venerdì 24 dicembre 2010

l’Unità 24.12.10
Il leader Pd sulla conferenza stampa di Berlusconi: «Neinte di nuovo o di concreto per gli italiani»
«Se non li mettiamo tutti insieme, da Vendola a Casini, ci toccano altri dieci anni di questo qui...»
Bersani: «Come Kim il Sung solo un mare di chiacchiere»
Bersani: «Berlusconi come Kim il Sung». Inaccettabili «le picconate» alle istituzioni, dice il segretario Pd che rilancia un’alleanza costituente a tutte le opposizioni «per aprire un nuovo decennio».
di Maria Zegarelli


Silvio Berlusconi come «kim il Sung e Lukashenko»: sferzante il giudizio del segretario Pd Pier Luigi Bersani sulla conferenza stampa fiume di ieri. «Due ore e mezzo o tre di conferenza stampa. saltano i telegiornali. nella classifica siamo nell'ordine di grandezza dei Lukhashenko e di Kim il Sung», denuncia il segretario Pd durante la sua conferenza stampa nella sede del Nazareno riferendosi a Minzolini che ha fatto saltare il Tg per la diretta da Palazzo Chigi. «In nessun Paese al mondo può succedere una cosa così», quasi tre ore «di chiacchiere senza nulla dentro sulla situazione concreta degli italiani». Proprio come gli disse Indro Montanelli, anni fa: «Ricordati, mi disse, che quest'uomo non sa distinguere tra verità e menzogna».
L’ATTACCO ALLE ISTITUZIONI
Un premier su cui pende la pronuncia della Consulta sul legittimo impedimento e che in virtù di questo «piccona» le istituzioni. Attacchi «di una gravità di cui non so se si rende conto», dice il segretario che definisce «inaccettabile questo modo di picconare un presidio altissimo della democrazia». L’unico modo per uscirne è «un’alleanza costituente» insieme a tutte le forze di opposizione, dal terzo polo a Sel, per chiudere questo decennio e aprirne uno nuovo per fare le grandi riforme istituzionali e interventi, «seri» su lavoro e economia. «Se non ci fosse Berlusconi di mezzo aggiunge io penserei ad una fase costituente che guarderebbe anche oltre, tanto è grave la situazione. Il centrosinistra e le forze di centro devono chiedersi se vogliono costruire una Repubblica di tipo europeo funzionante oppure continuare con il berlusconismo». Attenzione, dice quindi a Casini, «una prospettiva di tipo elettorale che fosse calcolata dal terzo polo in chiave di un successivo condizionamento di Berlusconi è una totale illusione perché Berlusconi non tratta, compra». Ce n’è anche per Nichi Vendola: «Chi dice che non voglio le primarie imbroglia. La sequenza logica, che è scritta nel nostro Statuto, è: programma, coalizione e quindi una decisione comune sulle primarie». E la coalizione non può essere solo quella di «chi accetta le primarie. Se le intende così se le fa lui. Questo non è il nostro Statuto. L’alternativa a Berlusconi continua non è scimmiottarlo, ma fare un altro film». Messaggi agli interlocutori ma anche (sì, ma anche) a chi dal partito muove critiche alla sua linea. «Non vedo linee di divergenza tra me e Veltroni, questioni che peraltro poco importano agli italiani». Nessun allarme, poi, per il dibattito interno, «noi siamo un partito europeo e nei partiti europei si discute».
Ai possibili futuri alleati, invece, chiede un «atto di generosità, «mettendo in secondo piano le traiettorie di partito e quelle personali per aprire un nuovo decennio», perché «se non è questa emergenza non so cosa lo sia. È una situazione dura, grave e pericolosa». A chi gli chiede se non è preoccupato delle critiche arrivate dalla base per un’alleanza con Fini e Casini, risponde che «siamo pagati per indicare un percorso, parleremo ai nostri elettori e spiegheremo perché in questo momento» è necessario andare «oltre Berlusconi».
Ma anche gli italiani hanno un ruolo, dovrebbero per esempio, « svegliarsi dal sogno» in cui sono piombati grazie all’Ipnotizzatore di Palazzo Chigi, che in questi anni ha fatto promesse mai mantenute e piegato il Parlamento si suoi desiderata. «Da gennaio promette metteremo in calendario la cancellazione delle leggi finora votate a favore delle cricche e torneremo a fare leggi normali», in un Paese dove di normale è rimasto poco.
E se lo stesso presidente della Repubblica esorta a non portare di nuovo gli italiani alle urne, Bersani ripete che il Pd, nel caso di elezioni anticipate, «è pronto», ma di certo non sarà per opera dell’opposizione che si arriverà allo scioglimento anticipato delle Camere, «perché noi non togliamo le castagne dal fuoco a Berlusconi. Se si va a elezioni è perché sarà conclamato il suo fallimento».
«Invidia», quella che muove Bersani, secondo il sottosegretario Paolo Bonaiuti. «Incredibile», commenta Vendola che Bersani voglia andare con Fini, mentre Casini loda il lavoro del segretario, ribadisce che l’Udc è interlocutore inevitabile, ma invita il Pd «a chiarirsi le idee». Attenzione, non ascolti le sirene del Terzo Polo, esorta dall’Idv, «pronta alle primarie di coalizione, Luigi De Magistris.

Repubblica 24.12.10
Bersani: "Silvio come Kim il Sung patto costituente dell´opposizione"
Proposta a Sel e Terzo polo per "uscire dall´era Berlusconi"
Il segretario avverte l´Udc: se si illude di condizionare il premier si illude. E a Vendola: serve generosità, dopo le traiettorie personali
di Goffredo De Marchis


ROMA - Subito all´attacco, appena finita la conferenza stampa del premier. Pier Luigi Bersani, con Rosy Bindi e Enrico Letta, si presenta ai giornalisti nella sede del Pd. Primo affondo: «Berlusconi è un politicante che confonde verità e bugia come diceva Montanelli». Secondo round: «Ho ascoltato un mare di chiacchiere senza dentro nulla di concreto per i veri problemi degli italiani. Noi nuotiamo da dieci anni in questo mare e non c´è un solo dato che dimostri un miglioramento della situazione per il nostro Paese». Il segretario è rimasto incollato davanti alla televisione per due ore e tre quarti a seguire le risposte del Cavaliere. Ne ha tratto queste similitudini: «Conferenze di tale lunghezza sono al livello di Kim Il Sung o Lukashenko», i dittatori di Corea del Nord e Bielorussia. «Saltano perfino i telegiornali e io mi chiedo: ma in quale Paese europeo succedono cose simili?».
Bersani elenca i numeri che ci «hanno fatto precipitare in tutte le classifiche del mondo», racconta un decennio berlusconiano fatto di nessuna riforma, di nessun risultato. «So che queste statistiche non girano su Facebook, ma noi le conosciamo e abbiamo il dovere di tenerne conto». Il segretario del Pd non vede il rischio Grecia. «Ma che l´Italia sia esposta alla speculazione non c´è dubbio». La crisi e il disagio sociale non si possono nascondere solo «ipnotizzando gli italiani o con il sonnifero dell´informazione legata a Berlusconi. Dobbiamo reagire e trovare elementi di riscossa e risveglio per affrontare un´emergenza dura, grave e pericolosa».
Viene confermato il percorso già indicato nell´intervista a Repubblica. «Presenteremo una piattaforma con le nostre proposte per la riforma repubblicana e un´alleanza per la crescita e il lavoro», ripete Bersani. Questo progetto viene prima di tutto. Prima delle alleanze, delle primarie, del candidato premier. «È una proposta che sarà valida anche se andiamo da soli al voto. Ma la mettiamo a disposizione e non c´è niente di tattico in questa offerta».
Un patto costituente di tutte le opposizioni è la strada per fare davvero le riforme, aggiustare il Paese, rimetterlo in marcia. Una sorta di Grande coalizione. Senza Berlusconi. «E se non ci fosse lui andrebbe allargata anche al centrodestra». Tanto profondi sono i problemi. Oggi gli interlocutori sono il Terzo Polo, Casini in cima, Vendola, Di Pietro, ossia «un´unità delle forze di minoranza che ci porti nel nuovo millennio». Ma come si agganciano questi alleati? Per Vendola Bersani risponde così: «Chiedo a tutti generosità, la stessa che ci metto io. Lasciamo da parte le traiettorie personali e non ribaltiamo lo schema delle primarie. Non possiamo fare la coalizione solo a condizione che tutti le accettino». Per Casini c´è un monito: «Se l´Udc e il Terzo polo pensano di condizionare Berlusconi si illudono. Il premier non tratta, compra. E se vogliono sedersi al tavolo con Berlusconi, devono sapere che troveranno già tutto apparecchiato da lui». Insomma, chi non vuole partecipare «a un nuovo decennio berlusconiano» deve compiere altre scelte. Il Pd non inseguirà la via giudiziaria, assicura con malizia il suo segretario: «Fra l´altro dopo i 75 anni non si va nemmeno in galera». Antonio Di Pietro contesta proprio il premier sulla giustizia: «Di eversivo c´è solo il modo in cui lui governa».

Repubblica 24.12.10
Atlante Politico
Cala la fiducia per il governo colpo all´appeal di Fini base Pd fredda sul Terzo polo
Sondaggio: per due su tre la legislatura durerà
Pdl e Lega sopra il 40%. Centrosinistra con "perimetro unionista" al 42%. Cresce ancora Sel
In lieve risalita l’apprezzamento per Berlusconi. Montezemolo al top tra i leader
di Roberto Burgio, Fabio Bordignon


E´ un quadro fluido, quello illustrato dai risultati dell´Atlante Politico, dove l´incertezza sul proseguimento della legislatura si mescola alla sfiducia, e le schermaglie sulle future alleanze rendono complicato, ad oggi, ricostruire i possibili scenari elettorali. La nascita di un blocco di centro rende la competizione più aperta per il centro-sinistra e il Pd. Mentre l´ipotesi di una alleanza (esclusiva) con le formazioni centriste presenta molte insidie per il partito di Bersani.
Il superamento della mozione di sfiducia sembra aver dato una boccata di ossigeno al governo Berlusconi, che per i due terzi degli elettori - erano la metà poche settimane fa - potrebbe arrivare alla fine della legislatura. Si riduce però di circa tre punti rispetto a un mese fa l´apprezzamento per l´esecutivo (27%) e tende a diminuire, in generale, la fiducia per i leader politici, in una graduatoria che vede ai primi posti Tremonti (43%) e Vendola (42%). E´ forte soprattutto la flessione di fiducia per Fini (29%): rispetto all´inizio dell´anno i suoi consensi si sono dimezzati. Fanno eccezione Berlusconi (in lieve risalita, al 35%) e Montezemolo (53%), percepito come estraneo al ceto politico.
Questi mutamenti del clima d´opinione si riverberano anche sulle intenzioni di voto. Il Pdl (28.6%) recupera due punti e, assieme alla Lega (11.6%) e ai partiti minori di destra, riporta il centrodestra sopra il 40%. In modo speculare, si contraggono sensibilmente i consensi di Fli (dall´8,1 al 5.3%) e dell´area "terzista" (12.9%, con l´Udc al 6.9%). Il centro-sinistra, ricostruito in base al perimetro "unionista", rimane comunque al 42%, con il Pd stabile intorno al 25% e Sinistra ecologia e libertà in crescita (dal 6.6 al 7.8%).
La scelta fra diverse ipotesi di coalizione mette in luce risultati molto interessanti. In un possibile confronto a tre - fra il centro-destra, il centro-sinistra e il "terzo polo" - le scelte degli elettori fra le coalizioni rispecchiano sostanzialmente gli equilibri fra i tre blocchi che emergono dalla somma dei voti per i partiti che le compongono. Si registra solo un limitato aumento delle opzioni per la coalizione di centro. Se si realizzasse invece un confronto fra due coalizioni, un´alleanza che spazi da Fini e Casini fino a Vendola risulterebbe largamente vincente nel confronto con l´attuale maggioranza (58%).
Molto più problematiche sono, invece, le ipotesi che prevedono l´apparentamento di una parte del centrosinistra con il centro. Tale alleanza, ampiamente sgradita agli elettori del Pd e delle formazioni che ne sarebbero escluse, potrebbe determinare significative emorragie verso sinistra e la vittoria della coalizione di centrodestra. L´elettorato di centro si presenta a sua volta diviso. Se la componente più ampia continua a spingere per la costituzione del "grande centro" (autonomo dai due poli), gli elettori di Fli e dell´Udc sembrano imboccare strade divergenti. I primi hanno rafforzato la propria adesione alla formula "terzista", gli elettori di Casini tornano invece a guardare con crescente interesse verso destra.

Repubblica 24.12.10
Atlante politico
Grandi manovre nella terra di mezzo
di Ilvo Diamanti


La fiducia ottenuta alla Camera dal governo, la settimana scorsa, ha prodotto effetti significativi negli orientamenti politici degli italiani. Ben visibili nel sondaggio di Demos pubblicato oggi su Repubblica. Anche se non si tratta di una svolta. Semmai: una "svoltina". Non ha rovesciato il clima d´opinione. Ha, però, migliorato l´immagine del Premier. Oggi, infatti, poco più di un terzo degli elettori giudica positivamente l´operato di Silvio Berlusconi.
Cioè: gli attribuisce un voto superiore o uguale a 6. Ciò significa, dunque, che i due terzi lo giudicano insufficiente. Tuttavia, rispetto a un mese fa, la fiducia nel presidente del Consiglio risale di qualche punto (2,6, per la precisione). Poco. Ma è da un anno che calava senza sosta. Parallelamente, la valutazione su Gianfranco Fini crolla. I giudizi positivi nei suoi confronti (29%) si dimezzano rispetto alla primavera scorsa. E calano di circa nove punti nell´ultimo mese. È come si fosse svolto un duello personale oltre che politico. Anche se non c´è differenza, in questa fase, fra "personale" e "politico". Fini ha perso e ne paga le conseguenze. Insieme al suo partito. Fli, infatti, perde quasi tre punti, nelle stime di voto, attestandosi poco sopra il 5%. A vantaggio del Pdl, che ritorna sopra il 28%. A conferma del comune bacino elettorale di riferimento. Le altre forze politiche di Centro, per prima l´Udc, però, non sembrano avvantaggiarsene. Ora il confronto - o meglio: lo scontro - politico si è spostato sui "confini" tra le aree e gli schieramenti. Oltre il tradizionale bipolarismo Destra-Sinistra. Fini e Fli, insieme a Casini e Rutelli, hanno dato vita al Terzo Polo. Una terra di mezzo contesa, dall´identità ancora incerta, anche perché l´incertezza resta elevata. Come il senso di delusione, che si respira nell´aria. Nonostante la - limitata - ripresa di consenso registrata da Berlusconi, la fiducia verso il governo cala ancora. Ormai è sotto il 30%. Neppure ai tempi dell´ultimo governo Prodi era finita così in basso. Il problema è che il disincanto civico è largo, generalizzato. Ne è coinvolta - travolta - l´intera classe politica. Infatti, peggiora il giudizio verso tutti i leader. Compresi Tremonti e Vendola, che (con poco più del 40% di voti "almeno sufficienti") restano, comunque, gli uomini politici più apprezzati dagli elettori. È come se il sistema politico fosse in stand-by. I partiti e i leader, insieme agli elettori. Nel centrosinistra: il Pd resta ancorato al 25% dei voti. Sel di Vendola - prossima all´8% - ne erode la leadership, oltre che la base elettorale.
Tuttavia, nonostante abbia superato indenne il voto di sfiducia, nonostante il suo avversario (nemico?) personale, Gianfranco Fini, sia in seria difficoltà, nonostante i partiti di centro non crescano e quelli di centrosinistra, nell´insieme, nemmeno: Silvio Berlusconi non ha cambiato strategia. Non vuole le elezioni e, dunque, non vuole neppure aprire una crisi di governo, dagli esiti imprevedibili. Lo ha ribadito chiaramente nella conferenza stampa di fine anno. Anche la maggioranza degli elettori ritiene questa ipotesi improbabile. Un altro segno del mutato clima d´opinione. Tuttavia, se si andasse a nuove elezioni, l´attuale coalizione di centrodestra potrebbe incontrare qualche problema. Come suggeriscono i diversi scenari testati da Demos, nell´Atlante Politico.
a) Se il Terzo Polo si presentasse da solo, la competizione tra centrosinistra "formato Unione" e il centrodestra appare molto incerta ed equilibrata.
b) In caso di accordo tra il centrosinistra e il Terzo Polo (di centro) e, quindi, in una elezione bipolare, il centrodestra uscirebbe largamente sconfitto.
c) Al contrario, ogni accordo esclusivo tra il Pd e il Terzo Polo di centro, secondo questa simulazione, sembrerebbe avvantaggiare nettamente il centrodestra, indebolendo il Pd, a tutto vantaggio di Sel (e, di conseguenza, del centrodestra).
Per questa ragione, la prospettiva di elezioni anticipate preoccupa molti. Nel governo ma anche nell´opposizione. Silvio Berlusconi non ha interesse e né intenzione di andare al voto senza un accordo con il centro. In particolare, con l´Udc. E cercherà di realizzarlo al più presto, nel corso della legislatura. Per evitare la ricerca estenuante di una maggioranza alla Camera, negoziando il voto di uomini "responsabili", un giorno dopo l´altro. Per non presentarsi alle prossime elezioni, in qualsiasi data avvengano, in condizioni così precarie. Queste osservazioni, peraltro, spiegano l´atteggiamento - esattamente opposto - della Lega. Per la quale le difficoltà di Berlusconi - e del Pdl - costituiscono un vantaggio. Doppio. Perché più debole è Berlusconi, più forte è la Lega. E più incerta è la situazione politica, più si consolida la forza impolitica e antipolitica della Lega. Che, invece, soffre e subisce la contiguità dei neodemocristiani. Antagonisti (perché radicati nel Sud) e, al tempo stesso, concorrenti (per l´antico rapporto con i luoghi e gli elettori della Dc del Nord, ora conquistati dalla Lega). In grado, comunque, di spostare gli equilibri interni al centrodestra in Parlamento.
Tutto ciò prolunga lo stato di stand-by in cui versa il sistema politico. E accentua la condizione di precarietà che permea il Paese e la società. Dove la fiducia è, ormai, un optional - peraltro poco richiesto. Dove tutto stagna, in attesa che succeda qualcosa. Di nuovo e diverso. Anche per questo Luca Cordero di Montezemolo, tra le figure pubbliche valutate dagli elettori, è quella che ottiene il punteggio più elevato. Con il 53% di giudizi positivi, supera di 10 punti ogni altro. Per una ragione, sopra le altre. È considerato fuori dalla mischia. Una novità. Anche se da anni viene tirato in ballo come possibile leader politico e di governo. E lui, personalmente, non ha mai negato questa ipotesi. Il problema è che questo è un Paese dove a nessuno è concesso, a lungo, il privilegio di stare sopra le parti. E dove i nuovi invecchiano presto.

il Riformista 24.12.10
Paolo Flores d’Arcais: «Di Pietro porta l’Idv al suicidio»
intervista di Alessandro Calvi

qui
http://www.scribd.com/doc/45861981

l’Unità 24.12.10
Ora la «lunga marcia»
La protesta degli studenti dopo l’incontro con Napolitano ha imboccato la difficile strada del cammino dentro le istituzioni?
di Luigi Manconi


«Imparo dalle rose il movimento del dare dagli insetti come difendersi e percepire dagli uccelli come si possa estrarre succo dalle foglie così parlo a te che non so chi sei» Fiorella Mannoia, Il movimento del dare (Franco Battiato)

Nessuno può dirlo con certezza, ma è altamente probabile che, tra il 1967 e il 1969, non si sarebbe trovata una delegazione di studenti disposta a recarsi a un incontro con l’allora Capo dello Stato. Non si ceda alla facile ironia sulla distanza incolmabile tra il presidente dell’epoca, Giuseppe Saragat, e quello attuale, Giorgio Napolitano: è un elemento importante, ma a inibire anche solo l’eventualità di un simile incontro, 40 anni fa, era altro. Ovvero l’irriducibile dimensione anti-istituzionale di quel movimento. Qui emerge una prima differenza. I movimenti della fine degli anni ‘60 hanno scambiato spesso il proprio bisogno di radicalità nell’analisi e nel programma con l’estremismo gestuale e vocale della retorica rivoluzionaria. È una tentazione sempre ricorrente: ed è possibile che, oggi, anche l’incontro col presidente Napolitano non sia piaciuto a una parte significativa del movimento attuale; e tanto meno piacerà quando, com’è ovvio, Napolitano non accetterà l’invito a «non firmare» la legge Gelmini. Eppure, l’importanza di quell’incontro al Quirinale non può essere sottovalutata: la più alta carica dello Stato ha voluto «ascoltare» chi, giustamente, lamentava di non essere stato ascoltato per mesi e anni. Se il movimento capirà la portata
di questa vittoria – che è simbolica e pratica insieme – intenderà meglio quale possa essere un equilibrato rapporto tra radicalità (nell’analisi e nel programma) e capacità riformatrice. Alla fine degli anni ’60, quel nesso non fu adeguatamente compreso dal movimento studentesco italiano, mentre veniva intuito e praticato da quello tedesco. L’idea di «lunga marcia attraverso le istituzioni», elaborata dall’Sds di Rudi Dutschke, alludeva a quella prospettiva: e sin dalla formula linguistica (dove la «lunga marcia» di derivazione maoista si applicava al sistema delle istituzioni democratiche) intendeva coniugare l’aspirazione rivoluzionaria e la concreta pratica della trasformazione possibile, qui e ora. Già la categoria di «lunga marcia» negava il concetto di rivoluzione come putsch e colpo di Stato e prevedeva tempi lunghi. Questo portò il movimento studentesco tedesco ad adottare una sorta di riformismo radicale, fatto di realismo e pragmatismo e tutto giocato sulla capacità di aggirare il potere, di evitare lo scontro frontale, di ampliare l’area della mobilitazione, il numero degli interlocutori, i progetti di trasformazione da perseguire. Questo ha fatto sì che dal ’70 in avanti in Germania si sviluppasse una estesa rete di iniziative e movimenti «alternativi»: non concentrati sul potere centrale e i suoi apparati, bensì diffusi lungo l’infinita articolazione del sistema delle istituzioni e delle agenzie di socializzazione; e qui si producevano culture ed esperienze critiche, radicalmente diverse da quelle dominanti.
Se trasferissimo tutto ciò all’oggi e lo traducessimo in una cartografia di repertori di azione, modalità di comportamento e forme di lotta, percorsi e obiettivi, si avrebbe la rappresentazione puntuale delle manifestazioni dell’altro ieri a Roma. Ovvero: ritenere la miserevole piazza d’armi della zona rossa come una posta in gioco non degna di interesse; lo «spiazzamento» come tecnica di strada e, insieme, come strategia di evasione dal braccio di ferro dello scontro fisico; il metodo dell’abbraccio che «contiene» e controlla l’avversario irruente, ma anche il figlio aggressivo e che impaccia, con i fiori, i corpi in tuta antisommossa dei poliziotti; la periferia in luogo del centro e la Cgil e l’Atac in luogo del blindato della guardia di finanza. Ora arriva il bello, che è poi il brutto: cioè il più difficile. Tutti i movimenti collettivi dipendono in misura rilevante dall’obiettivo perseguito. Nel caso di questo movimento, il bersaglio (la sconfitta della legge Gelmini) è stato mancato. Potrebbe derivarne frustrazione e smobilitazione. Ma qui potrebbe soccorrere proprio quella capacità di spiazzamento di cui si è detto. Dopo tutto, che quella riforma passasse era abbastanza prevedibile e, comunque, quella stessa riforma – in una stagione di vacche magre e risorse scarse – è destinata a creare più acuti squilibri, esaltando quella natura classista dell’università emersa nitidamente negli ultimi decenni. Diventa preziosa, pertanto, la capacità di «marciare dentro le istituzioni» e di praticare la gramsciana guerra di posizione per conquistare le «casematte». Ci vuole pazienza, infinita pazienza, e una altrettanto tenace ironia.

il Fatto 24.12.10
L’opposizione quella vera
di Paolo Flores d’Arcais


Il regime progetta il fascismo per via legale. Questo annunciano la repressione preventiva di Gasparri e le minacce “stile mafia” di Berlusconi a magistrati e Corte costituzionale. Per impedirlo, le cosiddette opposizioni progettano una definitiva sconfitta: questo annunciano il capo chino del Terzo polo, le dispute da capponi della nomenklatura Pd, le reazioni dei vertici Idv all’esplodere della questione morale. Con queste “opposizioni”, il percorso verso il fascismo legale del Putin di Arcore è in carrozza.
Per fortuna che un’altra opposizione c’è. Vera. Sempre più forte, per radicamento e ampiezza. L’altroieri è scesa in piazza con un’intelligenza che ha stupito anche i più inossidabili corifei di regime. Manifestando nelle periferie popolari, dove vivono i cittadini veri – non i simulacri di plastica e paillettes dei minzolini e altri bruno-vespa – gli studenti hanno realizzato la mossa del cavallo, quella che negli scacchi spiazza l’avversario e rovescia una partita. Sono sfilati tra gli applausi degli automobilisti, imbottigliati per la manifestazione ma solidali anziché “imbufaliti”. Aprivano il corteo con uno striscione che chiedeva lo sciopero generale, la stessa richiesta avanzata dalla Fiom di Landini nella gigantesca manifestazione del 16 ottobre.
Non a caso. È con quella manifestazione che comincia a realizzarsi la nuova opposizione civile. La novità è questa: lotte sociali, perché radicate in una condizione ben identificabile (gli operai contro il tentativo di Marchionne di far regredire verticalmente le condizioni di lavoro, gli studenti contro una “riforma” dell’università che azzera il diritto allo studio), ma capaci di farsi catalizzatori per rivendicazioni più ampie, di diritti per tutti. Dunque, movimenti civili che nella radicalità della lotta costruiscono alleanze programmatiche sempre più larghe. Quello che dovrebbero fare i partiti di opposizione, autoridottisi invece a larve.
Solo la lotta di questi movimenti può liberarci dal regime. Purché capaci di sinergia, e di non sfuggire il problema che ha fin qui regalato alla casta di “opposizione” la rendita monopolistica sul terreno elettorale. Ovvio il pericolo che una partecipazione elettorale omologhi i movimenti e li trasformi in trampolino per nuove nomenklature. Ma senza una proiezione politica che renda la società civile protagonista anche nelle urne, la cosa pubblica continuerà a restare per i partiti “cosa loro”, e le lotte una grande esperienza esistenziale, ma in un’Italia di macerie.

l’Unità 24.12.10
Risposte preventive alla rabbia
di Carlo Lucarelli


Molti di quelli che hanno parlato contro le manifestazioni di violenza del 14 dicembre sono stati accusati di prendere le distanze con una certa superficialità, del solito “pacifismo a buon mercato” e di non essere in grado di comprendere un movimento nuovo come quello degli studenti se non facendo riferimento alle vecchie categorie degli anni di piombo. È successo anche a me. È per questo che vorrei precisare un paio di cose. La prima è che prendere le distanze, anche condannare la violenza come mi sento di fare con decisione assoluta in tutti i casi, non significa non riconoscere le ragioni e soprattutto l’importanza e l’urgenza del percorso che l’ha generata. La rabbia di un numero enorme di ragazzi che non protestano solo contro la riforma Gelmini ma contro uno stato di cose che sta ipotecando tutto il loro futuro – e mica solo il loro esiste e se esplode in quella forma è perché nessuno gli ha ancora dato una risposta. Neppure l’ha degnata di attenzione. La seconda.
È vero, le vecchie categorie che vengono rievocate in questi giorni non hanno niente a che fare con il movimento che sta manifestando il suo dissenso. Parlare di arresti tipo 7 aprile 1979 o di Br è criminale, oltre che assurdo. I ragazzi di oggi, le ragioni di oggi, la rabbia di oggi sono altre cose. Quelle che restano le stesse, invece, sono le trappole, i meccanismi che un certo potere mette in atto per “sputtanare” tutto. I giochetti da strategia della tensione che sono una costante italiana. L’importante è non cascarci. Ne aggiungo una terza. Tutta questa rabbia non appartiene soltanto ai ragazzi e agli studenti. Di gente arrabbiata fino all’esplosione ce n’è tanta, e di tutte le età. Contro questa rabbia gli “arresti preventivi” non servono. Ci vogliono “risposte prenventive” ai problemi che l’hanno provocata.

il Fatto 24.12.10
Dopo il voto
Gli universitari: “Non resteremo zitti”
di Giampiero Calapà


La “riforma” Gelmini è stata approvata ieri dal Senato, ma la polemica è destinata a trascinarsi ancora perché il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è intenzionato a parlare degli studenti – della loro mobilitazione e delle loro aspettative – nel tradizionale discorso di fine anno. Dopo aver incontrato, due giorni fa, la delegazione dei rappresentanti del Movimento, questa mossa sarà vista da destra come un braccio di ferro prolungato; perché Napolitano non ha mai nascosto l’irritazione per i tagli indiscriminati a cui si è aggiunta quella per il dialogo negato dal ministro agli studenti, a cui il presidente stesso ha cercato di sopperire ricevendoli al Quirinale in via del tutto straordinaria. “Adesso abbiamo un interlocutore”, spiegano dall’Unione degli universitari. Ieri al Senato, intanto, la maggioranza ha sancito la vittoria del ministro Mariastella Gelmini con i 161 sì di Pdl, Lega e futuristi di Gianfranco Fini che, nonostante le visite sui tetti di Fabio Granata, hanno ricompattato la maggioranza in onor del “merito” che la riforma promuoverebbe, a loro dire.
UNA SCONFITTA per il Movimento che ha riempito le piazze? Che ha dovuto registrare anche le tensioni con le forze dell’ordine (di nuovo due giorni fa a Palermo e Milano) e le violenze per le strade di Roma il 14 dicembre scorso? “Sicuramente non siamo riusciti a bloccare l’approvazione della legge – ammette Alessio Branciamore dell’Unione degli universitari, nella foto a destra – ma qualcosa abbiamo seminato e sicuramente nei prossimi mesi raccoglieremo. Se nel Palazzo si aspettano che non metteremo più il naso fuori di casa si sbagliano, il Movimento continuerà a lottare per il futuro, sui temi del precariato e dell’università, in piazza e negli atenei”. Gli fa eco Claudio Riccio del coordinamento universitario Link: “Il piano della mobilitazione, ora, si sposta dal Parlamento verso il governo, con l’attesa dei decreti attuativi, e verso gli atenei, con l’adeguamento degli statuti universitari alla nuova legge: chiediamo fin da subito a tutti i rettori di disobbedire, e su questo daremo battaglia”. Inoltre, Link starebbe pensando ad altre vie per bloccare la legge, dalla Corte costituzionale al referendum (idea appoggiata dai Verdi di Angelo Bonelli): “Valuteremo come movimento che strada prendere. Quello che è certo è che non ci fermeremo qui, dopo che siamo riusciti a raccogliere il consenso di tutto il Paese intorno alla nostra battaglia”, spiega Riccio.
Intanto da destra, appena approvata la riforma, è partita la rincorsa per “tirare la giacchetta” del capo dello Stato; infatti nel giro di poco Maurizio Gasparri ha seguito il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, nel chiedere che “Napolitano incontri anche gli studenti che hanno appoggiato l’approvazione, quelli democraticamente eletti”. Il riferimento è al presidente del Cnsu (il Consiglio nazionale degli studenti universitari) Mattia Sogaro, eletto lo scorso maggio da una maggioranza composta dalle liste ultra-cattoliche di Comunione e liberazione e dai giovani del Pdl. Sogaro ha scritto al presidente Napolitano, rivendicando il suo ruolo istituzionale. Napolitano ha ringraziato Sogaro, dicendosi pronto ad incontrarlo, ribadendo anche: “Ascolto, ma non esprimo opinioni su scelte legislative di governo e Parlamento” . Dall’Udu, Alessio Branciamore risponde: “Sogaro si è svegliato tardi, dovrebbe piuttosto spiegare perché il ministro Gel-mini non lo ha consultato, perché non ha consultato il Cnsu, come prevede la legge, prima dell’inizio dell’iter parlamentare che ha portato all’approvazione di questo obbrobrio”.

il Fatto 24.12.10
Le omissioni di Quagliariello
di Massimiliano Vaira, Università di Pavia


Bisogna dare atto al professore-senatore Quagliariello (e ringraziare Il Fatto per aver promosso l’iniziativa) di aver fatto ciò che il ministro Gelmini non ha fatto per due anni: confrontarsi con gli studenti e i ricercatori. Per il resto, però, non è andato oltre una serie di luoghi comuni e slogan governativi sull’università. Insomma come accademico, ha dimostrato ciò che vent’anni fa diceva Sabino Cassese: “Molti professori non scriverebbero una riga nelle loro discipline senza aver fatto mille ricerche di archivio, ma, per il solo fatto di essere all’università, ritengono di esprimersi da esperti sull’università stessa”. Questo limite si aggrava combinandosi con la retorica e le parole d’ordine politiche che poco hanno a che fare con un discorso serio e fondato sull’università. Insomma, il professore-senatore non sa o non dice una serie di cose che dovrebbe invece sapere e dire.
Uno degli argomenti principali cavalcati tanto dalla Gelmini quanto da Quagliariello è quello secondo cui l’università italiana versa in un pessimo stato e ciò è certificato dai ranking internazionali : nessuna università italiana è tra le prime 200. Questo basta e avanza per giustificare la riforma “epocale”. Tutto chiaro allora? Per niente, siamo in piena mistificazione. Nel 2008 il Times Higher Education Supplement, accanto ai ranking per singola istituzione, ha fatto anche quelli dei sistemi di istruzione superiore. Sorpresa! L’Italia si piazza all’ottavo posto nel mondo e primo in Europa per la probabilità che uno studente ha di ricevere una buona istruzione e al dodicesimo posto nel mondo in termini di qualità complessiva del sistema. Il professore ignora, o vuol ignorare, questo dato proveniente da una delle fonti che cita per screditare l’università. Ma mica finisce qui. Il nostro accademico-senatore non sa, o non vuol sapere, che è appena uscito un rapporto UNESCO, secondo cui il sistema americano, per quanto riguarda la didattica, è uno dei peggiori al mondo, sebbene le sue istituzioni di vertice egemonizzino i ranking internazionali. Perché? Perché ha ottimi e ben finanziati centri di ricerca, ma per il resto e nel complesso non è che se la sfanghi bene. C’è un’altra mistificazione presente nel Quagliariello-pensiero e nel non-pensiero gelminiano: la ricerca italiana se non è pessima poco ci manca, gli accademici italiani passano il tempo a scrivere di cose eccentriche e irrilevanti, si produce poco e con scarsissima rilevanza internazionale. Una recente ricerca del CNRS francese ci dice tutt’altro. La ricerca italiana si piazza all’ottavo posto nel mondo e al quarto in Europa per numero di pubblicazioni; è al settimo posto nel mondo per numero di citazioni; le eccellenze sono nei campi della medicina, matematica, fisica, biologia molecolare e genetica, scienze spaziali, neuroscienze e scienze del comportamento; i giovani ricercatori italiani si piazzano al secondo posto in termini di successo nell’ottenimento dei finanziamenti del Consiglio Europeo della Ricerca; delle 45.000 pubblicazioni prodotte nel 2007 il 40% sono frutto di collaborazioni internazionali. Va sottolineato che i Paesi che ci precedono sono quelli in cui il finanziamento dell’università e della ricerca è nettamente più alto del nostro. E a proposito di finanziamento, il professore-senatore non dice che l’Italia si trova al trentaseiesimo posto dei paesi OCSE relativamente alla spesa per l’istruzione universitaria sul PIL, al ventiseiesimo posto per quanto riguarda il rapporto docenti-studenti e tra gli ultimi relativamente al numero di studenti che beneficiano di sussidi e borse di studio. Infine, ma ci sarebbe ancora molto altro da dire, il professore-senatore dice che “L’Inghilterra era uscita da qualsiasi classifica di merito e grazie a quei tagli [epoca Thatcher, nda] ha ripreso a scalare le classifiche mondiali”. A parte il fatto che le “classifiche di merito” esistono dal 2003 e che al tempo dei tagli non ve ne era traccia, quello che il professore non sa è che negli anni ’90 la politica universitaria britannica si accorge del disastro prodotto da quei tagli in termini di qualità della didattica e della ricerca. A partire dalla metà degli anni ’90 il sistema viene fortemente finanziato e questa politica è continuata fino a quest’anno (governo Cameron). Giusto per dare l’idea, tra il 2000 e il 2007 la spesa pubblica in istruzione superiore britannica è cresciuta del 50% contro il nostro 12% dello stesso periodo (dati OCSE). Se la Gran Bretagna oggi è in alto nelle classifiche è perché il suo sistema è stato ben finanziato, non de-finanziato. E lo stesso si deve dire della Germania e la Francia che hanno immesso miliardi extra per finanziare le rispettive politiche per l’eccellenza dell’istruzione superiore.

il Fatto 24.12.10
Tagli all’editoria
Ultimo assalto ma a decidere è B.
In dubbio l’entità dei fondi dirottati dal Milleproroghe al 5 x mille
di Chiara Paolin


I tagli all’editoria sono un vero mistero, per ora”. Franco Siddi, presidente della Federazione Nazionale della Stampa (Fnsi), ieri ha seguito con particolare attenzione la conferenza di fine anno a Palazzo Chigi, iniziata con una dichiarazione di Silvio Berlusconi assai vaga ma interessante. Rispondendo a una domanda di Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei Giornalisti, il premier ha detto: “Il presidente Iacopino potrà venire con i suoi collaboratori a Palazzo Chigi per parlare con il sottosegretario con delega all’Editoria, Paolo Bonaiuti, e affrontare i problemi legati all’editoria. Mi sono stati sottoposti i riflessi dei tagli sulle piccole testate e sull’occupazione, nonché sulle casse dell’istituto di previdenza; Bonaiuti terrà i contatti con voi subito dopo Natale per esaminare la legge e impegnarci in soluzioni nella direzione che anche voi indicherete”.
UN’APERTURA di prospettiva che ha subito messo su una strada diversa la questione tagli rispetto a come si era presentata martedì, a decreto appena approvato. Secondo le indicazioni emerse, con il Milleproroghe si vorrebbero dirottare a favore del 5 per mille i 95 milioni appena stanziati dalla legge di stabilità per il mondo dell’informazione: 45 milioni a favore di radio e tv locali (ora eliminati in toto), più altri 50 milioni prelevati dal fondo per l’editoria (i famosi 100 milioni che si ritroverebbero così dimezzati). “Il condizionale è d’obbligo – sottolinea Siddi –, perché l’impressione è che su tutta la materia esistano ampi margini di manovra. Ho avuto modo di scambiare qualche parola con lo stesso Bonaiuti, e direi che occorre attendere le prossime ore per capire davvero ciò che accadrà”.
Il problema è che, salvo fughe di notizie e gossip incontrollabili, il testo materiale del provvedimento non è ancora noto.
“Una situazione folle” commenta Roberto Monteforte, rappresentante di redazione all’Unità, una delle testate che soffrirebbero forti ripercussioni in caso di tagli. Un po’ di chiarezza in più sulle reali intenzioni del governo gioverebbe: “A noi e pure ai lettori – conferma Monteforte – negli ultimi mesi ne abbiamo sentite di tutti colori, fondi prima stanziati, poi decurtati, infine ridistribuiti ma con logiche diverse da quelle del provvedimento che li aveva generati. Un problema enorme di stabilità: con il taglio di cui si parla in questi giorni è in ballo il lavoro di quattromila persone, 92 testate, ma come si fa a lavorare così, caro imprenditore Berlusconi? Oltretutto metterci in competizione con le onlus è stata un’operazione di basso profilo, una vera guerra tra poveri”.
Al ministero dell’Economia si sta lavorando per cercare una soluzione a quella che, confessa qualche insider, sembra essere stata un’uscita a sorpresa per gli stessi tecnici: pur di trovare i soldi per il 5 per mille si è andati a toccare quel che in realtà non si voleva intaccare.
ORA, PER RIPARARE, l’idea sarebbe di alleggerire il taglio al fondo per l’editoria (da 50 a 30 milioni) ma soprattutto di imputare la diminutio a un capitolo di spesa che cada più sulle spalle delle grandi testate anziché sulle piccole. Agendo per esempio sul credito d’imposta per la carta, l’aiuto concesso a tutte le testate – che ne facciano richiesta, cioè praticamente tutte tranne il Fatto – e che si lega quindi ai volumi di tiratura. Proprio in questo senso può essere riletta la dichiarazione resa a caldo dal presidente della Fieg, la federazione degli editori, Carlo Malinconico: “Se le risorse fossero reperite con l’eliminazione del credito d'imposta sulla carta previsto dalla legge di stabilità appena pubblicata nella Gazzetta ufficiale, il danno sarebbe ancora più grave di quello paventato con la riduzione dei contributi diretti. Il danno infatti ricadrebbe su tutte le imprese editrici, di giornali di opinione e non, di giornali di partito e non, di periodici, di libri e così via. E sarebbe un danno gravissimo”. “Diciamo che la logica generale è quella del risparmio nel rispetto della pluralità spiega Giancarlo Mazzuca, responsabile Pdl per la comunicazione – senza girarci attorno: soldi a partiti e partitini per farsi il giornale in proprio non ce ne sono più. Dobbiamo mantenere gli aiuti per chi si occupa di informazione, non di propaganda politica”. In realtà il taglio ai contributi indiretti rappresenta una soluzione politicamente abile: mette nei guai tutti ma – da sola – non uccide nessuno, nemmeno i fogli di partito. Sul punto concorda Siddi, che però rilancia: “Invece di pensare solo a tagliare, cerchiamo di far funzionare il sistema. Per esempio quando il governo vende le frequenze televisive ha l’obbligo di ricavare il massimo dall’affare, e mettere a disposizione quel denaro per favorire le testate piccole ma importanti".

Barbara Berlusconi e Matteo Renzi
il Fatto 24.12.10
Coppie di fatto
di Furio Colombo


Caro Colombo, Barbara Berlusconi si sente a suo agio con Matteo Renzi, sindaco Pd di Firenze. Quando lo trova al tavolo con suo padre a Macherio, dice a Vanity Fair: “Credo che ad avvicinarci non siano le idee politiche, ma la stessa cultura generazionale”. Di che cosa parla Barbara Berlusconi? Cos’è la cultura generazionale?
Mariangela

LA SIMPATIA istintiva e naturale fra due persone giovani è un fatto del tutto comprensibile. E poi Barbara Berlusconi aveva ben altra ostilità da sfogare in quell’intervista (comandata proprio ad uso della odiata Mara Carfagna). È già abbastanza abituata alla conversazione mondana da sapere che se dirai cose atroci contro qualcuno (Carfagna, appunto) devi avere il contrappeso, devi mostrare stima e apprezzamento (meglio se sorprendente) per qualcun altro. Però Matteo Renzi non era seduto a quella tavola per caso. Era venuto a rendere omaggio, vistoso e formale, a Berlusconi. Era venuto in un modo che non poteva e non doveva passare inosservato. Fresca di laurea breve in Filosofia, Barbara avrà sorriso di quell’inchino a suo padre che ha avuto l’occasione di testimoniare. Nell’intervista ricorda varie volte, lealmente, che lei è una privilegiata. Ma, a giudicare dalla dura realtà (la fanno cominciare, lei, allieva di Cacciari, dal Milan, non da Mediaset o da Mondadori) si rende conto che, anche se privilegiata, la vita da giovani non è mai una passeggiata. E si immedesima in Matteo Renzi che, scelto dal suo partito per diventare presidente della Provincia a 28 anni, deve poi lottare contro il suo partito per diventare sindaco prima della ghigliottina dei quarant’anni. Dunque guardiamoli insieme, a destra e a sinistra di Berlusconi “il buono”. Lei non avrà avuto il cielo ma ha avuto il Milan, da papà. Lui non avrà avuto il Milan ma ha avuto Firenze, come si è capito quando il buon padrone gli ha candidato contro un malinconico ex calciatore negato non tanto per la politica quanto per la parola. Insieme ci ricordano l’indimenticabile scena di “Annie e io” di Woody Allen. L’attore-regista, che sta rompendo il suo rapporto con Annie, nota in strada una giovane coppia che sembra affiatata e felice e chiede con sincera curiosità “Ma che cosa vi tiene insieme?”. Risponde subito il giovane con un bel sorriso: “Siamo così superficiali...”. Lei approva, radiosa.

l’Unità 24.12.10
Stupri, botte e fame
Il Natale degli eritrei prigionieri nel Sinai
Sono 250 gli immigrati che da oltre un mese sono sequestrati nel deserto Sognavano la libertà in Europa, sono ostaggi dei trafficanti di esseri umani
di Umberto De Giovannangeli


Vedere la propria madre stuprata dai predoni. Sentire le urla di dolore di quanti vengono picchiati brutalmente con sbarre di ferro. Aver bisogno di latte e dover bere acqua salata. È il Natale che attende il piccolo Karim. Un nome. Una storia. Comune agli oltre 250 sventurati da più di un mese ostaggi dei trafficanti di esseri umani nel deserto del Sinai, a ridosso con Israele. Molti di loro sono cristiani, e ciò che sperano è che quel bimbo nato in una mangiatoia nella non lontana Betlemme possa portar loro il dono più ambito: la libertà. Karim, Fatima, Ahmed...A chi affolla le sale cinematografiche per l'immancabile cinepanettone natalizio, proponiamo un altro racconto. Vero. Drammaticamente vero.
È il «Natale nel deserto» di 250 esseri umani che avevano tentato di raggiungere l'Europa, l'Italia, ma sono stati respinti e gettati in pasto a criminali senza scrupoli. La loro realtà è questa: donne stuprate davanti ai loro familiari. E i tanti, i più, che non possono pagare il riscatto 8mila dollari a testa possono tentare una fuga disperata, che per otto di loro si è conclusa con la morte. Oppure possono attendere, nel terrore, che la minaccia si trasformi in realtà: l'espianto di reni per chi non può pagare. Tra quei 250, in maggioranza eritrei, ci sono diverse donne.
Una di loro Fatima è agli ultimi giorni di gravidanza. Ai familiari con cui ha potuto parlare al telefono per pochi secondi – concessi dai predoni agli ostaggi per invocare il pagamento del riscatto Fatima ha detto in lacrime: “Come posso partorire con le catene ai piedi...».
A dar conto di una sofferenza indicibile è don Mussie Zerai, sacerdote
di Asmara e fondatore di Habeshia, l'Ong che si occupa dell'inserimento di migranti africani in Italia: «Ieri dice il sacerdote a l'Unità ho parlato con l'ambasciatrice egiziana presso la Santa Sede. Mi ha ripetuto che per loro non ci sono riscontri, che la ricerca continua...”. Non ci sono riscontri. Per le autorità egiziane, Karim, Fatima, Ahmed...non esistono. Ma Ahmed esiste e la sua odissea dovrebbe scuotere le coscienze dei governanti italiani. Ahmed è uno di quelli che nell'estate del 2009 avevano cercato un passaggio via mare verso l'Italia prima di essere bloccato e ricacciato indietro dalle motovedette libiche gentilmente regalate dall'Italia per permette alla Libia del Colonnello Gheddafi di svolgere al “meglio” la funzione di gendarme del Mediterraneo. Ora Ahmed è prigioniero nel deserto. Quando va bene, lui e i suoi compagni di sventura mangiano una pagnotta e bevono acqua salata. «Intanto racconta don Zerai continuano i maltrattamenti, ci sono persone con gli arti rotti che rischiano di rimanere invalide e non si sa più nulla di 4 ragazzi portati via dai predoni con la minaccia di asportare loro un rene per rivenderlo...Torniamo a chiedere che in caso di liberazione scatti una rete di protezione e che le persone rapite non siano arrestate dalla polizia egiziana come è avvenuto nelle settimane scorse per un altro gruppo di 63 etiopi, oppure deportate nel loro Paese d'origine. Che qualcuno se ne faccia carico e che i profughi, una volta accertata la loro situazione, possano essere smistati in diversi Paesi europei...». Tra i quali l'Italia.
La storia di Ahmed ci riporta ai respingimenti di quel luglio 2009. Respinti dall'Italia. «L'Italia non ha mai dato a questi individui la possibilità di chiedere asilo, e adesso essi corrono il grave rischio di ritrovarsi scaricati nel deserto o deportati in Eritrea”, aveva denunciato Bill Frelick, direttore del Refugee Program a Human Rights Watch. «L'Italia aveva aggiunto è responsabile per le persone che ha respinto in Libia, un Paese senza legge sull'asilo che li ha brutalizzati. È l'Italia che li ha esposti a questo pericolo, ed è l'Italia che da tale condizione dovrebbe toglierli”. Dovrebbe, ma non lo fa. E il non farlo contribuisce a questo Natale di sofferenza: il Natale di persone trattate come bestie, incatenate in container interrati, sprangate quotidianamente. «Al di là delle parole denuncia don Zerai tutti quelli che possono e dovrebbero fare qualcosa sembrano essersene lavate le mani». Ma quelle mani rischiano di grondare sangue. Sangue di innocenti. Nessuna fonte ufficiale egiziana ha confermato le notizie riguardanti i nascondigli del Sinai in cui vengono tenuti gli ostaggi anche se l'associazione umanitaria Everyone sostiene di aver comunicato da giorni «tutte le informazioni per raggiungere i profughi, imprigionati nella periferia egiziana della città di Rafah, nei pressi di un edificio governativo, circondati da un frutteto, accanto a una grande moschea e a una chiesa trasformata in scuola». Gli esponenti di Everyone accusano il governo egiziano di «mentire» in proposito e «per scongiurare l'assassinio di altri innocenti», affermano, «ci rivolgiamo a Navi Pillay, Alto Commissario Onu per i Diritti Umani»
Karim, Fatima, Ahmed...E Hassan: l’ultima sua telefonata alla madre ad Asmara è quella di un ragazzo ormai allo stremo: «Faceva fatica a parlare racconta la madre non ce la faccio più, ripeteva piangendo, fate qualcosa, qui ci massacrano di botte, a chi chiede acqua rispondono: bevi la tua urina...». L’inferno nel deserto. Quale sia il destino di quanti provano la fuga lo ricorda un rapporto del gruppo Physicians for Human Rights-Israel (Phr), che ricorda la vicenda dei 250 eritrei prigionieri in Sinai. Il rapporto dell'associazione dei medici israeliani si basa su questionari distribuiti fra i pazienti dell'ospedale del Phr-Israel a Tel Aviv.
I profughi, etiopi ed eritrei, raccontano che i trafficanti beduini prendono in consegna gruppi di 2-300 persone per condurli in Israele, ma poi li rinchiudono in container e gabbie metalliche dove vengono picchiati, privati di cibo e acqua, sottoposti a torture con ustioni e scariche elettriche, appesi per i piedi o le mani. Le donne vengono separate dagli uomini e stuprate. Dei 165 aborti richiesti all'ospedale fra gennaio e novembre 2010, la meta' erano per gravidanze frutto di stupri. Mentre i profughi sono prigionieri, i trafficanti telefonano ai parenti chiedendo ingenti somme di riscatto. Una volta liberati e giunti al confine con Israele, i profughi rischiano di venire feriti o uccisi dagli spari delle guardie egiziane al confine.
Molti profughi che entrano in Israele -136 nel 2010 secondo i dati del ministero della Difesa, probabilmente di più secondo Phr -vengono immediatamente espulsi verso l'Egitto, dove rischiano di essere rimandati nei paesi d'origine. Altri -attualmente sono 2milavengono rinchiusi in centri di detenzione in Israele, anche per periodi di anni, in attesa di ottenere asilo. Vite stuprate. Non è una metafora. È la realtà. Stuprate nel deserto, come lo sono state nei lager libici dove continuano ad essere segregati eritrei, somali, etiopi, nigeriani...«Non abbiamo acqua potabile dice Fatima dobbiamo bere l’acqua del mare e molti di noi già hanno problemi intestinali. Ci danno da mangiare una pagnotta e una scatola di sardine ogni tre giorni, siamo costretti a vivere incatenati come bestie». Le ultime parole sono una supplica: «Chi può ci aiuti. Fate qualcosa. E presto...». È il messaggio di Natale che giunge dal Sinai.

il Fatto 24.12.10
La tragedia degli eritrei
Morte nel silenzio del deserto
di Furio Colombo


Stanno morendo nel deserto, schiavi con le catene, i morti tra coloro che sono ancora vivi, donne incinte, bambini. Sappiamo tutto di loro. Sappiamo chi sono, dove sono. Sappiamo i nomi dei mercanti, abbiamo i numeri dei telefoni cellulari.
Chiamate Abo Kalid, l’organizzatore del traffico: 20176662777 oppure 20155323121. Chiamate il capocarovana Meharl, che preferisce essere conosciuto con il soprannome di Wedi Koneriel. Il suo numero è 192229135. Se è occupato, provate 175559179. Vi diranno le condizioni: 10mila dollari per liberare uno schiavo. Nessun governo europeo ha provato a telefonare a quei numeri, a offrire un riscatto o a tentare una liberazione. Ciascuna delle persone incatenate, compresi i bambini, ha già pagato 2000 dollari per essere ammessa a questo estremo viaggio che sembrava della speranza. Ma a un certo punto, in pieno deserto, il convoglio s’è fermato e la tariffa è cambiata: altri 8mila dollari per ciascuno o il viaggio finisce lì. Non è indolore. I primi 8 che hanno tentato di fuggire sono stati abbattuti a bastonate in un’esecuzione pubblica che servisse da lezione. Sei sono morti, due sono feriti gravi abbandonati in mezzo agli altri prigionieri senza soccorsi, neppure acqua, che viene distribuita in quantità minima (e senza nessuna possibilità di lavarsi) ogni 2 o 3 giorni.
Quanti sono? Circa 250,eritrei in fuga dalla guerra senza fine. Etiopi che credevano di essere scampati al loro dittatore, somali che non hanno più un Paese ma solo signori della guerra e bande in continuo conflitto. Come mai abbiamo notizie così dettagliate? Si devono al sacerdote eritreo Don Mussie Zerai. Vive a Roma ed è presidente della Agenzia Habeshia e membro dell’Accademia Etiopica Pontificia. Il 21 dicembre il comitato per i diritti umani della Commissione esteri (Camera dei deputati) lo ha convocato per ricevere formalmente le notizie di cui dispone. Sono presidente di quel comitato e – anche a nome degli altri deputati presenti in quell’“audizione” – la domanda più urgente era questa: Come fa a sapere? Gli Stati non intervengono, l’Europa è silenziosa e assente, i servizi segreti africani ed europei sembrano privi di tracce. Se le avessero gli Stati, almeno alcuni Stati, in nome di un minimo di civiltà, sarebbero intervenuti. Don Zerai ha risposto: “Tutti sanno tutto. Almeno tre servizi segreti conoscono con esattezza il luogo in cui le 250 persone tenute in schiavitù in attesa del riscatto stanno morendo. I numeri dei telefoni cellulari sono fatti circolare dai mercanti (compresi molti di singoli prigionieri) per rendere possibili i contatti e le offerte. Allo stesso modo è noto il numero di un conto corrente egiziano su cui si devono fare i versamenti. L’uso dei telefoni cellulari, naturalmente, rende possibile rintracciare in qualunque momento predoni e vittime. Ma i servizi segreti lo sanno. Gli Stati lo sanno. C’è evidentemente una concordata decisione di non intervenire”. L’ambasciatrice egiziana presso la Santa Sede ha fatto sapere al sacerdote eritreo: “Se le autorità egiziane intervenissero, si troverebbero a carico i migranti e questo non lo possiamo fare”.
Lo scatto di indignazione che potrebbe seguire questa affermazione va dedicato non all’Egitto, ma all’Italia, che –come è ormai noto – è la causa di questa tragedia e di molte altre che non sono e forse non saranno mai conosciute. Ma prima vediamo alcune notizie in più per ricostruire la tremenda vicenda, per capire che ci è vicina, che ci riguarda e che – come in tutti i momenti più bui della Storia – ciascuno fa finta di non sapere.
Il container o i containers in cui sono imprigionati i migranti che non hanno ancora pagato il riscatto sono nel deserto del Sinai, territorio egiziano, vicinissimo al confine della striscia di Gaza. Israele, che non può intervenire fuori dalla sue frontiere, è un rifugio, come sanno i migranti che riescono a raggiungere quel Paese, come sanno i profughi che arrivano a quella frontiera sfuggendo ai mercanti. Anche perché gli Usa di Obama hanno già fatto sapere che accetteranno 40mila eritrei nel corso del 2011. Il governo egiziano ignora i passaggi e gli insediamenti delle carovane pirata, forse per ragioni che hanno a che fare con rapporti tra paesi africani, dalla Libia al Sudan, alla stessa Eritrea, nel periodo in cui Gheddafi, il despota della Libia e partner dell’Italia, è presidente dell’Unione Africana e – allo stesso tempo, e per conto dell’Italia – dedito alla caccia umana dei profughi.
Ma sappiamo altre cose. Sappiamo che Hamas è una buona base d’appoggio per i mercanti di esseri umani, così che la strada della morte ha due capolinea sicuri, la Libia che abbandona i migranti nel Sahara e Hamas che da Gaza fa da appoggio al campo del Sinai egiziano. Se è vero (ma si tratta dell’unica e atroce parte non provata della storia) che c’è espianto e commercio clandestino di organi (reni, soprattutto) i punti medici di appoggio non possono che essere nel territorio controllato da Hamas e fortemente remunerato per questo dai mercanti. Nel racconto di Don Zerai, in quelli fatti a lui per telefono dai profughi che invocano riscatto, risulta con certezza che almeno un centinaio di essi sono gli stessi che sono stati intercettati in mare mentre – in fuga dalla guerra eritrea – venivano a chiedere diritto d’asilo in Italia. Sono gli stessi che sono stati imprigionati nello spaventoso carcere libico di al Braq. L’indignazione del mondo e lo scandalo per la collaborazione dell’Italia a quella cattura (nessuno ha mai potuto chiedere diritto d’asilo) ha portato a una finta liberazione: abbandonati senza documenti nel Sahara. Una evidente offerta – forse debitamente compensata – ai mercanti. Le stesse persone che stavano venendo a chiedere l’aiuto di una presunta civiltà italiana, si sono trovate, in mano ai pirati di essere umani, nel deserto, in attesa, per molti senza speranza, di un riscatto impossibile. Tacciono i governi, che mandano (anche l’Italia) navi da guerra nel Corno d’Africa per difendere le merci dalla pirateria di mare. Ma la marcia nel deserto, la prigionia, le catene e la fine degli esseri umani non interessa nessuno. Forse c’è una ragione. La ferrea e sbandierata alleanza fra l’Italia di Berlusconi e la Libia di Gheddafi, che procura ai leader contraenti vantaggi ignoti, ma è una strettissima alleanza politica e militare agli occhi delle diplomazie mondiali, è un potentissimo alibi. Nulla osta alla morte senza diritti di profughi che hanno commesso l’errore di non sapere come è cambiata l’Italia, ex Paese civile.

l’Unità 24.12.10
Colloquio con Angela Boitano
«Siamo ancora in festa per la condanna a vita del dittatore Videla»
Il vecchio boia sconterà l’ergastolo in un carcere civile. Gli applausi alla lettura della sentenza e l’incredibile autodifesa. L’odio verso i Kirchner che non hanno protetto i militari assassini: «Sono dei comunisti gramsciani»
di Giovanni Maria Bellu


Stiamo festeggiando da due giorni l’ergastolo al generale Videla», dice da Buenos Aires Angela, Lita, Boitano, classe 1931, madre di Michelangelo e Adriana, due dei trentamila desaparecidos.
Festeggiando? «Non esattamente... non è una vera festa. Sono a casa... ecco, festeggiamo dentro di noi. Ogni volta che c’è giustizia anche per una sola delle vittime della dittatura, c’è giustizia anche per tutte le altre... Il processo era a Cordoba, ma qua a Buenos Aires abbiamo potuto seguirlo in videoconferenza. A parte quello di Videla ci sono stati altri quindici ergastoli. Ogni volta che il presidente del tribunale diceva “ergastolo” si sentiva un applauso...».
El general Jorge Rafael Videla, 85 anni, capo della giunta militare che governò l’Argentina dal 1976 al 1983, gode di ottima salute. «È il più in gamba...», dice con amara ironia Lita Boitano. Ed è stato condannato a scontare l’ergastolo in un carcere comune. Ecco, è questo l’aspetto della sentenza che dà maggiore soddisfazione: el carcel comun per il capo della giunta militare. Indica una “pista investigativa”, sancisce un’acquisizione storica: che il golpe del 1976 non fu un affare dei soli militari.
«Il giorno prima della sentenza – racconta Lita Boitano Videla si è alzato in piedi e ha fatto una dichiarazione di quasi cinquanta minuti. Ha descritto l’aspettativa che in certe parti delle società e dell'imprenditoria esisteva per l’intervento militare. Ha nuovamente chiamato in causa Ricardo Balbin, il leader dell’Unione civica radicale, sostenendo che in qualche modo “sollecitò” il golpe... Certo, Balbin è morto ormai da vent’anni, e il suo partito ha smentito. Ma il punto è che questa condanna non chiude un ciclo, ma può aprirne uno nuovo... Ci sono ancora tante cose da scoprire».
IL SEQUESTRO DEI FIGLI
Lita Boitano marito genovese, padre di Treviso, cittadina italiana deve ancora scoprire molte cose della sua tragedia familiare. Ha seguito tutti i processi, ha girato il mondo. È stata tra le prime madri che chiedevano giustizia in Plaza de Mayo quando i militari erano ancora al potere. Nel 2001 è stata nominata da Ciampi commendatore della Repubblica italiana per il suo impegno nella difesa dei diritti umani. È oggi presidente dell’Associazione dei familiari dei desaparecidos. Ma non ha mai avuto giustizia per sé. Non ha mai potuto costituirsi parte civile in un processo per la morte di Michelangelo e Adriana. «Non ho le prove spiega Non ho le prove perchè mancano i testimoni».
Michelangelo scomparve il 29 maggio del 1976. Lo portarono all’Escuela Mecanica de la Armada, la famigerata Esma. I desaparecidos che finirano in quell’inferno nel primo periodo della dittatura, fino al giugno del 1976, sono stati quasi tutti uccisi. Il nome di Michelangelo è stato trovato in una lista di reclusi. «Ma ancora non basta. Deve saltar fuori qualche testimone». Adriana fu rapita il 24 aprile del 1977, dopo essere uscita dalla chiesa, sotto gli occhi di Lita: «Vidi due uomini che la caricavano su una macchina». Anche di lei non si è avuta più alcuna notizia.
Un dolore così atroce sovverte la gerarchia della sofferenza. Può succedere di avvertire addirittura come “fortunata” la condizione dei familiari dei prigionieri politici: «Davvero ragionavamo così. Spesso ci dicevamo: “Almeno li avessero arrestati”.
Avremmo saputo dove si trovavano, avremmo potuto sperare di vederli tornare liberi».
Nel processo di Cordoba, Videla doveva rispondere della morte di 31 di questi detenuti politici. Udienza dopo udienza, i loro familiari e quelli dei desaparecidos hanno sfogliato, attraverso il racconto dei testimoni, un agghiacciante catalogo di atrocità. Hanno scoperto l’arte combinatoria del sadismo. La conferma di storie che da tempo si raccontavano. «Una donna seppe che suo figlio stava per essere liberato. Andò ad aspettarlo fuori dal carcere. Non usciva. Chiese spiegazioni. Le dissero che era stato rilasciato la sera prima... Sì, era stato rilasciato, ma subito l’avevano sequestrato. In pochi istanti era uscito dalla lista dei detenuti politici ed era entrato in quella dei trentamila desaparecidos»
LA FRATELLANZA DEL DOLORE
Da quando Michelangelo e Adriana scomparvero sono passati 34 anni. Michelangelo era del 1956, Adriana del 1952. I sopravvissuti della generazione dei desaparecidos oggi sono uominitrai55ei60anni.Sonostatiloroi principali testimoni d’accusa nel processo contro Videla. «Hanno raccontato per la prima volta in pubblico cose che non avevano mai detto nemmeno ai loro familiari. Una donna ha descritto la violenza sessuale che subì davanti ai figli. In molti hanno avuto bisogno dell’assistenza psicologica. Sono esperienze dolorosissime, e certo non le hanno sopportate per loro stessi».
C'è un filo che lega le vittime delle atrocità. Un anno fa Estela Carlotto, la presidente dell’associazione delle nonne di Plaza de Mayo, ha incontrato in pubblico a Roma Giulia Spizzichino, che perse sette familiari alle Fosse Ardeatine. Chi c’era non dimenticherà il miracolo di quel giorno: la vita che rifiorisce nell’incontro del dolore. Lita Boitano ha assistito a delle udienze del processo per la strage nazista di Sant'Anna di Stazzema. «C’era un unico sopravvissuto ricorda un uomo ormai vecchissimo. Gli hanno chiesto se odiava i tedeschi. Ha risposto che non odia il popolo, ma solo quelli che hanno ucciso...»
Estendere il numero degli assassini è, infatti, una tecnica difensiva. Videla, quando ha parlato dei complici del golpe, non l’ha fatto certo per collaborare con la giustizia, ma per tentare di diluire le proprie responsabilità. E, coerentemente, ha tentato di presentare i propri crimini come la conseguenza necessaria di una situazione politica che non poteva essere aggiustata altrimenti. Ha rivendicato tutto.
«Era sorprendente dice Lita Boitano vedere le facce degli imputati al momento della sentenza. Videla e l’altro generale sotto processo con lui, Luciano Benjamin Menendez, avevano uno sguardo di sfida. Videla anche il giorno prima, mentre leggeva la sua dichiarazione, guardava il giudice in quel modo. Era immobile, di pietra, con quello sguardo di superiorità. Come se davvero credesse di aver agito per la Storia. Invece quelli del servizio penitenziario guardavano per terra. Sono stati loro i torturatori. Allora avevano vent’anni. l’età di quelli che torturavano. Ma non credo che si vergognassero. Solo, non avendo avuto una formazione militare, non erano in grado di assumere un contegno adeguato».
Festeggiamo con Lita Boitano l’ergastolo di Videla. Alla fine della conversazione ci dice una cosa che ci sorprende e che ci fa a maggior ragione condividere la gioia. «Durante la sua dichiarazione ha spesso citato Gramsci». Gramsci in bocca a Videla? «Sì. È livido contro i Kirchner. Attribuisce a loro la fine dell’impunità. I militari erano convinti che avrebbe goduto di eterna protezione e i Kirchner non gliel’hanno data. Così li odiano. Videla li ha accusati di essere dei comunisti gramsciani. Ha detto proprio così: comunisti gramsciani».

l’Unità 24.12.10
Il fondatore di Wikileaks annuncia che è uscito solo l’1% dei cablo segreti Usa: siamo in ritardo
Israele sotto tiro. Il Mossad in allarme per le prossime informazioni riservate sullo Stato ebraico
La missione di Assange: «Pubblicare tutto o morire»
«Pubblicare o morire». Julian Assange dalla villa nel Suffolk promette nuove rivelazioni. «Solo l’1% del materiale che abbiamo è stato diffuso». Chiede al Brasile asilo per sé e per una nuova base operativa del sito
di Rachele Gonnelli


Julian Assange concede interviste a raffica. Serio e compassato su fondale di stoviglie inglesi intervistato da sir David Frost per Al Jazeera, sciolto e ironico di spalle ad un caminetto acceso per Paris Match, nordico e sognante tra le nevi
nell’immagine del quotidiano di San Paolo del Brasile. Un vero tour de force per lo zelig australiano in questa fine d’anno che in molti pensano abbia contrassegnato, lui più di chiunque altro.
Nel 2011 rischia di essere estradato in Svezia, dove lo attende un processo per stupro, e probabilmente negli Stati Uniti per cospirazione. La Cia, l’unica delle 16 agenzie d’intelligence statunitensi a non aver adottato il sistema intranet del Pentagono da cui sono stati scaricati i files che hanno messo in serio imbarazzo la Casa Bianca, ora indaga su di lui. Ha costituito una task force speciale incaricata di accertare le conseguenze delle rivelazioni di Wikileaks pubblicate finora. Ma gli agenti speciali anti-wiki non hanno visto ancora niente. Ad oggi, Wikileaks ha pubblicato nel complesso meno di 2.000 cable su oltre 251.000 di cui è in possesso, più o meno l'1% del totale. Per pubblicare tutto il materiale, ha calcolato Assange, ci dovrebbero volere circa sei mesi. «Siamo in ritardo. Siamo solo a un cinquantesimo della nostra missione». E comunque la missione è «pubblicare o morire, non abbiamo altra scelta». La morte qui è relativa al sito, ma Assange teme anche per sè stesso. Daniel Ellsberg, il veterano della guerra in Vietnam che rivelò i segreti di Nixon ai giornali Usa , considera «possibile» un attentato alla sua vita orchestato dal governo americano. Perciò Julian fa appello al Brasile, quasi fosse una nuova Sakineh, facendosi forte dell’appoggio che il presidente Luiz Inacio Lula da Silva gli ha espresso quando è stato arrestato in Inghilterra per i presunti stupri delle due donne che svedesi che lo accusano. «Sarebbe ottimo se mi fosse concesso asilo in Brasile. afferma il biondo fondatore di Wikileaks al quotidiano brasiliano Estado de S.Paulo -E potremmo anche istallare in Brasile una nostra base operativa. È un paese grande a sufficienza per essere indipendente dalla pressione degli Stati Uniti, e ha forza economica e militare per farlo. Inoltre non è un paese come la Cina e la Russia che non sono tanto tolleranti con la libertà di stampa». Assange rivela di essere in possesso di almeno 2mila cablo dell’ambasciata Usa su Lula e gli interessi del Brasile nel mondo.
LE NUOVE RIVELAZIONI
L’organizzazione di Wikileaks annuncia il suo principale artefice ha ancora da far conoscere al mondo la gran parte dei documenti riservati concernenti ad esempio Israele. Al momento si fa trapelare solo i possibili titoli della lista: la guerra in Libano del 2006, l'assassinio del comandante di Hamas Mahmoud al-Mabhouh ucciso in un hotel di Dubai lo scorso 20 gennaio, l'omicidio del generale siriano Muhammad Suleiman. Dei circa «3.700 documenti su Israele, 2.700 arrivano dalle sedi diplomatiche nello Stato ebraico», ha detto Assange. Il Mossad sarebbe già in allarme. E la Cina su cui prima dell’arresto a Londra aveva promesso dirompenti rivelazioni? Alla domanda, che gli viene posta nel programma Frost over world, risponde che sì, ci stanno lavorando ma c’è qualche difficoltà connessa alla diversa diffusione di Internet e che per ora hanno un dossier sulla Corea del Nord. Però il lavoro di divulgazione dei segreti diplomatici si potrà d’ora in avanti avvalere del contributo di altre testate giornalistiche importanti come Novaya Gazeta, il quotidiano di Anna Politkovskaja. La rete di protezione dei partner di Wikileaks che comprende New York Times, Le Monde, Guardian, El Pais e Der Spiegel si estende dunque alla stampa anti Putin.

l’Unità 24.12.10
Marchionne ottiene la fine della democrazia sindacale in fabbrica. Ci stanno Fim e Uilm
Esulta il ministro Sacconi Il Pd: un errore grave. Ora l’ad promette investimenti
Mirafiori, fatta fuori la Fiom Ancora un accordo separato
Firmato ieri sera a Torino l’accordo separato per lo storico stabilimento torinese. Il Lingotto assicura la produzione dei nuovi suv Alfa e Jeep. In cambio ottiene l’esclusione dalla fabbrica della Fiom.
di Luigina Venturelli


Marchionne non ha chiesto la luna, osservava il ministro Sacconi, pieno di buoni auspici in perfetto clima natalizio. Marchionne ha chiesto “solo” un contratto aziendale su misura per Mirafiori, che gli permettesse di gestire liberamente l’organizzazione del lavoro e di buttar fuori dallo stabilimento le rappresentanze sindacali giudicate scomode. E quanto voleva, ha ottenuto.
UN NUOVO ACCORDO SEPARATO
Ieri sera a Torino è stato firmato l’accordo per lo storico stabilimento torinese, che dunque vedrà arrivare il promesso investimento da un miliardo di euro per la joint venture Fiat-Chrysler a cui sarà affidata la produzione di suv destinati ai mercati europeo ed americano, anche a marchio Alfa Romeo, fino a 280mila vetture all’anno. Ma si tratta di un accordo separato, senza la Fiom, e in questa assenza sta l’alto prezzo pagato per una positiva conclusione della trattativa che molti si auguravano, ma di cui pochi sono oggi in grado di prevedere le conseguenze. Perché la mancata firma dei metalmeccanici Cgil comporterà l’esclusione dello stesso sindacato dalle rappresentanze sindacali aziendali (la Rsa si sostituirà all’attuale Rsu), distruggendo così il sistema di rapporti industriali degli ultimi vent’anni. Perché un simile precedente si farà probabilmente sentire anche in altre fabbriche del gruppo e del settore nel suo complesso, con esiti potenzialmente esplosivi in fatto di conflittualità. Perché l’accettazione di Fim e Uilm (quella di Ugl e Fismic era scontata da tempo) alle condizioni imposte dal Lingotto scaverà probabilmente un abisso nei rapporti tra le confederazioni, Cgil da una parte, Cisl e Uil dall’altra.
E, soprattutto, perchè la disciplina dei diritti e dei doveri doveri dei lavoratori resta indefinita, sganciata dal ccnl ed appesa alla trattativa appena aperta in Federmeccanica sull’elaborazione di norme specifiche per il settore auto. «Mirafiori inizia oggi una nuova fase della sua vita, potrà compiere un salto di qualità e farsi apprezzare a livello internazionale. Per quanto ci riguarda, faremo partire gli investimenti previsti nel minor tempo possibile» ha commentato a caldo l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne. Subito aggiungendo: «Adesso bisogna lavorare per realizzare il contratto collettivo specifico per la joint venture che consentirà il passaggio dei lavoratori alla nuova società». In questo limbo contrattuale dovranno esprimersi i 5.500 lavoratori interessati nel referendum di metà gennaio. All’azienda basterà il 51% dei consensi a validare e rendere operativo il testo siglato ieri a Torino.
REAZIONI ENTUSIASTE E INDIGNATE
Prevedibile la reazione della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, fin dall’inizio grande mediatrice della partita, che ha espresso «grande soddisfazione e vivo plauso per l’intesa raggiunta». Ma ancor più entusiasmo hanno espresso i sindacati firmatari del documento: «Noi pensiamo di avere fatto il massimo, l’accordo migliore. Abbiamo incastrato Marchionne, che a questo punto deve fare l’investimento» ha commentato Bruno Vitali della Fim. «Siamo davvero onorati di poter augurare delle serene festività natalizie ai lavoratori della Fiat di Mirafiori» ha ribattuto il segretario della Uilm Rocco Palombella. E il leader confederale Luigi Angeletti: «Con questo accordo l’Italia ha la possibilità di tornare ad essere un grande produttore di auto».
Di tutt’altro tono la reazione delle tute blu Cgil, che hanno parlato di «firma della vergogna». Secondo il leader Maurizio Landini «l’accordo peggiora Pomigliano e cancella il contratto nazionale, si lede lo statuto e i diritti dei lavoratori e si punta a colpire la Fiom». In queste condizioni «un referendum è illegittimo, perchè si chiede ai lavoratori di rinunciare ai diritti, siamo oltre il ricatto», ha concluso il segretario, che presto convocherà il comitato centrale per prendere le decisioni necessarie. Sciopero compreso.

Repubblica 24.12.10
Parla l´ex leader della Cgil: stravolto tutto il sistema delle relazioni sindacali
Cofferati: diritti negati a chi non sigla il contratto
intervista di Eleonora Capelli


BOLOGNA - «Chi pensava che il caso di Pomigliano fosse un´eccezione e che le violazioni dei diritti che quell´accordo produceva fossero dettate dalla necessità, oggi è servito. Diventa chiaro il tentativo di stravolgere tutto il sistema contrattuale e delle relazioni sindacali. La Fiat, con la sua fabbrica simbolo, si pone come punto di riferimento negativo, con un accordo autolesionista per chi l´ha firmato». Sergio Cofferati, ex leader Cgil, ex sindaco di Bologna e oggi parlamentare europeo Pd, non usa mezzi termini per bocciare l´accordo per il rilancio di Mirafiori tra Fiat e i sindacati Fim, Uilm, Ugl e Fismic, cui manca la firma della Fiom.
Presentando l´accordo Sergio Marchionne, amministratore delegato Fiat, ha parlato di "salto di qualità" che permetterà di far partire gli investimenti. Questo rilancio non è una buona notizia per i lavoratori?
«Altro che innovazione, qui si torna indietro di decenni, siamo di fronte a una regressione bella e buona. Si cancella un accordo che ha fatto storia come quello del ´93».
Anche il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, ha parlato di «intesa positiva», migliore rispetto a quella di Pomigliano...
«Gli investimenti sono sempre apprezzabili ma qui avvengono a discapito dei diritti dei lavoratori. Ci sono due passi indietro, nella direzione sbagliata, un secco peggioramento rispetto a Pomigliano».
Perché?
«Prima di tutto perché a Mirafiori non si applicherà mai più il contratto nazionale e questa è la fine del contratto. In secondo luogo per la negazione di qualsiasi diritto sindacale a chi non firma il contratto. Con un colpo solo si cancella il contratto e si negano diritti fondamentali sanciti dalle leggi che il contratto richiama».
Quindi anche lei, come Antonio Di Pietro, pensa che questo accordo sia anticostituzionale?
«I profili di incostituzionalità è probabile siano più di uno».
Siamo di fronte a un "precedente" che può fare scuola?
«Si tratta di un inedito gravissimo nel panorama delle relazioni industriali, perché si punta a cancellare qualsiasi forma di rappresentanza sindacale per chi non condivide le risoluzioni dell´azienda. Gli effetti che questo può produrre sono evidenti a tutti».
Pensa che la Fiom abbia fatto bene a non sottoscrivere l´accordo, anche se questo la isola?
«La contrarietà della Fiom è del tutto condivisibile».
E gli altri sindacati?
«Trovo incomprensibile che si possa arrivare a una cancellazione di diritti individuali e collettivi di questa natura con il consenso di sigle sindacali. Questi accordi sono autolesionisti per chi li firma».
Adesso che succederà?
«È auspicabile che ci sia una forte iniziativa politica di contrasto a quanto è successo a Torino».

Repubblica 24.12.10
L’America a Torino
di Luciano Gallino


L´accordo per la nuova società che gestirà Mirafiori segna una brutta svolta nelle relazioni industriali in Italia. Esclude la Fiom, che sin dagli anni del dopoguerra è stato il sindacato di maggior peso nel grande stabilimento torinese.
Inasprisce deliberatamente il conflitto tra i maggiori sindacati nazionali: Fiom-Cgil da una parte, tutti gli altri contro. Divide i sindacati in un momento in cui i lavoratori dipendenti, di fronte alle cifre drammatiche della disoccupazione, della cassa integrazione e del lavoro precario, avrebbero il massimo bisogno di sindacati uniti per poter uscire dalla insicurezza sociale ed economica che li attanaglia. In presenza, per di più, di un governo del tutto inerte di fronte ai costi umani della crisi. Ora che si è chiuso stabilendo che solo i sindacati che lo hanno firmato potranno avere in essa i loro rappresentanti, si può dire che nell´insieme l´accordo su Mirafiori lascia intravvedere un paio di certezze, ed altrettante incognite. Una prima certezza è che l´ad Sergio Marchionne pensa evidentemente di importare in Italia non solo le auto, ma anche le relazioni industriali degli Usa. Il motivo è chiaro: legislazione e giurisprudenza statunitensi sulle libertà sindacali sono assai più arretrate che in Europa. Al punto che grandi imprese tedesche e francesi, che coltivano in patria relazioni industriali pienamente rispettose di quelle libertà, nelle sussidiarie Usa le violano con la massima disinvoltura. Assumendo crumiri al posto di lavoratori in sciopero, ad esempio, oppure esercitando pressioni inaudite sul singolo lavoratore affinchè non segua le indicazioni del sindacato. Il tutto nel rispetto della sottosviluppata legislazione del luogo. Nel mondo globale non si vede perché, sembra essere il ragionamento di Fiat, le relazioni industriali in Italia non si possano conformare a quel modello.
Inoltre pare ormai certo che l´operazione Fiat-Chrysler non sia affatto destinata a fare di Chrysler la testa di ponte statunitense della Fiat; è piuttosto questa che si accinge a fungere da testa di ponte europea per la Chrysler. Partendo da Mirafiori. Si può infatti convenire che a fronte di una produzione prevista di oltre 250.000 vetture, tre volte quella degli ultimi anni, non si vede che differenza faccia produrre per la maggior parte Jeep Grand Cherokee, magari con la placca Alfa Romeo, piuttosto che qualche successore delle attuali auto del gruppo. Sono sempre posti di lavoro. Ma qui la Fiat si gioca la sopravvivenza come marchio originale. E´ noto che per non sparire sul mercato europeo Fiat deve assolutamente spostarsi sulla fascia medio-alta; si comincia ora a intravvedere che il prezzo potrebbe essere la sua uscita dal rango dei progettisti originali e costruttori che hanno fatto la storia dell´auto.
Le incognite riguardano anzitutto che cosa succederà nelle altre aziende, a cominciare dalla componentistica, visto che il tetto comune del contratto nazionale sembra prossimo a cadere. Le grandi aziende - poche ormai in Italia - possono anche ritenere che il principio "ad ogni azienda il suo contratto" si attagli alle loro esigenze. Ma le piccole e medie? Il contratto nazionale non serve soltanto a proteggere i lavoratori in modo relativamente uniforme. Serve anche a proteggere le aziende dalla proliferazione incontrollata di sigle sindacali, come pure da rivendicazioni interne, magari extra-sindacali, che in assenza di un contratto quadro possono dare agli imprenditori grossi grattacapi.
Un´altra incognita riguarda destino e strategie della Fiom e dei suoi iscritti, in presenza di un´intesa che dal 2012 li esclude dalla newco Mirafiori - salvo un esito diverso del referendum. A Torino sarà assunto solo chi giura di non appartenere alla Fiom? Oppure dovrà nascondere la propria identità sindacale? O, al contrario, dovrà portare un badge che permetta ai capi di distinguerli a vista? Fuori Torino, poi, le cose potrebbero essere anche più complicate. Chi sa se l´ad Fiat si rende conto che in molte aziende meccaniche, comprese quelle che fabbricano componenti, la Fiom è il sindacato di maggioranza; in non pochi casi è l´unico. All´epoca della produzione giusto in tempo, il parabrezza o la sospensione o il disco dei freni che non arrivano perché il fornitore è fermo per una vertenza sindacale, può danneggiare la produttività di Mirafiori molto più che non i 40 minuti di pausa per turno invece di 30, o la pausa mensa a metà turno invece che alla fine. Le grandi strategie sovente naufragano per aver trascurato i dettagli.

l’Unità 24.12.10
La «porcata» contro la democrazia sindacale
Saranno i dirigenti sindacali, nelle loro stanze, a scegliere chi li potrà rappresentare, senza ricorrere alle vecchie liste e connesse elezioni Un sistema simile a quello inventato dalla legge elettorale Calderoli
di Bruno Ugolini


Se volessimo usare il linguaggio volgare di un Calderoli diremmo che è una «porcata». Stiamo parlando dell’accordo separato alla Fiat. Esso stabilisce, infatti, accanto ai sacrifici richiesti agli operai (magari per supplire alla mancanza di modelli automobilistici competitivi) un nuovo meccanismo per la costruzione delle rappresentanze dei lavoratori. È un colpo inaudito alla democrazia sindacale, alla rappresentanza organizzata dei lavoratori. I sindacati che infatti non obbediscono al diktat del moderno Sergio Marchionne saranno esclusi. Non potranno rappresentare i lavoratori di Mirafiori che pure oggi in larga maggioranza aderiscono al sindacato fondato da Di Vittorio. Non si conoscono ancora i particolari dellâ€TMintesa ma    le    agenzie    già parlando di una suddivisione equanime dei delegati (60 a testa) tra i firmatari, ovvero Fim-Cisl, Uilm-Uilm e Fismic (e forse Ugl). Saranno i dirigenti sindacali, chiusi nelle loro stanze, a scegliere chi li potrà rappresentare, senza ricorrere alle vecchie liste e connesse elezioni. Il sistema adottato per la nuova Fiat ricorda, appunto, quello inventato da Caldaroli e che concede ai segretari di partito la facoltà di scegliere, nel chiuso delle proprie stanze, i candidati delle varie organizzazioni politiche. Un impulso, per quanto riguarda i sindacati, alla loro burocratizzazione e al loro scollegamento nei confronti dei lavoratori considerati una massa inerte da gestire a piacimento.
Ha ragione uno come Giuliano Ferrara quando giudica gioiosamente la scelta di Marchionne «una rivoluzione». Così come ha ragione Maurizio Sacconi a definire
se stesso come il vero autore di tale «rivoluzione». È il governo di centrodestra che ha coltivato la divisione sindacale e favorito quanto ora succede. Con una mossa storica che cancella perfino le lontane esperienze delle Commissioni interne. Forse soltanto nell’esperienza fascista si osò tanto.
Chissà che cosa potrebbero dire i padri dei Consigli, da Bruno Trentin a Pierre Carniti a Sergio Garavini. E anche quelli come Sergio D’Antoni che con Trentin e Pietro Larizza firmarono l’accordo del 1993 che, appunto, regolava le RSU, le rappresentanze sindacali aziendali. Cancellato. Perché lo squillo che parte dalla Fiat non potrà non suscitare un processo imitativo. 0 perlomeno così si tenterà. Anche per questo Confindustria ha tentato di frenare la «rivoluzione»: teme un processo a catena, un disgregamento, una rissa sociale. A meno che da subito non prevalga una proposta vera sulla rappresentanza capace di trovare uno sbocco legislativo favorevole.
Cisl e Uil dichiarano che così si possono però attuare gli investimenti promessi dalla Fiat e che non si poteva fare diversamente. È probabile che agisca in queste organizzazioni una spinta moderata.
Le ricerche sul voto operaio hanno chiarito come anche nel mondo del lavoro trovi presa il centrodestra con la Lega e altri. Perfino nella Fiom e nella Cgil e quindi, si immagina, ancor più nella Cisl e nella Uil. Ciò non toglie che su un punto come questo si poteva e si doveva trovare un argine unitario. Solo l’unità dei sindacati poteva convincere Marchionne ad evitare un simile passo.
Così come era possibile affrontare a tempo debito un rinnovamento anche del sistema delle rappresentanze sindacali.

Repubblica 24.12.10
Pechino snobba gli Usa e punta l´euro "E´ importante per noi, lo aiuteremo"
Continua il duello Cina-America. Washington ricorre al Wto
Pechino sarebbe pronta ad acquistare un quarto del debito di Lisbona
di Angelo Aquaro


NEW YORK - Gli americani l´hanno già ribattezzata «China Klaus» ma l´ironia non inganni. L´ultimo travestimento di Pechino, quello da Santa Klaus, Babbo Natale, non piace per niente a Washington, che guarda anzi con diffidenza e preoccupazione al regalo promesso da Pechino all´Europa.
«Siamo pronti ad aiutare i paesi dell´eurozona a superare la crisi finanziaria e a rilanciare la ripresa» ha annunciato la portavoce del ministro dell´Estero Jang Ju. Una dichiarazione d´intenti arrivata a stretto giro dopo il «là» del vicepremier Wang Quishan, che aveva parlato di «azioni concrete». E che ha finito così per confermare le voci riportare dalla stampa portoghese, secondo cui Pechino sarebbe pronta ad acquistare 5 miliardi di buoni del tesoro di Lisbona: praticamente un quarto del debito che sta affondando il paese facendo riemergere le paure di crisi in Europa.
E´ solo l´inizio: sulla lista della spesa dei cinesi ci sarebbe già il tribolatissimo debito greco. E il segnale è stato subito accolto positivamente dai mercati. L´euro ha arrestato la sua discesa sul dollaro che lo stava portando pericolosamente sotto la soglia dei 1300 ed è risalito anche dal cambio storicamente più basso mai raggiunto con il franco svizzero. Ma l´aiuto promesso del Dragone è solo l´ultimo passo di una danza di avvicinamento inaugurata dal tour europeo di Wen Jabao all´inizio dell´anno. E irrobustita - suggeriscono le analisi più prudenti - dall´acquisto di azioni in euro per il valore di sette, otto miliardi di dollari al mese.
Chiaro che l´espansione del Dragone non sia vista di buon occhio da questa parte dell´Oceano. Prima di tutto perché finora Pechino ha generosamente finanziato il debito americano: con quasi mille miliardi di acquisti, la Cina è il miglior clienti dei 13mila miliardi di debito Usa. E poi perché la potenza asiatica sta evidentemente barattando il regalo di Natale con l´impegno dell´Europa a fare ancora più spazio ai suoi prodotti.
Per gli Usa è un ulteriore campanello d´allarme. Già gli americani hanno aperto da tempo il contenzioso sul deprezzamento dello yuan - anche se per la verità neppure loro sono senza peccato, vedi l´indebolimento del dollaro grazie all´acquisto dei buoni del tesoro da parte della Fed. Ma la sfida a distanza tra i due giganti si è arricchita ieri di una nuova tenzone.
Washington ha portato Pechino davanti al tribunale del Wto accusandola di concorrenza leale. E´ la seconda volta nel giro di quattro mesi che gli States si rivolgono all´organizzazione mondiale del commercio. Ma stavolta l´accusa riguarda un settore particolarmente caro a Barack Obama - e su cui il presidente ha insistito anche nel discorso prenatalizio. E cioè lo sviluppo dell´industria energetica alternativa. Un fondo speciale del governo assicurerebbe fino a 22 milioni di finanziamenti per le industrie cinesi che si lanciano nell´eolico: per gli americani si tratta di veri e propri «sussidi», vietati dal Wto, che «opererebbero come una barriera alle esportazioni Usa.
Insomma ce n´è abbastanza perché l´annunciata visita di Hu Jintao negli Usa rischi di trasformarsi in un vero show down. Il tour americano era programmato da tempo ma ieri gli Usa hanno reso nota la data esatta della visita: il 19 gennaio. Proprio alla vigilia del Discorso sulla Stato dell´unione in cui Barack Obama - ha annunciato il suoo portavoce Robert Gibbs - si concentrerà guarda caso sui piani per il taglio del deficit.

Repubblica 24.12.10
Le sentenza dall´Harvard Medical School: è una specie finora sconosciuta
Dall´Asia ecco Denisovan "È il cugino del Neanderthal"
di Angelo Aquaro


I reperti rinvenuti nella Grotta Denisova risalgono ad almeno 50mila anni fa
Ritrovati solo un osso e un dente in una cava siberiana, ma la conferma arriva dall´esame del Dna Secondo il Max Planck Institute si tratta di un parente dell´ominide vissuto in Europa fino a 30mila anni fa

NEW YORK. Il cugino che non t´aspetti bussa alla vigilia di Natale e si presenta: mi chiamo Denisovan, vengo dall´Asia e l´unica cosa che posso mostrarvi di me, scusate, è solo un piccolo dente... È una storia meravigliosa quella raccontata dagli scienziati del Max Planck Institute. L´uomo aveva un parente stretto e l´ha ignorato per tutti questi di anni. E per di più la scoperta si deve ai miracoli del Dna.
Solo grazie alla sequenza del genoma gli scienziati sono riusciti a ricostruire il nostro parente dai resti più piccoli che antropologo mai ricordi: l´ossicino di un dito e un dente del giudizio.
La saga dei Denisovan si intreccia a quella dei Neanderthal e riapre quindi gli interrogativi sulla nostra complicatissima famiglia. Per decenni gli scienziati ci avevano rassicurato sulla nostra discendenza, iscrivendoci al ceppo dell´Homo Sapiens e sostenendo che noi moderni non avevamo nulla da spartire con quel più tozzo individuo misteriosamente estinto senza lasciare apparentemente tracce. Ma proprio le ricerche di Svante Paabo, il genetista del Max Planck che oggi tiene a battesimo i Denisovan, hanno costretto a rivedere la nostra carta d´identità.
Realizzando il primo genoma completo del Neanderthal, il professore ha scoperto che questi ominidi, che hanno lasciato numerosissime tracce fossili, dall´Europa alla Russia, risalenti fino a 240mila anni fa, dividono il 2.5 per cento del loro Dna con i moderni europei e i moderni asiatici: ma non hanno invece nulla a che fare con i moderni africani. Da qui la conclusione: prima di scomparire (soggiogati? estinti?) i Neanderthal si mischiarono con l´Homo sapiens quando anche i nostri progenitori lasciarono l´Africa per l´Europa, circa 60mila anni fa.
E i Denisovan? Tutto nasce dal ritrovamento dei fossili in una cava della Siberia chiamata appunto Denisova. Un osso di un dito e un dente, vecchi almeno 50mila anni. E appartenenti a chi? Ancora una volta è stato il Dna a dare una risposta. «Ma che shock» racconta oggi Paabo al New York Times «scoprire che il frammento non apparteneva ai tipi finora conosciuti». Non all´uomo di Neanderthal. Non a quello di Cro-Magnon, come è anche detto l´Homo sapiens che fu ritrovato proprio in quella grotta della Francia. E neppure all´Homo floriesensis, dall´Isola di Flores, Indonesia, cioè il piccoletto che gli studiosi hanno ribattezzato «Hobbit», e che era finora l´ultimo parente conosciuto di questa nostra famiglia che si scopre sempre più allargata.
La sentenza è arrivata dagli studiosi dell´Harvard Medical School: si tratta di una nuova specie ominide, che probabilmente si è staccata dal comune progenitore dei Neanderthal, in Africa, più o meno 400mila anni fa. Una specie fra l´altro particolarmente intraprendente, che deve averne fatta di strada. Gli studiosi hanno provato infatti a ripetere l´operazione Neanderthal per scoprire a che tipo umano i Denisovan assomigliavano di più. Li hanno così confrontati con il Dna dei moderni abitanti di Sudafrica, Nigeria, Cina, Francia e Papua Nuova Guinea. Per scoprire che le tracce comuni si riscontravano, pensate un po´, proprio con le popolazioni melanesiane. Possibile? Ci sono volute ulteriori analisi incrociate, con altre popolazioni, per accertare che sì, dalla Siberia i nostri cari Denisovan si erano spostati fino agli antipodi.
Ma la loro migrazione non è certo l´unico mistero ancora da sciogliere. Gli studiosi sperano ora di ritrovare qualche altro frammento per riuscire quantomeno a ipotizzare l´aspetto dei nuovi cugini. Che aspetto avevano? Assomigliavano più a noi, si fa per dire, o ai più burberi neandertheliani? Per adesso dobbiamo accontentarci di quel frammento di dito e di quel dente. Che per lo meno fa ben sperare: è del giudizio.

l’Unità 24.12.10
Guarda le stelle, ti dirò chi sei
Osservando gli astri per ritrovare se stessi, per orientarsi e non sentirsi smarriti. Alcuni brani dal testo «Lo spettacolo cosmico», lezioni su come scrivere il cielo all’origine della contemplazione della volta celeste
di Franco Piperno


Quando attribuiamo una forma alle nuvole o ai crinali di lontane montagne o anche alle macchie di colore di un quadro di Klee, noi apprendiamo assegnando delle forme alle cose e i nomi, quelli veri, sono le parole che evocano queste forme. (...)
L’ordine introdotto nel cielo, attraverso l’arbitrio intersoggettivo di raggruppare le stelle in costellazioni, costituisce un paradigma o meglio un invariante antropologico della potenza cognitiva. Usiamo la similitudine per dare un nome a gruppi di stelle; e così dal caos indistinto emergono le costellazioni; ma la similitudine ha un esito che non è una descrizione fedele dell’oggetto ma solo una sua rappresentazione verosimile per costruire la quale l’arbitrio e la convenzione intersoggettiva sono dei residui irriducibili. A ben vedere, questo non accade solo nella osservazione e nello studio del cielo; in molti ambiti conoscitivi noi pensiamo per similitudini. (...)
In realtà quel che facciamo attribuendo a gruppi di stelle le figure delle costellazioni è scrivere sul cielo, cioè usare la lingua come parola scritta.
La lingua è il veicolo della comunicazione. Gli avvenimenti significativi, quelli che emozionano, sono riportati da bocca in bocca. Una volta, in altri tempi, i viaggiatori erano importanti perché, attraverso i resoconti, tessevano nuovi legami tra i popoli. (...)
Attribuendo dei nomi-figure a gruppi di stelle, noi informiamo il cosmo, nel senso di dargli una forma. Del resto, il significato originario del termine latino «informare» è quello di «modellare», «dar forma», «dare l’immagine»; mentre il significato metaforico corrisponde a «modellare nella mente», «darsi una rappresentazione mentale»; ciò equivale ad affermare che la parola «informazione» può essere capita solo all’interno della coppia terminologica «forma e materia».
Le costellazioni sono raggruppamenti arbitrari di stelle ai quali viene assegnata per similitudine una forma, una struttura, un’immagine. Questa immagine può riferirsi alla forma di qualsiasi oggetto o evento percepibile dai sensi e capace di assumere una configurazione riconoscibile dal locutore. Dare i nomi alle costellazioni vuol dire assegnare loro delle forme. Le forme possono essere percepite, capite e anche pensate. Ma esse non sono meri atti di pensiero; piuttosto ciò che è conosciuto mediante l’atto di pensiero, è ciò che il pensiero pensa, ciò che è comunemente pensabile, nel senso che due diverse persone possono avere in comune lo stesso pensiero. Le costellazioni fanno lievitare il cielo, rendendolo il racconto dei gesti degli antichi Dei, degli atti di culti dispersi, della ferina bellezza degli animali. Già in età arcaica, il giovane greco colto che guarda il cielo notturno, lo legge come fosse un fumetto che narra luoghi fondativi della sua vita quotidiana. Le costellazioni sono geroglifici della lingua astronomica; sono la sovrapposizione di forme linguistiche a forme che linguistiche non sono. Va da sé che è proprio della natura del pensiero linguistico – articolato dalla lingua – di cercare quegli aspetti, nelle enormi varietà naturali, che presentano similitudini con i nomi: noi inseguiamo le forme nella natura e, naturalmente, riusciamo ad afferrarle.(...)
Così, riempire d’immagini il cielo, cioè appunto contemplarlo, ci aiuta a essere noi stessi; ovvero possedere una propria identità quel tanto che basta per divenire altro. Va da sé che possiamo osservare il declinare del Sole o il cangiare delle fasi lunari o il ruotare, divino e indifferente, delle stelle sulla volta celeste – possiamo guardare questi fenomeni senza conoscerli e provare piacere sensuale nel farlo.
DIVINA VOLUPTAS
Ma una dimestichezza anche distratta con il cielo, ad esempio riconoscere le costellazioni più grandi, le stelle più brillanti, i pianeti, moltiplica la potenza della gratificazione fino a farla trapassare in divina voluptas, piacere intriso di sacralità.
Così, è assai intrigante riguardare le stelle, angeli annunciatori delle stagioni, scandire il miglior tempo della nostra vita col loro sorgere e tramontare, impassibile e puntuale; o anche seguire le loro traiettorie giorno dopo giorno, per un mese o forse più – e verificarne personalmente la rara regolarità, talmente rara da essere ancor oggi più affidabile di qualsiasi altro fenomeno ripetitivo di cui abbiamo esperienza sulla Terra. Inoltre, se si conosce il cielo non ci si perde facilmente. Le stelle ci indicano tanto il tempo quanto la direzione per terra, mare e cielo – e questo può tornare utile in qualche circostanza, quando abbiamo bisogno di capire il dove e il quando della nostra posizione sul pianeta, cioè quando abbiamo bisogno d’orientarci perché ci siamo smarriti.
Infine, in questa era spaziale, se a uno dei nostri quattro lettori capiterà d’avventurarsi nel sistema solare, laddove non v’è più alcun riferimento terrestre, le stelle saranno le uniche frecce indicatrici, l’ultime tracce di dimestichezza con il cosmo acquisita sulla Terra.

l’Unità 24.12.10
Parla Stefano Rulli
Chi teme il cinema italiano?
Centoautori: il governo accontenta le major e cambia in corsa il decreto «Milleproroghe»
di Gabriella Gallozzi


Certo che devono esserci state pressioni forti all’ultimo momento. Tanto ormai in Italia può succedere di tutto. La cosa incredibile è l’inaffidabilità di questo governo. Si nascondono uno dietro l’altro, Bondi, Tremonti...La cultura non si mangia dice il ministro, ma in questo modo se la sta mangiando lui». Così Stefano Rulli, presidente dell’Associazione Centoautori, all’indomani del colpo di grazia inferto dal decreto «milleproroghe» al mondo del cinema e della cultura. Ieri, infatti, è stato il giorno della rabbia e dello sconcerto, delle conferenze stampa e di una nuova assemblea del movimento «Tutti a casa».
Nonostante le reiterate «rassicurazioni» di Bondi, infatti, l’altra sera il Consiglio dei ministri ha fatto calare la sua mannaia: nessun reintegro del Fus che resta alla cifra ridicola di 258milioni di euro. E il rinnovo delle agevolazioni fiscali per il cinema (tax credit) soltanto per i prossimi sei mesi. E il tutto circondato da una sorta di giallo.
Non vi aspettavate una decisione del genere? «Assolutamente no. Le carte in tavola sono cambiate nelle ultime due ore. Fin lì era tutto deciso. Ed ormai era trapelata la notizia. L’accordo raggiunto prevedeva l’aumento di un euro sul prezzo dei biglietti in sala per permettere così il reintegro del Fus e la proroga del tax credit per i prossimi tre anni. Invece, all’ultimo è saltato tutto». Cosa pensate sia successo? «Io non faccio l’investigatore, ma è evidente che devono esserci state pressioni molto forti per bloccare il cinema italiano. È dagli anni Ottanta che il nostro cinema non ricopriva una quota di mercato così forte. Nonostante la crisi, infatti, siamo arrivati al 30%. Evidentemente questo dà fastidio agli americani, alle major che abitualmente hanno la meglio sul mercato. A questo punto è legittimo chiedersi anche come si siano mossi gli esercenti e le grandi distribuzioni. Quello che resta evidente è come il governo sia incapace di difendere il nostro cinema».
E la questione tax credit?
«Pure questo è gravissimo. Prorogare le agevolazioni fiscali per soli sei mesi è equivalente al nulla. Un film richiede molto tempo e nessuno si avventura di fronte all’incertezza. Per questo avevamo avanzato la richiesta di una proroga almeno di tre anni».
Cosa pensate di fare ora?
«Innanzi tutto chiedere nuovamente le dimissioni di Bondi. Stavolta, finalmente, c’è una mozione di sfiducia in parlamento e noi faremo di tutto per appoggiarla. Questo è il primo obiettivo. Come si fa a far gestire cinema e cultura a chi non ne sa nulla? A chi è completamente inaffidabile? Bondi è il ministro che ci accusò di fare battaglie strumentali nei giorni dell’occupazione del red carpet al festival di Roma. Ci disse: «ma come,a che serve la protesta vi garantisco che è tutto a posto». Promise il reintegro del Fus e la proroga delle agevolazioni fiscali. E questo è il risultato. Ripeto, la cosa più grave è l’inaffidabilità del governo. Come si fa a trattare con chi è inaffidabile?»
Quindi, primo passo le dimissioni di Bondi e poi? «Poi le nostre richieste sono quelle di sempre. A partire dalla tassa di scopo su chi utilizza il cinema da poter reinvestire nel cinema. Come da sempre avviene in Francia. La telefonia, le piattaforme digitali, i new media. Che il cinema venga finanziato da chi ci fa i soldi. Il fatto è che si tratta di lobby molto potenti e la nostra politica non si vuole assumere nessuna responsabilità. Allora si decida, altrimenti deve essere lo stato a finanziare la cultura. Una cosa è certa: non si può più andare avanti con l’elemosina. Ma soprattutto bisogna restare tutti uniti, il fronte dell’audiovisivo deve rimanere compatto».
Sembra che gli interessi dell’intero settore, infatti, non coincidano completamente... «Certamente, spesso anche coi produttori è così. Ma il fronte non deve spaccarsi. Il punto di partenza è l’unità. L’unità dell’intero settore audiovisivo che impegna 250mila lavoratori, ormai a richio totale. In questo senso l’obiettivo deve essere comune, non possono esserci divisioni. Proprio per questo stasera ieri sera n.d.r. è stata indetta una nuova assemblea di tutto il movimento per decidere tutti insieme le nuove iniziative di lotta».


La Stampa 24.12.10
Lirica, così si chiude
di Alberto Mattioli

qui
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8228&ID_sezione=&sezione=

Corriere della Sera 24.12.10
Colosseo
Da Benedetto XIV a Wojtyla Così la Chiesa si è «appropriata» del monumento dei pagani
di Luciano Canfora


Beda il Venerabile, il santo degli Angli e autore, al principio dell’VIII secolo della Historia Anglorum ebbe a scrivere la celebre profezia: «Quando il Colosseo crollerà, crollerà anche Roma. Quando Roma crollerà, crollerà anche il mondo» . Ma nel Cinquecento, nel pieno del rinnovato zelo dovuto alla Controriforma, il papa Pio V, che regnò pochi anni fino al 1572, progettò la distruzione del Colosseo in quanto gigantesca traccia del paganesimo. Lo scempio non avvenne, e nel 1744 un altro Papa, Benedetto XIV, pose fine alla lenta decadenza del monumento consacrandolo alla memoria dei martiri cristiani che vi avevano perso la vita gettati «ad bestias» ; e anzi inserì la sosta presso il Colosseo tra le tappe della «via Crucis» del rito pasquale. Anche questo è un bell’esempio di come la Chiesa sia talvolta riuscita, in questo ed altri campi, a «salvare» il passato pagano incorporandolo nella propria visione del mondo. Così creò, salvandolo, il «monumento negativo» , un monumento della nefandezza di un passato da non dimenticare. Ciò ha reso talvolta fruibile quel monumento anche per una immediata allusività politica. Nell’aprile del 2003, il Papa allora regnante, Giovanni Paolo II, già malconcio nella salute, proprio nella sosta della «via Crucis» al Colosseo, tuonò contro l’aggressione americana all’Iraq, additando il Colosseo e pronunciando le parole rigorosamente censurate da tutta la libera stampa italiana: «Anche l’impero di Roma fu grande, ma infine crollò!» . Il Colosseo simboleggiava, in tal modo, il destino riservato ai sopraffattori. Ma non erano stati soltanto i protagonisti cristiani coraggiosamente impegnati in atti di «disobbedienza civile» a perdere la vita nell’arena insanguinata del Colosseo. Migliaia di gladiatori, nel lunghissimo tempo in cui quell’orrendo edificio fu attivo, persero la vita massacrandosi a vicenda per divertire «il popolo romano» . Fu Vespasiano l’ideatore di quell’anfiteatro, la cui costruzione fu terminata sotto Tito, «delizia del genere umano» secondo i suoi adulatori, nell’ 80 d. C. Tito, già distruttore del tempio di Gerusalemme e massacratore degli ebrei, promosse una grandiosa inaugurazione del Colosseo (probabilmente così chiamato per la vicinanza ad una colossale statua di Nerone). L’inaugurazione durò 100 giorni, con giochi e combattimenti nel corso dei quali furono uccisi circa 5000 animali (leoni eccetera). È sintomatico che si sia serbata memoria degli animali uccisi ma non degli esseri umani. Un poeta servile, Marziale, compose per l’occasione epigrammi su epigrammi raccolti nel libretto intitolato «De spectaculis» . Il «popolo di Roma» , in larga misura plebe urbana parassitaria ma politicamente importante, godeva di questo genere di carneficine. E il potere assecondava questo voyeurismo sanguinario perché consapevole dell’importanza politica dell’assecondare, conquistandone l’animo, quella plebe urbana. Traiano, che presso i posteri è stato gratificato di ammirazione sia pagana che cristiana, curò moltissimo questo aspetto del potere (Dione Cassio 68, 15). L’eccitazione del pubblico per questi spettacoli è resa bene da un passo del Satyricon di Petronio (anfiteatri e duelli gladiatori c’erano già prima del Colosseo): «Fra giorni avremo un bellissimo spettacolo: una lotta, ma non di gladiatori professionisti … Parteciperanno le migliori spade, con il divieto di ritirarsi: la carneficina avverrà nel bel mezzo, al cospetto dell’intero anfiteatro!» (capitolo 45). In regimi nei quali si determina una perfetta sintonia tra potere e plebe in delirio sulla base di una comune bassezza morale i due protagonisti si alimentano e si motivano a vicenda. Domiziano nutriva una passione divorante per i giochi gladiatori e in ispecie per la fazione blu del circo. Fece gettare ai cani uno spettatore che, secondo lui, aveva offeso i gladiatori mirmilloni. Tito prediligeva invece i gladiatori di tipo trace. Un potere di tipo carismatico-plebeo corrompe tutto: anche le vittime. Il gladiatore che sa di essere prediletto dal pubblico, o addirittura dall’imperatore, finisce, assurdamente, col compiacersi del suo ruolo. E sarà ferocissimo nel duello contro l’infelice suo pari che si troverà davanti, perché così rafforzerà e ribadirà il proprio prestigio agli occhi dei carnefici. Spartaco, al tempo suo, 150 anni prima di Tito, dovette faticare per destare la coscienza dei compagni di sventura ormai catturati da quell’infernale meccanismo di asservimento mentale e di emulazione mal riposta. Spartaco e i suoi tennero in scacco Roma per tre anni: una enormità, se si considera la sproporzione delle forze e l’ostilità non solo dei signori ma anche del «popolo di Roma» contro i ribelli. Dopo la loro sconfitta, ribellioni di schiavi non ce ne furono per secoli. È un precedente istruttivo. Però, più dura la bonaccia e più aspro è il secondo tempo.

Corriere della Sera 24.12.10
Francesi troppo soli, è l’ora della Fraternité
Il primo ministro Fillon annuncia la nuova «grande causa nazionale» per il 2011
di Lorenzo Cremonesi


La Francia sul sentiero di guerra contro la solitudine. Basta agli anziani dimenticati, basta alla madre abbandonata sulla strada con i figli dopo che il compagno l’ha messa alla porta, ai padri soli, ai bambini che non sanno che fare dopo la scuola perché la casa è vuota. «Non più solitudine nella Francia della fraternità» , è lo slogan con cui il premier François Fillon ha annunciato la nuova «grande causa nazionale» per il 2011, che si sostituisce a quella per la «difesa delle donne maltrattate» di quest’anno. È il trionfo dello Stato etico hegeliano contro l’individualismo liberale. La crisi mondiale mette ovunque in discussione il laissez faire. In Inghilterra, la patria di Hobbes, persino il Tory David Cameron un mese fa ha trasformato la questione della felicità in un affare di Stato. La Francia va più lontano, non a caso è il Paese di tradizione stato-centrica per antonomasia dell’Europa occidentale. E fornisce una risposta fortemente mobilitante a un problema che si sta via via trasformando da spia di malesseri individuali a profonda piaga sociale. I francesi se ne accorsero con affranto stupore durante l’ondata di caldo eccezionale dell’agosto 2003. Fu l’incredibile numero di morti soli, per lo più anziani abbandonati nelle loro abitazioni, dimenticati da famiglie e amici in vacanza, a fare scattare l’allarme: le nostre società opulente sono minate al cuore dal dramma della solitudine. Allora si registrarono oltre 11.400 decessi in più rispetto all’anno precedente. Un problema non solo francese. Secondo la Comunità di Sant’Egidio, in Italia i morti nel 2003 superarono di oltre 8.000 quelli dell’anno prima, in Spagna di 6.500. Pare che il dato europeo degli oltre 65enni periti in solitudine superasse allora quota 30.000 rispetto al 2002. Si parlò a Parigi di «epidemia della solitudine» , di «ecatombe degli invisibili» . Morti e lasciati a decomporsi negli appartamenti vuoti. Cittadini diventati ombre, vite che hanno perso identità e ricordo. Fillon si è appoggiato alle maggiori organizzazioni umanitarie nazionali per lanciare il proprio appello. Al suo fianco sono mobilitati i volontari della cattolica Soc i é t é d e S a i n t -V i n -cent-de-Paul (Ssvp), nota in particolare per gli interventi di sostegno agli anziani, assieme ad altre 24 associazioni come Secours Catholique, Secours Populaire, l’Armée du Salut, l’Ordine di Malta. Ma si ritrovano anche gruppi laici quali le Banques Alimentaires. I dati forniti ai media sono più che inquietanti. Secondo il quotidiano cattolico «La Croix» , il 78 per cento dei francesi ha la netta impressione che il sentimento della solitudine sia in aumento. Una realtà non scelta, ma sempre più vissuta con disagio e sofferenza. La Ssvp ha diffuso i risultati di un recente sondaggio per cui il 30 per cento dei francesi si sente solo, atomizzato, privo di legami. E non soltanto gli anziani, ma un numero crescente di persone tra i quaranta e cinquant’anni, specie i disoccupati, malati e chi ha perso da poco i genitori. Molte le donne divorziate o separate in età compresa tra 35 e 49 anni. Va peggio nei grandi agglomerati urbani come Parigi, Lione e Marsiglia, dove il senso d’isolamento colpisce il 45 percento degli abitanti. Vale per ricchi e poveri. Sostiene Bruno Dardelet, presidente della Ssvp: «La solitudine ormai non ha età né classe sociale. Oggi per combatterla occorre ridare dignità alla solidarietà» .

Corriere della Sera 24.12.10
Da Chagall a Fellini, l’immaginazione come conoscenza
di Marco Garzonio


I sogni aiutano a capire il presente e ad immaginare il futuro. Basta prestare loro attenzione. Ma non tutte le epoche riconoscono il valore dell’irrazionale e il coraggio di affidarsi alla fantasia traducendo l’ispirarsi alle immagini oniriche anche in suggerimenti per l’agire pratico. Si va da momenti in cui progetti vengono annunciati nel nome di un sogno (vedi Kandinsky, padre dell’astrattismo: «Ogni opera nasce dall’inconscio» , o l’ «I have a dream» di Martin Luther King) a tempi nei quali invece individuo e sociale optano per riferimenti sicuri; temendo ciò che è nuovo o diverso, si pongono sulla difensiva, non levano lo sguardo oltre l’uscio di casa preoccupati di preservare le conquiste acquisite. Si può dire che da sempre compagna della vita è un’oscillazione fra due tendenze della psiche: una che punta su utilità e immediatezza e ha bisogno del controllo d’una coscienza che tende a irrigidirsi e finisce per essere un po’ persecutoria; l’altra curiosa del nuovo, fiduciosa in quel che viene, disponibile ad aprirsi anche al mistero e all’ignoto. La mostra «Teatro del sogno, da Chagall a Fellini» , in corso a Perugia sino al 9 gennaio 2011, ha un significato che va oltre l’evento, in quanto entra nel vivo della dialettica tra propensione raziocinante/conservativa e aspirazione a traguardare gli orizzonti. Rappresenta uno sprone importante a prendere sul serio i sogni. A partire dal titolo, che contrasta i luoghi comuni, secondo cui il sogno sarebbe esperienza privata, elusiva, rifugio di desideri improbabili e di conflitti celati, immagini che si dissolvono al risveglio, lasciando magari l’amaro in bocca o il senso frustrante dell’evanescenza quando si torna a ciò che per la mentalità corrente conta: la concretezza del quotidiano. Ricorrendo al teatro, invece, si evocano le funzioni della dinamica drammaturgica, si mettono in luce conflitti interni ed esterni al sognatore e il suo ruolo, si aiuta la trasformazione interiore del soggetto, che nel racconto dell’avventura onirica si confessa (con effetti catartici), e di chi ascolta la narrazione del sogno. Col dialogo tra le parti e lo scambio di vissuti la coscienza comune cresce: lo sa chi frequenta teatri. Un’idea del ruolo responsabilizzante del sogno viene da Jung che per primo applicò alla scena onirica la metafora drammaturgica e scrisse nel 1916: «Chi sogna è scena, attore, suggeritore, regista, autore, pubblico e critico insieme» . E il freudiano Fausto Petrella in anni più recenti ha potuto teorizzare la «mente come teatro» . È un percorso naturale il confronto che la mostra fa con il «secolo sognatore» , quel Novecento che si inaugura con L’interpretazione dei sogni di Freud e sviluppa nel pensiero, nelle arti, nella letteratura l’affrancamento dalla visione positivista e dalla ripetitività dei linguaggi, sovvertendo modelli sperimentati. Le avanguardie che spalancano le porte all’irruzione dei contenuti inconsci e cercano forme originali in cui plasmarli sono poi anche alimento e riflesso di utopie e «grandi sogni» collettivi, fra rivoluzioni, palingenesi sociali, tragedie. Anche le parole non sono più sufficienti a star dietro ai sogni; l’avanguardia stessa diventa «neo» , poi «trans» e altro ancora. Lo si vede nelle opere esposte a Perugia, che sarebbero potute essere più rappresentative nella scelta, ma che comunque offrono l’esempio di autori che si sono misurati con le atmosfere dell’inconscio: Chagall, innanzi tutto; poi, tra gli altri, Boccioni, Böcklin, Dalí, de Chirico, Ernst, Klee, Klinger, Magritte, Miró, Nomellini, Previati; per arrivare a Chia, Paladino, Schnabel, Salle. Il cinema, a sua volta, offre in mostra i riferimenti a Buñuel, Beckett, Hitchcock e in particolare a Fellini, di cui scorre un corto che monta straordinarie sequenze d’antologia. Per suggestioni più che per argomentazioni esplicite il «Teatro del sogno» segnala un’inversione di rotta nel panorama di un diffuso sentire civile povero, ripiegato, senza slanci. Da Perugia cioè esce una forte spinta a mollare i particolarismi, a volare alto, rivalutare fantasia e universo immaginale, a un pensare per simboli aggreganti che può riconciliare l’individuo con se stesso e rendere solidali gli uomini tra loro. Conferma di un possibile nuovo corso viene da Pisa, dove, sino al 23 gennaio, si tiene un’altra mostra di grande suggestione: «Joan Mirò. I miti del Mediterraneo» che andrebbe visitata insieme a quella perugina. Dalle opere e dalle frasi murali che le accompagnano spicca l’idea che Miró ha della ricerca artistica come «opera aperta» . Anche il sogno è così: nessuna interpretazione può esaurirne i significati. E il quadro— le parole di Miró suonano epigrafe per entrambe le realtà— «deve fecondare l’immaginazione».

Corriere della Sera 24.12.10
Chi pretende di dare certezze sul futuro è «un assassino»
di Guido Ceronetti


C hi pretende gli sia data «certezza di futuro» o di «un futuro» , e la voglia dallo Stato — futuro pronto, ben confezionato, addirittura preconfezionato e personalizzato— certamente non dimostra che un poco di pensiero lo abiti. Un vertice d’imbecillità è proprio del politico d’opposizione che rimprovera un governo di «non pensare al futuro dei giovani» , e del politico al potere che replica al rimprovero con la formula di uguale forza che, al contrario, non fa che pensare «al futuro dei giovani» o perché «i giovani abbiano un futuro certo» . Sono manette mentali. Si può dire che è giovane chiunque preservi la sua mente dalle manette e non ponga limiti all’inevitabile, necessaria, nobile, liberatrice incertezza del futuro. I venditori di futuri sono anime vendute. L’uomo pensa, altro non ha che il pensare — non al futuro, ma a Ciò-che-è. Ci sarebbe moltissimo da fare ripulendo le Napoli del linguaggio dai sacchi di materia guasta che si buttano per le vie della parola (e là rimangono) e diffondono colera e diossina ogni giorno. A volte mi stupisco: possibile, è appena uscito dall’infanzia e già in quella mente si sono ammucchiate tante immondizie da impedire alla mente di pensare! Lamento dell’incertezza di futuro: uguale città, cittadella mentale invasa dai rifiuti. I luoghi comuni non sono innocue scempiaggini senza senso. Sono banditi assetati di sangue, nemici osceni, maschere smorte, vampiri. Guardarsi da questo popolo dell’ombra. Qualunque cosa sia per essere, senza essersi ancora manifestata, è schiumare d’ombre. Stralcio due osservazioni fondamentali dal meraviglioso, inesauribile libro La filosofia degli assassini di Colin Wilson (Longanesi, 1972): «L’Occidente ha raggiunto da oltre cent’anni la società opulenta, e non è mai stato più chiaro d’oggi che l’uomo non è un essere che possa accontentarsi di benessere e comodità» . All’inizio dell’ultimo capitolo ricorda il concetto fondamentale di Maslow: «La natura dell’uomo ha dei piani superiori ai quali innalzarsi» . So ancora a memoria la conclusione del libro: «Privato dei significati che oltrepassano la sua esistenza quotidiana, l’uomo si riempie di disgusto e di livore, e in qualche caso passa alla violenza. E una società che non sappia aprire vie di sfogo alle passioni ideali degli uomini chiede di essere ridotta in macerie dalla violenza» . La frustrazione dei giovani di questo oltreduemila che si annuncia violentissimo, e prodigiosamente insaziabile da comodità, benessere e lotterie, ha qui le sue radici. Nessuna università al mondo mi sembra in grado di poter comprendere una verità così semplice; così povera da non essere neppure discutibile. In grado di comprendere che dai binari dove corrono le locomotive dell’Alta Velocità verso il ponte crollato dove confluiscono, non arrivano voci che avvertano che fin dalla stazione anteriore alla partenza il binario era sbagliato. Fin dal 1968 le rivolte e le proteste sono e saranno segnate da una oscura barbarie, per ignoranza del fine del contendere: perché volere le stesse cose che il sistema terno-industriale e la società dei consumi propongono è attrazione verso il proprio futuro male. Non c’è incertezza del futuro: c’è sciaguratamente la certezza che un altro futuro non sia neppure concepibile, sia di qua che di là dalle zone dove i cortei vanno a cozzare perché fondamentalmente, ancora una volta incapaci di comprendere che dall’altra parte degli scudi alzati c’è uno smarrimento anche maggiore (non solo da noi, ma dovunque) — ma se gli offriamo proprio le stesse cose che pretendono! —. Nel pensiero dominante non ci sono smagliature: l’opposizione legalitaria sostiene con un conformismo delirante. E’ ridicolo quel che offrite! Noi gli daremo il doppio, il triplo, la certezza dalla nascita alla pensione, della casa, eccetera... Non c’è analista politico che, sia pure senza pompa, con un secchiello di buon senso illuminato, versi altro che benzina in questi cori di demenze incrociate. Che gli sussurri la parola di Maslow: «L’uomo ha dei piani superiori ai quali innalzarsi» . Smaniosi di salire dietro a quella locomotiva, ne seguirete il destino. Ma la greca infallibile Némesis, chi ha studiato un po’, se l’è proprio scordata? E’ sempre viva. E’ sempre là. Se gli occhi si aprissero sarebbe visibile dappertutto.

Repubblica 24.12.10
Giotto, Leonardo e Tiziano I quadri che educano il mondo
Gli italiani li fanno meglio
d Marc Fumaroli


Grazie a un saggio di Paul Veyne ora la Francia celebra il canone dei moderni maestri del colore
Malraux aveva creato il Corano estetico che escludeva questi nomi: ora invece si capisce quanto siano decisivi
La somiglianza di queste immagini con il reale serve da esca per far percepire allo spettatore la diversità con le cose ordinarie

Con Peter Brown e Glen Bowersock, Paul Veyne è oggi uno degli storici più penetranti dell´antichità greco-romana. E ciò dovrebbe bastare per includerlo nel Patrimonio culturale di Francia. Ma si dà il caso che in un´epoca in cui il francese letterario è tuttora largamente intriso di mistificanti pedanterie, la scrittura di questo grande studioso – caso raro nella nostra prosa – incanta l´intelligenza di primo acchito, senza mai cercare di intimidirla.
Veyne ci ha insegnato a leggere, da Catullo a Properzio, l´elegia romana. In una summa memorabile, ci ha illustrato quello che per cinque secoli è stato l´Impero romano, capolavoro di politica e di cultura senza rivali, che per rinascere dopo il suo smantellamento in Occidente ha impiegato ben otto secoli (...). Ma solo di rado si è occupato dell´arte antica, e mai finora di quella cristiana. Nel suo ultimo libro, Il mio museo immaginario o i capolavori della pittura italiana, Veyne ci ha sorpreso, gratificandoci – e vendicandoci – su un territorio del tutto inatteso.
Ci ha vendicati dell´interminabile dissertazione di Malraux sull´"Arte occidentale", divenuta il Corano estetico del politicamente corretto per il giornalismo e gli enti culturali, in Francia come altrove. Il Museo immaginario di André Malraux divide la storia dell´arte in tre fasi: 1."Il Sacro"; 2."L´Irreale"; 3."L´atemporale". Eccellente, fondamentale il Sacro, da Lascaux a Bisanzio! Sublime, rivoluzionario l´Atemporale, da Manet a Rothko! Mentre tutto il periodo intermedio – tranne Rembradt e Goya – non sarebbe altro che un deplorevole tunnel: imitazione delle apparenze, trompe l´oeil, adulazione, accademia! Disastrosi errori spacciati per meraviglie nel corso di una parentesi di cinque secoli, da Giotto a Tiepolo, venuti dall´Italia a ingombrare i nostri musei! Chi mai osa metterlo in dubbio?
Veyne respinge questa visione magniloquente e sciatta, puntando direttamente al periodo intermedio snobbato da Malraux, senza ingolfarsi negli altri due; e parla con fervore delle diverse "epidemie del genio italiano" alle quali, per emulazione, l´Europa delle arti deve quanto di meglio ha saputo produrre fino al XIX secolo, e persino oltre. Cosa sarebbe Ribera senza il Caravaggio, Rubens senza il Tiziano, lo stesso Velasquez senza Tiziano e Rubens? Cosa sarebbe la pittura francese senza l´Accademia di Francia a Roma, dove Poussin, David e Ingres giunsero alla loro maturazione? Veyne non nega l´originalità quasi miracolosa dei miniaturisti e dei pittori fiamminghi del XV secolo, ma la fa intravedere attraverso l´arte di Antonello da Messina, geniale mediatore tra Bruges e Venezia.
Tocqueville vedeva nella genericità delle idee una terribile tara dello spirito democratico. Paul Veyne è irritato dalla genericità di quelle di André Malraux, trasformato in ventriloquo della vulgata modernista, e quindi in profeta dell´arte postmoderna o "contemporanea". E ha il coraggio di non vergognarsi dell´arte italiana, di non voltare le spalle alla felicità così generosamente profusa, in forme diverse, dai suoi pittori e dai loro capolavori più spesso citati. Il suo è il gusto di Stendhal, di Taine, di Proust, ma anche quello di due storici dell´arte volentieri citati da Veyne (che non solo ha visto ma ha anche letto moltissimo): Roberto Longhi e André Chastel. Perché privarsi della bellezza soltanto perché è stata tanto ammirata, o perché rappresenta il reale in una luce che non ispira disgusto? Tanto varrebbe imporsi di essere masochisti o feticisti, per conformismo o per posa. Paul Veyne non se lo impone. La sua personale Tribuna degli Uffizi è anche una rivalsa contro i burocrati della cultura, che accettano di conservare i capolavori dell´arte classica solo per confinarli in un ruolo di spalla, mettendo in evidenza l´accozzaglia del "contemporaneo".
Oggi che l´educazione della sensibilità e dello sguardo è nelle mani dei precettori del "sempre più brutale", nella comunicazione come nei videogiochi, non è invece opportuno, come ha fatto Veyne, liberare l´appetito per tutto ciò che è grande, nobile, delicato, squisito, incantevole, misterioso, sorridente – in breve, per tutti i sapori civilizzati e civilizzanti di cui i pittori italiani hanno sparso la cornucopia, e continuano a spargerla sul mondo? Troppe volte tra noi l´esultanza è stata respinta o raggirata. Al Louvre guardiamo con condiscendenza la ressa dei visitatori giapponesi davanti alla Gioconda, la devozione con cui salutano il sorriso di illuminata che aleggia sulle sue labbra. Non hanno nulla da invidiare all´estasi prefabbricata davanti agli scarabocchi pseudo-rimbaldiani del fascinoso Basquiat. I geni inventano luoghi comuni inesauribili; mentre le mezze tacche si caratterizzano per l´accanimento con cui cercano di prenderne le distanze, per poi precipitarsi in massa a sguazzare nei più vieti stereotipi.
Paul Veyne presenta la sua bella raccolta di riproduzioni con commenti brevi e succulenti, in cui regnano il buon senso, che è la salute del gusto, e la naturalezza di un´epoca alta, di cui Pascal ha fornito la chiave nella sua Art de conférer: «Nulla è più comune delle cose buone. Si tratta solo di discernerle, ed è certo che esse sono affatto naturali e conosciute da tutti. Ma non si sa distinguerle. E ciò è universale. Non è nelle cose straordinarie e bizzarre di qualsivoglia genere che si trova l´eccellenza. Chi si eleva per raggiungerla se ne allontana. Il più delle volte ciò che si deve fare è abbassarsi. I libri migliori sono quelli di cui il lettore crede che avrebbe potuto scriverli. La natura, che sola è buona, è del tutto familiare e comune».
Chiaramente Paul Veyne, grande lettore della Poetica di Aristotele e di quella di Orazio, vede la rinascita della pittura e della scultura nell´Italia del XII secolo come un ricongiungimento con le immagini dell´Antichità, con i diversi effetti di "dolcezza" e "utilità" che da esse dovevano derivare. Sia che illustrino la storia e i miti cristiani come in Giotto, Masaccio, Carpaccio (e benché ammetta di non riuscire a "mandar giù" il cristianesimo, Veyne le racconta qui con la scienza di un catechista eccellente), sia che riprendano i miti e i racconti dell´antichità (da Pollaiuolo a Tiepolo), i soggetti sono per l´artista un´occasione per far assaporare quanto vi è di più degno, di più dolce, di più grave, di più incantevole nella vita e negli atteggiamenti umani.
La somiglianza di queste immagini artistiche con il reale, di cui lo spettatore ha l´esperienza diretta, non è altro che un´esca per attirarlo e fargli percepire la differenza tra quanto poveramente ha potuto vedere nell´ordinario, e le prelibatezze nascoste che l´arte sa rivelare. Per ciascuno di questi quadri, riprodotti con tanta frequenza che tendiamo a crederli ormai svuotati di emozione e di senso, Veyne ripercorre il cammino a ritroso, diverso caso per caso, risalendo dalla rappresentazione al mondo reale, alla sua riscoperta sensibile e poetica grazie alla rivelazione suscitata dal pittore sul suo schermo di luce o di chiaroscuro.
Pur senza averne l´intenzione, Paul Veyne, storico dell´Impero, ci convince che è stata proprio la vista dei bassorilievi e delle statue antiche a ridestare negli artisti cristiani dell´Italia dantesca l´incantamento davanti alla dignità umana, all´autorità morale e allo splendore fisico dei volti e dei corpi. E non è lontano dal persuaderci, altrettanto involontariamente, che il cattolicesimo italiano con i suoi artisti, una volta ritrovato e rianimato il meraviglioso potere educativo delle immagini somiglianti, non si è precluso le corde dell´antica lira. I pittori italiani che riscopriamo grazie a questo ammirevole "livre d´heures" hanno inventato, alla luce dell´Incarnazione e della Risurrezione, solfeggi e melodie capaci di rinnovare profondamente le nostra percezione del palcoscenico umano. Le loro immagini ispirate hanno inseguito, scavato, effuso la redenzione dell´uomo e del mondo inaugurata dal sorgere del Cristo nel tempo della Storia. Nel Museo immaginario di un esegeta onesto e penetrante come Paul Veyne, davanti al susseguirsi di capolavori così diversi tra loro, benché appartenenti alla stessa famiglia spirituale, vediamo la storia della pittura italiana come l´equivalente visivo della Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach: una Passione in cui compaiono il Doge Loredan di Giovanni Bellini, la Maddalena del Tiziano, e Santa Caterina da Siena del Tiepolo, ai Gesuati.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 24.12.10
In un saggio le radici ideologiche poco convenzionali del movimento
Quei pacifisti inglesi ricchi ed eccentrici
Tra i nomi più noti ci fu quello di Bertrand Russell: nella sua residenza di famiglia arrivavano i giovani per discutere tesi e opinioni molto radicali
di Stefano Malatesta


Il pacifismo inglese, quello di Bertrand Russell & c., è stato un fenomeno così isolano, britannicamente parlando, da essere inesportabile. Qualcosa di simile, ad un livello infinitamente più alto, alla guida a sinistra per le automobili e alla divisione sdegnosamente non decimale della moneta. È stato sempre difficile capire dove finisse l´autentico spirito umanitario, tradizionale nelle aree liberali del paese, e dove iniziasse la notoria ipocrisia della perfida Albione: un volgare luogo comune che trovava parecchi riscontri. I leader del movimento avevano un nobile aspetto e li potevi incontrare agli angoli dei parchi, in piedi su scranni, intenti a sfidare l´assolutismo del potere statale e a difendere i diritti civili e religiosi dei cittadini contro l´abuso del Leviatano. Ed erano sempre circondati da una piccola folla rispettosa, che era il segno, per noi che venivamo da fuori, abituati alle risse vocianti della politica nostrana, di una indiscussa superiorità del sistema inglese. Ma molti di loro appartenevano a una classe sociale che governava l´Inghilterra da sempre con la certezza di essere stata chiamata all´opra dallo spirito santo. E non si capiva chi contestava chi.
È uscito un esaustivo saggio che ricopre quest´area trascurata dagli storici continentali. S´intitola The Wishful Thinking. Storia del pacifismo inglese nell´Ottocento, pubblicato dalla Luiss University Press. L´autore è Giovanni Aldobrandini, un giovane e brillante storico bilingue, che ha insegnato alla Sapienza e alla Luiss. Il merito del saggio, forse troppo minuzioso nella sua completezza, è quello di non essersi arreso davanti alle contraddizioni, alle stravaganze e alle eccentricità britanniche. Ma di aver preso queste anomalie come chiave di lettura valida per tutta la storia inglese. I paradossi compaiono fin dall´inizio con il movimento per la pace che si rafforza non in presenza di guerre minacciose, ma in assenza. Verso la fine dell´Ottocento in Europa non si combatteva da ormai ottant´anni. E un giovanotto bellicoso e amante del rischio e dell´avventura come Winston Churchill, si lamentava che il periodo d´oro per conquistare la gloria sul campo di battaglia fosse finito da decenni. Ora per guadagnarsi anche una modesta medaglia bisognava imbarcarsi per luoghi remoti, andando a combattere i selvaggi, intesi come sikhs, maori, zulù e dervisci. Nessuno si ricordava più dell´atroce natura della guerra reale. L´immagine prevalente faceva riferimento all´aspetto più futile e spettacolare come le cariche di cavalleria, simile a quella suicida della Light Brigade a Balaclava in Crimea, conosciuta in Italia come la Carica dei Seicento. Il comandante della brigata, Lord Cardigan, un imbecille presuntuoso e criminale che aveva dato l´ordine di attaccare le postazioni russe per pura vanità mandando al massacro quasi tutti i suoi uomini, fu uno dei pochi sopravvissuti. E quando arrivò in Inghilterra venne accolto come un eroe dai portuali, diventati più imperialisti dei Lords tory. E Tennyson celebrò l´avvenimento con una poesia che tutti gli scolari inglesi hanno imparato a memoria. In questo clima i discorsi e le prese di posizione dei pacifisti sembravano rispettabili, ma eccessive, e come persi nell´utopia. Ma nessuno aveva dubbi sulla legittimità di inviare cannoniere in tutti luoghi dove la potenza anglosassone non fosse salutata con i dovuti riguardi.
Il leader più conosciuto del pacifismo inglese, Bertrand Russell, era un filosofo dalle sbalorditive capacità matematiche, che apparteneva a un grande, potente e aristocratico clan, con un primo ministro fra gli antenati, e un´infinità di parenti ben sistemati in alti e importanti posti governativi. Durante la sua giovinezza nei prati verdissimi e curatissimi della splendida residenza di famiglia, con i colonnati e tutto il resto, convenivano i giovani di tutto il paese a discutere non solo sul pacifismo ma anche sull´Irlanda o sull´Impero, partendo da un punto di vista radicale e anche libertario. Ma questa straordinaria libertà di pensiero, questa possibilità di esprimerlo senza preoccupazioni per il futuro, si doveva gran parte alle riserve e alla ricchezze accumulate dai Russell, che permettevano al leader pacifista di non attardarsi troppo su quello che succedeva in periferia.
Tutto questo cambiò totalmente con la prima guerra mondiale. La mattina del primo luglio 1916, centoventimila ragazzi inglesi uscirono dalle trincee andando all´attacco delle postazioni tedesche sulla Somme, fronte occidentale, bombardate per una settimana dal più grande lancio di obici che la storia ricordi. Ma i tedeschi si erano andati a rifugiare a cinquanta metri di profondità e pochi minuti dopo l´inizio dell´attacco risalirono in superficie senza un graffio portando con sé le letali mitragliatrici Maxim. Non fu una battaglia, fu un´esecuzione. Quel giorno quasi trentamila inglesi morirono e quarantamila rimasero feriti o mutilati, la più grande strage per gli anglosassoni dal tempo della grande peste nera del trecento. Lo shock fu immenso e qualcuno come Liddell Hart, il più famoso storico militare anglosassone, cominciò a pensare che la guerra non fosse più, come diceva Clausewitz, la continuazione della politica con altri mezzi, ma solo una carneficina che non lasciava né vinti né vincitori. E la ricerca della pace perdeva tutta la sua utopia e diventava l´unico mezzo concreto per evitare lo sterminio della specie.

Repubblica 24.12.10
Il rettore della Sapienza Frati: macché privilegi, mia moglie, mio figlio e mia figlia sono bravissimi...
"Assumo i miei parenti? Se lo meritano"
di Antonello Caporale


La moglie. Poi la figlia. Quindi, ma in extremis, il figlio. La famiglia di Luigi Frati, rettore della Sapienza di Roma, si ritrova all´università. Ognuno con i suoi pensieri e con le sue fatiche.
«E il merito, ahò il merito dove lo metti?».
Questo è giusto, c´è il merito.
«Non posso farci niente se Giacomo è tra i primi cinque, nella classifica dei vincitori di un concorso vecchio di due anni. La vergogna semmai è per gli altri. Giacomo mio figlio s´è fatto un culo come un pajolo».
Giacomo è bravissimo.
«Parliamo del punteggio? Lui ha 21. Artioli, per esempio, 14. Che ce posso fa?».
Rettore, le danno del barone al cubo.
«Num me frega nulla. Quello che voglio di´ è che nessuno della mia famiglia ha avuto ciò che non meritava».
Bisogna specificarlo bene, perché il nome di Frati...
«Ho mandato in pensione mia moglie, togliendole la collaborazione compensativa. Lo sa?».
Purtroppo contro di lei se ne dicono di tutti i colori.
«Forse perché sono vicino agli studenti? Forse perché giro senza auto blu, forse perché mi faccio un mazzo così?».
Il linguaggio crudo rivela comunque un vivido spirito del fare.
«D´Ubaldo parla di me come futuro sindaco di Roma. Ma io non tradisco, ho da completare il mandato di rettore».
Vuole bene all´università, e si vede. Anche il banchetto nuziale di sua figlia l´ha fatto tenere al campus.
«Fregnaccia, fregnaccia. Banchetto a Trevignano, rinfreschetto all´università. L´aranciatina, la coca cola. Un gesto di cortesia per gli amici e i colleghi. E ho pagato trecentomila lire, causale: matrimonio di mia figlia. E da lì è nata la fregnaccia».
Queste cose non si sanno, e si favoleggia.
«Forse sono odiato dai potenti forse, ma dagli studenti amatissimo»
Però è bellissimo avere i figli con questa carriera luminosa. Li avrà condotti per mano, e accuditi, sollecitati.
«Ma che stai a dì? (Certo, vedendo mamma e papà che pure alla domenica studiano, ti viene lo sghiribizzo di emularli)».
Complimenti.
«Ti dico: io sono figlio di un minatore, mi sono fatto un culo così».
Estrazione popolare, alterità evidente dal circuito del potere.
«La Gelmini forse ce l´ha con me. E però chiedo: e se Tizio, il professore Tizio ha l´amante Caio? La nuova legge vieta a Caio di divenire professore ordinario?».
Sua moglie insegna Storia della medicina ma non è medico.
«Embè? È storico».
Corretto.
«E mia figlia è laureata in Giurisprudenza e fa Medicina legale. Angeletti, e non lo dico io, è tra le più brave d´Italia».
Angeletti è sua moglie.
«Io ho 41 come indice».
Capperi.
«Scrivi che voi. Poi io leggo e decido se passare dall´avvocato».