sabato 7 maggio 2011

l’Unità 7.5.11
Da Napoli a Torino manifestazioni in tutte le città. Chi ha di più deve pagare di più
Il leader della Cgil «Noi siamo i veri responsabili, lottiamo e non cerchiamo poltrone»
Un grande sciopero generale Camusso: governo, basta bugie
Oltre 60mila persone sfilano in corteo a Napoli. Si alza forte la richiesta di lavoro, diritti, una politica nuova. L’incontro del segretario Cgil con il cardinale Sepe, mentre Napolitano rende omaggio a Andrea Geremicca.
di Massimiliano Amato


Eccolo qua, il Paese che non si arrende “al governo delle bugie che ha saputo solo costruire divisioni”. Baciato dal sole di Napoli, capitale per un giorno, riprende in mano il proprio destino reclamando un fisco più equo, un salario e condizioni di lavoro più accettabili per chi un’occupazione ancora ce l’ha, e certezze per il futuro dei tantissimi, troppi, costretti a navigare tra le nebbie di un presente eterno e precario. A poche centinaia di metri dal serpentone che invade il corso Umberto, nel cortile del Maschio Angioino, il Capo dello Stato rende l’ultimo omaggio ad Andrea Geremicca, uno di quelli che si sforzava di capire, senza mai piegare la testa. Sarebbe piaciuta molto, al compagno Geremicca, questa esplosione di colori. E tutte queste belle facce di operai, disoccupati, inoccupati, precari, pensionati, donne, giovani, migranti, lavoratori della scuola, della sanità e dei servizi socio-assistenziali, provenienti da ogni angolo della Campania che sfilano insieme a Susanna Camusso, mentre la banda intona per la centesima volta il turatiano Inno dei Lavoratori. Rappresentano l’Italia “migliore”, dice la leader Cgil dal palco di piazza Dante, “che non si merita un governo come questo”, e ha ragione. Stanno pagando il prezzo più duro al governo delle false promesse e delle illusioni, che ha retrocesso il lavoro a variabile ininfluente e tiene il Paese con la testa sott’acqua. Ma questo popolo, il popolo della Cgil, non conosce la parola rassegnazione: “I veri responsabili in questo Paese siamo noi, che oggi scioperiamo contro la bugia che la crisi sarebbe alle nostre spalle. La crisi è tra noi e travolge i più deboli: i precari, i salariati, i pensionati”. Quello che la Camusso fa rotolare dal palco davanti ad almeno 60mila persone, dopo aver parlato “di lavoro e di speranza per i giovani” con il cardinale Crescenzio Sepe durante un breve incontro in Curia, è un macigno che travolge il castello di carte costruito da Silvio B. A partire dalla questione Napoli: “Quando si è insediato promise che avrebbe fatto qui le riunioni del Consiglio dei ministri. E aggiunse che avrebbe risolto in 24 ore l’emergenza rifiuti. Ora continua a confezionare spot, scaricando tutte le responsabilità sui governi locali”. L’affondo della leader Cgil è a 360 gradi. Sui migranti: “Hanno parlato di un’invasione terribile per seminare il panico. Poi hanno preso i migranti e, qui in Campania, li hanno tenuti in stato di cattività in una caserma. E quante bugie sulla Libia e su quello che sta succedendo nel Maghreb. Un Paese civile si schiera a favore e non contro i venti di libertà che spirano sul Mediterraneo”. Sul decreto per lo sviluppo: “Ce l’hanno presentato come una frustata all’economia. Ma prendiamo le misure per il Sud: hanno reintrodotto il credito d’imposta senza metterci un centesimo. E viene da chiedersi perché l’avevano tolto, visto che c’era già. Il Piano per il Sud è stato presentato sei volte. Hanno detto che c’erano cento miliardi disponibili, poi si è scoperto che erano fondi europei».
Ha continuato: «E sappiamo che nella notte, in Commissione Bilancio, sono continuate le contrattazioni con la Lega per dirottare altrove le risorse ”. Sulla nuova normativa per gli appalti: “Le accelerazioni senza controlli consegnano il settore alle mafie”. Sui precari: “Cancellino subito tutte le forme di lavoro che determinano la precarietà, basta un’opera di delegificazione”. Ma il cuore dell’intervento della leader Cgil riguarda il fisco: “Sostengono di aver recuperato 25 miliardi di evasione. Ma il recupero ha riguardato le persone fisiche, non il sommerso, l’illegalità, il lavoro nero, la corruzione. Se vogliono intervenire sul fisco decidano oggi di alleggerire la pressione che grava sui redditi fissi e sui pensionati per un 92% del gettito complessivo, e comincino a colpire i grandi patrimoni e le rendite finanziarie”. La battaglia per un fisco più equo può essere il terreno di incontro con Cisl e Uil: “Manifestiamo insieme, iniziamo una campagna su fisco e legalità. E torniamo insieme nei luoghi di lavoro, rieleggendo le Rsu, ridando la parola ai lavoratori”. L’ultimo messaggio è per Confindustria, che oggi si riunisce a Bergamo: “E’ un appuntamento importante, gli imprenditori lo sfruttino per dire che si riparte dai diritti dei lavoratori. Per due anni hanno sbagliato politica seguendo la strada degli accordi separati: ora è tempo di bilanci. Hanno rotto l’unità sindacale per stare dietro al governo e si sono ritrovati con un pugno di mosche in mano”.

l’Unità 7.5.11
Sacconi e Brunetta si distinguono come sempre nei giudizi offensivi
Il segretario del pd «Vedo la strada per una ricomposizione»
Le piazze piene irritano il governo Bersani: ora unità
Casini assicura di non aver bisogno della Camusso per sapere che «il governo dice bugie da tre anni». Damiano denuncia l’inutilità del decreto sviluppo e Fassina chiede rispetto per i lavoratori in sciopero.
di Giuseppe Vespo


Il ministro Sacconi la butta sui numeri e fa finta di non essersi accorto di nulla: «La bassa adesione allo sciopero induca la Cgil a riflettere». La Fiat rincara: «La partecipazione media dei nostri dipendenti è al 10 per cento». Brunetta si ripete: «La protesta è per allungare il weekend».
Lavoro, industria e pubblico impiego, rispondono così alla mobilitazione generale del sindacato. Ma per l’organizzazione di Corso Italia il governo è capace di raccontare solo «bugie» e, almeno in questo, la Cgil si trova in buona compagnia: c’è Casini che dice di non aver bisogno della Camusso per affermare che «da almeno tre anni tutte le promesse sono state disattese»; c’è il Partito democratico, Sel, l’Idv, il movimento contro la privatizzazione dell’acqua, i precari, il popolo viola e chissà quanti altri delusi senza bandiera dalle promesse di Berlusconi & C.
Al di là del valzer dei numeri sulla partecipazione, e del colpo d’occhio che lasciano le piazze piene, il merito della Cgil è di riportare almeno per un giorno il lavoro al centro dell’agenda politica. È stato così anche ieri: tutti a chiedere insieme al sindacato «una svolta nelle politiche economiche». Perché, per dirla con Cesare Damiano anche l’ultimo «tentativo di Berlusconi di risollevare le sorti di una maggioranza ormai dissolta attraverso il sedicente decreto sullo Sviluppo è naufragato. Lo sciopero generale della Cgil dice Damiano è stato caratterizzato da manifestazioni partecipate, che hanno chiesto una svolta radicale nella politica del governo. Un Paese senza risorse per la crescita, senza un’adeguata tutela del reddito da lavoro e da pensione e dello Stato sociale è senza futuro».
«La manifestazione aggiunge il senatore Achille Passonidimostra che il Paese non è anestetizzato dalla propaganda del governo, e il 18 giugno la mobilitazione di Cisl e Uil sarà un’altra occasione per mettere il governo di fronte al suo fallimento». Il riferimento è all’iniziativa sul fisco indetta dagli altri due sindacati, che sulla redistribuzione della pressione fiscale trovano uno dei pochi punti di accordo con la Cgil. E sull’unità perduta dei sindacati interviene il leader del Pd Bersani: «Sul tema del lavoro dice c’è bisogno di unità. Mi azzardo a fare un pronostico: vedo una strada di ricomposizione».
Nichi Vendola ribadisce: «Lo sciopero ha riportato all’attenzione il lavoro. E come reagisce questa classe dirigente del centrodestra che paralizza il Parlamento da mesi? Con i ministri che irridono ad un fatto democratico». Stefano Fassina rincara: «I lavoratori meritano rispetto, quel rispetto che i ministri Sacconi e Brunetta hanno ancora una volta mancato di avere». E Di Pietro conclude: «Hanno ragione a scioperare, perché da anni sono stati lasciati soli
a reggere il peso della crisi, mentre il governo che aveva il dovere di aiutarli era troppo occupato a salvare il presidente del Consiglio dai processi».

il Fatto 7.5.11
La Cgil esulta: lo sciopero è riuscito
Piazze piene in tutta Italia anche se il governo parla di un flop
di Salvatore Cannavò


Che lo sciopero della Cgil sia riuscito, paradossalmente, lo conferma un acerrimo nemico del sindacato stesso, Renato Brunetta. I dati diffusi dal suo ministero, infatti, parlano di una crescita significativa dell'adesione nel pubblico impiego: 13,28 per cento contro il 3,96 del 25 giugno scorso e il 10,55 per cento del 12 marzo 2010.
   LA CGIL per l'occasione ha costruito un campione rappresentativo dal punto di vista statistico, predisposto da una società specializzata, basato su 900 aziende, reti, uffici, servizi pubblici e commerciali. Secondo questo "exit poll" il dato medio di adesione dei lavoratori allo sciopero generale è il 58 per cento. Una percentuale notevole, che però è molto distante non solo da quella ufficiale del Pubblico impiego ma anche dal 16 per cento stimato da Federmeccanica per il comparto metalmeccanico. A sua volta, troppo bassa perché costretta a tenere conto della miriade di imprese con pochissimi dipendenti dove probabilmente non si è mai fatto uno sciopero. E infatti la Fiom parla di un'adesione media del 50 per cento con punte del 90 e 100 per cento in alcune realtà.
   Però, come al solito, al di là di cifre parziali o arbitrarie, quello che conta di più è la percezione visiva e politica offerta dalle manifestazioni e l'analisi di alcuni casi emblematici.
   NON C'È DUBBIO che i cortei siano riusciti. A Torino si sono contate almeno 35 mila persone, a Roma, 20mila. Grande affluenza in Liguria e in Emilia Romagna con un corteo di 30 mila persone a Bologna. Bene anche ad Ancona, Terni, Parma, Padova, Taranto e Bari. Nelle piazze, ampia la presenza di lavoratori e lavoratrici, di precari – in molte città hanno aperto il corteo – di studenti – che a Roma hanno occupato i binari della stazione Termini – di comitati referendari per l'acqua pubblica o contro il nucleare. Insomma, una voglia di esserci forse superiore alle reali intenzioni del vertice Cgil. E poi ci sono le notizie che vengono dalle fabbriche. Fermi al 100 per cento i cantieri navali della Fincantieri di Venezia, Gorizia e Ancona, la Magneti Marelli di Bologna, la Sirti di Bari. Grande adesione alla Whirlpool di Varese e Trento, alla Iveco di Treviso, l'Ilva di Alessandria, la Maserati di Modena mentre alla Ferrari si è scioperato al 50 per cento. Grande adesione nel gruppo della presidente di Confindustria, Marcegaglia, con punte dell'80 e 90 per cento e con l'azienda che conferma un'adesione media del 45 per cento. In Fiat, si è avuto il 70 per cento alla Powertrain di Mirafiori e il 50 per cento alla Iveco di Torino. L'azienda parla di un'adesione media nazionale del 10 per cento ma va considerato che in molte fabbriche vige la cassa integrazione. Soddisfatto il sindacato per l'adesione ricevuta alla Rai dove un lavoratore su quattro (25 per cento) ha aderito allo sciopero.
   I DATI SONO quasi tutti contestati dal governo, dalle imprese e da Cisl e Uil. Il sindacato di Raffaele Bonanni parla di "sciopero debole" tutto "politico" che non risolve alcun problema. Il governo, con il ministro Maurizio Sacconi, invita la Cgil “a riflettere sui motivi della bassa adesione”. In Cgil, però, non si nasconde la soddisfazione. Susanna Camusso, intervenendo a Napoli ha costruito un lungo "j'accuse" al governo: dai rifiuti all'immigrazione per arrivare al lavoro e al fisco. Poi ha raccolto il riconoscimento venuto da Maurizio Landini, segretario della Fiom, che ha parlato di "riuscita dello sciopero" chiedendo alla Cgil di "continuare questa battaglia per il lavoro" a partire dal rifiuto degli accordi separati.
   La Camusso, dal canto suo, dopo l'attacco al governo ha scelto di rivolgersi ancora alla Confindustria: "Chiediamo che dall'Assise di Bergamo [di oggi, ndr ] decidano di voltare pagina e ripartire da più diritti nel lavoro". Sono due anni, ha aggiunto, che Confindustria "fa una politica sbagliata che non ha dato alcun risultato". Quindi occorre cambiare. Si attende oggi la risposta di Emma Marcegaglia.

il Riformista 7.5.11
il ruolo del sindacato
Riflettori spenti sullo sciopero
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/54825826

Repubblica 7.5.11
Italia ai vertici della disuguaglianza redditi alti cresciuti sei volte più dei bassi
Da noi la disparità è cresciuta più che negli altri Paesi industriali negli ultimi vent'anni


ROMA - I ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri: la diseguaglianza invece di diminuire aumenta e non solo nei paesi in via di sviluppo, anche in Europa. In Italia più che altrove. Una tendenza che crea ingiustizie, blocca la crescita e frena l´ascensore sociale: quel meccanismo che fa sperare ai padri di potere dare ai figli una vita migliore.
Lo denuncia l´Ocse con una ricerca che mette a nudo le disparità nei paesi dove il benessere dovrebbe essere sempre più diffuso. Così non è: nei 34 stati che fanno parte dell´organizzazione, il 10 per cento della popolazione più ricca ha in media redditi superiore nove volte rispetto al dieci per cento della popolazione più povera. Un divario che cresce sia dove il «gap» era già evidente, come in Israele e Usa, che nei paesi dove la diseguaglianza sociale è sempre stata bassa, come la Svezia o la Germania.
In questo quadro, restando all´Europa, l´Italia è uno dei paesi che fa peggio: le fasce che stanno ai vertici della ricchezza hanno redditi sei volte superiori a quelle che stanno alla base della piramide. E negli ultimi venti anni la diseguaglianza è aumentata. Lo studio dell´Ocse la misura attraverso l´indice Gini (è zero quando tutti i redditi sono uguali, è uno dove la differenza è massima): da noi, nel 1985 era fermo allo 0,30, nel 2008 è arrivata quasi allo 0,35. Uno dei peggiori dati messi a segno dai paesi europei. In coda alla classifica ci fanno compagnia il Portogallo, il Regno Unito, Polonia ed Estonia. Francia, Germania e Spagna stanno tutte attorno allo 0,30. La ricchezza, considerato il lungo periodo, è dunque aumentata, ma lo sviluppo ha premiato solo chi già stava bene: dagli anni Ottanta od oggi i più ricchi, in Italia, hanno visto crescere i loro già consistenti redditi dell´1,1 per cento, agli altri sono andate le briciole: le fasce basse possono contare su disponibilità aumentate solo dello 0,2 per cento. Per loro nulla si è mosso.
Commentando i dati, le Acli parlano di una «pesante retrocessione sociale» legata ad una «competizione internazionale che ha fortemente indebolito il nostro sistema produttivo: le ragioni delle disuguaglianze nel nostro paese vanno individuate innanzitutto nell´endemica debolezza dei redditi di lavoro dipendente e nella quasi totale assenza di un sistema generalizzato di tutele nel mercato del lavoro».
Il fatto è che la mancata distribuzione della ricchezza, fa notare l´Ocse, mette in pericolo anche lo sviluppo futuro. L´impossibilità per i giovani di migliorare il proprio status sociale ed economico «avrà un inevitabile impatto» sul paese che verrà.
La globalizzazione, che secondo i più ottimisti, doveva generare miglioramenti diffusi, ha generato dunque un aumento delle disparità. Perché? L´analisi dell´Ocse (Growing income inequality in Oecd countries: what drives it and how can policy teckle it?) fa notare che il processo ha favorito chi poteva contare sulle migliori qualifiche e che la diversa struttura delle famiglie e il maggiore contributo dei redditi da profitti del capitale hanno fatto il resto. Come agire ora? Per l´ Ocse gli strumenti «più diretti e potenti» per tentare un recupero sono le riforme delle politiche fiscali e previdenziali e le misure di sostegno al reddito. Ma da sole non bastano: bisogna creare lavoro e stappare le famiglie alla povertà aumentando l´occupazione, la formazione e l´istruzione delle persone poco qualificate. Bisogna investire insomma sul capitale umano e sulla scuola.
(l.gr.)

l’Unità 7.5.11
Scuola, l’inganno delle assunzioni. Bastava il piano 2008
Pensionamenti. In 29mila prof vanno via in settembre Quanti entreranno?
di Francesca Puglisi


Gli annunci del Governo sulle migliaia di assunzioni nella scuola sonosolo propaganda elettorale: nel decreto sviluppo non è indicata alcuna cifra, e comunque i 30mila docenti in tre anni annunciati a voce dal ministro coprirebbero a malapena i 29mila pensionamenti del primo anno!
L'unica certezza per il prossimo anno scolastico è la terza tranche di taglidell'impietosa mannaia della legge 133/08 (19.700 insegnanti e 14.500 Ata in meno) e il calo di investimenti nell'istruzione fino al magrissimo 3,2% del Pil stabilito dal Def di Tremonti che ci metterà fuori dall'Europa.
Assorbire i precari e non crearne mai più era il programma del governo di centrosinistra: un piano di emergenza per sistemare l'eredità della Moratti (ultimo concorso: Berlinguer 1999) in vista di un nuovo e più razionale reclutamento futuro. Quando nel 2008 il centrosinistra è caduto, solo metà dei 150mila docenti e 30mila Ata previsti erano stati assunti; poi il duo Tremonti-Gelmini ha bloccato il piano. Lega e PdL hanno cancellato più di 80mila insegnanti dall’organico senza bandire concorsi né varare nuove modalità di reclutamento. Tre anni di malgoverno e tagli hanno bloccato l’ingresso anche ai neolaureati là dove le graduatorie erano esaurite, producendo il paradosso, richiamato anche da Bersani, che nei prossimi 3 anni, in 64 province, andranno esaurite le graduatorie di materie tecnico-scientifiche, proprio quelle in cui i ragazzi sono deboli nei raffronti internazionali. Non basta. Nel2009 Gelmini ha varato un provvedimento incostituzionale; oggi i nodi vengono al pettine e i ricorsi potrebbero costare più del piano bloccato nel 2008. La Ministra parla di bidelli più numerosi dei carabinieri (ma le scuole sono più delle caserme) e di presidi che chiedono soldi alle famiglie (ma lei taglia fondi agli istituti), mentre la massa dei precarinon diminuisce e ai giovani laureati è negato ogni diritto alla formazione e al reclutamento.
Se la Gelmini non avesse interrotto il piano di assunzioni da noi previsto, quasi tutti i precari sarebbero ormai in ruolo e oggi potremmo pensare al futuro della scuola parlando di altro. È il blocco di quel piano che ha trasformato ogni discorso sulla scuola in un discorso sui precari.
È il blocco di quel piano che hatrasformato la differenza fra «coda» e «pettine» in una questione di vita o di morte. È semplicemente impossibile riparare i cocci del Governo Pdl-Lega a risorse invariate. Senza una robusta ripresa delle assunzioni nella scuola e la ripresa del cammino di riforma avviato dal centrosinistra, qualunque soluzione sarà iniqua per qualcuno, e soprattutto sarà iniqua per la qualità della scuola statale e per l'Italia tutta.

il Fatto 7.5.11
I veri numeri sugli immigrati
di Michele Boldrin


Un collaboratore del blog noisefromamerika.org  , persona intelligente e preparata, ma affetto da ubbie leghiste ha fatto notare che il ministero del Lavoro ha reso pubblico L’immigrazione per lavoro in Italia: evoluzione e prospettive, un testo di 280 pagine scarica-bile dal sito. Sulla base di un riassunto (polemico con il governo) apparso su Repubblica il nostro collaboratore ha tratto le seguenti conclusioni: a) che nel biennio 2009-2010 sono immigrate in Italia 648.000 persone, suddivise in occupati (+309.000), disoccupati (+104.000) e inattivi (+235.000); b) che quindi il tasso di attività degli immigrati è del 49 per cento mentre il tasso di disoccupazione è del 25,2 per cento; c) che il reddito pro-capite del Nord Italia, con questi nuovi ingressi, si è ridotto dell’1,1 per cento. La persona che arriva a queste conclusioni è, credetemi, molto più intelligente, preparata e anche più scrupolosa della media. Peccato che quanto scrive siano balle.
   VI È UNA MORALE , in questa storia, anzi due. La prima consiste nel fatto che la faziosità (come quella della giornalista di Repubblica che, per dare sulla testa a Tremonti, stravolge il contenuto del rapporto falsandone, come vedremo, le implicazioni) ha spesso l’effetto opposto a quello desiderato. La seconda morale è peggiore: il livello di disinformazione e ignoranza dei fatti cui è scesa l’opinione pubblica italiana è preoccupante. Fa spavento quanto poco gli italiani capiscano di economia, quanto incapaci siano giornalisti ed economisti italiani di riportare tali fatti e di interpretarli correttamente.
   Tratte le morali, vediamo perché le affermazioni a) e c) riportate sopra sono scempiaggini. I 648 mila stranieri in più non sono il frutto solo di immigrazione ma anche di fertilità interna. Lo stesso studio riporta che gli stranieri nati in Italia sono circa 77 mila all’anno, ossia 154 mila in due anni. Poiché la nostra legislazione, basata sullo ius sanguinis, li considera stranieri, questi nuovi nati, da soli, spiegano il 65,5 per cento di quei 235 mila nuovi stranieri inattivi. Un ragionamento analogo vale per i dati sulla disoccupazione. Il tasso di disoccupazione è ovviamente maggiore fra gli stranieri che fra gli italiani (11 per cento verso 8 per cento), ma questo è dovuto quasi esclusivamente al loro maggior tasso di attività. Anche se dovessimo calcolarlo sulla base dei dati di cui sopra (che includono persone in età non lavorativa) esso risulterebbe pari al 64 per cento; sul totale della popolazione italiana esso era del 48,4 per cento nel 2010 (Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro, tabella 2.5). Fra le persone in età da lavoro, il tasso di attività degli stranieri è invece del 72,7 per cento contro il 61,6 per cento degli italiani. Idem per il tasso di occupazione che, come riportato anche dal documento in questione, risulta pari a quasi il 64 per cento fra gli stranieri e al 56 per cento fra gli italiani. Anche a voler confrontare il comportamento sul mercato del lavoro degli stranieri con quello del “virtuoso” Nord (come ogni buon leghista richiede) il risultato non cambia. Il tasso di attività del Nord si aggira attorno al 53 per cento sul totale della popolazione e il 69 per cento fra le persone in età da lavoro. Niente da fare, insomma: questi maledetti migranti, anche tenendo in conto quelli che si fermano a godersi il sole del Centro-Sud, lavorano di più.
   La cosa più importante è che senza quei lavoratori immigranti (che lavorano a salari molto inferiori a quelli degli italiani) una valanga di piccole e medie aziende italiane rimarrebbero in piedi. A queste vanno aggiunti pure tutti i produttori italiani che senza la domanda di beni e servizi dei 4,2 milioni di migranti avrebbero chiuso. Siccome l'immigrato (specialmente se clandestino) non riceve sussidio, pensione o trasferimento alcuno dallo Stato, la domanda in questione è privata; frutto del lavoro migrante e non delle tasse di qualcun altro. Infatti risulta palese, anche dallo studio in questione, che solo grazie agli stranieri disposti a lavorare per molto meno degli italiani l'occupazione non è crollata negli ultimi tre anni e migliaia di aziende non hanno chiuso. Per orrenda che sia, la crisi economica italiana sarebbe stata peggiore e la caduta del Pil pro capite ancora più grave se non ci fossero stati questi inutili migranti!
   OBIEZIONE : gli immigrati che arrivano sono poco produttivi e sanno fare solo lavori umili. Certamente: vengono quelli che l’economia del paese domanda. La produttività dello straniero dipende dal lavoro che gli offri e che è disponibile. Importiamo stranieri scarsamente produttivi perché il nostro sistema economico genera solo nuovi lavori scarsamente produttivi: si chiama declino, signori, declino. La qualità dell’immigrante medio altro non è che un termometro che lo misura: a Palo Alto l’immigrante medio ha un PhD e non dipende dal clima, ve lo posso assicurare.
   P.S. Visto che è tempo d’austerità vale la pena notare che lo “studio” in questione non è stato prodotto dai funzionari del ministero o dell'Istat, ma da una lunga lista di consulenti esterni. Sarebbe bello sapere quanto diavolo è costata questa mediocre rielaborazione di dati pubblici stampata su carta patinata. Mi offro di farla fare io alla mia research assistant cinese per metà della cifra, qualsiasi essa sia stata. Magari il ministro Sacconi vuole renderla pubblica, la cifra, così la prossima volta facciamo domanda anche noi emigrati.
*Washington University in St. Louis

il Fatto 7.5.11
I brividi di Bersani
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, giorni fa Bersani ha detto che il pensiero che Berlusconi possa andare al Quirinale “gli dà i brividi”. A te?
Michela

HO LETTO e trovo mite l’affermazione. La spiegazione è semplice. L’arrivo di Berlusconi al Quirinale è in sé un colpo di Stato anche se Berlusconi vi arrivasse senza colpo di Stato. Lo è per incontrovertibili ragioni di fatto. Berlusconi ha violato tutte le regole, dalla buona educazione al protocollo, dai limiti, che avrebbe potuto autoimporsi, del suo immenso conflitto di interessi, alla cosiddetta vita privata. Il Quirinale offre, nel malaugurato caso di un passaggio di Berlusconi, alcuni poteri estremi che i presidenti italiani non usano mai (capo delle Forze armate, capo della Magistratura) e una serie di spazi vuoti in cui vi è qualche precedente, nessun potere e un’immensa influenza su ogni altro ruolo e personalità dello Stato. Proprio l’estrema cautela con cui – in tutta la storia repubblicana – i successivi presidenti della Repubblica hanno usato (o più spesso, non usato) il potere esteso ma soft che la Costituzione mette a disposizione del capo dello Stato, ha reso il rapporto fra capo dello Stato, capo del governo e Istituzioni repubblicane costantemente armonioso e funzionante. Berlusconi è l’uomo che è riuscito a devastare la funzione di presidente del Consiglio. Senza governare, è riuscito ad aggredire le altre istituzioni e gli altri poteri dello Stato esclusivamente per ragioni private e personali. È il personaggio che non ha esitato a definire “associazione a delinquere” i giudici del suo Paese solo perché si erano presi la libertà costituzionale di rinviarlo a giudizio. Berlusconi ha avuto un ruolo molto grande nella politica estera del suo Paese, spostando con vigore e determinazione l’asse delle relazioni fondamentali italiane da Europa e Stati Uniti, a Russia (Russia di Putin, un oligarca senza scrupoli e con montagne di vittime) e Libia, la Libia di Gheddafi, il Paese in cui i cittadini sono insorti, sono stati massacrati a cannonate e con l’intervento dell’aviazione militare e che infine ha provocato la condanna delle Nazioni Unite e l’intervento militare della Nato. Berlusconi è il primo ministro che è legato da uno stretto trattato economico militare con la Libia, si è impegnato a non partecipare all’azione contro la Libia, poi a starci ma da fuori, poi di bombardare, e infine si è accordato con la Lega per porre un termine all’intervento. Ha preso su questo punto un solenne impegno (4 maggio) e non ha mai potuto mantenerlo perché tutto dipende dalla Nato e non da Berlusconi. Ma lo ha fatto credere alla Lega e agli italiani che frequentano le sue televisioni e i suoi giornali. Nel frattempo non ha mai cancellato il trattato di stretta cooperazione economica e militare con la Libia, tuttora in vigore. È un trattato che Berlusconi ha consacrato facendo volare le frecce tricolori (aerei acrobatici italiani di grande bravura e grande rischio) nel cielo della Libia, in onore di Gheddafi (già celebre autore della strage di Lockerbie) e baciando la mano a Gheddafi di fronte alle telecamere del mondo. Per tutte queste ragioni nessuno di noi avrà brividi. Ma prende invece, fin d’ora, in modo pubblico e solenne, di fronte a tutti i concittadini, l’impegno di impedire in nome della legge, l’ingresso di Berlusconi Silvio (che a quel tempo sarà pregiudicato) anche solo nel portone del Quirinale

il Riformista 7.5.11
Parla la Bonino. Colleghi trascurati
I radicali si lamentano «Il Pd non ci considera

qui
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l’Unità 7.5.11
Israele, strani democratici
di Moni Ovadia


L'editorialista del quotidiano israeliano Ha'aretz, Akiva Eldar, in un suo recente articolo si è domandato:" che cosa hanno in comune i falchi dell'ala militare di Hamas; il Primo Ministro Benjamin Netanyhau; la sua guardia del corpo, il Ministro della Difesa, Ehud Barak; e il Premio Nobel Shimon Peres Presidente di Israele? Hanno dato fuori di matto per l'accordo di riconciliazione fra Hamas e Fatah!". La domanda di Akiva Eldar è evidentemente retorica. C'è una grande notizia, gli Islamisti estremi e gli unici democratici del Medioriente, "uomini di pace" soi disant, condividono lo stesso sentire nei confronti dell'unità della leadership legittima del popolo palestinese, precondizione imprescindibile per una vera trattativa di pace e non per quelle chiacchiere truffaldine, con la benedizione del quartetto, che da anni raggirano i palestinesi, ma anche gli israeliani. Ora, per quanto riguarda l'ala estrema di Hamas, la ripulsa dell'accordo è del tutto comprensibile, anche se non giustificabile. Ma come spiegare quella dei superdemocratici che governano Israele. La spiegazione è una ed una sola: parlano di democrazia e intendono apartheid, parlano di pace e pensano diffusione ipertrofica della colonizzazione. Questi politicanti israeliani hanno le facce di bronzo, in yiddish si chiama khtzpe. Il colmo della khutzpe è questo: "a Varsavia un ebreo viene giudicato per matricidio e parricidio e viene condannato al massimo della pena. Quando il giudice gli da la parola l'ebreo dice: « vostro onore ho diritto alle attenuanti, sono un povero orfano». Ebbene questo ebreo è un dilettante al confronto dei governanti israeliani.

Corriere della Sera 7.5.11
Sereno ma inquieto, i due volti di Bobbio
Sul diritto naturale come sul marxismo, il suo pensiero fu sofferto e mai monolitico
di Giuseppe Bedeschi


Credo che sia difficile sopravvalutare l’importanza del ruolo svolto dalla riflessione di Norberto Bobbio nella cultura italiana della seconda metà del Novecento. Una riflessione impegnata sui problemi della teoria del diritto e della politica, sulla ricostruzione critica delle ideologie che hanno messo radici nel nostro Paese, sui grandi problemi della democrazia nelle società industriali avanzate. Per molti uomini di cultura, Bobbio è stato un punto di riferimento essenziale, anzitutto per la sua impareggiabile capacità di analisi, che individuava sempre i concetti elementari e costitutivi di ogni posizione ideologica, di ogni approccio culturale, di ogni giudizio di valore, per sottoporli poi a una a una pacata disamina, la quale metteva in rilievo i loro presupposti e le loro ascendenze, la loro coerenza o incoerenza, ecc. Credo che uno dei motivi fondamentali, o forse il motivo fondamentale, del fascino esercitato da Bobbio su intere generazioni di studiosi sia da cercare proprio in quella sua forza analitica, che rifiutava emotività, impulsi irrazionali, furori ideologici, per affidarsi solo e soltanto all’esercizio della ragione. Di qui una immagine di serenità, di compostezza, di dominio di sé, di sicurezza intellettuale, che emanava dalle sue pagine, raffinate ed eleganti anche letterariamente. Ma, se tutto ciò è vero, credo anche che si sbaglierebbe a voler considerare la riflessione di Bobbio (che si è snodata per diversi decenni) come qualcosa di assolutamente coeso e compatto, senza difficoltà e senza smagliature, come un monolite insomma, nel quale non sia dato rilevare antinomie di sorta. Credo che renderemmo un cattivo omaggio a Bobbio se usassimo verso il suo pensiero un approccio di questo tipo, disconoscendo quanto di complesso, di sofferto e anche di drammatico c’è stato nella sua storia intellettuale; se facessimo così, non intenderemmo veramente quella storia. Un forte stimolo in questa direzione ci viene dalla lettura del volume di Bobbio Giusnaturalismo e positivismo giuridico (d’imminente uscita presso Laterza, con prefazione di Luigi Ferrajoli). Nell’adesione del pensatore torinese al giuspositivismo ebbe importanza decisiva l’orientamento verso la scienza espresso negli anni Quaranta-Cinquanta da filosofi quali Nicola Abbagnano, Ludovico Geymonat, Giulio Preti. Contro l’idealismo di Croce e di Gentile, Bobbio si riconobbe nel «nuovo illuminismo» di ispirazione scientifica. Lo scienziato «che si piega sul mondo e lo osserva» fu indicato da Bobbio come il modello dell’uomo di cultura; al di fuori di esso non restavano che i retori e i profeti. La filosofia doveva essere considerata sana o malata «a seconda che maggiore o minore il suo contatto con le scienze» . Perciò, in campo giuridico, lo affascinava l’insegnamento del giuspositivista Hans Kelsen. «Una scienza— aveva detto Kelsen— deve descrivere il proprio oggetto quale esso è effettivamente e non prescrivere come esso dovrebbe o non dovrebbe essere, in base ad alcuni giudizi specifici di valore» ; il giusnaturalismo, invece, era una anticaglia metafisica, che pretendeva di prescrivere modelli e norme al diritto positivo. Senonché, Bobbio fu un giuspositivista «inquieto» (come lo definì Sergio Cotta), in quanto non esitò ad affermare che «di fronte allo scontro delle ideologie, dove non è possibile alcuna tergiversazione, sono giusnaturalista; riguardo al metodo sono, con altrettanta convinzione, positivista» . Il giusnaturalismo continuava a esercitare il suo fascino su Bobbio nella misura in cui esso faceva valere l’esigenza che una norma non venisse considerata solo dal punto di vista della sua coerenza all’interno di un dato sistema giuridico, ma fosse valutata anche alla luce della nostra coscienza morale. Di qui la costante attenzione di Bobbio per il pensiero giusnaturalistico, di qui i suoi acuti studi su Pufendorf, su Locke, su Kant, in uno sforzo ininterrotto di approfondimento e di comprensione. Altrettanto complesso e composito fu l’atteggiamento di Bobbio verso il marxismo, nel quale egli vide una tipica filosofia della storia, che pretendeva di dare una risposta definitiva alla domanda su quale sia il destino dell’umanità. Ma una filosofia della storia, qualunque filosofia della storia, poteva dare solo risposte metafisiche, sicché il marxismo non poteva essere assolutamente considerato quella teoria scientifica della società che pretendeva di essere. Ciò però non impedì a Bobbio di affermare, in Politica e cultura (1955), che «se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova, immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell’isola dell’interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni» . Era, come si vede, un grosso riconoscimento al marxismo, che Bobbio accompagnava con giudizi positivi sull’Urss e sugli Stati del blocco sovietico, i quali, egli diceva, avevano «effettivamente iniziato una nuova fase di progresso civile in Paesi politicamente arretrati, introducendo istituti tradizionalmente democratici, di democrazia formale come il suffragio universale e l’elettività delle cariche e di democrazia sostanziale come la collettivizzazione degli strumenti di produzione» . Ma erano giudizi, questi, che Bobbio non solo non ripeté negli anni successivi, ma confutò, affermando per esempio, nel 1968 (si noti l’anno!), che «all’ombra del grande ideale del passaggio dal socialismo al comunismo era avvenuto invece il passaggio, forse obbligato, da un processo di industrializzazione prematura e forzata al dispotismo» . Queste parole Bobbio scriveva nella premessa alla raccolta dei suoi bellissimi Saggi sulla scienza politica in Italia (1969), dedicati a Mosca e a Pareto. Il pensiero elitista gli appariva ora come l’unico che avesse gettato le basi per uno studio empirico della politica, come l’unico capace di avviare una ricerca fondata sull’osservazione storica. Tale pensiero metteva in rilievo che qualunque regime sociale e politico è oligarchico (anche il nostro). Da ciò discendeva per Bobbio l’esigenza di una lotta costante contro le disuguaglianze sociali.

il Riformista 7.5.11
«Giolitti scusaci... avevi ragione»
di Claudio Petruccioli

6

Repubblica 7.5.11
Se tutti dicono I love you
Il ritorno del discorso amoroso
Di cosa parliamo quando parliamo di un nuovo romanticismo
di Benedetta Tobagi


Non userei la parola utopia perché è associata a qualcosa di irrealizzabile. Invece credo che tutti possano vivere un lungo legame se sanno prendersene cura

Paradossale: il numero dei divorzi cresce, le tensioni della vita moderna rendono sempre più difficile la vita a due, la "deregulation" nei costumi sessuali è ormai un fatto acquisito, eppure, dall´abbazia di Westminster al tappeto rosso di Cannes ove sfileranno le star protagoniste dell´atteso The beloved ("gli amati"), le quotazioni del romanticismo reggono, anzi, sembrano in rialzo. Rivisitando in salsa rosa le storie di vampiri, la saga Twilight ha conquistato un successo planetario, mentre un recente studio statunitense rivela che donne cercano una dimensione romantica persino nel porno online: il sito erotico più popolare tra il pubblico è specializzato - udite udite - in una versione osé di romanzi alla Jane Austen. Ma non è solo marketing, né si limita al pubblico femminile: scorrendo le migliaia di elenchi con le dieci ragioni per cui vale la pena vivere inviati a Roberto Saviano da uomini e donne di ogni età, la centralità dell´amore balzava agli occhi. In un mondo scosso da guerre e incidenti nucleari, tre miliardi di persone che restano imbambolate a guardare una coppia di ragazzi ricchi belli e privilegiati, eredi al trono di una ex potenza decaduta, che si scambiano voti di eterno amore in diretta mondiale, sembrano provare che l´amore romantico resta la droga più potente sintetizzata dall´umanità. Ed è pure legale.

Alle cinque "S" da prima pagina - Sangue, Soldi, Sport, Sesso, Spettacoli - bisogna dunque aggiungere Sentimento? Il fantasma dell´amore romantico, buttato dalla finestra con tutti i suoi accessori (dichiarazioni d´amore, impegno per il futuro, sesso con sentimento, senso di essere stati uniti dal destino e non dal caso…), rientra trionfalmente dalla porta. È per sfuggire alla dura realtà che la favola delle nozze reali ha sedotto il mondo intero? L´antropologia ci insegna che un rito produce i suoi effetti proprio con pratiche che "si impadroniscono" del pensiero, rendendoci più propensi a credere che ad analizzare criticamente le cose, alimentando così le grandi illusioni di cui abbiamo bisogno per sopravvivere. Il romanticismo è una di queste? È una forma di diniego della realtà?
Woody Allen, massimo interprete delle nevrosi affettive della modernità, non ha dubbi. Nel suo recente Incontrerai l´uomo dei tuoi sogni trova l´amore solo una credulona di mezz´età che si affida a una falsa veggente. Pur nel cinismo, il film mette a fuoco il contrasto tra la visione egoistica e strumentale di chi rincorre una nuova relazione per sentirsi giovane, per soldi, per sfuggire le responsabilità della vita, e la vecchia Helena, ancora disponibile, seppur goffamente, ad aprirsi all´"atto di fede" che richiede ogni nuova relazione. L´amore romantico, col suo groviglio di idealizzazioni, aggressività e sensualità, ci espone sempre a un rischio terribile. Vulnerabili, dobbiamo imbarcarci in un difficile compromesso tra il desiderio che abbiamo della persona amata e la paura di essere rifiutati, traditi, abbandonati - specialmente se ci hanno già ferito. Questo eterno dilemma oggi è amplificato: rischiare è ancora più difficile quando intorno rimane ben poco di stabile a cui aggrapparsi.
Ormai disponiamo di una vasta letteratura e filmografia sull´impatto devastante della precarizzazione delle condizioni materiali d´esistenza sulla vita affettiva. Secondo Zygmunt Bauman, primo interprete di questa crisi, la logorrea mediatica intorno all´amore è solo un´altra faccia del consumismo che tende a ridurre i sentimenti alla dimensione del soddisfacimento istantaneo, senza alcun reale investimento affettivo. Proprio questo scenario desolato, però, alimenta per reazione la fame di storie d´amore vecchio stampo: è quanto suggeriscono dalla capitale mondiale del romanticismo, Parigi, le riflessioni dei pensatori che la rivista Philosophie ha messo all´opera sul tema. Il cattolico Jean-Luc Marion ricorda che l´amore è la porta sempre accessibile a tutti verso la trascendenza, un´esperienza di pienezza e unicità capace di dare senso alla vita: amando creiamo l´"immagine immortale" di cui parla nel Cielo sopra Berlino l´angelo che si incarna per amore di una trapezista. Slavoj Zizek e lo stesso Bauman riconoscono nell´amore l´ultima utopia rimasta (parzialmente) in piedi, «il grande rimedio alla dissoluzione dei legami sociali», spazio possibile per una vita autentica, proiettata nel futuro. Alain Badiou vede nel dire "ti amo" addirittura una forma di resistenza al capitalismo.
Il mondo va a rotoli, e spaventati ci rivolgiamo all´ultimo serbatoio di speranza: "e vissero felici e contenti". La favola del matrimonio reale ha tanto successo perché è un rito che incorpora il passato nel presente, offrendo un rassicurante senso di continuità. Ma c´è qualcosa in più. Molte delle nuove narrazioni romantiche contengono forti iniezioni di realtà, quasi fossero strutturate per reggerne l´urto. Il film-manifesto di questa tendenza è la commedia American Life. La giovane coppia in cerca del luogo per crescere un figlio rappresenta l´amore forte e quieto che sfida l´incertezza, offre un baricentro nei marosi dell´esistenza e ripara i traumi del passato: un "neoromanticismo" agli antipodi da follie e deliquio dello Sturm und Drang.
A pensarci bene, anche le nozze di Will e Kate obbediscono a questo schema: sono la versione aggiornata, riveduta e corretta del matrimonio fallimentare di Carlo e Diana, sceneggiate per confortare spettatori segnati da massicce iniezioni di cinismo e delusione. Nessuna Camilla nell´armadio, già superata la prova di un lungo fidanzamento, rotture incluse, e William che sussurra «ti amo, sei bellissima» - le «trite parole che non uno osava», per dirla col nostro Saba, ancora capaci di toccare il cuore di qualunque donna - integra felicemente nell´apparato dinastico la spontaneità dei sentimenti di Diana (vera o falsa che fosse), in passato tanto osteggiata dai gelidi Windsor. Compensatorio e rassicurante. Per irretire i pessimisti irriducibili del tempo presente c´è bisogno di amori da sogno che sappiano inglobare anche il dolore. Persino a Hollywood: il divo ammalato di sesso Michael Douglas e la bomba sexy del musical Chicago Catherine Zeta-Jones oggi permettono al mondo di specchiarsi con simpatia in un matrimonio che lotta per resistere al cancro di lui e alla conseguente depressione di lei.
In questo "neoromanticismo" temprato dalla realtà sembra essersi offuscata la carica rivoluzionaria e dirompente della passione, che, da Romeo e Giulietta a Casablanca a Le conseguenze dell´amore, si scontra con mille ostacoli, scuote convinzioni e convenzioni, infonde agli innamorati un coraggio inaudito. In questo senso, lo scenario più inquietante lo offre la distopia di Non lasciarmi: i giovani protagonisti del film, allevati per fornire organi da trapianto, seppur consapevoli della loro esistenza a termine si amano appassionatamente, come Lara e il dottor Zivago nella villa di Varykino tra lupi e ghiacci, prima di essere separati dagli urti della Storia. Ma nemmeno l´amore riesce ad accendere nei cloni di Ishiguro un moto di ribellione che li scuota dalla rassegnata accettazione del destino. In un mondo sempre più angosciato dal futuro, riuscirà l´amore romantico a riscoprire il suo animo ribelle? Il suo destino, come quello di ogni storia d´amore, è una partita aperta.

Repubblica 7.5.11
Yehoshua: "Basta con Anna Karenina lunga vita alla passione quotidiana"
di Anais Ginori


Lo scrittore israeliano ha raccontato più volte dinamiche e tensioni del rapporto coniugale "Oggi è un sodalizio fondato su uguaglianza e solidarietà. Proprio come William e Kate"

Ormai occuparsi di come due persone riescono a stare insieme è narrativamente molto più interessante di quanto lo sia analizzare i fallimenti e i grandi disastri emotivi

«L´unione tra due persone non si può costruire, come un tempo, solo sulla suggestione dell´amore assoluto ma piuttosto sulla base di una nuova eguaglianza tra uomo e donna, su valori di solidarietà e amicizia». In gran parte dei suoi romanzi, pubblicati da Einaudi, Abraham Yehoshua ha scritto e analizzato le tensioni e le incomprensioni del rapporto coniugale, l´unico legame famigliare unicamente sociale, non di sangue, perciò esposto e fragile. Lo scrittore israeliano sperimenta un neoromanticismo consapevole, che ai fugaci slanci amorosi sostituisce un lento lavoro di consolidamento. «Sono stato uno dei primi familisti della mia generazione. Credo nel matrimonio, anche se preferisco chiamarlo sodalizio. È la sfida più appassionante che un uomo e una donna possano affrontare», spiega Yehoshua dall´alto dei suoi 51 anni di convivenza con la moglie.
È ancora possibile credere a qualcuno che dice "Ti amo"?
«Non può più essere una dichiarazione definitiva. Se dici "Ti amo" devi anche spiegare perché, confermarlo ogni giorno, esplorando quotidianamente questo sentimento, cercando nuove motivazioni oppure minacce nascoste. Un parola d´amore non basta a costruire una coppia».
Eppure tre miliardi di persone si sono fermate a guardare due ragazzi che entrano in una chiesa per promettersi amore eterno.
«Confesso: anche io ho guardato la diretta da Westminster. La famiglia reale è stata capace di condurre la cerimonia con molta dignità e serietà. Ho scoperto il rito anglicano, molto diverso da quello ebreo, che mette al centro la sposa. Non è solo l´uomo che prende la donna ma anche la donna che sceglie l´uomo. Mi è sembrata una concezione attuale della coppia. Alla fine, questo spettacolo planetario è stato un grande omaggio al rapporto coniugale».
Ma nella società occidentale di oggi, nella quale ci si sposa poco e si divorzia molto, che senso ha?
«Questo non è il matrimonio di Diana e Carlo, che si sposarono senza quasi conoscersi. Kate e William hanno messo prima alla prova la loro unione per anni, hanno una lunga frequentazione che dovrebbe evitare future rotture. Il fatto che poi non abbiano fatto un viaggio di nozze, e lui sia tornato nel suo reparto militare, mi è sembrato un altro segnale positivo di modernità».
Il romanticismo è sempre una fonte di ispirazione quando scrive?
«Perlustrare le misteriose strade attraverso le quali un uomo e una donna decidono di rimanere insieme è narrativamente molto più interessante che lavorare intorno al fallimento dei matrimoni, a rotture e tradimenti, all´alienazione della coppia e ad altri disastri amorosi su cui ormai è stato raccontato tutto sia nella letteratura che al cinema».
Lei ha scritto una volta che il suicidio di Anna Karenina conferma che è impossibile far vivere un amore al di fuori del matrimonio.
«Nel romanzo di Tolstoj ci sono due relazioni molto diverse. Quella tra Levin e Kitty, all´inizio non facile, diventa poi un matrimonio profondo, vincolante, alimentato da una reciproca dedizione. Anna e Vronskij, invece, non si sposano. Lei rifiuta che questo amore venga tutelato o salvaguardato da un contratto matrimoniale, vorrebbe che fosse basato sulla piena libertà. Anna Karenina non racconta la lotta di una moglie contro un marito odiato, come in Madame Bovary di Flaubert. È la storia di una donna che aspira a raggiungere un qualcosa che molti vedono come una sfida: mantenere un rapporto saldo tra due persone senza l´aiuto di stampelle sociali, legali o economiche. Un rapporto costruito esclusivamente sul lavoro dell´amore».
Il finale di Tolstoj non lascia fiduciosi sull´esito di questa sfida.
«Sono convinto che l´amore non possa sopravvivere senza la protezione del matrimonio e dell´istituzione sociale che rappresenta».
In un mondo senza ideologie, l´amore eterno è l´ultima utopia da salvaguardare?
«Non condivido questo pessimismo. La parola utopia è implicitamente negativa, ci fa credere che sia un obiettivo irraggiungibile. Io sono convinto invece che tutti possano far vivere a lungo un sodalizio amoroso, se adeguatamente curato e protetto. Mi è piaciuta una frase pronunciata dal vescovo britannico a Westminster. "Nel matrimonio troverai conforto". In fondo, è quello di cui ognuno di noi ha bisogno. Siamo tutti fallibili. In due lo siamo un po´ di meno».

Repubblica 7.5.11
Il capolavoro di uno scrittore ultracentenario Celebrato negli Stati Uniti come un genio del ‘900
Adora il tuo nemico l´ambiguo legame con il carnefice
a cura di Alessandra Rota


Hans Keilson, ebreo tedesco nato a Berlino nel 1909, è un signore ultracentenario che vive in Olanda dai lontani anni Trenta. La foto che compare sulla bandella del libro, edito in Italia a più di cinquant´anni dalla sua pubblicazione, ce lo restituisce con un sorriso saggio e rasserenante, malgrado la sua biografia rifletta puntualmente l´immane tragedia del popolo ebraico. Scappato in Olanda nel 1936, Keilson entrerà poi nelle fila della resistenza olandese, offrendo aiuto, in qualità di medico, ai bambini traumatizzati dalla separazione forzata dai genitori. Proprio lui, che ormai adulto, perderà a sua volta padre e madre nel campo di Auschwitz.
La sua singolarissima vicenda letteraria - un vero e proprio viaggio sulle montagne russe - la illustra lui stesso in un´intervista al Guardian di qualche mese fa. Keilson esordisce a soli ventitré anni: nel 1934 pubblica per Fischer La vita continua, l´ultimo romanzo di uno scrittore ebreo a uscire in Germania prima che si scateni la furia antisemita dei nazisti. Poi un silenzio lungo trent´anni, e i riflettori internazionali si accendono di nuovo sulla sua figura nel 1962, quando La morte dell´avversario esce negli Stati Uniti ed entra nella top-ten della critica, al fianco dei coevi titoli di Borges, Nabokov, Faulkner. Ma anche stavolta il successo dura una sola stagione e la stella di Keilson scompare ancora fino all´anno passato, con la pubblicazione, sempre in America, di Comedy in a Minor Key, che viene accolto dal New York Times con parole perentorie: quel libro è un capolavoro e il suo autore è un genio. Anche se il primo a frenare gli entusiasmi è proprio Keilson, che all´intervistatore del Guardian, Philip Oltermann, risponde: «Non le pare un po´ esagerato? Un genio io? Non sono neanche uno scrittore in senso proprio».
Eh no, uno scrittore, un vero scrittore, Hans lo è di sicuro.
Non foss´altro perché La morte dell´avversario passa l´esame del critico più implacabile: il tempo. A oltre cinquant´anni dalla stesura, questo sconcertante romanzo mantiene inalterato il suo vigore. Sia in ordine alla profondità abissale del tema affrontato (il legame tra vittima e persecutore in epoca nazista), sia per la capacità di sciogliere tale vertiginosa questione in una narrazione piena di immagini vivide e potenti, che colpiscono la mente e il cuore del lettore.
Una, in particolare, si impone sulle altre. Si narra a un certo punto la lontana storia dell´innamoramento del Kaiser per certi alci che ha visto in Russia dal cugino, lo zar, il quale gliene regala subito un branco, trasportato in un habitat adeguato: foreste e steppa, tra il mar Baltico e la laguna. Ma dopo un po´ gli alci cominciano a morire, in modo assai misterioso. Finché un guardiacaccia inviato appositamente dalla Russia scopre la ragione della moria: il clima è perfetto, la zona prescelta pure, ma l´alce sente la mancanza del lupo, che paradossalmente lo tiene in vita con la sua costante minaccia. E´ esattamente attorno a questa perversa relazione che ruoterà il romanzo, a partire dal giorno in cui il protagonista, ancora bambino, sente i genitori parlare di un misterioso signor B., il cui prossimo avvento al potere comporterà per tutti una sicura catastrofe.
Il bambino comincia a fantasticare su quella figura: ne scruta con attenzione il volto sui giornali, rimane ammaliato dalla sua voce nei comizi. E, sempre fantasticando, si convince che lui e il suo nemico hanno assoluto bisogno l´uno dell´altro. Vivono l´uno dell´altro, attraverso continue proiezioni reciproche. Ma se ci si dimostra capaci di essere nemici a se stessi - insiste il protagonista, ormai adulto - anche l´avversario sarà indotto a fare altrettanto. E in tal modo scoprirà il vuoto della sua identità, la follia delle sue azioni. Così la «vittima sacrificale» rovescia la propria impotenza in un malcelato senso di superiorità, presumendo che la sua stessa presenza possa costringere il nemico ad arrestarsi nella sua rovinosa strada di morte: perché nell´odio è comunque nascosta una «goccia d´amore».
Inutile aggiungere che i primi a diffidare di questo «fratello debole», dei suoi sofismi e della sua «infantile stoltezza», sono proprio i membri della sua stessa comunità, i quali, pur riconoscendogli di non essere un transfuga o un traditore, hanno buon gioco nel dimostrare l´inanità di una posizione che si fa sempre più assurda, via via che si dispiega la scientifica efferatezza del signor B.
Il protagonista del racconto è stretto in una impasse irresolubile. Ora capisce appieno la "parabola" degli alci.
Schiacciato dalla paura, anche lui ha vissuto a lungo come un alce, nell´allucinata necessità di un lupo minaccioso e persecutore. Né è mai riuscito a trasformarsi in lupo, avendo cercato disperatamente di salvaguardare quella «goccia d´amore» senza la quale il mondo è destinato a perpetuare la propria rovina. Poi, nell´estremo tentativo di difendere la sua tesi, aggiunge: «Anche i lupi sono mortali. Soggiacciono al potere di Uno che è più forte, un potere più terribile di quello che opprime gli alci». È Dio stesso, a questo punto, a venire chiamato in causa nel corso di un ultimo, drammatico incontro con l´ombra del padre, che avviandosi alla morte con il proprio zaino carico di dolore, non può certo seguire i vaneggiamenti del figlio. Quella fantomatica «goccia d´amore», per lui, non ha alcun significato.

Corriere della Sera 7.5.11
Le tecnologie provate Sapere condiviso «Social» e in tempo reale Tu chiedi, la Rete risponde
di Carola Frediani


«Q ual è il miglior libro per smettere di fumare?» . Il quesito appena digitato scompare nel box della homepage di Aardvark. com, sotto la scritta «Fai una domanda e troverò qualcuno che risponderà» . Risucchiato da un sistema automatico di tagging che analizza le parole chiave, l’interrogativo verrà smistato in tempo reale a una serie di utenti in carne e ossa, che si siano dichiarati esperti di «fumo» , «tabacco» e simili. Un mix di algoritmi e sapienza umana che sfocia entro pochi minuti in una o più risposte, inviate tramite instant messenger al richiedente. Così, quando su Google Talk compare all’improvviso il consiglio di un John N. da Apopka, Florida, il sistema assume un alone stregonesco. Che diventa surreale se si legge la sua risposta: «Non lo so, ma se lo scopri fammelo sapere. Farei qualsiasi cosa per far smettere la mia fidanzata» . 1Creare un deposito Benvenuti nel magico mondo del Q&A (questions and answers), ovvero dei siti online di domande e risposte che ultimamente stanno conoscendo una nuova giovinezza. E che sempre di più assomigliano a dei veri social network. A far esplodere il fenomeno, all’inizio di quest’anno, è stato l’improvviso successo di Quora. com, piattaforma lanciata da due ex-dipendenti di Facebook che, novelli alchimisti, hanno mescolato Yahoo! Answers, l’antesignano del settore, con Wikipedia, condendo il tutto con un po’ di Twitter. Il risultato è un sito dove ognuno degli iscritti (si accede ancora su invito) può fare domande, o dare risposte, su qualsiasi cosa; e dove tutto è editabile da tutti, proprio come nella famosa enciclopedia online. Perché quello che conta non è la risposta immediata e tagliata su misura, ma la realizzazione progressiva di un deposito di conoscenza. 2 Quesiti da «seguire» Uno dei punti di forza di Quora è la capacità di mostrare domande e argomenti correlati al quesito appena digitato, oltre alla possibilità di rimanere sempre aggiornati sugli sviluppi di un interrogativo diventandone un follower, un «seguace» . Ma si possono «seguire» anche gli argomenti e soprattutto le persone, che sono il vero asso nella manica di questo social network del sapere. Perché si tratta di una comunità ancora ristretta, molto tecnologica, dove si possono trovare anche imprenditori della Silicon Valley. Il rischio è, semmai, che con l’espansione della piattaforma si perda questo equilibrio di efficienza e profondità. Nel frattempo, se si conosce bene l’inglese, vale la pena farci un salto. 3 Meccanismo a punti Di certo, in giro c’è una gran voglia di trovare soluzioni a interrogativi molto più articolati di quelli che si possono digitare su un motore di ricerca. La prima ad averlo capito era stata Yahoo! con il suo Answers, un contenitore trasversale di temi di ogni genere, molto pop, che in Italia può contare su una comunità ricca e partecipata: qui la semplicità d’uso dell’interfaccia e il meccanismo premiante del punteggio (si acquistano punti ogni volta che le proprie risposte sono votate dagli altri utenti) creano un meccanismo ben funzionante. E anche ben indicizzato dai motori di ricerca. 4I link per professionisti Ma dove deve andare un professionista che cerchi aiuto su questioni lavorative? LinkedIn, il più importante social network a sfondo business, ha aperto una sua sezione di Questions and answers, dove gli iscritti possono avere risposte dai propri collegamenti e dalla loro rete di relazioni. Ci sono varie categorie in cui navigare, da Finanza a Management passando per Amministrazione, e una sezione in italiano che tuttavia appare ancora poco utilizzata. Anche per questo da noi c’è grande attesa per Facebook Questions, il nuovo strumento del social network di Mark Zuckerberg— in Italia non è ancora attivo ma si può usarlo in parte impostando la lingua in inglese — per sottoporre domande e sondaggi ai propri contatti. Si possono formulare quesiti aperti o a risposta multipla, come un classico quiz. O si possono «seguire» le domande, ricevendo notifiche sugli aggiornamenti. E qualsiasi iscritto può partecipare. Una manna per le aziende, certo. Ma anche un mezzo per interessanti esperimenti sociologici, considerata la massa critica degli utenti del network. «Cosa facevate alle 8 e 46 minuti dell’ 11 settembre 2001?» ha scritto un mese fa Augusta, una utente americana. L’interrogativo ha raccolto 2 milioni e mezzo di voti e 78 mila follower. Ed è solo l’inizio.

Corriere della Sera 7.5.11
Noi dubbiosi pre-Internet con il naso nella Treccani
di Stefano Jesurum


Uno dice: beati i giovani, che con cinque clic trovano tutto su Wikipedia, fanno domande— le più bizzarre— e ricevono le giuste risposte sui siti di Q&A (questions and answers). Non come noi che arrancavamo tra enciclopedie, dizionari, vocabolari, compendi, manuali di ogni genere. Ma chi dice beati i giovani non fa i conti con quel piccolo particolare, senza tempo e senza età, che è proprio del genere umano e porta il nome di ansia. Così finisce che gli «ansiosi» — anche quelli moderni —, dopo aver compulsato i loro bravi clic, si ritrovino in preda al dubbio col naso appiccicato alla vecchia Treccani, allo Zingarelli, al Mereghetti piuttosto che all’elenco del telefono. E chissà quante generazioni ancora passeranno prima che l’online dia (agli ansiosi s’intende) la medesima sicurezza della carta ingiallita. I maestri chiamano Yam quell’insieme di commenti e regole dell’ebraismo che è il Talmud, e Yam significa «mare» . E chi utilizza Internet non «naviga» forse in Rete? Entrambi i mari— chiarisce Jonathan Rosen in Talmud e Internet, Einaudi— sono enormi continenti fatti di materia fluida come l’acqua, al cui interno vivono miliardi di informazioni. Che tocca sempre alla nostra intelligenza filtrare e interpretare. Tanto per metterci tranquilli (e non scrivere/dire strafalcioni).

venerdì 6 maggio 2011

l’Unità 6.5.11
Il prezzo che paghiamo
di Stefano Fassina


Ieri, oggi, domani. Ieri: il Consiglio dei ministri si è riunito per varare l’ennesimo, sedicente, “Decreto sviluppo” e nominare una decina di sottosegretari ed un consigliere del principe per tentare di arginare l’emorragia elettorale in vista del 15 e 16 maggio e pagare la cambiale firmata il 14 dicembre scorso ai cosiddetti “responsabili”. Oggi: lo sciopero generale promosso dalla Cgil contro la politica economica classista ed inefficace del Governo e per affermare un programma per l’equità, la crescita ed il lavoro. Domani: le assise degli imprenditori di Confindustria a Bergamo, per la prima volta senza Ministri e Presidente del Consiglio, per rimarcare la disillusione oramai diffusa anche tra quanti avevano creduto all’ “imprenditore prestato alla politica” e chiedere alle forze politiche, non al Governo Berlusconi, una svolta.
Le tre giornate “accidentalmente” in fila descrivono meglio di qualunque raffinata analisi politologica il segno dei tempi tristi e sempre più difficili nei quali si trascina l’Italia nel crepuscolo di Berlusconi.
Il nesso di causalità tra ieri e oggi e domani non potrebbe essere più chiaro. Da una parte, il governo e la maggioranza Pdl-Lega impegnata in un’intensa offensiva mediatica e populista per coprire la vera missione dell’esecutivo Berlusconi: salvare il premier dai suoi guai giudiziari. Dall’altra, il Paese reale: i lavoratori e le lavoratrici, gli studenti, i pensionati schiacciati da condizioni di vita e di lavoro sempre più precarie ed incerte; gli imprenditori stressati dalle pressioni della competizione globale ed in debito d’ossigeno a causa di una ripresa sempre dietro l’angolo, ma sempre più a rischio nell’Unione Europea delle destre mercantiliste.
Lo scarto tra circuito politico-mediatico e la quotidianità è stridente. Il rumore è insostenibile. Siamo dentro una fase pericolosissima non soltanto per l’economia, ma soprattutto per la democrazia. I nostri rischi di populismo sono più elevati che nel resto dell’Europa. Non viene pagata soltanto da Berlusconi o, in parte, dalla Lega la distanza dal Paese reale. È la politica in quanto tale che appare lontana ed autoreferenziale. L’anti-politica si fa sempre più strada.
Così, rilevano i sondaggi, vengono colpite le istituzioni fondative della democrazia, prima tra tutte il Parlamento. All’origine della delegittimazione, ricordava l’altro giorno su queste pagine Alfredo Reichlin, l’impotenza della politica rinchiusa nei recinti degli Stati nazionali, prigioniera dell’economia globale. Poi, in più per noi, un’infame legge elettorale, i continui episodi di trasformismo ben remunerato e l’agenda sequestrata per approvare gli scudi giudiziari per il Capo. Così, soltanto due italiani su dieci si fidano del Parlamento. Insomma, una crisi di sistema, non una ordinaria crisi di governo.
La seconda ragione dei nostri maggiori rischi di populismo è frutto di un apparente paradosso: il declino di Berlusconi e l’utilizzo sempre più spinto del berlusconismo. Per tentare di recuperare il contatto con la realtà, Berlusconi al tramonto accentua i caratteri del berlusconismo. Oscilla tra posture eversive da super-uomo (l’esercito a Napoli per risolvere una volta per tutte la piaga rifiuti), l’ulteriore apertura all’utilizzo privatistico della cosa pubblica (concessioni novantennali delle spiagge; innalzamento delle soglie degli appalti a trattativa privata) e l’ennesima sollecitazione al fai da te amorale, spalleggiato dal “delfino” Tremonti (Piano casa per condonare ex-ante l’abusivismo edilizio a scavalco delle competenze federaliste; allentamento dei controlli sulle imprese).
In altri termini, l’offensiva mediatica e populista rilanciata dal decreto sviluppo di ieri non avviene nel vuoto. Al contrario, poggia su scelte concrete e rilevanti. Messaggi pericolosi, ma attraenti per larghi settori in difficoltà economica e poco sensibili alla legalità, al civismo, alla solidarietà responsabile come unica possibile via alla crescita sostenibile.
Le classi dirigenti italiane sottovalutano i danni profondi determinati dal crepuscolo di Berlusconi alla tenuta morale, economica e sociale del Paese. Far finta di non vedere è colpa grave. Anche perché l’accentuazione del berlusconismo avviene in una fase più grave di quella del ’92-’93. Più grave per le condizioni delle nostre istituzioni repubblicane. Più grave per la tenuta dei soggetti della rappresentanza. Più grave per la lacerazione del tessuto economico e sociale del Paese. Nel ’92-‘93, la parte migliore delle classi dirigenti della politica, della cultura, della burocrazia, delle forze economiche e sociali seppe unirsi per salvare l’Italia. Oggi, con maggiore determinazione di allora, dobbiamo ritrovare quel patriottismo costituzionale e rigenerare la nostra Repubblica democratica fondata sul lavoro.

l’Unità 6.5.11
Oggi la protesta del sindacato di Corso Italia. Dalla parte dei giovani, e di chi paga troppe tasse
Dialogo impossibile Il segretario: «Il ministro non risponde mai. Quale futuro sta preparando?»
Camusso a Tremonti: basta colpire il lavoro si tassino i patrimoni
Faccia-a-faccia Camusso-Tremonti in occasione della presentazione di un libro sui precari. Lavoratori che il ministro non nomina mai e che oggi apriranno i cortei per lo sciopero generale della Cgil.
di Bianca Di Giovanni


Il confronto è pugnace, aspro, con un ministro quasi stizzito, che «avrebbe forse preferito non esserci», e la leader Cgil ferma nelle proprie posizioni, che non arretra. L’incontro pubblico tra Susanna Camusso e Giulio Tremonti è quasi la rappresentazione scenica dell’inevitabilità della protesta.
OGGI LO SCIOPERO
Oggi la Cgil sarà in piazza, con uno sciopero generale di 4 ore (che quasi tutte la categorie hanno raddoppiato) per chiedere al governo, al ministro dell’Economia di cambiare registro. Sul fisco, sul lavoro, sui diritti. Le distanze tra la politica economica dell’esecutivo e le rivendicazioni del maggiore sindacato sono siderali. Due mondi, due visioni. Che anche ieri non si sono mai incrociati. Tanto che alla fine Camusso ha concluso (in assenza dell’interlocutore, che ha abbandonato il campo prima del previsto): «Tremonti non risponde mai, si limita a dire che il mondo è cambiato». Ecco: nessuna risposta. Né sul lavoro (anche se sulle tipologie di contratti c’è una piccola apertura), né sulla politica fiscale (che resta a distanze siderali), tantomeno su quella sociale, che il ministro dice di aver mantenuto intatta (basta chiedere conferme ai sindaci). Qualche «tremontata», come quella proposta di «meno ballerine e più lezioni di inglese in prima serata sulla Rai». Roba da raccomandare al premier, che del ballo ha gfatto un «must» catodico generalizzato, piuttosto che alla Cgil.
L’occasione del duello è la presentazione del libro di Marianna Madia, giovane deputata Pd, dal titolo «Precari», parola mai citata dal ministro. A introdurre gli interlocutori Lucia Annunziata, che non riesce a smussare gli angoli. «Possiamo chiamarlo delfino», dice di Tremonti, che però non si «scioglie».
COMBATTIMENTI
È Camusso ad aprire e chiudere i combattimenti. Parte dalla «precarietà come grande tema che interroga tutti», e visto che Tremonti ha teorizzato il posto fisso, gli chiede subito la possibilità di semplificare le figure contrattuali, e di distinguere tra autonomi e subordinati. Richiesta meno «pericolosa» di quella che segue. Un welfare che copra i periodi di non lavoro, magari ampliando l’utilizzo del sussidio per la disoccupazione. «Bisogna restituire l’età adulta ai giovani prosegue Camusso perché tra bamboccioni, lavoretti, accettazione delle condizioni dei migranti, oggi in Italia i giovani restano residuali, nella marginalità». Alla fine la domanda cruciale. «Quale Paese ci si immagina chiede la sindacalista Il governo per quale Paese lavora?». La Cgil lo sa: chiede più giustizia sociale. E dunque una redistribuzione del reddito che passa per un fisco più equo. Anche per questo oggi sciopera. «Ma questa scelta implica pestare i piedi a qualcuno dice Camusso per questo non la si fa». Il sindacato chiede che la «torta» sia distribuita diversamente: dalle rendite, dai grandi patrimoni, deve passare al lavoro.
Tremonti non raccoglie. Anzi, rintuzza. «Siamo qui solo perché vogliamo essere democratici, ma in realtà questo libero è pieno di provocazioni», esordisce. Poi, una filippica contro i «manichei» che demonizzano il nemico e la difesa a oltranza del suo governo: tenuta dei conti, tenuta delle famiglie anche grazie agli ammortizzatori, tenuta del sistema senza scontri sociali. Insomma, il governo ha passato l’«esame» della crisi. Dunque, perché si dovrebbe protestare?
«La patrimoniale? È una sciocchezza, perché in Italia non ci sono grandi patrimoni (in Italia forse no, ma al governo certamente sì, ndr) spiega il ministro Non ha funzionato dopo la guerra, non funzionerebbe oggi che i capitali sono mobili». È i grandi manager? Le stock option? Attacca Camusso. «Prima non pagavano un tubo, ora sì», replica il ministro, dimenticando che a tassarli è stato il secondo governo Prodi. Ma tant’è, l’importante è «battibeccare».

il Fatto 6.5.11
La Cgil della Camusso alla prova dello sciopero generale
La forza politica del segretario dipenderà dall’adesione
di Salvatore Cannavò


Lo sciopero generale di oggi, indetto dalla sola Cgil, costituisce una prima volta per il segretario generale Susanna Camusso. E come tutte le prove di forza, fatta contro il governo ma anche in competizione con gli altri sindacati, costituirà un primo bilancio dei suoi primi sei mesi alla guida della più grande Confederazione italiana.
   LE PAROLE d'ordine dello sciopero sono sintetizzate dalla stessa Cgil in “Meno fisco e più lavoro”, uno slogan semplice, forse non esaustivo dei problemi che il sindacato ha di fronte ma che in ogni caso porterà nelle piazze di 100 città italiane migliaia e migliaia di lavoratori e lavoratrici. Che avranno come fondamentale controparte il governo perché questo è innanzitutto uno sciopero contro il governo Berlusconi che “a trentasei mesi dal suo insediamento, continua nella sua sola e unica operazione di galleggiamento che sta determinando un pericoloso arretramento del paese” come dice la stessa Camus-so che oggi parteciperà alla manifestazione di Napoli.
   Lo sciopero ha, ovviamente, dei punti di forza e di debolezza. Intanto, è uno sciopero che ha ricomposto una parziale unità interna alla confederazione: prima dello scorso febbraio era solo la minoranza della "Cgil che vogliamo" a chiedere la mobilitazione. I malumori della maggioranza, l'impossibilità di un dialogo con Confindustria, Cisl e Uil, ha indotto la Cgil a sbloccare la situazione e a dichiarare lo sciopero. Che sarà di quattro ore ma che viene esteso a otto nelle categorie del Commercio, dell'Edilizia, tra i metalmeccanici, i bancari, scuola e università e nella comunicazione.
   Qui c'è un altro punto di forza: lo sciopero è stato proclamato centralmente su una piattaforma generale ma poi ha incontrato i problemi delle singole categorie: i contratti fermi nel pubblico impiego, le riforme indigeste del ministro Maria-stella Gelmini nella scuola, la situazione disastrosa dei trasporti, il rifiuto del contratto separato, siglato da Cisl e Uil, nel commercio, la crisi dell'edilizia, la difesa del contratto nazionale da parte della Fiom, il disastro del mondo della cultura, dello spettacolo e della comunicazione.
   Visto il numero di categorie che hanno esteso lo sciopero a otto ore è chiaro che la giornata incontra una richiesta "periferica" importante e che in molti casi si tramuterà in un risultato positivo, ad esempio nella scuola pubblica.
   Lo sciopero costituisce anche un pungolo e una pressione nei confronti del Pd a fare un'opposizione sociale e sui contenuti e così anche il segretario Pier Luigi Bersani parteciperà a uno dei cortei di oggi anche se poi farà lo stesso con Cisl e Uil. Come spiega il responsabile economico del partito, Stefano Fassina: “Sosteniamo lo sciopero così come sosterremo la manifestazione del 18 giugno di Cisl e Uil; siamo per l'unità sindacale”.
   POI PERÒ ci sono gli aspetti più problematici. Difficile nascondere, infatti, che con lo sciopero la Cgil punta a “uscire dall'angolo” – anche se la Camusso non ama questa espressione – e ritornare al centro delle relazioni sindaca-li. Un primo segnale si è avuto ieri con la disponibilità della Cgil a firmare la riforma dell'apprendistato varata dal governo, che cerca di facilitare le imprese offrendo ai giovani maggiore formazione e contratti più stabili. “Un fatto rilevante” dice il segretario nazionale Cgil, Fammoni, che però chiede garanzie sulla formazione, sui livelli salariali, la durata minima e la stabilizzazione a fine apprendistato.
   Questa strategia passa per la discussione sul modello contrattuale – la segreteria ha già elaborato un documento – con l'obiettivo di andare a una verifica dell'accordo del 2009 con Cisl, Uil e Confindustria. La Camusso ha già avuto diversi incontri con Emma Marcegaglia disponibile a ricucire con la Cgil ma non a rinunciare ai vantaggi acquisiti finora. Lo sciopero serve anche a recuperare un rapporto paritario ma non sarà facile. Se la conclusione della vertenza Bertone (Fiat), dove le Rsu, comprese quelle Fiom, hanno firmato l'intesa, offre a Susanna Camusso l'appiglio per reimpostare il rapporto unitario a partire dalle nuove regole sulla rappresentanza è anche vero che all'orizzonte restano ancora i nodi scoperti della Fiat e del contratto nazionale dei metalmeccanici oltre ai diversi rapporti che i diversi sindacati hanno con il governo.
   LO SCIOPERO sarà senz'altro misurato in termini di adesione e partecipazione alle manifestazioni. La quantità di piazze in cui è sono state convocate manifestazioni consentirà di dichiarare numeri rilevanti con il solito balletto di cifre. Le aziende diranno che non è successo nulla e lo stesso farà il ministro Renato Brunetta per il pubblico impiego ma alla fine la valutazione sarà empirica, cioè politica. E avrà un peso importante per il futuro della segreteria Camus-so.

l’Unità 6.5.11
La lotta dei precari: «Non siamo più disposti a tutto»
Si fermano anche i precari: in piazza o con forme alternative di astensione dal lavoro. Riuniti in comitati e iniziative, tornano a manifestare le loro condizioni di lavoro nel giorno dello sciopero generale della Cgil

di Giuseppe Vespo

Un diritto negato si può manifestare anche virtualmente: appuntando sulla camicia un logo scaricato sul pc di lavoro o sostituendo alla relazione da presentare ad un convegno, un rapporto sul precariato.
È quello che faranno alcuni archeologi sardi che oggi non potranno partecipare fisicamente allo sciopero generale indetto dalla Cgil: al posto dei risultati delle loro ricerche sul campo, questi precari della storia mostreranno ai colleghi più fortunati cosa vuole dire fare l’archeologo a tempo. Con il sindacato di Corso Italia oggi tornano in piazza i lavoratori più deboli, quelli per i quali lo sciopero non è un diritto: precari, nelle loro mille forme e sfaccettature, riuniti nel comitato «Il nostro tempo è adesso, il futuro non aspetta» o legati alla campagna nata in seno alla Cgil col nome di «Giovani Non più disposti a tutto».
Se potessero incrociarle tutte, il mondo del lavoro si ritroverebbe in un colpo senza otto milioni di braccia. Non sarà così neanche oggi, perché molti dei quattro milioni di precari italiani dovranno continuare a lavorare, schiacciati dalla perenne minaccia che quello firmato per chi ce l’ha potrebbe essere l’ultimo contratto. Così si sono inventati altre forme di protesta, perché non si dica che oltre ai diritti scarseggiano di creatività. Per tutti lo slogan è: “Precari e precarie in sciopero”. «Per dire che ci siamo, per contarci, per manifestare la presenza anche di chi non potrà fisicamente esserci, per raccontare la difficoltà a scioperare del popolo a diritti zero», spiegano in un comunicato.
Saranno in tutte le piazze, in testa ai cortei: a Roma, a Napoli con Susanna Camusso, a Palermo, a Catania. Molti di loro si sono incontrati per la prima volta il 9 aprile, in occasione della prima mobilitazione de «Il nostro tempo è adesso» (www.ilnostrotempoeadesso.it, per scaricare il logo dello sciopero). Manifestano e propongono «che quando si versa oltre il 25% del proprio reddito all’Inps si abbia diritto alla maternità o alla malattia», spiega Salvo Barrano, uno dei portavoce del movimento. «Chiediamo un welfare orientato alla persona, che preveda la continuità di reddito nei momenti di difficoltà, di non lavoro. E pretendiamo che a lavori stabili corrispondano contratti stabili», riprende Barrano riferendosi anche al popolo delle finte partite iva. Perché a 14 anni dal pacchetto Treu, e a otto dalla legge 30, un bilancio è possibile: «Il precariato è un tumore che si sta mangiando il lavoro e quindi l’Italia».

l’Unità 6.5.11
Decreto più elettorale che mai. Non si scrivono cifre, paletti ai trasferimenti
A parole si parla di 67mila stabilizzazioni tra prof e Ata. Ma servirà un altro decreto
Scuola, per le assunzioni non si sa né quanto né quando
Rasserenare prof, bidelli e personale di segreteria delle scuole precari prima delle elezioni con una promessa. Perché questo è per la scuola il contenuto del decreto sviluppo. Numeri solo a parole.
di G.V.


Il piano assunzioni dei precari della scuola annunciato dal governo è predisposto dall'articolo 9 del decreto sviluppo. Il piano, si legge, dovrà «garantire continuità nell'erogazione del servizio scolastico» e «conferire il maggiore possibile grado di certezza nella pianificazione degli organici della scuola» e dovrà essere compatibile «con la stabilità dei conti pubblici». Ma per vararlo definitivamente servirà un «decreto del ministro dell'Istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il ministro dell'Economia e delle finanze e con il ministro per la Pubblica amministrazione e l'innovazione».
Insomma, ieri è stato fatto solo un annuncio fumosissimo perché non è chiaro il quando né il quanto delle eventuali stabilizzazioni, così come spiegato ieri sull’Unità, anche se il segretario della Cisl esulta. Il governo Berlusconi non si sbilancia sulle cifre. A voce si parla di 67mila posti tra prof e personale Ata. Nel decreto si legge che il piano coprirà «gli anni 2011-2013» e verrà fatto «sulla base dei posti vacanti e disponibili in ciascun anno». Comunque dovrà essere «annualmente verificato» dai tre ministeri. Insomma, le cifre si scriveranno anno per anno. Ecco nel dettaglio le misure:
Piano triennale di immissioni in ruolo Il dl prevede un piano triennale per l'assunzione a tempo indeterminato di personale docente, educativo ed Ata, su tutti i posti disponibili e vacanti. Il piano sarà annualmente verificato, ai fini di eventuali rimodulazioni che si dovessero rendere necessarie. Nell'anno scolastico in corso -diconoi posti vacanti sono 67.000, di cui 30.000 insegnanti e 37.000 Ata. Per il prossimo anno scolastico 2011/2012 le immissioni in ruolo saranno determinate sulla base delle graduatorie vigenti (quelle dopo l’inserimento «a pettine» sul piano nazionale in una sola provincia degli aventi diritto) e non come aveva in un primo tempo scritto il Miur su quelle 2010/2011;
Aggiornamento delle graduatorie Dal prossimo anno scolastico 2011/2012 l'aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento è effettuato con cadenza triennale e con possibilità di trasferimento in un'unica provincia. L'aggiornamento triennale anziché biennale delle graduatorie consente di coniugare il diritto alla mobilità con l'esigenza di garanti-
re la continuità didattica e la qualità dell'insegnamento. A decorrere dal prossimo anno scolastico 2011/2012 è previsto che i nuovi docenti immessi in ruolo possano chiedere il trasferimento dopo cinque anni anziché dopo tre anni;
Proroga del salva-precari Viene prorogara la legge salva-precari.
Fondo per il merito Costituito il Fondo per il Merito, come fondazione pubblico-privata in cui far affluire fondi pubblici e capitali privati per erogare prestiti di onore agli universitari che, nei casi di eccellenza, si trasformano in vere e proprie borse di studio.
Categorico il Pd: «Solo chiacchiere e distintivo. Come annuncia lo stesso ministro Gelmini, non c'è nessuna certezza e nessuna cifra».

il Fatto 6.5.11
Medici Senza Frontiere
“L’Italia non rispetta i diritti dei migranti”
di Valeria Gandus


   La denuncia viene da chi di soccorsi umanitari se ne intende: Medici senza frontiere, l’organizzazione umanitaria da decenni in prima linea su fronti di guerra, catastrofi ed emergenze umanitarie in ogni parte del mondo. In una lettera aperta indirizzata alle autorità italiane, Msf chiede ufficialmente che vengano migliorate le condizioni per i migranti, i rifugiati, i richiedenti asilo che da dicembre approdano sulle coste italiane, in massima parte a Lampedusa, in fuga dagli scontri e dalle violenze che infiammano il Nordafrica. “Le condizioni in cui vengono accolti i rifugiati e i migranti sono inadeguate e non rispettano gli standard minimi di accoglienza stabiliti per le persone vulnerabili che si trovano ad affrontare nuove situazioni di incertezza e sofferenza” è scritto nel documento di Msf. Tra il 14 febbraio e il 21 aprile 2011 Msf è stata presente con sue équipe a Lampedusa, dove ha effettuato 765 visite per migranti e rifugiati fornendo loro 4.500 kit igienici e di beni di prima necessità. Ma, come è scritto nella lettera al governo italiano, “i migranti arrivati a Lampedusa hanno dei bisogni che vanno oltre l’assistenza medica e la distribuzione di generi di prima necessità. Ed è responsabilità dello Stato italiano assicurare delle condizioni di accoglienza adeguate, fornire informazioni nonché l’accesso a procedure legali e di protezione”. La direttiva del Consiglio europeo stabilisce norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo (2003/9/Ce) e afferma esplicitamente che “l’accoglienza di gruppi aventi particolari esigenze dovrebbe essere configurata specificamente per rispondere a tali esigenze”. I richiedenti asilo necessitano di un trattamento prioritario. “Molti sono stati vittime dirette delle violenze e della guerra in Nord Africa oppure ne sono stati testimoni diretti. Alcune persone ci hanno raccontato di essere state vittime di abusi sessuali e di torture, nel Paese di origine o negli altri Paesi nei quali erano fuggite per sopravvivere e cercare rifugio. Dal giorno in cui hanno lasciato il loro Paese all’arrivo in Italia, molte di queste persone hanno vissuto privazioni e sofferenze estreme”.
   LO CONFERMANO le numerose testimonianze raccolte da Msf: “Ho cercato per due volte di venire in Italia. La prima nell’agosto 2009: la nostra barca era già al largo quando una nave libica ci ha riportati indietro. Per questa ragione sono stato quasi un mese in un carcere vicino l’aeroporto di Tripoli. Le condizioni erano durissime. Eravamo 65 persone in una stanza rettangolare di 5 metri per 8. Ci davano tre pasti al giorno, a base di tè, riso e pane. Non ci davano acqua e così eravamo costretti a bere nei due bagni, utilizzati da 65 persone”, ha raccontato un ventenne somalo intervistato nel centro di Pian Del Lago (Caltanissetta). “Ho trascorso 8 mesi nel centro di detenzione di Zliten (Libia). Ci hanno rinchiuso in una stanza senza finestre. È stato orribile. Eravamo 13 donne in una stanza. Lì dormivamo, andavamo al bagno, prendevamo l’acqua, facevamo il bucato e stendevamo i panni. Noi stavamo sdraiate per terra e le guardie ci picchiavano con dei bastoni di plastica”, è la testimonianza di un’eritrea di 22 anni, rinchiusa nel centro di Mineo (Catania). Ma anche una volta scampati a quell’orrore e giunti in Italia, i rifugiati non hanno avuto vita facile. Molte donne sole hanno raccontato a MSF che nei centri di accoglienza non c’è una vera e propria separazione dagli uomini e che temevano quindi di essere abusate, nonostante la massiccia presenza delle forze di polizia. “Non possiamo mai rilassarci, abbiamo paura degli uomini che entrano nella nostra stanza. Non ci cambiamo i vestiti; non osiamo spogliarci perché gli uomini sono qui fuori e ci guardano attraverso le finestre”, è il racconto di una trentacinquenne tunisina del suo passaggio dal centro di Lampedusa. Msf ha anche visto bambini e minori non accompagna-ti tenuti in centri chiusi a Lampedusa , per la mancanza di strutture adatte a ospitarli. La conclusione del documento è lapidaria: “Dal gennaio 2011 a oggi sono sbarcate nel sud dell’Italia 27.000 persone, e indubbiamente nei prossimi mesi se ne aggiungeranno altre, in fuga dal Nord Africa per sottrarsi alla violenza. È ora che l’Italia si assuma le proprie responsabilità”.

il Fatto 6.5.11
Tesoro. Arriva il sedicente “Decreto sviluppo”
Puniscono chi controlla troppo gli evasori fiscali
Misure a costo (e impatto) zero, Tremonti sogna la crescita frenando l’Agenzia delle entrate e regalando le spiagge ai privati
di Stefano Feltri


La politica economica il governo ormai la fa così: convoca una conferenza stampa per presentare un decreto il cui testo non è consultabile, perché bisogna ancora finirlo di scrivere e serve il via libera del Quirinale. Dentro ci sono delle misure a costo zero (cioè che non muovono soldi) e forse a impatto zero, visto che nessuno, anche al ministero del Tesoro, sa prevedere quale effetto avranno sull’economia. Però, garantisce il ministro Giulio Tremonti, “dentro c’è di tutto, è davvero corposo”.
   In attesa di leggerne il testo, alcune cose sono già però chiare. Il governo pensa che dalla crisi si esca lasciando mano libera alle imprese: l’Agenzia delle entrate – assicura Tre-monti – sanzionerà i finanzieri che vessano gli imprenditori con troppi controlli, è in arrivo una circolare ufficiale dell’Agenzia. Intanto il direttore Attilio Befera, tremontiano di ferro, scrive ai dipendenti intimando loro di non esagerare: “Se il contribuente ha dato prova sostanziale di buona fede e di lealtà nel suo rapporto con il Fisco, ripagarlo con la moneta dell’accanimento formalistico significa venire meno a un obbligo morale di reciprocità, ed essere perciò gravemente scorretti nei suoi confronti”. E visto che anche l’occhio vuole la sua parte, “la Guardia di finanza non farà più ispezioni in divisa”, promette Tremonti. E pazienza se ci sono 120 miliardi di evasione fiscale, siamo in campagna elettorale e bisogna pur dare qualche segnale agli imprenditori che si sono rassegnati a non vedere in tempi brevi una riduzione delle tasse (lo ha ribadito anche Silvio Berlusconi, due giorni fa).
   Il resto del “decreto sviluppo”, sempre per quel che se ne conosce, è una lunga lista di misure un po’ vaghe, ma che già allarmano molti. Come quella sulle spiagge: “Chi vuole – dice Tremonti – chiederà il diritto di superficie e durerà 90 anni. Il diritto sarà a pagamento e noi pensiamo che sarà pagato molto bene. Gli imprenditori però devono essere in regola con il fisco, con la previdenza e pensiamo che debbano assumere giovani”. I canoni sono già stati alzati e la proprietà resta pubblica, assicura Tremonti, ma poco importa questo, visto che il diritto di superficie secondo il codice civile consente di poter costruire e sfruttare il terreno anche se non se ne ha la proprietà (che è dello Stato). E il tempo per il quale si può sfruttare sarà di 90 anni, così da dare a chi fa consistenti investimenti immobiliari su una spiaggia un tempo notevole per trarne profitto. Ma anche in questo caso, come per le altre misure del decreto sviluppo, non è ben chiaro quanto ci guadagni lo Stato visto che nessuna delle misure è stata “cifrata”, come dice Tremonti. Anche le spiagge dovrebbero poi rientrare nelle “zone a burocrazia zero”, paradisi dell’imprenditoria con formalità da espletare ridotte al minimo. Annunci – non nuovi – che non hanno mai sedotto Confindustria, da sempre convinta che senza una riforma strutturale della Pubblica amministrazione la burocrazia che esce dalla porta rientra dalla finestra.
   Visto che di soldi pubblici non se ne possono spendere – ma Tremonti giura che la manovra finanziaria che a molti sembra inevitabile non arriverà a giugno – il governo spera che la crescita la producano i privati. Unici interventi diretti: credito di imposta per chi assume a tempo indeterminato al Sud e per le piccole e medie imprese che avviano progetti di ricerca con università del territorio. Rispunta anche il “piano casa”, ormai un flop di legislatura, l’aumento delle cubature delle abitazioni che non si materializzerà mai perché le regole che fissa il governo sono incompatibili con quelle delle Regioni che lo devono applicare. È abbastanza per rassicurare gli industriali, che sono così delusi dal governo da aver organizzato il convegno di Confindustria di domani a porte chiuse perché non volevano neanche incontrare i ministri? A questa domanda Tremonti preferisce non rispondere. Di certo la Cgil è soddisfatta per il piano triennale di assunzioni (65 mila circa, ma il governo non vuole dare cifre precise) di precari della scuola. Non una misura di liberalità, ma un tentativo di evitare i maxi-risarcimenti che incassa chi fa causa allo Stato per essere messo in regola. Meno contenti i comitati promotori dei referendum di giugno: l’annuncio della nascita di una (pur necessaria) autorità di settore per l’acqua è un nuovo tentativo del governo di dissuadere gli elettori dall’andare alle urne il 12 e 13 giugno.

La Stampa 6.5.11
Napolitano aiuta Hillary nei rapporti con Israele
In occasione del prossimo viaggio del presidente a Gerusalemme
di Antonella Rampino


Se il diavolo sta nei dettagli, il diavolo delle relazioni internazionali è un cappello. O almeno, così la pensava Bismarck per il quale la politica estera era solo «politica fatta con il cappello». E così devono aver pensato anche i Padri Costituenti, che hanno messo in capo al Presidente della Repubblica un ruolo di rappresentanza, ma anche di ulteriore verifica della coerenza con la quale la nazione nostra si rappresenta e relaziona col mondo. Così han fatto tutti i nostri presidenti della Repubblica. Ma forse, Giorgio Napolitano di più. La sfilza di eventi recenti della protezione elargita dal Colle più alto è impressionante, fosse solo come mole di lavoro. La prossima tappa sarà Gerusalemme, dove è in atto una complessa partita: se Hamas non riconosce Israele e pronuncia la rinuncia al terrorismo va a carte e quarantotto ogni possibilità che, nascendo dalla coalizione con Fatah uno Stato palestinese, si dia una soluzione al conflitto. E’ il tema che è stato ieri al centro della visita di Hillary Clinton al Quirinale: Napolitano, con Frattini, è il primo ad affrontare la questione sul terreno. Ma intanto c’è da elencare il lavoro svolto solo negli ultimi due mesi. Volo a Ginevra e discorso presso l’agenzia dell’Onu per i diritti umani quando l’Occidente ancora tentennava su Gheddafi criminale contro il suo stesso popolo; blitz a Berlino presso la Cancelliera Merkel in favore di Mario Draghi; costante e pervasiva istruzione della pratica libica, e da ben prima della famosa riunione del Consiglio di Difesa nel quale Napolitano fece mettere per iscritto la «partecipazione attiva dell’Italia», vincolando un governo che si sa essere piuttosto «creativo» anche in politica estera alle decisioni prese da Onu, Ue, Nato. E il lavoro inquieto e anche arruffato del Parlamento, ostaggio di una politica decisamente senza cappello, seguito come un’ombra suadente. Per non dire delle telefonate, dei contatti, dei protagonisti studiati da vicino e da lontano, perfino l’erede del re di Libia, perfino l’ambasciatore ex gheddafiano che si presenta in una celebrazione napoletanesca all’Onu a sorpresa, che perora la sua causa, che insiste «l’Italia intervenga, non se ne stia immobile come la Germania mentre ci ammazzano...». E sempre con il Ministro degli Esteri affianco, quel Franco Frattini col quale il rapporto è saldo e di piena consuetudine. Sostanza, e sostanza recente. Non certo dettagli.
Poi qualche volta i dettagli scivolano nelle polemiche. Silvio Berlusconi, per esempio, ha sofferto a lungo di solitudine americana: Obama invitava Napolitano ma non lui, per quanto poi oggetto di pacche sulla spalla e ringraziamenti a scena aperta nei vertici Nato «perché i carabinieri italiani sul terreno fanno la differenza». Ma un presidente del Consiglio meno narcisista, non si stupirebbe affatto. Obama sostiene che Napolitano è semplicemente «leggendario». Che è «la guida morale dell’Italia». E saranno dettagli da «politica col cappello» più che da foreign relation che Napolitano a New York scenda nella stessa suite dello stesso albergo - che già ha un’ala dedicata a Madeleine Albright - nel quale vanno i presidenti degli Stati Uniti quando sono a Manhattan, e che lì riceva prima la telefonata di benvenuto del presidente degli Stati Uniti in carica, e poi a colloquio Henry Kissinger. Quello stesso Henry Kissinger che solo nel 1978, proprio quando in Italia il Pci era nella maggioranza di governo e alla Casa Bianca c’era Carter, consentì a Napolitano il visto che gli aveva negato tre anni prima. Per tenere conferenze ad Harvard, a Yale, a Princeton, con tanto di forum a porte chiuse sull’Italia a «Time Magazine».
Fu il primo comunista in America, sin da quegli anni, e sin da quegli anni tra i più sinceri europeisti. La «special relationship» con gli Usa, studiati da ministro degli esteri di Botteghe Oscure (e anche da «ministro ombra», in un paese nel quale, come diceva Andreotti, «non si riesce a spostare nemmeno un foglio di carta senza il loro via libera») è culminata nello strepitoso omaggio - sottovalutato dai giornali italiani che gli ha tributato Barack Obama. Quando ha istituito una nuova festa americana proclamando il 17 marzo «giorno di celebrazione dell’Unità d’Italia», e con un discorso di profondi sentimenti per il Risorgimento italiano e i suoi combattenti. Dunque, che ieri Hillary Clinton abbia detto al Presidente, nella sua visita, «Joe Biden verrà da lei il 2 giugno, per festeggiare l’Italia che compie centocinquant’anni», è solo uno dei molti dettagli.

Corriere della Sera 6.5.11
Nascondono le armi, poi fanno il cous-cous e la Costituzione

La battaglia delle donne «ribelli»
di Giusi Fasano


DAL NOSTRO INVIATO BENGASI — Donne. Figlie della Libia semilibera che osano sperare, partecipare, uscire allo scoperto. C’è l’avvocatessa che sogna di occuparsi di leggi costituzionali, la pediatra che parla agli adulti feriti come fa con i bambini, la casalinga che ha piantato lì marito e figli maschi da più di due mesi: «Io vado a cucinare per i ribelli, arrangiatevi» . E poi studentesse, volontarie, consigliere, giornaliste. Oppure madri, semplicemente. Come Fatima Gargum che ogni volta sgrida Ahmed, Mustafa e Osama, i suoi tre figli: «Che fate ancora qui? È tardi, avanti, andate a combattere» . E loro ripartono per la linea del fronte di Ras Lanuf, duecento chilometri verso ovest, sulla via che porta a Tripoli. AMisurata la settimana scorsa si vedevano poche donne, tutte incinte. I soldati del governo si sono insospettiti e ne hanno accompagnato alcune all’ospedale. Nel pan- cione c’erano armi per i ribelli, il solo modo di fargliene arrivare dopo l’assedio e i bombardamenti sul porto. Donne coraggiose, germogli di una rivoluzione anche femminile in un Paese che ignora gran parte dei loro diritti. Lo sa bene Salwa Fawzi El Deghali, l’unica donna del Consiglio nazionale di transizione. «Mi impegno con tutto il cuore a rappresentare la parte femminile di questo Paese» promette con sincerità. Una sorta di ministro delle pari opportunità, in sostanza. Ma il problema è sotto gli occhi di tutti: la strada è lunga e ripida e al momento non c’è nessun progetto definito. Prima la caduta del regime, il congresso nazionale, il referendum per la Costituzione, le elezioni parlamentari, quelle presidenziali… «C’è molto da fare, è vero, ma ce la faremo» è convinta Lina Shembesh, 27 anni e un inglese perfetto studiato da autodidatta. È una delle ragazze che si occupa di rapporti con gli stranieri, soprattutto con la stampa internazionale. Lavora alla Court House, il quartier generale dei rivoltosi, e il punto di riferimento per chiunque arrivi a Bengasi. «Vedrete, voi donne dell’Occidente…» scommette Lina «presto vi raggiungeremo» . Fra le consulenti del Consiglio dei ribelli ci sono due sorelle, Salwa e Iman Bugaghis, la prima avvocatessa, la seconda medico-dentista. Salwa vive di pane e affari costituzionali. Se la Libia avrà la sua Costituzione di sicuro una parte del merito sarà anche di questa bionda infaticabile e lei, esperta anche del diritto alla libertà di stampa, passa tutti i suoi giorni a lavorare ai testi della leggi che verranno, quelle per il suo nuovo Paese. Iman invece si occupa di società civile, giovani, lavoro, problemi femminili. «A dire il vero noi non abbiamo problemi» taglia corto Rahama Massuda, donnona alle prese con una pentola grande quanto lei. «Facciamo quello che le donne hanno sempre fatto, solo un po’ più in grande» . Lo dice girando con un cucchiaio enorme decine di chili di cous-cous che saranno distribuiti ai ribelli, al fronte. Lei, Salma, Salah, Fadela, Njea… sono le vivandiere della rivoluzione. In un vecchio ristorante della periferia ovest di Bengasi, hanno messo in piedi una gigantesca cucina da campo: preparano fra le 10 e le 12 mila porzioni al giorno di cibo che gli aiutanti (uomini) impacchettano in vaschette di allumino e portano ai militari sul fronte, ai ragazzi di guardia ai check-point, alle famiglie in difficoltà, ai campi militari di addestramento. «Prima della guerra» dice Rahama «ogni volta che mio figlio usciva stavo in pensiero, non dormivo se non lo sentivo rientrare. Dirò una cosa che una madre forse non dovrebbe dire: adesso che lui è al fronte sono meno preoccupata. Se morisse combattendo capirei, me ne farei una ragione. Almeno morirebbe per una causa giusta» . Per la dottoressa Amina Beayou non esiste una causa giusta per morire. È una pediatra. «I bambini arrivati da Misurata non erano più bambini» , dice. «Non si può rimanere piccoli davanti a simili atrocità» . Di bimbi, negli ospedali di Bengasi, adesso non ce ne sono. Così lei fa ogni giorno il giro dei feriti adulti. Gente mutilata dalle bombe, per lo più. Si informa sulle condizioni cliniche, parla con dolcezza, a bassa voce, con il tono di chi sta raccontando una favola, come fa con i suoi piccoli pazienti. Lei stessa è un personaggio di questa favola libica, ma per adesso nessuno può sapere se c’è un lieto fine.

La Stampa 6.5.11
Le vite degli altri a Pechino
Istituiti nuovi controlli su Internet mentre la tv vieta i film di spionaggio e crimine
di Ilaria Maria Sala


I divieti Un cinema di Pechino che proietta un film di 007 Alla televisione cinese sono stati vietati anche i film che hanno per argomento i viaggi nel tempo e altri temi fantastici mitologici o mistici
IL GRANDE FRATELLO Si parla di formare un database con i dati personali, medici e fiscali di 1,34 miliardi di cinesi

Istituzione di un nuovo ufficio per coordinare i controlli di Internet, proibizione di teletrasmettere film che includono immaginari viaggi nel tempo, ma anche quelli di spionaggio e di crimine, e l’ex ministro della Pubblica Sicurezza, Zhou Yongkang, membro del Politburo del partito comunista cinese, che propone un database nazionale che assembli tutte le informazioni di ogni individuo, per meglio «amministrare la società». Di questi tempi, in Cina, proibizioni e controlli sembrano andare particolarmente di moda.
Per quanto riguarda Internet, l’annuncio dato mercoledì non è dei più chiari: viene notificato che è stato affidato ad una nuova agenzia centralizzata il compito di regolare in tutta la sua interezza quanto avviene sul Web nel Paese, ma non specifica se questa nuova agenzia, che si chiamerà Ufficio statale per le informazioni su Internet, sostituirà i vasti apparati di controllo della Rete già esistenti. E’ stato però specificato, in un comunicato, che il nuovo Ufficio «dirigerà lo sviluppo delle industrie online di videogiochi, pubblicazione e video», e si occuperà anche della diffusione della propaganda governativa su Internet — nonché avere il compito di «investigare e punire i siti Web che violano le leggi e i regolamenti». Inoltre, sarà incaricato di supervisionare gli Internet provider per «migliorare l’amministrazione della registrazione dei nomi di dominio, la distribuzione di indirizzi IP, la registrazione di siti Web e dell’accesso a Internet». Insomma, controllerà tutto.
Appena tre giorni prima la rivista teorica del Partito comunista cinese, «Qiushi», o «Ricerca della verità», ha pubblicato un articolo scritto da Zhou Yongkang, l’ex-ministro della Pubblica Sicurezza ed attuale membro del Politburo, dove viene avanzata la proposta di costruire una database dove ognuno dei 1,34 miliardi di cinesi siano schedati in modo completo, creando una sorta di supercarta d’identità in cui sarebbero anche registrati i dati riguardanti il livello di istruzione, il curriculum lavorativo e quello fiscale. A queste informazioni andrebbe aggiunto anche il luogo di residenza delle persone, gli eventuali immobili e autoveicoli posseduti, e la storia medica di ognuno. Questo, scrive Zhou, aiuterebbe i comitati di quartiere a imporre la «stabilità sociale», e sarebbe dunque un fattore supplementare alla ricerca di quella che è oggi chiamata «l’amministrazione della società» (per utilizzare il termine favorito dalle autorità, che non amano parlare esplicitamente di «controllo»).
E se in questa atmosfera di controlli, istituiti e auspicati, un cittadino decidesse di staccare per un momento e rilassarsi guardando la televisione, la sua possibilità di scelta tra gli intrattenimenti disponibili è un po’ più ristretta di prima: nelle ultime settimane infatti sono stati tolti dai palinsesti televisivi diverse programmazioni che, pure, godevano di un certo riscontro fra il pubblico.
Dunque, in un comunicato pubblicato dall’Amministrazione statale per la radio, i film e la televisione, viene annunciato che i telefilm non possono presentare: «Temi di fantasia, viaggi nel tempo, storie mitologiche compilate in maniera casuale, trame strane o tecniche assurde, né propagare superstizioni feudali, fatalismo, reincarnazione, lezioni morali ambigue, e una mancanza di pensiero positivo». Gli spettatori cinesi non sono del tutto nuovi a questo tipo di proibizioni, dato che da anni c’è la regola che proibisce la produzione di storie di fantasmi e vampiri in Cina (per quanto ogni tanto qualcuno che riesca ad aggirare la legge si trova), ma l’annuncio copre stavolta un’area molto più ampia.
Come se non bastasse, negli ultimi giorni da qualcuno è stato stabilito che anche così, la televisione avrebbe potuto mostrare più del necessario, ed ecco dunque arrivare nuove proibizioni contro i telefilm, stavolta quelli che hanno per argomenti spionaggio o criminalità. La proibizione sembra essere temporanea ma di effetto immediata: da ora alla fine di luglio, infatti, le televisioni hanno dovuto modificare i palinsesti per eliminare ogni tipo di proiezione che avesse questi temi, considerati non sufficientemente edificanti dalle autorità.

Repubblica 6.5.11
Le tre violazioni americane
di Antonio Cassese


Mi duole dirlo perché, come molti lettori di Repubblica, ritengo che gli Stati Uniti siano una grande democrazia dotata di alcune ottime istituzioni e che molti politici e intellettuali statunitensi abbiano tanto da insegnarci, a noi europei. Mi duole dirlo, ma l´uccisione di Bin Laden ha costituito una seria violazione di almeno due di tre principi etico-giuridici fondamentali.
Anzitutto, informazioni iniziali intorno a un suo "corriere" sono state acquisite attraverso la tortura, autorizzata ufficialmente e mai condannata, neanche ai più alti vertici degli Usa. La norma che vieta la tortura e non la giustifica mai, dico mai, è diventata un "principio costituzionale" della comunità internazionale, e a nessuno dovrebbe essere consentito di infrangerla senza essere debitamente processato e punito. Stranamente Panetta, l´attuale capo della Cia e prossimo Segretario alla Difesa, nel 2008 condannò la tortura osservando che non può essere giustificata da ragioni di sicurezza nazionale. Poi nel febbraio 2009, davanti al Senato, affermò che l´annegamento simulato (waterboarding) era sì illegale ma, se egli fosse stato nominato capo della Cia, non avrebbe punito coloro che lo avessero commesso. Stupefacente! La tortura rimane illegittima anche nei casi in cui essa consente di ottenere utili informazioni. Chi ha torturato va punito anche in questi casi, per riaffermare il valore supremo di quel divieto.
La seconda violazione è consistita nel compiere una operazione militare in territorio pakistano senza il consenso di quello Stato. In una parola, è stata violata la sovranità del Pakistan. Ma qui Obama può invocare importanti esimenti. Islamabad aveva l´obbligo nei confronti di tutta la comunità internazionale di reprimere il terrorismo e non lo ha fatto. Questo obbligo era rafforzato da quello assunto bilateralmente nei confronti degli Usa di ricercare e arrestare Bin Laden, obbligo che aveva come "corrispettivo" la consegna statunitense al Pakistan di un miliardo di dollari l´anno. Nell´omettere platealmente e per molti anni di adempiere quell´obbligo il Pakistan ha in un certo senso legittimato una "azione sostitutiva". Il raid statunitense può essere equiparato, per certi aspetti, a quelle operazioni di salvataggio dei propri cittadini, tipo Congo (intervento dei belgi nel 1960) o Entebbe (intervento israeliano nel 1976), che sono state ritenute legittime in passato.
La terza violazione è quella di un principio fondamentale di civiltà giuridica. Uno Stato democratico non può trasformarsi in assassino, tranne che in due casi. Anzitutto nell´ipotesi di violenza bellica in atto. Ma tra gli Usa e Al Qaeda non c´è guerra, né internazionale né civile; l´azione statunitense contro le reti terroristiche di Al Qaeda è solo azione di polizia che, se intende dispiegarsi a livello internazionale, ha bisogno della cooperazione delle forze dell´ordine degli altri Stati, gli Usa non essendo un gendarme planetario. Del resto, anche in una guerra internazionale il nemico può essere ucciso solo in campo di battaglia, non a casa sua, tranne che si difenda con le armi, sparando e uccidendo; se sorpreso inerme nella sua dimora, va catturato e, se autore di crimini di guerra, processato. L´altro caso in cui lo Stato può uccidere legalmente è quando deve far eseguire con la forza ordini legittimi contro persone che deliberatamente si sottraggono all´arresto (ad esempio, si può uccidere un rapinatore che tenta di scappare sparando contro i poliziotti che cercano di catturarlo). Se uno Stato accusa uno straniero di crimini gravissimi, lo arresta (o la fa arrestare all´estero dalle autorità del luogo) e lo processa. Nel caso di Bin Laden tutto lascia pensare che l´ordine fosse di ucciderlo: era disarmato; ha opposto qualche resistenza facilmente superabile da uomini armati fino ai denti. Qui i principi etico-giuridici sono chiari. Averli trasgrediti è grave. Mettetevi però nei panni di Obama: egli sapeva che un processo, davanti a un tribunale statunitense o internazionale, sarebbe durato per lo meno due anni (fra istruttoria, dibattimento e sentenza), con Bin Laden detenuto. Obama deve aver pensato agli innumerevoli atti terroristici che Al Qaeda avrebbe scatenato nel mondo, durante il processo. E poi: dove detenere Bin Laden, a Guantánamo, che si cerca di chiudere al più presto possibile, o in un carcere in territorio statunitense, dove nessuna delle autorità statali lo prenderebbe, per ragioni di ordine pubblico? E come evitare che Bin Laden trasformasse l´aula giudiziaria in una tribuna politica, come hanno fatto Milosevic e Karadzic all´Aja? Un processo avrebbe anche portato alla luce le collusioni della Cia con Bin Laden ai tempi dell´invasione russa dell´Afghanistan, nonché gli ambigui rapporti della Cia con l´ex capo dei servizi segreti sudanesi, Sala Gosh, per un tempo protettore di Bin Laden in Sudan. Si sarebbe trattato inoltre di un processo nel quale la presunzione di innocenza di cui avrebbe dovuto godere l´accusato sarebbe stata minima e lo sbocco finale scontato. Obama ha così optato per l´opportunità politica contro valori morali e giuridici. Il che non giustifica affatto la sua decisione, ma permette di comprenderne le motivazioni. Resta il fatto che ancora una volta la Realpolitik ha battuto l´etica ed il diritto.
Il blitz ad Abbottabad solleva un problema più generale. Negli Usa, le autorità di polizia non procederebbero mai alla tortura, perché è vietata, e inoltre ogni prova ottenuta con quei metodi non avrebbe alcun valore in un processo. Inoltre l´uso di armi letali da parte delle forze dell´ordine è strettamente regolato, e lo "stato di diritto" esige che non si possano commettere "esecuzioni extragiudiziali". Tutte queste protezioni valgono per cittadini statunitensi o per gli stranieri che abbiano commesso un reato contro un cittadino Usa. Ma dal 2011 gli Usa hanno creato un limbo sia giuridico sia territoriale (Guantánamo) per presunti terroristi stranieri, tra l´altro ammettendo la tortura. Ed ora di fatto ammettono anche le "esecuzioni extragiudiziali" con blitz all´estero. Bisogna dunque chiedersi se gli Usa ritengano che la "supremazia del diritto" valga solo al loro interno, mentre perde ogni valore nel campo delle relazioni internazionali. Se così fosse, dovremmo seriamente preoccuparci per le prossime mosse della Superpotenza planetaria, oggi ancora guidata da un uomo che, almeno a parole, dice di credere nel diritto e nella giustizia.

Repubblica 6.5.11
Eugenio Scalfari
La potenza di Eros tra istinti e ragione
Nel suo nuovo libro "Scuote l´anima mia Eros" lo scrittore e giornalista riflette su desiderio e condizione umana
di Antonio Gnoli


Una meditazione filosofica e letteraria, dedicata a Calvino, che si intreccia continuamente con i ricordi e l´esperienza personale
La malinconia ha un posto d´onore e attraverso di essa si traccia un bilancio di vita
Siamo come dei centauri in bilico tra la parte animale e quella razionale
Il compito della poesia è quello di allontanarci dalla malattia del potere

Sono anni che Eugenio Scalfari intreccia la riflessione filosofica e letteraria con il proprio privato, o meglio con quella parte della memoria che evoca personaggi che hanno attraversato la sua lunga vita, e letture che hanno accompagnato la sua formazione. È un legame tra due mondi che rendono viva la materia trattata, alleggerendola da quei tratti specialistici che sovente affliggono la nostra saggistica.
Scuote l´anima mia Eros (il titolo del nuovo libro richiama un verso di Saffo) si apre con una significativa dedica a Italo Calvino, che è l´occasione per delineare due caratteri, due anime, due posture. Come se Calvino sia davvero l´alter ego che gli fa scrivere: «Io sono stato, a differenza di lui, un mercuriale che sognava di essere un saturnino». E la malinconia – anche se non esibita – ha qui un posto d´onore, quasi a voler attraverso essa stilare un bilancio che non è solo intellettuale ma di vita. In fondo, non è forse Eros il dio (dalle incerte origini) che racchiude in sé la parte mentale e insieme istintiva? La psiche e il bios? La natura delle nostre pulsioni desideranti e la necessità di imbrigliarle, governarle, disciplinarle? Non è dalla fusione dei due momenti che si realizza quella conoscenza suprema alla quale fin dall´inizio di questa avventura ha pensato Platone? Dopo di lui, Eros ha assunto vari volti, ma è grazie a Freud che diventa il motore delle nostre pulsioni più segrete. In seguito, Bataille e Marcuse ne esaltano la funzione liberatoria dalla Civiltà. Quanto a Roland Barthes – che pratica una scrittura autobiografica – riconduce Eros al suo valore impolitico. Come si vede è il Novecento a imprimere al "discorso amoroso" (e andrebbero citati anche i nomi di Simone Weil e Hannah Arendt) una varietà di letture che Scalfari lascia sullo sfondo della propria riflessione.
Nella radicalità del suo sguardo egli privilegia le questioni che ruotano attorno al costituirsi dell´individuo o meglio, come egli usa ripetere, di quell´Io la cui complessità, nel nesso tra mente e psiche va indagata all´origine. Siamo come dei centauri – ci avverte – il cui equilibrio precario tra la parte animalesca (il dominio degli istinti) e quella più propriamente umana (sorretta dalla ragione) può sempre rompersi. Resterebbe da indagare se quegli "istinti" sono pura connotazione animale e appartengano a quel selvaggio irrazionale che è in noi o, viceversa, quell´area che ribolle – come anche la psicoanalisi ha suggerito – non sia già carica di simbolico, non sia già pregna di una lingua altra che è già un "voler dire".
Nella visione antropologica di Scalfari, arricchita dai continui rimandi al mito, quale ruolo dunque svolge Eros, signore degli istinti? Il dio dell´amore è anche colui che infonde il desiderio di sopravvivenza. Quell´istinto, che nei momenti peggiori ci ha salvati dalla catastrofe definitiva, è l´amore per gli altri: una tensione che alberga in ciascuno di noi e che contende all´egoismo lo spazio psichico. In questa prospettiva si comprende l´attenzione dell´autore nei riguardi dei Vangeli e della predicazione di Gesù, come pure più trasparente e solida diventa, in alcune pagine, la presenza del Cardinal Martini. Non un puro confronto teologico, ma un´esperienza umanissima tra due figure che, pur partendo da versanti opposti, condividono nel dialogo la volontà di capirsi.
Rispetto a Per l´alto mare aperto (il libro che precede questo), dove la modernità era genealogicamente indagata nei quattro secoli in cui essa nasce, trionfa e declina, Scuote l´anima mia Eros si incammina su un percorso più dolente e intimo, quasi che il "discorso amoroso" dialoghi con la propria ombra, con la finitezza destinata alla morte. E questa ci appare essere il vero centro segreto del libro, la cifra che marca il viaggio, che lo spiega e lo ricomprende in una singolare tensione poetica. Tensione che Scalfari registra con il passar degli anni, quando più imperioso si fa il suo bisogno di poesia: «Non ho mai composto versi e non credo che mai ne scriverò, ma la poesia come tempo sospeso, come tempo perduto e ritrovato, come rapimento melanconico è diventata per me il solo modo di accarezzare me stesso. Di consolarmi di esistere».
Il compito della poesia è anche quello di allontanarci dalla malattia del potere (dalle sue patologie) e di metterci in contatto con le forze dell´ignoto. Il tempo dei poeti è un tempo segreto e fragilissimo. Sembra questa l´implicita conclusione alla quale l´autore giunge. E vi approda attraverso i versi di García Lorca. Poeta facile, e sovraesposto, qui ribadito per la forza che vi riveste Eros, ma soprattutto per la trascinante malinconia che genera il presentimento della morte. Che in Lorca fu un´ossessione. E in Scalfari l´orizzonte che tutto ricomprende. È questa la sola certezza inscalfibile: la morte spiega la vita e non viceversa. Scalfari ammira Montaigne, si lascia attrarre da Nietzsche, e alle spiegazioni "sotterranee" di Freud e può dunque affermare, in linea con il loro pensiero, di non credere «alla verità definitiva e al senso ultimo delle cose». Ci ritroviamo così nel cuore di una possibile disputa che, nel corso del Moderno, ha dato i frutti intellettualmente più tragici e interessanti. È a questa modernità, ormai esaurita, che le apprensioni di Scalfari si rivolgono, nella lacerante consapevolezza che ogni viaggio, per quanto lungo, volge sempre alla fine.

Repubblica 6.5.11
L´anticipazione/ Un brano tratto dalla prima parte del nuovo libro del fondatore di "Repubblica"
La storia di un viaggiatore nella caverna di psiche
Il lascito della modernità è rimasto incompiuto perché ha aperto una strada che porta a una terra incognita
di Eugenio Scalfari


La caverna degli istinti: è così che penso di chiamare la regione dell´inconscio dove gli istinti si agitano senza che il nostro io, cioè la nostra coscienza, sia consapevole del come e del perché: una caverna, un luogo oscuro dove affondano le radici della nostra natura.
La coscienza non ignora l´esistenza degli istinti e del resto tutte le lingue, non solo le moderne ma le antiche e le antichissime di tutto il pianeta conoscono e pronunciano quella parola e la mente ne pensa il concetto. Lo pensa, sa quanto gli istinti determinano la volontà, intuisce la loro sotterranea e continua tessitura dalla quale emerge la figura che chiamiamo Psiche.
Anche la Mente è una figura pensata e immaginata. Psiche regna nella caverna oscura dell´inconscio, la mente nel mondo luminoso della razionalità. Ma le radici della mente scendono fino alla caverna degli istinti e questi a loro volta pervadono ogni cellula del nostro organismo corporale, viaggiano sui fasci nervosi, arrivano con la velocità della luce alle mappe neuronali del tessuto cerebrale. La dialettica tra la natura dionisiaca e quella apollinea è stata elaborata dalla cultura dei Greci ed è ancor oggi un modo appropriato per descrivere la duplicità della nostra specie.
Questo è il rapporto tra psiche e mente, dal quale scoccano i pensieri, quel tanto in più che ci mette su un gradino diverso da quelli delle altre specie viventi. E questo è il tema del libro che qui comincia.
Non è certo un tema nuovo, anzi è antichissimo, l´hanno trattato le mitologie, le religioni, le filosofie, le scienze terapeutiche e taumaturgiche. Pensatori, sacerdoti, sciamani si sono affaticati e sbizzarriti attorno agli istinti; la musica, la poesia, la letteratura sono state dominate da quel tema; perché dunque un altro libro, l´ennesimo, scritto dal bordo del secolo e del millennio che sono appena cominciati?
Risponderò tra poco a questa domanda, ma prima debbo anticipare una questione che mi sta molto a cuore: le mitologie, le religioni, le culture che hanno affrontato il tema degli istinti hanno tutte avuto come motivazione profonda la ricerca dell´Assoluto. L´idea dell´Assoluto era l´elemento dominante dei loro pensieri e fu con quello spirito che anche il tema degli istinti è stato affrontato.
L´Assoluto pervadeva tutto. La verità era assoluta, l´oggetto era assoluto, il tempo e lo spazio erano assoluti. Il principio dell´assolutezza portava inevitabilmente alla creazione della Divinità, alla quale gli uomini conferirono tutti i loro attributi moltiplicandone la potenza.
Questa architettura mentale sembrava molto resistente e compatta e resiste tuttora nonostante il logorio delle epoche, ma presentava tuttavia un´ampia fessura: quella del soggetto. L´oggetto era assoluto, ma il soggetto era molteplice, quindi necessariamente relativo.
Col passare dei secoli quella fessura diventò una voragine. Al punto che l´assolutezza dell´oggetto si rinchiuse su se stessa dando origine alla figura mentale della «cosa in sé», inconoscibile per definizione.
Allo stesso modo con cui l´oggetto era diventato un´impenetrabile monade, anche il soggetto subì una trasformazione radicale: per gli altri soggetti era infatti un oggetto inconoscibile. Si apriva l´epoca dell´incomunicabilità.
Per sfuggire all´incubo dell´isolamento gran parte degli uomini si aggrapparono ancor più tenacemente alla fede nel Divino che riscattava le monadi dalla loro incomunicabile individualità: comunicavano con il Divino che le trascendeva e che tutte le aveva create infondendo in ciascuna di esse gli stessi istinti, dotandole cioè d´una stessa natura.
Se la mente fosse stata in grado, cimentandosi con un viaggio nel proprio inconscio, di decifrare gli istinti e la loro potenza, avrebbe potuto penetrare uno dei misteri che implicano la nostra vita e determinano la nostra umana condizione.
Ma che cosa sarebbe accaduto se l´idea dell´Assoluto fosse stata messa in crisi dal relativismo della soggettività e l´incomunicabilità fosse stata superata non più dal ricorso ad un Divino sempre più traballante, ma da un´inedita intimità tra la mente e la psiche?
Quell´intimità tra mente e psiche è stata appunto una delle conquiste della modernità e il suo lascito più prezioso alle epoche che verranno. Ma come tutte le conquiste, tutti i viaggi, tutte le avventure, anche questa conteneva un rischio: il viaggiatore vede modificarsi la propria natura durante il viaggio e a causa del viaggio. Quando torna «a riveder le stelle» non è lo stesso che partì alla scoperta degli Inferi, l´oscura caverna nella quale è riuscito a penetrare lo ha iniziato ad altri misteri, lo ha reso familiare con «i vizi e le virtù», lo ha allenato ad addomesticare i mostri, a raccontare le metamorfosi, a sfidare le trasgressioni.
Perciò il lascito della modernità è ancora incompiuto, ha aperto una strada che porta ad una terra ancora incognita e che deve essere ancora percorsa.
Questo libro è una tappa del viaggio, se le intenzioni dell´autore avranno raggiunto qualche risultato.
(...) Ho avuto molta fortuna nelle strade della mia vita, il caso mi è stato propizio, gli incontri che hanno costellato il percorso mi hanno dato piú di quanto sperassi.
Tra questi ne feci uno sui banchi del liceo: conobbi un giovane che si chiamava Italo Calvino, io avevo quattordici anni, lui quindici. Il liceo si chiamava Cassini, la città era Sanremo, l´anno il 1938.
Il mio viaggio e anche il suo cominciarono allora. Con Calvino ho convissuto per i cinque anni della stagione in cui si forma la mente. La mente riflessiva di ciascun individuo della nostra specie, purché lo sappia e lo voglia. La stagione in cui la mente incontra Atena, come più volte ci dicemmo in quegli anni, lui con l´autoironia che gli era propria ed io con un pizzico di albagia. Calvino era ligure, sia pure di adozione; io avevo il sangue delle terre del Sud, dove ci si sente simili agli dèi come ci si sentiva il principe di Salina; l´albagia ci sta come retaggio, lo si voglia o no ogni tanto fa capolino.
Comunque ci esprimessimo al riguardo, Atena, la dea dell´intelligenza, la incontrammo insieme nei libri che leggevamo, nei pensieri e nelle immagini che popolavano la nostra fantasia, nelle lettere che per cinque anni ci siamo scambiate quando eravamo lontani l´uno dall´altro.
(...)Dedico a lui queste pagine che da quelle sue Lezioni prendono le mosse e l´ispirazione.

La Stampa 6.5.11
8,5 milioni gli italiani che secondo l’Istituto Superiore di Sanità hanno sofferto di un disturbo psichico
“Mi faccia il check-up della mente”
Maggio è il mese della prevenzione psicologica: controlli gratuiti dagli specialisti
di Roselina Salemi


Milano. È come andare dal dentista (non c’è il Mese della Prevenzione Dentale?). Come fare un controllino perché quel doloretto magari non è niente, però. Dallo psicologo non si arriva subito, c’è troppa letteratura, troppo cinema, troppi «strizza» presi in giro, scarsa informazione, e nell’immaginario collettivo ci sono terapie ventennali e divanetti. O formule, come il «deficit di accudimento» che attraversa «Habemus papam», il film di Nanni Moretti.
Pregiudizi, paura di essere dichiarati «fuori di testa». Invece lo psicologo è uno specialista come un altro. Ed ecco la ragione del Mip (Mese dell’Informazione Psicologica, psicologimip.it). Da oggi a fine maggio, in 66 città italiane si fa Prevenzione Mentale: colloqui gratis con un migliaio di professionisti, info point e temporary practice (versione psico del temporary store), sotto l’ombrello di Psycommunity (psycommunity. it) la più grande web community degli psicologi italiani, 3600 iscritti che dal 2008 cercano di togliere al loro lavoro l’aura stregonesca.
Certo, parlare dei propri desideri nascosti è più difficile che descrivere una sciatica. Più facile cavarsela con una battuta, tipo «lo psicologo delle donne è il parrucchiere» (Ennio Flaiano) e l’analista «è quello che ti fa domande costose che tua moglie ti fa gratis» (Woody Allen). Ma, data la moltiplicazione di stress e nevrosi è ora di prendere il problema sul serio.
Negli scorsi anni, attraverso Psycommunity 10mila persone si sono avvicinate allo psicologo. E per la prima volta a Milano, l’Ordine della Lombardia scende in campo con un Festival della cultura psicologica (www.festivalculturapsicologica.it.) con un Temporary Practice di 180 metri quadrati in centro, info-point, aperto dal 20 maggio al 2 giugno, dalle 10 alle 22 e ambulatori di ascolto. Qui, psicologi e psicoterapeuti potranno essere consultati per un primo orientamento. Si prevede folla. Strano? Per niente.
Secondo l’Istituto Superiore della Sanità, 8 milioni e mezzo di italiani hanno sofferto di un disturbo psichico nel corso della vita. Una ricerca dell’Università «La Sapienza» di Roma (Facoltà di Psicologia, cattedra di Psicosomatica) svolta nell’arco di 10 anni ha scoperto che un adulto su due, tra quelli che si rivolgono al medico di famiglia chiedendo una «pillola magica» nasconde un disagio psicologico. Si è pensato così di affiancare per tre anni uno psicologo al medico di base. L’ascolto è servito a dare un senso nuovo ai sintomi: bruciori allo stomaco, mal di schiena, tachicardia come segnali di una sofferenza più profonda. Risultato: si riduce il lavoro del medico e diminuisce del 20% l’anno la prescrizione di farmaci. Per sintetizzare in uno slogan: «Lo psicologo? Se lo conosci, non lo eviti».

Repubblica 6.5.11
Se le parole non esistono
Quel linguista scettico che sfida Chomsky
di Stefano Bartezzaghi


Scrive saggi e tiene un blog dove critica le star della disciplina: si chiama Nunzio La Fauci e sostiene che non c´è un lessico prima e fuori dalla sintassi Ecco le sue tesi
La lingua non è una combinazione di elementi già dati È il tutto che dà senso alle singole parti
Da esperto ritiene presuntuoso l´intento tipico degli intellettuali italiani: rendere i parlanti migliori

«Le parole non esistono». Fosse avanzata da un mistico, un artista figurativo o un politico (di quelli che possono usare espressioni come: «Le chiacchiere stanno a zero»), l´ipotesi non susciterebbe clamore. Ma l´ha detto un linguista e allora si è costretti a guardare alla possibile inesistenza delle parole con altri occhi.
Il linguista si chiama Nunzio La Fauci, il suo nome e il suo cognome sembrano voler riassumere le due principali funzioni della cavità orale. La Fauci insegna all´Università di Zurigo. Ha appena scritto un Compendio di sintassi italiana (Il Mulino) e ha raccolto i suoi saggi sotto un titolo, di perfetta ortodossia saussuriana e strutturale: Relazioni e differenze (Sellerio). Per divertirsi, osserva usi della lingua (e dei linguisti) in un blog raffinato e paradossale intitolato ad Apollonio Discolo, bel nome di un grammatico greco del II secolo d.C., con la cui dottrina La Fauci in realtà dissente.
I linguisti non amano i catastrofismi, in merito alla lingua. Smentiscono la morte del congiuntivo, ridimensionano l´allarme per l´invasione dell´inglese, impetrano misericordia verso coloro a cui sfuggono sgraziati «attimini» o deformi «piuttosto che». La Fauci fa di più. Quando l´ex calciatore Beppe Dossena ha usato il verbo «reazionare» nel commento di una telecronaca di calcio, su Repubblica se n´è occupata la rubrica «Lapsus», ricordando l´esistenza del verbo «reagire». Apollonio Discolo è insorto, non contro il calciatore ma contro il suo incauto critico, ricordando a quest´ultimo l´esistenza del verbo «sanzionare» (che sta a «sancire» esattamente come «reazionare» sta a «reagire»). Attenzione, dice oggi il professore, «agli "errori" degli altri (e dei presunti incolti). Può capitare non solo che errori non siano ma anche che svelino cose più interessanti e gustose delle proposte di presunte correzioni». Apollonio Discolo ha poi aggiunto: «Amare l´espressione umana (come amare una persona) non è pretendere che sia conforme ai nostri desideri, alle nostre fisime, ai nostri gusti (peraltro mutevoli) ed è invece piegarsi con attenzione a comprendere (che non vuol dire necessariamente giustificare) anche le sue corbellerie (o, almeno, quelle che a noi paiono tali), eventualmente sorridendone. Magari accadrà infatti che un giorno diventeranno norma e parametro di buon gusto». Chi, oggi, penserebbe male dell´articolo "il"? Eppure: «inorridirono sicuramente certi nostri lontani antenati quando videro crescere nella loro lingua l´onda travolgente dell´illu destinato a diventare l´articolo determinativo romanzo».
Data la giusta dimensione e prospettiva storica agli errori dei presunti incolti, La Fauci si dedica agli errori dei presunti colti, a cui riserva furie staffilanti e ironie a volte criptate. Obiettivo polemico principale, la linguistica contemporanea, quella accademica e soprattutto quella più influenzata da Noam Chomsky. Il celebrato lingui-star americano ha il torto di rivestire di tecnicismi (esempio: «componente computazionale») le più tradizionali partizioni grammaticali, già dichiarate inservibili dal vecchio Saussure. Per Chomsky ogni parola ha una funzione grammaticale (sostantivo, verbo...), e funge da componente della frase, a cui preesiste. Per La Fauci, seguendo Saussure, non c´è un lessico, prima e fuori da una sintassi. Chomsky vuole farci credere che la teoria linguistica abbia pressoché raggiunto la perfezione. La Fauci è agli antipodi dello scientismo, tanto che congeda il lettore del suo Relazioni e differenze con un´acre asserzione: «Il cammino verso la conoscenza della lingua e verso la conoscenza dell´uomo deve ancora essere intrapreso».
Si era aperto, quel libro, con un´indicazione di metodo: «rationabilius», «in modo più razionale». La parola viene dal De vulgari eloquentia, il trattato di Dante sull´identità linguistica italiana. In un saggio su questo stesso tema, tanto dibattuto quest´anno, La Fauci mostra come tale identità, linguistica e non linguistica, sia plurale: il carattere unitario sta nel collettivo e reciproco riconoscimento che i diversi italiani si danno l´un l´altro.
Cercando l´«odorosa pantera» di un sistema nell´estrema varietà degli idiomi presenti in Italia, Dante capisce all´improvviso che non deve descriverla in un trattato ma mostrarne le movenze: e scrive la Commedia. La Fauci raccoglie la lezione e fa teoria dove molti linguisti si accontentano di osservare le pratiche, e spiegarle sulla base di presupposti indimostrati; ma dove gli stessi si appellano alla teoria, La Fauci privilegia invece la pratica. Il suo Relazioni e differenze è una sorta di varietà linguistico: ci sono capitoli per specialisti (come quello che memorabilmente si intitola "Paradossi della paratassi") e capitoli che andrebbero letti da chiunque si occupi di discipline umanistiche, come i novanta secchi paragrafi finali intitolati "Faccette di linguistica razionale". Non sono emoticon, quelle faccette: compongono il vastissimo poliedro che è la lingua, per La Fauci.
La lingua non è il gioco del Lego, non è cioè una combinatoria di elementi già dati, con i mattoncini dei fonemi che formano il mattone della parola e i mattoni delle parole che formano il muro della frase e la casa del discorso. Nella costruzione linguistica è il tutto (il contesto, la "sintassi" come disposizione degli elementi, la relazione) che dà senso alle singole parti. In questo, il ritorno di La Fauci allo spirito originario dello strutturalismo è tanto radicale da risultare pressoché ereticale. Le parole non esistono perché quello che chiamiamo "parola" è l´esito finale (non l´inizio!) di un procedimento analitico, per capirlo basta pensare a quanta fatica facciamo a individuare le singole parole ascoltando parlare una lingua che non conosciamo. Nulla di ontologico, che abbia valore in sé, esiste nella lingua: tutto sorge dalla relazione, anzi da un processo di correlazione, perché la lingua è sempre nel suo farsi.
La linguistica razionale auspicata da La Fauci rifiuta il programma - classico per ogni intellettuale italiano - di rendere i parlanti migliori, perché lo ritiene presuntuoso; poi rifiuta anche il programma di rendere migliori almeno gli intellettuali, perché lo ritiene impossibile. Scettici sulla possibilità di capire, privi di ogni certezza, non possiamo però neppure essere sicuri che interrogarsi sia inutile. È per quello che continuiamo a farlo. «A me», annuncia Nunzio, «l´esperienza umana (e la scienza, che ne è parte importante) pare l´esperienza di un "sebbene", non quella di un "perché" o di un "affinché"». Alla fine quelle cose che non esistono e si chiamano parole, infatti, le sa scegliere molto bene.

l’Unità 6.5.11
«Corpo celeste». Ecco un film contro la Chiesa
È l’esordio coraggioso e sorprendente di Alice Rohrwacher: rappresenterà l’Italia nella «Quinzaine des réalisateurs» a Cannes
di Gabriella Gallozzi


Non è un film sulla Chiesa, ma casomai questa è utilizzata nel mio film solo come lente d'ingrandimento dell'Italia di oggi». Alice Rohrwacher, sorella minore della brava attrice Alba, racconta così quello che in realtà è il tema centrale e fortissimo del suo esordio nel cinema di finzione: Corpo celeste che rappresenterà l’Italia nella Quinzaine des réalisateurs al prossimo festival di Cannes. La chiesa, o meglio la spiritualità negata dalla chiesa, è il punto di partenza di questo film coraggioso e sorprendente sia dal punto di vista narrativo che stilistico. Decisamente più forte, in questo senso, di Habemus papam anch’esso destinato a portare sulla Croisette il tema della fede, come se improvvisamente il cinema italiano non pensasse ad altro.
Prodotto dalla neonata Tempesta di Carlo Cresto-Dina, destinata al cinema d’autore, Corpo celeste racconta la storia di Marta (Yile Vianello), una tredicenne che, dopo aver vissuto in Svizzera dove è emigrata la sua famiglia, fa ritorno nella nata Reggio Calabria. Un ritorno traumatico, con la sorella maggiore sempre in conflitto con lei ed una madre sola che tira avanti la famiglia lavorando la notte in un forno. Un ambiente chiuso, fatto di televisione sempre accesa, di ragazzine già veline e di pranzi dai parenti che non usano più il pesce del Mediterraneo perché «con tutti quegli sbarchi» e quei morti che ci finiscono dentro non è sicuro, «meglio quello dell’oceano», dice la zia. È in questo clima che il catechismo per la cresima diventa per Marta una «scelta» naturale. O meglio un obbligo, visto che senza «cresima neanche ci si sposa», sottolinea la catechista, motivata dalla sua semplicità primordiale.
Così Marta si troverà ad affrontare i suoi turbamenti adolescenziali in contemporanea con l’educazione alla «fede» fatta da quiz sulla religione, canti («mi sintonizzo con Dio») e ballettii come quelli degli show televisivi ed eccessi di violenza, come l’uccisione di una nidiata di gattini sull’asfalto. Ma soprattutto a contatto con Don Mario (Salvatore Cantalupo), il parroco locale più interessato al voto di scambio per far carriera che alla spiritualità dei suoi ragazzi. «Non è che fosse una cosa pensata dice la regista -. Solo che ho fatto alcune indagini è ho scoperto che molto spesso c'è chi nei paesi raccoglie appunto i consensi elettorali e poi, come capita a Don Mario, può dire al politico di riferimento, di valere 700 voti da offrire in cambio di favori alla sua parrocchia». È un film molto duro con la chiesa Corpo celeste. Ma non certo con la religione, con quella parte umana della spiritualità che in qualche modo viene sviscerata attraverso il personaggio di don Lorenzo, padre eremita incarnato da Renato Carpentieri che spiega a Marta, infatti, proprio l’umanità di Cristo. «Questo personaggio me lo ha ispirato un intervento di Nick Cave spiega in un libro che racconta i diversi modi per leggere la Bibbia».
Quanto alla scelta del catechismo e della cresima spiega la regista: «A tredici, quattordici anni i giovani cattolici devono confermare la scelta fatta dai loro genirtori, che hanno voluto battezzarli quand’erano appena nati. È la prima presa di posizione spirituale che un ragazzo deve compiere nella sua vita». Scelta, infatti, che la giovane Marta farà indirizzandosi altrove.

Corriere della Sera 6.5.11
L’«altra» Rohrwacher a Cannes: atto d’accusa contro la Chiesa
di  Valerio Cappelli


ROMA— Per Alice, la Chiesa non è il paese delle meraviglie. L’ «altra» Rohrwacher debutta al cinema da regista in maniera molto personale. Alice ha 29 anni ed è la sorella minore di Alba, l’attrice; in comune hanno i lineamenti irregolari, la sottile inquietudine, la voglia di fare «un lavoro che sia anche una vita» . Il 17 (e dal 27 nelle sale per Cinecittà Luce) sarà alla Quinzaine di Cannes con un ritratto impietoso della Chiesa, Corpo celeste: «Un film ateo? Io direi laico» . Nanni Moretti in Habemus Papam è più bonario. Con l’omonimo romanzo di Anna Maria Ortese non ha nulla in comune se non il titolo e un certo spaesamento. Yile Vianello è l’adolescente che dopo dieci anni in Svizzera torna con la madre Anita Caprioli a Reggio Calabria, dov’è nata, ma i ricordi sono sbiaditi, e nel suo viaggio al Sud sembra una piccola aliena. Ha i turbamenti del corpo che cresce; prende a frequentare il corso di cresima, senno’ trova chiuse le porte del Paradiso. Un problema, trovare la protagonista: «Incontravo tante piccole veline che dall’infanzia volevano passare all’aggressività del modello tv, non trovavo ragazze dallo sguardo libero... La Chiesa è solo una lente per capire il mondo di oggi» . DonMario (Salvatore Cantalupo) è «una figura abbastanza tragica» , preso da se stesso, la sua unica salvezza è la carriera, alle elezioni fa voti di scambio, in lui vede «una disperazione per il vuoto che lo circonda» . La Chiesa «è un posto dove va gente che non ha niente da fare» ; la catechista impara a memoria le lodi al Signore; il vescovo è chiuso nella superbia e ai fedeli manco risponde: «È ciò che è capitato a me, ho fatto ricerche come per un documentario. Io non sono mai andata a messa, non ho un’educazione religiosa. Non volevo un argomento autobiografico, all’inizio pensavo solo di scriverlo il film. Volevo capire come funziona il mondo delle parrocchie, sono persone abbandonate a se stesse ma in buona fede, prese da problemi organizzativi, mai una riflessione. La mia immaginazione non sarebbe arrivata a tanto, la realtà mi ha sorpreso» . Le moltitudini per Giovanni Paolo II beato? «Come dico nel film, c’è bisogno di grandi eventi, ma non sono i numeri che forgiano la fede» . Alice suonava la fisarmonica in un gruppo francese di rock balcanico. Il cinema è arrivato tardi, «il primo film l’ho visto a 15 anni» .

Repubblica 6.5.11
"Il film sull´Italia senza fede dove i preti fanno i manager"
"Corpo Celeste" il film di Alice Rohrwacher sorella di Alba, sarà al festival di Cannes
di Arianna Finos


Alice Rohrwacher ha ventinove anni, tre meno della sorella Alba. In comune con la primogenita attrice ha lo sguardo e un´aria di antico nel volto, ma i colori sono più scuri. Adolescente, s´è innamorata del film Teatro di Guerra di Mario Martone. Ha suonato la fisarmonica in un gruppo di rock balcanico e klezmer e ha lavorato nei documentari. Corpo Celeste, il suo sorprendente esordio da regista, sarà alla Quinzaine des Realisateurs, al Festival di Cannes, per poi uscire in sala il 27 maggio per Cinecittà Luce. Racconta dell´adolescente Marta (Yile Vianello, scoperta in una comunità autosufficiente sull´Appennino Tosco Emiliano) che torna a vivere a Reggio Calabria con la madre (Anita Caprioli) e la sorella dopo dieci anni trascorsi in Svizzera. La ragazzina partecipa a un corso per cresimandi: capirà presto che la sua strada non è quella dell´alto dei cieli, ma quella che attraversa il mondo.
Alice, lei descrive una parrocchia in cui il catechismo è insegnato come fosse un quiz, le cresimande cantano "Mi sintonizzo con Dio" e ballano come veline. Un desolante vuoto di fede e valori.
«Il mio è un film laico. Ma con una percezione sacra del mondo. Racconto quel che ho conosciuto nelle parrocchie che ho visitato. Il quiz Chi vuol essere cresimato? esiste davvero, in più varianti. L´immaginario del mondo televisivo, il falso per antonomasia, viene usato per trasmettere contenuti che pretendono di essere una verità. Ma la Chiesa per me è anche una lente d´ingrandimento di una certa Italia di oggi».
Salvatore Cantalupo offre il ritratto impietoso di un parroco manager concentrato sulla carriera e i voti di scambio.
«Un prete che recita a fare il prete. Disperato e in pieno vuoto di vuoto spirituale. Non avrei voluto essere troppo dura, è anche lui una vittima. Ma frequentando quotidianamente la Chiesa, era difficile dire: non voglio giudicare. I dottori, i preti che raccolgono le firme-voto per avere potere esistono».
Lei e Alba, entrambe nel cinema. Come lo spiega?
«Da ragazzine sognavamo tutt´e due un lavoro che fosse anche una vita, da fare con corpo e cuore. Il cinema raccoglie le cose che ci hanno nutrito: la musica, le immagini, la fantasia. Tra me e Alba non sono mancate certe dinamiche tra sorelle: a volte si è duri in famiglia per troppo amore. Ma, come alle sorelle del film, siamo pronte a difenderci l´una con l´altra».

il Fatto Saturno 6.5.11
Facciamo chiarezza sulla materia oscura
Per chi la scopre, Nobel sicuro. Ma l’ultimo esperimento Xenon ha deluso le aspettative
di Amedeo Balbi


C’È UN ROMPICAPO che da parecchi decenni tiene occupato chi studia l’universo, e che stenta a trovare una soluzione. Erano gli anni Trenta del secolo scorso quando Fritz Zwicky, un astronomo svizzero emigrato in California, fece un’osservazione sorprendente. Studiando un gigantesco agglomerato di migliaia di galassie noto come “ammasso della Chioma”, Zwicky si rese conto che c’era qualcosa che non tornava: la materia visibile non poteva giustificare, da sola, l’enorme forza di gravità necessaria a tenere insieme l’ammasso. Tentò di attirare l’attenzione dei suoi colleghi sull’apparente contraddizione, e ipotizzò che esistesse una grande quantità di “materia oscura”, non visibile con i telescopi, che facesse da “collante” gravitazionale.
   Zwicky aveva fama di eretico, e un carattere difficile. Nessuno diede peso alle sue idee sulla materia oscura. Ma parecchi anni dopo, intorno agli anni Settanta, l’argomento tornò alla ribalta. Diverse osservazioni – soprattutto quelle compiute dall’astronoma Vera Rubin – mostrarono che le galassie ruotavano in una maniera che non era compatibile con la sola presenza della materia che si riusciva a vedere con i telescopi. Di nuovo, sembrava esserci molta materia nascosta alla vista, ma capace di far sentire la sua presenza grazie alla forza di gravità. Questa volta la cosa fu presa seriamente. Negli anni Ottanta, grazie a un numero sempre crescente di conferme osservative, l’esistenza della materia oscura cominciò a essere un fatto accettato dalla maggioranza degli astrofisici. Fritz Zwicky ebbe la sua rivincita, sebbene postuma – è morto nel 1974.
   Oggi, sappiamo con certezza che manca qualcosa nel quadro complessivo che usiamo per descrivere il cosmo. L’esistenza della materia oscura è una realtà con cui bisogna fare i conti. Si sono cercate strade alternative per provare a farne a meno (come quelle che prevedono di modificare l’azione della forza di gravità) ma non hanno avuto altrettanto successo. Sembra inevitabile che solo il cinque per cento dell’intero contenuto del cosmo sia fatto della materia che ci è familiare (gli atomi), mentre il venti per cento circa sarebbe costituito da materia non visibile di tipo completamente sconosciuto. E ciò che resta per completare l’inventario sarebbe, da quanto si è scoperto solo recentemente, una forma di energia ancora più esotica, associata allo spazio vuoto.
   PARTICELLE ESOTICHE
   Messi di fronte all’enigma di cosa potesse essere tutta quella materia che c’è ma non si vede, gli astrofisici hanno dovuto chiamare in soccorso i loro colleghi che studiano la fisica delle particelle elementari. I quali non hanno avuto poi troppe difficoltà a proporre candidati (reali o solo ipotetici) con le caratteristiche adatte al ruolo di inquilino nascosto dell’universo: particelle massicce che non emettono o assorbono radiazione elettromagnetica e che non sperimentano (o quasi) nessuna delle forze note, se non la gravità. Si è provato prima con i neutrini (scartati quasi subito), arrivando poco a poco a suggerirel’esistenzadiparticelle sempre più esotiche, dall’assione al neutralino.
   E qui si viene alla nota dolente della questione. Se da un lato gli astrofisici sono assolutamente persuasi del fatto che la materia oscura sia reale, e che se ne possano vedere un po’ ovunque nel cosmo gli effetti gravitazionali che esercita sulla materia ordinaria, i fisici delle particelle elementari non si accontentano, e vorrebbero trovare una prova diretta dell’esistenza delle fantomatiche particelle. Il problema è che acchiappare una particella che è, per sua stessa natura, cocciutamente restia a interagire col mondo, è un’impresa complicatissima.
   Eppure, ci si è provato in tutti i modi. Anche perché la posta in gioco è un premio Nobel sicuro. Ma finora non si è arrivato a un risultato conclusivo. L’ultimo in ordine di tempo a deludere le attese di chi spera di afferrare le particelle imprendibili è stato l’esperimento Xenon100, sepolto nelle profondità dei laboratori del Gran Sasso in modo che gli enormi strati di roccia della montagna lo tengano al riparo dalle distrazioni delle particelle ordinarie, lasciando passare soltanto le elusive particelle di materia oscura. Il sensibilissimo rivelatore di Xenon100 avrebbe dovuto vedere i piccoli e rari lampi causati dall’urto delle particelle di materia oscura con il cuore dell’apparato sperimentale (una grossa massa di atomi di xenon liquido purissimo, appunto). E in effetti ne ha visto qualcuno, ma non abbastanza: soltanto tre, un numero compatibile con il fondo naturale di radiazione. Fine della storia?
   Le cose sono più complicate. L’e-sperimento DAMA, anch’esso operante nei laboratori del Gran Sasso, ormai da diversi anni riporta evidenze di variazioni stagionali nei segnali catturati dal suo rivelatore: variazioni che sarebberodovutealmotodellaTerra rispetto alle particelle di materia oscura presenti nella nostra galassia. Proprio in questi giorni, un esperimento indipendente chiamato CoGeNT, che prende dati da una miniera in Minnesota, ha annunciato di aver trovato conferma a quanto osservato da DAMA.
   Riconciliare il risultato negativo di Xenon100 con quelli di DAMA e CoGeNT è possibile, a patto di abbandonare alcuni dei candidati possibili per la materia oscura a favore di altri. Ma se il cerchio continuasse a stringersi, le alternative potrebbero esaurirsi. Ora gli occhi dei fisici sono puntati a LHC, l’acceleratore del CERN. Tra i tanti prodotti delle tremende collisioni tra protoni che hanno luogo nel suo anello, potrebbe sbucare fuori anche qualcuna delleagognateparticelledimateria oscura. Ma se anche LHC non dovesse trovare traccia delle particelle mancanti, sarà il momento di cominciare a preoccuparsi. E, subito dopo, di farsi venire qualche idea nuova.
   Link degli esperimenti: Xenon100: xenon.astro.columbia.edu  / DAMA: people.roma2.infn.it/~da  ma/web/home.html   CoGeNT: cogent.pnnl.gov  /

Repubblica 6.5.11
Fisica, così l´Italia perde i tesori di Fermi e Majorana
 Oggi mancano i fondi e il personale per consentire la consultazione"
di Elena Dusi


Gli archivi del Laboratorio Nazionale di Frascati sono scomparsi per fare spazio agli uffici. Quelli dell´Enea (Agenzia per nuove tecnologie, energia e ambiente) hanno le porte sbarrate. «L´ultima volta che li ho visti, gli scatoloni erano accumulati nell´edificio che ospitava un reattore di ricerca dismesso, nella sede della Casaccia alle porte di Roma» racconta Gianni Battimelli, professore di fisica all´università La Sapienza e storico della scienza. «Recentemente sono tornato per cercarli» aggiunge Gianni Paoloni, storico della scienza e docente di archivistica nell´università romana. «La porta era chiusa. Ma li ho riconosciuti sbirciando dalla finestra. Non penso affatto che abbiano segreti da nascondere. Credo semplicemente a mancanza di interesse e incuria». La biblioteca di Vito Volterra, fra l´altro fondatore del Consiglio nazionale per le ricerche, è stata venduta ed è finita negli Stati Uniti. A Monaco intanto la ricercatrice della Sapienza Luisa Bonolis lavora alla digitalizzazione dei documenti di fisica del Deutsches Museum: «Americani e tedeschi stanno facendo un gran lavoro per mettere in rete i loro archivi. Dell´Italia non si può certo dire altrettanto».
Appesi nel limbo fra scienza e storia, gli archivi della fisica italiana (ma il problema è comune anche ad altre discipline scientifiche) che visse il suo momento d´oro con i "ragazzi di via Panisperna" galleggiano oggi nel disinteresse. «Trent´anni fa per la prima volta è nata una generazione di storici della fisica» spiega Battimelli. «Ma oggi siamo rimasti senza eredi. L´insegnamento di questa disciplina ha perso interesse. Non si creano più cattedre. I giovani laureati si rivolgono ad altri settori. Il lavoro che abbiamo fatto finora per raccogliere e catalogare i documenti di Enrico Fermi, Ettore Majorana, Edoardo Amaldi, Bruno Touschek e tanti altri, l´ultimo dei quali è Nicola Cabibbo, rischia di perdersi nei prossimi anni».
Il problema non riguarda solo i fisici. L´archivio dell´Enea contiene le tappe della politica nucleare italiana, tema di grande attualità. Le carte di Amaldi conservate al dipartimento di fisica della Sapienza permettono di spaziare dalla storia dell´integrazione del nostro continente (Amaldi fu uno dei padri fondatori del Cern, l´Organizzazione europea per la ricerca nucleare) a quella del pacifismo e dei movimenti per il disarmo. Di Enrico Fermi esistono sempre a Roma dei dischi di vinile con la registrazione di una presentazione che tenne nel 1949.
«Oggi ci mancano i fondi e il personale per consentire la consultazione a tutti» spiega Battimelli. «Eppure trent´anni fa la situazione era molto peggiore. Ricordo quando mi chiamarono perché l´ufficio di Bruno Touschek doveva essere sgombrato e le sue carte erano nel cassonetto della spazzatura. Oggi almeno i documenti importanti vengono vincolati dalla Soprintendenza». Per Paoloni, il problema è soprattutto culturale: «Le comunità scientifiche, quando si indeboliscono, hanno paura di investire per rileggere il proprio passato. Se poi facciamo di tutto per dimenticare che la nostra scienza ha vissuto grandi momenti, è più facile accettare che oggi venga lasciata in uno stato deplorevole. Si finisce col dipingere una notte in cui le vacche sono tutte nere. Ma gli archivi al contrario parlano di una storia molto luminosa».

Repubblica 6.5.11
L´allarme di Carlo Bernardini, uno dei più grandi studiosi italiani
"Digitalizziamo i documenti o il patrimonio non avrà eredi"


ROMA - «Il nostro patrimonio è rimasto senza eredi» lamenta Carlo Bernardini, uno dei principali fisici italiani, ex senatore, direttore della rivista scientifica Sapere e autore fra gli altri del libro "La fisica nella cultura italiana del Novecento". «Quello dei documenti è un grande cruccio per me. Sono convinto che l´unico modo per salvare la storia della fisica italiana sia digitalizzare le carte».
Quali sarebbero i vantaggi?
«Vantaggi di conservazione, prima di tutto. Non c´è pericolo che i documenti scompaiano per colpa del tempo o di "rapine accademiche". E vantaggi di accessibilità in secondo luogo. Le fonti della storia della fisica italiana diventerebbero disponibili in tutto il mondo».
Che intende per "rapine accademiche"?
«Mi riferisco a un episodio avvenuto alcuni anni fa nell´archivio Majorana a Pisa, ma anche all´acquisto da parte di un´università americana della biblioteca di Vito Volterra, o della cessione di alcuni quaderni dell´esperimento Ada di Frascati alla Smithsonian Institution, che li ha esposti in una sala speciale».
Quali sono gli ostacoli alla conservazione?
«Digitalizzare gli archivi è un lavoro enorme e servono fondi. Ma sono convinto che molti giovani fisici vi si dedicherebbero volentieri».
(e.d.)

Corriere della Sera 6.5.11
Hedy Lamarr, la «scienziata» dalle molte vite
di Elvira Serra


T rentacinque film, sei mariti, tre figli (uno adottivo, ma forse no) e un brevetto per radioguidare i siluri contro i sottomarini nazisti. Biografia ridotta all’osso di Hedwig Eva Maria Kiesler, nata a Vienna da una famiglia dell’alta borghesia ebraica il 9 novembre 1914 e morta sola nel suo letto ad Altamonte Springs il 19 gennaio 2000, l’attrice che visse innumerevoli volte con il nome di Hedy Lamarr. Protagonista del primo nudo cinematografico, nel 1933, con il film Estasi, fuggì dal primo marito, l’industriale degli armamenti Fritz Mandl, travestita da cameriera nella primavera del 1937. Da quel momento, a ventitré anni, non avrebbe più mollato il timone della sua vita. Prima Parigi, dove era scappata, poi Londra, dove avrebbe incontrato il produttore Louis B. Mayer, infine Los Angeles, dove sarebbe diventata una stella. Provocatrice? Scienziata in nuce? Mamma snaturata? Attrice mai valorizzata fino in fondo? «Diventò l’emblema della donna che guida il suo destino, che afferma autonomamente la propria sessualità, che prende in mano il volante della sua vita senza chiedere il permesso. Una femminista ante litteram. Sovente collocata— nella finzione e nella realtà— in territori al limite dei codici morali del suo tempo» , scrive l’inviato del «Corriere della Sera» Edoardo Segantini nella biografia Hedy Lamarr, la donna gatto (Rubbettino, pagine 260, e 16), scritta con l’aiuto per la parte scientifica del ricercatore Giovanni Pau, del Computer Science Department della Ucla (University of California, Los Angeles). «Le sette vite di una donna scienziata» , recita il sottotitolo. Ma basta sfogliare il libro per rendersi conto che le vite di Hedy Lamarr sono molte di più dei mariti (nell’ordine: Friedrich «Fritz» Mandl, Gene Markey, John Loder, Teddy Stauffer, Howard Lee, Lewis Boies) e dei tre figli (James, adottato eppure incredibilmente somigliante alla madre e ripudiato quando lui, adolescente, volle vivere a casa di una dei suoi insegnanti; Denise e Anthony). Con un ferratissimo senso per gli affari, capacissima di volgere a proprio vantaggio (quasi) tutte le offerte (avvincente il racconto di quando riuscì a spuntare un contratto da 90 mila dollari, nel 1950!, per A Lady without Passport, da mister Mayer che gliene aveva offerti 40 mila). Il film che la riporta alla ribalta, invece, quando ormai sembrava aver imboccato il viale del tramonto per via di una improvvida rinoplastica che le modificò il profilo, malgrado avesse soltanto 34 anni, è Sansone e Dalila, sotto la regia di Cecile B. Demille. La parte più inedita riguarda la figura di Hedy inventrice, insieme con il musicista George Antheil, del frequency hopping spread spectrum, un sistema di guida radio dei siluri che di fatto è alla base della moderna telefonia mobile. Un’invenzione per la quale l’attrice otterrà il riconoscimento tardivo, il 12 marzo del 1997, a 83 anni, del Pioneer Award, premio in passato assegnato all’informatico Vinton Cerf, uno dei padri di Internet.

La Stampa 6.5.11
Il Padiglione Italia della Biennale di Arti Visive che si apre il 4 giugno a Venezia
L’arte non è Cosa Nostra Sgarbi contro tutti a Venezia
Tra attacchi alla Curiger, curatrice della Biennale, e lodi a Berlusconi il critico presenta il Padiglione Italia che coinvolge 2000 artisti
di Rocco Moliterni

Chi stabilisce se un artista può entrare o no “C alla Biennale? La mafia del mercato. Io la contrasto»: così Vittorio Sgarbi presenta, a Roma, in una torrenziale conferenza stampa il Padiglione Italia, di cui è curatore, alla prossima Biennale di Venezia. Chiamato a questo incarico da Bondi e in lite con Galan, neoministro ai Beni Culturali che ha bocciato la sua nomina a sovrintendente del Polo museale veneziano, il critico aveva annunciato per due volte nelle scorse settimane le dimissioni. Poi le ha ritirate e così ieri ha presentato il suo faraonico progetto. Un progetto che dovrebbe coinvolgere tra Venezia, l’Italia e il mondo (prevede, oltre alle esposizioni in Laguna, mostre nelle varie regioni e anche negli Istituti italiani di cultura all’estero) quasi duemila artisti.
Nelle intenzioni di Sgarbi il Padiglione Italia deve documentare lo stato dell’arte italiana contemporanea con 200 artisti viventi e operanti dal 2001 a oggi, tutti scelti da intellettuali italiani e stranieri «il cui credito è riconosciuto per qualunque riflessione essi facciano sul nostro tempo». Tra questi Ernesto Galli Della Loggia, Tullio De Mauro, Enzo Bianchi, Dante Ferretti, Claudio Magris, Dario Fo, Giorgio Albertazzi, Ennio Morricone, Ferzan Ozpetek, Marc Fumaroli. «A ciascuna di queste 200 persone - ha detto il critico ferrarese ho chiesto di indicarmi il pittore, il fotografo, il ceramista, il designer, il videoartista che egli ritenga più interessante in questa apertura del nuovo millennio». Il filo conduttore dell’intero Padiglione Italia è «L’arte non è Cosa Nostra». Per Sgarbi infatti esisterebbe un sistema mafioso non solo nell’economia ma anche nel mondo dell’arte, con curatori che promuovono sempre i «loro protetti», e questo sistema, secondo lui, va combattuto e sconfitto.
In che modo? Facendo, verrebbe da dire, «todos caballeros», ossia tutti curatori, tutti artisti e tutti critici. Perché a scegliere le opere in mostra, a quanto par di capire, saranno gli stessi artisti indicati dagli intellettuali (se gli altri hanno potuto indicare un solo artista, Italo Zannier ha avuto da Sgarbi la facoltà di scegliere una pattuglia di fotografi). Non mancano tra gli artisti nomi famosi: ci sono Vanessa Beecroft, Michelangelo Pistoletto, Carla Accardi, Sandro Chia, Oliviero Toscani. Ma più che lo stato dell’arte contemporanea in Italia, si avrà un panorama del gusto attuale degli intellettuali italiani. Non c’è al momento però la certezza che nei 3000 metri quadri dell’esposizione tutte le opere possano essere esposte: «Finora - ha detto ancora Sgarbi - si è trovato posto solo per 190 artisti, mentre ne dovremo ospitare 230». Davanti all’Arsenale, nelle Tese di San Cristoforo, troveranno spazio invece le opere dei 200 artisti scelti nelle Accademie di Belle Arti italiane. E per chi il posto non lo avrà, Sgarbi sta pensando con l’architetta Benedetta Tagliabue a un allestimento con grandi gommoni che sullo specchio d’acqua dell’Arsenale ospiteranno le opere «clandestine», tra cui anche quelle di artisti stranieri, come Cy Twombly, che hanno lavorato in Italia.
Ma l’incertezza, a un mese dall’inaugurazione, riguarda anche il finanziamento dell’intera operazione: «Finora - ha detto Sgarbi - non ho avuto una lira per il mio lavoro, ho dovuto anticipare le spese e i viaggi di tasca mia: lavoro da un anno come curatore ma c’è una totale assenza di finanziamenti pubblici. L’unica garanzia l’ho avuta da Berlusconi. Non ho visto ancora un contratto e non è detto che lo accetti quando mi verrà presentato», ha affermato. La dottoressa Recchia, direttore generale del Mibac, ha puntualizzato: «Il ministero ha destinato un milione di euro alla Biennale per l’allestimento del Padiglione Italia, che servirà a coprire varie voci, dall’assicurazione delle opere alla pubblicità, e che comprende anche il compenso del curatore: questo è stato possibile solo grazie all’intervento del ministro Galan, che ha stanziato un fondo aggiuntivo di 750 mila euro oltre i 250 previsti prima del reintegro del Fus».
Sgarbi non ha risparmiato attacchi nei confronti di precedenti curatori della Biennale come Bonami e Bonito Oliva e verso l’attuale curatrice, la svizzera Bice Curiger: «Non è accettabile - ha detto che per la sua vanità si spostino delle opere da un museo all’altro della stessa città. È una bestemmia trasferire ai Giardini il Trafugamento di Tintoretto». Dimentica, replicano dalla Biennale, le opere di Giorgione o di Bosch che in passato lui stesso a Venezia ha spostato per allestire le mostre di Palazzo Grimani. Da Sgarbi lodi incondizionate solo per l’ex ministro Bondi e per Berlusconi: «Mi ha anche proposto di fare il sottosegretario ai Beni culturali, ma ho rifiutato perché dal 18 maggio conduco un programma in tv».