sabato 12 maggio 2012

La Stampa TuttoLibri 12.5.12
Dai «Pugni in tasca» al «Diavolo in corpo», a «La bella addormentata», il film sul caso Englaro ora in montaggio
«Con l’Oreste di Euripide ripasso il matricidio

«Da adolescente, scuola, casa, parrocchia, mi isolavo leggevo la Terra desolata di Eliot»" di Mirella Serri

Fracasso, grida. Un violento alterco irrompe nello studio romano di Marco Bellocchio che a Venezia si è conquistato il Leone d'oro alla carriera consegnatogli da un commosso Bernardo Bertolucci. Chi urla? Nessuna paura. E' una scena di Bella addormentata , il suo ultimo film, dedicato al caso di Eluana Englaro, che si sta montando nella stanza a fianco. Una pellicola che ancora non è uscita e già divide. «E' solo un'opera di invenzione e di fantasia ambientata nei giorni in cui la Englaro, in stato vegetativo per 17 anni, fa il suo ultimo viaggio verso la clinica per l'interruzione dell'alimentazione forzata», obietta il gran maestro della cinepresa. Capelli a spazzoletta, giacca sportiva, ancora oggi sembra quel tormentato «enfant prodige» che a 26 anni faceva la sua prima apparizione con I pugni in tasca . Da quell'esordio in cui non mancavano incesto e matricidio fino a Vincere , Bellocchio ha continuato a sconcertare e a scandalizzare. Adesso viene pubblicata la sceneggiatura del «Diavolo in corpo» (Mani editore), un'altra pellicola che accese gli animi, realizzata in un clima caliente, con il produttore che accusava di plagio lo psicoanalista Massimo Fagioli presente alle riprese. «Nel film che, quando apparve nelle sale ottenne grandi consensi anche a livello internazionale, ero come l'apprendista stregone: volevo raccontare un amore senza essere mai stato innamorato e così chiesi aiuto al mio terapeuta. Sollevare un polverone è poi il destino del romanzo di Raymond Radiguet a cui solo in parte mi sono ispirato: sconvolse il pubblico degli Anni Venti con la passione tra un liceale e una giovane donna sposata. Anche l'opera per il grande schermo con Gérard Philipe ebbe un effetto dirompente». Il background culturale che ha alimentato il suo spirito ribelle? «Non ero un gran consumatore di libri da piccolo. Salgari e il cinema, Torna a casa Lassie oCuore , mi appagavano. I risultati di liceale presso i Barnabiti sono stati modesti. Il realismo di Zola, Dostoevskij e la teorizzazione del delitto gratuito di Raskol' nikov, Gide e il cinico personaggio de L'immoralista , sono stati i capisaldi di quegli anni». Sentiva il bisogno di fuga dalla severa educazione ricevuta in famiglia? «Scuola, casa, parrocchia: da adolescente non ero felice. Mia madre, nonostante fossimo benestanti, non riusciva a organizzare i suoi otto figli. Io mi isolavo dipingendo, scrivendo poesie e leggendo La terra desolata di T. S. Eliot. Poi arriverà il suicidio del mio gemello nel 1968. Un trauma. Comunque ero riuscito a realizzare il mio primo film che non mi liberò dall'ossessione della famiglia ma mi proiettò fuori di casa». I libri che l'avvicinarono alla scoperta della sessualità? «I ragazzi più grandi avevano fidanzate che volevano arrivare al matrimonio illibate. La “prima volta” di solito era con una bella di giorno anche perché l'idea del sesso come sfogo e peccato ben si confaceva alla mentalità cattolica. Con un gruppo di compagni del collegio andammo in una casa di piacere ma solo uno ebbe il coraggio di salire in camera con una gentile fanciulla. I casini chiusero prima che io avessi l'età per omologarmi agli altri e mi rifugiai in Stendhal, Flaubert, Kafka, Hemingway, Tolstoj, Joyce, Moravia che parlavano di amore, eros e prostituzione». Poi arrivò il gran momento della politica militante e della psicoanalisi. «Il Capitale lo leggevo nel compendio di Carlo Cafiero. A influenzarmi furono i Quaderni Piacentini , rivista creata da mio fratello Piergiorgio a cui si affiancarono, con il loro radicalismo anarchico e antipartitico, Franco Fortini, Cesare Cases, Goffredo Fofi. Mi iscrissi all' Unione dei marxisti-leninisti e il filo rosso, è il caso di dirlo, furono il libretto del presidente Mao e Bertolt Brecht. Nonostante il successo mi sentivo smarrito e per due anni abbandonai il set. L'approccio a Freud non mi liberò dalle mie angosce ma fu uno strumento di conoscenza».
Ultimi libri e spettacoli? «Il regista sudcoreano Park Chan-wook con la sua trilogia della vendetta e Cesare deve morire dei fratelli Taviani. Ho riletto l' Oreste di Euripide dove il matricidio mi riporta ai miei inizi e a questo tema forse dedicherò un mio nuovo film».

Corriere 12.5.12
«Non cancellate i centri antiviolenza»
Appello della Camusso contro gli abusi sulle donne. «Più fondi»
di Rita Querzé


MILANO — Dopo una ventina di violenze sessuali nel giro di un mese solo nel capoluogo lombardo, i soprusi sulle donne diventano un'emergenza riconosciuta (e temuta). A Milano e non solo.
L'ultimo caso è stato, giovedì scorso, quello di una maestra scampata per un soffio allo stupro da parte di un giovane magrebino, nella periferia Sud della città. Il fenomeno esiste da sempre, più o meno sottotraccia. Ma questa volta c'è una consapevolezza nuova e condivisa dal basso. Ieri a palazzo Marino — il municipio di Milano — si e riunita la rete di associazioni che si riconosce sotto il cappello di Se non ora quando Milano. Sala piena, donne e uomini e qualche passeggino. Il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, sostenitrice del movimento fin dai primi passi, ha scelto la platea milanese per chiedere fondi e risorse per i centri antiviolenza. «È necessario mettere i soldi per queste iniziative così preziose. Molte sono sull'orlo della chiusura — va al sodo Camusso —. Lo sappiamo, le risorse sono scarse. Ma il contrasto alla violenza sulle donne non può aspettare».
Gran parte dei centri antiviolenza in Italia sono organizzazioni non profit, che si finanziano per la metà attraverso donazioni di privati e per il resto con contributi pubblici, spesso finalizzati al raggiungimento di obiettivi concreti. Poi ci sono gli «sportelli istituzionali», come quelli legati alle Asl.
«I fondi devono servire a mettere in rete le diverse iniziative. È necessario unire gli sforzi, da una parte. Dall'altra contribuire al disvelamento del problema», continua Camusso.
Manuela Ulivi, coordinatrice della Casa per le donne maltrattate di Milano che fa parte della rete Dire, comprensiva di 60 associazioni non profit in giro per l'Italia, ha preparato una lettera che martedì sarà consegnata al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. «Secondo la nostra triste contabilità, dal 2005 alla fine del 2011, quindi senza tenere conto di quanto avvenuto negli ultimi mesi, sono state uccise 777 donne. Questa strage silenziosa va fermata. Ma più cresce il bisogno, più il senso di impotenza diventa difficile da sopportare. Alcuni dei nostri centri, come quello di Mantova, sono sull'orlo della chiusura».
«Agli uomini chiediamo di interrogarsi senza limitarsi a esprimere solidarietà», dicono le donne di Se non ora quando, rete che a Milano raccoglie esclusivamente associazioni vicine al centrosinistra. Nonostante ciò, il loro appello contro la violenza sulle donne ha raccolto anche le firme di esponenti del centrodestra lombardo tra cui Ombretta Colli, assessore della giunta di Roberto Formigoni. Proprio la regione Lombardia sta faticosamente mettendo a punto una legge contro i maltrattamenti sulle donne. Ma ancora un volta il problema sono le risorse. E i criteri di assegnazione.

l’Unità 12.5.12
Bersani ai giovani: nella sfida del 2013 servite voi
Il leader Pd sprona i ragazzi dell’Officina politica
«A destra il vuoto lo può riempire il populismo»
di Simone Collini


Le prossime elezioni non saranno un voto «qualsiasi» ma una «battaglia» da cui dipenderà la «ricostruzione» e la «riscossa civica e morale» del Paese. E il Pd avrà bisogno dei giovani. Pier Luigi Bersani chiude l’ultima lezione dell’anno dell’«Officina politica», la scuola di formazione del Pd, vestendo un po’ i panni dello Zio Sam col dito puntato: «I want you».
Certo, nell’arruolare le ragazze e i ragazzi in vista delle politiche del 2013 ricorre al suo linguaggio: «Ci vuole un pattuglione che “batta pari”».
IL GERGO DELLA MORRA
Ma il senso, benché mutuato dal gioco della Morra (battere pari significa giocare con chi si ha di fronte) è chiaro. «Adesso dovete restituire un po’ l’investimento dice sorridendo a chi ha frequentato la scuola democratica inizia la battaglia del 2013 e intenderei che voi foste un’ossatura di questa operazione. Vedrete che non sarà un’elezione qualsiasi, dovremo avere gente in campo che ci dà una mano».
La sfida sarà contro una destra che per Bersani, nonostante i tentativi di restyling in atto, non sarà migliore di quella conosciuta in questi anni. «C’è un vuoto nell’area di centrodestra che è in cerca di autore. Che cos’è questa “cosa” dei moderati? Forse sbaglio ma l’ipotesi prevalente sarà riorganizzare un campo di posizioni regressive e con qualche populismo di troppo. Verrà a galla una corrente contestataria, anti europea, anti tasse e via dicendo».
Anche il presente non è rassicurante, per il leader del Pd. A Berlusconi, che propone un dialogo sulle riforme, Bersani manda a dire che «c’è poco da trattare, le riforme sono in Parlamento e noi siamo lì».
LE PROPOSTE
Il Pd ha avanzato proposte di legge sia sul riassetto istituzionale che sulla legge elettorale e sul finanziamento pubblico ai partiti. Ma per ognuna di queste riforme il Pdl ha trovato il modo di frenare, di porre il confronto in salita, di dilazionare i tempi. «In Parlamento c’è la riforma costituzionale, ai tavoli tecnici si discute la legge elettorale, poi c’è la riforma dei partiti. È tutto in Parlamento, non c’è altro da discutere che questo».
Il problema è che il Pdl è in difficoltà, scosso dal voto amministrativo e
percorso da lotte intestine. Anche sulla riforma elettorale è diviso tra chi guarda con favore a un sistema tendente al presidenzialismo e chi (come gli ex An) vuole mantenere il sistema proporzionale correggendolo con l’introduzione delle preferenze.
Una discussione in cui il Pd si inserisce rilanciando il doppio turno di collegio. «L’esito delle amministrative suggerisce di riflettere sul doppio turno, un meccanismo che tende a unificare gli elementi di frammentazione ma pare che non ci sentano», dice Bersani riferendosi al Pdl, che ogni volta si presenta con posizioni «variabili a seconda dell’interlocutore e a seconda dei giorni»: «È un errore, ma noi in ogni caso continuiamo a discutere perché non può rimanere il Porcellum».

l’Unità 12.5.12
Il Pd col leader: «Primarie ora? Un errore»
di Simone Collini


Ma come si fa a parlare di primarie con quello che sta succedendo in Italia?». Pier Luigi Bersani scuote la testa di fronte alla richiesta di Matteo Renzi di convocare per ottobre le primarie per decidere chi sarà il candidato premier del Pd. Il sindaco di Firenze, che dopo la nascita del governo Monti aveva bloccato le operazioni partite dalla Leopolda, ora è tornato a spingere sull’acceleratore, lanciando una «sfida» al segretario: «Ricercare la sua legittimazione su primarie di tre anni fa dice in un’intervista al Corriere della Sera cioè di un’era geologica fa, perché in politica è cambiato tutto, sarebbe assurdo».
Bersani, che per il prossimo autunno sta preparando un ben diverso appuntamento, che coinvolgerà ampi settori del mondo della cultura e dello spettacolo, della formazione e dell’associazionismo, e che avrà come obiettivo quello di scrivere insieme un’«agenda per la ricostruzione e la riscossa civica e morale» e di siglare un «patto con la società» in vista delle politiche del 2013, legge e sorride sornione: «È vero che dal 2009 ad oggi è cambiato tutto.
Il mondo, non la sola politica, è cambiato. L’unico che non è cambiato è Renzi, che parla sempre di primarie».
Una battuta, scambiata con i suoi, perché il leader del Pd non pensa sia il caso di ingigantire la faccenda, visto quel che sta attraversando il Paese. «Ho in testa altre questioni e non queste», dice non a caso poco dopo, arrivando alla scuola di formazione politica del Pd e rispondendo ai giornalisti che gli chiedono se raccoglierà la «sfida» di Renzi. «Sono l’unico segretario al mondo eletto con le primarie, quindi per me problemi zero. Ma in questo momento il Paese ha altre preoccupazioni, e io non ho la testa per pensare alle primarie».
PATTO UNITARIO AL VERTICE
Ma non è solo questione di tempistica, anche se Walter Verini dice che così si va «fuori tema», anche se Dario Franceschini è molto critico con Renzi e ritiene che si debba subito chiudere su Bersani candidato premier, e anche se un esponente del Pd come Beppe Fioroni, che in passato non ha nascosto di apprezzare l’attivismo del sindaco fiorentino, fa notare che «chiedere le primarie mentre siamo in piena tensione sociale non è buona politica». Parole che segnalano il patto unitario siglato dal gruppo dirigente democratico, consapevole del fatto, come è stato evidenziato alla riunione svolta all’indomani delle amministrative, che il Pd è in questo momento il solo «presidio» in un sistema politico terremotato. O, come dice Fioroni inviando un chiaro messaggio a Renzi: «Siamo l’unica grande forza politica nazionale, occorre responsabilità, bisogna anteporre il bene comune al proprio interesse».
Per Bersani, al di là dell’inopportunità di aprire ora il percorso delle primarie, c’è anche una questione di metodo con cui fare i conti. Il leader del Pd da tempo ha fatto sapere che non si nasconderà dietro lo Statuto del partito, che prevede che sia il segretario il can-
didato premier dei Democratici, che lui è «a disposizione» e nel caso non si candiderà «dal notaio» ma dopo che ci sarà stato un nuovo pronunciamento. Il seguito del ragionamento lo fa di fronte ai giovani che ieri hanno partecipato all’ultima lezione dell’anno della scuola di formazione politica: «Ribadiamo testardamente che la politica è un esercizio collettivo. Chi non percepisce questo ha in testa qualcosa di diverso dalla politica».
CON INTELLETTUALI
Il discorso sul «collettivo» vale per il partito ma vale anche per la futura coalizione. Sarà infatti chi ne farà parte, è il ragionamento di Bersani, a decidere quale sia la strada migliore per scegliere il candidato premier. Se tutti saranno d’accordo sul ricorso alle primarie, ben vengano. A meno che in quel momento si riterrà più opportuno scegliere un’altra strada per definire la premiership.
Tra l’altro Bersani sta lavorando non solo per arrivare alle politiche del 2013 con un’alleanza tra progressisti e moderati, ma per aprire quanto più possibile questa formazione a personalità della società civile. Per questo ha deciso di lanciare un «appello» per organizzare in autunno «un appuntamento con gli intellettuali italiani». Il leader del Pd, che punta a siglare «un patto con chi crede nelle riforme e vuole combattere le diseguaglianze», sta pensando a un incontro con storici, filosofi, sociologi, personalità anche del mondo dello spettacolo, dell’associazionismo, per scrivere insieme un’«agenda» che dovrà essere sì di governo, ma anche «per la ricostruzione e la riscossa civica e morale del Paese». Bersani chiederà insomma un contributo alla definizione programmatica. Ma è chiaro che l’operazione, se a rispondere all’appello saranno personalità di alto profilo, potrebbe anche avere il sapore di un’investitura e non sarà indifferente per la definizione della premiership.

Corriere 12.5.12
I democratici: «Altre priorità» Civati: «Il partito si confronti»


ROMA — «Mi pare che il Paese abbia altri problemi, ora non ho la testa per pensare alle primarie». Pier Luigi Bersani risponde con poche parole a Matteo Renzi che sul Corriere lo aveva sfidato invocando le primarie per la candidatura del Pd alle prossime politiche. Ieri il sindaco di Firenze ha detto che gli basterebbe anche solo una «data» per la consultazione tra gli elettori del Partito democratico. E accanto ai tanti «no», come quello di Giuseppe Fioroni, ha trovato una sponda in Pippo Civati: «Secondo me, a questo punto, è il caso che ne discuta la direzione nazionale, la prossima settimana». Anche il veltroniano Walter Verini è favorevole alle primarie. Sostiene però che sarebbe meglio affrontare il tema più avanti: «Se ne può certamente parlare, ma in questo momento si rischia di andare fuori tema».

Corriere 12.5.12
«Renzi? Nel Pd ci sono troppi galli»
Franceschini: il candidato è Bersani, il nostro Hollande. Le primarie dopo le politiche
Scende in campo il grande «rottamatore»... Un trauma, per il Pd?
di Monica Guerzoni


«Una cosa è il confronto fisiologico di idee e personalità che c'è dentro tutti i grandi partiti, altra cosa quel virus che ci ha indebolito, dall'Ulivo in poi».
Matteo Renzi portatore di un virus, presidente Dario Franceschini?
«Il tema è che dal 1996, dopo aver scelto un leader, invece di lavorare come una squadra si fa di tutto per indebolirlo. Io sono stato l'avversario di Bersani alle primarie, ma proprio perché conoscevo quanto quelle ferite fossero già vive nella pelle degli elettori, dal 2009 ho preso l'impegno di lavorare per la squadra. Quando penso al virus che ha contagiato il Pd mi viene sempre in mente la battuta di un militante, che secondo me è più efficace di tante letture politologiche».
Quale battuta?
«Nel Pd ci sono troppi galli, convinti che il sole sorga solo quando cantano loro. Non è stupenda?».
Nel 2009 furono gli elettori a decidere tra lei e Bersani, perché ora non possono scegliere tra Bersani e Renzi?
«Le primarie per scegliere il segretario del Pd ci saranno alla scadenza fissata dell'autunno 2013, dopo le politiche».
Intanto vi tocca fare i conti con i risultati delle ultime elezioni, che non sono trionfali.
«I dati delle amministrative dicono che, in una situazione di crollo generale, il Pd ha un risultato positivo. E adesso deve proporsi, senza timore, come baricentro di un'alleanza tra progressisti e moderati».
Perché Bersani non dimostra la sua forza raccogliendo la sfida di Renzi, invece di stopparlo dandogli del «nuovista»?
«Matteo è un giovane effervescente, con delle qualità. Ma non ho capito, francamente, su che linea si candidi a guidare l'Italia, se non su un dato anagrafico di giovinezza, tra virgolette. Mi pare un po' pochino. Con quali idee si candida? Per quali alleanze? In questo momento di crisi mi sembra più giusto proporre agli italiani di mettersi in mani esperte e rassicuranti. Come quelle di Bersani».
Eppure con Prodi decideste di affidare a un cattolico, com'è Renzi, la guida dell'alleanza, per intercettare i voti moderati. Questo schema non può essere vincente?
«La divisione tra elettori laici e cattolici in politica non c'è più, gli italiani votano secondo coscienza, con molta mobilità. Per governare serve una personalità che abbia la forza di confrontarsi, al posto di Monti, con la Merkel, con Hollande, con i problemi europei. Bersani, com'era per Prodi, ha esperienza, ha fatto bene il ministro e guidato una grande regione come l'Emilia Romagna».
Vi appellerete allo Statuto?
«Non è per una regola statutaria, che pure c'è. È che in questo momento la scelta giusta per il nostro Paese può assomigliare a quella francese. Tra l'istrionismo di Sarkozy e la serietà di Hollande i francesi hanno scelto l'esponente socialista, che ha conquistato consensi anche oltre i tradizionali confini fra destra e sinistra».
Voi però, con Bersani leader, non siete riusciti a prendere voti nel centrodestra.
«Sì, ma si vota tra un anno e a ogni elezione è come se si votasse per la prima volta. L'offerta che devono mettere in campo i progressisti si declina in affidabilità e diversità dalla destra. Per il Pdl gli italiani devono arrangiarsi finché non si raggiunge la meta della crescita, per noi invece l'obiettivo immediato è aiutare quei milioni di persone che ad aspettare la crescita non ce la possono fare. Per questo insisto che il ricavato della lotta all'evasione dovrebbe andare non a ridurre l'aliquota sui redditi più bassi, ma a chi il reddito non ce l'ha proprio, a cominciare dai disoccupati e dagli esodati».
Renzi sostiene che Bersani non è legittimato dalle primarie 2009. Il segretario avrà il coraggio di affidarsi al responso degli elettori, per sapere se sarà lui a correre per Palazzo Chigi?
«Non ci si deve mai coprire dietro norme statutarie, ma quella regola ha un senso. Quando Bersani vinse le primarie votarono più di tre milioni di persone e tutti sapevano che andavano a scegliere il segretario del Pd, che sarebbe stato anche il candidato premier alle successive elezioni. Non è che ora si possono cambiare le regole per soddisfare le proprie aspirazioni».
Sembra di capire che le primarie per la premiership non si faranno. È così?
«Al momento non sappiamo con che legge elettorale si va a votare e il tema delle alleanze si affronta quando si sa con che legge elettorale si va al voto. Poi decideremo, con le forze alleate, se le primarie servono oppure no. Mi sembra un percorso logico».
Qual è la strategia per evitare che Bersani, che anche lei ritiene destinato a vincere, si schianti come capitò alla gioiosa macchina da guerra di Occhetto, nel '94?
«Tutti citano questa gioiosa macchina da guerra, ma parliamo di un'altra era. Sono cose non paragonabili. Oggi il Pd è il più grande partito italiano che legittimamente si candida a governare, dopo i disastri di Berlusconi e dopo la transizione di Monti».

Repubblica 12.5.12
Parma, il Pdl punta sui grillini ultima trincea contro il Pd
L’ex sindaco: si può votare il candidato 5 Stelle
Pizzarotti: "Noi non chiediamo niente a nessuno, chi ci sostiene fa una sua scelta"
di Francesco Nani


PARMA L´ultima tentazione di un centrodestra in forte emorragia di voti si chiama Movimento 5 Stelle. I grillini come ultima spiaggia per arginare l´avanzata del Pd alle amministrative. Una convergenza che potrebbe concretizzarsi a Parma, dove i seguaci di Grillo hanno ottenuto un clamoroso 19,5% e si giocheranno al ballottaggio la poltrona di sindaco col centrosinistra.
Sel ha già fiutato l´aria: «Tra i sostenitori del Movimento 5 Stelle si stanno accalcando tutti i personaggi e i partiti più compromessi del centrodestra. Dopo l´appoggio dichiarato da Elvio Ubaldi, Pizzarotti e soci sono stati abbracciati dal Pdl». Ubaldi è il primo cittadino che nel 1998 salì in municipio a capo di una lista civica sostenuta da Fi e Udc. A farne le spese l´allora Pds. La bandiera civico-berlusconiana ha sventolato, nell´unico Comune capoluogo azzurro della rossa Emilia, per 14 anni. Una stagione politica chiusa domenica scorsa quando Vincenzo Bernazzoli (Pd) ha sfiorato il 40% e Federico Pizzarotti ha soffiato a Ubaldi il sogno di approdare al secondo turno. L´obiettivo, svanito, era far dimenticare le inchieste e i debiti che hanno affossato la Giunta guidata dal suo ex delfino Pietro Vignali, dimessosi a settembre per fare posto al commissario. Ora Ubaldi gioca l´ultima carta: «Non andare a votare è un favore a Bernazzoli. Al ballottaggio potremmo votare Pizzarotti. In fondo è lui la novità, potremmo dargli un´opportunità, anche per vedere cosa sono capaci di fare i grillini».
E un pensierino lo starebbe facendo anche il Pdl, che ufficialmente bolla le insinuazioni di Sel come «farneticazioni». «Lasciamo libertà di voto» replica Polo Buzzi, ex vicesindaco spazzato via dal voto, con un posto tra i banchi dell´opposizione come unico orizzonte. «Decideremo cosa fare ma non me la sento di dire di andare al mare, il diritto di voto va pur sempre esercitato» aggiunge il dominus locale Luigi Villani. Ma tra i militanti e non solo c´è chi ha già deciso. E´ il caso dell´ex consigliere Davide Morante che scrive su twitter: «Siccome non posso più scegliere Buzzi, al ballottaggio voglio scegliere Pizzarotti». Copione simile a Comacchio, dove il grillino Marco Fabbri, autore di un ragguardevole 22% al primo giro, se la giocherà col democratico Alessandro Pierotti. D´altra parte a Piacenza il candidato sindaco Andrea Paparo del Pdl, in gara con Paolo Dosi del Pd, chiede esplicitamente il voto grillino e parla di «proposte in comune con il Mov5Stelle».
Così Paparo sembra suggerire cosa scegliere anche agli elettori parmigiani del Pdl, il partito che più di tutti ha sofferto nelle urne a causa di scandali, manette e indignati in piazza. Gli azzurri sono sprofondati dal 29% del 2008 al 4,7. Rispetto alle regionali 2010 il partito ha lasciato per strada 16.400 voti e la Lega 9.400. Non è un caso se i 5Stelle ne hanno incassati 8400 in più. «Il voto ai grillini è solo una provocazione, ma quei consensi li recuperiamo. Basta ascoltare i campanelli d´allarme» commenta il coordinatore regionale Filippo Berselli. E Pizzarotti? Passa da un´intervista al Financial Times a una per Le Monde e agli abboccamenti del centrodestra risponde: «Noi non chiediamo l´appoggio di nessuno, se qualcuno si sentirà di farlo sarà una decisione sua». Chissà se dirà qualcosa di più Grillo, atteso venerdì prossimo per la chiusura della campagna elettorale. E sarà una sfida tra comici, perché Bernazzoli per la sua chiusura ha chiamato Gene Gnocchi.

Repubblica 12.5.12
La nuova stagione dei diritti
di Stefano Rodotà


Il fronte dei diritti si è appena rimesso in movimento. Obama ha affrontato senza reticenze il tema difficile dei matrimoni omosessuali, e lo stesso ha fatto François Hollande inserendolo nel suo programma e mettendo all´ordine del giorno quello ancor più impegnativo del fine vita. Di questa rinnovata centralità dei diritti dobbiamo tenere conto anche in Italia.
In che modo, però, e con quali contenuti? Qualche esempio. La recente sentenza della Corte di Cassazione sui matrimoni gay è un dono dell´Europa. Così come lo è l´avvio dell´estensione alla Chiesa dell´obbligo di pagare l´imposta sugli immobili. Così come può diventarlo l´utilizzazione degli articoli 10 e 11 del Trattato di Lisbona.
Mi spiego. La Cassazione ha potuto legittimamente mettere in evidenza il venir meno della "rilevanza giuridica" della diversità di sesso nel matrimonio, e il conseguente diritto delle coppie dello stesso sesso ad una "vita familiare", proprio perché queste sono le indicazioni della Corte europea dei diritti dell´uomo e soprattutto dell´innovativo articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Sappiamo, poi, che la norma sul pagamento dell´Ici da parte della Chiesa è andata in porto solo perché erano ormai imminenti sanzioni da parte della Commissione europea. E la discussione sui rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, tornata con prepotenza in Italia anche per effetto degli ultimi risultati elettorali, trova nel Trattato chiarimenti importanti, a cominciare dal nuovo potere che almeno un milione di cittadini può esercitare chiedendo alla Commissione di intervenire in determinate materie. Lo ha appena fatto il Sindacato europeo dei servizi pubblici che si accinge a raccogliere le firme perché l´Unione europea metta a punto norme che riconoscano come diritto fondamentale quello di accesso all´acqua potabile.
Scopriamo così un´altra Europa, assai diversa dalla prepotente Europa economica e dall´evanescente Europa politica. È quella dei diritti, troppo spesso negletta e ricacciata nell´ombra. Un´Europa fastidiosa per chi vuole ridurre tutto alla dimensione del mercato e che, invece, dovrebbe essere valorizzata in questo momento di rigurgiti antieuropeisti, mostrando ai cittadini come proprio sul terreno dei diritti l´Unione europea offra loro un "valore aggiunto", dunque un volto assai diverso da quello, sgradito, che la identifica con la continua imposizione di sacrifici.
Questa è, o dovrebbe essere, una via obbligata. Dal 2010, infatti, la Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed è quindi vincolante per gli Stati membri. Bisogna ricordare perché si volle questa Carta. Il Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, lo disse chiaramente: «La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell´Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell´Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l´importanza capitale e la portata per i cittadini dell´Unione». Sono parole impegnative. All´integrazione economica e monetaria si affiancava, come passaggio ineludibile, l´integrazione attraverso i diritti. Fino a che questa non fosse stata pienamente realizzata, al già mille volte rilevato deficit di democrazia dell´Unione europea si sarebbe accompagnato addirittura un deficit di legittimità. Si avvertiva così che la costruzione europea non avrebbe potuto trovare né nuovo slancio, né compimento, né avrebbe potuto far nascere un suo "popolo" fino a quando l´Europa dei diritti non avesse colmato i molti vuoti aperti da quella dei mercati.
Negli ultimi tempi questo doppio deficit si è ulteriormente aggravato. L´approvazione del "fiscal compact", con la forte crescita dei poteri della Commissione europea e della Corte di Giustizia, rende ancor più evidente il ruolo marginale dell´unica istituzione europea democraticamente legittimata – il Parlamento. Oggi si levano molte voci per trasformare la crisi in opportunità, riprendendo il tema della costruzione europea attraverso una revisione del Trattato di Lisbona. In questa nuova agenda costituzionale europea dovrebbe avere il primo posto proprio il rafforzamento del Parlamento, proiettato così in una dimensione dove potrebbe finalmente esercitare una funzione di controllo degli altri poteri e un ruolo significativo anche per il riconoscimento e la garanzia dei diritti.
Non è vero, infatti, che l´orizzonte europeo sia solo quello del mercato e della concorrenza. Lo dimostra proprio la struttura della Carta dei diritti. Nel Preambolo si afferma che l´Unione "pone la persona al centro della sua azione". La Carta si apre affermando che "la dignità umana è inviolabile". I principi fondativi, che danno il titolo ai suoi capitoli, sono quelli di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia, considerati come "valori indivisibili". Lo sviluppo, al quale la Carta si riferisce, è solo quello "sostenibile", sì che da questo principio scaturisce un limite all´esercizio dello stesso diritto di proprietà. In particolare, la Carta, considerando "indivisibili" i diritti, rende illegittima ogni operazione riduttiva dei diritti sociali, che li subordini ad un esclusivo interesse superiore dell´economia. E oggi vale la pena di ricordare le norme dove si afferma che il lavoratore ha il diritto "alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato", "a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose", alla protezione "in caso di perdita del posto di lavoro". Più in generale, e con parole assai significative, si sottolinea la necessità di "garantire un´esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti". Un riferimento, questo, che apre la via all´istituzione di un reddito di cittadinanza, e ribadisce il legame stretto tra le diverse politiche e il pieno rispetto della dignità delle persone.
Tutte queste indicazioni sono "giuridicamente vincolanti", ma sembrano scomparse dalla discussione pubblica. Si apre così una questione che non è tanto giuridica, quanto politica al più alto grado. Il riduzionismo economico non sta solo mettendo l´Unione europea contro diritti fondamentali delle persone, ma contro se stessa, contro i principi che dovrebbero fondarla e darle un futuro democratico, legittimato dall´adesione dei cittadini. Da qui dovrebbe muovere un nuovo cammino costituzionale. Se l´Europa deve essere "ridemocratizzata", come sostiene Jurgen Habermas, non basta un ulteriore trasferimento di sovranità finalizzato alla realizzazione di un governo economico comune, perché un´Unione europea dimezzata, svuotata di diritti, inevitabilmente assumerebbe la forma di una "democrazia senza popolo". Da qui dovrebbero ripartire la discussione pubblica, e una diversa elaborazione delle politiche europee.
Conosciamo le difficoltà. L´emergenza economica vuole chiudere ogni varco. Dalla Corte di Giustizia non sempre vengono segnali rassicuranti. Lo stesso Parlamento europeo ha mostrato inadeguatezze sul terreno dei diritti, come dimostrano le tardive e modeste reazioni alla deriva autoritaria dell´Ungheria. Ma l´esito delle elezioni francesi, e non solo, ci dice che un´altra stagione politica può aprirsi, nella quale proprio la lotta per i diritti torna ad essere fondamentale. Di essa oggi abbiamo massimamente bisogno, perché da qui passa l´azione dei cittadini, protagonisti indispensabili di un possibile tempo nuovo.

l’Unità 12.5.12
Quel silenzio dei Grandi sui detenuti palestinesi
di Moni Ovadia


PROF. HENRY SIEGMAN, ORDINATO RABBINO ORTODOSSO DALLA YESHIVA TORAH VADAATH E CAPPELLANO MILITARE NELLA GUERRA DI COREA, è stato Executive Director dell’American Jewish Congress (dal 1978 al 1994) e del Synagogue Council, Senior Fellow al Council on Foreign Relations. I suoi scritti sono pubblicati dai maggiori quotidiani Usa e dalla New York Review of Books. Il prof Siegman ha scritto: «I fondatori del sionismo furono fra i leader più illuminati e progressisti del mondo ebraico...loro non erano razzisti... Ma il governo Nethanyahu ha provato che, benché il sionismo non sia razzismo, ci sono dei sionisti che sono razzisti. Nel 1980 molti nell'establishment ebraico americano parteciparono alle dimostrazioni contro il regime dell'apartheid in Sud Africa. La battaglia contro l'apartheid era considerata non solo dai liberals una causa ebraica. Oggi in Israele l'apartheid, non è una possibilità futura come molti non hanno smesso di ammonire, ma è una realtà attuale. Nethanyahu e il suo governo si sono impegnati a travestire il loro regime di apartheid de facto fingendo che lo status quo nei territori occupati sia temporaneo... ».
In questo regime di apartheid creato progressivamente dal governo Nethanyahu vedono la luce tutte le vessazioni tipiche di tali regimi. Oggi, detenuti palestinesi in sciopero della fame per protestare contro le illegali detenzioni amministrative e le brutali condizioni di detenzione, subiscono ogni sorta di violenza punitiva fisica e psicologica, due di essi Bilal Thaer e di Diab Halahleh, in sciopero da 67 giorni rischiano la vita. Il silenzio dei grandi della terra è assordante.

La Stampa 12.5.12
Algeria, l’ondata islamista s’infrange sui partiti laici
Insieme agli alleati filogovernativi l’Fln potrà dettare la Costituzione
di Domenico Quirico


220 seggi sono stati vinti dal Fronte di liberazione nazionale all’Assemblea di 462 deputati I suoi alleati della lista del premier Ouvahia sono al secondo posto

Chissà se i leader dei partiti islamici, dell’Alleanza verde ci credevano davvero, alla vittoria, al potere in fondo all’urna. Non sono ingenui, da anni hanno accettato un cantuccio, ben pagato, all’interno del sistema algerino. E hanno appreso che le elezioni, quaggiù, non rientrano, ieri oggi, anche domani probabilmente, nel dominio della pura aritmetica; ma in quello della metafisica creativa. Da ieri pomeriggio i loro leader denunciano la congiuntura maligna. Ma i risultati sono questi: il Front de Libération nationale, il partito del presidente Bouteflika, ha vinto 220 seggi dell’Assemblea nazionale (ne aveva 136). Una sorpresa ai limiti del credibile: il partito era dato, a sentire i suoi stessi dirigenti, a rischio di sparizione, con il segretario Abdelaziz Belkadem in lista di licenziamento e capilista che non avevano mai militato. «Un voto rifugio contro l’islamismo», ha spiegato il ministro degli Interni Daho Kablia. Al secondo posto i suoi alleati del Rassemblement démocratique National, il partito del premier Ouyahia.
E gli islamici, l’onda verde che, secondo i sondaggi, doveva allineare l’Algeria ai vicini, Egitto Tunisia Marocco? Nella nota del ministero degli Interni l’Alleanza verde è confinata alla miseria di 48 seggi. I due partiti governativi hanno la maggioranza assoluta nella nuova Assemblea di 462 seggi. E poiché, di fatto, funzionerà come Costituente il regime disegnerà il futuro a proprio comodo, potrà tranquillamente procedere alla resa dei conti interna, per decidere chi sarà il nuovo presidente nel 2014.
Soprassalto di mobilitazione laica, logica in un Paese di forte e sobria pazienza che, dopo aver attraversato gli inferi dell’applicazione dell’islamismo radicale alla politica con decine di migliaia di morti, vuole evitare gli splendori e le miserie della sharia, qualsiasi ne sia lo spessore e il colore? I giovani, i nuovi elettori hanno saputo essere più lungimiranti dei loro coetanei dei Paesi vicini che, egualmente azzannati dalla povertà e disgustati dalla corruzione, si sono affidati ai miracoli del partito di Dio? Difficile, al di la delle denunce dei vinti che devono essere provate, non avere dubbi. Che la presenza degli osservatori stranieri non basta certo a fugare. La sconfitta islamica è, in fondo, quanto speravano le cancellerie occidentali
Gli islamici hanno denunciato «la grande manipolazione». Inquieta il seguito, criptico nelle parole ma chiarissimo nella minaccia: «Una tale pratica rischia di distruggere quanto resta della speranza e della fiducia del popolo e di esporlo a pericoli di cui non ci assumiamo le responsabilità». Insomma per diventar sovversivi aspettavano solo un motivo valido. Per questi moderati che avevano accettato le regole del gioco elettorale e le promesse di trasparenza c’è una seconda umiliazione: non aver seguito il consiglio dell’ala radicale, i vecchi capi del Fis degli Anni 90, secondo cui era tutta una finzione per legittimare il regime e l’unica risposta politica era il boicottaggio.
"Gli islamici hanno conquistato soltanto 48 mandati e ora denunciano brogli"

Corriere 12.5.12
Le ferite (mai richiuse) della lunga guerra civile
di Antonio Ferrari


C'è solo da sperare che non si stia riproponendo, nelle elezioni algerine, il ribaltone o la grande truffa del 1991, quando contro l'inequivocabile vittoria del Fis (Fronte islamico di salvezza) si mossero i carri armati, e la frode evidente ed esplicita provocò una terribile guerra civile, costata quasi 200.000 morti. In realtà oggi la situazione è diversa, con un risultato sostanzialmente capovolto. Allora non si volle riconoscere la vittoria degli islamici; oggi si mette in discussione, con accuse di brogli indecenti, la vittoria del partito presidenziale, cioè il Fln, Fronte di liberazione nazionale, che avrebbe conquistato 220 dei 462 seggi del Parlamento. Con il sostegno del secondo partito, Unione nazionale democratica, guidato dal primo ministro Ahmed Ouyahia, che ha conquistato 68 seggi, i laici avrebbero quindi una solidissima maggioranza assoluta. Resa ancor più evidente dalla sconfitta del Fronte islamico, che oggi comprende sei sigle, e che complessivamente avrebbe raggiunto 66 seggi. In sostanza, una disfatta dei fondamentalisti, che le prime affrettate analisi attribuivano enfaticamente alla maturità del popolo algerino, assai scettico sulle esperienze degli altri popoli arabi che hanno condotto, con risultati controversi e in molti casi preoccupanti, le cosiddette «primavere». Ora la «grande manipolazione» denunciata dagli islamisti algerini, che prevedono come conseguenza dei clamorosi brogli l'esposizione a gravi pericoli del popolo, pericoli di cui «rifiutiamo di assumerci la responsabilità», sembra materializzarsi lanciando ombre inquietanti. Con una serie aggiuntiva di brividi, perché le ferite del 1991 non si sono mai richiuse, e perché se ventuno anni fa era obiettivamente difficile denunciare tutti i soprusi, alimentare il dissenso e puntare sulla solidarietà dei fratelli arabi, oggi è cambiato tutto. I social network e l'esperienza dei Paesi vicini, a cominciare dalla Tunisia, e quella dei più lontani Egitto, Siria e Bahrein, hanno diffuso nell'intero mondo musulmano una nuova consapevolezza. L'Algeria di Abdelaziz Bouteflika e dell'élite militare che lo sostiene è in sostanza un Paese a due velocità: da una parte gli enormi proventi dovuti a petrolio e gas; dall'altra le modeste ricadute di tanta ricchezza su un popolo fiero e paziente. È pur vero che per superare le disparità fra le regioni costiere e quelle assai più povere dell'interno è stato varato un piano quinquennale (retaggio dei vecchi regimi comunisti) per ridistribuire almeno una parte del denaro ricavato dalle risorse energetiche del Paese. Ma l'obiettivo era un buon risultato elettorale. I dubbi di oggi e le dure proteste non lo sciolgono.

l’Unità 12.5.12
La democrazia sembra aver tenuto
di Antonio Panzeri


Il giorno dopo il voto, l’Algeria si sveglia consapevole di aver archiviato la tornata elettorale, piena, però, di interrogativi su ciò che adesso potrà e dovrà accadere.
Ieri, parlando alla televisione di stato, il ministro degli Interni Daho Ould Kablia ha fornito i dati ufficiali di partecipazione al voto del 10 maggio: 42,90 per cento. Stando a questi dati, si é dunque registrato un aumento di circa sette punti rispetto alle elezioni legislative del 2007. Da qui, la soddisfazione delle autorità che hanno sottolineato il senso di civismo e di maturità del popolo algerino. Tuttavia, c’é da ritenere che su questo elemento della partecipazione si discuterà ancora molto ed animatamente nelle prossime settimane, tra le forze politiche e sui media, se non altro perché la maggioranza degli algerini in realtà ha disertato le urne. É altamente probabile che il voto riconfermi la maggioranza attuale di governo, anche se con qualche riequilibrio al proprio interno. La questione islamica non ha ancora assunto in Algeria i contorni che tanto fanno allarmare alcuni tra i commentatori europei. Questo per due ordini di motivi: innanzitutto perchè il partito islamico è, allo stato attuale, sufficientemente integrato nel sistema politico. In secondo luogo, perchè il periodo nero degli anni Novanta, cioè quello contrassegnato dal Fis, ilFronte islamico di salvezza nazionale che interruppe il processo democratico dopo aver vinto le elezioni, è ancora ben presente nella mente degli algerini.
Nel panorama in piena evoluzione del Nordafrica, l’Algeria sembra aver colto l’esigenza di aprirsi e attuare un processo di riforme democratiche e di volerlo fare con la gradualità necessaria e per via parlamentare. Non è in discussione la buona fede e la volontà di perseguire questo obiettivo. Tuttavia, i tempi stringono e reclamano il passaggio dalle parole ai fatti. Per questo, anche se a qualcuno può sembrare paradossale, il voto del 10 maggio affida ancor più responsabilità all’Assemblea nazionale eletta.
L’Algeria si è caricata sulle spalle una grande sfida. C’è da augurarsi che sappia affrontarla e vincerla per evirare che si ripristino i fantasmi del passato e che anzi possa incamminarsi rapidamente sulla strada delle riforme e della modernizzazione del Paese.

La Stampa 12.5.12
Per i contributi all’editoria arriva un taglio del 50%
Ieri i liquidatori del Manifesto hanno comunicato la cessata attività
di Francesca Schianchi


L’intenzione è quella di «razionalizzare, rendere trasparenti e migliorare la qualità» dei contributi pubblici all’editoria. Risparmiando almeno un terzo delle risorse: secondo i calcoli del governo, si dovrebbe passare dai 150 milioni del 2010 a circa 100-110 al massimo, forse anche meno. Per riuscirci, ieri il Consiglio dei ministri ha approvato due provvedimenti: un decreto legge, che possa subito rivedere i criteri di accesso e di distribuzione delle risorse, e un disegno di legge delega che prefiguri una riforma del sistema a partire dal 2014, da quando cioè, in base al decreto Salva Italia, cesseranno le sovvenzioni così come sono state distribuite finora. L’avvio di un processo di revisione che arriva proprio nel giorno in cui, tramite fax, i liquidatori dello storico quotidiano “Il manifesto”, in liquidazione coatta amministrativa da febbraio, comunicano alla redazione la pessima notizia della cessazione dell’attività e la richiesta di cassa integrazione per tutti di 12 mesi.
«I contributi diretti verranno ristretti a rimborso di costi controllabili, eliminando tutte le zone d’ombra che in questo settore hanno portato anche problemi gravi», annuncia il sottosegretario con delega all’editoria, Paolo Peluffo. Da subito il decreto riduce infatti i costi ammissibili per calcolare il contributo statale: solo quelli di produzione e vendita, non più consulenze e “service”. Per evitare abusi, la quota variabile comincia a essere calcolata solo sulle copie vendute, escludendo quelle diffuse in blocco e tramite «strillonaggio». Personale, carta, stampa e distribuzione saranno rimborsati per il 50%; la quota variabile sarà pari a 0,20 per ogni copia venduta di quotidiani nazionali, 0,15 dei locali e 0,35 dei periodici. Questi criteri di calcolo, per la prima volta, verranno applicati anche ai giornali di partito (per i quali restano invece più elastici i criteri di accesso al contributo).
Come ulteriore strumento di controllo, viene resa obbligatoria la tracciabilità di vendite e rese dei giornali attraverso i codici a barre: previsti crediti d’imposta per quelle edicole che aderiranno a una rete informatica. Ma cambia anche l’accesso alle risorse: per averne diritto, le testate nazionali dovranno vendere almeno il 30% di quanto distribuiscono (finora era il 15%), mentre quelle locali il 35% (prima bastava il 25%). Viene preso in considerazione anche un criterio legato al personale: i quotidiani che desiderano accedere ai fondi pubblici dovranno avere almeno cinque assunti a tempo indeterminato in prevalenza giornalisti, ne bastano tre ai periodici. A tutti è richiesto di essere in regola con il Fisco.
E il decreto prevede anche contributi per quelle aziende che decidano di passare alla pubblicazione digitale: per due anni, la sovvenzione coprirà il 70% dei costi e 10 centesimi per ogni copia venduta in abbonamento. Se molti si convertissero al web, sottolineano dal governo, il risparmio complessivo per le casse statali sarebbe ancora più accentuato del previsto 30%.
«Vengono finalmente definite buone pratiche amministrative di rigore e trasparenza», concede il segretario del sindacato unico dei giornalisti, la Fnsi, Franco Siddi, ma ci sono ancora «elementi che dovranno essere precisati e chiariti», non si può perseguire solo il «risparmio di risorse». Che resta però centrale: anche scendendo a 100 milioni di euro, la cifra resta ben più alta di quella stanziata dalla legge di bilancio per l’anno prossimo, 56 milioni di euro.

La Stampa 12.5.12
Remo Bodei
Non siamo più indignati, ora siamo disperati
L’ira può essere un sentimento positivo ma la crisi economica oggi ci porta alla depressione. Le riflessioni del filosofo
di Mario Baudino


L’incontro alle 12 in Sala Blu La lectio magistralis alle 12 in Sala Azzurra Oggi alle 12 in Sala Blu «Ira e indignazione», un incontro con Remo Bodei per la presentazione del suo nuovo saggio sull’ Ira . Evento a cura del Mulino Interviene Ugo Cardinale Pubblichiamo a destra una parte della lectio magistralis che il filosofo spagnolo Fernando Savater terrà oggi alle 11 in Sala Azzurra. Il titolo è L’etica della creazione intellettuale: una riflessione nell’epoca di Internet . A cura dell’editore Laterza
L’indignazione è il sentimento di essere stati ingiustamente offesi, noi o i nostri più prossimi, quindi una sorta di reintegrazione dell’autostima
C’ era una volta l’Indignato, sembra ieri. Ma nel giro di pochi mesi è sparito non solo dal mondo della comunicazione ma anche dalle piazze. Al suo posto s’avanza una nuova figura, che sempre più assume il ruolo di (triste) icona del 2012: il Disperato, che si uccide o per il lavoro o che il lavoro ha rinunciato a cercarlo, e si chiude nella disperazione, appunto, individuale. Che cos’è successo, in poco più di un anno? Remo Bodei, che ha pubblicato nel 2011 Ira, la passione furente (Il Mulino) parla oggi al Salone proprio di questi temi, e in particolare del rapporto fra ira e indignazione. Il filosofo, che insegna all’Ucla, l’Università di Los Angeles, è fra l’altro un grande analista delle passioni. Un campo in cui, storicamente, l’ira giganteggia.
«È il sentimento di essere stati ingiustamente offesi, noi o i nostri più prossimi, quindi una sorta di reintegrazione dell’autostima. L’indignazione poi ci dice è una nobile rivolta contro l’ingiustizia, e cioè il male fatto a tutti. Entrambe hanno una lunga e nobile tradizione. Pensi a San Pietro che nel Paradiso dantesco diventa rosso d’ira quando parla di Bonifacio VIII. Può un santo adirarsi fino a questo punto? Evidentemente sì». La sua è una tipica «ira giusta», quella senza la quale, secondo Aristotele, era come venissero tagliati i «nervi dell’anima». Bodei nel suo libro la legge come passione e non come vizio, e di conseguenza come motore politico e sociale anche nella modernità, dalla Rivoluzione francese in poi. Gli Indignati ne sono stati l’ultima la più recente incarnazione.
Oggi se ne parla decisamente meno. Lo si vede bene al Salone: sono spariti dagli stand i punti esclamativi sui titoli dei libri, le grandi petizioni di principio, le diffide gridate ad alta voce, gli ultimatum. La stagione segnata dal successo del pamphlet di Stephane Hessel, l’ex partigiano novantatrennne divenuto una sorta di cometa mediatica, è già alla fine. Persino l’esempio più tipico di «banca dell’ira», e cioè Beppe Grillo, nonostante si continui a vociferare che è in arrivo per la sua visita «privata», mantiene e forse amplifica il suo ruolo di grande assente. In questo, i libri che sono pur sempre l’asse portante della cultura e dei suoi imprevedibili mutamenti, registrano nel loro insieme e a volte anticipano il clima sociale. Tutto finito? «No. Se ne parla di meno perché l’indignazione, che può essere facilmente malriposta e degradarsi a vittimismo, forse è vissuta come un’arma spuntata. E’ un fuoco che si accende in un certo momento».
Si spegne altrettanto all’improvviso? «Non sempre. Abbiamo visto divampare le rivolte europee e quelle dei Paesi arabi o del Nordafrica. Avevano obbiettivi diversi, sono finite tutto sommato male. E non dimentichiamo le “banche dell’ira” e dell’indignazione, ovvero quella situazioni in cui la passione viene accumulata per indirizzarla politicamente. Ma oggi potremmo dire che è già stata assorbita da un nuovo atteggiamento emotivo e mentale». La disperazione? «La disperazione credo sia reale, sotto la spinta della crisi, e non solo un fenomeno amplificato dai mass media. Non riempie le piazze, è ovvio. Ma da atteggiamento emotivo solitario si sta in qualche modo legando a ricerche, appunto disperate, di un progetto, di una via d’uscita. Il problema è che in quanto tale viene vissuta in solitudine, e anche quando si organizza ha effetti politici molto ridotti».
Da una lato l’indignazione che, almeno, «produce adrenalina, è un sentimento positivo e propositivo anche se non sa dove andare». Dall’altro la depressione, che è un modo di ripiegarsi su se stessi. Ma non sono poli opposti; forse sono ancora in bilico. E comunque possono incontrarsi. «Per esempio alle elezioni: la disperazione, se va a votare, vota gli indignati. C’è una contiguità: non dimentichiamo che siamo alle prese con passioni tristi».

Corriere 12.5.12
Ecco perché parliamo (tanto) di noi
La formula di Twitter e Facebook
Nel cervello si attivano le stesse aree di cibo, denaro e sesso
di Mauro Covacich


Cosa c'è nel raccontare di sé che mi fa stare così bene, e dal costringermi a sproloquiare con esternazioni sterminate decisamente poco ecosostenibili in un ambiente già troppo affollato di tribuni sprovvisti di orecchi? Ora lo sappiamo. Due neuroscienziati di Harward, Diana Tamir e Jason Mitchell, hanno scoperto che nel dare sfogo alle nostre confidenze stimoliamo le stesse zone del cervello che si attivano per il piacere del cibo, del denaro e del sesso.
S e parlo di me godo. Quale magia del piacere si annida nelle parole? Cosa c'è nel raccontare di sé che mi fa stare così bene, dal volerne ancora e ancora, e dal costringermi a sproloquiare con esternazioni sterminate decisamente poco ecosostenibili in un ambiente già troppo affollato di tribuni sprovvisti di orecchi? Ora lo sappiamo. Due neuroscienziati di Harward, Diana Tamir e Jason Mitchell, hanno scoperto che nel dare sfogo alle nostre confidenze stimoliamo le stesse zone del cervello che si attivano per il piacere del cibo, del denaro e del sesso. L'aumento della dopamina nelle aree mesolimbiche è il medesimo. Nello studio, rivelato ieri al Wall Street Journal, si dimostra (con tanto di test collettivi e risonanze magnetiche), che il quaranta per cento dei discorsi quotidiani di un individuo è dedicato all'espressione di pensieri e sentimenti privati.
La notizia è interessante perché ci dice qualcosa che avevamo già avvertito coi nostri modesti mezzi introspettivi, qualcosa che non sapevamo di sapere e che dà conto di una vera e propria isteria di massa: ovvero, tanto insisto per mettermi in luce, quanto vivo nella costante angoscia di non essere amato abbastanza. L'attenzione degli altri mi gratifica senza riuscire mai a saziarmi, né più né meno degli altri piaceri materiali. Il che crea un paradosso: l'aumento costante di spazi di comunicazione, soprattutto nell'universo della Rete, ha lo scopo primario di nutrire il mio egocentrismo. Penso ovviamente ai social-network. Non occorre interrogarsi troppo in profondità per scoprire che la socializzazione di Facebook e Twitter è per buona parte illusoria. A dispetto di un aumento di informazioni, sia in termini di numero che di frequenza, a dispetto di un allargamento del campo degli interlocutori (le nuove «amicizie»), l'intento comunicativo tradisce il mio bisogno di luce. In teoria dovrei parlare solo quando ho qualcosa da dire, in pratica dico sempre qualcosa. Mi esprimo, dichiaro, chioso, intervengo, posto, riposto, compio una serie infinita e inevitabilmente inflattiva di atti linguistici, perché questo mi provoca un'immediata sensazione di piacere.
L'immediatezza è il nodo di questa scoperta scientifica. Un tempo avrei partecipato a una discussione con l'idea di ricavarne un accrescimento a lungo termine, avrei preso il motorino, avrei attraversato la città per andare in un posto ad ascoltare gli altri. Forse, avessi avuto un'idea e il coraggio per esprimerla, avrei alzato la mano. La serata avrebbe generato in me effetti contrastanti e duraturi. Ora intervengo con un clic, e lo faccio per godere subito. Un bisogno di appagamento istantaneo che innesca il digitare compulsivo. Eccomi al semaforo intento a twittare su quanto fosse freddo il cappuccino che mi hanno appena servito al bar. Eccomi al semaforo successivo intento a controllare le prime reazioni.
Di primo acchito, una tale deriva cripto-solipsistica — sottolineo, paradossale — può essere addebitata alla nuova complessità del mondo esterno. Se la realtà mi assedia coi tratti sempre più inafferrabili e proteiformi dei suoi problemi, io mi rifugio nel monologo esteriore. Se le cose fuori di me si sono fatte illeggibili, io leggo me stesso, ripasso senza posa l'unico centimetro del pianeta di cui so abbastanza. E ne faccio spamming. Beninteso, il fenomeno è molto meno rozzo di come lo descrivo: moltissimi di noi sono diventati efficienti agenzie di informazione che erogano in tempo reale notizie sulla guerra civile siriana, sull'affermazione degli ebook, sull'oscenità delle pale eoliche, sull'ultimo provvedimento fiscale di cui indignarsi. Ma quasi nessuno lo fa davvero per questo. Inutile dire che anch'io in questo momento, a un livello neanche troppo subliminale, scrivo per placare il mio narcisismo e gettare un'altra verginella innocente nella sua bocca spalancata. E non c'è dubbio che affrontare il mondo là fuori è un'esperienza faticosa, per non dire sconcertante. Ma se ce ne restiamo tutti in casa ad aggiornare i nostri profili, se continuiamo a espellere enunciati per il gusto di sentire come suona la nostra voce, che possibilità ha il mondo di spiegarci le sue ragioni?

venerdì 11 maggio 2012

il Fatto 11.5.12
Il Vaticano sapeva
Videla e i silenzi del Vaticano
La politica dei “desaparecidos” che il dittatore Jorge Videla ha ammesso anche in tribunale, era nota fin dal 10 aprile 1978 alla Chiesa cattolica
Così risulta da un documento rinvenuto nell’archivio della Conferenza episcopale
Desaparecidos: documento della Santa Sede ritrovato. Scritto dopo un pranzo con i vescovi e il dittatore argentino
di Horacio Verbitsky


Buenos Aires. La politica dei “desaparecidos” che il dittatore Jorge Videla ha finito per ammettere con diverse dichiarazioni e in tribunale, era nota fin dal 10 aprile 1978 alla Commissione esecutiva della Chiesa cattolica che, però, si guardò bene dall’informare l’opinione pubblica. Tutto questo risulta da un documento rinvenuto nell’archivio della Conferenza episcopale.
IL DOCUMENTO porta il numero 10.949 e già il numero dà un’idea della quantità di informazioni sulle quali la Chiesa continua a mantenere il segreto. Il documento fu redatto a cura del Vaticano al termine di un pranzo con Videla ed è conservato nel fascicolo 24-II. Sono riuscito a visionare il documento in maniera surrettizia dopo che a una formale richiesta le autorità ecclesiastiche avevano risposto con la sorprendente affermazione secondo cui l’Episcopato non avrebbe archivi.
Quando incontrava esponenti della Chiesa cattolica, Videla parlava con la franchezza in uso tra amici. L’allora presidente dell’Episcopato, il cardinale Raul Francisco Primatesta, comunicò all’Assemblea Plenaria che lui e i suoi due vicepresidenti, l’arcivescovo Vicente Zazpe e il cardinale Juan Aramburu, avevano parlato a Videla dei casi di prigionieri apparentemente rimessi in libertà, ma in realtà assassinati, si erano interessati dei sacerdoti desaparecidos, quali Pablo Gazzarri, Carlos Bustos e Mauricio Silva, e di altre persone scomparse nei giorni precedenti all’incontro con Videla. Secondo il documento episcopale “il presidente ha risposto che apparentemente sarebbe ovvio affermare che sono già morti; si tratterebbe di varcare una linea di demarcazione: questi sono scomparsi, non ci sono più. Questo sarebbe il più chiaro, comunque ci porta a una serie di considerazioni in ordine a dove sono stati sepolti: in una fossa comune? E in tal caso chi li avrebbe sepolti in questa fossa? Una serie di domande alle quali le autorità di governo non possono rispondere sinceramente in quanto la cosa coinvolge diverse persone”, un eufemismo per alludere a coloro che avevano svolto il lavoro sporco di sequestrarli, torturarli, ucciderli e fare sparire le spoglie. L’atteggiamento del clero aveva sfumature sottili. Zazpe chiese: “Cosa rispondiamo alla gente visto che c’è un fondamento di verità in quanto sospettano? ”. E Videla “ammise che era vero”. Aramburu spiegò che “il problema è di rispondere in modo che la gente non continui a chiedere spiegazioni”.
PRIMATESTA spiegò che “la Chiesa vuole capire, collaborare, è consapevole che il Paese versava in uno stato di caos” e che ha misurato le parole perché sapeva benissimo “il danno che poteva arrecare al governo”. Anche Primatesta ha insistito sulla necessità di arrivare a una qualche soluzione in quanto prevedeva che alla lunga il metodo consistente nel far sparire le persone avrebbe prodotto “effetti negativi” considerata “l’amarezza che affligge molte famiglie”. Questo dialogo di straordinaria franchezza mostra che sia Videla sia la Chiesa conoscevano benissimo i fatti e sottolinea la complicità con cui valutavano e decidevano in che modo rispondere alle denunce della gente avvertite da entrambe le parti come una minaccia comune.
Nello scegliere questa politica di omicidi clandestini, che Videla ora definisce “comoda” perché sollevava dal fornire spiegazioni, la giunta militare gettò un’ombra di sospetto su tutti i quadri delle Forze armate e delle forze di sicurezza, ombra che cominciò a dissiparsi con la riapertura dei processi che hanno consentito di accertare le responsabilità individuali che la giunta aveva coperto. Fino ad oggi ci sono state 253 sentenze di condanna e 20 di assoluzione, la qual cosa dimostra che in democrazia nessuno viene condannato pregiudizialmente e senza poter esercitare il suo diritto alla difesa. Fino ad oggi solo un cappellano militare, Christian von Wernich, è stato condannato per complicità in casi di tortura e omicidio.
ZAZPE è morto nel 1984, Aramburu nel 2004 e Primatesta nel 2006. Nel 2011 ha rinunciato per sopraggiunti limiti di età, Jorge Casaretto, l’ultimo vescovo di quei tempi ancora in attività. Tuttavia la Chiesa continua a mantenere un ostinato silenzio che talvolta sottolinea la sua crescente irrilevanza nel panorama della società argentina. La scarsa influenza della Chiesa si è vista con chiarezza l’anno scorso quando, malgrado la sua mobilitazione, il Congresso ha modificato il codice civile per consentire il matrimonio a tutte le persone indipendentemente dal sesso dei contraenti.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 11.5.12
Caso scout-gay
Né sdoganamento né anatemi, ma riflessioni
di Filippo Di Giacomo


LA SETTIMANA SCORSA L’AGESCI, ORGANIZZAZIONE DEGLI SCOUT CATTOLICI, ha reso noti gli atti di un seminario di studi. Come ha chiosato Marco Politi (probabilmente, l’unico giornalista ad aver letto attentamente tutti gli interventi) sembra che tutti siano orientati a «sdoganare la presenza gay all’interno del movimento scout cattolico». Il convegno di studio, organizzato dalla rivista «Scout-Proposta educativa» si inserisce tra le traiettorie che, nella chiesa di base, stanno elaborando qualche via di uscita da posizioni fossilizzate. Il numero della rivista scout si aggiunge così dal novembre scorso, al numero di «Aggiornamenti sociali» di qualche anno fa, a diverse pagine di interventi e di opinioni del quotidiano «Avvenire» e ad altre iniziative che, chi frequenta l’humus territoriale della Chiesa italiana, conosce. Eppure, qualcuno ha provato a prendersela con il teologo padre Francesco Compagnoni, uno dei più aperti docenti di teologia morale che, nel dibattito a più voci, ha riassunto la dottrina ufficiale della Chiesa usando anche per la condizione omosessuale, parole che in teologia morale valgono per tutti. «Atti intrinsecamente disordinati», sono anche quelli di un eterosessuale promiscuo, il quale – qualora fosse un capo scout – rappresenterebbe un «problema educativo». Il sacerdote quindi, lungi dal dichiarare «anatema» l’omosessuale educatore, sostiene che la prassi pedagogica comporterebbe, data l’età di coloro che sono coinvolti nel percorso educativo dell’Agesci, una buona dose di discrezione. Ed è stata questa l’opinione che ha fatto gridare allo scandalo. Marco Politi, che pure ha annotato la distinzione tra capi scout gay anonimi e non, ha saggiamente ricordato «Sono contorsioni, ma fino a poco tempo fa era la dottrina dell’esercito americano dove, vietata l’omosessualità, vigeva la regola “Don’t ask, don’t say”: le gerarchie militari non chiedano, i soldati non dichiarino». «La via per andare a Dio», diceva Raïssa Maritain, «è infinitamente corta perché egli è vicino a noi come la nostra anima».
La nostra anima è sempre viva. Ma se vogliamo afferrarla, e costringerla nei parametri della nostra razionalità, ci sfugge ma allo stesso tempo, continua ad avvolgerci da ogni parte. È dentro e fuori di noi. Sottrarsi alla sua presenza significherebbe sottrarsi alla realtà che incarniamo. La getteremo dalla finestra, ma rientrerà dalla porta. Quando siamo stanchi di chiamarla «anima», la chiamiamo «psiche». È la stessa cosa.
Per Omero, che di anime complesse e confuse se ne intendeva, era «l’occhio che vede e l’orecchio che ode». E forse alludeva a questo Cristo, quando proclamava beati chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire. Ma l’anima è anche la pelle che profuma, l’olfatto che odora, il palato che gusta, il cuore che ama, il cervello che pensa. E se l’atteggiamento religioso che ci avvicina a Dio è l’umile ammirazione, lo stesso può valere per avvicinarci alla nostra anima. Potremmo «ammirarci» perché coscienti, con la parole della Bibbia, che Dio ci ha «costruiti» come dei prodigi. Da quando le parole di meraviglia delle nostre origini sono state confuse con l’uso improprio dei linguaggi religiosi, psicoanalitici, medici, sociologici, politici... tutti siamo diventati più poveri. Forse perché così ricchi di idee, così complessi, così confusi in un amalgama di teorie, modelli, opinioni, sentiamo forte il bisogno di tornare all’essenziale. Cosa che, spesso, significa interrogarsi sulla propria anima, sul proprio io, sullo spessore di questo «io» che ognuno dice o crede di essere. E se in questo percorso il nostro cuore, dovesse «condannarci», come cristiani si ha la certezza che viene da Giovanni quando assicura che «Dio è più grande del nostro cuore». Nelle stesse pagine della rivista «Scout-Proposta educativa», Manuela Tomisich, docente all’università cattolica di Milano annota: «Costruire la propria identità attraverso una serena attenzione alla dimensione della sessualità rende possibile esprimere la propria unicità e riconoscersi nella propria scelta». Nella base cattolica, la riflessione è molto avanzata e per fortuna nessuno parla più di prescrizioni, o di abominevoli terapie per convertire gli omo in etero. La «discrezione», raccomandata da padre Francesco Compagnoni dunque, rimane un invito a quel rispettoso silenzio che accompagna la ricerca dei veri valori. La differenza di cui tanto si parla, non è solo quella tra uomo e donna, perché questa non basta a garantire la maturità di un rapporto a due, se per rapporto maturo si intende un legame che fa i conti con un essere diverso dal «me», con una alterità. L’altro è ben più che il suo corpo. E, se è vero che l’uguaglianza dei corpi nella coppia omo non impedisce di riconoscere l’alterità, è compito dei credenti gay cominciare a spiegarlo e dimostralo. Senza urlare, magari, ogni qual volta un prete esprime un’opinione.

l’Unità 11.5.12
Legge elettorale scontro Prodi-Pd
Il professore critico: «Non si può sostenere Hollande e un sistema
di voto che ci farebbe finire come in Grecia»
La replica: «Siamo per il doppio turno, ma per cambiare il Porcellum serve la maggioranza»
di Simone Collini


Ma perché? È questa la domanda che si fanno al Nazareno quando tra le stanze del quartier generale del Pd inizia a circolare il testo dell’intervista di Romano Prodi all’Espresso. Il confronto sulla legge elettorale è già tutto in salita, è il ragionamento, e le parole del Professore non contribuiscono certo a spianare la strada. Per questo Pier Luigi Bersani con i suoi si dice «sorpreso». Per questo la segreteria esce con una nota in cui si ricorda che il Pd è per il doppio turno di collegio ma che se si vuole davvero superare il Porcellum bisogna arrivare a un sistema elettorale che venga approvato dalla maggioranza del Parlamento. E per questo Luciano Violante, che sta lavorando insieme ad esponenti del Pdl e del Terzo polo per redigere una bozza condivisa, definisce «non esatto» quanto detto dall’ex premier al settimanale.
Prodi, nell’intervista che esce oggi in edicola, sostiene che il confronto avviato da Pd, Pdl e Terzo polo «ci avvicina alla Grecia» e che Bersani non può contemporaneamente dire di voler costruire una coalizione come quella che ha portato Hollande all’Eliseo e poi dare il via libera a una legge elettorale di tipo proporzionale: «Come fa il mio amico Bersani a dire che vuole fare come Hollande, guardare ad alleanze di centro e di sinistra, con la legge elettorale che lui ha proposto e che sostiene?». Dice il Professore che «il modello tedesco non regge più neppure in Germania»: «Momenti di frammentazione politica come quello che stiamo vivendo, con l’esplosione delle liste, obbligano i partiti a cercare l’unità, un riaccorpamento. O con il doppio turno alla francese o con altri meccanismi. La riforma elettorale di cui si è parlato per mesi invece ci avvicina alla Grecia».
SORPRESA PER L’USCITA DEL PROF
L’uscita di Prodi sorprende Bersani, soprattutto perché arriva in un momento particolare, cioè all’indomani di un voto dal quale solo il Pd è uscito rafforzato, all’interno di un quadro generale caratterizzato da una forte frammentazione, e proprio mentre il confronto su come superare il Porcellum ha subito una brusca frenata a causa delle difficoltà e delle lotte intestine del Pdl. Per questo al Nazareno si decide di rispondere con una nota della segreteria, per bocca del responsabile Enti locali Davide Zoggia: «Il presidente Prodi sa bene che la proposta di riforma elettorale approvata dalla Assemblea nazionale del Pd prevede il doppio turno di collegio. Quella proposta non solo non è mai stata ritirata, ma è pienamente in campo. Il Pd, ancora ieri e oggi con le parole del segretario Bersani, l’ha rilanciata». Ma non sfugge a nessuno, nel Pd, un piccolo particolare. Che Zoggia ricorda a Prodi, e cioè che il Pd da solo non ha la maggioranza in Parlamento per modificare la legge elettorale: «E dato che il Porcellum va assolutamente cambiato, bisogna trovare i voti su una proposta di riforma che superi l’attuale normativa». Insomma, «una dimostrazione di testimonianza delle proprie idee» va bene, ma poi bisogna evitare che gli elettori tornino alle urne senza avere la possibilità di scegliere i propri rappresentanti e che anche la prossima legislatura sia a rischio instabilità.
Chi per il Pd sta lavorando per trovare una convergenza con Pdl e Terzo polo su una bozza di legge elettorale che leghi insieme rappresentanza e governabilità è Violante. Che definisce «non esatto» il ragionamento di Prodi sul rischio della deriva «greca». Per due motivi. Il primo è che l’attribuzione dei seggi, secondo quanto stabilito nelle precedenti riunioni degli sherpa, avverrebbe su base circoscrizionale e non nazionale, «il che renderebbe il sistema soltanto apparentemente proporzionale, mentre nei fatti sarebbe maggioritario». Fa però anche notare Violante che il risultato delle amministrative «mette in discussione uno dei presupposti» alla base del confronto, e cioè che il sistema politico italiano si fondi due poli, più una formazione che aspira a porsi come terzo polo. «Se il voto amministrativo valesse anche per le politiche, ci sarebbe un solo polo», dice facendo riferimento al tracollo di Pdl e Lega. «E questo comporta la necessità di rivedere il progetto». Come?
Tra le ipotesi c’è quella di procedere a una revisione del numero delle circoscrizioni, prevedendone una decina in più rispetto alle attuali 26, il che renderebbe ancora più maggioritario il sistema. Oppure di lavorare per una maggioranza costruita attorno proprio al doppio turno, sul quale (oltre a ItaliaFutura, l’associazione che fa capo a Montezemolo) una parte de Pdl sarebbe anche d’accordo (avversata però dagli ex An, che spingono per reintrodurre le preferenze). Contatti tra gli sherpa ci sono stati in questi giorni, ma per una vera e propria riunione bisognerà aspettare la settimana dopo i ballottaggi. I tempi però stringono e il fatto che l’iter delle riforme istituzionali sia rallentato anche per via dell’arrivo in commissione Affari costituzionali del Senato della spending review inizia a preoccupare chi pensava di approdare a una discussione in Aula per maggio. Il relatore in commissione per le riforme Carlo Vizzini (Pdl) dice che «non c’è nessun atteggiamento dilatorio da parte di alcuno». I sospetti reciproci tra Pd, Pdl e Terzo polo però non mancano, e nessuno sente il bisogno di dover fare i conti anche con spinte esterne.

l’Unità 11.5.12
Lega addio. Il Pd in testa in Lombardia
di Andrea Carugati


L’asse Gemonio-Arcore investito al Nord da un vero tsunami. E il centrosinistra si trova a un passo dalla conquista di città che ieri sembravano impossibili

AComo, Lega e Pdl nel 2010 sfioravano il 60%, alle comunali di qualche giorno fa hanno preso il 20%.
È qui, in quello che veniva chiamato «il Mugello del centrodestra», feudo incontrastato per tutta la seconda Repubblica, che inizia il nostro viaggio nella Lombardia posttsunami del 6 e 7 maggio. Una regione dove l’asse Arcore-Gemonio è semplicemente collassato, regalando al Pd e ai suoi alleati una chance formidabile: ritrovarsi primo partito, a un passo dalla conquista di città che sembravano aliene. Difficile parlare di una clamorosa avanzata dei democratici: quasi sempre i voti sono gli stessi del 2010, con qualche punta di eccellenza e qualche oscillazione al ribasso: ma quello zoccolo duro del 35-40% improvvisamente è diventato oro. «Mentre tutto un sistema salta per aria noi teniamo e ci consolidiamo, e riusciamo a mettere in piedi coalizioni che si aprono alla società civile», sorride Maurizio Martina, giovane segretario del Pd lombardo. «Non era affatto scontato, per me è un risultato che vale doppio».
A Como il geologo Mario Lucini è largamente in testa nella sfida del ballottaggio del 20 e 21 maggio: 35,5% contro il misero 13,2% della candidata Pdl Laura Bordoli. Qui, come in altre realtà importanti della Regione, da Crema (vinta al primo turno, a sorpresa, da Stefania Bonaldi) a Garbagnate Milanese, gli ingredienti messi sul tavolo dal centrosinistra sono quasi sempre gli stessi: costruzione di coalizioni con Idv e Sel aperte alle liste civiche, le primarie, la vittoria di persone che si erano fatte le ossa nei duri anni di battaglia all’opposizione. Un lavoro silenzioso, che però ha dato i suoi frutti, come confermano i dati del varesotto, dove il centrosinistra è in testa in due Comuni guidati per quasi vent’anni dalle camicie verdi, Tradate e Cassano Magnago, paese natale del Senatur, dove la Lega è clamorosamente fuori dal ballottaggio. Per non parlare di Monza, dove il sindaco leghista uscente Marco Mariani è rimasto fermo al primo turno con l’11% e ora in testa c’è il candidato Pd Roberto Scanagatti, forte del 38%, contro il pidiellino Andrea Mandelli al 20%.
C’è un unico filo che lega tutte queste realtà: un Pdl ai minimi termini, una Lega divisa e in caduta (a Tradate -15%), amministrazioni uscenti litigiose, con risse e faide tra i due ex alleati e anche al loro interno, la nascita di liste civiche di dissidenti, spesso ex leghisti, che in un caso, come ad Abbiategrasso, ora si schierano col candidato Pd Pierluigi Arrara. Mentre a Cassano Magnano, la candidata maroniana Stefania Federici ha fatto pubblica dichiarazione di stima per il Pd Mauro Zaffaroni, un medico che viene dal Pci.
Questo non vuol dire che sia in corso un flirt tra Pd e Lega. Ma che sarà assai difficile una ricomposizione nelle urne del vecchio centrodestra. «Libertà di voto», ha tuonato Bobo Maroni, fulminando il governatore Formigoni che auspicava un soccorso verde nei ballottaggi. E così il Pdl ora punta sui grillini: ha offerto sostegno all’unico candidato 5 stelle in corsa, Matteo Afker, che sfida il Pd Mario Pioli a Garbagnate. Ma quelli non ne vogliono sapere di apparentamenti, anche se il coordinatore si è spinto sino a offrire assessorati ai grillini in cambio del loro appoggio negli altri Comuni dove si torna alle urne. «Non sanno più cosa inventarsi», sorride Pioli, che ha già governato Garbagnate per 16 anni e ora parte dal 43,7% contro il 10% del grillino. A parte il corteggiamento dei grillini, al Pdl decimato restano poche carte. «Che devo dire, qui a Monza c’è un ottimo clima», sorride il candidato Pd Scanagatti, 57 anni, anche lui ex Ds, dirigente d’azienda. «Pdl e Lega possono anche cercare di ritrovarsi, ma da due sconfitte non nasce una vittoria». Lui, che ha costruito il suo successo dialogando con i tanti comitati di cittadini che sono nati in città contro le scelte urbanistiche del vecchio sindaco, va avanti per la sua strada. «Stiamo con i piedi per terra, ma c’è un elemento di soddisfazione: la Lega ha fallito e noi ci siamo fatti trovare pronti, in contatto con i cittadini e i loro bisogni insoddisfatti». Il comasco Lucini gli fa sponda: «Lo sa che ai banchetti tanta gente di centrodestra ha detto che mi votava perché di quelli non ne poteva più? Un signore mi ha preso per un braccio: “Io ho sempre votato Lega, ma lo so che voi i bambini non li mangiate...”».
I voti leghisti, dunque. Molti sono rimasti a casa, buona parte nelle file dei grillini. «Ma qui da noi c’è anche tanta gente di sinistra che votava Lega che è tornata a casa», spiega Zaffaroni da Cassano Magnago. «Noi siamo tornati tra i cittadini in modo capillare e abbiamo anche saputo presentare volti nuovi», sorride Stefania Bonaldi, classe 1970, eletta sindaco al primo turno a Crema. Anche lei, come Scanagatti e Lucini, ha guidato per anni il Pd sui banchi dell’opposizione.
Gente che ha contribuito a cambiare la geografia politica lombarda. Con il centrosinistra che vince al primo turno a Cesano Maderno e Pieve Emanuele (la cittadina sede nel 1991 del congresso fondativo della Lega Nord), è in testa in luoghi difficili come Desenzano del Garda e Melegnano, prova a giocarsela anche a Legnano, Erba e Magenta. A Tradate la favorita è Laura Cavallotti, una ex dirigente del Comune che a un certo punto, «stufa delle troppe cementificazioni», ha deciso di correre con una civica e si è alleata col Pd: 30% contro il 29,4% del leghista Gianluca Crosta. Un distacco esilissimo, una sfida che appare in salita. Ma lei non si dà per vinta. Del resto alle regionali di due anni fa Pdl e Lega facevano il 60%. «Niente fanfare», avverte il deputato Pd Daniele Marantelli. «Per noi c’è ancora molto lavoro da fare...».

il Fatto 11.5.12
Gli scommettitori stranieri puntano su un candidato democratico


Gli scommettitori stranieri puntano sul Partito democratico. Infatti, sono pronti a indicare come prossimo premier italiano un esponente del Pd. I bookmaker esteri con la sigla anglosvedese Unibet -come riferisce Agipronews- offre a 1,75 la presidenza del Consiglio a un parlamentare dei democratici. Evidentemente è in generale lo schieramento di centrosinistra che piace ai bookmaker: al secondo posto in lavagna, infatti, c’è l’Italia dei Valori (a 4,50), mentre il Pdl si trova solo al terzo posto, sul gradino più basso del podio a quota 5,00. Doppia cifra per l’Udc (a 10,00) e Fli, che viene dato 1 a 15,00 insieme a Sinistra, Ecologia e Libertà. Per motivi diversi, un leghista o un grillino non sono visti come futuri premier convincenti. Bocciati nella stessa misura la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle. Un premier leghista o grillino viene pagato con una proporzione altissima: vale 35 volte la scommessa.

il Fatto 11.5.12
Bersani. Leadership tocca a noi, forse a me


Alla fine Bersani, a tre giorni dai risultati elettorali prende il coraggio a due mani e lo dice a Repubblica: “Il candidato premier tocca a noi”. Ma anche: “Il Pd vuole allargarsi e aprirsi, il centrosinistra non è sufficiente per governare. Noi puntiamo a un patto di legislatura ampio. Ma la guida la proporrà il Partito democratico”. Passa una manciata di ore e l’indicazione, peraltro non proprio nettissima di Bersani, viene messa in discussione dai futuri possibili alleati. La parola è a Vendola: “Il Pd si dia una mossa: c’è il centrosinistra? Allora diciamolo. Il nostro programma è come quello di Hollande? Se è così sono pronto a sottoscriverlo. Se invece il nostro programma è un ibrido incomprensibile, ambiguo ed opaco, diciamolo. Perchè se sarà così io non ci starò”. Dal canto suo, il segretario democratico fa ancora un passo in avanti in un’intervista a “Piazza Pulita” su La7: “Io candidato? Penso che si lavora in collettivo, che le leadership sono pro-tempore, che devono essere scelte, non si scelgono da sole: questa è la mia idea, senza tirarmi indietro: sono disponibile solo in questa logica”.

Corriere 11.5.12
«Sfido Bersani alle primarie, dovrà farle. Non è legittimato da quelle 2009»
Renzi: se prende un voto di più sarà il candidato premier del Pd
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Se i dirigenti del Pd pensano di aver vinto queste elezioni vuol dire che vivono nell'iperuranio»: Matteo Renzi non si smentisce mai. Pane al pane e vino al vino, senza troppe diplomazie o giri di parole.
Sindaco, comunque il Pd ha tenuto.
«Non ha senso dire "siamo solo feriti ma non siamo morti". Continuare a dare una lettura relativa di queste elezioni senza sottolineare il dato più importante che è quello dell'astensionismo mi sembra una cosa ridicola. Quando a Genova vota un elettore su due qualche domanda bisognerà pur porsela. E mi pare che l'astensionismo, unito al voto di protesta, fotografa un'Italia totalmente diversa da quella che emerge dai commenti dei leader dei partiti. Dopodiché, per carità, io sono molto felice che il Pd prenda qualche sindaco in più del passato, però è anche vero che lascia sul terreno 91 mila voti. È una cifra bestiale. Persino dove abbiamo vinto abbiamo perso molti consensi».
In compenso la destra è andata malissimo.
«Alla destra si potrebbe dedicare una puntata di Chi l'ha visto. Ma attenti a entusiasmarsi troppo: sottovalutare Berlusconi oggi sarebbe un clamoroso errore. Il centrodestra oggi non ha più niente da perdere e quindi potrebbe buttare il tavolo all'aria».
Ossia mandare a casa Monti?
«No, parlo del tavolo politico. Berlusconi potrebbe inventarsi un nuovo soggetto. E questo provocherebbe il bis del '93. Io sento un'assonanza tra quel periodo della gioiosa macchina da guerra di Occhetto e questa fase. Sia dal punto di vista del tipo di coalizione — la foto di Vasto — sia per la sicurezza di vincere che sembra albergare in larga parte dei nostri dirigenti. Attenzione: lo ripeto, Berlusconi può rialzare la testa, inventarsi una cosa nuova e poi noi passiamo i prossimi cinque anni, dal 2013 al 2018, come un gruppo di alcolisti anonimi a chiederci perché abbiamo perso elezioni che avevamo già date per vinte. E non vorrei essere scortese con gli alcolisti anonimi».
Intanto c'è chi parla ancora di elezioni anticipate.
«Se nel centrosinistra c'è, come io credo, la tentazione di costringere Berlusconi a staccare la spina a Monti per andare alle elezioni a ottobre, vuol dire che ci si sta preparando a commettere un errore politico bestiale».
E che cosa dovrebbe fare nel frattempo il Pd?
«Io so quello che faccio io adesso: chiedo formalmente al segretario del mio partito di convocare le primarie del Pd. Non vorrei che Bersani pensasse di fondare la propria legittimazione sulle primarie del 2009. Se si vota a marzo del 2013 si facciano le primarie a ottobre o a novembre, senza inventarsi alibi».
Renzi, lei parla di primarie del Pd, non di coalizione.
«Io sono per farle di partito, come in tutti i Paesi civili. Bersani le vuol fare di coalizione? Ci spieghi perché. In Francia Hollande non le ha fatte con Melenchon».
E se Bersani vince, lei che fa?
«Se ottiene un voto in più degli altri ha il diritto di essere lui il candidato e tutti noi gli daremo una mano con correttezza ma l'idea di andare a ricercare la sua legittimazione su primarie di tre anni fa, cioè di un'era geologica fa, perché in politica è cambiato tutto, sarebbe assurdo. Bersani deve avere il coraggio di indire le primarie. Mettendosi in gioco lui, se lo ritiene, ma è ovvio che parteciperanno anche altri. Ognuno con il proprio programma».
Cioè?
«Ognuno dovrà dire come la pensa, quello che intende fare. Per esempio, io trovo timido il Pd sulla legge elettorale perché non può esser un meccanismo alla fine del quale non si sa chi ha vinto le elezioni. Che sia il modello francese, inglese o uzbeko, la sera alle dieci e mezzo si deve sapere chi ha vinto. E ancora, per dirne un'altra. A me non piace l'idea novecentesca del partito che ha il segretario: pensare di togliere il nome dal simbolo, di combattere la personalizzazione così. Oggi la comunicazione è tutto nella vita politica e lo abbiamo visto anche con i movimenti di Grillo e dintorni».
Lei accennava alla legge elettorale. Ma crede che i partiti riescano a fare le riforme?
«Questa classe politica è già sufficientemente screditata ma se non le fa si condanna al suicidio. Hanno toccato la pensione alla signora sessantenne, possibile che non riescano a toccare il numero dei parlamentari?».
Tornando alle primarie, potrebbero cambiare le regole.
«Non si cambiano le regole quando fa comodo e il gioco è in corso. Io le preferisco di partito, ma se le vogliono di coalizione bene. Però con le stesse regole con cui sono stati eletti Prodi, Veltroni e Bersani. Non si inventino giochetti strani. Che siano primarie aperte a tutti».
Insomma, Renzi, lei è rimasto il rottamatore di sempre.
«Mi hanno dato del maleducato quando ho usato il termine rottamazione. Ora posso dire di essere stato fin troppo sobrio: non rivendico il copyright. Avevamo semplicemente detto quello che pensa l'ottanta per cento della gente».
Oggi sul Fatto Quotidiano Flores D'Arcais sostiene che dovrebbe essere rottamato anche lei, sindaco.
«Quando io andavo all'asilo Flores era stato già espulso dalla Fgci per trotzkismo».
E cosa pensa di Grillo?
«Che dovrebbe fare un monumento ai partiti politici. Lui è il campione delle contraddizioni: ha sempre affermato tesi che ha poi smentito. Mi riferisco al Beppe Grillo testimonial pubblicitario e poi fustigatore degli spot, al Grillo testimonial delle convention aziendali e oggi fustigatore dei costumi. Dopodiché dice delle cose vere: dopo due, tre mandati i parlamentari non dovrebbero più ricandidarsi. Il Pd ha questa regola interna ma è un partito che si fonda sulle deroghe. Torniamo invece a vivere sulle regole».

l’Unità 11.5.12
Grillo
Il noi e l’io onnipotente del comico
di Toni Jop


“Me o i nazisti”: Grillo sul suo blog ci ha offerto una simpatica alternativa.
Ci avvisa che il pericolo con la croce uncinata è grande, che solo lui è in grado di arginarlo, ci sta offrendo il suo aiuto. Gentile e grazie: serve il contributo di tutti per respingere la risorgenza dell’incubo peggiore. Ci contiamo; non ricorderà, magari gli piacerà non sapere ma la sinistra è da sempre su questa barricata, è una delle sue ragioni d'essere; molti di noi comunisti, cattolici, socialisti, anarchici sia accettato questo flash back retorico quanto lo sono i ricordi sono morti per dare anche a Grillo il diritto di parola, di critica, di organizzare una pratica politica che vuole azzerare in primo luogo proprio la sinistra. Ma è quel “me” che non convince. Non ci ha mai
convinti. La sinistra, il centrosinistra, questo Paese, l’Europa democratica diffidano di quel “me”, di santoni, predicatori illuminati, guide carismatiche e sicure, uomini della provvidenza, implacabili netturbini della storia. Abbiamo le tasche piene di personaggi sornioni o minacciosi che ci ammoniscono: non state lì a pensare, ci bado io, non preoccupatevi, perché io so come va e cosa bisogna fare, io ho la forza che voi non avete, io ho la chiave che avete smarrito.
L'ultima Grande Guida che abbiamo tollerato ha distrutto il Paese, la sua economia, la sua etica, la sua identità. Oggi facciamo i conti con gli esiti della sua enorme sapienza circa il prezzo del silenzio dei testimoni.
Noi, Grillo, assieme, non “me”, e batteremo di nuovo il nazismo.

Repubblica 11.5.12
Grillo
Divieto di tv
di Sebastiano Messina


BEPPE GRILLO HA PROIBITO AI SUOI - pena l´espulsione immediata - di andare in tv perché «fa perdere voti e consensi». Ogni partito o movimento ha il diritto di regolarsi come crede, ci mancherebbe, eppure c´è qualcosa di inquietante in questo divieto tassativo. Perché il sale della democrazia è proprio il dialogo con gli avversari, e chi ha delle buone ragioni da difendere, chi vuole affermare il Nuovo, ha tutto da guadagnare dal confronto con gli altri, con gli alfieri del Vecchio. Perché così può dimostrare agli italiani di essere il migliore. Un partito comandato da un uomo solo, che comunica per monologhi, rifiuta i faccia a faccia, disprezza gli avversari, decide tutto da solo e pretende di essere il Nuovo, gli italiani l´hanno già visto. E non lo rimpiangono.

il Fatto 10.5.12
Marco Pannella
“Finalmente Beppe, ti aspetto da sempre”
di Caterina Perniconi


Annamo un po’ a vede’ chi è questo qua”. Beppegrillo, tutto attaccato come ama Marco Pannella, è un fenomeno che lo attrae da sempre. “Era al Palasport di Roma e ci andai. Una furia. Un bestione. Mi accolse nel camerino, non l’avevo mai visto prima e sembrava che ci conoscessimo da sempre”. L’ha incontrato solo un’altra volta, a Bologna: “Nun fa’ stronzate gli dissi. Faceva errori grossolani con i referendum, sbagliava le date, quello è mestiere nostro”.
Quanta paura ha di Beppe Grillo?
Paura? Semmai il contrario. C’è un libro del 2007, si chiama proprio Chi ha paura di Beppe Grillo? di cui ho scritto la postfazione. Lì, pensi quanto tempo fa, gli chiedevo di darci una mano. Ho firmato i suoi referendum che in passato sono stati anche i nostri.
Per questo ha detto che la copia?
Non l’ho mai detto. Ho scritto un “twist”, come li chiamo io (i tweet, ndr), dopo che Beppe disse ciò che io sostenevo, cioè che all’Italia serve una Norimberga. Dicevo: “Grillo parlante o copiante? Finalmente insieme? Ti aspetto da sempre”. Era affettuoso, non si capisce?
Perché l’aspetta Pannella?
Perché ritengo le sue contraddizioni ricche e importanti. Il combinato disposto del Grillo-parlante e del Pannella-pure, costituirebbeunelementonondiesplosionepolitica effimera, ma di forza alternativa.
Sembra sicuro.
È un bestione, come ce ne sono pochi in Italia. Io, che sono un animale abruzzese, lui, Bossi e Ferrara.
È un comico.
Comico in Italia non vuol dire nulla. È un grande attore e interprete. Ha una forma fisica, e quindi psicofisica, straordinaria. Quando uno lo vede, lo osserva con amore, non può non pensare “guarda com’è in forma, cazzo”.
E se la oscurasse?
Magari arrivasse qualcuno che porta avanti le mie battaglie fino a oscurarmi. Abbiamo raccolto 63 milioni di firme dal ‘55, una storia gloriosa. Temo piuttosto che si spenga. Deve stare attento adesso Beppe. Lui è pregiudicato per un brutto incidente che ha avuto in macchina. E io gliel’ho detto alla radio “ora rischi di portare a sbattere chi ti segue, come quella volta in macchina, ma stavolta crepi pure tu” e io voglio impedirlo.
Guiderà lei?
É lui che deve passare dal monologo al dialogo. Fare come noi che siamo un partito aperto, un servizio pubblico. Hanno imparato la litania “la nostra non è protesta, ma proposta perché l’antipolitica non offre di firmare petizioni”. Ma non basta. C’è il rischio che Grillo resti solo Grillo. Vedete, parlo di rischio. Invece devono strutturarsi, diventare utili e preziosi.
Se arrivano in Parlamento lo saranno?
Lo spero. Stiamo vivendo il fascismo della repubblica antifascista. E quando sento Napolitano rispondere in modo magniloquente a Grillo penso che commetta un reato.
Cioè?
La nostra Repubblica vive una condizione di flagranza criminale e se io assisto a un assassinio e non faccio nulla per fermarlo, sono colpevole di omesso soccorso. Napolitano, da cittadino dovrebbe impedire di sputtanare la giurisdizione europea che da 30 anni ci condanna perché i nostri processi non hanno una ragionevole durata.
L’amnistia.
Ridurre drasticamente i processi è l’unico modo per far ripartire la crescita, tanto cara alla partitocrazia antifascista che Napolitano difende. Ma non è mica il primo, è il milionesimo. Il costituzionalismo italiano, con rispetto parlando, ha trovato il suo difensore.
Grillo su questo non la segue.
Anche lui è per l’efficienza maschilista del “tutti in galera”, quel forcaiolismo tipico dell’Idv che tanto piace anche a voi. Rischia di non rendersi conto delle radici giacobine dell’autoritarismo.
Il leader di M5S pensa anche che la Bonino sarebbe un Capo dello Stato espressione dei partiti.
Ma se i sondaggi dicono che la vorrebbe il 70% degli italiani! I partiti le hanno dato solo 15 voti, questa è la verità. Ma povero Beppe, perdoniamolo, anch’io dico sette cazzate al giorno. Una gli può sfuggire. Avrà paura della Bonino, e magari anche di me, che sono ignoto.
Non direi.
Sono il 194esimo politico per ascolti consentiti in tv.
Neanche Grillo ci va.
Non è vero, Beppe non vuole discutere, perché se va in uno studio televisivo si sputtana. Invece così becca i picchi d’ascolto, quando ci sono 7 o 8 milioni di persone che lo guardano e con quei 3 minuti di perfezione recitati in piazza, che ti viene la pelle d’oca per quanto è bello, ha già vinto.


l’Unità 11.5.12
Se l’economia diventa una scommessa
di Giorgio Ruffolo


LA FINANZA È DIVENTATA OGGI UN SETTORE SEMPRE PIÙ ESTESO RISPETTO ALL’ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA. UN SETTORE FLUIDO, CANGIANTE, FATTO DI “SEGNI”, PIUTTOSTO CHE DI “COSE”. Marx aveva detto: le cose si sciolgono nell’aria. Bauman preferisce la metafora “liquida” («Modernità liquida», Laterza, 2005) che si presta meglio ad una descrizione materiale e visibile del fenomeno.
Questa mutazione si accompagna a una elevata efficienza, nel senso di consentire all’organizzazione produttiva di produrre più cose nello stesso tempo e consente la progressiva articolazione di società tradizionali bloccate in forme rigide: aspetti storicamente altamente positivi della finanza. Vi sono però aspetti più discutibili.
La finanza permette di “anticipare”, principalmente attraverso il credito, situazioni future: letteralmente, di speculare. Su queste speculazioni si può scommettere. E la scommessa, ove si realizzi, può cambiare il corso delle cose “reali”. In altri termini, come nello specchio di Alice, l’immagine della realtà si rovescia. Ed è Alice che guarda lo spettatore.
Ciò che, nelle condizioni normali, rappresenta la realtà, finisce per modificarla. Si inserisce allora nella economia un fattore altamente soggettivo: appunto, la “speculazione” nel senso peggiorativo. L’economia diventa sempre più dipendente da un futuro “anticipato” che può comportare forti guadagni realizzati per scommessa. O non realizzati, nel qual caso si incorre in perdite che si trasferiscono nel settore “reale” dell’economia. Una economia che dipende dal futuro incide a sua volta sul futuro.
Si realizza così uno “sfruttamento del futuro” che sostituisce in qualche misura lo sfruttamento del lavoro sul quale si basava l’accumulazione capitalistica. Concretamente, uno sfruttamento dei posteri. Cosa che può risultare rischiosa e “moralmente” sgradevole. A meno di non ragionare come Woody Allen: dopo tutto, che hanno fatto i posteri per noi?
Questa, della speculazione, è una forma particolarmente sottile di liquefazione. La liquefazione delle aspettative. Il futuro, conseguentemente, si fa più incerto. È un futuro dipendente in alto grado da scommesse. Non è un caso che “i mercati” assumano sembianze quasi “metafisiche”.
Un altro aspetto della liquefazione nel processo economico emerge nel linguaggio. L’immediatezza delle tecniche di comunicazione elettroniche aumenta enormemente le potenzialità dell’informazione, computerizzandola. Il posto del computer nella nostra economia è diventato decisivo nel senso autentico della parola. Molte decisioni vengono prese dai calcolatori indipendentemente dalla volontà dei soggetti. Anche questo è un fenomeno di liquefazione che si risolve in perdita di controllo sociale (vedi le crisi suscitate dai calcoli dei calcolatori).
Last, not least, la mercatizzazione del credito. La così detta cartolarizzazione, liquefa un rapporto umano di fiducia trasformandolo in una compra-vendita: un aspetto significativo della crisi generata in America.
Chi è che certifica che cosa? Non è più il credito che certifica il certificato (credito, da credo) ma è il certificato che certifica il credito (i certificates): il massimo dell’alienazione. Analogamente: i derivati non derivano il loro valore dalla creazione “politica” della moneta, ma è la moneta a derivare valore dai derivatives. Un bell’esempio di liquefazione.
Secondo tema: l’aspetto sociale della liquefazione. Qui emerge, non la speculazione, ma la mercatizzazione dell’economia. È il grande tema introdotto da Karl Polanyi che sulla scorta di Marx denunciava la “liquefazione” dei rapporti umani insiti nei fattori di produzione naturali (lavoro, terra) e della moneta (un’istituzione sociale) trasformandoli in merci.
Questa è la “grande trasformazione” generata dal capitalismo. Questa trasformazione ha avuto il suo coronamento storico nella “rivoluzione capitalistica” dei nostri tempi: la liberalizzazione dei movimenti mondiali del capitale.
Un grande economista liberale, Davide Ricardo, sconsigliava vivamente la libera esportazione dei capitali. I capitali, diceva, portano con sé la storia e i sentimenti umani di un paese insomma, diremmo noi, non sono una valigia.
La liberalizzazione mondiale dei movimenti internazionali dei capitali introdotta da Thatcher e Reagan negli anni ottanta ha rovesciato brutalmente, con la creazione del mercato finanziario mondiale integrato (capitalisti di tutti i paesi unitevi!) i rapporti tra capitale e lavoro e quelli tra capitalismo e democrazia. Ciò che il proletariato non è stato capace di realizzare l’Internazionale il capitalismo lo ha fatto.
Liquefacendo i movimenti mondiali del capitale, li si è sottratti a ogni forma di controllo politico. Il modo più pratico di nientificare i poteri dei governi e dei lavoratori è quello di abbandonarli. La più efficace minaccia non è quella di contrastarli con le armi, ma quella di partire con la valigia.
Il capitale, insomma, fluisce liberamente dovunque, incontrando dovunque sé stesso. Diceva Edoardo De Filippo: milione chiama milione. Si crea quindi l’internazionale dei capitalisti: una nuova plutocrazia mondiale che gestisce i suoi capitali nelle sue capitali (Londra, Wall Street) e attraverso la rete delle Multinazionali. E orienta i loro flussi.
Questi flussi si dispongono secondo la logica del massimo profitto nel minimo tempo. Non seguendo le indicazioni dei bisogni ma quelle del guadagno. Accade così che il flusso dei risparmi sia diretto là dove alimenta i consumi dei ricchi, non i bisogni dei poveri: per esempio, tra la Cina e l’America.
Un aspetto centrale di questo quadro sta nel ruolo assunto dalla moneta. Essa ha perduto il ruolo, conquistato attraverso la storia, di istituzione politica, creata gestita e controllata dalle Banche Centrali. È generata dai mercati attraverso il credito, incontrollato e deregolato, dal quale non si distingue ormai più. Il flusso della moneta privata, incontrollabile, aveva generato alla vigilia della grande crisi, nel 2007, una massa di liquidità pari a dodici volte il prodotto lordo mondiale.
Il segreto molto poco segreto della crisi sta tutto in questa gigantesca inflazione finanziaria. Che non è affatto finita, ma si è spostata dall’indebitamento privato all’indebitamento pubblico, gravando sui contribuenti per l’aumento delle tasse e sui lavoratori per la contrazione della spesa sociale. Insomma,la liquefazione ha inondato il mondo. E, ritirandosi, lo ha lasciato impoverito.
Il terzo aspetto riguarda la crisi della coesione sociale. La liquefazione, oltre a speculazione e mercificazione, genera spersonalizzazione. Il perseguimento generalizzato dell’avere produce non persone ma individui, Non soggetti differenziati articolati e specializzati che irraggiano in più direzioni le loro articolazioni ricercandosi reciprocamente fino a formare una rete (società) ma unità omogenee e chiuse: come palline che si urtano e si respingono. La metafora più adatta è quella di grani di polvere che i venti del populismo sollevano e travolgono.
È chiaro che un processo alternativo, di sviluppo della personalità, non può essere il risultato di un’analisi individuale, ma solo di una passione politica. Il suo luogo è l’agorà.

Corriere 11.5.12
il Nobel Amartya Sen
«La moneta unica? Vale mille euro a testa»
di Giuliana Ferraino


MILANO — «Il problema fondamentale del malessere europeo è la marginalizzazione della democrazia, che lascia i cittadini fuori dalla discussione pubblica, costringendoli a subire enormi e indiscriminati programmi di austerità», sostiene il Nobel Amartya Sen ieri a Milano per il convegno organizzato dall'Università Bocconi con la Fondazione Ernesto Illy, Centromarca e Corriere della Sera, per esplorare un nuovo concetto di valore oltre il Pil. Per cambiare, suggerisce l'economista indiano, da «sempre contrario all'euro senza un'unione fiscale e politica», serve invece «un po' di scetticismo nei confronti della saggezza finanziaria europea, guidata in particolare dalla Germania, con la sua visione piuttosto parrocchiana del mondo», perché «le misure draconiane richieste finiranno per peggiorare le cose». Non succederà se all'austerità si unirà un programma di crescita sostenibile, replica Enrico Cucchiani, Ceo di Intesa Sanpaolo, ergendosi a difensore dell'Europa. Primo: «I governi tecnocrati compensano la carenza di meccanismi democratici andati alla deriva», il vero pericolo semmai è «il populismo». Secondo: «Il primo problema di Italia, Spagna e Portogallo è la disoccupazione giovanile e se ne esce solo con la crescita». Infine: «Tutte le carenze dell'euro sono vere, ma ricordiamoci che contribuisce per il 3,5% al prodotto interno lordo dell'Europa: 330 miliardi, cioè mille euro pro capite».

il Fatto 11.5.12
Profumo travolto dallo sfascio del sistema Siena
“Non sapevo dell’inchiesta su Mps” “Massoneria? Non mi risulta”
di Giorgio Meletti


A Siena non ne va bene una, di questi tempi. Una disgrazia tira l'altra. Adesso che il Monte dei Paschi sta andando a gambe all'aria e non dà più dividendi alla Fondazione Mps, cadono come birilli, uno per uno, i pezzi pregiati del peculiare welfare senese.
Ed ecco atterrare su piazza del Campo il nuovo presidente del Monte dei Paschi, Alessandro Profumo. Fermo ai box da un anno, dopo essere stato fatto fuori dall'Unicredit, credeva di dover solo rimettere insieme i cocci di una banca sfasciata. Invece sono arrivate le sorprese. Ieri ha dovuto sostenere una faticosa conferenza stampa convocata per presentarsi e caduta, invece, all'indomani della visita di 150 finanzieri in tutti i santuari del potere cittadino: la banca, a Rocca Salimbeni, la Fondazione a palazzo Sansedoni, il Comune a piazza del Campo. "Non sapevo di questa inchiesta quando mi hanno proposto la presidenza", dice. Magari è la verità.
CERTAMENTE non ha avuto il mandato di fare pulizia, visto che è stato chiamato dal sindaco Franco Ceccuzzi e dal presidente uscente Giuseppe Mussari, sodali e responsabili del disastro. E infatti Profumo si rifiuta ostinatamente di commentare l'operazione di acquisto della Banca Antonveneta, pagata nel 2007 9,3 miliardi di euro agli spagnoli del Banco Santander che pochi mesi prima l'avevano pagata 6,3. E' quello su cui indaga la procura di Siena, ma la cosa non interessa il presidente: "Mi chiedo quale sarebbe l'utilità di un'inchiesta interna sull'acquisizione dell'Antonveneta. Su questo voglio essere radicale: non abbiamo alcuna intenzione di guardare al passato". Poi, per rafforzare il concetto che non è in cerca di guai, ripropone la teoria di Giuseppe Mussari secondo cui a Siena la massoneria non esiste. Alla domanda se arrivando tra le colline del Chianti avesse percepito segni di presenze e influenze massoniche ha risposto così: "Non faccio parte della massoneria, non me l'hanno mai chiesto. Non ne ho la più pallida idea. Potrò sembrare un pò Alice nel paese delle meraviglie ma sinceramente non so risponderle". A questa attenzione a non rompere gli equilibri ha reagito ieri l'Italia dei Valori con un'interrogazione dei senatori Lannutti, Pancho Pardi, Borghesi ed Evangelisti, che chiede l'urgente commissariamento del Monte dei Paschi. L'imbarazzo di Profumo è utile a ritrarre il disastro senese. Quando il banchiere genovese descrive come un vantaggio il non essere condizionato dal passato, mentre illustra il Monte dei Paschi del futuro - oggi terza banca italiana - come un’umile banca regionale costretta a far quadrare i conti anche mollando per strada un po' dei 31 mila dipendenti, mette implicitamente sotto processo il modello Siena oggi al capolinea con le sue manie di grandezza.
FA IMPRESSIONE che nel bilancio 2011 del Monte dei Paschi, nonostante i conti chiusi con un rosso di 4,7 miliardi, si vanti "l’ulteriore rafforzamento del tradizionale legame con le squadre sportive senesi, A.C. Siena e Mens Sana Basket". Circenses. Nell'anno del disastro il Monte è riuscito a spendere 31 milioni per le sponsorizzazioni. Due giorni fa il senatore leghista Massimo Garavaglia ha fatto in Senato la seguente denuncia: "Nel momento in cui un istituto primario bancario non paga allo Stato gli interessi sui Tremonti-bond che ha ricevuto e dà 25 milioni di euro a una squadra di basket locale, probabilmente sarebbe il caso che il governo potesse far valere la sua voce, anche perché a casa nostra 25 milioni di euro, dati con effetto leva alle aziende, fanno 250-350 di milioni di prestiti alle aziende". E adesso che ne sarà dello squadrone che ha all'attivo cinque scudetti consecutivi ed è in corsa per il sesto? Anche il Siena Calcio deve tutto al Monte dei Paschi, così come la famiglia Mezzaroma gestisce la squadra perché è stata la banca a chiedere il suo intervento - garantendo tutto il garantibile - per prendere il posto di un altro immobiliarista romano, Giovanni Lombardi Stronati.
Siena forse ha vissuto al di sopra dei propri mezzi, sicuramente adesso non ha più i mezzi per vivere come prima. Emblematica la vicenda della Siena Biotech, società di ricerche nel campo medico farmaceutico, mantenuta dai finanziamenti della Fondazione Mps.
POCHI GIORNI FA tutti i 107 dipendenti (nella gran parte ricercatori, dicono, super specializzati) sono finiti in cassa integrazione. Ma la Fondazione, che negli ultimi dieci anni ha distribuito al cosiddetto territorio oltre un miliardi di euro, forse non avrà mai più un euro da dare alla Siena Biotech. E nemmeno all'Università, che quanto a sfascio è stata precorritrice. Dal 2003 al 2007, secondo le accuse del pm Antonino Nastasi, uno di quelli che adesso indaga sul Montepaschi, due rettori, Piero Tosi e Silvano Focardi, avrebbero scavato nei conti dell'ateneo un buco da 200 milioni di euro, gonfiando a dismisura gli organici. L'inchiesta sull'Università è destinata con tutta probabilità alla prescrizione, così come quella sull'Antonveneta, che si riferisce a fatti di quattro-cinque anni fa. Mentre per la mega inchiesta milanese sulla frode fiscale da oltre 3 miliardi di euro messa in piedi dalle maggiori banche italiane, e nella quale anche Profumo e Mussari sono indagati, è pronta la leggina salva-banchiere architettata dal governo Monti. Di tutti questi scandali quindi resteranno solo i conti del denaro sparito. E la nuova miseria senese.

La Stampa 11.5.12
Inchieste, debiti e veleni. Lo sgomento della Siena che conta
I dubbi di Profumo: «I massoni? È come essere Alice nel Paese delle meraviglie»
La politica si divide: è scontro tra Ds e ex Margherita
di Gianluca Paolucci


La storia Il Monte è Siena e Siena è il Monte Il legame dura nei secoli. Mps è una delle banche più antiche in Italia e al mondo. È stata fondata nel 1472
Bilanci in crisi. “La Fondazione ha dato erogazioni per 1,9 miliardi in 15 anni ora ha le casse vuote. Anche il comune e l’università sono a corto di fondi“

Siena di tre cose è piena, dice un vecchio detto toscano. Solo che agli elementi originari (torri, campane e figli di), si sono aggiunti molti altri elementi. I debiti innanzitutto. Quelli della Fondazione, ad esempio, che dopo aver distribuito 1,9 miliardi di euro in quindici anni a praticamente ogni attività - dai musei alle bocciofile - si trova con le casse vuote. Poi, collegati, ci sono quelli del Comune, che per colpa dei guai della Fondazione non approva il bilancio. Poi, a cascata, quelli dell’Università, i guai del Siena calcio e quelli del basket della Mens Sana, fino ai piccoli enti locali della provincia a rischio dissesto per i progetti avviati grazie alle ricche erogazioni della Fondazione Mps.
Altra cosa della quale Siena è piena, in questi giorni, sono i veleni. Lungo lo struscio è tutto un vociferare di indagini e indagati, vittime e colpevoli, malefatte di questa e di questa parte, disegni più o meno oscuri per danneggiare la città e i suoi abitanti. È piena anche di inchieste, finanzieri e magistrati, la Siena di questi giorni. Una, la più clamorosa, è quella emersa mercoledì con 147 finanzieri sparpagliati dal primo mattino in mezza Italia a cercare documenti per tutta una giornata. Da Rocca Salimbeni, sede di Mps, sono entrati all’alba e usciti a notte fonda, dopo aver fatto il pieno di documenti e file. L’ipotesi, almeno per ora, è aggiotaggio e ostacolo all’attività di vigilanza. Il primo reato difficilissimo da dimostrare in un dibattimento, il secondo risalente a quattro anni fa e a rischio decadenza. Quell’almeno per ora fa la differenza. Poi, più, in piccolo, c’è l’indagine sul dissesto dell’Università e quella sull’aeroporto di Ampugnano, che avrebbe dovuto diventare il terzo scalo commerciale in meno di cento chilometri della regione. Entrambe sarebbero prossime alla chiusura ma intanto entrambe hanno già prodotto la loro dose di veleni.
Poi ci sono i massoni. «Sembrerò Alice nel paese delle meraviglie», dice Alessandro Profumo spiegando che di questa presenza così forte delle logge non ha avuto, almeno per il momento, contezza. Stefano Bisi, giornalista e massone dichiarato finito nel tritacarne di Report, è visibilmente contrariato del clamore, minaccia ricorsi all’ordine dei giornalisti e viene salutato da battute divertite: «Ecco l’uomo più potente della città».
Ma i massoni ci sono o no, a Siena? «Certo che ci sono. Alcuni contano nella vita della città altri no. Troppo facile dire massoni. Diciamo che c’è massone e massone, via», dice un profondo conoscitore delle cose senesi. Che ricorda un episodio di alcuni anni fa, quando un giornale locale pubblicò gli elenchi dei fratelli locali. Putiferio. Per giorni e giorni non si parlò d’altro. Anche perché c’erano davvero tutti in quegli elenchi, dami dirigenti del Monte su su fino al vescovo. Troppi. Al punto che la vicenda è stata archiviata nella memoria collettiva della città alla voce patacche.
A tenere insieme tutto c’è il Monte e i suoi guai. Da lì tutto discende anche perché il Monte è Siena e Siena è il Monte. Le varie fazioni dentro le mura si rimpallano la responsabilità del disastro in corso con la stessa veemenza alla quale i senesi sono abituati per due settimane all’anno in prossimità del Palio. Lo scontro più duro è quello tra Ds e Margherita del Pd locale. Iniziato, ovviamente, dal pasticcio brutto della Fondazione, passato un duro scontro per la costituzione delle liste per il rinnovo del Cda del Monte e culminato con la mancata approvazione del bilancio comunale.
Mancano soldi, dicono gli ex Margherita, per i quali il pareggio si raggiunge solo con le erogazioni che la Fondazione difficilmente sarà in grado di dare. Falso, ribattono dal lato del sindaco Ceccuzzi - primodalla fine degli anni ’80 a non venire direttamente dalle file di Mps ma “dominus” dei Ds a livellolocale per molti anni - il bilancio è a posto e tutto nasce dal fatto che, in nome del rinnovamento, lo stesso Ceccuzzi abbia imposto l’uscita del margheritino Alfredo Monaci dal Cda di Mps, dove ambiva alla vicepresidenza. L’accusa peggiore, fatta proprio da tutti, è quella di lavorare «per far portar via il Monte». Dalla politica romana o dalla finanza milanese, a seconda delle convenienze. Anche se i responsabili sono tutti ancora dentro le mura della città.

Repubblica 11.5.12
Dal Pd alla Massoneria, caccia al colpevole del tracollo del Monte
Si dissolve il potere della Banca-Città. Siena già orfana di 200 milioni di aiuti
L’acquisto di Antonveneta, dagli opusdeisti del Santander, atto di megalomania
La squadra di calcio, il basket, il nuovo aeroporto: quanti progetti su un binario morto
di Alberto Statera


SEMBRA lacrimare stamane l´arcidiacono senese Sallustio Antonio Bandini "che la dottrina della libertà economica insegnò prima per la prosperità". Così recita l´iscrizione ai piedi della sua statua eretta dinanzi al castellare duecentesco dei Salimbeni, dove ha sede la Banca-Città della Città-Stato. Decine di finanzieri, nel senso di uomini della Guardia di Finanza, hanno violato mercoledì la "Scala d´Oro" di cemento armato costruita su progetto dell´architetto Pierluigi Spadolini, così chiamata per il numero di miliardi di lire costata a suo tempo, che conduce nel Sancta Santorum dirigenziale sotto l´affresco della Madonna della Misericordia dipinto da Benvenuto di Giovanni del Guasta. Là dove il nuovo presidente Alessandro Profumo, che da ieri è qui a rispondere a domande che un banchiere non vorrebbe mai sentirsi rivolgere, vedrà scorrere ancora lacrime e forse sangue. Perché il "groviglio armonioso" che il capo della massoneria toscana Stefano Bisi, prossimo Gran Maestro del Grande Oriente d´Italia, ci magnificò qualche anno fa raccontandoci la "grazia" della Banca-Città, è ormai ridotto a un groviglio "bituminoso" o "fangoso", come ha biascicato qualche giorno fa in piena assemblea un ex dipendente-azionista che ha perso il 70% dei suoi risparmi investiti nella Rocca franante. «Io - si giustifica oggi il presidente del Collegio dei venerabili - intendevo parlare di un groviglio che viene da secoli, da quando il Monte esiste». Un groviglio millenario di cui Profumo dice di non avere idea, perché - novello Alice nel paese delle meraviglie - di massonerie nulla dichiara di sapere, certificando la santità dei banchieri, che - dice - non sono brutti, sporchi e cattivi.
I senesi, si sa, sono gente di contrada un po´ anarchica e un po´ spocchiosa che finché le cose sembrava andassero bene nello scrigno bancario cittadino, unico esempio al mondo di un paradiso terreno costruito intorno a risparmio raccolto ovunque e speso qui, avrebbero offerto il petto a chi osava discutere il Monte. Noi qui, bonini bonini - dicevano parafrasando l´ex sindaco Pd Maurizio Cenni - abbiamo due o tre cose su cui non ci si divide mai: la banca, il palio e la nostra indipendenza. Ma ora che la Fondazione è alla frutta per aver dovuto far fronte alle ricapitalizzazioni seguite al trangugio del boccone Antonveneta e che rischiano di diventare un ricordo i quasi 200 milioni all´anno distribuiti tutto intorno a piazza del Campo per il benessere di 55 mila abitanti, cambia la musica. Niente più squadrone di calcio in A, Basket, Volley e aeroporto internazionale ad Apugnano, clone di Firenze e di Pisa, che sarebbe come mettere una pista per Jumbo tra piazza Venezia e palazzo Grazioli. Ora suona la canzone della "stecca". Sì, perché lo spiegamento di forze in tutta Italia per dimostrare un possibile reato di aggiotaggio - che forse nessuno è mai riuscito a provare in tribunale - non convince una città dove tutti lavorano, hanno lavorato e forse non lavoreranno mai più per il Monte.
Cerchez la stecca, non una cosuccia, ma un miliardo e mezzo di extracosto sull´acquisto di Antonveneta dagli opusdeisti del Santander, che in pochi giorni lucrarono 3 miliardi e passa, parte dei quali chissà in quali tasche è finito. Fantasie, allo stato degli atti. Ma qui le leggende metropolitane sono dure a morire. Fin da quando fu acquistata per 2.500 miliardi di lire la Banca del Salento e il dominus dalemiano dell´operazione Vincenzo De Bustis venne a sedersi a Rocca Salimbeni con la sua corte.
D´Alema e la banca rossa? Macché. Siena sarà pure rossa da sempre, ma il potere forte e compatto è eternamente arcobaleno, in un compromesso politico ben più che storico, multicentenario. Pci, Pds, Ds, i democratici governano, comunque si chiamino, la città e fanno tutti felici nel codice che - bonini bonini - funziona da secoli e che ha garantito la "centralità millenaria", come qui la chiamano, della banca.
A palazzo Salimbeni sono tutti equamente rappresentati su designazione politica locale e nazionale: partiti, Chiesa, Opus Dei, Massoneria, che qui è gran parte della borghesia, ma anche del ceto medio impiegatizio e commerciale, a sostegno di entrambe le tesi, quella di Benedetto Croce e quella di Antonio Gramsci. Mancano soltanto i gay, che infatti più di una volta hanno protestato: a Siena siamo più noi dei cattolici, allora perché la Curia ha un posto in Fondazione e noi no? Sessuofobi. Ma per il resto... Denis Verdini, plenipotenziario del partito di Berlusconi ancora forte prima del terremoto Grillo, si sbraccia l´anno scorso - così narrano - per sostenere la candidatura perdente a candidato sindaco e favorire la già scontata elezione del Pd Franco Ceccuzzi. Ma se l´ex macellaio di Campi Bisenzio ha bisogno di qualche milione per fronteggiare la precaria situazione della sua ex banchetta personale e della sua famiglia appassionata di ville, Rocca Salimbeni non fa una piega e nella sua millenaria centralità fa il suo dovere. Il direttore della Nazione è costretto per non fare la figura del peracottaro a dare qualche notizia sulle vicende della Banca-città e in un sospiro viene silurato dalla famiglia Monti-Riffeser, proprietaria del giornale, che ha in corso una bella speculazione edilizia nella tenuta di Bagnara, dove convolarono a nozze Casini e Azzurra Caltagirone. Il papà della sposa ha speso qualche centinaio di milioni nella Rocca ma, sempre il più furbo di tutti, si è sfilato appena ha potuto quando ha visto la malaparata.
I furbetti del quartierino alla scalata Antonveneta furono l´inizio di tutto. Fu poi, in onore alla vocazione trasversale che vide passare la banca veneta dei preti cattolici dai calvinisti olandesi dell´Abn-Amro agli opudeisti spagnoli del Santander e infine, a prezzi d´affezione, ai "comunisti" senesi che il presidente uscente, oggi presidente dell´Associazione bancaria, ci garantì con mani giunte sotto la Madonna della misericordia: «La nostra operazione su Antonveneta è stata fatta senza furbi, furbetti e furbacchioni». E la storia dimostra che i furbacchioni latitarono proprio, perché come dice Profumo «meglio veloci che grossi», soprattutto se è vera la tesi di un banchiere importante, ma non quotabile, che allora seguì la vicenda da un osservatorio privilegiato. Oggi ci garantisce che, secondo lui, il Monte mangiò l´Antonveneta non per produrre "stecche", ma per velleitarismo da piccola capitale bancaria del mondo, per evitare di essere mangiato da Unicredit o da Intesa-San Paolo e per garantire alla Banca-Città la sua "centralità millenaria", scalando la terza posizione tra le banche nazionali. Ce lo ha sempre teorizzato, alla senese, anche Maurizio Cenni, allora sindaco e oggi vicedirettore generale, guarda un po´, del Monte: «Noi siamo lupi, non pecore o orsacchiotti, come diceva Troisi. Non ci facciamo mangiare, semmai mangiamo». I lupi del Pd intanto, per contrastare l´onda dell´antipolitica grillina, hanno già cominciato il banchetto. Mangiandosi tra loro.
a. staterarepubblica. it

Repubblica 11.5.12
Il disagio della Fornero
di Chiara Saraceno


La ministra Fornero ammette che il governo ha sottovalutato le difficoltà delle persone e delle famiglie più vulnerabili, pensando che l´uscita dalla crisi sarebbe stata più rapida. E riconosce che la riforma delle pensioni, nella sua durezza e radicalità di attuazione, ha provocato non pochi disagi agli individui e famiglie coinvolte. In effetti, è l´unico caso a mia conoscenza in cui non c´è stato un periodo di transizione. E la questione degli esodati rimane largamente irrisolta. Quella della ministra è stata una ammissione onesta, anche se forse troppo tardiva, che la medicina che lei ed il governo di cui fa parte hanno creduto necessario somministrarci non è ugualmente amara per tutti e qualcuno rischia di non trarne alcun giovamento, al contrario. Il ministro Passera si è spinto molto più in là, tratteggiando una situazione a tinte fosche, dove la metà della popolazione sarebbe a forte rischio, con conseguenze per la tenuta della coesione sociale. Confesso un certo stupore e persino disagio. Se a fare questa valutazione fossero i sindacati o l´opposizione, si direbbe, anzi si è detto fino a ieri, che esagerano. Se poi a fare questa valutazione fosse qualcuno dei partiti che sostengono il governo si direbbe che ne mettono irresponsabilmente in gioco la tenuta in un periodo ancora difficile per la nostra economia e per la nostra credibilità internazionale. Da un ministro, tanto più "dello sviluppo" ci si aspetterebbe che non si limitasse ad una denuncia della gravità della situazione, ma indicasse anche strategie per superarla. E bisogna dire che di queste strategie si è visto ben poco, finora.
Di più, l´Europa, da riferimento severo ma giusto per tutte le misure prese fin qui, nelle dichiarazioni di Passera, ma anche, sia pure meno platealmente, in quelle di Monti, sembra rovesciarsi nel colpevole della situazione in cui ci troviamo. Si veda l´invettiva di Passera contro l´Europa che parla di sviluppo ma non fa nulla in questa direzione. Il giusto richiamo di Monti a Berlusconi sul fatto che l´inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione era stata una decisione presa dal governo da lui, Berlusconi, presieduto vale anche per il governo dei tecnici (oltre che per il Parlamento che lo ha votato). Ha accettato senza discussioni le imposizioni di Bruxelles e della cosiddetta troika, presentandole agli italiani come non solo necessarie, ma buone. Negoziare ora, ex post, la possibilità che le spese per investimenti stiano fuori dal patto di stabilità e presumibilmente non contino ai fini del pareggio di bilancio mi sembra una mossa opportuna, ma debole. Che cosa succederà se ci dicono di no?
Sono ben consapevole che questo governo si è trovato ad operare in una situazione difficilissima, di cui non ha responsabilità e che le soluzioni non sono dietro l´angolo. Ma quanto la incapacità di riconoscere da subito i pesanti e disuguali costi sopportati dai cittadini ha dato l´impressione di una distanza insieme culturale e sociale tra governo e la maggioranza dei cittadini, questo improvviso rovesciamento di atteggiamento (per altro solo verbale) dopo i risultati elettorali rischia di produrre più sconcerto che consenso, oltre ad aumentare l´ansia. Rischia di apparire un segnale di impotenza, se non un tentativo di captatio benevolentiae. Proprio perché la situazione è molto seria, abbiamo bisogno di un governo, di ministri, capaci di ascoltare senza arroganza, di modificare le proprie decisioni se necessario, ma anche di indicare soluzioni valutate per la loro fattibilità e costi. Dopo essersi troppo a lungo affidati alla popolarità che derivava al governo dalla percezione di scampato pericolo condivisa da molti cittadini, anche il governo e i singoli ministri devono fare i conti con la realtà complessa non solo dei conti pubblici e degli accordi internazionali, ma della vita e degli umori dei cittadini cui devono rendere conto. Tra arroganza e populismo più o meno sfiduciato ci sono alternative più costruttive. Richiedono forse un po´ più di umiltà e sobrietà intellettuale e civile.

La Stampa 11.5.12
Ferrari, un trimestre record
Consegnate più di 1700 vetture Boom dell’export, solo l’Italia delude
di R.E.


MARANELLO (MODENA) Ricavi per 556 milioni di euro (+13,2%), vetture consegnate 1.733 (+11,5%), utile della gestione ordinaria +13,4% a 60,5 milioni e utile netto di 42,1 milioni (+17,2%). Sono i dati di chiusura del primo trimestre 2012 della Ferrari, esaminati dal cda presieduto da Luca Montezemolo a Maranello. La posizione finanziaria netta è da record: 860 milioni di euro, la migliore nella storia del Cavallino.
Risultati eccezionali negli Stati Uniti (+16%), in Gran Bretagna (+31%), in Germania (+24%) e nel Medio Oriente (+23%). Mentre corrono le vendite all’estero delude l’Italia in recessione, che chiude il trimestre con 121 Ferrari vendute, cioè 65 in meno rispetto al primo trimestre dello scorso anno, un risultato, si legge in una nota dell’azienda, «dovuto alla situazione economica e alle recenti iniziative fiscali del governo».
Fra i mercati in cui il marchio si impone figura anche l’Estremo oriente: nella Grande Cina (che comprende la Repubblica popolare cinese, Hong Kong e Taiwan) il trimestre ha fruttato 154 vetture consegnate. In Cina il prossimo 18 maggio verrà inaugurata una grande mostra dedicata alla Ferrari. Nella sede dell’Expo di Shanghai, su una superfice di 1000 metri quadrati, verranno esposti alcuni dei modelli più rappresentativi del Cavallino Rampante.
«Dopo aver chiuso un 2011 straordinario - commenta Montezemolo - iniziare l’anno con tutti gli indicatori economici in crescita è motivo di grande soddisfazione. Abbiamo una gamma completa e nuovissima, ricca di innovazioni tecnologiche e con una forte riduzione nei consumi e nelle emissioni, che sono scese in media del 30%».

Corriere 11.5.12
Enzensberger difende la Germania: non è la cattiva d'Europa
«Il successo è un inconveniente, non piace La Ue è un Politburo, ma la elogio lo stesso I miei flop? Hanno un effetto terapeutico»
di Paolo Lepri


MONACO DI BAVIERA — Hans Magnus Enzensberger ha letto pochi giorni fa il suo poema La fine del Titanic a bordo di un battello che navigava nel golfo di Belfast. Un secolo dopo l'affondamento del transatlantico che fu varato, come scrive nel canto ventunesimo, «con un Château Larose del 1888 marcito nella bottiglia».
Lo racconta divertito e incuriosito, quasi fosse tornato da una gita in un bizzarro luna park della memoria. A ottantadue anni, niente lo spaventa. Soprattutto le idee. Nella sua vita ne ha avute così tante, anche strane (come una «Fontana della poesia» per dare «una terza dimensione alla lingua»), che ha deciso di elencare quelle che sono fallite e quelle che non sono state realizzate. Per farlo, ha scritto un libro, I miei flop preferiti. E altre idee a disposizione delle generazioni future (Einaudi), tanto acuto e appassionato che ci vorrebbe un redivivo Bertolt Brecht per elevare dinanzi a lui una roboante Lode dell'intelligenza. Ma non sapremmo dove cercarlo, quell'altro precursore, sepolto ormai da tempo nel Dorotheenstädtischer Friedhof di Berlino. Qui siamo a Schwabing, il quartiere intellettual-universitario di Monaco, dove hanno abitato tra gli altri Thomas Mann, Giorgio De Chirico, Lenin. E dove un agente di polizia fracassò la chitarra di Hermann Simon, in «Heimat», durante le agitazioni giovanili del 1962.
I lettori di Enzensberger hanno a disposizione così quasi una sua «autobiografia anti-eroica», perché gli insuccessi nel cinema, nell'opera lirica, nel teatro, nell'editoria, si legge nell'introduzione, «svolgono un effetto terapeutico», e curano «malattie professionali degli autori quali perdita di controllo o mania di grandezza». «Una autobiografia senza l'aspetto privato — aggiunge — perché non sono un scrittore autobiografico. Sono più curioso dei fatti degli altri. Ripenso a queste avventure senza amarezza, anche se ci sono stati momenti tremendi. Soprattutto quando si vuole mettere in scena qualcosa, su un palcoscenico, e poi quello a cui si è lavorato sparisce per sempre. Ho scritto questo libro anche perché molti credono che tutto sia facile. Volevo mostrare che è falso. Non è vero che gli scrittori sono dei privilegiati».
E quindi Enzensberger racconta, per esempio, che un film sul grande naturalista Alexander von Humboldt è rimasto soltanto «un canovaccio di circa trenta pagine», oppure che il vaudeville in cinque quadri La Cubana, ovvero una vita per l'arte, di cui aveva preparato il libretto, «finì in un disastro». Sono tante le tappe di questa storia un po' ironica dei «fiaschi». Il suo primo dramma, La tartaruga, fu «sotterrato» dopo un'imbarazzante lettura in cui «il silenzio dei critici presenti fu dovuto solo alla buona educazione che all'epoca esisteva ancora», mentre la rivista «Gulliver» naufragò nonostante le riunioni e i carteggi con altri prestigiosi intellettuali tedeschi, francesi e italiani.
I libri, invece, sono un caso diverso. Quelli che vivono nell'ombra, fanno soffrire solo gli editori, perché rovinano gli affari. «Ma chi scrivendo pensa al conto in banca, è già perduto», osserva Enzensberger in I miei flop preferiti. Il vero fallimento è invece quel foglio invisibile dove sono elencate le opere a cui si è rinunciato. Ma c'è sempre la possibilità di riprendere tutto in mano, come potrebbe accadere per I soldi dei figli, un romanzo sui giovani, l'economia e il denaro, di cui è riportato un estratto del primo capitolo. L'autore di La breve estate dell'anarchia non ha escluso di farlo. Ora è più dubbioso, preferisce pensare a progetti nuovi. «Sì, può essere. Ma le cose più "calde" — risponde — sono quelle di cui ci si occupa nel presente. Come un piccolo libro che uscirà in autunno. Sono testi che hanno la particolarità di essere molto brevi, tanto è vero che il sottotitolo sarà Venti saggi da dieci minuti ciascuno. Si intitolerà Panoptikum, come il carcere inventato alla fine del Settecento dall'empirista inglese Jeremy Bentham, dove un guardiano poteva osservare da solo tutti i detenuti. Ma in Germania "Panoptikum" viene chiamato anche il museo dell'orrore nel parco dei divertimenti».
Il Panoptikum di Enzersberger è stato già costruito. Alle «invenzioni che però sono mai andate oltre lo stadio di abbozzo», è dedicata invece la seconda parte di I miei flop preferiti. Se volete, rubatele. Cinema, teatro musicale, teatro. «Perché nessuno ha mai pensato — si chiede — ad un dramma sulla singolare amicizia tra Marx ed Engels? Uno ricco industriale, donnaiolo e buongustaio, l'altro esule geniale, topo di biblioteca e nullatenente, tormentato dai foruncoli». «Io credo — spiega — che tutti abbiamo più idee di quelle che possiamo realizzare. Ciascuno di noi non ha il tempo e l'energia per portarle a termine. Perché non distribuirle? Non ritengo che debba esistere il copyright sulle idee». Alcune di queste sorprendono, soprattutto guardando alla loro data di nascita. Pensiamo, in campo editoriale, ad un progetto chiamato «Il Bollettino», con giornalisti che selezionano e verificano materiale arrivato in modo confidenziale da informatori di alto livello che non vogliono rivolgersi ai media istituzionali. Enzensberger sa bene che da quando ha proposto quest'idea, nel 1999, siti come Wikileaks hanno poi realizzato qualcosa di simile e non si meraviglia che il potenziale della rete possa produrre «effetti devastanti».
Il suo rapporto con la rivoluzione dei social network è conflittuale. «C'è sempre un'ambiguità. Da una parte si spera di diminuire il controllo dei grandi imperi dei media. Dall'altra i nuovi imperi si nutrono dell'energia che la gente impiega e utilizzano per interessi commerciali i dati personali. E guadagnano miliardi. Io non mi faccio controllare».
Enzesberger si alza, in questo appartamento all'ultimo piano di una casa moderna che domina l'Englischer Garten. La strada di Schwabing dove lavora è una specie di regno del silenzio in una Monaco chiassosa, un po' malmessa, percorsa giorno e notte da non identificate orde di gente che parla inglese. Fa scorrere l'acqua per renderla più fresca, riempie due bicchieroni azzurri, aggiunge un cubetto di ghiaccio. Poi si accende una sigaretta. È un uomo allegro, che scoppia in una risata fragorosa appena scatta la scintilla del dubbio. Le sue riflessioni sui nuovi mostri del ventunesimo secolo, Google, Microsoft, Apple, Amazon, Facebook, hanno fatto molto discutere. Ancora di più quelle sulla «super-burocrazia» di Bruxelles. Ma non vuole essere iscritto alla lista dei nemici dell'Europa. «Effettivamente le istituzioni dell'Unione hanno qualche somiglianza con un Politburo. Con il voto io posso mandar via il mio governo. La commissione europea è inamovibile. Il deficit democratico esiste, è un fatto strutturale. Ma voglio essere chiaro che l'elogio del progetto europeo viene prima della mia polemica. Cerco di distinguere le cose positive dalle sciocchezze».
Parlare di Europa porta inevitabilmente a ragionare sulla Germania, sulla sua immagine di «cattiva» che vuole imporre l'austerità a tutti. Enzensberger da giovane si accorse che «essere tedesco non è una professione» e decise di aprire completamente il suo orizzonte. Oggi non si sente vicino al malumore contro il suo Paese. «Anche il successo — osserva — può essere un inconveniente. Perché non piace agli altri. Sono fenomeni transitori, attacchi di nervosismo. In fondo anche l'epoca dell'anti-americanismo si sta esaurendo». In questo quadro, il suo giudizio su Angela Merkel è «semplice». «La gente è contenta di lei perché la vede come una mamma. Durante la crisi della Lehman Brothers andava in televisione per rassicurare i tedeschi sui loro soldi in banca. Nessuno avrebbe mai pensato che avrebbe assunto questo ruolo, non solo in Germania. La conclusione è che non bisogna mai sottovalutare una donna. È un errore che fanno tanti. Tutti gli esponenti di primo piano dei partiti lo hanno fatto. Anche Helmut Kohl». «La politica — aveva premesso all'inizio — non è però il mio terreno preferito. Anzi, nei suoi confronti ho una certa insofferenza». D'altra parte, è lui che ha scritto, in Mausoleum, Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso, che «i lebbrosi sotto la decrepita veranda lungo il Rio delle Amazzoni» non capivano ciò che diceva il giovane Ernesto Guevara de la Serna, «e continuavano a morire». La politica non sarà il suo campo, ma molte cose le ha intuite in anticipo.

Corriere 11.5.12
Francia, dove non abita l'antipolitica
di Paolo Franchi


C 'è stato un tempo, ormai lontano, in cui Francia e Italia erano considerate, in Europa, Paesi assai diversi, sì, ma entrambi «politici», anzi, «iperpolitici» per eccellenza. Il tempo in cui François Mitterrand veniva chiamato le Florentin: e attribuirgli una concezione machiavellica della politica era più che altro un complimento, a Roma e a Parigi.
Non è più così. La politica, i partiti e magari anche la democrazia sono in crisi sotto ogni cielo; e, quanto ad angosce sul presente e sul prossimo futuro, i francesi non sono messi molto meglio di noi. Ma la Francia «politica», anzi, «iperpolitica», lo è tuttora, eccome, compresa quella che ha votato al primo turno per Marine Le Pen o, all'opposto, per Jean-Luc Mélenchon: se provate a chiedere in giro che cosa sia l'antipolitica, vi guarderanno stupefatti. L'Italia, invece, non lo è più da un pezzo. Domenica sera, per dire, si sono visti in tv il popolo socialista, sterminato e festante, della Bastiglia, ma pure migliaia di ammutoliti e dolenti sostenitori di Sarkozy che, indifferenti ai sondaggi, avevano affollato la sala della Mutualité nella speranza di un miracolo dell'ultima ora, e ci erano rimasti in lacrime per rendere omaggio al loro leader sconfitto. Il giorno dopo, da noi, quando cominciavano a circolare i primi dati su una tornata di elezioni amministrative che già suonavano, al di là dei risultati di questo o di quello, come campane a morto, persino la piazza politica per eccellenza, il Transatlantico di Montecitorio, era quasi deserta. E i non moltissimi interessati all'esito del voto volevano sapere soprattutto di Beppe Grillo. Se però domenica e lunedì si fosse votato per rinnovare il Parlamento, le cose sarebbero andate allo stesso modo, o anche peggio. Da anni eminenti politologi francesi ci spiegano quanto siano numerose, e profonde, le crepe della Quinta Repubblica. Ma in un passaggio destinato a restare storico anche nel caso che François Hollande si rivelasse impari alla prova, la Quinta Repubblica ha retto la prova alla grande. Si sono confrontate aspramente non solo due personalità, ma due idee della Francia, dell'Europa e magari anche dello stare al mondo. L'80 e passa per cento dei francesi, smentendo i sondaggi della vigilia, è andato a votare, disponendosi a sinistra e a destra con buona pace di chi considera queste parole dei polverosi residuati del Novecento: segno che l'offerta politica (quella dei partiti al primo turno, quella dei due candidati presidenti al secondo) ha trovato un suo punto di equilibrio con la domanda. Non mancano gli interrogativi politici, anche pesantissimi, per la Francia e anche per l'Europa: forse già nelle imminenti elezioni legislative il Fronte Nazionale riuscirà a mettere a segno colpi decisivi per il suo disegno di destabilizzazione dell'Ump, minando così il muro invalicabile che ha sin qui diviso la destra estrema da quella costituzionale. Ma si tratta, appunto, di interrogativi politici.
È quasi inutile sottolineare che, da noi, vale il discorso opposto. La cosiddetta Seconda Repubblica è nata, sempre che sia mai nata, sulla scorta dell'archiviazione, per via giudiziaria e per via referendaria, della vecchia politica e dei vecchi partiti; suscitando così, ai suoi albori, passioni e speranze. Peccato, però, che lungo i suoi quasi vent'anni di vita non abbia prodotto né vera nuova politica né veri nuovi partiti, ma solo un'interminabile, furibonda battaglia tra berlusconismo e antiberlusconismo. Così che, venuto meno l'oggetto, anzi, il soggetto, della contesa, i cavalieri inesistenti che ne erano stati protagonisti, e più di tutti, ovviamente, il Pdl, si sono ritrovati senza una parte vera in commedia, costretti loro malgrado, con l'eccezione della Lega, a fungere tutti assieme da maggioranza, nella grande coalizione più atipica che la storia ricordi. Non c'è da sorprendersi, anche a lasciar da parte le polemiche sulla «casta», se la cosiddetta antipolitica (Grillo e non solo Grillo, perché nella pancia di un Paese in crisi c'è pure di peggio) dilaga: ma questa è la febbre, seppure assai alta, non la malattia che affligge quel che resta della nostra democrazia. Pensare di andare a lezione dalla Francia per trovare la terapia non avrebbe senso. Provare un po' di invidia, sì.

Repubblica 11.5.12
La spallata dei giovani nel voto dell’Europa
di Tito Boeri


Il boom c´è stato, eccome. Il super-Sunday elettorale europeo è stato un utile termometro del disagio soprattutto giovanile, presente in tutti i paesi del contagio e ben oltre nella zona Euro. Pericoloso ignorare il messaggio o anche solo sminuirne l´importanza.
Gli elettori greci, italiani e tedeschi, dopo quelli francesi del primo turno delle presidenziali di due settimane fa, hanno premiato i partiti che si sono opposti con maggiore vigore alla "barbarie dell´austerity". E se il consolidamento fiscale è inevitabile, lo è altrettanto, se non di più, l´esercizio della democrazia. Il dilemma è come conciliare il rientro del debito con l´esame delle urne, cui per fortuna chi ci governa deve prestarsi. Come sempre, qualche risposta può venire cercando di interpretare questo voto. Tre sue caratteristiche ci paiono particolarmente importanti.
La prima è che la sconfitta dei partiti di governo questa volta è stata decretata dai giovani. Sono stati protagonisti nel voto come nel non voto. I dati Ipsos ci dicono che al primo turno delle presidenziali francesi, Sarkozy ha ottenuto solo il 18 per cento dei voti tra coloro che avevano meno di 24 anni contro il 32 per cento di Hollande; il presidente uscente ha, invece, raccolto più voti dello sfidante tra gli ultrasessantenni (37 per centro contro il 25 per cento raccolto da Hollande). In molti casi l´opposizione si è espressa nel non-voto. Rispetto al primo turno delle presidenziali del 2007, l´astensione è aumentata di quasi 20 punti percentuali fra chi aveva tra i 25 e i 45 anni. Negli altri paesi non sono ancora disponibili dati sulla composizione del voto ai partiti per età, ma ovunque si registrano forti variazioni nel tasso di partecipazione soprattutto tra i più giovani.
La seconda caratteristica è la radicalizzazione del voto, con una penalizzazione dei partiti di centro e il rafforzamento delle frange estreme, spesso portatrici di messaggi fortemente anti-europei. Anche in questo radicalismo c´è una forte componente generazionale. Secondo le indagini Demos, il Movimento a 5 Stelle è maggioritario tra chi ha tra 35 e 44 anni, attrae consensi fra un quinto degli elettori potenziali al di sotto dei 35 anni, mentre scende al sesto posto e al di sotto delle due cifre di share fra chi ha più di 65 anni. Tra i Pirati in Germania e i seguaci del Fronte Nazionale in Francia abbondano i giovani e i giovanissimi. Anche in Irlanda la nuova fiammata del Sinn Fein è alimentata dagli studenti, a partire da quelli del Trinity College di Dublino. In Grecia ci sono i giovani dietro al successo dell´estrema sinistra (Syrizi) e dei neo-nazisti (Alba Dorata). Sono posizioni estreme e di rottura. Preoccupanti, ma non possono più di un tanto stupire: sono i giovani le vittime predestinate della doppia crisi economica. Ce lo dicono le cifre sulla disoccupazione giovanile ovunque da due a quattro volte più alta di quella degli altri, quelle sulla povertà, che colpisce soprattutto le famiglie con minori, e forse ancora di più quelle sul debito pubblico che continua a crescere e che saranno inevitabilmente loro, quelli che non hanno ancora iniziato a lavorare, a dover pagare.
Questo voto non può essere liquidato come disinformato e di protesta. È un voto attivo, quasi militante. Ecco la sua terza caratteristica. I grillini, ad esempio, sono mediamente più istruiti di molti altri elettori, come notava Ilvo Diamanti mercoledì su queste colonne. Prevalgono nelle grandi città, dove ci sono più occasioni di confronto e accesso a informazioni. E i giovani sostenitori di questi movimenti radicali anche in altri paesi hanno una loro forma di partecipazione alla vita politica spesso molto più intensa e più attiva di chi vota i partiti tradizionali. Sono attivisti su Internet. La rete garantisce uno scambio in tempo reale ed è molto più democratica, forse fin troppo democratica, nel dare voce a tutti. La rapidità con cui si reagisce agli eventi spesso prende il sopravvento sulla profondità. Ma c´è molta più partecipazione che tra chi ha formato le sue opinioni politiche su Internet, piuttosto che tra chi ha scelto di votare leggendo i giornali o guardando la Tv.
Queste tre caratteristiche del voto sono fondamentali per cercare di offrire risposte al dilemma del consolidamento in democrazia.
Alcune risposte devono arrivare dalla politica economica, dal profilo generazionale dell’aggiustamento fiscale e dal ruolo che in questo gioca l´Europa, oggi più che mai percepita come lontana anni luce dai giovani. Un segno tangibile dell´attenzione dell´Europa nei loro confronti verrebbe dall´imporre ai governi di adottare la contabilità intergenerazionale, in grado di ricostruire come viene ripartita per età la spesa pubblica e il prelievo fiscale, e usarla nel valutare i programmi di rientro dal debito. Servirà a orientare le politiche di bilancio verso il futuro molto più della golden rule, che vuole togliere la spesa in conto capitale dal computo del disavanzo nell´ambito del fiscal compact. La golden rule è una regola troppo facilmente aggirabile (ricordiamoci quanto accaduto quando è stata applicata al Patto di Stabilità Interno) e che premia la costruzione di un monumento rispetto alla spesa per l´istruzione. Bene anche che l´Europa acceleri nella rimozione degli ostacoli alla mobilità del lavoro, permettendo ai giovani di vedersi riconosciute le loro qualifiche in diversi paesi. Sarà per loro, che possono muoversi molto di più degli altri, la migliore assicurazione contro la disoccupazione.
Ma il grosso delle risposte è legato a una questione di democrazia e di rinnovo della classe dirigente, perché è forse questa la domanda più forte che viene dal voto. Anche qui bene che l´Europa, oggi retroguardia nella democrazia, si presenti come apripista. Si potrebbe, ad esempio, abbassare fin dalle prossime elezioni europee l´età per l´elettorato attivo e passivo portandola al livello del paese con la soglia più bassa, l´Austria, dove si vota a 16 anni e si può essere eletti a 18.
Ma il grosso delle risposte non può che venire dai singoli paesi. Tagliare drasticamente il finanziamento pubblico ai partiti serve a togliere potere ai segretari di partito che oggi bloccano il rinnovo dei gruppi dirigenti. Inoltre permette anche ai partiti più giovani, che hanno l´organizzazione meno costosa, su Internet, di competere meglio nella contesa elettorale. Il cambiamento delle leggi elettorali può anche essere d´aiuto. I giovani oggi spingono con il loro voto verso la frammentazione del quadro politico. E le proiezioni del voto in Italia ci parlano di partiti che non superano individualmente la soglia del 20 per cento a livello nazionale. Questa frammentazione va contro i giovani perché toglie stabilità, dunque lungimiranza, all´azione di governo. Toglie anche accountability, fondamentale per l´esercizio della democrazia. Non è una vittoria vera quella di Alexis Tsipras che ha ricevuto il mandato per formare il nuovo governo in Grecia, ma ha già dovuto rinunciare e si dovrà preparare a nuove elezioni. Mentre è una vittoria vera quella di Hollande in Francia che, dopo che il voto al primo turno non era stato meno frammentato che altrove, è oggi la nuova guida di un paese in cui tutti si devono riconoscere. Il contrasto fra quanto accaduto in Francia o anche nel nostro voto nei Comuni più grandi e l´esito del voto in Grecia ci dice che un sistema maggioritario a doppio turno è la risposta migliore che si possa dare a questo disagio. Vero che il doppio turno rischia di tagliare via le frange estreme, ma proprio per questo le obbliga ad ambire ad essere maggioritarie e le spinge a cimentarsi con potenziali responsabilità di governo. I giovani in Francia sono andati a votare anche al secondo turno delle presidenziali, scegliendo fra due candidati che dovevano per forza di cose parlare già ai mercati e al resto del mondo. Questa iniezione di realtà è un potente diluente della demagogia, anche di quella più esasperata.
Oggi in Italia anche il Pdl avrebbe tutto da guadagnarci dal passaggio al maggioritario a doppio turno. È questa forse la novità più importante del voto per noi, quella su cui l´AB, forse più che l´ABC, deve lavorare, mentre il Governo Monti nella spending review interna e in quella da farsi nell´ambito dei piani di rientro del debito a livello europeo può spingere per politiche di bilancio che guardino ai giovani. Gli elettori tedeschi, dopotutto, vogliono punire chi ha vissuto per molto tempo al di sopra delle proprie possibilità, aumentando la spesa pubblica a un ritmo doppio che in Germania. Sanno bene che i giovani greci, irlandesi, italiani, portoghesi e spagnoli non hanno alcuna colpa nella crisi del debito.

Corriere 11.5.12
Strategia del terrore. Massacro a Damasco
Due autobomba fanno decine di vittime
Noi con lo sguardo altrove
di Franco Venturini


Le bombe di Damasco, come tante altre, hanno un padre incerto. Il regime di Assad le usa per ripetere che i suoi avversari sono «terroristi», e dunque non meritano il sostegno della comunità internazionale. Il fronte degli oppositori punta l'indice contro gli onnipotenti servizi segreti del presidente, evoca una provocazione ordita dal potere in perfetto stile «strategia della tensione» e si prepara a nuove più dure battaglie. E poi c'è l'ipotesi del protagonista-ombra: di Al Qaeda, del terrorismo islamista che in Siria cavalca la guerra civile per aprire nuovi spazi alle sue infiltrazioni destabilizzanti.
Due autobomba, tre padri possibili, un mare di sangue. È racchiusa in questa orrenda equazione che nessuno risolverà l'impotenza di cui sempre più spesso viene accusato l'Occidente, tra retorici appelli all'intervento immediato e sospetti (della Russia, della Cina) di lavorare per il tanto peggio, tanto meglio.
Che fare, sperare segretamente che i pretoriani di Assad riportino l'ordine? Impossibile, non soltanto perché non ci riuscirebbero, ma anche perché a troppe mattanze di innocenti civili abbiamo dovuto assistere. E se è credibile che i ribelli siriani facciano anch'essi ricorso alla disinformazione, inviati coraggiosi — come la nostra Viviana Mazza — e network internazionali hanno pensato a fornirci testimonianze indubitabili.
Schierarsi allora decisamente dalla parte degli insorti sunniti che non ne possono più di Assad e della sua cupola alawita? Mettere in cantiere un intervento? Favorire l'afflusso di armi provenienti dal confine libanese con il supporto dell'Arabia Saudita e del Qatar? Impossibile anche questo, almeno per ora. I gruppi ribelli sono divisi, e non tutti sono rassicuranti. Il precedente della guerra in una Libia ormai prossima alla frantumazione pesa, e fa venire i brividi se si pensa alla Santabarbara nella quale è collocata la Siria: Turchia, Iran, Libano e giù fino a Gaza. In caso di contagio l'incendio potrebbe rivelarsi incontrollabile, e agevolare quella espansione geostrategica del qaedismo che sembra aver subìto una paradossale accelerazione da quando è stato ucciso Osama bin Laden: dallo stesso Pakistan, allo Yemen e al Sahel.
Eccoli, i dilemmi che tormentano l'Occidente fino a ridurlo al rango di spettatore mentre i siriani si sterminano tra loro. Dovremmo nasconderci dietro la foglia di fico del piano Annan? Ma il piano Annan è già fallito malgrado le sue ottime intenzioni, e può avere soltanto due sbocchi: la rinuncia tacita, oppure, come vuole Erdogan, l'invio di migliaia di caschi blu con un mandato Onu simile a quello per la Libia (capitolo VII della Carta, che autorizza l'uso della forza). Decisione che Russia e Cina non avallerebbero, e che sarebbe comunque il primo passo di una nuova guerra.
Si torna alla prima casella, quella dell'impotenza. Ma Assad e gli altri padri putativi delle bombe di ieri dovrebbero riflettere. Le elezioni americane passeranno, la crisi economica è grave ma non cancella tutto, il potere delle immagini grondanti sangue non si è dissolto. Non sarebbe la prima volta che la dinamica dell'orrore rende possibile domani quel che oggi non lo è.

La Stampa 11.5.12
Il dissidente cinese
Chen accusa “Vendetta contro i miei famigliari”
di Ilaria Maria Sala


Il nipote è indagato per tentato omicidio «Ma si è solo difeso da un’irruzione in casa»

HONG KONG Mentre l’attivista per i diritti umani cieco, Chen Guangcheng, resta all’Ospedale di Chaoyang, a Pechino, ricevendo cure per una gamba rotta in diversi punti e una grave gastroenterite, e in attesa di sapere se potrà andare a studiare negli Stati Uniti, i tormenti che gli erano stati riservati per anni si estendono alla sua famiglia. Ieri, Chen, parlando con l’agenzia «Reuters», ha dichiarato che le autorità stanno portando avanti «una vendetta pazzesca» nei confronti dei suoi familiari rimasti nella regione dello Shandong, da cui Chen è scappato dopo anni di arresti domiciliari. In particolare suo nipote, Chen Kegui, detenuto alla questura di Yinan, nello Shandong, sarebbe ora indagato per «tentato omicidio», dopo che si è difeso con un coltello quando degli individui si sono intromessi nella sua abitazione nottetempo, il giorno in cui era stata resa nota la fuga di Chen Guangcheng. Fra le persone che avevano fatto irruzione nella casa, apparentemente, c’erano anche dei poliziotti in borghese, e tre di quelli che sono entrati sfondando la porta sono stati feriti da Chen Kegui. Nel frattempo, tanto la moglie di Chen Kegui, che suo padre, sarebbero agli arresti domiciliari senza una motivazione precisa.
La notizia dell’accusa contro il nipote di Chen è stata data per Weibo (il Twitter cinese) dall’avvocato Teng Biao, uno dei maggiori sostenitori di Chen. Ma per l’attivista ora all’ospedale comunicare con la famiglia è un’operazione complicata: infatti, i telefoni cellulari di molti di loro sono stati confiscati senza giustificazione apparente, e le notizie giungono spesso tramite messaggi lanciati su Internet o trasmessi da persona a persona.
Le disavventure dei Chen nello Shandong sembrano ancora lontane dall’essere finite, dopo che le autorità locali non hanno apprezzato che l’attivista cieco scoprisse e denunciasse il loro uso degli aborti forzati, introdotti per mantenere il numero delle nascite regionali all’interno di quanto previsto dal piano regolatore.

Repubblica 11.5.12
Venti di guerra nel Mar del Cina scontro sulle isole del petrolio
Pechino minaccia Vietnam e Filippine: "Pronti a usare i cannoni"
Disputa sulle acque territoriali di tre arcipelaghi con risorse naturali immense
di Francesco Mimmo


La Dea della pietà guarda dai suoi 70 metri di altezza un mare pieno di ricchezze e di burrasca: la statua buddhista in marmo più alta della Repubblica socialista del Vietnam si alza come un faro sulla spiaggia della città di Da Nang e su una porzione di mondo che da mesi è al centro di una contesa territoriale esplosiva. Petrolio e gas in enormi giacimenti ancora inesplorati, una rotta commerciale che da sola vale un terzo dei traffici marittimi mondiali hanno scatenato gli appetiti di governi e multinazionali. E rischiano di scatenare una guerra nel Mar cinese meridionale. Quella fredda, diplomatica e commerciale, ha già toccato picchi di tensione mai visti dalla fine della "guerra americana", come i vietnamiti chiamano il conflitto chiuso nel 1975. Quella vera la minaccia a più riprese la Cina. Contro il Vietnam, ma anche contro le Filippine, la Malaysia, Taiwan, Brunei. La disputa è su una piccola serie di isole disseminate in quel braccio di mare, l´obiettivo sono i giacimenti sotto il fondale. Terra e acqua cinesi, secondo Pechino, che rivendica 1,7 chilometri quadrati di mare e non è disposta a trattative. E tuona: «Nel Mar della Cina si tornerà a sentire il rombo dei cannoni».
E i cannoni sono pronti davvero. Forse solo come segnale di determinazione. Ma intanto la marina cinese ha schierato le sue navi. Così come hanno fatto le Filippine che al largo della secca di Scarborough, uno dei territori contesi (insieme agli arcipelaghi Paracel e Spratleys), ha mandato la sua nave da guerra più grande. E come il Vietnam che proprio a Da Nang, al top della tensione diplomatica, tre settimane fa, ha avviato un´esercitazione militare congiunta con la Marina degli Stati Uniti. Ci sono già stati incidenti: un mese fa otto pescherecci cinesi sono stati avvicinati dall´ammiraglia filippina. La Cina ha schierato subito le sue navi per impedire l´arresto dei pescatori. Uno stallo durato giorni e risolto solo dopo frenetiche consultazioni diplomatiche. Ieri nuove tensioni. Il ministro degli Esteri cinese ha ribadito la posizione ufficiale del governo (che invoca la calma, ma chiede a Manila un passo indietro), ma il China Daily, il più diffuso quotidiano in inglese del Paese e voce del partito, è stato decisamente più esplicito: «Nonostante la nostra disponibilità a discutere la questione, le autorità filippine sono determinate a spingerci in una situazione in cui l´unica soluzione saranno le armi». Stessa posizione espressa sul quotidiano dell´esercito cinese: «Il governo, il popolo e le forze armate cinesi non consentiranno a nessuno di fare tentativi per toglierci la sovranità sull´isola di Huangyan (come i cinesi chiamano le secche di Scarborough)».
Ma perché tanto interesse per isole semidisabitate? Gas e petrolio sono la risposta. Sotto il Mar della Cina meridionale ci sono riserve di greggio stimate in 213 miliardi di barili (pari all´80% delle riserve dell´Arabia Saudita, il primo produttore mondiale). Senza contare che sotto quel braccio di mare ci sono anche enormi giacimenti di gas. Uno di questi lo ha scoperto la multinazionale americana Exxon, con una missione di esplorazione partita proprio dal porto di Da Nang a fine anno e organizzata insieme alla PetroVietnam, la compagnia statale di Hanoi. Un episodio che indica anche una giravolta nei rapporti internazionali del Vietnam. Da decenni il governo socialista ha programmato la sua economia sulla falsariga di quella cinese. L´apertura al mercato, ancora parziale, è arrivata appena dopo l´invito di Deng («Compagni arricchitevi»). E come la Cina anche il Vietnam ha registrato un boom economico con crescita a doppia cifra. Tanto che le banche d´affari americane non esitavano a definirlo la nuova tigre asiatica.
Tutto questo fino a due anni fa. La recessione globale ha avuto effetti devastanti. La manodopera a basso costo non basta più, l´inflazione ha cominciato a mangiarsi tutta la crescita: nel 2011 i prezzi sono cresciuti del 18,6%, il Pil del 6%. La Provincia di Da Nang ad aprile ha temporaneamente congelato gli acquisti di beni sopra i 4.800 dollari nel tentativo di raffreddare i prezzi al consumo. Il governo sta tentando nuove vie, come il turismo. Ma i resort di lusso costruiti sulla sabbia di "China Beach", la spiaggia dove i militari americani andavano in licenza durante la guerra nell´inutile attesa di onde per fare il surf, sono deserti. Ecco perché il gas scoperto con gli yankees è stato visto come un miraggio. Un miraggio che Pechino non vuole diventi realtà.

l’Unità 11.5.12
Lo sballo sintetico
Le nuove droghe? Rifiuti dei laboratori farmaceutici
Anche il principio attivo della Cannabis, il Thc, è stato modificato: ora è molto più concentrato. Dal 7 al 38%
Gbl è una sostanza simile al Ghb e si trova nei solventi per la pulizia. L’effetto più immediato è l’euforia
di Cristiana Pulcinelli


SHAYANA SHOP PROPONE SU INTERNET CONFEZIONI GIÀ PRONTE: C’È IL LOVE PACK, CON AFRODISIACO SPRAY DA SPRUZZARE SOTTO LA LINGUA 15 minuti prima dell’incontro; c’è lo Psych Energy Pack con cinque prodotti diversi: da quello che aiuta a stare svegli tutta la notte in caso di party movimentati a quello da usare se si vuole «allargare la propria esperienza mentale». Poi c’è After Party Pack, tre confezioni di pillole da prendere quando, la mattina dopo, devi andare a lavorare ma non sei proprio in forma (una confezione in particolare si chiama After C e si usa se la sera prima hai tirato troppa cocaina). Conveniente il pacco doppio: Party and Recovery Pack che per 85 euro fornisce sia le droghe per sballare la sera, sia quelle per tirarsi su al mattino. Di shop come quello che abbiamo visitato ce ne sono molti: propongono pillole colorate, tisane, erba da fumare, sali da bagno, deodoranti ambientali, incensi, simpatici funghetti da far crescere su un letto di terra, proprio come il basilico di casa, ma che vengono sconsigliati dal negoziante a chi ha avuto “precedenti di psicosi”. Tutto disponibile on line.
UNA A SETTIMANA
Il mercato delle nuove droghe è eclettico. L’altra sua caratteristica è che non sta mai fermo. Si potrebbe dire a ragione – e con una certa dose di ironia che le nuove droghe crescono come funghi. Nel corso dell’anno passato in Europa ne sono state segnalate 49, circa una a settimana, stando a quello che si legge sul rapporto del Centro di monitoraggio sulle droghe dell’Unione europea che è stato pubblicato pochi giorni fa. Nel 2010 ne avevano scoperte 41 e nel 2009 erano 24. Ma potrebbero essere anche di più.
«Il nostro sistema di monitoraggio – dice Giovanni Serpelloni, capo Dipartimento politiche antidroga della Presidenza del consiglio dei ministri ha individuato 154 nuove molecole in due anni solo nel nostro Paese». Come? «Il nostro sistema d’allerta rileva le sostanze utilizzando vari canali: la polizia che effettua i sequestri, i servizi di pronto soccorso dove arrivano gli intossicati, i laboratori, i locali di intrattenimento, le scuole, i mass media soprattutto locali che danno notizia di strane morti per intossicazione. Riceviamo telefonate, sms, e mail che vengono raccolte e valutate prima di mettere in atto un’allerta».
Il fatto è che trovarle non è facile: le nuove droghe si nascondono, si mascherano dentro bustine dall’aspetto esotico e gioviale, o nei sacchetti di fertilizzanti, veicolate da segatura e erbe secche. E soprattutto mutano così velocemente che quando le hai scoperte, sono già fuori dal mercato. Un modo per sfuggire alla legge, perché solo le droghe inserite nella «tabella delle sostanze stupefacenti e psicotrope» possono essere oggetto di sequestro.
Un caso per tutti: Spice, venduto legalmente come prodotto naturale, nel 2009 conquistò il mercato di Berlino, venne poi vietato per rinascere sotto nuove spoglie. Oggi, secondo il rapporto europeo, le bustine di tipo Spice contengono cannabinoidi sintetici che fanno la parte del leone nel mercato delle nuove droghe: 23 sostanze sulle 49 segnalate in Europa nel 2011. «Si tratta di rifiuti della ricerca farmacologica», spiega Serpelloni. «Negli anni passati le industrie farmaceutiche si sono concentrate sulla produzione di farmaci a base di Thc, il principio attivo della Cannabis, che sembrava avere un effetto sul controllo della nausea da utilizzare ad esempio durante la chemioterapia. Quelle ricerche hanno dato origine a circa 500 prodotti, scartati perché troppo psicoattivi. Tutte sostanze brevettate con il nome Jvh, le iniziali di chi le ha scoperte, seguito da una cifra e regolarmente acquistabili in Cina. Una volta comprate sotto forma di liquidi contenuti in barili, le sostanze vengono poi portate nei Paesi dell’Est dove in fabbriche artigianali vengono mescolate con erbe e vendute come droghe naturali».
IL CAPITOLO DEGLI STIMOLANTI
L’altra categoria corposa tra le nuove droghe individuate dal centro europeo è quella dei catinoni sintetici. Si tratta di stimolanti che contengono catinone, una sostanza presente nella pianta di Qat, o Khat, ma che vengono prodotte in laboratorio. Il più famoso è il mefedrone, molto utilizzato in Inghilterra. Secondo un recente sondaggio del governo britannico, il 4,4% della popolazione inglesetrai16ei24anninehafattousotrail2010 e il 2011: la stessa percentuale dei consumatori di cocaina. Gli effetti: euforia, aumento di energia, empatia, aumento della libido, sudorazione, tachicardia, mal di testa. L’uso eccessivo porta i consumatori nei reparti di pronto soccorso in preda a forti dolori al petto e uno stato di estrema agitazione.
Ma sul mercato sta entrando anche altro. Un recente studio pubblicato sul British Medical Journal (Bmj) ci fa riscoprire sostanze come le chetamine e il Gamma Idrossibutirrato (Ghb, o ecstasy liquido). Il Ghb in origine era un anestetico, è stato poi usato per trattare l’insonnia e i sintomi dell’astinenza da alcol. Gbl è una sostanza simile al Ghb, si trova nei solventi per la pulizia e viene anch’esso usato per lo sballo. Sono sostanze che danno euforia, comportamento disinibito e un aumento dell’eccitazione sessuale. Vengono anche definite «droghe dello stupro» perché poche gocce, inodori e insapori, producono un abbattimento delle barriere di difesa. Una serie di recenti casi di cronaca raccontano di ragazze vittime di stupro a cui erano state somministrate, mascherate nell’alcol. L’effetto è massimo dopo circa mezz’ora dall’assunzione ma poi decresce rapidamente e quindi spesso viene presa, o peggio somministrata, più volte di seguito. L’overdose porta a depressione respiratoria e incoscienza.
ANESTETICI PER CAVALLI
Le chetamine sono composti con proprietà analgesiche e anestetiche e vengono usate a questo scopo anche sugli animali. Sul mercato sono disponibili varie formulazioni prodotte in modo illecito, una di queste recentemente sequestrata proveniva da un anestetico per cavalli. L’effetto dura circa due ore e provoca euforia, sogni di tipo allucinatorio ed «esperienze mistiche», secondo quanto riporta l’articolo di Winstock e Mitcheson sul Bmj. Gli effetti collaterali più gravi che portano al pronto soccorso sono perdita di coscienza, problemi al tratto urinario, dolori addominali o danni dovuti a comportamenti sessuali rischiosi. Dal punto di vista psichico, le chetamine possono provocare panico e paranoia. Anche in questo caso, si riscontra spesso un uso compulsivo: la chetamina viene presa più volte di seguito per prolungarne l’effetto. C’è da dire poi che tutte queste sostanze vengono spesso utilizzate in combinazione con altre, in particolare con l’alcol, e il mix fa aumentare il rischio per la salute.
«Al momento non si può parlare di un’invasione di queste sostanze – spiega Serpelloni sono ancora droghe di nicchia rispetto alla cannabis o alla cocaina, però ci sono molti casi di intossicazione grave. Contrariamente alla cannabis, i consumatori non sono giovanissimi, la loro età media è di 35 anni, si tratta di sperimentatori, persone che cercano cose nuove. Ma siccome parliamo di sostanze difficilmente rilevabili dai laboratori, è difficile fare una valutazione precisa».
Del resto, anche la vecchia cannabis non è più quella d’un tempo: «Le piante sono state così modificate – prosegue Serpelloni che sono irriconoscibili: abbiamo appena messo a punto un atlante per la Guardia di finanza con tutte le nuove forme. Anche la quantità di principio attivo che contengono, il Thc, non è più la stessa: se prima si aggirava intorno al 7%, oggi arriva al 38%». Un dato che ha fatto fare marcia indietro anche alla liberale Olanda dove una nuove legge equipara la cannabis con un contenuto di Thc superiore al 15% alla droga pesante, cioè alla cocaina e all’ecstasy.

il Fatto 11.5.12
Pericolo di crollo: Villa Adriana rischia la fine di Pompei
di Silvia D’Onghia


TRANSENNE E DIVIETI NEL SITO ARCHEOLOGICO PATRIMONIO MONDIALE DELL’UNESCO. I SOLDI ANNUNCIATI NON SONO MAI ARRIVATI

Mi scusi, c’è un bagno? ”. “No, qui sono tutti rotti. Quelli del plastico sono in manutenzione, deve arrivare al Canòpo”. Due toilette (anche la terza del Canòpo è fuori servizio) per un’area di 40 ettari. Benvenuti a Villa Adriana, patrimonio mondiale dell’Unesco, capolavoro dell’imperatore Adriano a Tivoli, 28 km dal centro di Roma. Il suo buen retiro, il luogo in cui trascorse la vecchiaia celebrando, attraverso l’architettura avveniristica, conquiste, passioni e amori di una vita. Il luogo a due passi dal quale, se Monti non lo frenerà – è di ieri la lettera dei ministri Clini e Ornaghi al premier per impedire lo scempio –, il Prefetto di Roma Pecoraro vuole costruire la nuova discarica di Corcolle. In tutto 120 ettari di residenze, giochi d’acqua e richiami d’oriente, soltanto 40 dei quali ben noti agli archeologi. E, si direbbe, solo a loro, visto che Villa Adriana cade a pezzi. Lo scorso anno, in risposta a Sergio Rizzo sul Corriere, l’allora ministro Galan promise lo sblocco dei fondi necessari alla manutenzione e al restauro delle zone malmesse.
ARRIVÒ anche la visita del sottosegretario, che voleva rendersi conto di persona dello stato in cui versava l’area. Ma, a distanza di quasi 12 mesi, quei fondi – a detta dei funzionari sono stati stanziati circa 2 milioni di euro – a Tivoli non sono mai arrivati. E così i sempre meno turisti (stranieri per la maggior parte, se si escludono le scolaresche) vengono accolti da transenne, puntelli, cartelli indicanti il pericolo di crollo, aree inaccessibili oltre le quali si vedono reperti ammassati e piante cresciute tra i mosaici. “Manon dica che è un disastro”, ci tiene a precisare la direttrice di Villa Adriana, Benedetta Adembri, seccata più per le incursioni giornalistiche che per i soldi che mancano. “Quando transenniamo, lo facciamo per motivi di sicurezza. Anche la caduta di un piccolo frammento può far male a qualcuno. Ma non abbiamo mai avuto crolli”. Non ancora. “Avremmo bisogno di risorse molto più cospicue – aggiunge –, ma per parlare di soldi deve rivolgersi al Soprintendente”. Marina Sapelli Ragni, che però, raggiunta al telefono, non ha tempo per le domande.
L’ingresso nel “Pecile” è un colpo d’occhio meraviglioso: un antico porticato, del quale rimangono le basi delle colonne, con una vasca centrale lunga oltre 120 metri e larga 25. Un’enorme terrazza che domina Roma. Peccato che quell’antica piscina sia recintata con le transenne d’acciaio per evitare che la gente cada in acqua o che calpesti le piantine. Il percorso prosegue verso le terme, ma l’illusione dura poco. Le “Piccole terme” sono chiuse e le “Grandi” non se la passano poi così bene. Impossibile addentrarsi nelle “Cento camerelle”, gli edifici sotterranei che potrebbero essere stati dimore dell’antica servitù: ogni criptoportico, cunicolo o camminamento sotterraneo di Villa Adriana è chiuso al pubblico.
PERSINO il portico sotto la “Peschiera”, volte affrescate e incisioni storiche come la firma dell’architetto Piranesi. Piccoli cedimenti, un’incursione d’acqua e addio visitatori. “Quel muro crollato? Lavoro qui da nove anni e l’ho sempre visto così” si lascia scappare una guida davanti a un gruppo di turisti increduli. Anche il portico al lato dell’“Edificio con pilastri dorici” è interdetto. Nel palazzo imperiale ci sono i mosaici a terra. Sono calpestabili da sempre, ma ormai sono anche coperti di fango: le tessere saltano o si sgretolano. E anche quelli dell’“Hospitalia”, le residenze per gli ospiti, sono a cielo aperto. Nei libri universitari di archeologia sono ricordati come “piacevoli esempi delle variazioni in bianco e nero, tipici di questo periodo”, il II secolo dopo Cristo. Si studiano, ma non si preservano. Ma a lasciare davvero l’amaro in bocca è il “Teatro marittimo”, una villetta costruita su un isolotto circolare artificiale. All’epoca di Adriano un ponte girevole ne poteva interrompere l’accesso. Oggi ci pensano le transenne. La villa nella villa si ammira solo da un punto, da cui si percorrono pochi metri prima di un’ulteriore sbarramento. E così le tartarughe vivono beate tra le antiche rovine.
Villa Adriana è un enorme parco, con alcune aree attrezzate addirittura per i pic-nic (molte altre sono chiuse). Ma, se ci si va durante la settimana, quando i turisti si contano sulle dita delle mani, si è liberi di spaziare. E, volendo, di distruggere o rubare reperti. I custodi, dipendenti della Soprintendenza, sono appena una quarantina (rispetto ai cento che sarebbero necessari). Il che vuol dire che, divisi per turno, nei giorni feriali sono al massimo 8. Per un’area di 40 ettari. Senza straordinari dallo scorso novembre. All’interno della villa non mancano solo i bagni. Non esiste un punto ristoro. L’unico bar che c’era, accanto alla biglietteria, è stato chiuso mesi fa. Il ristorante all’angolo ringrazia. Se si vuole una piantina bisogna pagarla. Ormai non è più possibile trascorrere le serate primaverili a Villa Adriana: le aperture notturne non esistono più. Il calcolo costi-benefici è stato fatto sui martedì di ottobre/novembre/dicembre e la sfida doveva essere “oltre 400 visitatori”.
All’uscita di Villa Adriana un gruppetto di ragazzi americani s’incammina a piedi verso la fermata dell’autobus. Non sa che non esistono orari precisi e che l’attesa sotto il cocente sole di questo maggio romano potrebbe protrarsi per lunghe mezzore.

Corriere 11.5.12
Il «Machu Picchu» romeno
di Dario Fertilio


Sui Monti Orastiei di Romania esiste una gigantesca metropoli, che si estende per duecento chilometri quadrati (nella foto). L'insediamento è noto con il nome di Sarmizegetusa: la notizia, rilanciata dallo scrittore e traduttore Luca Bistolfi, viene dal quotidiano romeno «Adevarul», il quale precisa come solo il cinque per cento del complesso sia venuto alla luce.
La vicenda, per la verità, non comincia oggi: le prime informazioni risalgono agli anni novanta, quando i ministeri romeni dei Lavori pubblici, della Cultura e della Ricerca avviarono i lavori per delimitare i confini della zona fortificata: i risultati però non sono mai stati pubblicati.
Si sa comunque che i templi daci dei Monti Orastiei sono tra le più importanti vestigia della storia europea, anche se oggi costituiscono un'attrattiva più per cercatori di tesori o «yogi» che per normali turisti. Il fatto è che, con i secoli, dei santuari edificati dagli antenati del popolo romeno sono rimaste visibili soltanto rovine, sia pure cariche di mistero.
E infatti c'è chi paragona Sarmizegetusa alla città proibita di Machu Picchu, ipotizzando che, già capitale dell'antica Dacia, quella in superficie costituisca solo una piccola parte di un'enorme città, grande quanto l'attuale Bucarest.
Le fortificazioni non rappresentano solo città disparate, collocate sulle cime delle montagne, ma un insieme compatto, un vasto insediamento militare e civile, con differenti nuclei, in cui ogni terrazzamento ha un muro di difesa. L'ipotesi più suggestiva è che la metropoli dei Monti Orastiei comprenda anche una rete di cinte sotterranee. Nella zona di Vartoape esistono 75 cavità coniche di differenti dimensioni, alcune con diametri di settanta metri.

Corriere 11.5.12
I seni di Afrodite e il potere di Zeus
di Giorgio Montefoschi


Il testo frammentario Sui simulacri (Adelphi, pp. 287, 17) di Porfirio, il filosofo neoplatonico allievo di Plotino (di cui curò la pubblicazione delle Enneadi), nato nel 233 d.C. a Tiro in Asia Minore e morto a Roma attorno al 305, va a comporre, come un tassello prezioso, l'eterna e infinita trama dei simboli con i quali fin dai tempi antichissimi l'uomo interroga e interpreta il mistero; e, in particolare, getta scaglie di luce vivissima sulla statuaria greca e poi romana: le statue che oggi vediamo cieche negli occhi e nude di colori ma che originariamente i colori avevano, eccome!, poiché anche i colori contenevano un profondo significato.
Nell'ottima introduzione al volume, il curatore Mino Gabriele fa per un argomento estremamente arduo, un discorso preciso e molto chiaro. Il simbolo — egli scrive — sta al posto di un altro: lo rappresenta senza mai coincidervi né esserlo. Deve rappresentare cose inconoscibili nella loro sostanza, vale a dire nella loro verità e in definitiva ineffabili: quali gli dei, l'aldilà, gli enigmi della creazione. «Tra queste insondabili vertigini e la caduca, quotidiana materia sta il simbolo: ineccepibile intermediario tra il dato sensibile visibile (da cui trae il proprio disegno o figura) e l'immateriale invisibile (di cui si fa artificiosa immagine)».
Nella titanica lotta tra i simboli e quello che (rimanendo nel suo fondo ignoto) simboleggiano, tra il qui e l'altrove, la tensione umana verso il soprannaturale esprime quanto di più elevato può esprimere: l'arte e cioè la ricerca di un senso ultimo affidata alla fragile incertezza di un segno.
Ma questo è possibile perché, se è vero che l'ineffabile rimane ineffabile, è altrettanto vero che tutto è correlato nell'universo; e che gli dei si riconoscono negli uomini, inseguono gli uomini, spesso addirittura abbandonano le regioni celesti e scendono sulla terra. Ecco il motivo per il quale nei simulacri, nelle statue, è importante ogni minimo segno, dettaglio: ogni foglia d'albero, colore, gesto riflette la luce universale.
Pindaro — scrive Mino Gabriele — paragonando la poesia alla scultura contrapponeva il pregio del suo canto, che veloce si propaga ad annunciare dappertutto il vincitore dei giochi Nemei, al limite della statua celebrativa che invece rimane immobile sul piedistallo. Rimane il fatto che i «limiti» della statua celebrativa — i limiti del marmo, dell'oro, dell'avorio, dell'immobilità e dei colori — sono gli stessi limiti della parola che «corre» e che lì sta la bellezza. Una bellezza che conduce a venerare le statue (come le parole), accudirle, sorvegliarle, proteggerle, quasi fossero esse stesse divine. Del resto, non è possibile pensare senza immagini — scrive Gabriele — e pertanto non è possibile manifestare il pensiero senza figurarlo. Ne discende che questa rappresentazione «limitata» del soprannaturale, l'unica possibile, è a suo modo divina.
Le prospettive più seducenti del trattato si dischiudono nei frammenti 3 e 8. Nel frammento 8, in cui con folgorante concisione si parla di Crono, raffigurato «eretto, canuto, per evidenziare che il tempo invecchia», dal corteo divino si distacca Afrodite: «Lei si copre i seni e il sesso, perché questa forza è causa di procreazione e di nutrimento. Viene dal mare, elemento umido e caldo, in grande movimento e schiumoso a causa dell'agitazione, con allusione al potere seminale». Si intrecciano: il pudore, la nascita, il desiderio.
Nel frammento 3, l'inno orfico riportato da Porfirio celebra la figura di Zeus. Zeus è l'universo. Ogni parte del «suo corpo radioso, illimitato, incrollabile, poderoso, forte di membra è una parte del Tutto». Egli «è assiso, con allusione alla saldezza del potere; ha nuda la parte alta del corpo, perché è splendente nelle parti intellettuali e celesti del mondo… tiene lo scettro con la sinistra, là dove soprattutto, tra le parti del corpo, sta chiuso il viscere al più alto grado direttivo e intellettuale, il cuore».
Non possiamo, leggendo, non pensare alla statua di Giove scolpita da Fidia e collocata nel tempio di Olimpia. Pausania, nel V volume della Guida della Grecia, racconta che Fidia, terminata questa statua smisurata, implorò il dio che gli inviasse un segno del suo gradimento e che immediatamente, dal cielo, a due passi dal punto in cui era, cadde un fulmine.

Corriere 11.5.12
Forme e volti del mito. Mostra diffusa nell'Isola Eventi
La Sicilia nel segno di Ermes in un dialogo tra l'antichità e l'arte contemporanea
di Daniele Lo Porto


Dare modernità all'antico e classicità al contemporaneo. Proporre l'immediata lettura di un monumento greco, da 2.500 anni elemento caratterizzante del paesaggio, accanto alla interpretazione di un'opera d'arte di oggi. Affermare il valore del mito come proposta per il futuro in un museo, la Sicilia, che è l'epicentro di un terremoto di emozioni che si propaga senza confini spaziali e temporali. L'isola nel cuore del Mediterraneo si ripropone con un circuito di eventi, esposizioni e seminari, sui denominatori comuni dell'arte, del turismo e del mito, appunto, sui quali la Sicilia può e deve puntare, non solo per riscattare il presente ma soprattutto per costruire il suo futuro, riaffermando, nel contesto della globalizzazione culturale, la sua identità.
«Da Hermes ai protagonisti del XX secolo» è il titolo della manifestazione che vede protagonisti Jiménez Deredia, Giò Pomodoro, Gian Marco Montesano, Pino Pinelli. Le loro opere vengono esaltate dai luoghi magici della Trinacria: Lipari, Segesta, Palermo, Taormina, che sintetizzano, nel loro valore simbolico, dalla preistoria all'oggi, l'essenza della Sicilia.
«I nostri maestri sono i testimoni del genio umano che con sapienza plasma la materia, la nutre di colore e le dà forma. La sfida non li spaventa, anzi vi si gettano con giovanile entusiasmo. Ripercorrono luoghi della loro infanzia, del loro vissuto, della loro fantasia e ci fanno vivere un'esperienza sospesa tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. La gioia è vedere come artisti di chiara fama si emozionino davanti ai luoghi magici proposti, e da lì traggano nuova linfa per produrre sempre qualcosa di nuovo ed irripetibile», sottolinea Massimiliano Simoni, art director del Mito contemporaneo, seconda rassegna internazionale di scultura e pittura, organizzata dall'assessorato al Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana.
L'arte contemporanea, dalla scultura monumentale in marmo bianco e bronzo alla pittura figurativa, dalle resine plastiche alle grandi tele ad olio, trasforma, quindi, l'Isola in un grande atelier a cielo aperto. A Taormina, Giò Pomodoro (dal 10 maggio all'8 luglio) esprime la sua rivisitazione acuta e moderna del Mito che è alla base della civiltà dei popoli del bacino del Mediterraneo, dal mondo ellenico alla Magna Grecia. Dislocate nel cuore del centro storico, le sculture — alcune di grandi dimensioni — in marmo e in bronzo, affiancate da due grandi tele, si mescolano con la storia, con il tempo antico dei luoghi, proiettando nel presente il riflesso di un fecondo passato. La mostra taorminese regala ai visitatori anche due sculture monumentali realizzate in vetroresina, restaurate per l'occasione, ospitate all'ingresso del Parco Archeologico di Naxos.
A Trapani, sul sentiero che porta al Parco Archeologico di Segesta, uno tra i siti dell'antichità più belli nel panorama mondiale, lo scultore costaricano Jiménez Deredia presenta un ciclo di sculture e di opere monumentali in bronzo e marmo bianco. Una selezione di opere monumentali è ospitata all'interno dell'Aeroporto Birgi «Vincenzo Florio» per la prima volta deputato a luogo espositivo del contemporaneo e nel centro storico della città. Una parte significativa delle sua produzione artistica è chiamata a sfidare l'Agorà del sito archeologico — la più grande del Mediterraneo —, il Teatro e il Tempio dorico di Segesta. Deredia presenta per la prima volta al pubblico la sua opera Armonia realizzata in marmo bianco di Carrara e ultimata per l'occasione.
A Palermo, Gian Marco Montesano racconta i Miti del XX secolo. Al Teatro Politeama Garibaldi, il pittore torinese, caposcuola del medialismo, la corrente di revival pittorico, di matrice neo pop e fumettista, rivisita in chiave ironica e surreale, quasi grottesca, la storia ed il passato rileggendo, in modo personale, gli anni drammatici e cruciali della formazione dell'Europa fino al momento della sua crisi. La sua creatività attinge da foto, film, giornali e dall'immensa rappresentazione mediatica che le dittature hanno così bene saputo usare per fini propagandistici. In mostra anche la grande tela formata da 100 opere Padiglionitalia presentata in occasione della Biennale di Venezia.
A Lipari, la Chiesa di Santa Caterina è lo spazio scelto per raccontare quarant'anni di lavoro del pittore Pino Pinelli, catanese di nascita, (dall'1 giugno all'8 luglio). Una vera e propria antologica, dove i tre elementi cari all'artista, lo spazio, il colore e la pittura si fondono nel contesto del Mito. Le opere diventano metope, il rosso, il nero le cui superfici sono vellutate o ricoperte di cristalli di roccia pungente.
A fianco dei quattro eventi espositivi, Il Mito Contemporaneo propone un ciclo di seminari su «Arte, Mito e Turismo» in programma a Taormina, il 2, 16 e 30 giugno, a cui parteciperanno artisti, critici e giornalisti specializzati, storici, archeologi, galleristi, tour operators nazionali ed internazionali e un simposio di scultura a Lipari dedicato ai giovani artisti siciliani.

Corriere 11.5.12
Ermes

E l'Olimpo ebbe il suo Giamburrasca
di Eva Cantarella


Un vero enfant terrible, il piccolo Ermes. Assolutamente incontrollabile. Nato da una delle mille avventure extraconiugali di Zeus (in questo caso con Maia, figlia di Atlante, la più giovane delle Pleiadi), Ermes dà prova del suo carattere appena venuto alla luce. Concepito in una caverna sui monti dell'Arcadia nel buio della notte, mentre tutti dormivano (compresa Era, la gelosissima moglie di Zeus, Ermes è un dio «dalle molte arti, dalla mente sottile, predone, ladro di buoi, ispiratore di sogni, vigile nella notte, che sta in agguato alle porte».
Così viene descritto nel IV Inno omerico a lui dedicato, che prosegue con il racconto dei mirabolanti exploits del neonato: «Nato all'aurora, a mezzogiorno suonava la lira, e dopo il tramonto rubò le vacche di Apollo arciere, nel giorno in cui lo generò Maia veneranda, il quarto del mese» (giorno che sarebbe stato poi a lui dedicato). Un inizio niente male, bisogna ammettere: liberatosi delle fasce, Ermes esce dalla caverna e si mette alla ricerca dei buoi di suo fratello Apollo. Il suo primo furto: giunto in Tessaglia, dove Apollo custodiva le vacche di Argo, se ne impossessa e le conduce attraverso la Grecia fino a Pilo, dove le nasconde. Dopo aver sacrificato due bestie e averne diviso le carni in dodici parti, fa dono di una di esse a ciascuno dei dodici dèi: sapeva già come vivere, il piccolo.
E infine torna alla caverna dove era nato, non senza aver fatto una straordinaria invenzione: avendo trovato una tartaruga crea «per primo, una tartaruga canora». Afferrata una lama spolpa l'animale, tende sui bordi del guscio delle corde fatte con pelli di bue e fabbrica la prima lira, dalla quale estrae suoni dolcissimi, cantando gli amor dei suoi genitori (il che equivale a celebrare la sua nobile stirpe). E mentre canta «già nella mente medita altre imprese».
Tutto questo il primo giorno. Dopo di che rientra nella culla nella quale lo aveva sistemato la madre. Ed ecco a questo punto arrivare un inferocito Apollo, al quale un testimone ha svelato chi era il ladro. Inutile dire che Maia non gli crede, ma Apollo, sicuro del fatto suo, insiste sino a che Zeus non ordina a Ermes di svelare dove ha nascosto gli animali. Cosa che Ermes fa, riuscendo peraltro a concludere con Apollo un ottimo accordo: Apollo infatti rinunzia al suo gregge in cambio della lira, il cui suono lo ha incantato. E in aggiunta a questo Ermes ottiene di condividere il potere di Apollo di vedere il futuro. È veramente un dio speciale, questo Ermes, ladro, fanfarone, spergiuro, dotato di risorse infinite. Non a caso si diceva che Ulisse, il polymetis, l'astutissimo, discendesse da lui per il tramite di Autolico (figlio di Ermes e nonno del re di Itaca).
Chissà, forse è per questo che quando Ulisse rischia di cadere vittima delle male arti di Circe, Ermes lo fornisce di moly, un antidoto che toglierà efficacia ai filtri della maga. Nessuna sorpresa, dunque, che Ermes sia un dio dalle molte funzioni. Per i greci egli presiedeva a ogni tipo di scambio e di transito: lo scambio dei beni, per cui era il dio del commercio, ma anche dei ladri; il passaggio da un luogo all'altro, per cui era il dio che guidava nel loro cammino i viaggiatori, che incontravano la sua immagine agli incroci, dove era rappresentato in dei pilastri, quadrati o rettangolari (noti come Erme, appunto), sulla cui parte superiore era scolpita una testa umana, e dalla cui parte inferiore sporgevano dei genitali maschili apotropaici, in stato di erezione.
Ma era anche il dio del viaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti, dove accompagnava le anime, conducendole al cospetto di Ade, il dio dell'Aldilà. E in via eccezionale riaccompagnava i morti nel mondo dei vivi: è lui infatti che riporta Persefone, che era stata rapita da Ade, a madre Demetra, che la cercava disperata. Ed era anche — inevitabilmente, date le sue caratteristiche — il messaggero degli dèi. Troppe sarebbero le avventure di Ermes se volessimo, o meglio se potessimo raccontarle tutte: chi volesse peraltro, potrà apprenderle leggendo l'Inno omerico sopra citato. Divertimento assicurato.

Corriere 11.5.12
Solitario e imponente: da Goethe a Gropius l'attrazione fatale per il tempio di Segesta
di Francesca Bonazzoli


Per quanto incredibile possa sembrare, le vestigia della Magna Grecia, con i suoi templi che nemmeno nella Grecia stessa sono così ben conservati, hanno cominciato ad essere esplorate soltanto verso la fine del Settecento. Erano sotto gli occhi di tutti, ma nessuno le vedeva. La loro «scoperta» si deve alla moda del Grand Tour, le cui mete principali erano Roma e Napoli. Difficilmente i viaggiatori si spingevano nelle regioni più a sud — Calabria, Puglia e Sicilia — faticose da raggiungere attraverso strade disagevoli e territori abitati da popolazioni sospettose. Solo in pochi, e fra questi Goethe, arrivavano fino alla Sicilia, ma finalmente i templi dorici di Paestum, Siracusa, Agrigento e Segesta cominciarono ad essere studiati.
Tuttavia, soltanto Paestum divenne a un certo punto meta quasi obbligatoria e dei suoi templi circolavano le incisioni di Piranesi, le tele dello Joli, gli acquerelli di Giovanni Battista Lusieri. Per le rovine più a Sud le testimonianze visive continuavano ad essere rare. Certo nell'Ottocento le visite degli artisti si moltiplicarono, come dimostrano per esempio i lavori di Thomas Cole, ma fino a tutto il XVIII secolo esistevano poco più dei disegni seicenteschi di Schellinks sulla Calabria, le illustrazioni per il Voyage pittoresque dell'Abbé de Saint-Non oppure le vedute pugliesi, molisane e abruzzesi di Ducros. L'unico «reportage» sistematico, grazie alla committenza reale, era la serie dei Porti del Regno e dei Siti Reali dipinti di Jakob Philipp Hackert. Costui, fra i più eccelsi vedutisti, nel 1777 accompagnò l'antiquario, connoisseur e collezionista Richard Payne Knight, assieme a Charles Gore, in un viaggio attraverso la Sicilia imbarcandosi a Napoli e facendo tappa a Paestum, a Palinuro e alle Eolie per sbarcare infine a Milazzo.
Trentanove disegni di Gore e Hackert sono oggi conservati al British Museum e fra essi c'è un acquerello di Gore, ricco mercante dello Yorkshire, disegnatore dilettante e collezionista, che riproduce il tempio della Concordia di Agrigento prima del restauro del 1788.
Anche di Hackert abbiamo un acquerello che mostra il tempio di Segesta poco prima dei restauri eseguiti fra il 1779 e il 1781 sotto Ferdinando I di Borbone. Fino ad allora era rimasto quasi sconosciuto anche se la sua localizzazione era avvenuta nel XVI secolo ad opera del domenicano Tommaso Fazello che, girando a dorso del suo mulo guidato dai testi di Tucidide, Polibio, Strabone e degli altri classici che potevano metterlo sulle tracce, identificò, pare, l'80 per cento delle antiche città siciliane.
Poco prima di Goethe, aveva visitato Segesta anche il più noto viaggiatore francese in Sicilia nel Settecento, Jean-Pierre Houël, il quale, in un passaggio dei suoi quattro volumi di viaggio, scriveva: «Via via che mi avvicinavo, cresceva il fascino che aveva su di me l'aspetto imponente dell'edificio. Isolato sulla collina, circondato da una campagna deserta, la nobile semplicità dell'architettura viene maggiormente valorizzata».
Chi è stato a Segesta sa quanto quelle emozioni siano ancora oggi le stesse. E la conferma che non siano solo «romanticherie», arriva da Walter Gropius, l'architetto tedesco protagonista del Movimento Moderno e fondatore del Bauhaus, che nel 1967 visitò Segesta lasciando scritto: «I Greci avevano veramente capito le leggi dell'armonia. Questo tempo felice dell'architettura greca, da Paestum fino alla Sicilia, è uno dei più alti, forse il più alto tempo dell'architettura; e posso ben dirlo io, dall'alto dei miei 84 anni di età».

Corriere 11.5.12
Gli editori davanti alla sfida di Amazon: bisogna fare presto
di Cristina Taglietti


TORINO — Il tema è «Vivere in Rete», ma per gli editori bisognerebbe aggiungere «Vivere in Rete ai tempi di Amazon». Perché di questo hanno parlato ieri al Salone i rappresentanti dei principali gruppi italiani in una tavola rotonda che vedeva assente proprio il colosso di Seattle che, dopo una prima adesione, ha deciso di non partecipare. Nonostante un certo ottimismo di fronte ai dati sull'avanzata del digitale (e alle previsioni) snocciolati da Andrea Rangone dell'Osservatorio Politecnico di Milano e da Vincenzo Russi del Cefriel, il punto sul futuro dell'editore più allarmante l'ha fatto Riccardo Cavallero, numero uno di Mondadori, quando ha detto che è «pericoloso pensare di avere tempo per reagire alle sfide tecnologiche, i grossi gruppi possono cadere se non si prende una strada precisa nei prossimi 12-24 mesi. Un'azienda come Mondadori ha dei vantaggi perché opera su media diversi, ma rischia anche più di una piccola. È chiaro che un -12% del mercato librario per un grande gruppo può avere un impatto molto forte». L'editore del futuro, secondo Cavallero, sarà più simile a un produttore teatrale: dovrà «mettere insieme un cartellone da portare sui vari dispositivi».
La rivoluzione digitale è paragonabile, secondo Gian Arturo Ferrari, soltanto alla nascita della stampa. «Tutte le figure cambieranno, cambierà la nozione di libro. D'altronde questa rivoluzione è fatta da produttori dell'hardware (Apple) e del software (Amazon e Google) che di fatto hanno già trasformato il libro in una cosa che chiamano contenuti». Fine dell'editore dunque? «Il grosso tema è quello della disintermediazione — dice Alessandro Bompieri di Rcs Libri —. Un fenomeno come quello del self-publishing lascia intendere che si possa saltare ogni forma di mediazione. Il mercato americano dell'autopubblicazione nel 2011 è stato di 30 milioni di dollari, ma con un numero di libri enorme, alcuni dei quali hanno venduto poche copie. A parte alcuni casi eclatanti come Amanda Hocking, il vero business lo fa Amazon che prende il 30%. E poi gli autori che emergono cercano comunque un editore che li pubblichi anche sulla carta. Il vero problema è che Amazon riesce a controllare la fase finale, quella della vendita, e questo gli dà un vantaggio competitivo».
L'editore resisterà anche secondo Stefano Mauri, amministratore delegato del gruppo Gems. «Continuerà a fare quello che fa ora: scouting e la proposta di libri sul mercato. Certo, dovrà competere non con i 60 mila titoli che ora escono in un anno in Italia, ma con qualche milione. Il rischio è che si formino posizioni dominanti, ma ci sono autorità preposte per tutelare gli editori da questo, come l'Antitrust».
Che fine faranno le librerie in tutto questo è l'altro grande tema che preoccupa gli addetti ai lavori. Cavallero non si stupirebbe «se Amazon adesso aprisse anche dei negozi fisici», Dario Giambelli delle Librerie Feltrinelli sostiene che la rivoluzione non è certo dietro l'angolo: «C'è anche un'operazione mediatica e pubblicitaria gestita in modo efficace da alcuni operatori economici. Non mi scandalizza la parola "imperialismo" riferita ai grandi player: significa solo prendere atto di fatti che hanno un impatto sociale. In realtà, i tempi di questi cambiamenti sono lunghi. Nelle librerie c'è un rapporto sociale, non solo affaristico che è ancora necessario». Anche secondo Mauro Zerbini di Ibs, il retailer online che si è appena fuso proprio con le librerie fisiche Melbookstore, «non bisogna temere l'innovazione tecnologica ma i monopoli, anche se mi rendo conto che dal momento che chi porta l'innovazione tecnologica è anche chi cerca di imporre il monopolio, il rischio è buttare il bambino con l'acqua sporca».
Carmine Donzelli reagisce alla «pressione digitale» con una provocazione simbolica, riempiendo lo stand di scatoloni per ricordare che la maggior parte dei libri sono ancora di carta. «Non è polemica, ma semplicemente che il supporto per me è il mezzo, non il fine. Qualunque innovazione quando aggiunge potenzialità è benvenuta, ma vedo troppo poca sperimentazione intorno all'ebook. A me va bene qualunque canale, ma come editore mi devo assumere la responsabilità di che cosa ci metto dentro. Quello che noi cerchiamo di fare ora è dare maggiore intensità alla qualità cartacea dei nostri libri, facendo attenzione alla grammatura, alla grafica. E poi vogliamo pensare a dei progetti digitali specifici, che abbiano senso per i nostri libri».

Repubblica 11.5.12
Il manifesto di Amazon
"In Italia la vera anomalia sono i grandi editori la tecnologia libera l’uomo e le piccole librerie"
di Simonetta Fiori


"Il nostro successo? Promettiamo un catalogo ricco, consegne rapide e bassi prezzi. E siamo di parola"
Martin Angioni, numero uno italiano della multinazionale, difende il gruppo dalle accuse e spiega invece come ha allargato il mercato

TORINO. Dunque sarebbe lui il temibile barbaro, Martin Angioni, il capo di Amazon in Italia? Lui che discende dall´aristocrazia di sangue e di cultura, figlio di un cavaliere olimpionico cagliaritano e d´una libraia d´antica casata tedesca? Il profilo appare lontano dal ritratto fosco di Gengis Khan dell´editoria mondiale, che è emerso anche ieri pomeriggio dalla tavola rotonda dei colossi italiani. «Hanno detto che siamo i nuovi imperialisti, ma è un´accusa che mi fa sorridere. Mi sono laureato in Economia e Commercio con Sergio Ricossa. E le mie stelle polari sono Gadamer e Popper». Tra i suoi insegnanti figurano anche Mario Deaglio ed Elsa Fornero, che poco prima inaugurava il Salone sulle note struggenti del Todo Cambia. Sì, è la fiera del "todo cambia". E Martin Angioni, singolare figura di manager quarantaquattrenne, la incarna esemplarmente. Le sue maniere franche fanno sobbalzare la frangetta di Marisandra, l´addetta stampa che corregge e sopisce. Lui non sembra badarci troppo. «Gli editori esprimono malumore. Ma cosa hanno fatto negli ultimi trent´anni per allargare il mercato dei lettori? Assolutamente nulla. Amazon è un´azienda seria e trasparente, che ha portato i libri dappertutto».
Sì, avete rivoluzionato la distribuzione, facendo piangere i librai.
«Non è Amazon che ha ucciso le librerie, ma i supermercati e le grandi catene. Sono loro che hanno messo in difficoltà i punti vendita indipendenti. Ma che vuole un editore come Feltrinelli che è titolare di un´importante catena libraria? Questa è un´anomalia italiana, il fatto che i grandi gruppi editoriali controllino anche la distribuzione».
Sua madre, Elizabetta zu Stolberg, aveva una raffinata libreria a Torino e ha dovuto rinunciarvi.
«Sì, ora al posto della libreria Druetto, fondata da mio bisnonno nel 1918, c´è un negozio Stefanel. Cinque anni fa la decisione di chiudere. Era diventato un lavoro molto difficile».
Allora possiamo dare una lettura in chiave famigliare: il figlio vendicatore della madre vessata dalle catene librarie…
«Mia madre guarda con favore alla mia nuova attività. Non è ideologica. Forse perché ha sperimentato direttamente la difficoltà di vendere i libri».
Lei ha mai lavorato nella libreria Druetto?
«Sì, da ragazzo, d´estate e nelle feste natalizie. Facevo il fattorino e aprivo gli scatoloni pieni zeppi di libri. Poi gli ordini hanno cominciato a scendere, e anche il personale».
Stefano Mauri sostiene che siete voi i veri guardiani del libro. Vi ergete a liberatori, ma in realtà siete una delle poche multinazionali che blindano il mercato.
«Non è così. Aprire una libreria su Internet lo può fare chiunque. Dipende da come lo si fa. Noi siamo stati bravi. Ma anche la piattaforma di Ibs (ndr controllata da Mauri) è molto meglio di Bol, paragonabile a un negozio sciatto che respinge il visitatore. Abbiamo centosessanta milioni di clienti nel mondo. Pensa che li abbia costretti qualcuno? Evidentemente hanno la loro convenienza».
Non c´è dubbio. Ma oggi potete contare su una forza mondiale che non ha concorrenti.
«Ma fino al 2001 si diceva che Amazon fosse sull´orlo del fallimento. Lavoravo a New York, alla J.P. Morgan, e ricordo che si scommetteva sul crollo dell´azienda di Seattle. Il fatto è che noi promettiamo ricchezza di catalogo e rapidità. E poi manteniamo la promessa, garantendo prezzi bassi».
Fin troppo, lamentano i librai. Pisanti, già presidente dei librai italiani, lamenta che non rispettate la legge Levi facendo un ulteriore sconto di 5 euro su trenta euro di libri acquistati.
«No, un momento. Quello sconto vale per tutto quello che vendiamo su Amazon, tranne che per i libri. Mica siamo nati ieri. È un modo di far conoscere tutta la nostra offerta on line. Amazon non fa pubblicità, quindi ci dobbiamo inventare nuove forme di promozione».
Ma in questo mare magnum di attrezzi per giardinaggio, utensili di cucina, arredi per il bagno, non c´è il rischio che il libro perda la sua centralità?
«Ma perché mai? Amazon è una piattaforma generalista, ma mantiene un´alta specializzazione in tutte le sezioni. Se vuole comprare un tagliaerba, troverà una grande varietà di tagliaerba. Questo vale per i mestoli da cucina e per tante altre cose».
Ma il libro è diverso.
«Non deve convincermi. Da ragazzo compravo le cinquecentine e le portavo a rilegare dai più esperti artigiani torinesi. Ho la casa invasa dai libri. Sono un piccolo collezionista d´arte. Mi sono formato dall´editore Allemandi, e sul Giornale dell´Arte scrivevo articoli sull´economia della cultura. Questo è il mio mondo di riferimento. Ma non lo vedo in conflitto con Amazon, tutt´altro. Abbiamo permesso a tutti, anche a chi vive nelle lande più sperdute, di avere i libri a casa in pochi giorni».
Non si discute la sua utilità. Ci si chiede se questa straordinaria macchina non sia utile perché chi ha già famigliarità con la lettura. E se per tutti gli atri non sia più preziosa la vecchia figura del librario, quella incarnata da sua madre.
«Sì, lei si divertiva molto a raccontare le storie, creando intorno a sé una comunità di amici lettori. Ma anche su Amazon si trovano recensioni, suggerimenti, guide alla scelta».
Non vorrà metterli sullo stesso piano?
«No, anche perché le dimensioni sono diverse. Allora diciamo così: speriamo che i bravi librai continuino a esistere. Sono le librerie-deposito che non servono più».
Le librerie di catena?
«L´ha detto lei».
Molti editori lamentano il rischio che il libro come l´abbiamo conosciuto nel corso di vari secoli cambi fisionomia. Eric Vigne di Gallimard ha fatto l´esempio della Recherche su twitter: ieri sono andato a letto tardi.
«Questa è la reazione ideologica tipica di chi sta in difesa. Hanno paura che quella idea del libro entri in crisi. Ma non è così. La tecnologia sta liberando l´uomo, moltiplicando le sue potenzialità. A Venezia, nel Cinquecento, gli aristocratici preferivano i libri di pergamena perché quelli a stampa sembravano volgari. E Platone racconta che la scrittura venne accolta con ostilità da chi temeva si perdesse la memoria orale».
Tutti i grandi mutamenti culturali sono stati vissuti con accenti apocalittici. Però riconoscerà che Bezos, fondatore di Amazon, non è stato molto incoraggiante con gli editori. Il selfpublishing – ha sostenuto – li rende fatalmente inutili.
«Ma non è un requiem per l´editore, che resta una figura essenziale per l´autore, quasi paterna. Semmai, un invito a far meglio, e di più. Einaudi, con il suo glorioso catalogo, esisterà sempre. Il bello di Internet è che c´è posto per tutti, per il gelato Algida e per la bottega artigianale. Tutto il resto sono isterismi inutili, a cui non voglio replicare».
Ma non è stato sbagliato snobbare la tavola rotonda con i grandi gruppi editoriali italiani? Perché non ha voluto parteciparvi?
«Il rischio è che siano incontri autoreferenziali. E poi volevo evitare attacchetti o beghe di cortile. Amazon è un´azienda seria e integra, che fa bene il suo mestiere. Chi compra un kindle acquista un 3,5 per cento di libri in più rispetto a prima, sia cartacei che digitali. Abbiamo allargato ovunque il mercato dei lettori».
Dal vostro debutto italiano, nel dicembre scorso, quanti libri avete venduto?
«Il fatturato complessivo del 2011 ha superato i quaranta miliardi di dollari, con una crescita del 41 per cento sull´anno precedente. Ma non possiamo rendere noti i dati sul singolo paese. È la politica dell´azienda».
Non è segno di trasparenza.
«È una politica come un´altra, va rispettata».
Da dicembre il mercato italiano è ulteriormente calato.
«C´è una terribile crisi, che ci incoraggia nel nostro lavoro. In Italia ci sono venti milioni di persone che non leggono libri, e noi tentiamo di gettare un´esca. Se riusciamo a convertirne qualcuno, ci possiamo considerare soddisfatti. Gli editori italiani lo dicono da tantissimo tempo, ma non sono mai riusciti a farlo».

Repubblica 11.5.12
La "Gran Loggia" di piazza del Gesù occupa uno degli spazi più vasti del Salone
Quel megastand massone e la polemica sulla P2


TORINO La chiamano operazione "trasparenza e chiarezza", puntano sulla comunicazione "per un recupero di credibilità" e sulla cultura. Pubblicano preziose edizioni delle avventure più esoteriche di Corto Maltese e parlano con orgoglio del ruolo avuto nel Risorgimento e della persecuzione patita durante il fascismo. Il loro punto espositivo al Salone del Libro di quest´anno, d´altronde, è tra i più vasti ed eleganti, molto più grande che in passato: circa 120 metri quadrati, che superano i 105 di un colosso come Amazon. Si tratta dello stand della Gran Loggia d´Italia degli Antichi Liberi ed Accettati Muratori della massoneria universale di rito scozzese, obbedienza di piazza del Gesù. In un opuscolo diffuso al Lingotto, oltre a ricordare che "lo scandalo P2", cui era "del tutto estranea" ma che "ne ha ulteriormente compromessa l´immagine", la Gran Loggia elenca "alcuni massoni famosi": da Voltaire a Diderot, da Fermi a Einstein, passando per Mozart e Goethe, Churchill e Dubcek, Washington e Roosevelt, per lo stesso Hugo Pratt, "iniziato il 19 novembre del 1976 nella loggia Hermes", e per John Wayne.
La presenza della massoneria, soprattutto la sua rilevanza nei volumi e la posizione strategica nel secondo padiglione del Lingotto, non lontana da quella della Spagna, non è pertanto passata sotto silenzio. E a qualche editore, come Lorenzo Fazio, responsabile di Chiarelettere, ha fatto ritornare in mente un episodio avvenuto durante la fiera dell´anno scorso, quando si sarebbe dovuto tenere un incontro sul libro La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, curato da Anna Vinci, che raccoglie le note scritte dall´allora presidente della Commissione parlamentare d´inchiesta sull´organizzazione segreta di Licio Gelli. Che cosa accadde? Rammenta Fazio: «Il Salone non consentì la presentazione del libro. Ernesto Ferrero, il direttore, mi disse che non c´era lo spazio per quel tipo di dibattito. Io, pur stupito, ne presi atto, e non volli rendere pubblico il rifiuto per evitare polemiche in quei giorni. Ma adesso, a fronte del grande stand della massoneria, che pure non c´entra nulla con la P2, mi sembra doveroso parlare di quella censura al lavoro della Vinci».
Ferrero respinge le accuse quasi con sdegno: «Ma come si fa a chiamare in causa la censura? Semplicemente non c´era più un posto libero dove tenere la presentazione, era tutto prenotato. Figuriamoci poi se mi metto a raccontare delle frottole a Fazio, che conosco da trent´anni! Sono sospetti davvero bizzarri». Rolando Picchioni, presidente della fondazione del Salone del Libro, sostiene, invece, «di cadere dalle nuvole». Il suo nome era stato accostato anni fa alla loggia di Gelli, ma lui ha sempre affermato di avere chiarito tutto e di non avere avuto nulla a che fare con la P2. E replica a Fazio: «Una censura per quel libro? Non ne ho mai saputo niente, anche perché non avrei certamente proibito di presentarlo». Nessun problema neppure per lo stand della Gran Loggia d´Italia: «Non vedo stranezze. La massoneria è una componente storica e culturale della società italiana».

Corriere 11.5.12
Come diventare madri perfette a scuola dall’ultimo guru (maschio)
di Alessandra Farkas


Mai Festa della mamma incontrò animo delle donne più tormentato. Mezzo secolo dopo la nascita del femminismo che, almeno in teoria, avrebbe dovuto affrancarci dalle catene di un mondo al maschile trasformandoci in individui realizzati («I want it all», era lo slogan di Betty Friedan e Gloria Steinem), milioni di donne cercano smarrite dagli esperti la chiave per inventarsi un ruolo — quello di mamme — che un tempo arrivava naturale alle nostre progenitrici.
Dopo il mitico Dr. Spock, l'ultimo guru della «maternità perfetta» è, ancora una volta, un uomo: il Dr. Bill Sears, teorico del cosiddetto Attachment Parenting (l'arte dei genitori ad alto contatto e ad alto affetto) secondo il quale più tempo un bimbo passa tra le braccia della madre, più alte sono le sue probabilità di trasformarsi in un adulto equilibrato e felice.
Una teoria di certo non nuova la sua — in Italia i genitori iperprotettivi, che stanno incollati ai figli sono da sempre una specialità —, finita adesso sulla copertina dell'ultimo numero del settimanale Time che ritrae l'adepta Jamie Lynne Grumet, una 26enne californiana che continua ad allattare il figlio di quattro anni. «Le tre regole cardinali dell'Attachment Parenting — ricorda Time — sono l'allattamento estremo, il dormire coi propri figli e il baby wearing, che consiste nel portare il piccolo dentro il marsupio».
Poco importa se le ultime ricerche scientifiche contestano questa scuola di pensiero, giudicandola rischiosa per l'incolumità del piccolo che, dormendo con i genitori, aumenta in maniera esponenziale il pericolo di morire soffocato o schiacciato. Soltanto un anno fa, per la Festa della mamma molte donne americane ricevettero in regalo Bad Mother, il libro di Ayelet Waldman, dove l'autrice afferma che i figli lasciati «ai margini» sono più felici e indipendenti. Da allora le teorie e controteorie sulla maternità perfetta — dalla mamma Tigre a quella Francese — si sono susseguite con un ritmo vertiginoso in una sorta di supermercato delle idee, dove è facile entrare ma difficilissimo uscire con una verità assoluta.

Corriere 11.5.12
«Corriere della Sera», 3,35 milioni di lettori La «Gazzetta» è prima
di G. Str.


MILANO — Si conferma primo quotidiano d'Italia, con 43 mila lettori in più (+1%), la «Gazzetta dello Sport». Lo hanno sancito i nuovi dati di Audipress, pubblicati ieri, sui lettori medi dei quotidiani, in base alla risultante delle rilevazioni del primo ciclo 2012 (9 gennaio-25 marzo 2012) e del terzo ciclo 2011 (19 settembre-18 dicembre 2011) raccolte con 30.596 interviste complessive. In totale, la «Gazzetta dello Sport» ha raggiunto i 4.420.000 lettori medi giornalieri, cui seguono la «Repubblica», che perde 12.000 lettori giornalieri ed è a quota 3.511.000 (-0,3%), e il «Corriere della Sera» con 3.353.000 lettori (-77.000 lettori, -2,2%).
In calo anche il numero complessivo dei lettori di quotidiani, che scendono dell'1% arrivando a 24.668.000. «La Stampa» mantiene il quarto posto, ma adesso ha 2.225.000 lettori, 96.000 in meno (-4,1%). Sostanzialmente stabile il «Corriere dello Sport-Stadio», con 1.862.000 lettori quotidiani (-4.000, -0,2%), mentre scendono il «Messaggero», con 1.503.000 lettori, 104.000 in meno rispetto al ciclo precedente (-6,5%), e il «Resto del Carlino» a quota 1.301.000 (-32.000, -2,4%). Ancora in crescita, invece, il quotidiano economico «Il Sole 24 Ore», che passa a 1.243.000 lettori (+64.000) con un rialzo del 5,4%. Positivo anche il «Mattino» che segue con 1.168.000 lettori (+59.000, +5,3%) e, a chiudere la «top ten» dei quotidiani a pagamento, «Tuttosport» con 1.129.000 lettori (+55.000, +5,1%).
Prosegue il trend negativo per la free press. In testa resta Leggo con 1.649.000 lettori (-14,1%), seguito da Metro con 1.449.000 (-6,0%) e Dnews con 188.000 lettori (-28,2%). In crescita invece il totale dei lettori dei settimanali (+1,9% a 24 milioni) e sostanzialmente stabili quelli dei mensili (22,6 milioni).

Repubblica 11.5.12
Repubblica quotidiano più letto primo per la quindicesima volta
Tra i settimanali rafforzano la loro leadership Venerdì Affari&Finanza e l’Espresso


MILANO - Nonostante la crisi, i risultati dell´indagine Audipress confermano che il pubblico resta fedele ad alcuni quotidiani di informazione e non rinuncia alla loro lettura. In questo quadro, Repubblica si conferma il quotidiano di informazione più seguito nel Paese, ed è la quindicesima volta nella storia di questa rilevazione. Merito di una quota di lettori stabile che si attesta - in una giornata media - a 3.511.000 (-0,3%). Invece il Corriere della Sera scivola del 2,2% a 3.353.000. Il vantaggio di Repubblica si allarga così fino a 158mila lettori al giorno. I lettori cartacei mostrano una grande fedeltà anche sul digitale. Fra quelli che acquistano Repubblica in edicola, in 1.004.000 navigano anche su Repubblica.it. In questa classifica seguono il Corriere della Sera con 632mila visitatori e La Gazzetta dello Sport, con 596mila. Se il sito del quotidiano sportivo è terzo, la Gazzetta resta stabile sul podio del primo quotidiano italiano e aumenta dell´1% la sua audience con 4.420.000 lettori medi giornalieri. Bene anche Tuttosport, spinto anche dai successi della Juventus (più 5,1).
Perdono terreno i due quotidiani orientati a destra: Il Giornale passa a 712.000 lettori (-4,6%), Libero a 397mila (-5,9%). Va anche detto che, sulla sponda opposta, L´Unità scivola a quota 272mila (-11,1%) mentre aumenta la readership dell´Avvenire (+9,9%). Male La Stampa di Torino (-4,1%). Dopo il boom della passata rilevazione (+16,2), continua la sua marcia Il Sole 24 Ore, trainato dal cresciuto interesse per i temi economici. Il quotidiano ha ora 1.243.000 lettori (+64.000) con un rialzo del 5,4%. In quest´ottica, Affari&Finanza (in edicola con Repubblica il lunedì) si conferma leader tra le testate settimanali economiche con 535mila lettori (Il Mondo è a 114mila, Panorama Economy a 167mila, Milano Finanza a 332mila). Tra gli allegati di Repubblica va poi segnalata la forza del Venerdì, che aumenta la sua readership del 6,4% a 2.740.000 lettori.
Passando invece ai settimanali di informazione si consolida con un´ulteriore crescita del 4,2% la corsa dell´Espresso che raggiunge quota 2.644.000 lettori, superando di 221mila unità il diretto concorrente Panorama, che invece scivola dell´1,8% a 2.423.000.
Infine cresce e si consolida l´attenzione dei lettori per una rosa selettiva di quotidiani locali soprattutto in Veneto: La Tribuna di Treviso cresce del 27,7%, La Nuova di Venezia e Mestre del 23%, L´Arena del 14,4%, Il Giornale di Vicenza del 10,9% e Il Gazzettino dell´8,1%. Bene, nelle altre regioni, Il Tirreno (+11,6%), La Gazzetta del Sud (+10,5%), La Nuova Gazzetta di Modena (+9,2%), L´Eco di Bergamo (+8,7%), L´Adige (+7,9%) e Il Secolo XIX (+7,2%).