la rielezione di Sarkozy, può portare al socialista il voto protestatario di chi rifiuta l´establishment. Ma può anche essere il suo tallone d´Achille, come spera il presidente uscente, lo spauracchio che allontana da Hollande l´elettorato centrista.
Da quando ha superato nei sondaggi la soglia del 10 per cento e riunito alla Bastiglia centomila persone, Mélenchon è diventato il «terzo uomo» della campagna, superando secondo alcuni sondaggi la leader del Fronte nazionale Marine Le Pen. Ha il dono della parola, sa maneggiare la lingua con sottigliezza, a volte come un fioretto e a volte come una clava. In questo assomiglia a Jean-Marie Le Pen, altro personaggio "fuori dal coro" che sapeva sedurre le folle. Come lui sa trovare le immagini che colpiscono la fantasia. E a farne le spese è spesso il candidato socialista, definito una prima volta come «capitano di pedalò» e poi bollato politicamente come «Hollandreu», cioè clone dell´ex premier greco.
Il leader del Fronte di sinistra, che raccoglie il suo Partito di sinistra e il Pcf, sa parlare a quella fetta dell´elettorato francese renitente a qualsiasi riformismo. «Che se ne vadano tutti», è il suo slogan preferito. «Dovrete pagare, signore e signori ricchi», è la formula che manda in visibilio la folla dei suoi sostenitori, eredi di quella sinistra radicale orfana degli Anni Settanta. Quando disegna i contorni della sua riforma istituzionale è spavaldo come un Masaniello e istrionico come un divo: «Sarete stupiti, se sono eletto. Convocherò una Costituente che creerà una repubblica parlamentare. E una volta adottato il nuovo regime, tiro nella Senna la chiave dell´Eliseo e me ne torno a casa». Trotzkista da giovane, aveva scelto come pseudonimo Santerre, il nome della guardia che portò Luigi XVI sul patibolo.
Poi fu folgorato da François Mitterrand. Contrario al rigore imposto dal presidente nel 1983, è stato per anni leader della sinistra socialista, senza tuttavia rifiutare un posto nel governo del riformista Jospin nel 2000. Leader del "no" alla Costituzione europea, ha lasciato il Ps nel 2008 per vestire i panni di un moderno sans-culottes.
Per lui non ci sono dubbi: il capitalismo va superato, per non dire eliminato. Il suo programma è radicale: 100 miliardi di tasse supplementari per ricchi e imprese, tassazione al 100 per cento di tutti i redditi superiori a 360 mila euro, salario minimo a 1700 euro, pensione a 60 anni e posto di lavoro garantito a vita: «Tra il debole e il forte, la legge protegge e la libertà opprime». Un programma ripetuto a sazietà su radio e tv, che utilizza volentieri, pur considerando i giornalisti dei lacchè: «Il primo media del popolo è il popolo stesso».
Per il resto, la République e la massoneria sono le sue stelle polari, la duplice fede di chi non ha «mai smesso di credere alla possibilità di costruire un paradiso, qui e adesso».

La Stampa 30.3.12
Gramsci sulla via del “comunismo liberale”
Perché è plausibile l’ipotesi di un Quaderno mancante
Franco Lo Piparo replica ad Angelo D’Orsi

qui
http://www.scribd.com/doc/87356184/La-Stampa-30-3-12-Lo-Piparo-su-Gramsci

La Stampa 30.3.12
Milioni di terre nell’Universo
di Giovanni Bignami


Lo diciamo da un po’ di tempo: i pianeti sono la norma e non l'eccezione intorno alle stelle. Oggi i nostri telescopi europei in Cile danno una conferma e una nuova dimensione alla planetologia galattica: sono le stelle più comuni di tutte, le nane rosse, ad avere pianeti, anche pianeti «rocciosi», fatti come la Terra.
Le nane rosse, cioè il 70-80% dei cento miliardi di stelle della nostra galassia, sono un po' più fredde del nostro Sole, che è una nana gialla. Ma questo significa solo che la «zona abitabile», cioè la distanza dalla stella dove potrebbe esistere la vita, è un po' più vicina alla stella che non nel caso del nostro sistema solare. Su un pianeta posto nella zona abitabile, l'acqua può essere liquida per miliardi di anni se la stella è stabile. E sulla Terra la vita, l'unico esempio che conosciamo, si è sviluppata proprio perché l'acqua è liquida da miliardi di anni. Insomma, ci devono essere miliardi di nuove terre, in giro per la nostra galassia, e molte potrebbero avere avuto le condizioni giuste per lo sviluppo della vita. Difficile, sempre più difficile pensare di essere soli… ma attenzione: non pensiamo subito ad omini verdi o ad E.T. Da sempre, e anche oggi, la forma di vita più comune sulla Terra è quella di organismi monocellulari o poco più: organismi complessi o addirittura «intelligenti» sono presenti sul nostro pianeta da una frazione di tempo piccola rispetto ai quattro miliardi di anni della vita sulla Terra. Lo stesso, quasi certamente, succede su un'altra terra intorno alla sua stellina qualunque. La probabilità di trovare un pianeta con E.T., o anche solo con un brontosauro o un ominide, è, ahimè, piccolissima.
Ma partiamo dall'inizio: dobbiamo continuare a trovare molti pianeti simili alla Terra e possibilmente vicini a noi, per poterli studiare bene. La scoperta fatta con i telescopi europei in Cile è entusiasmante proprio perché dice che a poche decine di anni luce da noi, cioè dietro casa, ce ne possono essere molti, quasi certamente intorno a stelle che abbiamo catalogato ma che non abbiamo mai preso sul serio. Solo che, per scoprire e per studiare queste nuove terre, ci vogliono strumenti fatti apposta, molto sensibili, e bisogna esplorare molta superficie celeste. Dal Cile, per esempio, si vede solo l'emisfero Sud. Ma per fortuna c'è il Telescopio Nazionale Galileo, dell'Istituto Nazionale di Astrofisica, che guarda l'altra metà del cielo: posto su una montagna delle Isole Canarie, copre l'emisfero Nord. E, proprio al Tng, Inaf ha appena inaugurato uno strumento, Harps-N, fatto in Italia e che cercherà pianeti, vicini e lontani. E' capace di fare perfino quello che non sanno fare i telescopi spaziali e Nature, la rivista scientifica più prestigiosa del mondo, gli ha dedicato un pezzo, anche se non ha ancora visto nient'altro che il suo primo fotone. Forse proprio uno strumento italiano vedrà la casa dei nostri vicini galattici. Di sicuro, lavorerà su quello che ci resta da scoprire, che per fortuna sembra non finire mai.

Repubblica 30.3.12
Le conseguenze dell’amore, così il cuore droga il cervello
Diane Ackerman ha sperimentato gli effetti positivi nella cura del compagno dopo l´ictus
di Angelo Aquaro



Annulla tristezza, ansia e paure, accendendo in noi scintille di vita: quel che già "sentivamo" ora è verità scientifica Ecco come la neurobiologia interpersonale, e una studiosa americana decisa a guarire il marito, lo hanno dimostrato

È la rivincita di Cole Porter e Frank Sinatra. Ricordate quel vecchio successo di Broadway? "Neppure la cocaina mi dà il piacere che mi dai tu". Giustissimo: "I Get A Kick Out Of You". La scienza ci ha messo qualche decina di anni ma alla fine la verità che abbiamo sempre sospettato è saltata fuori: l´amore è come una droga. Nella duplice accezione appunto di dipendenza e medicina. Sì, il doping del cuore è l´ultima frontiera della neuropsichiatria. Anzi, per la precisione di una nuovissima disciplina chiamata neurobiologia interpersonale. E che per la prima volta nella storia è riuscita a dimostrare che cuore & cervello non solo si parlano: è il primo a dettare legge sul secondo. Con buona pace dei freddi sostenitori del primato della mente. Che l´amore facesse bene è una verità antica come il mondo che gli ultimi studi stanno finalmente corroborando. Il più curioso è saltato fuori qualche giorno fa.
Una ricerca dell´Università della California ha dimostrato che anche i moscerini, nel loro piccolo, si attaccano alla bottiglia: nel senso che quelli che non fanno l´amore vanno a caccia della frutta più alcolica perché lì si nasconde un enzima che dà appagamento e che l´atto sessuale produce in abbondanza. È la prova certamente più inebriante del legame tra sesso e cervello. Ma l´appagamento non è necessariamente sessuale: cioè non si determina soltanto nell´atto. Non lo diceva già Dante che a volte basta «quella dolcezza al core?"
Gli esperimenti che Diane Ackerman ha raccolto sul New York Times sono impressionanti davvero. Anche perché la studiosa non si è limitata allo studio degli altri: ma ha esposto la propria esperienza personale: «Il corpo ricorda, il cervello ricicla e ri-programma. Ho testimoniato io stessa questo effetto benefico nel processo di guarigione di mio marito». Il suo compagno scrittore aveva sofferto un ictus che gli aveva bloccato quell´emisfero destro che sovrintende al linguaggio. Ma l´amore della moglie-studiosa ha fatto letteralmente il miracolo. «Ho cominciato a sperimentare nuovi modi di comunicare: attraverso gesti, emozioni facciali, giochi, empatia: e una tonnellata di affetto». A poco a poco, il cervello del marito ha cominciato a rimettersi in moto rispondendo alle sollecitazioni: com´è stato possibile?
La più grande scoperta della neurobiologia interpersonale è che il cervello non smette mai di modificarsi. Da Sofocle a Sigmund Freud e dintorni, concetti come il complesso di Edipo, si sa, sono diventati d´impiego popolare. Ma finora neuropsichiatri e psicanalisti cercavano appunto quel momento fondativo che ci avrebbe cambiati per sempre: cercando magari di modificarlo, con terapie o sublimazioni. L´alchimia neurale, sostiene invece la nuova scuola guidata da Dan Siegel dell´Università di Pasadena, continua per tutta la vita: soprattutto mentre forgiamo amicizie e scegliamo i nostri amori. «Il corpo», spiega ancora la Ackerman «ricorda quell´unicità sentita con mamma: e cerca il proprio equivalente adulto». Quell´unicità è la «sincronia tra la mente del bambino e la madre» che la scansione elettronica del cervello oggi ha permesso di fotografare. E che è la stessa sincronia registrata proprio tra gli innamorati.
Una verità che risulta evidente anche grazie al suo contrario. Naomi Einseberger dell´Università di California ha dimostrato che le aree del cervello che registrano il dolore fisico sono le stesse che si accendono quando l´amata o l´amato ci ha mollati. Anche qui, però, senza ridursi come i moscerini e attaccarci alla bottiglia, ci basterebbe ritrovare il tocco dell´amore. Gli esperimenti di James Coan, Università della Virginia, non lasciano dubbi. Questo crudele neuroscienziato ha sottoposto a piccoli elettroshock le caviglie di un gruppo di donne innamorate: quando alle signore veniva magnanimamente accordato di tenere l´amato per mano, beh, i neuroni diciamo così del dolore si illuminavano di meno. E gli esperimenti simili condotti alla Stony Brook University hanno dimostrato, per esempio, che il cervello si illumina di fronte all´immagine dell´amata così come si accende nei consumatori di cocaina.
Eccolo qui, ecco il colpo che ci accende, ecco il famoso "kick": che toccherà a noi, a questo punto, saper far durare un po´ di più che il tempo di una canzone.

Repubblica 30.3.12
Il nuovo libro di Vito Mancuso
La teologia della libertà
Perché la fede deve dialogare con il pensiero eretico
di Roberto Esposito


Il nuovo libro di Vito Mancuso sulla necessità del confronto all´interno della Chiesa
Un´idea non misurata alla prova dell´azione concreta, si ripiega su se stessa e poi si spegne
L´autore si impegna in un corpo a corpo con l´antagonista moderno del cristianesimo, vale a dire Nietzsche

C´è qualcosa, nell´ultimo libro di Vito Mancuso � edito da Fazi col titolo Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana � che va anche al di là delle sue tesi originali ed ardite. Si tratta di una forza emotiva, di un´energia viva, che coinvolge il lettore in una sfida cui risulta difficile sottrarsi. La posta in gioco è alta e decisiva per una tradizione, come la nostra, radicata nel dialogo critico con il cristianesimo. E ciò anche a prescindere dal punto di vista � religioso, laico o perfino ateo, dell´interlocutore. Nessuna di queste posizioni assume senso, d´altra parte, fuori dal rapporto, affermativo o negativo, con la questione di Dio. Più precisamente, con la relazione tra Cristo e la verità. Ma, perché essa diventi davvero la nostra questione � perché in essa ne vada della vita e della morte di ciascuno di noi, credenti o meno � bisogna che venga formulata nella sua modalità più radicale, a rischio di spezzare il guscio protettivo in cui tutti noi, cristiani e laici, custodiamo le nostre certezze. È questo l´obiettivo che da tempo Mancuso ha assegnato alla propria ricerca teologica, congiungendo il più inteso impegno spirituale alla massima libertà teoretica, secondo l´esigente richiesta di Giacomo (2, 12) «Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà». L´elemento su cui va concentrata l´attenzione, in questa teologia della libertà, è proprio il nesso costitutivo tra parola ed azione. Un pensiero, non misurato alla prova dell´azione concreta, si ripiega su se stesso e si spegne. Ma anche un´azione che perda il rapporto con il pensiero è destinata a smarrire il proprio senso. È appunto quanto accade oggi alla Chiesa cattolica che, certo presente nella società dal punto di vista delle opere, appare sempre più incerta ed esitante su quello dei principî. Perché? � si chiede Mancuso. Cosa, quale peso gravoso, sembra trattenere la Chiesa di Roma sempre al di qua di se stessa, chiudendola alla comprensione del mondo che la circonda e così sottraendola alla propria missione evangelica? La risposta, netta fino all´asprezza, dell´autore è che si tratta del timore di confrontarsi con quella parte di sé, del suo passato ma anche del suo presente, che la trascina in basso, portandola a preferire alla parola di Cristo quella dei suoi persecutori � a rinnegarlo e a rinchiuderlo in una cella come fa il Grande Inquisitore di Dostoevskij.
Del resto la figura sinistra che compare ne I Fratelli Karamazov non è un´invenzione fantastica dello scrittore russo, se quel concentrato di superstizione e di orrore, istituito da Paolo III con il nome famigerato di Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, solo nel 1965, alla conclusione del Concilio vaticano II, è potuto diventare l´odierna Congregazione della Dottrina della Fede. Ebbene, se il Cristianesimo non trova il coraggio di tornare su questa vergognosa macchina del sangue, che ha mortificato, tormentato, stritolato, letteralmente mandandola in cenere, l´intelligenza o la vita di un numero impressionante di uomini straordinari, come Hus e Serveto, Bruno e Galileo, se non fa questo passo decisivo nel proprio passato delirio di cui il papato stesso si è fatto per secoli garante, non sarà capace di ritrovare quella forza necessaria a riformarsi nel profondo. Non è solo questione di riparare torti, ormai irreparabili, rispetto a coloro che furono dichiarati eretici, ma di porre l´eresia al centro stesso della fede � come la linea di fuoco nei confronti della quale solamente il cristianesimo può ancora sperimentare la propria ispirazione e profondità. Solo se incorpora quella esigenza assoluta di verità � «La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose», affermava Giordano Bruno �, scelta dagli eretici come propria ultima testimonianza, la fede potrà confrontarsi senza complessi con un mondo che sembra metterla ai margini anche per la sua mancanza di onestà intellettuale. Ma per conquistare questa estrema libertà interiore nella, e anche contro, la dottrina ufficiale, per abbattere quel generale dispositivo dell´obbedienza elevato da grandi e piccoli inquisitori, è necessaria una svolta senza compromessi nella stessa concezione della verità, di cui la Chiesa si ritiene depositaria al punto di aver voluto a lungo convertire ad essa, anche con la forza, coloro che la negavano. Da un lato essa va pensata non contro, ma attraverso la contraddizione che porta dentro, secondo la traduzione che una volta il cardinale Martini dette del motto Pro veritate adversa diligere � «essere contenti della contraddizione»; dall´altro va rimessa a contatto diretto con la vita, dal momento che «il pensiero, quando è vero, è pensiero della vita, e in ciò e perciò è pensiero di Dio» (Karl Barth). Non è la verità che può verificare la vita, ma la vita che verifica, di volta in volta, la verità. La quale non va pensata come un insieme di dottrine statiche e bloccate su se stesse, ma come un farsi dinamico che risponde alle domande della contemporaneità. Qui Mancuso si impegna in un vero corpo a corpo con il più grande antagonista moderno del cristianesimo, vale a dire quel Nietzsche che appunto alla vita riconduceva la realtà del pensiero. Ma con la differenza decisiva che mentre egli individuava nella potenza il significato stesso della vita, Mancuso, in conformità con il messaggio di Cristo, lo pone nel bene. Nulla come un passo di Simone Weil, vera fonte di ispirazione dell´autore, ne illumina il senso, allorché ella scrive che su questa terra non c´è altra forza che la forza, ma che anche la forza suprema deve sottostare a un limite cui la tradizione ha dato il nome impersonale di giustizia.
Sul carattere "impersonale" della giustizia può farsi una riflessione, che segnala, se non un punto cieco, un passaggio mancato, o almeno incompleto, del discorso di Mancuso. Si tratta del lessico personalista che egli � peraltro in buona compagnia (si veda in proposito il libro di Roberta De Monticelli La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti) � adopera nella sua intera opera, senza accorgersi che è stato proprio attraverso di esso che, dai primi secoli cristiani, è stata elaborata quella teologia politica che pure contesta. Del resto nella sua originale ricerca filosofica sul significato dell´anima, richiamando l´intelletto attivo di cui parla Aristotele, Mancuso perviene a sfiorare la più eretica teoria di Averroé � altra vittima dell´intransigenza religiosa, in quel caso islamica � di un´intelligenza separata e impersonale. Solo in questo modo il bene può essere inteso come pura relazione che riguarda tutti, anziché come prerogativa di un singolo individuo. Nel punto forse più ispirato del suo libro, Mancuso scrive che la formulazione «In principio era il logos» può essere intesa non solo come «In principio era l´azione» (Goethe), ma anche come «In principio era la relazione» � l´essere in comune non ancora diviso, e discriminato, tra i vari soggetti personali. Del resto questa era anche la tesi di quel Sigieri di Brabante, citato dall´autore perché trucidato per le sue posizioni averroiste e posto invece nel Paradiso da Dante. D´altra parte perché fu condannato Bruno, se non per aver negato il concetto di persona, sia nell´uomo che in Dio, a favore del principio impersonale della vita infinita? Non c´è modo migliore di congedarsi da un libro, alto e forte, come quello di Mancuso che citando la sua autrice preferita: «Ciò che è sacro, ben lungi dall´essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale (�) Ognuno di quelli che sono penetrati nella sfera dell´impersonale vi incontra una responsabilità verso tutti gli esseri umani. Quella di proteggere in loro, non la persona, ma tutto ciò che la persona racchiude di fragili possibilità di passaggio nell´impersonale» (Simone Weil, La persona e il sacro).