sabato 15 marzo 2014

l’Unità 15.3.14
Contratti e pensioni, è scontro
La Cgil critica il pacchetto Poletti: «Crea nuova precarietà». E sui pensionati: «Ci faremo sentire»
«Dal pacchetto Poletti nasce nuova precarietà»
Camusso critica il decreto legge sui contratti a termine
Sarà possibile assumere senza causale fino a 36 mesi e fino ad otto proroghe
di Luigina Venturelli


Le perplessità della Cgil in materia erano note. Nessuna delle proposte che sono state avanzate negli ultimi anni, in varie forme e da vari interlocutori, in tema di contratto a termine senza causa specifica ha mai incontrato l’approvazione del sindacato di Corso d’Italia. Ma quella espressa ieri da Susanna Camusso sul decreto Poletti è una bocciatura piena. Senza possibilità di appello. Che chiarisce fin d’ora l’opposizione della confederazione alle modifiche giuslavoriste del governo Renzi. «Non basta dire rimettiamo il lavoro al centro. Con il decreto Poletti si va nella direzione opposta di più precarietà» ha affermato la leader confederale su Twitter.
Le novità sui contratti a termine presentate mercoledì scorso, sulle quali il ministero del Welfare ha sciolto ieri alcuni dubbi interpretativi, hanno aperto ufficialmente lo scontro tra l’esecutivo e l’organizzazione sindacale. Con l’entrata in vigore del decreto Poletti, infatti, le aziende con almeno 5 dipendenti (e che rispettino il limite del 20% di lavoratori a termine sul totale assunti) potranno liberamente assumere a tempo determinato senza causale per una durata massima di 36 mesi. Un periodo di tempo entro il quale sarà possibile prorogare i contratti fino a otto volte, con l’unica condizione che si riferiscano alla stessa attività lavorativa.
LA BOCCIATURA DEL SINDACATO
Un impianto che ha scatenato la dura reazione della segretaria Cgil: «Con il decreto che è stato annunciato, si è fatto esattamente l’opposto di quello che lo stesso presidente del Consiglio dichiarava. Si è creata un’altra forma di precarietà, per cui una persona può essere assunta e licenziata per tre anni senza alcuna ragione e senza alcuna causa» ha spiegato Camusso, secondo cui il decreto Poletti non solo risulta inefficace nella lotta alla precarietà, ma rischia anzi di aggravare la situazione esistente. «Siamo all’opposto di quell’idea di riduzione della precarietà e dell’incertezza dei lavoratori che sarebbe necessaria. Se questo contratto sostituisse tutte le forme di contratti precari, sancirebbe il fatto che non ci sarebbe nessuna regola. E non mi pare una buona soluzione».
Le critiche di Corso d’Italia riguardano innanzitutto l’impianto normativo del decreto, ma non risparmiano nemmeno il ministro, a cui la leader sindacale ha riservato parole dure: «Ogni tanto ci sono metamorfosi un po’ rapide. Fatico a riconoscere le dichiarazioni fatte ora da Giuliano Poletti con quelle di quando era presidente di Legacoop. Fatico a riconoscere chi diceva che bisognava investire sul lavoratore per formarlo. Perchè, quindi, cacciarlo via con l’idea che l’unico strumento che si utilizza è quello del contratto a termine?».
In materia, dunque, la Cgil ha deciso di tracciare una linea di confine, di porre una condizione alla discussione delle altre modifiche in tema di lavoro annunciate nel disegno di legge delega del 12 marzo: «Siamo disposti a discutere di un contratto unico, ma prima bisogna abolire il decreto che hanno deciso di fare». Anche se la strada si preannuncia fin d’ora in salita, considerando i dubbi già avanzati su Twitter. Il contratto unico di assunzione a tutele crescenti? «Corre il rischio di avere tutele decrescenti». La semplificazione dell’apprendistato? «Il Jobs Act lo svalorizza ». Ed ancora: «Non si riattivano l’economia e l’occupazione, togliendo diritti e tutele a lavoratori». I rapporti tra il nuovo esecutivo e la confederazione non sono certo iniziati nel migliore dei modi.Né a livello istituzionale, su cui pesa il rifiuto del premier di avviare il confronto sulle riforme: «I rapporti con il presidente Renzi sono inesistenti. Mi pare che abbia affermato in varie occasioni che non intende incontrare le parti sociali». Né a livello personale, data la maggiore sintonia finora mostrata dal premier verso il leader Fiom Maurizio Landini: «Le sue preferenze personali sono tutte legittime, ma se vuole parlare della situazione generale del Paese, non può che parlare con la confederazione» ha tagliato corto Camusso. Che, gelida, ha concluso: «Ho visto che ha un bel futuro nel marketing».

l’Unità 15.3.14
I paradossi del contratto a termine
Le nuove misure non sono una semplificazione ma si tratta piuttosto di una liberalizzazione
di Luigi Mariucci


IL DIRITTO UE, E NON SOLO QUELLO ITALIANO, STABILISCE CHE «IL CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO costituisce la forma comune di rapporto di lavoro ». Solo quando un lavoro è destinato a durare nel tempo, si può godere infatti di una certa sicurezza esistenziale.
Salvo eventi non prevedibili (crisi dell’impresa, mobilità volontaria, licenziamento giustificato) è proprio questa sicurezza che consente di affermare che il lavoro è strumento della cittadinanza.
Il lavoro a tempo determinato può essere uno strumento utile sia all’impresa sia al lavoratore quando è un modo per entrare o rientrare nel mercato del lavoro, e per ottenere poi una posizione professionale dotata di una, almeno relativa, stabilità. Se invece si è assunti sempre con contratti a termine si vive nell’incertezza, e il lavoro non è più fonte di diritti, ma di perenne subalternità sociale.
È sulla base di tale ovvia considerazione che il diritto dell’Unione europea, e fin qui anche quello italiano, hanno previsto che il termine sia condizionato da una particolare ragione giustificativa, da un motivo produttivo. Ora invece l’annunciato decreto Renzi-Poletti estende l’eliminazione dell’obbligo di motivare l’assunzione a termine per il primo rapporto di durata non superiore a 36 mesi, salvo restando che dopo 36 mesi non si può essere riassunti a termine dallo stesso datore di lavoro per mansioni equivalenti. Il ministro Poletti ha dichiarato che la misura viene adottata per semplificare, per evitare il contenzioso e per consentire ai datori di lavoro di testare i dipendenti a termine prima di una assunzione a tempo indeterminato.
Si può osservare che qui non si tratta di semplificazione, ma piuttosto di liberalizzazione. Di fatto si incentivano di nuovo le assunzioni a termine, che già ora costituiscono il contratto di gran lunga prevalente, con buona pace del contrasto alla precarietà e dell’annunciato «contratto unico», che in tal modo sarebbe del tutto svuotato. In più non si considera un altro dettaglio. Dato che non è previsto un termine minimo di durata, si potrebbe essere riassunti per brevi periodi, persino di settimana in settimana come ha osservato Tito Boeri, fino a tre anni, il che con evidenza ha ben poco a che fare con il «testare» il dipendente. Logica vorrebbe quindi che la causale fosse abolita solo per i contratti che prevedono un limite minimo di durata: ad esempio un anno.
C’è poi una questione decisiva. Che succede se al termine del triennio il lavoratore non viene assunto con un contratto a tempo indeterminato dallo stesso datore o viene riassunto a termine per mansioni non equivalenti? Si ricomincia un altro triennio precario come in un infinito gioco dell’oca? Di modo che il lavoro temporaneo non è più un modo di entrare o ri-entrare nel mercato del lavoro, ma diventa un ghetto perenne, una penosa condizione di vita permanente. Tutta la normativa ha un senso quindi solo se a conclusione del triennio si prevedono cospicui incentivi alla stabilizzazione e se il lavoratore può utilizzare le precedenti esperienze di lavoro in termini di «punteggio» che agevoli una assunzione stabile.
Infine si può aggiungere che il limite del 20% di assunzioni a termine sull’organico complessivo appare da un lato troppo alto, dato che i contratti collettivi prevedono ora in media percentuali oscillanti tra il 12% e il 15%, e dall’altro scarsamente verificabile, salvo prevedere un obbligo di trasparenza ovvero la pubblicità dei dati comunicati ai centri per l’impiego. È quindi auspicabile che i correttivi qui accennati siano previsti in sede di stesura definitiva del decreto, la cui urgenza va comunque motivata, o in sede di conversione. Anche per confutare la sgradevole impressione che il Jobs Act si riduca a una sorta di scambio tra qualche vantaggio salariale ai lavoratori occupati stabilmente e in un peggioramento delle condizioni dei lavoratori temporanei.

Corriere 15.3.14
La regola sui tre anni di prova al Lavoro non risolve il Problema, lo rinvia
di Franco Debenedetti


Caro direttore, i nomi contano. Di una liberalizzazione dei contratti a termine che si nasconde dietro quello di «prova», estendendolo a un periodo, questo sì «senza precedenti», di tre anni, il meno che si possa dire è che non ha il coraggio di chiamarsi con il suo nome. Che poi questa liberalizzazione «incida sul mercato del lavoro più che se fosse stato abolito l’art.18» come scrive Enrico Marro («Meno vincoli e alibi sulle assunzioni», Corriere della Sera del 13 marzo), è difficile da capire.
Un «vincolo», se lo si sposta nel tempo, non cambia natura. Tre anni dopo, il datore di lavoro avrà conoscenza più approfondita del suo «avventizio», non necessariamente maggiore visibilità sulle future condizioni economiche della sua azienda, che gli potrebbero consentire l’assunzione a tempo indeterminato: lì infatti continua a valere l’attuale normativa. Anche l’«avventizio» sa che alla fine del periodo di prova ci sarà uno scalino, che verrà presa una decisione sul suo futuro, dentro o fuori; per lui il periodo di prova sarà un periodo di incertezza, vivrà nel dubbio se investire il proprio capitale umano. Se questa non è precarietà, che cosa lo è? Il decreto l’aumenta: già oggi la percentuale di assunzioni con contratto a tempo indeterminato è scesa al 16 per cento sul flusso totale, non stupiamoci se scenderà ancora.
Un «alibi» lo è già diventato: ha consentito di rimandare l’approvazione del codice che semplifica la giungla delle norme sul lavoro, riducendo le attuali 2.000 pagine di norme a 60 articoli brevi e leggibili da parte di chiunque.
I nomi contano. «Art.18», anche dopo l’ammorbidimento recato dalla legge Fornero del 2012, è il simbolo della rigidità del nostro mercato del lavoro, la prima delle riforme su cui l’Europa ci osserva. È lo strumento che consegna alla magistratura il potere di giudicare e di intervenire in materia di conduzione aziendale. È, soprattutto, la consacrazione del principio della job property : senza sradicarlo dal sistema produttivo, continueremo a spendere per mantenere posti di lavoro anziché per incentivare il lavoratore a cercarne un altro; senza sradicarlo dal pubblico impiego, la spending review si arresterà di fronte ai «problemi politici», reingegnerizzazione dei servizi della Pubblica amministrazione e riduzione dell’impronta dello Stato resteranno parole. Nomi che non contano.

il Fatto 15.3.14
Landini-Renzi, è già divorzio “Così crea più precarietà”
E Susanna Camusso (CGIL) chiede l’abolizione del dl lavoro
Pd spaccato, Fassina; “non lo votiamo”
Confindustria: “lo vogliamo diverso”
di Giampiero Calapà e Carlo Di Foggia


Finisce subito la luna di miele tra il premier Matteo Renzi e il segretario della Fiom Maurizio Landini, il tacito patto anti-Camusso s’infrange sul primo scoglio; il nuovo decreto legge, parte della riforma del lavoro 2.0 delude i metalmeccanici e, almeno sul fatto specifico, li riporta a parlare la stessa lingua della casa madre, la Cgil. “A me risulta – sorride Landini– che sia Renzi ad essere sposato con una Landini (Agnese, pur non essendo in alcun modo parente, ha lo stesso cognome del sindacalista, ndr), non viceversa. Al di là delle battute, abbiamo sempre detto che avremmo valutato il merito dei provvedimenti, senza pregiudiziali. Ci sono luci e ombre, non è accettabile la modifica dei contratti a termine, perché rende strutturale la precarietà e così al contratto unico a tempo indeterminato si aggiunge il contratto unico a tempo determinato. Cogliamo però anche aspetti positivi, tra cui l’aumento delle retribuzioni, la tassazione delle rendite finanziarie e l’impegno a rifinanziare i contratti di solidarietà”. Ma Landini non ha dubbi: “Il contratto a termine allarga la precarietà, inoltre manca un’iniziativa sulla politica industriale”.
E Susanna Camusso, appunto, in serata compare in casa Berlusconi, negli studi di Canale5, a Matrix, da dove rilancia: “Siamo disposti a discutere di un contratto unico, ma prima bisogna abolire il decreto. Perché si è fatto l’opposto di quello che il premier dichiarava creando un’altra forma di precarietà”. Anche la minoranza del Pd è contraria al decreto. “Sono passati dal contratto a tutele crescenti a quello a precarietà permanente”, spiega Stefano Fassina: “Il governo farebbe bene a rivederlo, così non possiamo votarlo”. Gli alfaniani, invece, lo voterebbero a occhi chiusi. “Il decreto – spiega Gaetano Qaugliarello – riprende molte delle norme contenute nel ddl di Maurizio Sacconi”. Che, dal canto suo, è contentissimo: “È un segnale di modernità, non è come la scala mobile di Craxi ma qualcosa si muove”. Anche Raffaele Bonanni applaude, segnando il solco tra Cgil e Cisl: “Precari più garantiti”. Mentre la stroncatura internazionale arriva dal Financial Times: “I soldi dei tagli di spesa e dell’aumento di tasse sulle rendite non bastano per tutti gli impegni presi”. Renzi ha spiegato che 6 miliardi arriveranno spingendo fino al limite (3 per cento) il rapporto deficit-Pil: “L’idea farà rabbrividire Bruxelles e Berlino”. E comunque “tagliare le tasse a chi guadagna poco politicamente ha un senso. Ma non serve a risolvere la crisi di competitività”. Tema che andrebbe trattato coi sindacati. Per Camusso, che solo qualche giorno fa aveva applaudito Renzi per le 80 euro in più nelle buste paga, i rapporti col premier sono “inesistenti”: “Mi pare abbia affermato in varie occasioni che non intende incontrare le parti sociali. So che alle richieste di Confindustria ha risposto: ‘Invece dei tavoli mandatemi delle mail”. L’incontro con Confindustria, invece, ci sarà. Giorgio Squinzi, ha sospeso il giudizio sui provvedimenti: “Le cose stanno uscendo in modo un po’ diverso da come le vogliamo noi, dobbiamo vedere poi l’effettiva traduzione in atti concreti del governo, le cui intenzioni sembrano buone. Renzi è una Formula1, ma i motori che slittano non vanno da nessuna parte”. Tra le “intenzioni positive” che piacciono agli industriali c’è il salario minimo, da sempre contestato dai sindacati. La misura esiste già in altri Paesi, ma in Italia non è mai passata. Il motivo è semplice: un minimo unico legale aprirebbe la strada ad un livellamento verso il basso. Sarà difficile per i sindacati difendere i minimi fissati dai contratti nazionali, se questi sono più alti di quello legale.

il Fatto 15.3.14
Flessibilità a vita
Il premier tradisce subito i giovani e i non garantiti
di Salvatore Cannavò


Tutta la retorica sul Jobs Act, alla fine, si riduce a una flessibilità quasi selvaggia. Questo è quanto rimane dalla lettura del corposo comunicato stampa del Consiglio dei ministri del “super-mercoledì” renziano. Il miraggio del contratto unico, l’ipotesi del salario minimo o del sostegno ai disoccupati, infatti, va a finire in un progetto di legge delega la cui attuazione dipenderà dal volere degli dei, conoscendo la politica italiana.
DA UN DECRETO governativo, invece, immediatamente in vigore per essere convertito dal Parlamento, dipendono le modifiche ai contratti a tempo determinato e all’apprendistato. E si tratta di modifiche pesanti. Per il contratto a termine, infatti, scrive il testo del governo “viene prevista l’elevazione da 12 a 36 mesi della durata del primo rapporto di lavoro a tempo determinato per il quale non è richiesto il requisito della cosiddetta causalità”. Ma la novità peggiore è che viene prevista “la possibilità di prorogare anche più volte il contratto a tempo determinato entro il limite dei tre anni, sempre che sussistano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa”. Rinnovare anche più volte, senza limiti chiari, significa, come ha notato Tito Boeri su Repubblica , poter rinnovare un contratto di lavoro ogni settimana e quindi ben 156 volte nell’arco di tre anni. Le aziende saranno soddisfatte, ma tutti quei lavoratori precari che, pure, hanno sperato nel “contratto unico” di Renzi, che diranno? La proposta del governo pone un solo limite, quello del 20% dei dipendenti di un’azienda che possono essere assunti con contratto a tempo. Su 50 si tratta di dieci contratti, non è poco . Inoltre, nel momento in cui verrà introdotto il contratto unico in cui per almeno tre anni non sarà previsto l’articolo 18, le aziende potranno avere fino a sei anni di disponibilità assoluta del lavoratore, minacciato in ogni momento dal licenziamento.
LA TENDENZA è confermata dall’apprendistato in cui verrà previsto il ricorso alla forma scritta solo per il contratto e per il patto di prova. Non ci sarà più, invece, in forma scritta il piano formativo individuale ma, soprattutto, si elimina la norma secondo la quale “l’assunzione di nuovi apprendisti è necessariamente condizionata alla conferma in servizio di precedenti apprendisti”. Quindi, si assumeranno apprendisti , con una paga base pari al 35% della retribuzione, e questi potranno essere costantemente sostituiti. Infine, “per il datore di lavoro viene eliminato l’obbligo di integrare la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere con l’offerta formativa pubblica, che diventa un elemento discrezionale”. A fronte di queste norme, certe, la parte più attesa del “piano del lavoro” rimane rinviata nel tempo. Tutta la materia degli ammortizzatori sociali, della riforma dell’Aspi (l’indennità di disoccupazione), la riforma dei Centri per l’impiego, il contratto unico, il riordino delle forme contrattuali diverse e lo stesso salario minimo, l’estensione della maternità, finiranno in una legge-delega. Uno strumento che in genere mette su un binario morto tanti buoni propositi. In questa decisione si rintraccia una particolare “svolta” operata da Renzi. Quelli che sembravano i suoi settori di riferimento – giovani precari, partite Iva, forza lavoro intellettuale spesso in fuga dall’Italia – vedranno un peggioramento della loro condizione di lavoro e di vita.
I SETTORI tradizionali della sinistra – il classico lavoro dipendente – vedranno, invece, un piccolo miglioramento (sempre che il premier non si riveli, come ha detto lui stesso, “un buffone”). Un cambio di “base sociale” che ha spiazzato la Cgil e la minoranza Pd e che rende sempre più “acrobatico” l’esperimento governativo del giovane leader democratico.

Repubblica 15.3.14
Bufera sui contratti a termine Cgil contro il nuovo decreto
“Alimenterà il precariato”
Non dovranno più essere giustificati, possibili otto proroghe
di Rosaria Amato e Luisa Grion



ROMA - «Per favore, cambiate quel decreto!». È l’appello lanciato dal sito
Lavoce.info, ma contro il Dl sul lavoro che il governo ha appena inviato al presidente della Repubblica non c’è solo l’economista Tito Boeri, ma anche la Cgil e parte del Pd. In una nota il ministero ha chiarito che c’è un tetto al numero di proroghe di un contratto a termine: 8 volte in 36 mesi. «Vale a dire contratti di lavoro che possono avere mediamente una durata di quattro mesi e mezzo ciascuno. Una correzione apprezzabile, ma ancora insufficiente», commenta Boeri. «Si è fatto esattamente l’opposto di quello che lo stesso premier dichiarava: si è creata un’altra forma di precarietà. - denuncia il segretario della Cgil Susanna Camusso - Siamo disposti a discutere di un contratto unico, ma prima bisogna abolire il decreto». O almeno modificarlo radicalmente in Parlamento in sede di conversione, si augura il deputato Pd Stefano Fassina «Non va bene, siamo passati dall’obiettivo del contratto a tutele crescenti al contratto a precarietà permanente. Anche il nuovo limite degli 8 rinnovi è inaccettabile. E l’acausalità va ridimensionata. Siamo ricaduti nella discussione sulle regole: quando un’economia si contrae del 10% per creare lavoro non servono ricette liberiste, bisogna dare sostegno alla domanda». Peraltro una liberalizzazione così ampia del contratto a termine, teme Stefano Scabbio, ad Manpower Italia, «potrebbe generare effetti distorsivi di utilizzo, a scapito di altre forme contrattuali che offrono garanzie maggiori, come il contratto di somministrazione che prevede, allo scadere dei 36 mesi, l’obbligo di stabilizzazione del lavoratore». Al contrario, il segretario della Cisl Raffaele Bonanni ritiene invece che «i contratti a termine offrono anche dopo le modifiche del governo più garanzie delle altre forme di precarietà». Posizione di attesa per Confindustria: «Adesso non possiamo esprimere un giudizio definitivo, dobbiamo vedere la traduzione definitiva in fatti».
Al centro di tutte le polemiche, dunque, c’è l’aumentata flessibilità introdotta sia nei contratti a termine che nell’apprendistato. La riforma Poletti ha spazzato via alcuni limiti che il suo predecessore, il ministro Fornero, aveva inserito per contenere la precarietà. Uno dei principali paletti caduti è quello dell’acausalità (ovvero la possibilità riconosciuta al datore di lavoro di non specificare le motivazioni che lo portano a fissare un termine al rapporto). Di fatto una ve-ra e propria «mano libera» sulle mansioni prima concessa solo per i primi 12 mesi, ora consentita per tutti e tre gli anni. Non solo: se la durata massima del contratto a termine resta fissata in 36 mesi (dopo bisogna passare a quello a tempo indeterminato), ora fra un contratto e l’altro non esiste più l’obbligo di una pausa di dieci o venti giorni. Considerando un massimo di otto proroghe - mentre il modello Fornero ne permetteva una sola - i rinnovi possono essere uno successivo all’altro. Il decreto prevede anche che - se i contratti collettivi non hanno già previsto un tetto - i contratti a termine possano coprire fino ad un massimo del 20 per cento dell’organico (ma le aziende sotto ai 5 dipendenti possono comunque stipularne uno).
Quanto agli apprendisti, rispetto alla legge Fornero cade il divieto di non assumerne di nuovi se non ne sono stati confermati almeno il 30 per cento della precedente «tornata”. Cade anche l’obbligatorietà, per il datore di lavoro, di assicurare all’apprendista di secondo livello una formazione «trasversale”, ovvero di garantirgli la frequenza di corsi regionali, se ci sono, o di organizzarglieli ad hoc. Questa «scuola», prima obbligatoria a scapito di multe salate in termini di contributi versati, ora sarà solo discrezionale. «Flessibilità - precisa Paolo Pennesi, segretario generale del ministero del Lavoro - che permetteranno alle aziende di fare nuove assunzioni con maggiore sicurezza e minore burocrazia».

Corriere 15.3.14
Camusso: contratti a termine, abolire il decreto
Consentite 8 proroghe in tre anni
Squinzi: Renzi è da Formula 1 ma ora cose concrete
di Lorenzo Salvia


ROMA — «Bisogna abolire il decreto legge sui contratti a termine. Aumenta la precarietà. Faremo di tutto per cancellarlo». Due giorni dopo il via libera in Consiglio dei ministri, e ancora in attesa della pubblicazione del testo in Gazzetta ufficiale, il segretario della Cgil Susanna Camusso dichiara guerra ad uno dei pochi provvedimenti discussi in quella seduta che entrerà subito in vigore. I suoi primi commenti erano stati di tutt’altro tono: «Se non ci consulta ma fa le cose che gli chiediamo, Renzi è sulla buona strada», «pare che abbia letto il piano della Cgil». Oggi il netto cambio di rotta. Cosa è successo?
Di base c’era un certo fair play della Cgil nei confronti del governo, che aveva appena annunciato il taglio del cuneo fiscale dalla parte dei lavoratori e non delle imprese. Il fatto decisivo, però, è che il contenuto del decreto lavoro è diverso da quello che la Cgil si aspettava. Il sindacato sapeva che la durata massima del contatto senza causale, riservato a chi è al primo impiego, sarebbe salita da uno a tre anni. Temeva che lo stesso schema sarebbe stato esteso ai contratti successivi al primo. Ma soprattutto ignorava che in quel periodo di tre anni le proroghe si sarebbero moltiplicate. Se oggi ne è possibile una sola, in base al testo uscito da Palazzo Chigi sarebbero stati possibili 36 contratti da un mese.
La novità sulle proroghe, confermata dopo il consiglio di ministri da più fonti di governo, non ha avuto grande risalto nel dibattito di questi giorni. E il caso non è esploso. Solo ieri mattina, dopo che l’economista Tito Boeri ha parlato addirittura di 365 contratti da un giorno possibili in un anno, Camusso ha deciso di partire all’attacco, prima su Twitter poi in tv. Ai primi segnali il governo ha provato a disinnescare la grana. Il testo del decreto legge, ancora non definitivo, è stato corretto. Poi il ministero del Lavoro ha preparato un comunicato precisando che nell’arco dei tre anni «sono ammesse fino ad un massimo di otto proroghe». Non più 36 contratti da un mese ma nove contratti da quattro mesi, dunque. Un limite nuovo che non appariva nel testo uscito dalla riunione di Palazzo Chigi, e nemmeno nelle schede del ministero che ne spiegavano i contenuti. Ma non è bastato. Oramai lo scontro c’è tutto e arriverà in Parlamento dove, dice conciliante il ministero del Lavoro, «si potranno fornire spunti e proposte per un eventuale miglioramento». Dalla sinistra Pd Stefano Fassina suona la carica e parla di «decreto da riscrivere». La stessa Camusso apre sul contratto unico a tutele progressive, che però il governo ha dirottato su un disegno di legge delega, dai tempi lunghi e dal destino incerto. «Un segnale che apprezzo», dice ironico il viceministro dell’Economia Enrico Morando, che ha sempre sostenuto quell’ipotesi scontrandosi proprio con la Cgil. «Vorrà dire — aggiunge — che potremo accelerare su questa strada»
Se il sorprendente idillio con la Cgil si è già rotto, la Cisl invece si limita a qualche suggerimento: «Anche dopo queste modifiche — dice il segretario Raffaele Bonanni — i contratti a termine offrono più garanzie delle altre forme di precarietà. Piuttosto bisogna rendere impraticabili il ricorso alle false partite Iva, i co.co.pro. e gli associati in partecipazione». Ma dall’altra parte della barricata anche Confindustria mette pressione sul presidente del consiglio: «Per ora abbiamo visto dei titoli — dice il presidente Giorgio Squinzi — noi ci aspettiamo cose concrete. Renzi è un motore da Formula 1 che adesso deve scaricare la potenza per terra».

Repubblica 15.3.14
“Quelle norme devono cambiare ma va accettata la sfida di Renzi”
Landini: fa bene ad affossare i vecchi riti, sindacato ondivago
intervista di Paolo Griseri



TORINO - Matteo Renzi «è una novità che va presa sul serio. Questo significa che va criticato e, se necessario, attaccato, per il merito dei provvedimenti che propone e non perché convoca o non convoca questo o quel sindacalista». Altrimenti? «Altrimenti si finisce per essere ondivaghi e subalterni”. Il leader della Fiom, Maurizio Landini, critica alcuni provvedimenti del piano Renzi ma attacca anche la Cgil e Confindustria.
Landini, qual è il suo voto al piano Renzi?
«Innanzitutto va colta positivamente la velocità con cui si muove il premier e il fatto che quelle mosse siano orientate a un’idea generale di cambiamento. Questa è una novità con la quale è utile che tutti facciamo i conti».
Che cosa la convince e che cosa al contrario la lascia perplesso?
«Mi convince la decisione di abbassare l’Irpef sul lavoro dipendente. Mi convince la scelta di trasferire una parte del carico fiscale alla rendita finanziaria alleggerendo le imprese industriali. Queste sono le scelte che vanno nella direzione giusta».
Ma...
«Rimangono alcune contraddizioni e punti di profondo dissenso. E’ una contraddizione da superare al più presto quella di escludere dall’alleggerimento dell’Irpef i pensionati e i precari. C’è profondo dissenso sul decreto sul mercato del lavoro perché allungando a tre anni i contratti a termine si aumenta l’incertezza del futuro. Un giovane con un contratto a termine non potrà mai ottenere il mutuo da una banca. Così come senza un vero controllo sulla formazione, l’apprendistato non è un’occasione per imparare un mestiere. In questo modo si peggiora la qualità del lavoro in Italia»
Come mai lei è il sindacalista della Cgil che ad oggi ha avuto più contatti con il premier?
«Noi avevamo delle proposte e abbiamo scritto una lettera aperta per renderle pubbliche. La Fiom prende sul serio il premier e per questo accetta di discutere direttamente sul merito».
Chi non fa questo?
«Il rinnovamento che propone Renzi riguarda tutti, anche i sindacati. Ci impone una verifica continua della nostra rappresentanza non solo nei luoghi di lavoro ma nella società, interroga la nostra capacità di cambiare passo”.
I vertici delle Confederazioni non fanno questo?
«Vorrei un sindacato che si confronta sul merito e non sui riti. Due mesi fa i vertici della Cgil sostenevano pubblicamente che lo sciopero è ormai uno strumento che ha perso mordente. Poi hanno minacciato lo sciopero contro Renzi perché non era stato organizzato un incontro tra governo e Cgil. Poi ancora, l’altro ieri, hanno festeggiato la riduzione dell’Irpef. Infine, ieri, hanno attaccato il governo perché le sue misure non intervengono sulla precarietà».
Come lo definirebbe questo atteggiamento?
«Direi ondivago e subalterno. Ondivago perché si cambia opinione in modo repentino. Subalterno perché si dà la sensazione che quell’opinione si modifichi non in funzione del merito delle proposte ma del fatto che sia stato organizzato o no un incontro».
Da quando non incontra Susanna Camusso?
«Dal Comitato centrale della Fiom, all’inizio di marzo».
Punta a candidarsi alla segreteria generale?
«Non ne ho la minima intenzione. Non mi interessa che cambi il segretario generale. Mi interessa che cambi la Cgil. Che diventi un sindacato più democratico e più in grado di rappresentare i lavoratori italiani».
Che cosa chiedete invece al governo?
«Manca ancora un piano di rilancio dell’economia e dell’occupazione che parta dalle iniziative pubbliche di cura del territorio, dai fiumi, alle spiagge, alle scuole. Che esca dalla logica, dimostratasi fallimentare, suggerita in questi anni da Confindustria. La logica per cui senza regole il lavoro aumenta. Hanno cambiato l’articolo 18, hanno consentito le deroghe ai contratti e il lavoro non c’è lo stesso».
Ha sentito in questi giorni Matteo Renzi?
«No».
Sa che la moglie del premier si chiama Landini?

Repubblica 15.3.14
Assist, dialogo e complimenti, è disgelo tra D’Alema e Renzi
E per l’ex premier l’ipotesi di fare il commissario Ue
di Giovanna Casadio



ROMA - Di un patto tra i due si parla da tempo. Ma il “rottamatore” e il “rottamato”, Matteo Renzi e Massimo D’Alema hanno un certo pudore ad ammettere il feeeling. Più che di feeling in verità si tratta di una reciproca convenienza. Per questo entrambi si sono tolti l’elmetto. Il premier deve convincere l’Europa che l’Italia ha davvero “cambiato verso” e ha bisogno che la squadra socialista sia sulla palla nella partita anti austerity. Chi meglio del lìder Massimo - presidente della Fondazione europea degli studi progressisti (Feps), nel board del Pse, ex premier, ex ministro degli Esteri, amico di vecchia data di Martin Schulz, in buoni rapporti con Francois Hollande, con i socialdemocratici tedeschi - può svolgere questa missione. Per questo Renzi si sta convincendo che indicare D’Alema come commissario Ue è la strada migliore, più che puntare su Enzo Moavero, l’altro nome in pole position. Mentre Enrico Letta potrebbe rientrare in gioco, solo se si ricucisse il rapporto con Renzi.
D’Alema dal canto suo ha espresso negli ultimi giorni alcuni misurati apprezzamenti nei confronti del premier: «Abbiamo opinioni diverse ma si può lavorare insieme per obiettivi condivisi”. E, ciliegina sul feeling, martedì sarà Renzi a presentare il libro di D’Alema “Non solo euro”.
«Ci sentiamo spesso - aveva spiegato il presidente di Feps e di “Italianieuropei” - e il mio libro Matteo lo ha letto in bozze». Apprezza, D’Alema, l’adesione al Pse del Pd, dopo polemiche durate anni, che il segretario ha spazzato via e condotto in porto velocemente. Poi c’è una questione di buonsenso - ha fatto sapere - e cioè che «questo governo va sostenuto». Quasi un mantra. Di certo una presa di distanza dal “correntino”, la minoranza del partito oggi scompaginata dal ciclone-Renzi. Un altro indizio del patto tra i due è nella mano che l’ex premier avrebbe dato a Renzi sull’Italicum, la nuova legge elettorale. Sarebbe stato D’Alema a convincere i più riottosi della minoranza dem a bocciare quell’emendamento sulla doppia preferenza presentato da Gregorio Gitti e affossato per una manciata di voti. Se fosse passato, l’intesa sulla riforma elettorale con Berlusconi sarebbe saltata immediatamente.
Il clima nel Pd è cambiato. Persino Roberto Gualtieri, amico di D’Alema, europarlamentare, autore di quell’emendamento al fiscal compact a Strasburgo che ha reso possibile un margine di flssibilità, apprezza la strategia del neo premier: «Ci sono degli spazi effettivi di flessibilità in Europa che Renzi ha colto bene e resi possibili se si avvia un programma di riforme e di crescita». Enrico Letta, è il giudizio, su questo si è mosso con troppa acquiescenza. Comunque a sostenere la candidatura di D’Alema alla commissione sono già alcuni renziani. Lorenzo Guerini, l’uomo a cui il segretario-premier ha affidato il partito, si limita a dire che «avrebbe tutte le carte in regola”. Ettore Rosato, renziano, lo sponsorizza: «Per un commissario Ue ci vuole autorevolezza, è il fattore indispensabile e di certo Massimo l’autorevolezza ce l’ha». E poi c’è il bersaniano Stefano Fassina, ex ministro dell’Economia del governo Letta che afferma: «D’Alema sarebbe la persona giusta, ha un grande riconoscimento in Europa, non solo tra i socialisti ma anche nelle altre famiglie politiche». Entro luglio il governo deve sciogliere il nodo sul candidato commissario. Ma in queste ore sono già approntate le liste. La voce di un candidatura di Renzi come capolista per Strasburgo è seccamente smentita da Guerini.
Non sarà facile tuttavia dare un po’ d’appeal al voto per le europee. Romano Prodi le considera decisive: «È lì che si gioca il governo”. Per ora candidata dovrebbe essere l’ex ministra Kyenge, Paolo De Castro nel nord est; nel Sud è capolista Emiliano; al Nord Stefano Boeri, e nelle Isole tra gli altri si pensa a Renato Soru, Giuseppe Lupo; Giusi Nicolini. Entro la fine del mese le liste saranno completate, mentre la settimana prossima sarà convocata la direzione per il nuovo organigramma del Pd, allargato alla minoranza. Disponibilità di “giovani turchi” e dalemiani a co-gestire il partito.

l’Unità 15.3.14
Carla Cantone: «Pensionati tartassati due volte, non staremo zitti»
La segretaria dello Spi Cgil attacca l’esclusione dai benefici Irpef e la possibilità di un prelievo di solidarietà oltre i 3.000 euro: «Così ci discriminano»
di Andrea Bonzi


«Siamo doppiamente indignati e non staremo né fermi né zitti: non solo si escludono i pensionati dal taglio Irpef, ma si continua a considerare la categoria un bancomat». Promette battaglia Carla Cantone, segretaria nazionale dello Spi-Cgil. E lancia un messaggio al Pd, dopo le primarie di dicembre in cui aveva sostenuto Gianni Cuperlo: «I parlamentari che in privato mi danno ragione sulle critiche a Renzi, dissentano e si dissocino da questi provvedimenti».
Segretaria, nella prima manovra dell’esecutivo Renzi non c’è nulla per i pensionati più poveri. Come spiega questa dimenticanza?
«Non è una dimenticanza, ma una scelta precisa: quella di continuare a considerare i pensionati dei privilegiati, anche quelli che hanno un reddito inferiore ai 1.500 euro netti. Il governo ha scelto di premiare chi ha un reddito da lavoro, forse pensa che gli altri vadano a fare la spesa in qualche supermercato low costo che gli anziani non debbano curarsi... ».
Oltre alla vostra, un’altra categoria che non avrà benefici dal taglio Irpef è quella degli autonomi. Perché escludere questi due mondi?
«Hanno fatto i conti con le risorse che avevano a disposizione, e hanno scelto: non siamo la loro priorità. Del resto, l’imprenditore Davide Serra, molto vicino al premier, alla Leopolda aveva attribuito ai pensionati la colpa di aver rubato il futuro ai giovani».
In un quadro di risorse contate, non c’era il rischio che, con un intervento “a pioggia”, si finisse per scontentare tutti e per non incidere su nulla?
«Se uno ha a disposizione 10 miliardi, deve fare delle scelte, non c’è dubbio. Il punto è aumentare questi denari, andando a prelevarli dalle famiglie più ricche: si calcola siano almeno 2 milioni e 400mila nuclei».
La patrimoniale per ora è esclusa dal governo. Ma lei ha un’idea concreta per aumentare il “tesoretto”?
«Applicando semplicemente un prelievo dello 0,55% ai più ricchi, l’esecutivo recupererebbe 20 miliardi di euro. Ma hanno fatto scelte diverse, individuandone solo 10. Quello che ci fa arrabbiare è che hanno escluso i più deboli, che non possono fare uno sciopero, ad esempio, o che magari si pensa non abbiano voce. Invece la voce ce l’hanno».
Vuol dire che scenderete in piazza?
«Decideremo il da farsi, non staremo fermi, nè zitti. Ne parleremo nei prossimi giorni insieme ai sindacati di categoria di Cisl e Uil. La nostra indignazione è doppia: da una parte l’esclusione dai benefici fiscali, dall’altra l’ipotesi (ribadita ieri anche dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, ndr) di intervenire sulle pensioni per recuperare risorse».
Si riferisce al prelievo di solidarietà che potrebbe essere chiesto alle pensioni più alte, dai 3.000euro circa in su?
«Devono smetterla di dare i numeri. Nessuno, tanto meno i pensionati, si sottrarrà alla richiesta di sacrifici, purché siano finalizzati all’occupazione, soprattutto per i giovani che sono senza lavoro. Però mi spieghino che differenza c’è fra un salario e una pensione di 3.000 euro, lordo o netto che sia. Non sono redditi entrambi? Se si fanno differenze, ci si piega a una logica aberrante, quella per cui i pensionati sono cittadini di serie B. No, in un Paese democratico non ci possono essere figli e figliastri, i soldi vanno trovati altrove. Tagliando i costi della politica, ad esempio...».
Beh, 100 auto blu su Ebay le metteranno...
«I costi della politica non riguardano solo le auto blu. Io credo che, se ci fosse la volontà, si potrebbero individuare nuovi risparmi, altre forme di finanziamento. In questi giorni ho cercato di mettermi in contatto con molti parlamentari di Pd e Sel: nessuno mi ha dato torto, attribuendo la responsabilità delle scelte a Renzi. Come se loro votassero nel parlamento greco...».
Vuol dire che senatori e deputati le danno ragione in privato ma non hanno il coraggio di dissentire dal premier?
«Io vorrei che il Pd si arrabbiasse per questa divisione tra lavoratori ed ex lavoratori. Quelli che mi hanno dato ragione dovrebbero andare da Renzi e dirgli che queste cose non si possono fare. Si dovrebbero dissociare da lui: se non lo fanno è perché la pensano esattamente uguale. Se continueranno a votare questi provvedimenti, auguri...».
Insomma, cosa salva di questi primi provvedimenti?
«È chiaro che alcune decisioni che il governo ha preso vanno bene, ma le ritengo mutilate dal punto di vista della giustizia sociale. I pensionati hanno perso il 30% del loro potere d’acquisto, grazie alle politiche di Berlusconi e di Monti: continuare a tartassarli non mi sembra una grande scelta democratica».

Corriere 15.3.14
Venti anni difficili: i pensionati hanno già pagato
Aumenti congelati e prelievi di solidarietà
Ecco i sacrifici (già fatti) dai pensionati
di  Domenico Comegna


Non c’è nulla da fare. Quando occorre reperire le risorse le pensioni vengono considerate una sorta di serbatoio di sicurezza. Ultimo in ordine di tempo a prospettare questa eventualità, il commissario alla spending review , Carlo Cottarelli, che ha suggerito l’ipotesi di imporre «un contributo temporaneo di solidarietà sui trattamenti più elevati a beneficio della fiscalizzazione degli oneri per i lavoratori neoassunti». Immediata la precisazione del presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Molto chiara: «Le pensioni non si toccano». Ma proviamo a ripercorrere gli ultimi anni di sacrifici che in qualche modo i pensionati hanno dovuto sostenere nel nome dei conti pubblici. Dall’innalzamento dell’età pensionabile alla decurtazione vera e propria degli assegni.
L’ultimo intervento, in ordine di tempo, è quello della riforma Fornero, che consentirà di risparmiare qualcosa come 93 miliardi di euro. Prima c’erano stati Amato, Dini, Maroni, Prodi. Le riforme previdenziali sono state probabilmente gli interventi che più hanno consentito di tenere l’Italia a galla. Bisogna tenere conto che dal 1992 tutte le rendite non sono più agganciate agli aumenti contrattuali dei lavoratori in attività, come avveniva un tempo. Ma solo all’inflazione (e in modo parziale). In vent’anni, insomma, gli assegni Inps hanno visto scendere il loro potere d’acquisto. Non va dimenticato che le pensioni oltre i 1.500 euro erano già state congelate dal 2011 dal governo Monti e per ben due anni non sono state adeguate al carovita.
Il blocco di due anni, però, comporta una perdita che si ripercuote per decenni e sterilizza gli effetti moltiplicativi degli adeguamenti (non si prendono gli aumenti sugli adeguamenti). La cosa che probabilmente farà più discutere è il solito prelievo sulle solite «pensioni d’oro». Si tratterà di un contributo temporaneo. Il punto è che una misura del genere già esiste, è scattata il primo gennaio scorso e prevede un prelievo del 6% per le pensioni da 7.020 euro fino a 10.027, del 12% per le pensioni comprese tra i 10.027 e i 15.041 euro e del 18% per le pensioni oltre i 15.041 euro. Indubbiamente c’è un po’ di confusione. Cottarelli assicurava comunque che l’eventuale contributo avrebbe risparmiato l’85% dei pensionati, questo significa che il limite per il prelievo poteva scendere per chi incassa un assegno di poco superiore ai 2 mila euro lordi.
Secondo i dati Inps riferiti al 2012 (ultimi disponibili) le pensioni fino a tre volte il minimo (1.443 euro al mese nel 2014) insomma, sarebbero le pensioni d’argento e anche quelle di bronzo. E pensare che i pensionati italiani sono tassati molto di più dei loro colleghi del resto d’Europa. Da un recente studio della Confesercenti risulta che su una pensione pari a 1,5 volte il minimo (752 euro al mese), il 9% se ne va in tasse, contro zero euro nel resto del continente. Su una pensione di tre volte il minimo (1.500 euro mensili) il divario è ancora maggiore: 20% da noi, 9,5% in Spagna, 5,2% in Francia e addirittura 0,2% in Germania. Sono davvero questi i ricchi o i pensionati d’oro ai quali chiedere altri sacrifici di fronte a una spesa pubblica che supera gli 800 miliardi? Sembra proprio di no. Definirli pensionati d’oro è scorretto. E poco rispettoso per le persone che, legittimamente, con il loro lavoro, hanno versato consistenti contributi (pari complessivamente al 33% della retribuzione) per ricevere una rendita per la vecchiaia.

Repubblica 15.3.14
L’emergenza non giustifica i danni causati dall’austerità
di Luciano Gallino



A fine 2012 un gruppo di giornalisti e politici greci presentava alla Corte Penale Internazionale dell’Aja una denuncia per sospetti crimini contro l’umanità a carico del presidente della Commissione Europea (Barroso), della direttrice del Fmi (Lagarde), del presidente del Consiglio Europeo (Van Rompuy), nonché della Cancelliera Merkel e del suo ministro delle Finanze Schäuble. A sua volta un’attivista tedesca nel campo dei diritti umani, Sarah Luzia Hassel, appoggiava la denuncia con una documentatissima relazione circa le azioni compiute dalle citate istituzioni a danno sia della Grecia che di altri Paesi, europei e no. Tutte azioni suscettibili di venir configurate addirittura come crimini contro l’umanità ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte Penale dell’Aja. Si va dalla liquidazione della sanità pubblica alle politiche agricole che hanno affamato milioni di persone; dalla salvaguardia del sistema finanziario a danno dei cittadini ordinari alle ristrette élite che influenzano le decisioni delle istituzioni stesse, sino agli interventi nel campo del lavoro e della previdenza atti a ledere basilari diritti umani. Un altro documento ancora che accusa i vertici Ue di gravi forme d’illegalità, simili a quelle testé indicate ma senza etichettarle come crimini contro l’umanità, è stato pubblicato a fine 2013 dal Centro Studi di Politiche del Diritto Europeo di Brema, su richiesta della Camera del Lavoro di Vienna.
Per quanto è dato sapere i documenti citati sopra giacciono tuttora nei cassetti dei destinatari. Di recente sono però intervenuti fatti nuovi che potrebbero indurre qualche Ong o formazione politica a rilanciare le citate denunce. Si veda il rapporto uscito a fine febbraio su Lancet, numero uno delle riviste mediche, circa i danni che sta infliggendo alla popolazione la crisi della sanità in Grecia per via delle misure di austerità imposte dalle istituzioni Ue. Chi soffre di cancro non riesce più a procurarsi le medicine necessarie, divenute troppo costose. La quota di bambini a rischio povertà supera il 30 per cento. Sono ricomparse, dopo quarant’anni, malaria e tubercolosi. I suicidi sono aumentati del 45 per cento. Chi fa uso di droga non dispone più di siringhe sterili distribuite dal sistema sanitario, per cui utilizza più volte la stessa siringa. Risultato: i casi di infezione Hiv rilevati sono passati da 15 nel 2009 a 484 nel 2012.
Un secondo fatto nuovo è che l’Italia, insieme con Spagna, Portogallo e Irlanda, appare avviata sulla stessa strada della Grecia. Anche da noi i tempi di attesa per le visite specialistiche si sono allungati sovente di molti mesi perché i medici che vanno in pensione non sono rimpiazzati. Molti rinviano o rinunciano a visite mediche o esami clinici perché i ticket hanno subito forti aumenti e non riescono più a pagarli. Coloro che vanno in un laboratorio convenzionato si sentono dire che se scelgono la tariffa privata spendono meno del ticket. Molte famiglie non riescono più a mandare i bimbi all’asilo o alla scuola materna perché i posti sono stati ridotti, o la retta è aumentata al punto che non possono farvi fronte.
L’intera questione si può quindi riassumere in questo modo: le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. Come si legge nel rapporto di Lancet, “se le politiche adottate avessero effettivamente migliorato l’economia, allora le conseguenze per la salute potrebbero essere un prezzo che val la pena di pagare. Per contro, i profondi tagli hanno avuto in realtà effetti economici negativi, come ha riconosciuto [perfino] il Fmi”. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna, Portogallo, la disoccupazione e l’occupazione precaria hanno toccato livelli altissimi. Il Pil ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori, quali la deflazione, ossia una forte caduta del livello dei prezzi in molti settori, la domanda aggregata stagnante, più una crescita del Pil che nei prossimi anni continuerà a registrare tassi dell’1 per cento o meno, sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro.
In altre parole, non soltanto i vertici Ue hanno dato prova, con le politiche economiche e sociali che hanno imposto, di una scandalosa indifferenza per le persone che vi erano soggette: dette politiche si sono pure dimostrate clamorosamente sbagliate. La questione presenta alcuni punti di contatto con la crisi finanziaria esplosa nel 2008. Allora diversi giuristi americani ed europei parlarono di “crimini economici contro l’umanità”, commessi dai dirigenti dei maggiori gruppi finanziari. Ma il caso odierno della Ue presenta una differenza abissale. Nel caso della crisi finanziaria gli attori erano soggetti privati. Nel caso della crisi europea si tratta dei massimi esponenti della dirigenza pubblica della Ue, cui è stato affidato l’oneroso impegno di presiedere ai destini di 450 milioni di persone ai tempi della crisi. Nello svolgere detto impegno essi hanno mostrato anzitutto una clamorosa incompetenza della gestione della crisi; hanno scelto di favorire gli interessi dei grandi gruppi finanziari andando contro agli interessi vitali delle popolazioni Ue; hanno dato largo ascolto alle maggiori élite europee, e in più di un caso ne fanno parte; hanno mostrato di non tenere in alcun conto le sorti delle persone cui si dirigevano le loro politiche. È mai possibile che non siano chiamate a rispondere per nulla delle illegalità non meno che degli errori che hanno commesso, e delle sofferenze che hanno causato con l’indifferenza se non addirittura il disprezzo dimostrato verso le popolazioni colpite?
Stando al documento di Brema, le violazioni dei diritti umani compiute dai vertici Ue, in spregio agli stessi trattati dell’Unione, potrebbero essere portate davanti a varie corti e istituzioni europee, nonché davanti a organizzazioni internazionali quali l’Onu e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Senza dimenticare che di crimini e illegalità della Ue parlano anche in modo sbrigativo i partiti nazionalisti, ma con una radicale differenza rispetto alle iniziative sopra citate: mediante tali accuse essi vogliono distruggere la Ue, mentre lo scopo dovrebbe essere quello di cacciare gli attuali dirigenti della Troika e sostituirli con altri, dopo aver proceduto a una approfondita revisione del trattati europei. Mediante la quale si ribadisca sin dall’inizio che nel loro stesso interesse costitutivo, come scrivono i giuristi di Brema, le istituzioni europee debbono prendere sul serio le questioni sociali esistenziali delle cittadine e dei cittadini dell’Unione. Non esiste stato di eccezione che possa esentarle da tale dovere, come invece esse stanno facendo con le politiche di austerità.

La Stampa 15.3.14
La politica dell’azzardo in quattro atti
di Mario Deaglio


Con il suo programma di governo, la sua recente conferenza stampa e i suoi interventi televisivi, il presidente del Consiglio ha reintrodotto, dopo molti anni, nella politica - e in particolare nella politica economica italiana - la dimensione dell’azzardo, della scommessa che si fa senza conoscere bene le probabilità di vittoria.

Il che è proprio il contrario dell’impostazione tradizionale, consistente nel non fare un passo senza aver minuziosamente soppesato tutte le possibilità e le alternative. Salvo poi, come è successo più di una volta al Pd, di sbagliare, per troppo calcolo, i rigori a porta vuota, secondo l’espressione dello stesso presidente del Consiglio.

Le scommesse di Renzi, delle quali bisogna oggi prendere atto, senza che questo implichi uno schierarsi ma piuttosto un tentativo di capire, sono sostanzialmente quattro.
La prima è di riuscire a cambiare subito qualcosa di importante nel processo di decisione politico-amministrativa del Paese: approvare una legge elettorale in poche settimane, mettere a punto progetti legislativi importanti in pochi giorni, rendere operative decisioni sempre rinviate nei fatti, come quella della vendita delle auto blu, passare da un eterno dire a un rapidissimo fare.
Così Renzi si scontra con la burocrazia centrale dello Stato, che ha oggettivamente – e spesso con obiezioni sensate – esercitato una funzione di rallentamento, gelando le premesse delle azioni di cambiamento.

Si scontra anche con procedure parlamentari ossificate che contemplano l’eterno rimpallo dei disegni di legge tra commissioni e Camere, sovente snaturati dall’inserimento di piccole modifiche di interesse particolare, secondo una norma non scritta per cui deve fare il possibile per dare almeno un «contentino» a tutti. Si scontra infine con procedimenti consolidati di contrattazione sociale, per cui gran parte del mondo sindacale e una parte importante del mondo imprenditoriale anela solo ad avere un «tavolo» su cui discutere e contrattare, se possibile in maniera permanente.
Si tratta di una scommessa molto ardita perché prevede il rovesciamento del gattopardismo che ha governato a lungo la politica e l’economia italiana, secondo il quale bisogna cambiare (superficialmente) tutto perché tutto resti (sostanzialmente) com’è. Sembra di capire che, per Renzi, invece tutto possa restare superficialmente com’è (i patti con l’Europa devono essere rispettati, le procedure parlamentari seguite) a condizione che tutto nella sostanza subisca un radicale rinnovamento.
La seconda scommessa, senza la quale l’introduzione delle novità procedurali sarebbe di poco conto, è di riuscire a cambiare i comportamenti economici degli italiani. Quando non possono promettere nuove spese, i politici devono esser capaci di suscitare nuovi modi di agire. Il programma del governo ha un senso se gli italiani che ne hanno le possibilità superano la paura di spendere, e recuperano una parte dei consumi non fatti negli ultimi anni; se le imprese italiane scacciano la paura di investire e le banche italiane la paura di finanziare quegli investimenti. Il tutto darebbe una sostanziale copertura economica ai programmi di riduzione delle imposte, mentre la copertura puramente contabile oggi potrebbe essere carente.
La terza scommessa, che si è venuta delineando solo negli ultimi giorni è quella di modificare, oltre ai comportamenti degli italiani anche gli atteggiamenti delle istituzioni europee, a lungo ingessate in un disperante burocratismo. Non è chiaro in che direzione Renzi voglia spingere l’Europa, ma di certo ha mostrato di volerla allontanare da un atteggiamento puramente ragionieristico per cui a un Paese delle dimensioni dell’Italia, con un movimento di cassa dell’amministrazione pubblica di 700-800 miliardi di euro si contestano sforamenti minimi, pari a 2-3 miliardi. Con la Francia, la Commissione europea non si è comportata e non si comporta così.
La quarta scommessa di Renzi è quella su se stesso. E’ difficile dire se la sua promessa di ritirarsi in caso di non realizzazione degli obiettivi sia solo un artificio retorico ma è sicuramente legittimo prenderla per buona. Anche in questo caso si è di fronte a una rottura di comportamenti garantisti per i quali il ritiro dalla politica non è contemplato, la condizione di «uomo politico» viene considerata irreversibile, separata dalla normale realtà del Paese.
Non è affatto detto che Renzi abbia successo. Il primo Berlusconi fece anche lui le sue scommesse, sperò che le piccole imprese e i lavoratori autonomi, sgravati con i condoni da una parte del peso del fisco, avrebbero proiettato il Paese in un esaltante futuro di crescita. E’ andata decisamente male, e la conseguenza è stata un ventennio di stagnazione. La scommessa di Renzi è diversa perché, oltre che socialmente trasversale, è basata, come si è detto sopra, sull’ipotesi di un profondo mutamento dei comportamenti; può essere sfavorevolmente influenzata, oltre che da un rifiuto viscerale di una gran parte degli italiani a uscire da un clima di contrattazione permanente, anche da un’evoluzione internazionale che sta facendo soffiare sull’Europa nuovi venti di guerra fredda e scoraggia i grandi cambiamenti. Se la perde, Renzi farebbe certo bene ad andare a casa. Il pericolo potrebbe essere che con lui ci vada tutto il Paese.

La Stampa 15.3.14
Alfano: Matteo? Il suo piano mi ricorda le ricette del Cavaliere
“Altro che sinistra, direi liberale. Com’era Tremonti”
di Ugo Magri


Sostiene Renzi che avete varato la manovra più di sinistra da molti anni in qua. Voi però siete il Nuovo centrodestra: non vi sentite in difficoltà, ministro Alfano?
«No, perché a me sembra semmai il piano più aderente alle nostre idee che si potesse immaginare. Ne sono talmente convinto che qui dichiaro: abbiamo avuto ragione a entrare in questo governo. L’elettorato di centrodestra ha avuto la prova che nell’esecutivo c’è chi ne rappresenta i valori e i programmi».
Che cosa c’è di vostro nella ricetta annunciata dal premier?
«Quasi tutto, direi. Diminuire le tasse degli italiani senza aumentare il deficit, e anzi tagliando la spesa pubblica improduttiva, come altro vogliamo chiamarlo se non ricetta economica liberale? Io ci vedo una chiara continuità con il primo modulo di riduzione fiscale che venne adottato nel 2003, a firma di Berlusconi e di Tremonti».
Addirittura...
«Esatto. E posso dirlo a ragion veduta, dal momento che il relatore in Parlamento fu proprio il sottoscritto. Fu estesa la “no tax area” e vennero abbassate le imposte per 5 miliardi limitatamente alle fasce più deboli. Oggi seguiamo la stessa filosofia, ma con più risorse e rivolgendoci a una fascia di reddito che arriva a comprendere una quota del ceto medio, di cui ci consideriamo gli avvocati».
Forza Italia vi sfida a indicare le coperture finanziarie che renderanno possibile il taglio delle tasse...
«Criticano le coperture perché non le hanno viste. Ma quando le studieranno, sarà chiaro anche a loro che lo stock delle risorse viene ricavato attraverso il taglio agli sprechi, senza affondare le mani nelle tasche dei contribuenti. E a quel punto voglio vedere se voteranno contro un piano che, ripeto, idealmente prosegue il cammino iniziato nel 2003. Forza Italia che si schiera contro il taglio delle tasse, beh, sarebbe una notizia davvero clamorosa...».
Siamo sicuri che, strada facendo, non spunterà fuori qualche balzello per garantire le coperture?
«Sicuri».
O magari un taglio alle pensioni?
«Non è previsto niente di tutto ciò. E se qualcosa cambierà, sarà nella direzione della nostra prossima battaglia in difesa degli autonomi, dei liberi professionisti, delle partite Iva. Penso ai tanti giovani che lavorano in proprio, non hanno dipendenti e rientrano nella fascia dei 25 mila euro di reddito: meritano di essere incentivati. Le ricordo che siamo stati noi a chiedere e ottenere l’abbassamento dell’Irap, cioè la tassa più soffocante sulle imprese, compensandola con l’aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie, ma senza toccare i Bot e il risparmio degli italiani. Siamo stati noi a smontare, per decreto legge, la riforma Fornero che aveva prodotto disoccupazione attraverso vincoli sbagliati sull’apprendistato e sui contratti a termine...».
Insomma, questa manovra non è di sinistra, al limite di centrodestra.
«Tolga “al limite”. E aggiunga il piano casa, il “social housing” del ministro Lupi, che prevede un sistema per superare le proroghe degli sfratti, di cui si avvantaggeranno tanto gli inquilini quanto i proprietari. Noi abbiamo piantato con forza la nostra bandiera nel programma di governo».
Lei, che fu vice-premier del precedente governo, come spiega il cambio di passo? Era Letta troppo riflessivo, oppure è Renzi che sa osare di più?
«Né l’una cosa né l’altra. C’è il fatto nuovo di un presidente del Consiglio che concentra in sé pure il ruolo di segretario Pd. Si riducono le mediazioni necessarie, specie a sinistra, e ciò dà il senso dell’accelerazione».
Con Renzi come si condividono le decisioni? Le riunioni sono pochine, di vertici non se ne parla nemmeno...
«Abbiamo contatti molto operativi e sulle questioni di sostanza. Ci sentiamo al telefono e via sms, che è un sistema di comunicazione molto congeniale a lui e altrettanto a me».
Tra Renzi e Berlusconi, chi è il miglior «venditore» di se stesso?
«“Venditore” è parola sbagliata per entrambi. La comunicazione è sostanza; quando dietro non c’è nulla, è impossibile che funzioni».
Però sulla legge elettorale lei fa di tutto per incrinare il patto tra quei due...
«Ci batteremo in Senato per le preferenze al posto delle liste bloccate. Renzi ha premesso di non essere ostile. Dunque speriamo che Forza Italia cambi idea. Perché sarebbe singolare che la legge permetta di scegliere chi ci rappresenta in Europa, e non un deputato nel Parlamento italiano».

Corriere 15.3.14
Renzi, Sigfrido e il drago della politica
di Giorgio Montefoschi


Viviamo (quasi tutti) velocemente. Molto velocemente. Ci spostiamo velocemente, sia nei tragitti lunghi sia in quelli brevi adatti magari a contenere una qualche pausa mentale o di distrazione; mangiamo velocemente; velocemente (così da poterli cambiare presto) consumiamo gli oggetti dell’uso quotidiano. Per non parlare del nostro modo di comunicare. Lo spazio per l’attesa di una lettera, quello per la riflessione su una lettera, o su una telefonata è completamente sparito. Non soltanto i nostri figli, non soltanto i nostri nipoti, noi tutti (o quasi tutti) siamo preda del demone di una comunicazione che vuole presenza immediata, risposte immediate al secondo. E così ci chiede il twitter; la frase che giocoforza deve essere veloce; oppure il messaggino nel quale, giocoforza, bisogna usare la concentrazione. A scapito, è fin troppo ovvio, della articolazione normale di un ragionamento, di una ponderata pienezza effettiva — per non parlare della sintassi e delle parole che, molto spesso, si deformano oppure, una con l’altra, si mangiano. Ma tale è la situazione.
Nella politica italiana, invece, succede paradossalmente tutto il contrario: paradossalmente, perché se c’è un ambito della nostra vita in cui occorrerebbero tempi brevi e rapidità di decisioni, è proprio quello della politica. Invece no. Come certi personaggi mitologici delle opere wagneriane, immobili, addormentati da tempi immemorabili, o sprofondati in un letargo che assomiglia molto al sonno, i politici italiani stanno fermi dove stanno da tempi immemorabili, dormono o sonnecchiano, e non decidono niente. E se arriva qualche Sigfrido, giovane, entusiasta, pure temerario, che vorrebbe interrompere questo incantesimo del nulla, si allarmano terribilmente.
Lo abbiamo visto in questi giorni. Sono anni e anni che ci lamentiamo per le scuole disagiate o pericolose (quando cadono i tetti) in cui vanno i nostri figli; sono anni e anni che denunciamo una legge elettorale ignobile (detta Porcellum per quanto è ignobile) e un sistema legislativo con due camere obsoleto e pregiudizievole alla efficienza e alla velocità del legislatore; sono anni e anni che chiediamo di ripensare il ruolo delle regioni; sono anni e anni che chiediamo di eliminare le vergognose disuguaglianze retributive (i folli stipendi della politica e dell’amministrazione); sono anni, infine, che lamentando una crisi economica epocale, chiediamo di abbassare le tasse ai singoli e alle imprese per ridare impulso a una produzione competitiva e al consumo. Invece, cosa succede? Succede che arriva un giovane presidente del Consiglio, come Matteo Renzi, che (magari con qualche concessione di troppo a delle esuberanze formali) propone delle date ravvicinate, dei percorsi brevi, non più eterni, per risolvere questi problemi che ci affliggono da anni e anni: insomma, propone di fare presto, e improvvisamente il corpaccione sonnolento della politica (con i suoi addentellati, tra i quali la burocrazia in primo luogo) si sveglia e si allarma terribilmente. E subito, tremando per il timore di non poter tornare quanto prima al suo rassicurante letargo, usa ogni arma, dall’ironia alla delegittimazione, per sparare a zero intanto proprio sui tempi previsti o auspicati dal giovane Presidente del Consiglio. Cos’è tutta questa fretta? Dove andrà mai quel giovanotto con tutta quella fretta? La legge elettorale? Faceva schifo: ma intanto, meglio proporre una bella quantità di emendamenti, un bel po’ di paletti non proprio essenziali. L’abolizione del Senato? Figuriamoci se il Senato voterà la sua ghigliottina! Più soldi nelle tasche di chi guadagna poco e meno tasse alle imprese in un mese? E come ce la farà in un mese!
«Io giaccio e posseggo: lasciatemi dormire!» dice nel Sigfrido, con voce cavernosa, Fafner,il drago che custodisce il prezioso anello in cui è racchiuso ogni potere terreno. Vorrebbe non essere disturbato, ripiombare nel sonno. Ma non conosce quale sarà, di lì a poco, il suo rovinoso destino.

Il Sole 15.3.14
La stampa europea vede nel «renzismo» la spinta a uscire dall'austerità
Ma emerge molto scetticismo sui dati e sull'efficacia delle misure annunciate
di Stefano Folli


Il primo a saperlo dovrebbe essere proprio Matteo Renzi. Dopo le ore iniziali, quando ha prevalso la novità e di conseguenza il disorientamento, tutti i grandi giornali occidentali s'interrogano su quale sia il peso reale di quegli annunci e in cosa consista la svolta italiana. Il premier non si sorprenderà se, a distanza di due o tre giorni, prevalgono le analisi critiche e affiorano i dubbi. Fa parte del gioco.
Renzi ha voluto stupire il mondo e adesso il mondo vuole capire quanto sia credibile questa mezza rivoluzione che può cambiare l'Italia e avere un impatto non secondario sul resto d'Europa. A caldo la stampa aveva registrato la scossa politica, l'improvviso risveglio dell'Italia dal consueto letargo. Adesso si dedica a una lettura più attenta dei dati economici. Non meraviglia che in tutti gli editoriali, dal "Wall Street Journal" al "Financial Times" al "Monde", emerga un certo scetticismo circa la validità delle ricette renziane. Vuoi per il «populismo», sia pure moderno e dinamico, del nuovo premier. Vuoi per la sostanza di una manovra ancora da decifrare. Ma il punto politico resta e nessuno lo sottovaluta. Come scrive il "Monde" e come aveva osservato anche il "Financial Times", «Renzi dichiara la fine dell'austerità».
È possibile che questo accada in via unilaterale in un solo paese dell'Unione? Qui cominciano le incertezze e perciò si scandagliano le cifre nella speranza di trovare la pietra filosofale, ossia la prova che il governo italiano ha scoperto come fare le riforme e dare impulso all'economia: il tutto in pochi mesi e con soldi veri. Dopodiché il "Financial Times" conclude lo scrutinio e sentenzia che «la medicina di Renzi non curerà l'Italia». Dieci miliardi del ribasso Irpef andranno sprecati perché non serviranno a risolvere «la crisi di competitività del paese». In altri termini, il governo Renzi costituisce, è vero, una mina politica che può far traballare il castello dell'austerità d'impronta tedesca. Ma la serietà del piano economico in quanto tale è ancora "sub judice".
Questi punti di vista si riflettono senza dubbio nelle valutazioni che sono in corso negli uffici delle cancellerie europee. Renzi, nel suo giro fra Parigi e Berlino, incontrerà obiezioni e richieste di precisazioni nella falsariga dei commenti della grande stampa. Peraltro non ci sono pregiudizi nei suoi confronti. Al contrario, i cambiamenti a Roma incuriosiscono prima di preoccupare. A patto che il premier non si faccia troppo fuorviare dalle parole di circostanza tipiche dei rapporti fra governi.
Definire «ambizioso» il programma di Renzi, secondo le parole di un portavoce tedesco, non implica adesione e tanto meno entusiasmo. A suo tempo il piano di Monti era stato salutato con il termine «impressionante». La differenza è che Monti si muoveva nel solco dell'austerità più ortodossa, mentre la novità di Renzi è proprio il tentativo di fuoriuscire dalla gabbia del rigore. Può darsi che l'ex sindaco di Firenze sia fortunato, fino a ottenere quello che fu negato ai suoi predecessori. Ma dovrà essere molto convincente. La carta segreta (ma non tanto) è naturalmente una sola: convincere le cancellerie, e in primo luogo Berlino, che il populismo buono e costruttivo è oggi, alla vigilia delle elezioni, l'unica alternativa al populismo senza ritorno di cui è interprete Grillo. L'uomo che suscita parecchie inquietudini anche in Germania.

L’Huffington Post 15.3.14
Renzi non ha letto e rottama il Manifesto del Pes per le europee
di Carlo Patrignani

qui

Il Sole 15.3.14
La residenza da sindaco
Polemica sulla casa prestata da Carrai a Renzi
di Silvia Pieraccini


FIRENZE Un appartamento nel centro di Firenze, non lontano da Palazzo Vecchio, è stata la residenza di Matteo Renzi per 32 mesi (a partire dal 2011), utilizzata tutte le volte che l'allora sindaco decideva di non tornare nella casa di famiglia a Pontassieve, distante poco più di mezz'ora. Ma quell'appartamento fiorentino, all'ultimo piano di un palazzo di via degli Alfani - come ha rivelato il quotidiano Libero - non era stato preso in affitto da Renzi bensì dall'amico, consigliere e braccio destro Marco Carrai, attuale presidente dell'aeroporto fiorentino "Vespucci", che ha spiegato di avergliela prestata proprio per i rapporti di amicizia che legano i due. Eppure la casa pagata da Carrai e utilizzata da Renzi rischia di trasformarsi in un boomerang, visto che Carrai ha ricevuto incarichi legati al Comune di Firenze e che ora potrebbe essere in lizza per una nomina nel cda di una grande azienda a partecipazione statale. Un caso che fa montare la polemica sul possibile conflitto di interessi.
Carrai, dal canto suo, non ci sta a essere impallinato, e per due giorni consecutivi ha scritto al quotidiano diretto da Maurizio Belpietro per spiegare la sua verità. «Quanto all'affitto di via Alfani, a me intestato e regolarmente registrato, l'ospitalità che ho dato a Matteo Renzi, amico da anni, gli ha consentito di mantenere appoggio e residenza a Firenze durante la sua funzione di sindaco», ha affermato Carrai nella prima lettera al quotidiano, in cui nega anche di aver ricevuto appalti pubblici senza gara dal Comune di Firenze. Nella seconda lettera, nella quale si annuncia la querela al giornale per diffamazione, Carrai entra ancor più nel dettaglio. «Ritengo di non aver fatto niente di male – scrive riferendosi all'ospitalità gratuita data a Renzi per 32 mesi pur avendo incarichi pubblici in una società partecipata dall'ente locale di cui l'amico è sindaco - salvo che non si provi che nella mia funzione ho tradito gli interessi pubblici e ho favorito interessi privati, e ingenuamente pensavo che un atto di generosità non fosse una colpa». La conferma verrebbe dal fatto che l'appartamento di via degli Alfani era l'ex dimora di Carrai, che l'aveva affittata molto prima che Renzi ci si trasferisse (lasciando una mansarda fiorentina che costava mille euro al mese e che il sindaco non si poteva più permettere). A ricostruire i tempi della locazione è lo stesso Carrai, che però non ha ancora voluto mostrare il contratto di affitto regolarmente registrato.

l’Unità 15.3.14
La battaglia nel Pd: prima via il Senato
Anna Finocchiaro e 20 senatori democratici premono per votare la riforma costituzionale prima della legge elettorale
Timing opposto per Renzi
di Claudia Fusani


«Prima la riforma del Senato e poi la legge elettorale» dicono 21 senatori Pd che, sommati ai 32 di Ncd e agli altri partiti piccoli, detengono la golden share della maggioranza a palazzo Madama. «Entro il 25 maggio (giorno delle elezioni europee, ndr) avremo la nuova legge elettorale e l’ok in prima lettura alla riforma del Senato» dice invece il premier Renzi. Obiettivi uguali, percorsi opposti. Sapendo che l’iter di una nuova legge elettorale è molto più breve (altre letture, poco più di un mese), mentre quella delle riforme costituzionali pretende come minimo un anno di tempo. E dove chi vuole fare prima la riforma del Senato teme che Berlusconi, leone ferito, possa a un certo punto stufarsi di fare la stampella a Renzi e decida di tornare a votare (magari a maggio 2015) con un sistema ancora bicamerale e una legge zoppa visto che l’Italicum prevede un sistema di voto a doppio turno per la Camera e un proporzionale perfetto per il Senato. Orrore.
Due settimane dopo siamo di nuovo alla casella di partenza: prima le riforme costituzionali o prima l’Italicum? Come se l’accordo che faticosamente ha tolto il Senato dal testo della legge non fosse mai stato siglato.
Nelle prossime settimane la Camera alta sarà la bella signora che deciderà le sorti del governo. E la credibilità del premier che ha legato faccia e reputazione a un cronoprogramma che per essere realizzato ha bisogno di tutti i voti della maggioranza di governo ma anche di quella politica allargata. Una piazza d’armi dove s’incroceranno tante battaglie ma una sola partita: tenere viva la legislatura e costringerla ad approvare le riforme. Cominciando da quella che è diventata il cuore del riformismo renziano: la fine del bicameralismo, cioè l’eutanasia del Senato per mano dei suoi stessi senatori.
Occorre cominciare dagli eserciti in campo nel necessario gioco del chi-sta-con-chi. La maggioranza è 161 voti. In questo momento i voti su cui può contare l’Italicum sono 209: 107 del Pd (sarebbero 108 ma Grasso non vota), 10 del gruppo Autonomie, 60 Forza Italia, 32 Ncd. Se è vero, come dicono le trattative di queste ore, che è stato raggiunto un nuovo accordo Pd/Fi/Ncd che prevede di abbassare la soglia di accesso dell’Italicum dal 4,5 al 4%, di alzare al 13 quella per le coalizioni e di irrorare il tutto con la parità di genere nella forma dell’alternanza uomo-donna nella liste, è chiaro che l’Italicum può essere licenziato dal Senato prima di Pasqua (metà aprile) e diventare legge tra fine aprile e primi di maggio. Salvo improbabili ripensamenti sulle preferenze, sembrano destinati al voto contrario sempre e a tutto i piccoli partiti come Lega, Sel, Scelta Civica, Popolari, Gal, i 20 del gruppo Misto e i 41 pentastellati.
Ma la politica non ama schemi lineari. L’elemento di scompiglio, in questo caso, sono come sempre le regole e il fatto che a presiedere la Commissione Affari costituzionale di palazzo Madama è Anna Finocchiaro, ex magistrato e politica di lungo corso nonché una di quelle figure che Renzi amerebbe rottamare perché certamente non funzionale alla sua logica speedy. Sarà lei d’ora in poi ad avere in mano il boccino dei tempi e dei contenuti della stagione delle riforme. Finocchiaro ieri ha detto in modo molto netto: «Prima si fa la riforma del Senato poi quella delle legge elettorale ». E poiché la senatrice è dotata di molta ironia, ha aggiunto: «La differenza tra me e Renzi è che potrei essere sua madre e ho la pazienza di Giobbe».
La riunione dei capigruppo tra lunedì e martedì potrà, forse, chiarire le mosse. A partire da altre due scadenze intrecciate a Italicum e riforma del Senato. Anzi, testa d’ariete per l’una e per l’altro. La prima scadenza si chiama legge elettorale europea. La discussione generale è già cominciata, introduce la parità di genere nelle liste per le europee e potrebbe abbassare la soglia d’ingresso dal 4 al 3 per cento. Un’iraddiddio per Berlusconi, Forza Italia e anche il Pd di Renzi. Una manna per Ncd e gli altri piccoli partiti. Per evitare questa trappola, ecco che Verdini, per conto del Cav, sta smussando la soglia dell’Italicum e ragiona su concedere la parità di genere.
Se questa mossa potrà tenere buona quella parte del Pd che s’è sentita tradita alla Camera proprio nella battaglia sui diritti delle donne, è difficile che possa essere sufficiente per convincerli a lasciare l’Italicum sulla corsia preferenziale.
Ora, e scusate questo incredibile intreccio, c’è un’altra partita che Renzi deve assolutamente vincere. Si chiama abolizione delle Province, disegno di legge Delrio. Manca solo il voto del Senato. Se non arriva entro la prima settimana di aprile, il 25 maggio torneremo a votare anche per i consiglieri provinciali. Faccenda insopportabile per Renzi.
Alla fine lo scambio potrebbe essere proprio questo: avanti con l’abolizione delle Province, meno fretta sull’Italicum e sia dia inizio alla riforma del Senato.

Corriere 15.3.14
Nel Pd braccio di ferro sui tempi
Il nuovo Senato scavalca l’Italicum
Il timore di agguati sui due testi: il gruppo democratico vuole correggerli
di M. Gu.


ROMA — Prima la rivoluzione del bicameralismo, poi la legge elettorale. Salvo ripensamenti finirà così il braccio di ferro tra i partiti (e dentro il Pd) sulla tempistica delle riforme. «Tenerle insieme ha un senso logico — conferma Lorenzo Guerini —. Verranno incardinati entrambi a Palazzo Madama e poi uno dei due, probabilmente il Senato, avrà una tempistica anticipata». La prossima settimana il presidente Pietro Grasso convocherà i capigruppo e si comincerà a parlare di calendario. Gianni Cuperlo e Anna Finocchiaro chiedono di esaminare prima la riforma del Senato, contro le pretese di Berlusconi. E anche se Renzi sta valutando l’idea di partire dalla Costituzione, tra i fedelissimi del premier corre il sospetto che la minoranza del Pd voglia complicare la partita del governo al Senato. Parlare di caccia al «sabotatore» sarebbe troppo, eppure alcuni renziani hanno acceso i riflettori su quei senatori che si sono esposti con critiche alla riforma.
Cuperlo giura che «il Pd non gufa contro Renzi». E Finocchiaro, che guida la commissione Affari costituzionali, promette che non farà «forzature», ricordando di aver condotto nella sua vita solo «battaglie alla luce del sole». Ma Mariastella Bianchi accusa gli «sconfitti» al congresso di voler «intralciare le riforme» per colpire il governo. Come? Riducendo a «lettera morta» l’Italicum e consegnando le norme costituzionali a una «navigazione incerta». Sorvegliato speciale anche il bersaniano Miguel Gotor, per una intervista al Corriere . Contro di lui si scaglia la senatrice renziana Isabella De Monte, che rispolvera Tafazzi: «A chi conviene sabotare le riforme? Il governo vuole cambiare il sistema, se il collega Gotor ha altri obiettivi dovrà spiegarli ai nostri elettori». Ma il senatore respinge le accuse e mette in guardia i colleghi: «Se facciamo prima l’Italicum e Berlusconi decide di boicottare il Senato sarà una frittata istituzionale e un clamoroso autogol per il governo».
Nella trincea insidiosa del Senato si combatte a colpi di disegni di legge. «Prevedo una discussione serrata — fiuta tensioni sottotraccia il capogruppo Luigi Zanda —. Sulla Costituzione la sensibilità dei senatori è forte e bisogna essere prudenti». Teme trappole e incidenti? «Sarebbe sbagliato immaginare atteggiamenti ostruzionistici, anche quando i partiti dissentono dalla proposta». Sabotaggi in vista? «No, sarebbe gravissimo non essere responsabili». Avvisi ai naviganti, dopo che Renzi ha tirato le orecchie al presidente dei deputati Roberto Speranza per i voti in libertà sulla legge elettorale. Ma intanto Stefano Lepri, renziano, lancia su L’Unità una proposta alternativa a quella del governo, un «Senato federale che approvi le leggi regionali quadro». Walter Tocci dispensa consigli al premier: «Lasci migliorare al Parlamento bicameralismo e legge elettorale». Giovedì Zanda riunirà il gruppo per discutere il testo messo a punto dagli uffici del ministro Boschi. L’obiettivo è presentare entro due settimane un ddl che recepisca le linee guida del governo. I nodi? Competenze dei senatori e composizione dell’assemblea. E qui il Pd pensa di dimezzare i 21 membri nominati dal capo dello Stato.
M.Gu.

Repubblica 15.3.14
Boschi: si può anticipare la riforma del Senato
di Sebastiano Messina



MINISTRO Boschi, il presidente del Consiglio vuole arrivare entro il 25 maggio - cioè prima delle elezioni europee - all’approvazione definitiva dell’Italicum e al primo voto sulla riforma del Senato. Posso chiederle come pensate di farcela?
«Ci possiamo riuscire. Se i gruppi che hanno sottoscritto l’accordo sulle riforme continuano a tenere la barra puntata, i tempi tecnici ci sono. Entro la fine di marzo vogliamo fare la sintesi delle proposte per la riforma del Senato e del titolo V. Poi la presenteremo a Palazzo Madama e avremo due mesi pieni davanti».
Ha letto quello che ha detto la presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, Anna Finocchiaro? Dice che ha «la pazienza di Giobbe», ma di sicuro ha anche la memoria di Mitridate e non avrà dimenticato la battuta di Renzi sul suo carrello con scorta all’Ikea…
«Però credo, onestamente, che la presidente Finocchiaro ci darà una mano e collaborerà a questo progetto. Ci siamo parlate più volte…».
Ma quando la Finocchiaro dice che prima si fa la riforma del Senato e solo dopo si discute l’Italicum, a lei sta bene?
«Questo lo dovremo discutere con le altre forze che hanno sottoscritto l’accordo. Può essere una soluzione. L’importante è riuscire a fare entrambe le riforme nei tempi stabiliti».
Dunque lei è ottimista, sul rispetto dei tempi?
«Sì, perché ce la possiamo fare. E ce la dobbiamo fare. Sono certa che i senatori sono i primi a rendersi conto che siamo a un passo da un risultato storico, e dunque lavoreranno in modo rapido e grande impegno».
Il capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza, ha promesso alle deputate che erano furibonde per la bocciatura della parità di genere nelle liste che al Senato il partito farà di tutto per rimediare. Lo farete?
«Se c’è l’accordo con gli altri partiti. Una parte del Pd ha utilizzato in modo un po’ strumentale questo tema. Di fronte a un risultato storico come quello che abbiamo davanti, non ci si può concentrare su un singolo particolare. Perché se salta la legge elettorale rischia tutto il resto».
Lei ipotizza un accordo, ma Brunetta ha detto che il patto Renzi-Berlusconi va rispettato fino alle virgole, e che loro non accetteranno «altri accordi al ribasso». E allora?
«Come in tutte le trattative, all’inizio ci sono sempre delle prese di posizione forti. Dopodiché, se discutendo si trova ragionevolmente il modo di migliorare il testo, si fa. Io credo, ma è una mia opinione personale, che al Senato qualcosa verrà cambiato. Non credo che la legge elettorale sarà approvata tale e quale l’abbiamo votata alla Camera».
A Montecitorio si parla di un patto segreto tra Lega e Forza Itaconlia: la rinuncia alle preferenze in cambio dell’emendamento salva- Lega al Senato. Le risulta?
«Questo andrebbe chiesto a loro”.
Ma il Pd la voterebbe, una norma ad hoc per consentire alla Lega di aggirare lo sbarramento?
«Al momento non l’abbiamo votata e non è nell’accordo. Noi non abbiamo alcun interesse a salvare la Lega. Poi, come per gli altri elementi, se si trova un accordo generale…».
E’ ipotizzabile uno scambio tra il vostro sì al salva-Lega e quello di Forza Italia alla parità di genere nelle liste?
«Non siamo al mercato. Ci sono delle trattative serie, che possono riguardare tanti elementi».
Poi c’è la riforma del Senato: puntate a superare il quorum dei due terzi, in Parlamento, o avete messo nel conto un referendum, sulle riforme costituzionali?
«L’ambizione è quella di superare la maggioranza dei due terzi: per ottenere il consenso più largo possibile, non per evitare il referendum. Dopodiché, se non dovessimo riuscirci, se qualcuno lo chiederà vorrà dire che andremo al referendum».
Però il referendum allungherebbe di un anno i tempi, prima che le riforme entrino in vigore. Se voi le approvate nel 2015, il referendum si fa nel 2016 e la prima data utile per le elezioni diventa la primavera del 2017…
«Ma la legislatura andrà avanti fino al 2018, quello è il nostro obiettivo. Quindi non vedo il problema».
Un anno fa Renzi voleva dimezzare le indennità parlamentari, quei 14 mila euro al mese che per molti cittadini sono diventati uno dei privilegi della casta. Adesso mi pare che abbia cancellato questo punto dal suo programma…
«Al momento stiamo lavorando più sul tema delle riforme strutturali. Al Parlamento chiederemo la riforma dei regolamenti. Riusciamo a fare una cosa alla volta. Ma da qui al 2018 metteremo in discussione tante cose…».
Lei è in Parlamento da appena un anno. E dovrà far attraversare ai provvedimenti del governo un percorso che contiene più trappole di un film di Indiana Jones. Come pensa di cavarsela?
«Sinceramente non sono spaventata. Mi aiuta il carattere: difficilmente perdo la calma, sono molto diplomatica e studio. Studio tanto».
Ma teme di più gli sgambetti dell’opposizione o i trabocchetti dei malpancisti del Pd?
«Non temo i trabocchetti dei partiti, temo quelli delle singole persone affezionate allo status quo. Che sono dappertutto».
Anche nel Pd.
«Sì, però sono fiduciosa che la stragrande maggioranza dei nostri parlamentari sappia che questa è davvero l’ultima chiamata».

il Fatto 15.3.14
Le riforme renziane
Il Senato non vuole farsi il funerale (e pensa al futuro)
Destinati a essere sostituiti da esponenti di regioni e comuni, gli ultimi eletti della camera alta resistono
di Antonello Caporale


Aprirò un ristorante. Voglio provarmi in cucina, ho un amore finora taciuto ma intenso con i fornelli. Sarò cuoco, e con orgoglio”. Sic transit gloria mundi. Ora che il Senato degrada a palazzo di secondo grado, e si riduce per effetto del renzismo, ad ospizio delle regioni d’Italia, l’indimenticato Roberto Calderoli, un pezzo di marmo leghista di palazzo Madama, proietta il federalismo a basso costo tra i vitigni delle Langhe, “la mia compagna è di lì, vivo a un passo da Barolo, amo i tartufi”. Esiste una second life per tutti e adesso è tempo di pensarci, di valutare, di soppesare. Resistere o arrendersi? “Negli occhi dei miei colleghi noto quel bagliore triste, quel fondo di malinconia che accompagna l’idea di lasciare. Con me, intossicato di politica fino al midollo, nessuna alternativa è praticabile. Vorrà dire che mi acconcerò a fare le primarie (la prossima volta saranno vere non quegli accrocchi che abbiamo messo in campo lo scorso anno)”. Vorrà dire che Nicola Latorre ritornerà nel collegio di Fasano in Puglia, gli toccherà andare di casa in casa e chiedere, promettere, rassicurare.
SI RITORNA ALL’ANTI CO. Alla terra, alla zappa. “Un rapporto con la mia gente lo coltivo ancora, seppure a bassa intensità”.
I senatori aspettano che l’ora scocchi, che la travolgente cavalcata del giovane Matteo Renzi, qui ineleggibile per difetto d’età (sta sotto i quarant’anni), giunga a lambire il portone d’ingresso. Bisogna resistergli, ma come? Nell’attesa di valutare la disobbedienza hanno proclamano lo stato di agitazione . Se si dovrà battagliare qualche bagliore di fuoco amico si metta in conto. Perchè è vero che Renzi vuole tracimare, “ma noi non siamo tacchini” (Calderoli) e qui, in queste magnifiche stanze acquistate a rate da papa Leone x nel 1505, la voglia di lottare non manca. Quelli di Ncd, il piccolo gruppo di Angelino Alfano, non ne vogliono sapere di alzare da subito bandiera bianca. “Loro sono per il bicameralismo perfetto, e dovremo ragionarci, riflettere e convincerli perchè una riforma costituzionale di queste dimensioni non deve subire l’ansia della propaganda”, dice Miguel Gotor.
Vivere è meglio che morire, “ed esserci è molto più bello che non esserci”. Banale ma vero. Angelica Saggese, segretaria comunale di Agerola, sui monti Lattari, la criniera della penisola sorrentina, giusto l’anno scorso mise piede per la prima volta qui. Ha affittato un appartamento a campo dei Fiori, al mattino raccoglie le cose e con una breve passeggiata raggiunge il lavoro. Pigia, parla, contesta, asseconda, ubbidisce. La vita di una senatrice ha ritmo e una sua propria metrica. In gruppi si dividono, prevalentemente soggiacciono felicemente alle indicazioni del capogruppo, che è come un capoclasse. E insieme sembrano scolari in gita. “Alla sera alcune volte invito a casa i senatori e cucino per loro”. Potrebbe essere felice Angelica di vedere distrutto un inizio, chiuso l’orizzonte, finito un amore? Dunque, la sua impellenza: “È davvero utile chiudere il Senato?”. Il suo segretario dice di sì “Mah, vedremo. Parlano solo di risparmi, ma questo è populismo”. Ad ogni modo alla senatrice Saggese dispiacerebbe davvero un po’, “e sì cavolo!”, invece all’intramontabile Roberto Formigoni l’idea di traslocare, perchè è chiaro, lui - malgrado il trentennio di poltrone occupate si trasferirà a Montecitorio, non si affligge, non s’arresta nè si cura di un gesto d’amicizia verso i colleghi morituri. Era e resta Formigoni. “È un palazzo senza luce, abbiamo il filtro continuo di quella artificiale, e senz’aria, la somministrano con una pompa meccanica. E poi guardi, gli scranni sono disegnati per corpi del Settecento, quando gli individui non misuravano oltre i 165 centimetri. Io non ci sto!”. Vedremo alla fine come e quanti ci staranno, e se ci staranno. “I senatori sono probi viri ma non hanno le zampe di un tacchino. Hanno artigli e li mostreranno”, riassicura Calderoli.
LO CHOC È INTENSO, la Repubblica vive della gloria di questo palazzo e anche dei suoi momenti peggiori: le scazzottate, la mortadella strusciata sul velluto delle poltrone per una ultima profanazione eccitata della caduta di Prodi, la testa piegata di Spadolini al momento di contare la sconfitta per la presidenza dell’aula con l’homo novus berlusconiano, il senatore Scognamiglio poi scomparso dalla scena. Senza giungere ai grandi, fermando il tempo al dettaglio di questo ventennio, il Senato ha dato prova di essere la Camera a più alto tasso di trasformismo. Si sono comprati e venduti tra loro, e sembrerebbe con grande soddisfazione. Ma è cronaca, la storia alta la rievoca il grillino Andrea Cioffi: “Quando entri qui per la prima volta subisci uno choc emozionale. C’è voluto un anno per imparare il mestiere. E appena mi sono sentito pronto per fare la rivoluzione, bum!, ti tolgono la poltrona da sotto il culo”. Che rabbia, che dolore, che ingiustizia . “Stare qui fa sentir bene ma fa stare anche male”. Ingegnere eri e ingegnere ritornerai, caro Cioffi. “Io invece lo considero un onore grandissimo poter mettere la mia firma sul testo che decreta la fine del bicameralismo perfetto. Un riformista deve solo gioire e quando sarà tutto finito per me ci sarà la soddisfazione di aver reso un servizio civile”. Non lacrima Miguel Gotor, il lume che fece luce a Bersani prima che la traversata verso la conquista di palazzo Chigi si inabissasse, e non freme Annamaria Bernini di Forza Italia. “Il Senato non morirà mai. Puoi eliminare i senatori ma non l’apparato. È un po’ come le auto blu: vendi i catorci ma ti restano sul groppone gli autisti, per di più sfaccendati”.

l’Unità 15.3.14
Financial Times: «La sua medicina non curerà l’Italia»


«La medicina di Renzi non curerà l’Italia ». Così titola in un editoriale il Financial Times. «Renzi intende finanziare una parte dei suoi annunci attraverso un mix di di tagli alla spesa e aumenti delle tasse sui redditi da capitale». Scelta sensata, riconosce il quotidiano britannico, considerato che «la pubblica amministrazione è notoriamente inefficiente », dunque c’è molto tagliare senza pregiudicare la qualità dei servizi pubblici. Inoltre «la tassazione delle rendite finanziarie in Italia è generosa rispetto agli standard europei». Alzarle e utilizzare il ricavato per dare un po’ di ossigeno alle imprese potrebbe favorire la crescita.
Tuttavia «queste coperture finanzieranno solo in parte gli impegni presi da Renzi». Il Financial Times ricorda le dichiarazioni del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, che ha parlato di non più di tre miliardi di risparmi (e non sette).
«L’idea che l’Italia voglia correggere al rialzo l’obiettivo del deficit, previsto al 2,6 per cento del Pil, avrà fatto correre brividi lungo la schiena dei responsabili politici di Bruxelles e Berlino. L’Italia dovrebbe cercare di ridurre i suoi 2000 miliardi di debito pubblico, non aumentarli».
«Tagliare le tasse ai redditi più bassi ha buone ragioni di convenienza politica » perché, come «ha ammesso sfacciatamente Renzi, questa misura può rafforzare il suo Partito democratico in vista delle elezioni europee di maggio. Ma servirà a poco per risolvere la crisi di competitività dell’Italia», sottolinea il Ft. «Mercoledì Renzi ha annunciato modifiche alle norme che regolano l’apprendistato e i contratti a breve scadenza; queste dovrebbero facilitare le assunzioni da parte delle aziende. Ma il premier dovrebbe andare oltre, per esempio rafforzando la flessibilità a disposizione delle aziende di fissare i propri salari, piuttosto che dipendere dai contratti nazionali».
«Una forte spinta a riformare il mercato del lavoro renderebbe più facile agli alleati europei dell’Italia accettare un nuovo indebitamento - conclude il Ft - dimostrerebbe anche che Renzi si preoccupa di risolvere i problemi economici dell’Italia tanto quando di conquistare voti».

La Stampa 15.3.14
Profezia di Prodi:
“Le Europee? Un referendum su Renzi”
di Andrea Malaguti


Dice. «Le elezioni europee saranno un referendum su Renzi». Centro di Bologna, libreria della Coop, molto bella, che un tempo è stata anche un cinema a luci rosse e oggi invece assieme ai libri ospita persino Eataly - un po’ il racconto di un Paese capace del meglio e del peggio - , Romano Prodi arriva alle sei di sera per partecipare alla presentazione del libro di Alan Friedman «Ammazziamo il gattopardo». L’idea è quella di parlare di economia e del futuro che non si vede, ma alla fine tutto ruota tutto attorno a Demolition Man, il nuovo premier che garantisce la rivoluzione e ottanta euro al mese in più in busta paga a chi fatica a sbarcare il lunario. Duecento persone: «Dicci che cosa pensi, in fondo anche tu, nel 2006, varasti un taglio del cuneo fiscale di 7.5 miliardi». Ne pensa bene, anche se tra lui e Renzi è come se esistesse una barriera, una tenda sottile, che dà l’impressione di diventare un ostacolo insormontabile. «Vero. Feci anch’io un taglio del cuneo fiscale da sette miliardi di euro. Ma il giorno dopo gli sputarono sopra». Proprio così: gli sputarono sopra. Chi? «La Confindustria mi attaccò dicendo che non serviva a nulla. Oggi invece c’è un senso da ultima spiaggia e il Paese è più disponibile ad ascoltare». Manca un minuto a mezzanotte, dice Friedman. L’ora in cui l’Italia dà il meglio di sé. A un passo dalla fine. Prodi sfodera un sorriso lieve, che sembra un vento freddo che arriva da lontano. «Ogni volta che c’è un governo nuovo va a cercare i soldi ovunque. Questo governo invece ha trovato un tesoretto di venti miliardi. Deve essere la prima volta nella storia». «Lo è», commenta il politologo Angelo Panebianco. Aggiunge che adesso è giusto mettere tutto nelle buste paga. La domanda interna è crollata (-3%) e la vendita della pasta è calata del 6%. «Siamo alla rottura del sistema». L’ex premier dice che al Paese serve stabilità. E che le elezioni europee saranno la chiave di tutto. «Sono importantissime in assoluto, ma da noi prevarrà una logica interna su cosa avrà fatto Renzi. Per questo lui ha fretta. Ha ribaltato lo schema e sa che l’Italia non ne può più. Se non arrivano risposte subito è un guaio». Chiude sulla Merkel, che già ai tempi dei suoi governi si muoveva da padrona. «Lei decideva e Sarkozy faceva le conferenze stampa». Un altro parametro da cambiare. Ci sono i libri da firmare, adesso. Qualcuno gli ricorda la storia del Quirinale mancato, lui dà la sua versione e si allontana amaro perché il fastidio comincia a espandersi lentamente come una macchia d’inchiostro su un foglio di carta.

Corriere 15.3.14
Fioroni: no al Pse dagli elettori cattolici


ROMA (M.Gu.) — «Chi pensa che l’elettorato cattolico democratico non ci sia più dovrà ricredersi». Un report di una ventina di pagine ha restituito il buonumore all’onorevole Beppe Fioroni, unico esponente del Pd ad aver votato, in direzione, contro l’adesione al Partito socialista europeo. Il sondaggio — commissionato dal Domani d’Italiae intitolato «L’Europa nella percezione degli italiani. Il ruolo del Pd» — è stato realizzato tra il 7 e il 10 marzo dalla società Deligo, su un campione di 1.200 persone. «Questo studio dimostra come l’Europa sia lontana dal cuore degli italiani — sfoglia la ricerca Fioroni —. E Renzi, il cui ruolo nel recupero di consensi si rivela determinante, deve riuscire a cambiare verso anche fuori dall’Italia». Ma il dato che più sta a cuore a Fioroni è quel «20% di elettorato cattolico democratico che non ha condiviso la scelta di entrare nel Pse e che deve essere tenuto presente». Un modo esplicito per dire che sull’ingresso nel Pse l’elettorato fedele al Pd esprime una posizione «meno netta» rispetto a quella della direzione. Un altro aspetto che l’ex ministro sottolinea è la scelta di Martin Schulz come candidato alla presidenza della Commissione europea, decisione che l’81,5% ignora e che il 21,8 giudica negativamente. Giudizio severo anche dallo «zoccolo duro» della base democratica, dove il 14,3% non approva. «Non è escluso che la candidatura di un leader tedesco — si legge nelle conclusioni dello studio — possa far scattare in una parte dei potenziali elettori del Pd la preoccupazione di rafforzare lo strapotere della Germania». Colpiscono i dati del disinteresse. Il 40,2% non sa che, a luglio, la presidenza del semestre europeo toccherà all’Italia. Il 34,1 vuole liberarsi del vincolo con la Ue. Il 31,4 ignora che a maggio si voterà per il rinnovo del Parlamento. In compenso, il 25% sceglierà «sicuramente» il Pd e un altro 12% è tentato.

Repubblica 15.3.14
L’impudenza del Caimano
di Gianluigi Pellegrino


SE LE parole non apparissero ormai logore, stanche pure loro, dovremmo dire che l’uscita di Berlusconi, è ancora una volta tecnicamente eversiva. Perché non è volta a ottenere un risultato che lui stesso sa impossibile.
Bensì unicamente a innescare un ennesimo scontro tra un pezzo del Paese e le istituzioni. In questo però rivela la stretta, in realtà disperata, in cui il Cavaliere oggi si trova tra l’atteggiarsi a padre riformatore e l’evidente terrore che il Paese davvero cambi verso.
Lui sa bene, per averla votata con dichiarata convinzione, che la legge Severino stabilisce a chiare lettere che “non possono essere candidati alla carica di membro del Parlamento europeo spettante all’Italia coloro che hanno riportato condanne definitive” come quella inflitta a Berlusconi per un’enorme frode fiscale compiuta ai danni dello Stato.
Lui sa bene che è stato anche interdetto dai pubblici uffici per due anni con misura che tra pochi giorni sarà definitiva. E che il codice penale sancisce come l’interdetto sia ovviamente privo “del diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale”. E che qui non c’è davvero credibile ricorso che tenga.
Per non dire poi che Berlusconi è anche condannato a risarcire lo Stato italiano che ha frodato e che però vorrebbe rappresentare in Europa (!?). Che è stato espulso dal parlamento nazionale per indegnità morale sanzionata dalla legge, e ora vorrebbe entrare in quello europeo. E ancora che proprio nei giorni scorsi giudici terzi, e non già gli odiati pubblici ministeri, hanno dovuto ammettere la costituzione di parte civile del Senato della Repubblica quale evidente parte offesa dalla compravendita di parlamentari da parte del Cavaliere denunciata da diretti rei confessi e finalizzata a far cadere un legittimo governo.
Infine lo stesso partito popolare europeo, al quale Berlusconi ogni giorno rivendica di appartenere, ha con forza voluto una direttiva comunitaria volta ad invitare tutti gli Stati membri a tenere lontano i condannati dalle istituzioni.
Peraltro nessuno dice che solo l’eterna inaccettabile lentezza e la patologica ineffettività della giustizia italiana, fa sì che un condannato a quattro anni per gravissima frode fiscale, ancora oggi, ad oltre otto mesi dal verdetto è libero di fare sostanzialmente quel che vuole insolentendo giustizia e istituzioni, semplicemente perché vorrebbe essere ammesso ai servizi sociali. Il che di per sé solo, cioè la semplice domanda, piuttosto che imporre un’immediata risposta, fa sì, in questo malandato Paese, che ancora oggi il condannato non sia né ai domiciliari, né ai servizi sociali. Libero di pontificare e persino di proclamare la nuova volontà di continuare a violare la legge e calpestare le istituzioni, come ieri ha fatto con la provocazione sulla candidatura alle europee.
Inutile aggiungere che, in una democrazia costituzionale, non vale nulla opporre il voto di migliaia o milioni di italiani. E non già perché si tratta di minoranza (peraltro in evidente erosione), ma perché fosse pure la maggioranza assoluta, fossero pure tutti gli italiani meno uno, la Costituzione sta sempre là a dire che nessuno è sopra la legge e nessuno è unto dal Signore.
È evidente che è solo lo scontro quello che Berlusconi vuole. Provocare l’incidente, gridarsi vittima a quel che resta del suo popolo. Violando ogni minima regola di buona condotta e rispetto delle istituzioni, sperando che i servizi sociali gli vengano negati (come a quel punto si dovrebbe) e su questo ulteriormente e pur pateticamente urlare al complotto.
Certo si capisce lo straniamento che negli italiani genera la singolare fase politica dove, un po’ per necessità un po’ perché lo si è voluto, è ancora Berlusconi a dettare troppe volte l’agenda persino delle riforme costituzionali. Ed è proprio questa sorta di stato di necessità che lui ora vorrebbe cinicamente utilizzare per provocare e aizzare, fosse anche un solo elettore, contro le istituzioni. Tentazione che, si può star certi, il Cavaliere avrà tanto più forte quanto più si avvicineranno le urne europee e la scommessa di Renzi dovesse iniziare a dare risultati.
Sta qui allora insieme la disperazione e l’irresponsabilità della mossa di ieri. Berlusconi è dilaniato nella contraddizione dall’ultima stretta: vorrebbe rilegittimarsi come improbabile “padre della patria” ma sa bene che un’Italia riformata lo abbandonerebbe per sempre al suo destino. E allora, con la vigilia elettorale, torna a minacciare lattine di benzina e stracci di fuoco, che solo gli orbi potevano credere abbandonate. C’è da augurarsi che ormai siano davvero pochi con la voglia di seguirlo e che oggi solo in farsa ritornino le fiamme del finale di Moretti. Resta però che con il Caimano, come questo giornale aveva agevolmente previsto, fare buone riforme forse non sarà impossibile, ma certamente sarà assai difficile.

Corriere 15.3.14
La partita del Cavaliere e di Alfano
Brunetta: la nostra posizione è complessa, il capo del governo apra a una grande coalizione
di Francesco Verderami


Uno, per mantenere il primato del centrodestra, deve intanto occhieggiare al leader del centrosinistra. L’altro, per costruire un nuovo centrodestra, deve intanto stare al governo con il leader del centrosinistra. Berlusconi e Alfano sembrano i capponi di Renzi, che al momento ritiene di averli in pugno.
E mentre Berlusconi e Alfano sono intenti a beccarsi — «come accade troppo sovente tra compagni di sventura» — Renzi annuncia di voler conquistare il loro elettorato «alle prossime Politiche». È da vedere se ci riuscirà, ma è chiaro che già le Europee sono diventate per il Cavaliere e il suo ex delfino uno spartiacque, se è vero che il capo di Forza Italia arriva a sfidare la legge chiedendo di potersi candidare pur di ravvivare lo spirito d’appartenenza del proprio elettorato, se il fondatore del Nuovo centrodestra deve tentare di uscire dal cono d’ombra del premier per garantirsi un dividendo elettorale nelle urne e dare slancio al suo progetto.
Così si dividono nel loro stesso campo, che il segretario del Pd dice di voler invadere. E non c’è dubbio che la condizione in cui si trovano oggi ha origine nella decisione del Cavaliere di rompere con il governo Letta, di cui era di fatto il dominus, perché ne dettava i tempi e l’agenda. Nemmeno la sentenza di condanna sul caso Mediaset avrebbe scalfito il ruolo dell’ex premier, nemmeno l’onta della decadenza dal Senato, se avesse resistito. Così lo consigliavano i familiari e gli amici più fedeli, e lui sembrava essersi convinto, tanto da aver preparato un «discorso alla nazione» dove aveva scritto di provare «un profondo senso di ingiustizia», e in cui però ribadiva di voler tenere «separato il mio personale destino giudiziario dal destino politico del governo», perché «c’è qualcosa di più grande, ed è il bene del mio Paese».
Si era persuaso che sacrificandosi sarebbe stato santificato. Ed è per questo che in estate aveva anche predisposto un piano di riassetto del Pdl: «Facciamo due coordinatori», disse ad Alfano: «Uno lo scelgo io, e sarà Toti. L’altro lo scegli tu, e sarà Lupi». Invece fu «il blackout» — come lo definì Confalonieri — che cambiò il verso della politica, segnò il divorzio dai «traditori» rimasti al governo con «i miei carnefici» e aprì la strada al sindaco di Firenze. Il Cavaliere voleva che cadesse Letta, sebbene fosse stato Renzi — allora candidato alla segreteria del Pd — a spingere perché il voto sulla decadenza di Berlusconi non si incrociasse con le primarie di partito. Ed era stato Renzi a sostenere la campagna per impedire il voto segreto al Senato sulla decadenza di Berlusconi. E fu sempre Renzi, il giorno dopo il voto, a cinguettare «game over Berlusconi». Lo stesso Renzi che da trionfatore avrebbe ricevuto Berlusconi nella sede del Pd al Nazareno.
Non è paradossale se oggi Berlusconi fa asse con Renzi sulle riforme, mentre Renzi fa asse con Alfano sul governo. Più semplicemente si attiene alle regole della politica per restare in gioco, «per evitare — come ha sostenuto Verdini in una riunione di partito — di lasciare tutto campo al Nuovo centrodestra». È vero, se Forza Italia decidesse di far saltare l’intesa sulla legge elettorale, a ruota salterebbe anche il governo. Ma il Cavaliere è conscio di trovarsi in una morsa: se rompesse sul riassetto istituzionale si attirerebbe gli strali del Paese, se proseguisse — rimanendo fuori dal governo — darebbe l’idea di aver abdicato. Insomma, lo schema della «doppia maggioranza» pesa, specie a Forza Italia. È una condizione alla lunga insostenibile, e Brunetta riconosce che «la nostra posizione è complessa».
C’è un solo modo per tentare di spezzare la tenaglia, e il capogruppo azzurro alla Camera ci arriva al termine di un lungo ragionamento in nome «delle riforme, dell’Europa e della pacificazione». Finché: «... Renzi non può pensare di giocare con i due forni o si farebbe male. Il premier deve aprire a una grande coalizione». Dentro Forza Italia insomma c’è chi vorrebbe tornare dov’era quando c’era il Pdl e il Pd subiva i ritmi e le richieste del centrodestra, accettando di votare l’abrogazione dell’Imu sulla prima casa. La politica come la storia non si fa con i se, ma di questo si discute nel partito e da molto tempo.
«Silvio, pensa cosa sarebbe stato se fossimo rimasti uniti e al governo...», ha detto un paio di settimane fa Romani al Cavaliere durante una cena ad Arcore. E i commensali raccontano che Berlusconi abbia prestato «attenzione» al discorso del capogruppo forzista al Senato. Ma Forza Italia non è più al governo e il Pdl si è diviso in due partiti impegnati in una guerra feroce, incapaci a far asse perché divisi sulla legge elettorale, impossibilitati a far pace perché divisi dalla competizione alle Europee. E chissà se e in che modo si ritroveranno dopo il voto, specie se Renzi continuerà a tenerli in pugno.
L’impressione è che nel centrodestra sia maledettamente difficile ricomporre la frattura e che ogni iniziativa per riaggregarlo non avvenga con i tempi giusti. Casini da un mese si è mosso per tentare l’impresa, la sua intervista al Foglio di due giorni fa — in cui sottolineava la necessità di unire «i partiti che si richiamano al Ppe» — era impeccabile. Peccato sia stata pubblicata con tre anni di ritardo rispetto a quando il Cavaliere nominò «Angelino» segretario del Pdl dandogli la missione di comporre la frattura con l’Udc. Ma allora il leader centrista disse no. E dopo Casini anche Monti rifiutò il ruolo di candidato premier dei «moderati». A veder bene i capponi di Renzi non sono solo Berlusconi e Alfano...

l’Unità 15.3.14
Il Pdci abbandona la lista Tsipras: «Ci discriminano»


Il Pdci dice addio alla lista Tsipras. Il segretario dei comunisti italiani Cesare Procaccini spiega la decisione, presa dopo un ultimo incontro con una delegazione dei garanti tra cui Barbara Spinelli, con «la totale esclusione di una rappresentanza politica del Pdci nella lista Tsipras, in violazione di tutti gli accordi precedentemente assunti». Procaccini parla di «un atto di grave discriminazione politica, che va al di là della questione delle candidature». Tra i 73 candidati della lista, su cui si stanno già raccogliendo le firme di presentazione, figura anche il giuslavorista Piergiovanni Alleva, nome indicato dal Pdci.

l’Unità 15.3.14
Parole in rete su medici obiettori e quote rosa
di Marco Rovelli


SETTIMANA OCCUPATA DA QUESTIONI DI GENERE, QUESTA, PER L'OPINIONE PUBBLICA della rete. Quote rose, prima, e medici obiettori poi, in una forse non casuale coincidenza. Sulle quote rosa il discorso è certo controverso, e non liquidabile in due battute. Da una parte, laddove una categoria di persone è soggetta a un rapporto di dominazione, di esclusione e di discriminazione, le quote sembrano uno strumento efficace per sopperire a quella discriminazione, intervenendo con un correttivo artificiale a una asimmetria che si dá di fatto (e dunque qui artificiale non si oppone certo a naturale: si tratta di contrapporre una determinazione culturale a un'altra). D'altra parte, pensatrici femministe come Ida Dominijanni si contrappongono alle quote rosa: quel tipo di «parità» è in realtà neutralizzazione del conflitto e spartizione del potere, posto peraltro che sarebbero i maschi a cooptare le donne. Contemporaneamente, è tornata alla ribalta quella vergogna incancellata dei medici obiettori, che fanno sí che una donna sia costretta ad abortire in un bagno d'ospedale perché non si trova nessun medico disposto all'aborto. Un assurdo logico, oltre che etico: se non vuoi fare abortire una donna, non ti dovrebbe essere consentito di specializzarti in ginecologia, essendo quella una competenza specifica. Come uno che dicesse di voler fare il militare ma senza sparare. Dopo trentasei anni dalla 194, la transizione avrebbe dovuto essere completata, ormai. E invece si rimane in questa impasse per i confessionalismi che bloccano tanti ambiti in questo paese ben poco laico. (E dovremmo parlare poi delle pillole del giorno dopo spesso introvabili, altra vergogna ben nota, ma a cui mai nessun governo decide di mettere mano?). Ora, al di la di ciò che si pensa delle quote rosa: come pensare che un Parlamento che non è stato in grado di approvare le quote rosa possa avere la determinazione di mettere fine allo scandalo dei medici obiettori?

Repubblica 15.3.14
“Io, ginecologa degli aborti obiettrice mio malgrado”
“Ho fatto aborti per 25 anni una vita tra colleghi ostili ora mi arrendo e sono obiettrice”
La ginecologa Rossana: la 194 tradita da medici e istituzioni
di Maria Novella De Luca


SOLA, abbandonata in quella trincea, tagliata fuori dalla carriera e costretta a fare aborti come in una catena di montaggio, senza più nessun contatto con le pazienti, emarginata dall’ospedale che ha sempre considerato il mio un lavoro degradante, ho fatto l’unica scelta possibile ma che avevo sempre respinto: mi sono dichiarata obiettrice, ho detto addio al reparto che con tanta fatica avevo costruito e ho cambiato vita». C’è la storia di un’esistenza nelle parole di Rossana, ma anche un’accusa dura e sofferta: «Noi medici abortisti siamo stati lasciati soli».
Nel suo studio che guarda il porto di Genova, con le pareti colorate dalle foto dei primi sorrisi dei tanti neonati di cui oggi segue la gestazione, madre di due figli e già giovane nonna, Rossana Cirillo racconta il naufragio della legge 194. Boicottata dalle istituzioni, ma dimenticata anche da chi «naturalmente avrebbe dovuto proteggerla, la sinistra, i movimenti delle donne». E la sofferenza di tanti medici che pur di applicarla hanno pagato prezzi altissimi, umani e professionali. Burnout, bruciati. Rossana ha la voce pacata, nessun pentimento, nessun rimpianto, ma l’amarezza sì, quella si sente. «Quando ho scelto la specializzazione in ginecologia militavo nel collettivo femminista di Genova, ero politicamente vicina al Manifesto.
L’autocoscienza, l’autovisita, i consultori. Entrare nel servizio delle interruzioni volontarie di gravidanza, mi sembrò un approdo naturale del mio percorso sia umano che professionale». Sono i primi anni della legge 194 e l’ospedale in cui Rossana Cirillo lavorerà come ginecologa per 25 anni è “Villa Scassi” a Sampierdarena, complesso quartiere di Genova.
«L’aborto in quella realtà di periferia fu una specie di bomba: le donne venivano a decine, avevano alle spalle il trauma degli interventi clandestini, erano incredule che qualcuno si prendesse cura di loro, in un ospedale, in una sala operatoria. Parlavano di sé, si aprivano, si creava un rapporto, alcune purtroppo tornavano, altre invece hanno imparato la contraccezione, altre ancora sceglievano di tenere il bambino. Poi sono arrivate le più giovani, quelle della mia generazione, consapevoli di un diritto acquisito. Con tutte comunque c’era un legame, e questo dava un senso al mio lavoro, al mio impegno».
E poi, ricorda Rossana, c’erano i colleghi. «All’inizio, negli anni Ottanta, avevo accanto un gruppo di medici motivati e impegnati nel garantire l’applicazione delle legge». Una primavera breve però. Perché appare subito evidente che fare gli aborti, sempre osteggiati dalla direzione sanitaria di “Villa Scassi”, confina i ginecologi in un mondo sanitario di serie B. «Quasi immediatamente tutti si dichiararono obiettori. Eravamo rimaste soltanto in due, un’infermiera ed io, senza nemmeno un anestesista, mentre il lavoro cresceva a dismisura. Non potevo partecipare ai convegni, non potevo assentarmi, fare altro: solo e soltanto aborti. Ho tenuto duro per un tempo infinito, senza di me il servizio si fermava, ma sentivo un peso ormai insostenibile». Turni massacranti, l’ostilità dell’ambiente, le minacce. «Il mio direttore sanitario non mi ha mai sostenuto. Ricordo però che un giorno mi disse: “Non capisco dottoressa perché lei fa tutto questo ma evidentemente ci crede davvero”».
Perché l’obiezione di coscienza in Italia è anche il racconto di una sconfitta sanitaria, di una crisi da lavoro usurante. «È stato alla fine degli anni Novanta con l’arrivo in massa delle immigrate che qualcosa dentro di me si è rotto. Si presentavano decine di donne disperate, nigeriane, albanesi, cinesi, figlie della miseria e delle prostituzione. Abortivano e se ne andavano. Impossibile senza mediatori culturali, senza assistenti sociali, instaurare un rapporto con loro. Ho cominciato a stare male. Mi sentivo soltanto un braccio esecutore, come se ci fosse ormai una inquietante selezione tra le donne, e il diritto di avere un figlio fosse consentito soltanto ad alcune e non ad altre, come queste invisibili che arrivavano in silenzio e poi scomparivano».
Rossana capisce che è il tempo di smettere. Ma per smettere deve fare ciò che ha sempre contestato: l’obiezione di coscienza. Nel frattempo suo figlio ancora studente diventa padre. Una vita nuova che chiede vita nuova. «Ogni tanto mi diceva: mamma perché fai questo lavoro...». «Prima di obiettare ho aspettato che qualcuno prendesse il mio posto. Sono arrivati dei ginecologi maschi. Forse è meglio così». Rossana oggi fa la professione privata, segue le maternità delle sue pazienti e si occupa di una malattia rara ma invalidante, la “vulvodinia”. «Sono stata emarginata e penalizzata, ma sono serena e consapevole di aver aiutato centinaia di donne. Al mio cuore questo basta».

La Stampa 15.3.14
Droghe leggere e pesanti
La differenza torna legge
Ma sugli aspetti penali delle “smart drug” deciderà il Parlamento
di Paolo Russo


Sulla penalizzazione delle droghe leggere alla fine deciderà il Parlamento, ma per la prima volta la macchina del governo ha “sfrizionato” un po’. La titolare della Salute, Beatrice Lorenzin, in sintonia col centrodestra era pronta a fare nuovamente di tutta un’erba un fascio tra cannabis e sostanze come eroina o cocaina, mentre il Guardasigilli, Andrea Orlando, faceva sapere che non se parlava proprio di reintrodurre dalla finestra quel che la Corte Costituzionale aveva appena abrogato. Ossia l’equiparazione da un punto di vista penale di leggere e pesanti, che ha contribuito non poco al sovraffollamento delle carceri.
Ma prima del Consiglio dei ministri di ieri il compromesso è stato raggiunto: gli aspetti penali verranno affrontati entro 60 giorni da Governo e Parlamento. Intanto il decreto, approvato con annesse oltre 500 sostanze psicotrope vietate, ricopre il vuoto che si era creato dopo la sentenza della Consulta che ha bocciato la legge “Fini-Giovanardi”. Il problema è che la decisione dei giudici ha portato con sè anche le voluminose tabelle, aggiornate negli anni, di antidolorifici e nuovi stupefacenti, lasciando in vigore quelle della vecchia legge Jervolino, ferme alle tradizionali cocaina, eroina, cannabis e derivati. Così, da un lato i medici non sapevano più che pesci prendere quando si trattava di prescrivere a malati gravi antidolorifici a base di morfina e altri oppiacei. Dall’altro erano tornate nell’alveo della legalità centinaia di “smart drugs”, che dietro colori accattivanti contengono sostanze a volte più micidiali delle tradizionali droghe “pesanti”.
Roba da far felici i protagonisti del film-cult di questi mesi, “Smetto quando voglio”, dove i protagonisti, tutti ricercatori precari, decidono di far soldi sintetizzando una nuova sostanza da sballo. Legale perché sconosciuta quindi non inscritta nelle tabelle delle sostanze psicotrope. La realtà che supera la fantasia, tant’è che qualcuno sembrava averne approfittato, spacciando quel che prima della sentenza era illegale e, colto sul fatto, rilasciato, poiché il divieto era stato cancellato. Fino a ieri. Perché il decreto “interviene sugli aspetti amministrativi e non penali”, ha precisato la Lorenzin, però le smart drugs, di fatto, tornano ad essere illegali: lo spaccio è di nuovo punito penalmente e il consumo sanzionato da un punto di vista amministrativo ad esempio con il ritiro della patente.
Se poi lo sballo da smart drugs o droghe leggere porti al carcere lo decideranno partiti e Governo. E si preannuncia battaglia, con Donata Lenzi, capogruppo Pd in commissione Affari sociali alla Camera che ieri è tornata a chiedere di differenziare leggere e pesanti, mentre a destra Gasparri diceva “no a legalizzazioni surrettizie”. Un appello che potrebbe trovare sponde, tra Giovanardi e i suoi, anche nella maggioranza.

l’Unità 15.3.14
La soprintendenza non è un’ostruzione
di Enrico Rossi

Presidente della Toscana

GIOVANNI VALENTINI HA DEFINITO I PARERI E LE PRESCRIZIONI DELLE SOPRINTENDENZE COME UNA «PARALISI DELLA CONSERVAZIONE »CHE IMBRIGLIA IL PATRIMONIO E «INCATENA » IL PAESE. Si tratta di una valutazione parziale che fa luce e ombra assieme, considerando la tutela solo come ostruzione burocratica e non come condizione per la custodia del patrimonio nella successione dei secoli.
Questo ovviamente non ci impedisce di vedere e analizzare i problemi e le conseguenze di una disciplina resa di difficile attuazione dalla frequente i certezza dei dispositivi, dai conflitti di competenza e dall’assenza di innovazione. La priorità però oggi non è la demolizione di un apparato dello Stato ma la rigenerazione dei «beni comuni» culturali come base per uno sviluppo sostenibile. Beni come il paesaggio. Legati a processi dinamici che non dipendono solo dallo zelo dei soprintendenti ma dal «contratto sociale» e dai comportamenti collettivi. In Toscana grazie al lavoro dall’assessore regionale Anna Marson e di una squadra di giovani tecnici appassionati abbiamo predisposto un piano paesaggistico che mette ordine in una materia frastagliata e persegue il governo, la semplificazione e la rapidità delle soluzioni. Il governo del territorio e del paesaggio, toscano come italiano, deve tener conto di una strategia di protezione ambientale a più livelli di responsabilità: lo sviluppo urbano sostenibile previsto dalla Ue, la Convezione Europea del 2000 e i piani di gestione dei siti Unesco e infine il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004.
I principi ispiratori generali di questa strategia che noi abbiamo condiviso a pieno sono la «sussidiarietà» e il «bene comune ». Gli enti locali oggi faticano a governare il territorio non a causa dei vincoli ma perché sono stretti dalla morsa del debito e delle emergenze economiche. Noi proviamo a uscirne fuori con questo strumento. Mentre con il «bene comune» operiamo una scelta di lungo periodo che lega economia, cultura e ambiente.
Sono quattro i punti del piano che vanno evidenziati e che ne rivelano il carattere produttivista. Anzitutto la revisione dei «vincoli per decreto» con lo scopo di limitare la discrezionalità delle autorità competenti e ridurre i passaggi burocratici. Noi li abbiamo discussi e chiariti d’intesa con il ministero e le Soprintendenze. D’or in poi tutto sarà più semplice e regolato in modo da evitare gli arbitri. Poi la traduzione in atto della legge Galasso, sinora troppo astratta e limitata alle percentuali da vincolare, ma priva di una precisa georeferenziazione, di un’effettiva applicazione sui territori. Quindi la condivisione semplificata delle linee di indirizzo per la tutela del paesaggio con i Comuni.
E infine il piano di rigenerazione delle aree degradate che potrà costituire lo strumento per attrarre investimenti immobiliari e infrastrutturali oggi effettivamente ostacolati da vincoli desueti. Il Piano Paesaggistico riduce i costi e offre un servizio sussidiario; promuove lo sviluppo delle attività produttive e previene i rischi di dissesto e alterazione ambientale. I mutamenti climatici, le alluvioni e le frane hanno messo a rischio i sistemi economici locali, le finanze pubbliche e la sicurezza dei cittadini. Il paesaggio che appare statico e cristallizzato è un ecosistema fragile. I muri a secco, i corsi d’acqua, gli argini, i fossi, le colture sono parti di un organismo vivente. In Toscana la natura che ci identifica è stata generata dal paziente lavoro di popoli contadini e dalla sapienza delle bonifiche e dei rimboschimenti granducali. In questo senso i vincoli non sono limiti ma politiche di sviluppo del turismo, dell’edilizia e dell’agricoltura.
Se è la bellezza che richiama il mondo in Toscana, essa va preservata. Se la qualità del suolo, dell’aria, dell’acqua e il clima determinano la bontà dei nostri alimenti gustati in tutto il mondo, essi vanno tutelati. La filiera corta, l’agricoltura biodinamica non sono capricci della post-modernità ma consuetudini millenarie che rendono ancora possibile l’associazione immaginifica tra Toscana, ben vivere e bellezza. «Questa è la terra - diceva Calamandrei - dove ci par che anche le cose abbiano acquistato per lunga civiltà il dono della semplicità e della misura».

Il Sole 15.3.14
Corte costituzionale. I giudici cancellano per difetto di delega le norme «punitive» contenute nel decreto 23 del 2011
La Consulta salva gli affitti in nero
Illegittimi i canoni ridotti al minimo per i proprietari che non registrano il contratto
di Saverio Fossati


Svanisce lo spauracchio dell'affitto al minimo per i proprietari che non registrano i contratti d'affitto. La Corte costituzionale, con la sentenza 50/2014, depositata ieri, ha cancellato i commi 8 e 9 del decreto legislativo 23/2011. Le norme, all'interno della disciplina istitutiva della cedolare secca sugli affitti, prevedevano un meccanismo punitivo per i proprietari che avessero omesso di registrare il contratto di locazione o avessero registrato con un importo inferiore.
In sostanza, chi evadeva il fisco poteva essere "denunciato" dall'inquilino, che otteneva per quattro anni un affitto bassissimo, pari al triplo della rendita catastale (con un taglio sino all'80% di quello di mercato). La Consulta ha bocciato la norma, basandosi però su un argomento particolare: la carenza di delega. Il Dlgs 23/2011, dedicato al federalismo fiscale, aveva come presupposto quanto indicato dalla legge delega 42/2009, cioè l'introduzione di «disposizioni volte a stabilire in via esclusiva i princípi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, a disciplinare l'istituzione ed il funzionamento del fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante nonché l'utilizzazione delle risorse aggiuntive e l'effettuazione degli interventi speciali di cui all'articolo 119, quinto comma, della Costituzione perseguendo lo sviluppo delle aree sottoutilizzate nella prospettiva del superamento del dualismo economico del Paese». La Consulta si è limitata a osservare che questi princìpi sono in un «àmbito normativo rispetto al quale il tema di cui alla disciplina denunciata risulta del tutto estraneo, essendo questa destinata ad introdurre una determinazione legale di elementi essenziali del contratto di locazione ad uso abitativo (canone e durata), in ipotesi di ritardata registrazione dei contratti o di simulazione oggettiva dei contratti medesimi, pur previste ed espressamente sanzionate nella disciplina tributaria di settore». Né tantomeno (come faceva rilevare l'Avvocatura dello Stato) il tema della lotta all'evasione fiscale (citata all'articolo 26 della legge delega), «non può essere configurato anche come criterio per l'esercizio della delega: il quale, per definizione, deve indicare lo specifico oggetto sul quale interviene il legislatore delegato, entro i previsti limiti». In sostanza, dice la Consulta, questa norma non c'entra con la delega che il Parlamento ha affidato al Governo e quindi va bocciata.
Reazioni positive dalla proprietà immobiliare: per Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia «la sentenza (emessa in giudizi alcuni dei quali sono stati promossi dalla Confedilizia) conferma che la Consulta presidia con fermezza i principi di certezza e correttezza del diritto anche con riguardo ai decreti legislativi, campo nel quale il legislatore ha negli ultimi tempi fatto, al pari che in certe leggi, incursioni demagogiche intollerabili ». Fabio Pucci, segretario generale dell'Uppi (piccoli proprietari), che a sua volta aveva promosso alcuni giudizi all'origine della pronuncia, afferma che «a seguito di tale pronuncia, che ha effetto retroattivo, i contratti che sono stati registrati dagli inquilini finiranno nel nulla». E i proprietari (in caso di sfratto per morosità vanificato dall'applicazione della norma "punitiva") «potranno chiedere agli inquilini di liberare l'abitazione, in quanto il contratto cesserà unitamente alla norma prevista dal decreto del 2011».
Il problema, adesso, riguarda infatti i contratti ribassati in corso, che dovrebbero tornare ai canoni precedenti anche per il periodo arretrato. «Il pericolo - dice Ladislao Kowalski del centro studi giuridici dell'Uppi - è che venga fatta una legge che sani la carenza di delega». Infatti Daniele Barbieri, segretario generale del Sunia (sindacato inquilini) reagisce preoccupato: «La sentenza determina una gravissima situazione di vuoto normativo nella politica di contrasto all'evasione fiscale e il motivo di eccesso di delega può e deve essere sanato dal Parlamento» .

La Stampa 15.3.14
“Sì al Cantone Sardegna”. Gli svizzeri sognano il mare
Gli isolani: pronti a venderci. Gli elvetici: favorevoli
I sardi vorrebbero che sulla nuova bandiera della Svizzera fossero aggiunti i quattro mori simbolo della Sardegna
di Nicola Pinna


La contaminazione è già iniziata: il nuovo rettore dell’università Ludes di Lugano, nominato dieci giorni fa, è un sardo. Si chiama Antonello Martinez, è nato a Oristano e ha studiato a Cagliari.
È un caso, ma la domanda è scontata: la conquista della Svizzera passa dalla cultura? Quelli che via web hanno teorizzato il 27° cantone, cioè la Sardegna inclusa nella Confederazione elvetica, immaginano un’altra strada, cioè la vendita dell’isola. Un affare per tutti: l’Italia incasserebbe un po’ di franchi, la Svizzera avrebbe il tanto sognato “sbocco sul mare”. E la Sardegna romperebbe definitivamente il rapporto mai sereno con Roma. Fantapolitica o semplice provocazione per discutere sui social, tra Lugano e Berna se n’è parlato parecchio: titoli sui giornali, chiacchiere al bar e qualche riflessione politica.
I partiti di destra, quelli conservatori, sulle barricate per frenare l’assalto di frontalieri e immigrati, per i sardi farebbero volentieri un’eccezione. «Sarebbe un piacere, ma certo non invaderemo l’Italia per lo sbocco a mare», dice Pierre Rusconi, anima dell’Udc ticinese e consigliere nazionale che ha promosso il referendum sugli immigrati. «Sulla questione del “Canton marittimo” bisognerebbe far decidere ai cittadini, e credo che la maggior parte degli elettori sarebbe favorevole».
Si affiderebbe a un referendum anche Attilio Bignasca, coordinatore della Lega dei ticinesi: «Come si potrebbe dire di no alla Sardegna? Sole, mare, caldo e distese naturali. Sarebbe il nostro polmone verde: non ci dispiacerebbe, ma è fantapolitica».
Alleati tra i partiti conservatori, i sardi che avevano immaginato il “Canton marittimo” non pensavano di trovarne. In Ticino, invece, l’idea di ampliare i confini sulla terra dei nuraghi sembra raccogliere più consensi del previsto. I promotori della rivoluzione geopolitica (10 mila fan su Facebook e un sito web trafficatissimo) hanno pensato quasi a tutto. Persino alla bandiera: ovviamente quella quadrata, rossa con la croce greca bianca al centro, più gli immancabili quattro mori. Per spiegare bene qual è il progetto c’è un manifesto politico recapitato anche al Consiglio nazionale: «Vorremmo vivere in un paese normale, che offra ai propri cittadini opportunità di lavoro e di impresa, che abbia leggi chiare e uguali per tutti, con una economia stabile e tasse equilibrate».
In attesa che la proposta di un referendum si sposti dai social alle stanze dei bottoni, gli svizzeri immaginano il futuro con un po’ di ironia: «I sardi dovrebbero abituarsi a gestire l’autonomia come la intendiamo noi, senza sovvenzioni statali - riflette Pierre Rusconi - La confederazione nel frattempo dovrebbe organizzare una flotta militare navale per difendere i confini sardi».

Il Sole 15.3.14
All'improvviso la disuguaglianza
Negli Usa c'è un nuovo ma antico tema (economico) al centro del dibattito
di Paul Krugman


All'improvviso, o almeno così sembra, la disuguaglianza è diventata un tema centrale nella coscienza dei cittadini, e né l'1 per cento né i suoi fidati difensori sembrano sapere come gestire il problema.
Alcune reazioni sono semplicemente folli - «è la notte dei cristalli», «vogliono ammazzarci tutti» - e la follia è parecchio diffusa: basta guardare quanti miliardari (più, ovviamente, il Wall Street Journal) hanno sottoscritto le dichiarazioni di Tom Perkins, che a gennaio, in una lettera al direttore del Wall Street Journal ha paragonato le critiche dell'opinione pubblica verso l'1 per cento agli attacchi nazisti contro gli ebrei.
Ma anche le voci all'apparenza più sensate fanno palesemente una gran fatica ad accettare l'idea che qualcuno possa trovare il capitalismo finanziario del XXI secolo un po'... come dire ... ingiusto?
Facciamo un esempio, un editoriale pubblicato il 1° marzo sul New York Times a firma di Arthur Brooks, il presidente dell'American Enterprise Institute, un think tank della destra. Brooks è profondamente preoccupato dal mutamento dell'umore popolare nei confronti della ricchezza: «Secondo i sondaggi del Pew, la percentuale di americani che ritiene che "quasi tutti quelli che vogliono migliorare la loro condizione possono riuscirci se si impegnano a sufficienza" è scesa di 14 punti dal 2000 circa a oggi. Ancora nel 2007 da un sondaggio Gallup risultava che il 70 per cento delle persone era soddisfatto delle opportunità di migliorare la propria condizione impegnandosi a fondo, mentre la percentuale di insoddisfatti era soltanto del 29 per cento. Oggi il divario si è ridotto a un 54 per cento di soddisfatti e un 45 per cento di insoddisfatti. Nel giro di pochi anni siamo passati dal vedere la nostra economia come l'incarnazione della meritocrazia a vederla come qualcosa di assimilabile al lancio di una moneta».
E qual è la ragione di questo colossale spostamento degli umori della popolazione, secondo Brooks? Di sicuro deve avere a che fare con la crescente invidia nei confronti dei ricchi, che è una cosa orribile.
Ma che c'entra l'invidia con i sondaggi che cita Brooks? Se la gente dice che non crede più che l'impegno sia ricompensato, non sta dicendo che invidia i ricchi, sta dicendo che non crede più che l'impegno sia ricompensato. E se prova sentimenti negativi verso l'1 per cento, l'emozione in ballo non è l'invidia, ma la rabbia, che è qualcosa di completamente diverso. L'invidia è quando provi sentimenti negativi verso i ricchi per quello che hanno; la rabbia è quando provi sentimenti negativi verso i ricchi per quello che fanno.
Pensateci un attimo: le proteste di Occupy Wall Street sono incentrate su come vive l'1 per cento? I giornalisti d'assalto sono ossessionati dallo stile di vita dei ricchi? Sì, sappiamo tutti degli sfarzi dell'ex candidato repubblicano alla Casa Bianca, Mitt Romney, ma più che il lusso a fare notizia, in quel caso, era l'idiozia di un accessorio simile. In realtà, se consideriamo fino a che punto la vita delle superélite ormai si discosta da quella dell'americano comune, c'è da stupirsi che sui mezzi di informazione si trovino così poche descrizioni salaci delle feste a Beverly Hills e negli altri sobborghi extralusso del Paese.
No, quello che veramente suscita lo sdegno dei cittadini è la percezione che molti dei ricchi non si sono meritati veramente la loro posizione, che sono diventati ricchi a spese del resto dell'America.
E che cosa è successo, dal 2007 a oggi, che può spiegare questo cambiamento di opinione? Chissà, forse tutti quegli stramiliardari dello 0,01 per cento che non facevano che raccontare ai quattro venti che lavoro meraviglioso facevano, ma che alla fine ci hanno trascinati in una crisi finanziaria catastrofica? O tutti quei personaggi in vista e ammiratissimi che ci garantivano che Wall Street stava facendo un ottimo lavoro, ma che alla fine si è scoperto non avevano la più pallida idea di quello di cui stavano parlando?
O magari ancora il fatto straordinario che da quando è scoppiata la crisi i profitti sono schizzati alle stelle mentre i redditi dei lavoratori sono rimasti fermi al palo?
La gente non è invidiosa, è arrabbiata. E ha ragione di esserlo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 15.3.14
Ucraina
L’ansia di Gorbaciov: “Il mondo fermi questa escalation”


MOSCA - La crisi in Ucraina è figlia del «dissennato” smantellamento dell’unione sovietica, ma ora bisognare fare di tutto per «porre fine a questa pericolosa escalation» ed evitare che si arrivi ad una «nuova Guerra fredda”. Questa la posizione di Mikhail Gorbaciov sulle crescenti tensioni tra Ucraina e Russia, alla vigilia del referendum sull’indipendenza della Crimea. L’ex leader sovietico risponde con una lettera aperta a un appello del direttore di Nezavisimaja Gazeta, Vitaly Tretjakov, che lo aveva esortato a intervenire sull’Ucraina, a farsi mediatore presso i leader internazionali, per far capire le ragioni della Russia nel braccio di ferro sulla Crimea.
Gorbaciov non scenderà in campo per un’azione diplomatica diretta ma si rammarica che i suoi appelli a Obama e Putin non siano stati ascoltati. Ma soprattutto ricorda con amarezza gli ultimi mesi dell’Unione Sovietica, quando lui pensava di poter mantenere l’unità dello Stato con un nuovo patto tra repubbliche federate. E invece con il golpe del 1991 e la definitiva ascesa di Boris Eltsin tutto precipitò verso l’implosione. «Il soviet supremo approvò la fine dell’Urss con applausi, senza dire una parola su Crimea e Sebastopoli”, ricorda Gorbaciov. Ora, mentre la crisi rischia di precipitare in una drammatica contrapposizione tra Russia e Occidente, l’ex presidente sovietico spera che la diplomazia trovi una via per scongiurare il peggio.

La Stampa 15.3.14
Sullo stretto di Kerch
“Non è secessione torniamo alla nostra Madre Russia”
Al confine della penisola blindati e propaganda
“Ai tempi dell’Urss c’era lavoro, ora emigriamo”
di Lucia Sgueglia

qui

l’Unità 15.3.14
Allarme Onu sulla Siria: record di sfollati
Rapporto dell’Unhcr a tre anni dall’inizio del conflitto: «Dramma inimmaginabile
per i rifugiati dentro e fuori il Paese»
Coinvolta quasi metà della popolazione e 6,5 milioni di bimbi
di Umberto De Giovannangeli


Un Paese di sfollati. Milioni, un quarto della popolazione. Un Paese ridotto a un cumulo di macerie. La guerra civile siriana ha messo in fuga dalle loro case 9 milioni di siriani e due milioni e mezzo di loro hanno trovato rifugio in altri Paesi: il bilancio è dell’Onu, che parla di una «situazione inimmaginabile» e di un esodo pari solo a quello conosciuto dall’Afghanistan. «È inconcepibile che una catastrofe umanitaria di questa entità stia accadendo sotto i nostri occhi e che non ci sia alcun progresso significativo per fermare il bagno di sangue», ha denunciato l’Alto Commissario Onu per i Rifugiati, Antonio Guterres. Prima della guerra la Siria contava 22 milioni di abitanti e quindi rifugiati e sfollati interni sono ormai il 40 per cento della popolazione. «Non deve essere risparmiato alcuno sforzo per arrivare alla pace e non si deve rinunciare ad alcuno sforzo per alleviare le sofferenze della popolazione innocente coinvolta nel conflitto e costretta ad abbandonare le loro case, comunità, i loro lavori, le loro scuole».
ORRORE SENZA FINE. Non solo: la metà dei 6,5 milioni di sfollati interni è costituita da bambini. E in assenza di progressi visibili nella situazione, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), il numero di rifugiati nella regione circostante continuerà a crescere fino a diventare la popolazione di rifugiati più grande al mondo. Nel solo Libano, il numero di rifugiati registrati provenienti dalla Siria sta raggiungendo la quota di un milione e potrebbe crescere fino a 1,6 milioni entro la fine del 2014, se le stime attuali verranno confermate. Il Libano vanta già la più alta concentrazione pro capite di rifugiati a livello mondiale nella storia recente, con quasi 230 rifugiati siriani registrati ogni 1.000 cittadini libanesi. Anche la Giordania si trova in grave difficoltà per la presenza dei rifugiati, per i quali è stimata una spesa di più di 1,7 miliardi di dollari. In questo Paese povero di risorse, il governo sta finanziando sussidi supplementari per un valore di centinaia di milioni di dollari per garantire che i rifugiati abbiano accesso ad acqua, pane, gas ed elettricità a prezzi abbordabili. L’aumento della domanda di assistenza sanitaria ha portato ad una carenza di medicine e, soprattutto in Giordania settentrionale, vi è scarsità di acqua potabile disponibile sia per i giordani che per i rifugiati. «Immaginate le dirompenti conseguenze sociali ed economiche che questa crisi comporta per il Libano e gli altri paesi della regione», ha affermato Guterres. «Hanno bisogno di un sostegno internazionale molto più importante di quello che hanno ricevuto finora, sia finanziariamente che in termini di impegno nel ricevere e proteggere i rifugiati siriani in altre parti del mondo, al di là della regione circostante». Guterres ha anche osservato chela situazione dei rifugiati siriani sta diventando una questione di rilevanza mondiale, dal momento che stanno arrivando in numero sempre crescente anche in altre parti del mondo. Dall’inizio del conflitto nel marzo del 2011 i siriani che hanno presentato domanda d’asilo in Europa sono 56.000. La maggior parte delle richieste sono state effettuate in due Paesi: Svezia e Germania. Finora, menodel4%dei siriani che sono fuggiti dal conflitto hanno cercato protezione in Europa. Questi numeri non includono la Turchia, che invece ha registrato oltre 625.000 rifugiati siriani. Ma le stime sono in aumento: il numero dei siriani sta crescendo a causa degli arrivi irregolari via mare nei paesi del sud del Mediterraneo, e via terra in Europa orientale. Sempre più siriani mettono le loro vite in balia di trafficanti di esseri umani, spesso con risultati tragici. Nel 2013,700persone sono morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo e tra questi circa250erano siriani. Talvolta si trovano anche a non poter attraversare le frontiere e ad essere respinti verso i paesi confinanti. «Che razza di mondo è questo, dove i siriani in fuga da un conflitto così violento si trovano a rischiare la vita per cercare protezione, e quando finalmente riescono a farlo, non sono accolti o addirittura vengono respinti alle frontiere?», ha affermato Guterres. Un mondo complice.
DATI AGGHIACCIANTI. Sono 5,5 milioni i bambini colpiti dal conflitto in Siria che hanno urgente bisogno di aiuto. Secondo un nuovo rapporto dell’Unicef pubblicato ieri i dal titolo: Sotto assedio . L’impatto devastante di tre anni di conflitto in Siria sui bambini», si registra un altro triste traguardo: i bambini colpiti dal conflitto sono più che raddoppiati solo negli ultimi 12 mesi. Adnan, quattro anni, è dovuto scappare con la sua famiglia in Libano e porta sul viso le cicatrici causate dal bombardamento della sua casa. «È profondamente traumatizzato e piange tutta la notte», dice la madre. «Ha paura di tutto, anche di rimanere solo per un secondo». In Siria, ci sono altri 2 milioni di bambini come Adnan che hanno urgente bisogno di supporto psicologico e cure. Un milione di bambini sono intrappolati nelle aree della Siria sotto assedio o in quelle più difficili da raggiungere con assistenza umanitaria. Dei 5,5 milioni di bambini colpiti, 1,2sonorifugiati nei Paesi limitrofi; gli altri 4,3 sono all’interno della Siria, di cui 3 milioni sfollati. Oltre 10.000 bambini hanno perso la vita nel conflitto. Oltre 8.000 hanno raggiunto i confini della Siria senza genitori - 37.498bambini sono nati in condizione di rifugiati - 323.000 bambini sotto i 5 anni vivono sotto assedio o in aree difficili da raggiungere. Circa 3 milioni, non vanno a scuola (il40%di tutti quelli in età scolare) - 4.072 scuole - il 18% delle scuole siriane - sono state distrutte o utilizzate come rifugi. Degli 1,2 milioni di bambini rifugiati nei Paesi limitrofi, denuncia l’Unicef, un bambino su 10 è un piccolo lavoratore, una bambina su 5 è stata costretta al matrimonio precoce.

La Stampa 15.3.14
“A Yabroud, ostaggio sotto le bombe ho capito che la rivoluzione era finita”
Il nostro inviato è stato in mano ai ribelli per 152 giorni: lì i primi segni di barbarie
di Domenico Quirico


È nel primo incontro con Yabroud che ho sentito l’improvviso impero di un destino, il mio personale e quello di una rivoluzione intera. Una notte appena dopo esser entrato in Siria attraverso la frontiera libanese sguarnita di soldati, su una tortuosa petrosa stradicciola vagabonda presidiata da frutteti che radono a destra e sinistra i montuosi fianchi deserti.

Dai meli in fiore, era aprile, i petali fluttuavano pigramente nell’aria. Ho capito a Yabroud come sia così difficile separare il Bene dal Male. Non sapevo ancora che stavo per entrare in una vita diversa, così come per sbaglio si sale in un treno diverso. Ho iniziato a capire quando ho incontrato il prete. Yabroud non si preannuncia, Yabroud ti afferra quando si comincia a rendersi conto della sua presenza, è già là con le sue casupole i suoi minareti le vie tortuose e ingombre di immondizia. 

La chiesa è splendida: vi hanno pregato i legionari di Roma, il segno di Caligola Cesare è ancora ben impresso nelle pietre, e poi i cristiani, perennemente eroici perché perennemente assediati, dai pagani e poi sperduti in terra di islam. Sul piano del cortile, sulle fronti, sulle arcate un crescente di lume di sole veniva più e più colorando le pietre austere come una ascensione interna di vita di senso di parola.
Il prete era un uomo anziano che aveva studiato teologia in Belgio. Nell’accogliermi una evidente mestizia, un allarme. Mi accompagnava a vedere la chiesa ostentatamente, con maniere da visita turistica, rivolte ai miliziani che facevano da corteo. Sfilavan via, sequenza surreale, dotte spiegazioni sulle trasformazioni della navata nei secoli, e sulle icone preziose salvate da mille assedi saccheggi violenze. Poi mi portò nella piccola sacrestia, troppo piccola per ospitare anche l’ingombrante codazzo dei rivoluzionari.

È allora che il prete racconta. Che a Yabroud, da quando è scoppiata la rivolta comandano gruppi di finti ribelli, di banditi travestiti che vivono a spese della popolazione con esazioni, sequestri, violenze. Vittime, tra gli altri, i cristiani: «Dobbiamo pagare perché ci lascino pregare e vivere in pace, e ogni volta la somma è maggiore. Ma eravamo cinquemila cristiani qui, tre anni fa. Oggi ne è rimasta forse nemmeno la metà, gli altri fuggiti nel vicino Libano o a Damasco. Sia prudente perché la rivoluzione non esiste più, è diventato brigantaggio». 
Non l’ho ascoltato. Sono tornato a Yabroud due mesi dopo: ostaggio. La chiesa era ancora candida nella luce; ma non ho più rivisto il prete, non so se è vivo. Questa volta non ero libero di scegliere dove andare, ero nelle mani proprio di un gruppo di ribelli-banditi. All’ingresso della città ho visto i miei primi rapitori vendermi a un altro gruppo per un grosso pacco di dollari. Ho sperato, sognato che sarei uscito di lì attraverso quella pista che si inerpicava sulla montagna; ci sono passato davanti due volte: sempre invano. 

Tutto era cambiato. Solo la luce era la stessa. Dal cielo incredibilmente vicino ai monti che spalleggiavano e chiudevano la valle pioveva luce su tutte le cose, in limpidezza tale da sembrar fuori di natura, quasi estinta. Questa volta ho attraversato le strade in fretta, su un pickup, il viso avvolto in una kefiah per ingannare i passanti, figure fiere e remote che furtivamente gettavano su di me sguardi di odio. La città l’ho soltanto ascoltata, dalla stanze in cui ero tenuto prigioniero: il rumore della folla, dei venditori, le grida i richiami del muezzin, la moschea era a due passi dalla mia prigione nella parte alta della città che si arrampica verso una semidistrutta fortezza turca. E poi le esplosioni. Gli aerei del regime saggiavano qua e là come se palpeggiassero la robustezza degli edifici. 
È a Yabroud che ho conosciuto i carcerieri di altri tre mesi di vita rubata. Furbi lesti febbrili, metà rivoluzionari e metà briganti. Immersi nella guerra civile fino al collo come in una melma, la loro vita è un attimo. Questa è la loro forma di eternità. 

Lerciume denaro bugie… la rivoluzione che avevo amato nelle vie di Aleppo la ribelle, a Yabroud è diventata un panno sporco da gettar via. Son stato prigioniero in piccole stanze: strani fili di suono ti avviluppano, improvvisi scoppi di luce attraverso la finestra chiusa da una grata, lampi di fughe impossibili, (ah! riuscire ad arrivare alla chiesa, il prete mi aiuterebbe…), felici invasioni di vertigine. Quando un attimo si fa eterno e abolisce ogni cosa, anche la morte come la vita che non sai se hai più; e dal mistero balzano improvvise illuminate e precise le cose essenziali, una volta e per sempre. Potrei dimenticare Yabroud, ma non posso, non voglio. 
Gli Hezbollah di cui hanno una folle paura hanno cacciato i miei carcerieri dalla città. Immagino: che guardino la mestizia delle rovine, delle ceneri, del dolore. Sanno che devono morire. La loro vita è chiusa, è quasi piena, la clessidra è colma fin quasi all’orlo. E la morte non ha che da aggiungere pochi, pochissimi granelli di sabbia. 

l’Unità 15.3.14
L’estetica della resistenza
Gioia e rivoluzione
Il testo dello scrittore turco dedicato ai «ribelli» di piazza Taksim
di Burhan Sönmez 


(traduzione di Andrea Grechi)

1. LE STELLE BRILLANO MEGLIO NELL’OSCURITÀ PIÙ ASSOLUTA. Le stelle stanno brillando ovunque contro l’oscurità di questo Paese.
2. Gli adolescenti senza fissa dimora che vivono nell’area di Taksim si chiedono quanto durerà la resistenza, perché a quanto pare ricevono pasti gratuiti grazie alla vita comunitaria dei dimostranti. Quello stesso governo che fa tante storie per il consumo di bevande alcoliche nel raggio di cento metri dalle moschee, non mostra la minima apprensione per quanti hanno lo stomaco vuoto entro un centinaio di metri dalle moschee.
3. Gli eventi storici rimangono scolpiti nella memoria della gente con le loro caratteristiche salienti. La vita che ha preso forma a Taksim nell’arco di due settimane ha gettato i semi dell’Utopia in questo paese.
4. Tutti stanno godendo del solidarismo e della libertà. Nessuno si impone sugli altri e tutti ostentano le proprie usanze senza alcun freno. Mentre i musulmani anticapitalisti eseguono le loro preghiere, gli atei mantengono l’occhio vigile sui dintorni. I curdi danzano l’halay, gli aleviti si esibiscono nella loro vorticosa danza rituale, la samah, e i turchi intonano marce. Socialisti, membri della comunità LGBT, tifosi del Besiktas, del Fenerbahçe e del Galatasaray si rimboccano le maniche e si divertono tutti assieme, vegliando gli uni sugli altri. La libertà di ciascuno è presidiata da tutti.
5. Nessuno soffre di stenti, ciascuno è uguale agli altri. Si dona ciò di cui «non si ha bisogno» e si riceve quello di cui «si ha bisogno». Niente denaro, niente proprietà, niente gente affamata.
6. A Gezi Park stiamo sperimentando l’assenza dello Stato. Essere testimoni della serena e civile situazione in questa enclave è un gran privilegio.
7. Per la prima volta nella nostra storia, l’umorismo e la gioia sono diventati il linguaggio del- la resistenza. Nel passato le armi del dissenso sono sempre state la mera forza e il sacrificio estremo; oggi invece ci esprimiamo attraverso il linguaggio lieve e arguto che va oltre le parole di disprezzo.
8. Lo Stato può senz’altro sconfiggere l’estremismo radicale, mai detentori del potere politico non hanno alcun mezzo a disposizione per sconfiggere l’umorismo e la gioia. È per questo motivo che la loro causa è senza speranza. Non ci casca nessuno.
9. La Comune di Parigi durò settantadue giorni. Con l’entusiasmo, abbiamo fatto rivivere quegli stessi principi in due settimane. Quando fu abbattuta nel sangue, gli intellettuali liberali e borghesi stavano ancora dibattendo delle incongruenze, dei difetti e degli errori della Comune. In segno di protesta, Marx evidenziò le potenzialità per il futuro: proprietà e sfruttamento erano stati sradicati e si era data un’opportunità alla democrazia diretta.
10. L’insegnamento di Bedreddin per noi è duplice. Per prima cosa, egli si unì alla sollevazione popolare. In secondo luogo, credeva nell’uguaglianza e nella condivisione. L’Utopia di Tommaso Moro e lo Hayyibn Yaqdhandi Ibn Tufail abitavano il medesimo mondo dei sogni. E anche noi, oggi, stiamo vivendo quel sogno.
11. Stiamo indicando un buon esempio: guardateci, quello che stiamo facendo è una buona cosa. Ma il governo e i suoi pifferai preferiscono fissare il dito anziché la luna e provano in tutti i modi a calunniarci. Il loro obiettivo è indebolire il movimento mettendoci gli uni contro gli altri. Ma noi non cederemo: guardate nella direzione che stiamo indicando, lì vedrete il mare e gli alberi.
12. «Noi amiamo il rosso della rivoluzione e ci battiamo per salvare il verde». Le stesse persone che hanno scritto questo messaggio sui muri hanno ribattezzato una fermata degli autobus «Fermata per contemplare il cielo», un tributo ai poeti scomparsi.
13. Siamo grati a questi giovani: sono arrivati all’improvviso quando la situazione appariva davvero cupa e hanno tratto in salvo l’umanità dal baratro. Chi li ritiene egoisti e ignoranti è in errore. I manifestanti hanno dato un nome a ciascuna delle undici barricate erette a Gümüssuyu, e su una di queste hanno scritto quello di Abdullah Cömert, scomparso la settimana scorsa. Poi, sull’ultima barricata, quella che si affaccia sul mare, hanno scritto a caratteri cubitali, in un nobile gesto, il nome del compianto rivoluzionario Deniz Gezmis.
14. Da soli non contiamo nulla ma, se ci uniamo, possiamo tantissimo. Se non otterremo quello che vogliamo, le lobby trasformeranno la nostra città - e le nostre vite - in un deserto. Per loro, la storia si riduce a un cumulo di “cocci”, o tuttalpiù a uno strumento per generare profitti; venerano il denaro e null’altro. 15. Vogliono prosciugarci senza alberi né acqua, come quegli innocenti a Kerbala. Noi sappiamo benissimo che loro hanno sparso lacrime per Kerbala mentre mangiavano alla stessa tavola di Yazid. Ecco perché celebriamo l’acqua e gli alberi prima del deserto, e la vita prima della morte.
16. Non smettono un istante di parlare di vandalismo. E la distruzione di Gezi Park, non è forse un caso di vandalismo? Noi rivendichiamo la proprietà pubblica nei modi più pacifici e ripetiamo: non danneggiate la proprietà pubblica!
17. In gioco, qui, non c’è solo l’opposizione a un’idea ma anche la richiesta di qualcos’altro. Solidarietà e cooperazione creano fraternità. Da questa grande energia il paese ha tratto benefici in misura ben superiore a qualsiasi indice azionario. Basterebbe questo per decidere di proclamare l’area un sito protetto.
18. Le persone non sono clienti. Dobbiamo continuare a difendere quello che abbiamo raggiunto. Potremmo organizzare un festival della Fraternità e della Solidarietà il 31 maggio di ogni anno. Una celebrazione della libertà alla quale ciascuno prenda parte con i propri colori e la propria identità; un mondo di eguali nel quale il denaro è obsoleto, nel quale tutti portano ciò di cui «non hanno bisogno» e prendono quello di cui «hanno bisogno». È a questo che le persone anelano, per contrastare la paura del grande capitale.
19. Un poeta ci ricorda che al numero degli abitanti di Istanbul bisogna aggiungere coloro i quali non ci sono più. Per onorare i bei morti, dobbiamo assicurare che la città rimanga protetta per chi vivrà qui in futuro.
20. I ragazzi l’hanno scritto in modo assai appropriato sui graffiti: «Anche se saremo sconfitti, ci resterà in bocca il dolce retrogusto della ribellione».
21. Abbiamo imparato tantissimo, abbiamo tradotto tutte le nostre ribellioni e i nostri sogni passati in una nuova lingua. Abbiamo riscritto da capo il nostro passato.
22. Speranza, sogno, utopia! E ribellione! Come se stesse recitando una poesia, un giovane nella piazza declama ad alta voce: «Insieme a voi, abbiamo riscritto da capo tutte le nostre storie d’amore passate».

La Stampa 15.3.14
Ruanda, condanna “storica”
per uno dei responsabili del genocidio
Venticinque anni a Pascal Simbikangwa, ex capitano della guardia presidenziale del Paese

È stato il primo processo in Francia legato al dramma ruandese
qui

Il Sole 15.3.14
Se la Cina cambia passo
di Francesco Sisci


L'ultimo dato non lascia dubbi, nei primi due mesi dell'anno la produzione industriale cinese è cresciuta ai tassi più bassi da cinque anni: l'8,6% tendenziale, rispetto al 9,7% del 2013 e al 9,5% delle previsioni. E a febbraio le esportazioni sono scese al 18,1% (114 miliardi di dollari), mentre l'import è aumentato più del previsto del 10,1 per cento.
Certo la locomotiva cinese non si ferma ma singhiozza e rallenta. Dovrebbe essere un segnale di un cambio di passo del sistema.
Il premier Li Keqiang nel discorso di apertura della sessione plenaria dell'Assemblea Nazionale del Popolo lo ha indicato con chiarezza: lo Stato non aiuterà più a piene mani le imprese pubbliche e i governi locali, che hanno gonfiato una grande bolla ancora con numeri non pubblici di debiti in sofferenza, ma sposterà l'attenzione verso le imprese private.
Il flusso monetario in circolazione, l'M2, che oggi vale quasi due volte il prodotto interno lordo, deve essere riportato sotto controllo. Questo significa meno denaro in circolazione e meno opere e operazioni di governi locali e imprese di Stato che fanno grandi numeri sui bilanci di azienda o provinciali, ma i cui progetti talvolta si rivelano cattedrali nel deserto o sprechi faraonici.
Né lo Stato salverà più tutto e tutti dal default. Il governo ha lasciato saltare il produttore di pannelli solari Shanghai Chaori Solar Energy Science & Technology, che non pagherà 89,8 milioni di yuan (circa dieci milioni di euro) di interessi su obbligazioni per un miliardo di yuan emesse nel 2012.
Non sono numeri enormi, ma sono segnali di un cambiamento di direzione.
Nel frattempo il governo annunciava licenze per cinque nuove banche private, mentre Alibaba - il grande sito di ecommerce prossimo alla quotazione in Borsa, quasi certamente negli Stati Uniti - oggi già raccoglie capitali in rete promettendo interessi più alti di quelli dei depositi bancari e concedendo prestiti ai propri clienti con maggiore perizia delle banche tradizionali. Anche grazie al fatto che i dati accumulati sui comportamenti dei propri utenti consentono di stilare dei profili di comportamento molto precisi per cui il sito riesce ad avere un giudizio di rischio molto chiaro sui suoi debitori.
È l'inizio della fine di un sistema di credito bizzarro dove le imprese statali potevano prendere prestiti dalle banche statali a basso tasso di interesse (perché tali prestiti istituzionalmente non erano considerati a rischio) e le imprese poi riprestavano a tassi maggiorati il denaro ricevuto.
Si tratta quasi di una licenza di usura per le imprese statali che finanziavano la loro inefficienza tassando e vessando imprese private costrette a pagare tassi anche di oltre il 30% all'anno. Il tasso di interesse delle banche oggi è fissato dal governo non è libero né le banche possono cercare rendimenti maggiori. Inoltre spesso i loro prestiti sono annuali e rinnovati su questa base. Ci sono pochi piani di rinnovo pluriennali.
In teoria allora allocando direttamente il denaro alle imprese private, con tassi di interessi più liberi, pianificati su più anni, le imprese private potrebbero creare più crescita con meno denaro.
Questa però è la teoria, perché per mettere in moto un sistema di credito efficiente che superi gli arcani attuali ci vorranno mesi se non anni. Inoltre, spesso le imprese private preferiscono pagare un tasso più alto in una situazione grigia a una istituzione usuraia che non fa troppe domande indiscrete, piuttosto che pagare un interesse più basso a una banca che è parte integrante del sistema statale.
Molti privati infatti, nati e cresciuti in una fase di passaggio imprecisa tra economia pianificata ed economia di mercato, hanno “peccati” da nascondere, piccole o grandi malefatte o irregolarità di cui il governo potrebbe chiedere conto. Ma sanare questi peccati non è facile politicamente, perché potrebbe essere come premiare i disonesti contro chi invece non si è mosso ed è stato onesto. Però senza questo risanamento tanti privati possono rimanere incerti.
Molte di questi elementi però sono questioni di sfondo, di medio termine, che oggi il governo non ha neanche cominciato ad affrontare. Oggi il semplice accenno al raffreddamento degli aiuti agli enti pubblici però può comportare un calo della crescita. In teoria il premier Li ha parlato del 7% o 7,5%, se la tendenza attuale viene mantenuta potremmo vedere numeri anche più bassi sperando però che ciò corrisponda a una crescita di qualità migliore. Se ciò avvenisse è possibile che la Cina possa tornare a crescere un domani anche a tassi di nuovo molto alti.
Per ora però Li sembra preferire un raffreddamento misurato che permetta di riassorbire e ristrutturare il debito di imprese di Stato e amministrazioni locali. Né c'è più l'ansia di creare troppi nuovi posti di lavoro in città. L'aumento generalizzato del costo del lavoro è anche indice che in molti settori c'è già scarsità di manodopera disponibile.
Di certo il governo ha in mano comunque tante leve, e se davvero l'economia si inceppasse potrebbe sempre tornare a spingere sul fronte degli investimenti in infrastrutture.
Ma il passaggio è a rischio, e molte cose potrebbero andare storte. Il governo è di fatto osteggiato dalle imprese pubbliche mentre i privati sono troppo timidi e deboli.
Come ha detto il presidente Xi Jinping, è finito il tempo in cui le riforme facevano bene a tutti, è cominciato il periodo delle scelte difficili.

La Stampa 15.3.14
La Cina censura i Rolling Stones:  no a Honky Tonk al live di Shanghai
La macchina della censura di Pechino travolge la rock band

La famosa canzone non potrà essere inserita in scaletta. Vietata anche «Brown Sugar»
qui

Corriere 15.3.14
I Rolling Stones al Circo Massimo il 22 giugno


Un ritorno storico (quando si parla di loro è sempre così), a 7 anni dall’ultima volta: i Rolling Stones saranno a Roma il 22 giugno, al Circo Massimo. Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts e Ron Wood sono tornati in tour per celebrare i 50 anni della band, e arriveranno al Circo Massimo a 47 anni dalla loro prima volta in Italia quando, nel 1967, tennero due concerti al giorno (di 40 minuti l’uno) in quattro città. Negli anni 2000 i Rolling Stones sono stati in Italia sempre per un solo concerto: nel 2003 e nel 2006 a San Siro, nel 2007 all’Olimpico di Roma. La data romana del tour si inserisce in mezzo ai primi concerti europei già annunciati: il PinkPop Festival Olanda il 7 giugno e il Tw Classic Festival Belgio il 28 giugno.

l’Unità 15.3.14
Marzo 1944
Il risveglio operaio apre la stagione della battaglia contro il nazifascismo
Gli scioperi di settant’anni fa indicarono al mondo intero che un regime orrendo stava crollando
Il popolo tornò protagonista, la città e la fabbrica accanto ai partigiani in montagna
di Oreste Pivetta


1914 – 1944, UN SECOLO FA E SETTANT’ANNI FA: L’INIZIO IN ESTATE DELLA CATASTROFE CHE AVREBBE SCONVOLTOL’EUROPA E L’ITALIA (che mercanteggiò fino ad entrare in guerra neppure un anno dopo) e gli scioperi del marzo ’44, che segnarono almeno per noi la fine di un trentennio tragico e oscuro, prima i morti in trincea e negli assalti disperati alla baionetta, poi il fascismo, liberticida, violento, sfruttatore, parassita. Forse quegli scioperi la fine non la segnarono solo per noi: indicarono al mondo intero che un regime orrendo stava crollando, forse era già crollato sotto il peso delle sconfitte militari e dell’impotenza economica, del rifiuto da parte di chi, anche in Italia, aveva creduto nei populistici messaggi di una dittatura.
«Nell’Europa occupata non è mai avvenuto niente di simile alla rivolta degli operai italiani», scrisse allora il New York Times. Niente di simile: un popolo che tornò protagonista, la città e la fabbrica, accanto ai partigiani in montagna, il conflitto sociale accanto alle armi, malgrado i nazisti, malgrado le squadracce repubblichine, malgrado la paura o la certezza della repressione, della deportazione e pure della morte, nei giorni più tetri, più duri nel centro e nel nord occupato e affamato, tra le rovine che lasciava dietro di sé un esercito in fuga che cercava di difendere la propria ritirata, abbattendo ogni ostacolo alzato non solo dai partigiani in armi ma anche dalla popolazione civile, rastrellando manodopera per il lavoro obbligatorio, requisendo ogni bene, soprattutto quanto rimaneva per alimentare un esercito senza più rifornimenti. La fame era l’incubo di tutti, su un fronte e sull’altro. Gli scioperi del ’44, come un anno prima, scoppiarono per fame… con duecento grammi di pane al giorno, cento di olio al mese, mezzo chilo di carne al mese, un chilo di pane costava 260 lire al mercato nero e un operaio Fiat ne guadagnava 240 alla settimana.
Dal primo all’otto marzo fu sciopero generale (come non fu un anno prima e poi tra novembre e dicembre del 1943), organizzato minuziosamente per quanto fosse possibile, in prima fila il partito comunista, attraverso una rete capillare di attivisti di città in città, di fabbrica in fabbrica, riuniti in un comitato sindacale interregionale: «In tutte le fabbriche un grido unanime – avvertì con l’enfasi necessaria un volantino - irrompe da ogni petto. Basta con la fame, vogliamo l'aumento delle razioni alimentari! Salviamo i nostri figli, i nostri vecchi, il nostro popolo da una morte lenta, dalla fame! Lavorare per i tedeschi significa fame, miseria, deportazione; significa attirare sulla nostra città i bombardamenti, prolungare i massacri e finire come schiavi in Germania. Ma la lotta delle masse, lo sciopero generale impedirà l'attuazione di questo piano criminale…».
Nessuno invocò la rivoluzione. Le rivendicazioni furono d’altro genere: sopravvivere intanto e poi migliori razioni alimentari, spacci aziendali a prezzi calmierati, aumenti salariali, persino gomme per le biciclette, sapone per lavarsi, qualcosa che valeva per il presente ed era qualcosa che riuscì a muovere migliaia di lavoratori, malgrado lo sciopero fosse proibito, perché rappresentava una forma di protesta collettiva che respingeva l’ordine imposto militarmente nelle fabbriche: fu un passo verso la democrazia e la libertà, fu riprendere la parola da parte di chi aveva taciuto tanto a lungo. Per molti fu una prova assolutamente nuova, una ricostruzione di identità e di volontà, lungo otto giorni di lotta, che per centinaia di operai avrebbero rappresentato poco dopo il salto improvviso nella tragedia dei campi di concentramento e di sterminio: solo dalla Fiat furono prelevati e deportati chi dice quattrocento chi dice seicento operai; considerando le altre fabbriche in tutto furono circa mille e duecento a intraprendere il lungo viaggio verso Mauthausen, verso Gusen o verso Ebensee, dove si scavavano le gallerie che avrebbero dovuto custodire i missili di Hitler e si fondevano i pezzi per io carri armati della Wehrmacht. La cronaca di quei giorni la raccontarono i giornali scritti e stampati nella clandestinità. Un foglio milanese, organo della federazione comunista, La fabbrica, venne distribuito il primo marzo. Il titolo diceva semplicemente: «Sciopero generale. Non un uomo, né una macchina, né un cannone per la guerra hitlero-fascista». Più tardi il giornale delle Brigate Garibaldi, Il combattente, indicava: «Tutti mobilitati per appoggiare gli operai in lotta per il pane/ e contro le violenze nazifasciste, per la liberazione nazionale». La rivendicazione sindacale incrociava l’obiettivo politico: la «liberazione nazionale».
In prima fila, come per gli scioperi del ’43, fu ancora l’Unità, che trasse questo bilancio: «Oltre un milione di lavoratori dell’Italia invasa dai tedeschi con lo sciopero generale dall’1 all’8 marzo hanno lottato per il pane, l’indipendenza e la libertà degli italiani». Secondo il ministero degli Interni di Salò gli scioperanti furono «solo» duecentomila, Leo Valiani scrisse di cinquecentomila fuori dalle fabbriche ma che «qualche stima» dava il doppio, come attestarono più tardi alcuni storici che ipotizzarono altre cifre, fino a un milione e duecentomila. Forse aveva ragione l’Unità.
Da Torino, da Mirafiori e dal Lingotto, lo sciopero generale si estese a tutto il nord e poi verso il centro. A Milano scioperarono alla Falck, alla Face Standard, alla Pirelli, alla Brown Boveri, alla Innocenti, alla Montecatini, alla Marelli. Scioperarono anche i tipografi del Corriere in via Solferino e gli impiegati delle banche e i conducenti dei tram. Scioperarono a Firenze quelli della Pignone, delle officine Galileo, della Manifattura tabacchi. A Bologna si fermarono le officine Ducati. A Sassari si parlò di «moti per il pane». Non fu ovunque così. Con lucida autocritica il Comitato veneto di liberazione denunciò molte difficoltà, concludendo: «Vi è ancora molta strada da percorrere per emulare l’imponente compattezza dei grandi centri lombardi e piemontesi», altrettanto severo fu Angelo leris, commissario comunista a Pavia, che accusò: «Nessuna discussione sulle rivendicazioni locali, nessuna propaganda in mezzo agli operai da parte dei compagni, nessuna riunione di operai per spiegare il significato dello sciopero in gestazione». Anche Pietro Secchia si espresse con durezza: «A Milano nei giorni in cui i tranvieri scioperavano compatti troppa gente si serviva dei tram guidati dai nazifascisti… Nulla o quasi nulla tra i ferrovieri e i postelegrafonici. I servizi pubblici sono ancora un punto debole. Il lavoro tra i contadini è ancora assai debole e in alcune località quasi inesistente».
L’occupazione nazifascista non finì. Cominciò la stagione peggiore della guerra «inespiabile», come scrisse Ferruccio Parri ricordando il rastrellamento della Benedicta, condotto dai nazisti tra le colline dell’Appennino tra Liguria e Piemonte: le fucilazioni di massa furono lasciate ai bersaglieri di Salò, alle deportazioni provvidero i tedeschi. Era aprile, un mese dopo lo sciopero generale. La ritirata s’accompagnò alle stragi di bambini, donne, uomini, alle rappresaglie più feroci: dalle Ardeatine (il 24 marzo) a Monchio, S. Anna di Stazzema, Marzabotto… In autunno poi, mentre rallentava l’avanzata alleata, la controffensiva nazifascista fu spietata… Ma lo sciopero generale aveva dettato la svolta: anche chi non aveva scelto di combattere fucile in mano avevo scelto di scendere in campo, di prendersi le proprie responsabilità, mostrando la putrescenza e l’isolamento di un regime. L’operaio che in tuta incrociò le braccia (anche in un celeberrimo manifesto commemorativo) si riprese la scena e indicò la strada che avrebbe condotto ad una Repubblica «fondata sul lavoro», chiudendo i decenni delle dittature e dello sfruttamento. Non sarà sempre così. Ma la “centralità operaia” firmerà i decenni successivi, riforme sociali, cambiamenti, un’evoluzione democratica, via via scolorendo purtroppo, tra la crisi dell’industria e la decadenza della politica, fino agli incerti tempi presenti.

l’Unità 15.3.14
Il convegno dell’Anpi oggi a Milano


Oggi a Milano (Palazzo Marino, Sala degli Alessi, ore 9.30) si terrà il convegno organizzato dall’Anpi «In quei giorni del marzo ’44 un milione di lavoratori incrociò le braccia». Ricordare, a settanta anni di distanza, gli scioperi del marzo 1944 significa tornare ad uno degli avvenimenti più significativi della rinascita dell’Italia come Stato repubblicano e democratico. Gli scioperi sono stati un avvenimento assolutamente eccezionale. Nessun Paese occupato dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale ha vissuto una conflittualità così partecipata ed estesa. In nessun Paese, durante la guerra, il mondo del lavoro ha assunto una centralità così evidente tale da condizionare le sorti del regime fascista e da imprimere una così pronunciata impronta alla transizione verso la democrazia. Al convegno interverranno, tra gli altri, Giuliano Pisapia, Susanna Camusso e Carlo Smuraglia, Adolfo Pepe, Luigi Borgomaneri.

La Stampa 15.3.14
La tragedia delle piccole fiammiferaie
A Rocca Canavese, 90 anni fa, l’incendio alla fabbrica dove morirono 18 operaie-bambine
La fabbrica bruciò quasi completamente.
Il sindaco: «I giovani non ne sanno nulla».
di Gianni Giacomino

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Repubblica 15.3.14
Il cittadino digitale
Perché Internet ha bisogno di una propria Costituzione
A venticinque anni dalla nascita il web necessita di garanzie che lo mettano al riparo dalle violazioni alla sua libertà
di Stefano Rodotà


Dal volume, “Il mondo nella rete Quali i diritti, quali i vincoli”, anticipiamo alcuni estratti.
Internet, il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, la rete che avvolge l’intero pianeta, non ha sovrano. Nel 1996, John Perry Barlow apriva così la sua Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio. Questa affermazione orgogliosa riflette il sentire di un mondo, di una sterminata platea in continua crescita fino agli attuali oltre due miliardi di persone, che si identifica con una invincibile natura di Internet, libertaria fino all’anarchia, coerente con il progetto di dar vita a una rete di comunicazione che nessuno potesse bloccare o controllare. Ma è pure un’affermazione che ha dovuto subire le dure repliche da una realtà nella quale non solo Internet è variamente oggetto di regolazione, ma soprattutto conosce violazioni continue di quello statuto di libertà che si riteneva poter essere affidato alla propria, esclusiva virtù salvifica.
Perciò è venuto il tempo non di regole costrittive, ma dell’opposto, di garanzie costituzionali per i diritti della rete e in rete. Ma il rafforzamento istituzionale della libertà in questa sua nuova dimensione non può valere solo contro l’invadenza degli Stati. Deve proiettarsi anche verso i nuovi «signori dell’informazione” che, attraverso le gigantesche raccolte di dati, governano le nostre vite. Proprio il modo d’essere di questi soggetti – si chiamino Amazon o Apple, Google o Microsoft, Facebook o Yahoo! – ci racconta una compresenza di opportunità per la libertà e la democrazia e di potere sovrano esercitato senza controllo sulle vite di tutti. Non un Giano bifronte, però, ma un intreccio che può essere sciolto solo da una iniziativa «costituzionale” anch’essa nuova, che trovi proprio nella rete le sue modalità di costruzione.
Un esempio può essere ritrovato nella vicenda dell’Internet Bill of Rights, una proposta maturata all’interno delle iniziative dell’Onu sulla società dell’informazione e che si è venuta consolidando attraverso il lavoro di diversi gruppi, dynamic coalitions spontanee e informali che hanno poi trovato forme di unificazione e metodi comuni, che si sono manifestati negli Internet Governance Forum promossi in questi anni proprio dall’Onu. La scelta dell’antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie «costituzionali». Ma, conformemente alla natura della rete, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall’alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che possono intervenire in modo attivo, grazie soprattutto a una tecnologia che mette tutti e ciascuno in grado di formulare progetti, di metterli a confronto, di modificarli, in definitiva di sottoporli a un controllo e a una elaborazione comuni, di trasferire nel settore della regolazione giuridica forme e procedure tipiche del «metodo wiki», dunque con progressivi aggiustamenti e messe a punto dei testi proposti. Siamo così al di là di un altro schema tradizionale, che contrappone percorsi bottom- up a quelli top- down. Si instaurano relazioni tra pari, la costruzione diviene orizzontale.
Nel corso di questo processo si potrà approdare a risultati parziali, all’integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina; a normative comuni per singole aree del mondo, come dimostra l’Unione europea, la regione del pianeta dove più intensa è la tutela diquesti diritti; e come potrebbe avvenire per materie dove già è stata raggiunta una maturità culturale e istituzionale, come quella della protezione dei dati personali. Le obiezioni tradizionali – chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? – appartengono al passato, non si rendono conto che «la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale», come ha scritto Antonio Cassese.
Tutto questo accade in un contesto in cui le istituzioni tradizionali non vengono tagliate fuori, ma contribuiscono a una impresa di rinnovamento che, al tempo stesso, può mutare e rafforzare il loro ruolo. L’Onu si presenta come punto di riferimento per un mondo che si struttura proprio per cogliere una occasione da essa offerta. Il Parlamento europeo prende atto di una iniziativa non istituzionalizzata, e fa esplicito riferimento all’Internet Bill of Rights in una risoluzione del 2011.
Stiamo entrando in una dimensione difficilmente descrivibile con i tradizionali concetti della modernità politica, a cominciare appunto da quelli di Stato e di democrazia rappresentativa. Ma questa transizione non ci assicura che il suo esito sia quello dell’entrata nella postdemocrazia. Entriamo nella dimensione dell’inedito, e proprio perché si tratta di un processo inedito, non si può valutarlo con i criteri del passato, né attribuire una sorta di autoevidenza a qualsiasi vicenda che ci accada di registrare.
Cimentarsi con il problema del modo complessivo in cui la tecnologia incontra il tema delle libertà e istituisce lo spazio politico, significa proprio fare i conti con processi reali. E proprio riflettendo su Internet possono essere individuate le vie di un costituzionalismo globale possibile, non affidato a norme sovrastatuali incorporate nei diritti statuali. Vale a dire, una costruzione del diritto per espansione, orizzontale, un insieme di ordini giuridici correlati, non punto d’arrivo, ma strutturati in modo da sostenere la sfida di un tempo sempre mutevole, quasi una costituzione infinita.

La Stampa 15.3.14
“Curo la depressione con la cronoterapia”
di Chiara Beria Di Argentine


E’ vero che lei cura la depressione con la luce? Francesco Benedetti si sfila l’orologio da polso. «Mettiamo», spiega, «che questo sia il mio orologio biologico. Le lancette sono quello che faccio, il bilanciere è il mio codice genetico e la rotellina per mettere a punto l’ora esatta è la luce. Il nostro orologio interno è regolato da stimoli ambientali -luce, buio- che garantiscono al nostro organismo ritmi di attività e di riposo. Nei malati di depressione maggiore o con disturbo bipolare questi ritmi sono saltati, distrutti. L’idea è riattivarli utilizzando e manipolando proprio quegli stimoli ambientali. Roba da stregoni New Age! Hanno detto in passato. Ma la luce è la principale responsabile dei ritmi circadiani umani e, ormai, abbiamo dimostrato che somministrata in determinate ore - Quali? dipende dal cronotipo del paziente - ha un forte effetto antidepressivo».
Alt. Interrompo l’entusiasta Benedetti, lo psichiatra pioniere in Italia dell’uso della cronoterapia per la cura della depressione. Vuol dire che ai malati non prescrive farmaci antidepressivi? «Esatto. Associando la terapia della luce a cicli di terapia della veglia (modifichiamo il ritmo del sonno; i pazienti dormono ogni 48 ore, alternando notti di recupero di sonno profondo a notti in cui restano svegli) e somministrando solo sali di lito (servono a stabilizzare l’umore) guariamo il 60% dei malati. Ormai anche enti indipendenti internazionali come l’American Psychiatric Association hanno certificato che queste terapie hanno perlomeno la stessa efficacia dei farmaci senza avere però il rischio di effetti collaterali». 48 anni, modenese trapiantato a Milano, dove dirige l’Unità di psichiatria e neuroscienze cliniche all’ospedale San Raffaele Turro e insegna «Etica e psichiatria del suicidio» alla facoltà di medicina Francesco Benedetti, questo fine settimana, sarà uno dei 50 ricercatori protagonisti di «Brain in Italy», il convegno dedicato ai nostri «supercervelli» che non sono fuggiti dall’Italia. «Come numero di scienziati ormai ce la giochiamo con il Nord Africa!», commenta amaro.
Allora, perché è rimasto? Lo psichiatra risponde con i dati di una piaga in costante aumento («In Italia 1 persona ogni 20 - il 5% della popolazione - si ammala di depressione maggiore; un altro 2% soffre di disturbo bipolare»); racconta dell’odissea di pazienti esposti a ricadute se non a esiti ancora più infausti. «Mi creda sarei felice se esistesse una pillola che fa i miracoli. Purtroppo, la metà di quelli che prendono farmaci non guariscono, se non peggio. Non possiamo arrenderci! La ricerca di nuove strategie è nata proprio dall’esperienza di psichiatri che, come me, non ne potevano più d’usare psicofarmaci inutili. Al San Raffaele ho avuto la possibilità di studiare il ruolo degli stimoli ambientali e contribuire a definire nuovi protocolli di terapia non farmacologica; già altri medici come il professor Smeraldi e la dottoressa Colombo qui utilizzavano la terapia della veglia».
Palazzina G, oltre la porta chiusa del suo reparto, Benedetti mi mostra la stanza dove i malati ogni mattina per 30 minuti si siedono davanti a speciali lampade (potenza 1000,1500 lux) che simulano la luce del sole. Finito il ricovero lo psichiatra prescrive i bagni di luce anche a casa. «Queste lampade - sono dispositivi medici - si comprano anche su Internet». Con Anna-Wirz Justice e Michael Terman della Columbia University - i 2 scienziati fondatori del Center for Environmental Therapeutics - Benedetti ha scritto un libro-manuale, «Chronoterapeutics for affective disorders», che è stato piratizzato da ignoti hacker. Cure light anche come costi nel dilagante mercato degli psicofarmaci.
Chi la finanzia? Immagino che non sia molto amato dalle case farmaceutiche. «Ho vinto dei finanziamenti Ue; ho anche avuto qualcosina dal ministero della Salute e facciamo molto lavoro volontario. L’importante è che queste terapie vengano messe a disposizione dei medici e dei pazienti. Quanto al resto», ride Francesco Benedetti, «io certo non ho conflitti d’interesse!».

Repubblica 15.3.14
A mani giunte provando l’ipnosi
di Luca Bianchini



Una campagna pubblicitaria piuttosto insolita, specie per i paesi anglosassoni, porta in primo piano una parte del corpo femminile di cui si parla pochissimo: l’ascella. La Dove, gigante dei prodotti per l’igiene personale, fra cui guarda caso una nuovissima linea di deodoranti hi-tech, esorta le donne a sfoggiare, mostrare, sbandierare le loro ascelle. E non più a nasconderle pudicamente come fonte di possibile imbarazzo, complessi, cattivo odore, antiestetici aloni da mascherare. Nello stato del New Jersey poi, sono soprannominato popolarmente “the armpit of America”, sono comparsi enormi manifesti con una giovane donna bionda in canottiera bianca, aria fiera e fresca e braccia alzate; accanto a lei la scritta «Caro New Jersey, quando la gente ti chiama “l’ascella d’America” prendilo come un complimento».
Un articolo sul New York Times ha aperto il dibattito su quello che potremmo definire l’orgoglio ascellare. Una certa pruderie, per lo meno negli Stati Uniti, spinge molte persone a usare neppure la parola ascella, cioè armpit, preferendo il più generico underarm. Chiamala come vuoi, è una parte del corpo da depilare e sterilizzare senza pietà fin dalla primissima adolescenza. Un obbligo sociale fra i paesi evoluti che non ha ancora del tutto conquistato il sud d’Europa. E anche negli Stati Uniti si segnala qualche (per la verità rarissimo) caso di disobbedienza civile: ha fatto il giro del mondo una foto di Julia Roberts che saluta i fan sollevando il braccio destro e rivelando un’inattesa ascella tutt’altro che depilata. Per la verità sembrava frutto di trascuratezza piuttosto che una scelta.
Dall’altra parte dell’oceano le fa eco una ragazza spagnola, Paloma Goñi, che a Malaga conduce la sua personale battaglia contro la depilazione femminile, documentandola con foto e primi piani di gambe, le sue, e ascelle cespugliose, le sue, che pubblica sul suo blog Airesdescambio. Dopo sette mesi di astinenza dal rasoio e simili si chiede in un post: “Il fatto di essere donna mi obbliga a depilarmi? Sono previste altre opzioni?”. È una questione di igiene, rispondono gli esperti: con le ascelle depilate è più facile tenere sotto controllo il sudore. Ma l’ascella, specie non depilata, può esercitare un notevole richiamo erotico, come teorizza e ripete ogni volta che può Tinto Brass. Gli uomini più narcisi, quelli che al grido “glabro è bello” negli ultimi anni avevano abbracciato la moda della pelle superliscia, oggi fanno dietrofront. Basta guardare la copertina di Vogue Homme francese su cui campeggia un torrido James Franco in canotta nera e ascelle pelose accanto al titolo “Una star che si chiama desiderio”. L’afrore dell’ascella è un classico fin da bambini, come insegna oggi il cartoon Mr Peabody and Sherman in cui Agamennone si prepara alla battaglia e motiva le truppe odorandosi le ascelle e gridando: “Il profumo della vittoria!”

Repubblica 15.3.14
Decidere di morire
“Cari Mario, Lucio e Carlo ora raccontiamo il vostro coraggio”
Chiara Rapaccini e Monicelli, Luciana Castellina e Magri, Francesco Lizzani e il padre
Il ricordo del loro ultimo gesto, il dolore privato e la battaglia pubblica per approvare una legge sull’eutanasia
di Simonetta Fiori e Caterina Pasolini


«Solo noi possiamo capire cosa significa», dice Chiara Rapaccini, famosa illustratrice e compagna di Mario Monicelli. Annuisce complice Francesco Lizzani, stessa faccia del padre Carlo: professore di storia e filosofia, riflette sul gesto paterno con amorevole lucidità. Al telefono c’è Luciana Castellina, anche lei ha conosciuto il dolore evocato da Chiara. E non importa se Lucio Magri ha fatto una scelta diversa, non il volo da una finestra, ma un lungo viaggio verso la fine: in Svizzera, con l’aiuto di un amico medico. E sa di cosa parliamo Carlo Troilo, che arriva in redazione con Chiara e Francesco. È lui che li ha voluti al suo fianco per sostenere la legge di iniziativa popolare sull’eutanasia, promossa dal partito radicale e già consegnata rapporto alla Boldrini (se ne parlerà oggi alle 14.30 su Radio Radicale). Anche il fratello di Carlo, malato terminale, s’è gettato nel vuoto. E la legge dovrebbe evitare proprio questo, consentendo una morte più dignitosa a chi è già molto grave. Eutanasia, non suicidio assistito, che richiede un passaggio ulteriore: aiutare a morire persone che non sono necessariamente malati terminali. «Andiamo per gradi», dice Troilo. «È il primo passo di un percorso non facile. Anche perché la politica non risponde». Sentimenti privati e battaglie pubbliche, difficile tenerli separati. Anche un atto di generosità da parte di tre persone che vincono una naturale ritrosia perché sia possibile a tutti scegliere di morire in pace, vicino a chi si vuol bene.
Lizzani: Quello di mio padre non è stato il gesto di una persona incapace di intendere e di volere, ma un atto lucido che in Italia non può che essere cruento. So bene che una legge non risolve tutto, ma sarebbe un’iniziativa necessaria in un paese che appartiene all’Europa: l’Illuminismo fa parte del suo codice genetico.
Rapaccini: Ogni anno ci sono circa mille persone molto malate che si tolgono la vita. Di loro non si parla mai.
Castellina: Che ciascuno disponga della propria vita mi sembra un diritto sacrosanto. La cosa inammissibile è che queste proposte non vengano mai discusse in Parlamento.
Lizzani: Sì, quel principio deve essere salvaguardato. Ne ho parlato molte volte con mio padre e con mia madre, entrambi non più autosufficienti. Ma era un’ipotesi teorica, un ragionamento ideale. Mio padre rivendicava il diritto di una persona di porre fine alla sua vita. Cosa che poi lui ha fatto, del tutto sorprendentemente.
Rapaccini: No, per me non è stata una sorpresa. Io me l’aspettavo da trent’anni. La morte faceva parte del Dna di Mario e della nostra vita insieme, anche in una chiave ironica. C’era la famosa polpetta avvelenata che Mario invocava per sé o per i nostri amici in caso di rimbambimento. E il suicidio era una delle possibilità. Non dimentichiamoci che il padre di Mario - Tomaso Monicelli - si era ucciso con un colpo di pistola in bocca. Sento già qualcuno dire «poveracci, ma allora era una famiglia di pazzi». Tutto il contrario: era una famiglia colta e profondamente laica.
Lizzani: Quando morì Monicel-li, mio padre parlò di una «giovane lucidità». Fu colpito dal modo in cui aveva scelto di controllare la sua vita fino in fondo. Un “superlaico”, così disse. Sì, in questo senso una rivendicazione politica: nel suo giudizio troviamo la chiave per capirne l’atto successivo. Anche se il suo gesto è maturato molto tardi. Credo che mio padre abbia combattuto fino alla fine per la vita. Aveva dei progetti, cantieri ancora aperti. Negli ultimi tempi aveva pensato di arrivare sul set in ambulanza. Ma poi gli è venuta meno la forza fisica. E soprattutto - questo il passaggio più rilevante - gli è mancata la forza per aiutare mia madre. Non posso fare più niente per gli altri: qui deve essere calato il buio.
Castellina: Lucio ne parlava da anni, quindi non eravamo affatto sorpresi. Ma nel suo caso si trattava di una depressione profonda: non aveva più interesse alla vita, sia nella sfera pubblica che nel privato, avendo perso la moglie Mara. Io mi arrabbiavo, opponendogli la mia smisurata voglia di vivere. E lui mi trattava male: «Non stai mai ferma, sembri una gallina impazzita». Non poteva capirmi.
Rapaccini: No, per Mario non si trattò di depressione. Il suo è stato un gesto di libertà straordinario. Libertà e coraggio. Io la vedo così: la morte eroica di un combattente. Forse non esiste al mondo un quasi centenario che decida di farla finita. Hanno scritto che si sarebbe suicidato perché era un malato terminale. Ma figuriamoci. Se gli avessero detto: guardi, Monicelli, lei ha pochi giorni di vita, per lui sarebbe stata una bella notizia. E invece gli dissero: la dimettiamo. Conviveva da anni con un tumore alla prostata. E sarebbe vissuto ancora un po’.
Lizzani: Il fatto che a quell’età un uomo trovi la forza di fare un gesto del genere... un ragazzo. In questo senso lo è stato anche mio padre. Io lo immagino davanti alla finestra, in quei dieci metri quadrati della stanza. Come sul set di uno dei suoi film. Avrà contato i passi fino alla parete, e poi il peso del corpo in all’altezza: quanto devo spingermi in avanti per cadere sotto. Ha calcolato tutto con una lucidità stupefacente.
Rapaccini: Mi ha sempre colpito che Magri si sia ucciso negli stessi giorni della morte di Mario, un anno dopo.
Castellina: Il tratto che accomuna queste tre persone è più di carattere culturale e anagrafico. La nostra è una generazione che non si accontenta di sopravvivere. Una generazione che vuole essere soggetto della storia, consapevole fino in fondo del proprio ruolo rispetto al contesto sociale. E quando Lucio ha sentito che non c’era più niente da dire è come ammutolito.
Lizzani: No, per mio padre non è stato così. Mi colpisce invece un’altra associazione, che rimanda alla dimensione tragica dell’esistenza. All’inizio della sua vita professionale, ricevette da Rossellini una delega in bianco per Germania anno zero. «Lizzani ha girato gli otto minuti più belli della storia del cinema”, mi dissero una volta scherzando i fratelli Taviani. È la sequenza del bambino suicida. La sintassi di quelle immagini restituisce il massimo della drammaticità: la passeggiata in una Berlino fantasmagorica, il gioco con la palla, l’approdo sul cornicione dove il bambino si passa la mano sulla faccia, che si trasforma improvvisamente in quella di un vecchio. Il miracolo di un’immagine che condensa una disperazione infinita. Poi il bambino cade nel vuoto. Mio padre ha fatto lo stesso.
Castellina: Nessuno di noi è in grado di valutare il dolore del vivere. E quando il dolore è così forte devi entrarci dentro per provarlo. Io faccio fatica a capire. Rossana (Rossanda, ndr) lo capisce di più. Per lei è stato molto duro accompagnare Lucio. Ancora ne risente.
Rapaccini: Ora noi stiamo parlando di Monicelli, Lizzani e Magri che sono personaggi pubblici. Però ci sono storie meno note come quella di mio padre Franco Rapaccini, morto in un cronicario di Firenze. Non potevo vederlo agonizzare in quel modo, così supplicai il medico affinché gli desse la morfina. Una battaglia estenuante. E quando finalmente la ottenni, mentre gli iniettava la dose letale l’infermiera cattolica mi rimproverò: non si uccidono i padri.
Lizzani: In realtà hai esercitato un’altissima forma di pietas che ricorda quella di Antigone. Anche in questo caso il conflitto tra la legge dell’uomo e quella della città. Solo che in Italia Creonte è impersonato dalla Chiesa cattolica, titolare del potere autoritario più durevole della storia. Viviamo in un paese di controriforme senza riforma, come diceva Croce. La classe dirigente laica ha abdicato al suo ruolo storico. E qui nasce il vuoto legislativo su questi temi che è anche vuoto culturale. Siamo vittime della “sin-drome del Grande Inquisitore”, che vuole la tua salvezza, ma decide lui quale sia.
Rapaccini: L’onorevole Binetti disse che Mario era un poveretto, abbandonato dai famigliari. Con Ettore Scola e altri abbiamo deciso di querelarla.
Lizzani: Anche a me non furono risparmiate sgradevolezze. Nel corso di un dibattito radiofonico, sono stato azzannato da una sorta di lupo travestito da Cappuccetto rosso: non gli era bastato accanirsi sul corpo di mio padre, ma ha aggiunto che anche io ero obnubilato dal dolore. In realtà sono sempre stato affascinato dal dialogo leopardiano tra Plotino e Porfirio. Le ragioni della vita contro quelle dell’aspirante suicida. Sono sempre stato dalla parte della vita e anche negli ultimi tempi ho cercato di aiutare mio padre a trovare un senso. Poi lui ha scelto in altro modo, e io lo rispetto.
Castellina: Io ancora non riesco a perdonare Lucio. Provo una grandissima rabbia. Questo non significa che non gli riconosca il diritto di decidere della sua vita, per questo mi batto per la legge. Ma mi sento offesa. Il suo è stato un gesto autoreferenziale. Vuol dire che i legami di amicizia non servono a fermarti. E che il tuo dolore conta più del dolore che procuri.
Rapaccini: No, non sono d’accordo. Mi riconosco di più nelle parole di Gibran: i figli sono frecce, i genitori gli archi, più ami una persona più la spingi lontano. E questo vale anche nei rapporti d’amore. Se amo Mario devo lasciarlo andare.
Lizzani: Mah, ci può essere anche il momento in cui uno pensa: ho fatto il possibile e non ci sono riuscito, porca miseria. Un cedimento umano, forse una debolezza narcisistica. In realtà bisogna arrivare alla conclusione di Chiara.
Rapaccini: Forse un po’ di rabbia ti resta, ma non voglio parlare del mio dolore. Mario non ha lasciato nessuna lettera. Faceva sempre quel che gli pareva, non era da lui dare spiegazioni.
Lizzani: Invece era da mio padre lasciare un biglietto. «Ditha adorata, figli carissimi, è meglio così. Stacco la chiave». Se ripenso alle sue parole, quello che colgo è una grandissima dignità. Non si giustifica né chiede scusa, ritenendo di non aver commesso alcun peccato. E il lato affettivo è molto forte. Non ci ha voluto coinvolgere nel suo gesto anche per pudore. Resta l’amore, che è più forte dell’abbandono.

Repubblica 15.3.14
Tra le rovine dell’estremismo
Marco Belpoliti indaga “l’estetica del disastro”
di Raffaella De Santis



L’ultimo libro di Marco Belpoliti è una mappa che raccoglie i frammenti del nostro tempo, lavorando per accumulo, per stratificazioni di idee. Belpoliti è un intellettuale onnivoro, si nutre delle letture più disparate. L’età dell’estremismo (Guanda, pagg. 294, euro 18) è il suo cantiere, in cui ha depositato pezzi del nostro tempo, un’epoca compresa tra il 1989 e il 2012. Per entrarci bisogna imparare a camminare tra le rovine, disposti a perdere l’orientamento, a procedere a balzi, saltando da un libro a una fotografia a un racconto di cronaca. Una disorganicità che è parte del progetto, estremo anche nel metodo. Per capirci: il saggio inizia con l’assedio di Sarajevo e passa subito a raccontarci Keith Haring. La guerra e il pittore dal segno gioioso, vicini.
È un gioco di specchi, di libri e immagini che si richiamano a vicenda: Sebald, Kundera, De Lillo, Rushdie, insieme a Warhol, Cindy Sherman e Andres Serrano. Un’iconografia politica del presente, come già Da quella prigione o Il corpo del Capo o
La canottiera di Bossi (tutti Guanda). Un labirinto di citazioni. Il titolo stesso è un prestito da Susan Sontag: «La nostra è effettivamente un’epoca di estremismi. Viviamo infatti sotto la minaccia continua di due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile». Banalità e terrore. Dentro questi confini fluidi - gli stessi tracciati da Hannah Arendt, che ha scelto come sottotitolo del saggio Eichmann a Gerusalemme proprio La banalità del male- si muove Belpoliti, continuando il libro anche sul web, attraverso il suo tumblr (marcobelpoliti.tumblr.com), dove tra foto e lavagne di appunti svela l’officina del suo cantiere di lavoro, mostrandone le fondamenta e dando vita a un’opera aperta, destinata non concludersi con l’ultima pagina del saggio. E in fondo anche questa indeterminatezza è una forma di estremismo. Belpoliti - che presenterà il suo libro a Roma oggi alle ore 16, durante “Libri come”, all’Officina 1, insieme a Andrea Cortellessa e Wlodek Goldkorn - viaggia tra gli estremi: i terroristi kamikaze e Bin Laden, il crollo del muro di Berlino e quello delle Torri, le nuove tecniche di guerra nei campi profughi palestinesi. Ma l’estremismo è inafferrabile, perché per definizione è estremo ciò che è oltre ogni limite. Ed è questo ad affascinare del saggio, questo movimento verso un traguardo che continua a sfuggire. L’autore può essere solo un collettore di indizi. Perché abbattuti i confini, ciò che rimane sono le rovine, anzi le macerie, cumuli di detriti che segnano l’estetica del presente, l’“estetica del disastro”, già al centro di
Crolli(Einaudi, 2005) e qui ulteriormente sviluppata.
È un libro per chi sa guardare il mondo da un treno in movimento, sommando le visioni che si susseguono da un finestrino all’altro. Per Deleuze e Guattari solo quel tipo di viaggiatore alla fine saprà “accostare e rintelare i frammenti intermittenti e contrapposti” (L’Anti-Edipo,1972). Oggi quei frammenti sono diventati macerie. Ci sommergono, si moltiplicano, ma sono tutto ciò che abbiamo.

Corriere 15.3.14
Semplicemente, il tempo non esiste
Gli eterni adulte(scenti) Ecco i figli di Peter Pan
di Matteo Persivale


Sono indistruttibili. Generalmente maschi, dai 35 anni in su senza una vera età massima,(il che fa parte del bello, e del brutto, della loro condizione) sono psicologicamente immuni al passare del tempo, al progressivo e inesorabile imbiancamento dei capelli (o della barba), alla calvizie incipiente, alla nascita di figli, alle vicissitudini della vita, e — in Italia — perfino alla preoccupante novità di un loro coetaneo (ma generalmente loro sono più vecchi di lui) che fa il presidente del Consiglio. Resistono a tutto perché nel loro petto batte un cuore adolescente, a dispetto di tutto, anche della logica, spesso del disprezzo delle loro compagne quando li vedono, adulti e magari padri di famiglia, giocare ai videogame combattendo on line, tra le invettive, contro un ragazzino scozzese di 11 anni che li sta massacrando a «Call of Duty: Ghosts». Per non parlare della tradizionale (dagli anni 80) partitella di calcetto con gli amici, impermeabile al trascorrere delle stagioni, all’espansione del giro vita e all’accorciamento del fiato (mentre il pallone sembra scappare via a velocità sempre maggiore — fugge irreparabilmente come il tempo).
Eppure il futuro, proprio per loro che non si staccano dalle abitudini del passato, è favorevole: quella del 2014, in meno di tre mesi, ha già dimostrato di poter diventare una grandissima annata per la figura sempre presente tra noi, l’adultescente. Il termine «kidult» coniato dagli americani per indicare l’eterno adolescente fuori tempo massimo, diventato adulto ma sempre ricalcitrante nel cammino verso la maturità, afflitto dalla cosiddetta «sindrome di Peter Pan».
Dalla cultura pop arrivano notizie confortanti per gli adultescenti di tutto il mondo: prima di tutto dal cinema. Ecco The Grand Budapest Hotel che a giudicare dalle prime recensioni americane sembra uno dei film più belli del regista Wes Anderson, sbarbato idolo (sarà 45enne a maggio) di chi insiste nel guardare il mondo con gli occhi da liceale (Anderson, indimenticato regista del film dedicato agli eterni bambini I Tenenbaum , è autore anche del recente Castello Cavalcanti , «corto» girato per Prada, quasi mezzo milione di «clic» da novembre a oggi).
E l’imminente uscita di Need for Speed , film-videogioco sulle corse in auto con Aaron Paul di Breaking Bad che cerca di colmare il lutto globale per la morte di Paul Walker, protagonista della saga miliardaria (e nelle sale, o a comprare i dvd, non ci sono solo ragazzini, anzi) di Fast and Furious . Alla cerimonia degli Oscar, Pharrell Williams, 41 anni a aprile, rapper e produttore che fa ballare il mondo, ha sfoggiato l’ormai tradizionale cappellone extralarge da ranger (è di Vivienne Westwood e dopo che l’ha indossato lui c’è una lista lunga un anno per averlo) e i bermuda con lo smoking. Rivendicando proprio nella notte della festa più esclusiva e mediatica del mondo, in diretta da Hollywood, il diritto a vestirsi da ragazzino fuori tempo massimo, in pantaloni corti, cappellone e sorriso beffardo.
In un’era inevitabilmente sempre più scettica e lontana dalle grandi aspirazioni, il tentativo ostinato di restare per sempre giovani almeno nello spirito se non nel fisico, con tutte le controindicazioni del caso, rende l’adultescente uno degli ultimi sognatori presenti nelle nostre società occidentali. Che diventeranno anche sempre più vecchie (all’anagrafe) e meno influenti, ma vedono almeno in questi ostinati — e stranamente idealisti — combattenti contro il passare degli anni, gli interpreti di una delle teorie scientifiche più interessanti di questo millennio. Quella del professore di Oxford Julian Barbour, che nel suo libro La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura (Einaudi) sostiene, semplicemente, che il tempo non esiste .

Corriere 15.3.14
Il Papa pop che piace a troppi
I rischi per la Chiesa quando il consenso viene dai non credenti
di Pierluigi Battista


Il sottotitolo di Questo Papa piace troppo , il libro, appena uscito presso le edizioni Piemme, di Giuliano Ferrara, Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, recita così: Un’appassionata lettura critica . Appunto, due volte appassionata. Nel senso che è scritta con passione. E poi perché è appassionante l’argomento del libro, il primo anno del pontificato di papa Francesco, trattato con rispetto ma anche, come nota Ferrara, con la «schiettezza d’animo» di tutti gli autori. Tre autori molto diversi tra loro. Giuliano Ferrara, che è «fuori della Chiesa» e che non ha fede ma considera «perduta un’umanità senza fede, fanatizzata e uniformata dall’incredulità come religione dei Lumi e del politicamente corretto». E la coppia Gnocchi e Palmaro, «fedeli cattolici» che amano la Chiesa romana, il papato, la dottrina, la «plenitudo potestatis del vicario di Cristo», le liturgie, i paramenti, il cristianesimo che sa vivere «in contraddizione con il mondo» e che non accetta l’idea di un contrasto irriducibile tra la misericordia e il rigore.
Proprio alla vigilia dell’uscita del libro, Palmaro ha lasciato questo mondo. Mancheranno la sua cultura e la sua verve polemica, che molti di noi hanno conosciuto forse troppo tardi. Ma Palmaro, combattente sottile e ironico, non avrebbe voluto elogi funebri, bensì discussioni aperte sulle tesi che insieme a Gnocchi ha voluto esporre prima sul «Foglio» e poi in questo libro pubblicato da Piemme. E dunque, due devoti alla tradizione cattolica che non amano, e anzi considerano pericolosa, la deriva «clericalpop» verso cui papa Francesco starebbe spingendo una Chiesa ridotta a «ospedale da campo». E un non credente innamorato del connubio tra Fede e Ragione promosso e teorizzato da papa Ratzinger (nel solco della lezione di Giovanni Paolo II) e che oggi è messo in allarme dal nuovo Pontefice che «piace troppo».
Piace troppo? E a chi? E perché l’«allarme»? Sulla parte squisitamente dottrinale e di storia ecclesiastica di questa discussione altri meglio di chi scrive, da Alberto Melloni a Vittorio Messori, potrebbero intervenire su queste colonne con competenza e puntualità. Però papa Francesco ha dato il via a una rivoluzione che peserà sull’assetto morale del mondo, non solo su quello dei cattolici e dei credenti, entrerà nella storia, ridisegnerà il ruolo della Chiesa nelle società secolarizzate. Ed è appunto questa la preoccupazione che accomuna Ferrara e due fedeli. Se il modo rivoluzionario di presentarsi del Papa non sia anche il prologo mediatico di una rivoluzione nella dottrina che scardini lo stesso modo d’essere della Chiesa cattolica. Oppure, come «qualche volta penso che l’avventura andrà a finire male, ma a mio modo spero», dice Ferrara. Che sembra più propenso a collegare le scelte del gesuita Bergoglio all’insegnamento di Ignazio, il fondatore della Compagnia di Gesù, di «rendersi amabili» per «”conquistare” gli eretici del nostro tempo, “perché ci amino e ci accolgano bene nel loro spirito”». O almeno, si augura fortemente che sia così: «una riconquista mimetica del secolo impiegando mezzi ad esso accettabili». Mentre Gnocchi e Palmaro vedono nello stile «pop» del nuovo Papa non solo l’antefatto di possibili rivoluzioni dottrinali ma anche la cifra di un’eccessiva vicinanza tra la Chiesa e il mondo, tra la sua sacralità e la dimensione profana del secolo. Che è quello che piace ai non cattolici, e sta facendo del nuovo Papa un’icona da consumare. Non piace a Gnocchi e Palmaro «l’abbattimento del gradino su cui stava la cattedra». L’eccesso di confidenza. La voglia di piacere e di infrangere le barriere di diffidenza che si sono erette al tempo del pontificato di Ratzinger. Non piace che sia «scoppiata la pace» per i gesti di un Papa che quando va ad Assisi si «mette al passo con i tempi». Il Papa che sorride, che entra sull’aereo che lo porta in Brasile con lo zainetto a spalla, che fa «imponente esibizione di povertà». Il Papa delle «danze a Copacabana». E le scarpe sformate, e l’appartamento a Santa Marta, e «buona sera». Scrive Ferrara che attraverso i gesti di papa Francesco, e giudizi che sembrerebbero un cedimento al relativismo etico criticato da Benedetto XVI, «i miscredenti d’antan hanno improvvisamente abbracciato una confortevole idea di fede del cuore e dell’intimo che li mette al riparo delle conseguenze della cultura cristiana». Li chiama «laicisti devoti», per prendersi una rivincita su chi lo aveva definito «ateo devoto». Ma il libro, pieno di dubbi, è una boccata d’ossigeno, denuncia un desiderio autentico di decifrare i segni di un papato che segnerà comunque un punto di svolta nella storia contemporanea.
E certo, l’immagine della Chiesa come «ospedale da campo» riflette l’angoscia di un Papa che ha visto il mondo secolarizzato voltare le spalle all’insegnamento cristiano, mettere sotto accusa le istituzioni ecclesiastiche e mostrare insofferenza per le rigidità dottrinali e morali di un cattolicesimo non disponibile a rinunciare a una propria forte identità. Un’immagine che Gnocchi e Palmaro decisamente non hanno apprezzato. E che Ferrara guarda con «allarme», sperando che Francesco «deluda il demi-monde che lo applaude, corteggia, blandisce in ogni modo». Intanto, questo libro per esprimere perplessità su un Papa che «ha licenziato la ragione e l’intelligenza del credere dal proscenio, rovesciando l’impostazione dei due immediati predecessori, maestri di Illuminismo cristiano». Un Papa che piace troppo, e che in queste pagine dispiace un po’.

Corriere 15.3.14
Enriques Agnoletti L’utopia incompiuta
di Arturo Colombo


Forse pochi lo ricordano, ma Enzo Enriques Agnoletti (1909-1986) è stato un intellettuale e un politico di spicco. Hanno fatto quindi bene Andrea Becherucci e Paolo Mencarelli a dedicare il primo numero del 2014 della rivista «Il Ponte» (di cui Enriques Agnoletti fu direttore lui stesso, dopo Calamandrei) a illustrare quella che definiscono la sua «utopia incompiuta del socialismo». Dopo aver subìto anni di carcere e confino sotto il fascismo, aveva dato vita al movimento liberalsocialista; poi era stato tra i fondatori del Partito d’Azione, per aderire più tardi al movimento di Unità popolare, sempre fedele all’impegno socialista. Era stato poi eletto nel 1983 senatore della Sinistra Indipendente ed era divenuto vicepresidente di Palazzo Madama. Tutti questi «momenti» — compresi i forti legami con Leo Valiani, i rapporti con Israele, la fedeltà all’obiettivo dell’unità europea — trovano ora preziosi riscontri nei saggi di vari autori, da Enzo Collotti a Roberto Colozza, da Arturo Marzano a Andrea Ricciardi, che ci restituiscono la figura e l’opera di un protagonista, schivo ma attivissimo, della seconda parte del Novecento.

Repubblica mobile 14.3.14
Perché i bambini ridono? E cosa li diverte di più? Una ricerca lo spiega


segnaazione di Raffaele Buonocore

- L'università di London Birkbeck sta svolgendo uno dei più vasti studi sull'argomento, al quale possono contribuire tutti grazie a un sito web. Esplodono in fragorose risate più i maschi che le femmine. E le occasioni sono quelle classiche: il bagnetto, lo specchio, il solletico, il cucù e i compagni di gioco

CHE SI TRATTI del giochino del "Cucù", del solletico sulla pancia o della classica pernacchia con linguaccia, i genitori hanno una formula infallibile per far ridere i loro bambini. Ma sappiamo perché i nostri figli ridono e cosa li diverte di più? A cercare una risposta sta pensando il dottor Caspar Addyman, un ricercatore del Centro per il Cervello e lo Sviluppo Cognitivo presso l'Università di London Birkbeck, soprannominato anche BabyLab. Il ricercatore sta coordinando uno dei più vasti studi proprio su ciò che fa ridere i neonati e perché.

La ricerca. Il dottor Addyman  -  un banchiere diventato poi psicologo e che non ha figli - si è talmente appassionato all'argomento che sta finanziando la ricerca in prima persona. Ha creato un questionario molto dettagliato per i genitori chiedendogli anche di inviare un breve rapporto e dei filmati che mostrassero cosa fa ridere i loro bambini. Finora 1.400 genitori da 25 paesi hanno risposto a svariate domande per sapere se c'è un'ora particolare della giornata in cui sono più propensi a ridere o quali giochi e rime trovano più divertenti. Chi volesse contribuire a raccogliere informazioni per questa ricerca, può farlo andando sul sito babylaughter.net.

L'età della prima risata. "Gli abbiamo chiesto anche se trovano più divertente il padre o la madre e qual è il temperamento del bambino. Stiamo lavorando anche ad un altro questionario per capire se c'è una correlazione tra le risate dei bambini ed un carattere più mite" ha raccontato il dottor Addyman al Daily Mail. "La grande sorpresa è stata che, contrariamente a quanto la maggior parte delle persone ritiene, la risata è presente già da un'età molto precoce". Il 90% dei bambini ha sorriso già nei primi due mesi di vita ed ha riso già poche settimane dopo, ma ci sono stati genitori che hanno raccontato che i loro figli hanno fatto una risata poche settimane dopo. Al contrario, un piccolo gruppo ha riportato che i loro figli non hanno mai riso nell'arco dei primi dodici mesi. "Questo suggerisce che ogni bambino ha una sua diversa inclinazione caratteriale che è presente sin dalla nascita" spiega l'esperto. 

Senso dell'umorismo e sesso. Dai risultati, emerge che le mamme ed i papà risultano più o meno divertenti allo stesso modo. Ma sono i maschietti ad avere un maggior senso dell'umorismo: i genitori hanno riportato che i loro figli maschi hanno riso quasi 50 volte al giorno contro le 37 volte delle figlie femmine. Il dottor Addyman non è affatto sorpreso di questi risultati. "La risata è prima di tutto un fenomeno sociale. Si ride in compagnia. Uno dei risultati emersi chiaramente da quest'indagine è che non è necessariamente ciò che facciamo, ma semplicemente il fatto che siamo insieme ai nostri bambini a contare. È questo il motivo per cui loro sono felici. "Un'altra cosa interessante è che la maggior parte dei genitori gioca istintivamente perché i neonati hanno la straordinaria abilità di farci fare cose stupide che poi alla fine fanno bene a tutti. Sono comportamenti che li fanno ridere, ma si tratta anche di un'esperienza che crea un legame profondo". Inoltre, c'è da considerare che, nel primo anno di vita, sorrisi e lacrime sono il solo modo che i neonati hanno per comunicare. "Il pianto segnala che c'è qualcosa che non va e che vogliono cambiare, mentre il sorriso e la risata sono l'opposto, è il loro modo per dirci di continuare a fare ciò che stiamo facendo perché gli piace".

Irresistibile solletico. I genitori di un bambino di nome Cosmo di appena tre settimane hanno inviato al BabyLab una serie di fotografie che mostrano chiaramente che sta ridendo mentre gli fanno il solletico sfatando così l'idea che i neonati così piccoli non ridono. "Il primo modo per far ridere i neonati è attraverso il tatto" spiega il dottor Addyman. "Il solletico ha profonde radici evoluzionistiche che derivano dal fatto di essere mammiferi. È parzialmente collegato al momento della toeletta, una funzione vitale che è anche piacevole".  E come gli adulti sanno bene, il solletico stimola diverse terminazioni nervose a cui in genere reagiamo con la risata. Meno sorprendente è che la risata sia legata al tocco dei genitori. Un professore una volta ha detto che il primo gioco che gli essere umani hanno fatto è proprio quello di fare il solletico ai loro bambini, poi aspettare e mimare semplicemente il gesto del solletico nello stesso punto in cui l'avevano appena fatto. "È vero: i bambini ridono già solo al gesto del solletico che sta per arrivare e continuano a ridere anche se poi non gli viene più fatto".

Risate allo specchio. Come molti bambini, Frederick, di quattro mesi, ride sempre quando si vede nello specchio, ma il motivo per cui accade non è quello che pensano i genitori. "La ricerca dimostra che i neonati non si riconoscono allo specchio fino ad almeno i 18 mesi" argomenta l'esperto. Allora che cosa li diverte così tanto? Il dottor Addyman crede che il rispecchiamento delle espressioni facciali rompa le classiche convenzioni sociali e i bambini lo trovano divertente. "La conversazione e l'interazione sociale implicano un'alternanza, una turnazione mentre la persona nello specchio rompe queste convenzioni facendo tutto allo stesso tempo". Di qui la reazione di ilarità.

Bagnetto ludico. Polly, una bambina di 11 mesi, ride tanto in bagno, confermando la teoria di Addyman secondo cui l'interazione dei genitori è un fattore chiave per la risata del neonato. "Molti genitori raccontano che i loro bambini trovano divertente il momento del bagnetto, ma sono convinto che sia così perché in quel momento i genitori dedicano la loro massima attenzione ai figli. Ma c'è anche il piacere sensoriale. L'acqua è calda e ricorda l'utero materno".  Uno dei questionari più simpatici è quello di una mamma che racconta che sua figlia ride di gusto quando lei è sotto la doccia dopo essere uscita dalla piscina. "La madre lo descrive come una risata di gioia pura per essere al mondo". 

Il gioco del Cucù. Nessuno si è sorpreso sapendo che fare Cucù è al primo posto nelle classifiche mondiali dei giochi che fanno ridere. Il dottor Addyman crede che funzioni perché è un gioco interattivo e che può evolversi man mano che i bambini crescono. "Un bambino molto piccolo non ha il concetto di tempo perciò ogni volta che qualcuno o qualcosa che era scomparso ritorna per lui è un piccolo shock. E poiché il fare cucù è il tipico saluto dei genitori che tornano a casa, per i bambini è un shock piacevole". Il cucù funziona per diversi anni perché quando crescono ed hanno 2-3 anni i bambini realizzano che anche loro possono farci scomparire e riapparire semplicemente coprendosi gli occhi con una mano.  Così nel suo piccolo, anche il cucù aiuta a capire quanto i figli crescono.

Compagni di gioco. Tutti i genitori riportano che le bambole e i peluche sono i giocattoli più divertenti per i loro figli. "I bambini capiscono abbastanza precocemente che i loro giocattoli non sono davvero vivi, ma riescono comunque ad avere un buon grado di empatia nei loro confronti" spiega il ricercatore. A volte la risata dei neonati è quasi trionfalistica, come se volessero dire "Sono io che ho fatto succedere questa cosa". E talvolta accade semplicemente perché sentono un suono piacevole o provano una nuova sensazione.