sabato 4 novembre 2017

Corriere 4.11.17
«Ironie sulla sinistra nel nostro film»
Il Terzo Segreto di Satira, dal web al grande schermo con «Si muore tutti democristiani»
di Stefania Ulivi

ROMA Solo uno dei loro, Andrea Fadenti, è nato nello stesso anno del titolo del quotidiano Il manifesto che hanno preso in prestito per il loro lungometraggio d’esordio, passato ieri a Alice nella città per Panorama Italia. «Non moriremo democristiani» recitava a caratteri cubitali la prima pagina del giornale del 28 giugno 1983. E Si muore tutti democristiani risponde più di tre decenni dopo Il terzo segreto di Satira. Ovvero il collettivo milanese di videomaker — Davide Rossi (1988), Andrea Mazzarella (1986), Pietro Belfiore (1986), Davide Bonacina (1985) e appunto Andrea Fadenti —, insieme registi, sceneggiatori, montatori.
«Meglio fare le cose pulite con i soldi sporchi, o cose sporche con i soldi puliti?», è il dubbio che guida i tre protagonisti, gli amici Stefano (Marco Ripoldi), Fabrizio (Massimiliano Liozzi) e Enrico (Walter Leonardi), creativi ricchi di sogni e ideali ma a corto di guadagni. Con quelli ottenuti facendo i filmini ai matrimoni si finanziano i documentari a tema sociale con cui sperano un giorno di poter vivere. Fino a quando una proposta che non possono rifiutare (una serie di doc per la onlus Africando dal management piuttosto spregiudicato) ne mette in crisi le certezze. E anche l’amicizia. Involontari ma perfetti rappresentanti di una generazione costretta a rimandare scelte e gratificazioni. Che ancora rimpiange l’Erasmus concluso dieci anni prima, che vede vacillare le convinzioni ideologiche («Sono di sinistra perché sono andato al liceo. Avessi fatto l’Itis, magari sarei fascio e farei il tassista come mio cugino»).
Prodotto da Ibc con Raimovie, uscirà nelle sale in primavera. «La storia nasce da spunti autobiografici, ci era arrivata una proposta simile che ci aveva fatto discutere. Nella vita di tutti i giorni ti trovi spesso a dover conciliare i tuoi ideali con le durezze della vita». Nessun dubbio sulla strutta della commedia. «L’idea base era fare un film vero, che non fosse a sketch, per poter arrivare anche a un pubblico che non ci conosce», spiegano. Il loro pubblico li segue dal 2011, l’anno in cui hanno aperto il seguitissimo canale YouTube. Con il video «Il Favoloso mondo di Pisapie» sulle note di Nostalgia canaglia hanno fatto il botto, da allora si sono presi la briga di fare con feroce costanza le pulci alla sinistra con incursioni in tv ( Ballarò , Report , Piazzapulita ) e la serie «Biografie imbarazzanti». E i video: «Primarie senza frontiere», «Berlusconiani anonimi». L’ultimo in ordine di arrivo è «Il manuale di Gentiloni». Una satira la loro, rivolta più che ai politici agli elettori. E anche il democristiano del titolo di ideologico ha ben poco. Piuttosto un modo di essere, inconfessabile. «Si tende un po’ tutti a convergere verso il centro. È una fase della vita che prima poi arriva, non è detto che non si riesca a ribaltarla».
Una fase che Il terzo segreto esorcizza guardandosi allo specchio. E pescando, in compagnia di guest star , dal proprio pantheon: il sindacato (insieme a Paolo Rossi e Lucia Vasini), l’impegno per il G8 o per il volontariato (con Francesco Mandelli), l’informazione (con Lilli Gruber e Peter Gomez), la paternità consapevole (con Valentina Lodovini). E ironizzando anche su quella Milano di cui da anni raccontano, benissimo, i vizi e i vezzi.
Repubblica 4.11.17
Paolo Veronesi, presidente della Fondazione
“Con la comunicazione ricostruiamo la fiducia nel metodo scientifico”
di Fabrizio Filosa

Nell’epoca della post-verità chiunque, e non solo sul web, può permettersi di contestare dal basso della sua ignoranza anche incontrovertibili verità scientifiche. Che cosa può fare la scienza per fornire alle persone gli strumenti per distinguere verità e false notizie? Lo abbiamo chiesto a Paolo Veronesi, presidente della Fondazione Umberto Veronesi, alla vigilia della conferenza Science for Peace.
C’è un reale pericolo per la salute pubblica nell’era della post-verità? Per esempio il rifiuto di far vaccinare i bambini può causare epidemie?
«Non amo parlare di pericoli e di allarmi. Preferisco parlare di una realtà che cambia in fretta e con la quale dobbiamo imparare a confrontarci. Le informazioni corrono e sono accessibili a tutti e questo, anche in tema di salute, è soprattutto un’opportunità. Penso alle campagne di prevenzione per la diagnosi precoce di alcuni tumori, ad esempio. Ma tutto dipende dalla qualità delle informazioni. Le fake news possono portare conseguenze anche gravi per chi deve, per esempio, decidere come meglio proteggere la salute di un figlio. In medicina le false credenze e la disinformazione sono sempre esistite, così come la diffidenza verso i vaccini. Ma è innegabile che i social media e, più in generale, internet abbiano impresso un’accelerazione impressionante. La stragrande maggioranza delle famiglie vede le vaccinazioni per quello che sono: un diritto, una straordinaria opportunità prima che un obbligo. Ma in tanti hanno perso fiducia nelle istituzioni sanitarie, nei medici, nella ricerca, nel metodo scientifico. Bisogna ripartire da qui: da educazione, conoscenza e capacità di comunicare».
Come riesce la Fondazione di cui è presidente a diffondere la corretta informazione scientifica?
«L’appuntamento di Science for Peace di quest’anno è una tappa di un percorso iniziato anni fa. Nel solco tracciato da mio padre Umberto, consideriamo la corretta informazione un pilastro della salute dell’individuo e della comunità. L’impegno è di portare la scienza fuori dai laboratori e dagli ospedali: abbiamo sviluppato sul sito un magazine che in pochi anni è cresciuto in maniera sorprendente. Pubblichiamo collane di quaderni e manuali scaricabili gratuitamente online, per rispondere alle domande più comuni sui temi d’attualità e sui grandi argomenti di salute. Promuoviamo incontri nelle città, nelle piazze e nelle scuole (prossimamente anche con progetti di educazione anti-bufale). Ci mettiamo a disposizione della grande informazione, collaborando con chi, come noi, è convinto che l’informazione chiara e corretta fa bene alla salute».
Sul piano della ricerca medico-scientifica, quali sono i progetti più avanzati che state portando avanti?
«Tutta la ricerca sulle principali malattie del nostro tempo - penso ai tumori, ma anche alle malattie cardiovascolari e a quelle neurodegenerative - sta cambiando profondamente. Genomica, medicina personalizzata, immunoterapia, chirurgia e farmacologia di precisione: ciò che sino a pochi anni fa sembrava fantascienza è già parte della pratica medica. Con questo orizzonte dal 2003 la Fondazione ha sostenuto 1.200 scienziati in oltre 127 istituti di ricerca in Italia e all’estero».
Repubblica 4.11.17
Post-verità Il buio della ragione
Complottismo e false notizie diffuse sul web sono la nuova, concreta minaccia alla cultura e alla democrazia. Se ne parla il 17 a Milano al convegno della Fondazione Umberto Veronesi
di Laura Montanari

“Il miglior correttivo alla post- verità è la verità, cioè la cultura” ha scritto, qualche tempo fa, il filosofo Maurizio Ferraris. Studio e competenza come antidoto ai trucchi e alle bugie che viaggiano più veloci di sempre sulle strade telematiche. È di questi temi che si occupa Science for Peace 2017, nona edizione della Conferenza internazionale che la Fondazione Umberto Veronesi organizza alla Bocconi di Milano per il 17 novembre.
È un appuntamento particolare questo che si svolge a un anno dalla scomparsa del celebre oncologo perché segna un transito, quasi un passaggio generazionale. Non a caso è stato scelto un tema molto caro allo stesso Umberto Veronesi, quello che riguarda il ruolo del sapere scientifico nel mondo di oggi. Di “Post-verità. Scienza, democrazia e informazione nella società digitale” discuteranno esperti di differenti settori, come per esempio il professor Carlo Alberto Redi, docente di zoologia e biologia dello sviluppo all’università di Pavia. Le post-verità (dall’inglese post-truth) sono quelle notizie che girano in rete e che vengono recepite come “vere dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni senza alcuna analisi effettiva sulla veridicità” (secondo la definizione che si legge su Wikipedia). «Dobbiamo ripartire dal dato scientifico, soltanto quello può metterci davanti a ciò che è vero», spiega Redi. Il problema nasce dalla diffusione dei nuovi media: se da una lato apre orizzonti positivi per la condivisione del sapere e per la sperimentazione di nuove pratiche di democrazia deliberativa, dall’altra ci espone al rischio che i social network creino echo chambers, casse di risonanza online in cui le medesime informazioni, anche quelle non corrette, sono via via confermate e amplificate in circolo.
Già nel 2013 il World Economic Forum metteva in guardia contro la minaccia globale della disinformazione digitale su larga scala, sottolineando come essa possa essere intenzionalmente creata da attori statali e non-statali per promuovere specifici interessi politici o economici. «Il rimedio è muoversi nello spirito di quello che ci ha insegnato Umberto Veronesi», riprende Redi, «cioè riconoscere prima di tutto l’evidenza scientifica, poi confrontarsi sulle opinioni».
Eppure, dalle staminali come panacea di tutti i mali ai vaccini pericolosi, alle teorie complottiste che rimodellano il passato sostenendo che l’uomo non è mai stato sulla Luna o che gli extraterrestri sono fra noi, in rete si legge di tutto: «Servirebbe alle notizie un bollino di certificazione », prosegue il professor Carlo Alberto Redi, che è anche vicepresidente del comitato etico della Fondazione Veronesi, «c’è necessità di educare alle competenze. Quando andavo a scuola, nella mia classe c’era per esempio un ragazzo con la poliomelite, oggi grazie ai vaccini quella malattia è scomparsa. Scrivere e diffondere in rete che i vaccini provocano l’autismo e indurre le persone a non vaccinarsi è un danno per tutti. Vaccinarsi è un dovere, un gesto di rispetto verso la salute degli altri».
Tra i punti che verranno discussi in Science for Peace anche la questione del diritto alla salute: «Assistiamo a disparità nell’accesso alla salute, il modello univer- sale precipita davanti ai numeri della sostenibilità della spesa finanziaria», conclude il biologo dell’università di Pavia, «mentre dobbiamo invertire la tendenza e riaffermare politiche sanitarie inclusive, per tutti. Proprio su questo la Fondazione ha prodotto un documento che si trova in rete utile da consultare per chi ha responsabilità di politica sanitaria».
Le ricadute delle fake news hanno orizzonti ampi che investono anche la politica con effetti diretti sul diffondersi di populismi. Si può forgiare una pseudo verità e guardarla viaggiare sui social network: «Vale la pena riflettere su come i nuovi media abbiano modificato il rapporto fra la politica e i cittadini e quindi come possa cambiare la rappresentanza democratica », spiega Alberto Martinelli, docente alla Statale di Milano e presidente dell’International Social Science Council. «Dobbiamo interrogarci anche su quale sia in questo scenario la responsabilità degli scienziati, dei giornalisti, degli insegnanti. Tutto questo senza avere atteggiamenti luddisti nei confronti del digitale, anzi riconoscendone l’importanza». Nella rete tutti possono diventare produttori di news e tutti possono diventare echo chambers, veicolare messaggi. Gli effetti di queste dinamiche possono essere di ampia portata e in un’epoca in cui i cittadini sono chiamati a decidere, o almeno a farsi un’opinione, su tematiche complesse e che spesso necessitano di competenze scientifiche. Un ambiente saturo di informazioni non controllate può diventare un pericolo per la democrazia, aprendo le porte a quella che è stata definita politica della post-verità. L’antidoto, secondo Martinelli è «rivalutare il lavoro del ricercatore che deve argomentare le proprie tesi, del giornalista per verificare le fonti e inserire le news in un contesto, degli insegnanti che devono sviluppare negli allievi il senso critico». Soltanto così potremo fermarci, non cliccare il tasto “inoltra” per spargere menzogne, sulla fantomatica sorella in pensione a 35 anni della presidente della Camera Boldrini, sull’immigrazione africana come unica causa del diffondersi della meningite, sulla morte di Britney Spears o sul microchip sottocutaneo obbligatorio per il controllo della mente dal 2018.
Repubblica 4.11.17
Lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet
“Figli del mondo ma senza padre E internet riempie quel vuoto”

ROMA. Una proteina dentro di noi. E il web fuori di noi. «Sono le forze che rendono uniforme la vita psichica degli adolescenti a livello planetario» commenta sconsolato ma pur sempre ironico Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra.
Cosa c’entra internet con una ricerca di neurochimica?
«È giusto prendere in considerazione quello che accade dentro al cervello degli adolescenti, ma anche gli stimoli che arrivano da fuori. Sono come l’uovo e la gallina. Impossibile stabilire chi venga prima».
E qual è l’effetto combinato?
«I giovani di oggi sono gli individui più globalizzati della storia. Formano gruppi che diventano nuovi soggetti psicoantropologici. Scomparsa l’autorità dei padri, bambini, adolescenti e post- adolescenti hanno preso il potere. Sentono di avere tutto il diritto di esprimersi al di fuori di un contesto etico, piuttosto in un contesto estetico. Per fare questo vale tutto, dalla violenza alla corruzione. Quattro-cinque ore al giorno di internet finiscono con il renderli uniformi e ancora più radicali».
Come siamo arrivati a questo punto?
«Con la perdita dell’autorità del padre, il custode dell’etica della crescita, del rispetto delle leggi, delle tradizioni e delle divinità. Ma i vuoti, in fatto di autorità, non restano mai tali. Si riempiono subito. Chissà se una proteina si dimostrerà all’altezza di questo compito e riuscirà a essere altrettanto evocativa. Di sicuro internet ce l’ha fatta. Ha riempito il grande spazio lasciato dall’evanescenza del padre».
Una pillola con la molecola della saggezza potrebbe aiutare?
«Suggerirei di provare a scorporare i ragazzi dal gruppo e parlar loro singolarmente. Troveremmo che con il loro cervello da adolescenti sono svergognati, spudorati, primitivi, autentici e commoventi». (e. d.)
Repubblica 4.11.17
La molecola del giudizio
Così una proteina fa finire l’adolescenza
Già tra i 20 e i 25 anni, alla fine del processo, le sinapsi si riducono anche del 40 per cento
di Elena Dusi

ROMA. Speriamo che ci pensi lei. La proteina laminina-alfa-cinque potrebbe sembrare un alleato improbabile per i genitori alle prese con un figlio adolescente. Eppure il suo ruolo è assai prezioso in famiglia. La molecola si occupa infatti di domare le sinapsi bizzose e i neuroni spettinati del cervello dei teenager. Lo hanno scoperto gli scienziati dell’università di Yale studiando i topi. Gli animali di laboratorio non sono esattamente sovrapponibili ai nostri ragazzi, ma al ruolo della laminina-alfa- cinque la rivista
Cell Reports dedica una pubblicazione, accompagnata da un comunicato stampa intitolato: “La molecola della maturità che aiuta il cervello degli adolescenti a crescere”.
Intorno ai 12 anni - è quel che già si sapeva - il cervello si ritrova ricco di neuroni e sinapsi. Le cellule e le loro connessioni si sono accumulate in maniera disordinata nel corso dell’infanzia, un periodo caratterizzato da un apprendimento tumultuoso. Tra i 20 e i 25 anni, alla fine del processo, le sinapsi si sono ridotte anche del 40% e il volume della materia grigia è diminuito. Nel frattempo è maturato quel lobo frontale che ci regala capacità di giudizio e controllo degli impulsi.
Cosa accade lungo questo decennio tumultuoso era rimasto un mistero, dal punto di vista biochimico. La scoperta della “molecola della maturità” non basta certo a spiegare tutto nel processo, né è chiaro quando inizi esattamente a fare effetto, ma rappresenta un primo mattone. «Molto importanti sono anche i vari fattori di crescita, come ad esempio il Ngf scoperto da Rita Levi Montalcini» spiega Luca Passamonti, neuroscienziato del Cnr e dell’università di Cambridge, autore l’anno scorso di un’altra ricerca sul cervello degli adolescenti. Il ruolo della “proteina del giudizio”, scrive Cell Reports, è stabilizzare il garbuglio di neuroni cresciuto nei primi anni di vita. «Prima dell’età adulta le sinapsi tra i neuroni sono, direi, selvagge. Si riducono, crescono, destabilizzano perfino le sinapsi vicine » scrive il coordinatore dello studio, lo scienziato di Yale Anthony Koleske. «Nel cervello maturo le sinapsi appaiono molto più ordinate. Sono più piccole e “ben educate”».
Nei topi in cui veniva inibita la produzione di laminina-alfa-cinque la maturazione dei neuroni era limitata e il cervello adulto finiva per restare povero di connessioni. Ottenere sinapsi “ben educate”, scende nei dettagli Passamonti, vuol dire «renderle robuste e sufficientemente stabili nel tempo. Niente è permanente nel cervello, che è molto plastico, ma se non subiscono questo processo di stabilizzazione, le sinapsi non sopravvivono e non sono funzionali ».
In un’età ricca di stimoli e di esperienze, in cui il cervello è ottimizzato per apprendere, le connessioni fra neuroni si rimodellano a ritmi sostenuti. «Ogni volta che impariamo qualcosa, le sinapsi subiscono un cambiamento. Ma occorre che raggiungano una certa stabilità, se vogliamo mantenere la conoscenza acquisita» spiega Mitchell Omar, sempre di Yale. Il cervello dei bambini è pieno di questi collegamenti fra neuroni (molto meno quello degli adulti). «Ma un aspetto chiave della maturazione - precisa Passamonti - è che le sinapsi vengano rese robuste, dopo essere cresciute e maturate a sufficienza. Se questo non avviene, non sopravvivono, diventano deboli, sono usate poco e alla fine vengono “potate”. Proprio come i rami secchi di un albero o di una vite».
La Stampa TuttoLibri 4.11.17
Clima, governo, religione: le chiavi di Voltaire per fare luce sull’infame enigma del mondo
La storia universale impegnò il filosofo per 40 anni: un’implacabile analisi di tutte le “fake news” dell’umanità
di Ernesto Ferrero

Nel 1740 il quarantaquattrenne Voltaire, tonificato dai successi teatrali e dalle abili speculazioni finanziarie che hanno fatto di lui un uomo ricco, mette mano a una sua Sistina storiografica programmando la prima storia universale mai tentata. Va da Carlo Magno a Luigi XIV, con vaste scorribande nei secoli e millenni precedenti, sino ai tempi i cui i mari dominavano la Terra, e con un occhio speciale all’Oriente, patria delle arte e delle scienze, e di un pensiero religioso nonviolento e non oppressivo, immune dalle superstizioni che affliggono l’Europa. Si intitola
Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni
, ed è dedicato a Madame de Châtelet, l’amante in carica, esperta di chimica e fisica ma digiuna di storia. Vi lavorerà per quarant’anni con aggiornamenti e messe a punto (ben sette edizioni), consapevole di quanto sia difficile fare storia in assenza di documenti affidabili. Una storia da intendere come continua investigazione per rispondere ai problemi del presente.
La si potrebbe anche intitolare, borgesianamente, Storia universale dell’infamia, perchè rievoca puntigliosamente millenni di massacri insensati, fanatismi assortiti, lotte famigliari per il potere all’insegna dell’assassinio. Ma se Borges falsifica le biografie di uomini realmente esistiti, Voltaire va nella direzione opposta: intraprende una gigantesca opera di disincrostazione della storia dalle leggende che l’hanno deformata, sino a renderla una favola buona per asservire i popoli d’ogni tempo e Paese. Perché è un istinto belluino, più che la ragione, a guidare il genere umano. Ovunque si adora la divinità e la si disonora. Rare sono le isole felici di civiltà: tra queste l’Italia del Rinascimento, dei Medici e di Galileo, .
La gran novità del Saggio è che va ben oltre le solite cronistorie di re e di battaglie. Voltaire vuole indagare da filosofo-antropologo gli usi e i costumi dei popoli, nessuno escluso: le mentalità, le pratiche religiose, le arti, le culture materiali, le tecniche produttive, il valore delle monete, i contesti geografici, anticipando di due secoli quelle che poi saranno le ricerche della scuola parigina delle «Annales» di Braudel, Le Goff, Duby e affini. Insomma «la vita concreta degli uomini». Ci vogliono secoli perché un popolo esca da uno stadio più o meno ferino ed elabori un linguaggio e un’etica capace di incarnarsi in leggi ragionevoli. «Tre cose agiscono sullo spirito degli uomini: il clima, il governo e la religione: sono queste le uniche chiavi per spiegare l’enigma del mondo».
Quello che rende travolgente la narrazione è la vivacità di una scrittura che inaugura il giornalismo moderno (il feuilleton, secondo Isaiah Berlin) e si offre come modello a Châteaubriand per le sue altrettanto fascinose Memorie d’oltretomba. Non solo: Voltaire è l’implacabile analista di quelle che oggi chiamiamo fake news. Se sono le opinioni a dominare il mondo, diventa decisivo identificare e combattere quelle manifestamente false. Le grottesche invenzioni che hanno a insanguinato i millenni sono tuttora vivissime e, propalate dalle tecnologie digitali, rendono allarmante anche il nostro futuro di «webeti» creduloni: «I maestri della menzogna fondano il proprio potere sulla stupidità umana».
Voltaire pratica l’equivalente di un moderno fact-checking, in cui l’Europa non è più il centro del mondo. Della Cina apprezza l’invenzione della carta, della scrittura, della ceramica e le accurate osservazioni astronomiche che precedono quelle dei babilonesi di quattrocento anni. Non si fa incantare dalla monumentalità dell’antico Egitto: «Conobbero il grandioso, mai il bello». Le stesse piramidi sono un monumento al dispotismo, alla schiavitù e alla superstizione. Gli Arabi non sono il nemico per eccellenza. Al contrario, di Maometto, che si autodefiniva poeta e letterato, apprezza il coraggio, la generosità, la sobrietà, la tolleranza, la stessa imposizione del monoteismo, la promozione delle arti e scienze. I veri nemici semmai sono gli Ebrei, cui non risparmia i pregiudizi del suo tempo, anche se «noi non siamo altro se non ebrei con il prepuzio».
In Italia il Saggio era stato tradotto cinquant’anni fa per le cure di Marco Minerbi, diventato presto introvabile. E’ dunque una vera e grande impresa quella adesso vede la luce nei «Millenni Einaudi», a cura di Domenico Felice, docente di Storia della filosofia a Bologna, con l’introduzione di Roberto Finzi e 36 incisioni acquerellate del settecentesco viaggiatore canadese Jacques Grasset, pittore di costumi esotici, dai montanari messicani ai circassi e ai nativi delle Molucche. Sono due tomi che sfiorano le mille pagine, equipaggiati di tutto punto e con un prezioso indice dei nomi. Il costo non indifferente va considerato alla stregua di un buon investimento.
La Stampa TuttoLibri 4.11.17
Se vuoi goderti Pollock e Mondrian va’ al museo con il neuroscienziato
Un saggio esplora i rapporti tra pittura e meccanismi del cervello per capire come funzionano creatività e percezione del bello
di Gabriele Beccaria

La prossima volta che entrate in un museo e scrutate un quadro pensate a una persona che, apparentemente, non c’entra nulla con l’arte e con l’ingombrante universo delle interpretazioni estetiche e filosofiche: il signore si chiama Eric Kandel ed è uno dei neuroscienziati più celebri al mondo, oltre che premio Nobel per la Medicina.
Potrebbe essere lui ad accendere una scintilla e a schiudervi i segreti dell’arte astratta, rivelandovi perché Matisse vi attrae e Pollock un po’ meno. È questione di processi neuronali specifici, che, attivandosi, oltrepassano le logiche visive standard, spiega lui. Adesso, a 87 anni, li esplora in un territorio di confine, proibito ai più, dove i colleghi scienziati non si azzardano e dal quale i curatori d’arte preferiscono stare alla larga, e svela come l’ambiguità dell’arte basata sui concetti invece che sulle figure metta sottosopra i meccanismi biologici-base: ci costringe a una faticosa - ma anche liberatoria - attività di interpretazione. E, così, a una creazione individuale che va oltre la creazione pittorica. Prendete il suo ultimo saggio, Arte e Neuroscienze, pubblicato da Raffaello Cortina, e fate un respiro: è possibile che a fine lettura colori, forme e correnti pittoriche vi appaiano un po’ diversi da prima.
Kandell vive a New York, è professore alla Columbia University e la sua attrazione per cose apparentemente incongrue è contagiosa. Ecco perché, dopo uno scambio di saluti, la tentazione è troppo forte per non chiedergli subito di lui, di Henri Matisse e di una lumachina.
Professore, grazie alla Aplysia, un mollusco di mare, lei ha sondato i meccanismi della memoria, mentre uno dei più celebri artisti del XX secolo ha evidenziato i processi visivi con un collage del 1953, intitolato, appunto, «La Lumaca». Quando ha scoperto questa coincidenza apparentemente impossibile?
«Non più di otto anni fa, mentre alla mia Aplysia ci lavoro ormai da oltre mezzo secolo».
Lei ricorre a una frase di Matisse, semplice ed enigmatica: «Ci avviciniamo di più a una serenità gioiosa se semplifichiamo pensieri e figure. È solo questo che facciamo». Così giustifica i vostri percorsi paralleli in nome del «riduzionismo», nell’arte e nella biologia. Ma non è un termine impopolare in tempi di multidisciplinarità spinta?
«È vero e infatti uno storico come Ernst Gombrich non amava molto l’arte astratta. Lui, però, rappresentava un’altra generazione. Adesso la percezione è diversa».
Gombrich sosteneva anche che la percezione è un atto creativo che si svolge nella testa di chi guarda e gli esperimenti che lei ha condotto lo confermano: Gombrich, quindi, è stato un suo precursore?
«Lui, in realtà, aveva già capito tutto, teorizzando il ruolo dello spettatore! È stato straordinario. Non è un caso che fosse convinto dell’importanza di studiare le scienze del cervello e la psicologia cognitiva».
Oggi, oltre mezzo secolo dopo il saggio «Arte e Illusione», lei spiega che nella nostra testa avviene un processo «bottom up»: in che cosa consiste?
«È un processo geneticamente determinato, che si evidenzia proprio nell’arte astratta, dove molto del lavoro creativo è nel cervello di chi osserva. Il percorso opposto, invece, quello “top down”, è legato alle esperienze: ognuno di noi vede la stessa donna in modo diverso. Così, a me, le italiane sembrano tutte bellissime!».
Eppure l’arte astratta, che scatena tanta libertà interpretativa, è anche intimidente: come spiega il paradosso?
«Nell’arte figurativa molte informazioni sono già disponibili, mentre in quella astratta c’è più lavoro cognitivo: lì si svelano con maggiore evidenza i processi neuronali di ciò che avviene quando guardiamo e mettiamo insieme idee diverse».
Ambiguità significa anche maggiore piacere?
«Il piacere è legato al livello di partecipazione e quindi al coinvolgimento».
Matisse a parte, lei si è concentrato sulla scuola newyorchese dell’Espressionismo astratto: perché questa scelta?
«Ma per sciovinismo, naturalmente... Perché mi piace New York. Forse avrei dovuto scegliere Firenze? Di sicuro quei pittori, da de Koonig a Pollock, hanno generato un’influenza enorme e hanno sperimentato un percorso comune, dal figurativo all’astratto: così si può seguirne l’evoluzione. E c’è un altro motivo».
Quale?
«Quegli artisti, tra gli Anni 40 e 50 del secolo scorso, furono al centro della migrazione culturale da Parigi a New York: il resto del mondo, che aveva ignorato New York, iniziò a guardare là. E là c’era la follia».
Quale follia?
«Quella di Pollock, per esempio: folle da staccare una tela dal muro e buttarla per terra».
Sbarazzandosi di ogni forma.
«Sì, fu la sua grande idea».
Ora le neuroscienze fanno qualcosa di simile con le idee sul cervello: lei si sente un Pollock della sua disciplina?
«Diciamo che anche le neuroscienze stanno ideando nuove forme. E una nuova estetica».
Pensa che contribuirà a cambiare l’idea stessa di cosa è l’arte?
«No. Stiamo raccogliendo una serie di dati su che cosa succede nel cervello quando entra in contatto con l’arte e come elabora un processo creativo».
Lei ha scritto anche il saggio «L’Età dell’Inconscio», tour intellettuale nella Vienna «fin de siècle», quando emersero idee rivoluzionarie sulla mente, cambiando per sempre la psicologia, la letteratura e l’arte: qual è il filo che lega i due libri?
«Quel libro coinvolgeva la mia prima vita, di ebreo a Vienna. Ora il nuovo riguarda la mia seconda vita, di ebreo a New York. E devo dire che quest’ultima è molto meglio! L’unico posto migliore, rispetto a Vienna e New York, è Torino: me lo raccontò una mia amica. Era Rita Levi Montalcini».
Il Fatto 4.11.17
Eva Cantarella
“Per i bidelli ero solo dottoressa: ci ho sempre riso sopra”
Io sono mia – Nei primi anni Settanta Cantarella è alle prime riunioni di Rivolta Femminile. Un femminismo, oggi racconta “forse per me troppo estremo”
intervista di Silvia Truzzi

La sua favola della buona notte era la storia di Ulisse e del Ciclope: “Mia madre diceva a papà: ‘Così spaventi le bambine’. E lui rispondeva: ‘Cappuccetto rosso è molto peggio’”. In un saggio pubblicato 35 anni fa e riproposto da Feltrinelli nel 2010 (L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana), Eva Cantarella ha scritto: “Ripercorrere la storia delle donne nell’antichità greca e romana non è semplice curiosità erudita. I radicali mutamenti intervenuti nelle condizioni della vita femminile, il riconoscimento della piena capacità delle donne di essere titolari di diritti soggettivi e di esercitarli, la conquista della parità formale con gli uomini non hanno ancora interamente cancellato il retaggio di una plurimillenaria ideologia discriminatoria”. Partiamo da qui e con lei per fare un punto su un tema di cui si parla molto, dicendo poco.
Perché ha scelto Giurisprudenza?
Avrei scelto Lettere, ma a Milano c’era mio padre (il grecista Raffaele, ndr) che insegnava. Mi sarei sentita in imbarazzo ad averlo come professore. Ho scelto Legge e non me ne sono mai pentita anche perché ho incontrato un grande professore di Diritto romano, il mio maestro Giovanni Pugliese. E il diritto romano mi ha consentito di leggere il mondo classico anche alla luce delle regole giuridiche, spesso sottovalutate dagli antichisti.
Il diritto greco non esisteva nelle Università.
Era stato insegnato nella facoltà di Lettere di Firenze da Ugo Enrico Paoli. Io ho cominciato a insegnarlo in quelle giuridiche grazie ad Arnaldo Biscardi, successore di Giovanni Pugliese, che si era appassionato alla materia seguendo i corsi di Paoli.
Nei primi anni Sessanta di assistenti donne all’università non ce n’erano molte, giusto?
Alcune assistenti c’erano, ma non diventavano professori. Non volendo fare l’assistente a vita quindi ho dato l’esame da procuratore e sono diventata avvocato, ma quello che volevo fare era soprattutto studiare, concentrandomi sulla ricerca, per cui ho mosso i primi passi verso l’insegnamento come professore incaricato a Milano e poi a Camerino. A quei tempi la strada per diventare di ruolo passava per un periodo di addestramento in università diverse da quelle in cui ci si era laureati. Un’esperienza positiva, sia detto per inciso, che allargava la mente consentendo di conoscere altre scuole e altri metodi di ricerca. Dopo nove anni a Camerino, vinto il concorso da ordinario, sono stata chiamata a Parma (tre anni), a Pavia (altri tre anni) e nell’88 sono tornata a Milano.
L’anno prossimo sono i cinquant’anni dal ’68. Lei che faceva allora?
Era il primo anno in cui insegnavo a Milano, e devo dire che guardavo con interesse alla protesta (anche se non ho mai accolto richieste come il voto politico o quello di gruppo). Ero tornata l’anno prima da Berkeley, dove allora studiava mio marito (il sociologo Guido Martinotti, ndr), e lì avevo vissuto il momento delle prime rivendicazioni studentesche. A San Francisco, al di là del ponte, c’era la beat generation, da Ferlinghetti a Gregory Corso, che sostenevano la lotta per i diritti civili. Diciamo che ero pronta a simpatizzare con i movimenti di protesta.
Torniamo alla giovane assistente di Diritto romano: è stata discriminata in quanto donna?
Il mio maestro Giovanni Pugliese giudicava i suoi allievi esclusivamente sulla base del merito. Non sono mai stata e non mi sono mai sentita discriminata da lui. Ricordo solo qualche tentativo da parte di alcuni colleghi. Subito dopo la laurea, l’assistente anziano di Pugliese (di sua iniziativa) mi disse che avrei dovuto ri-schedare i libri della biblioteca dell’istituto. Tutti: al mio collega maschio (si era laureato con me) non l’aveva chiesto. Ma quando gli dissi che ero disponibile se il lavoro fosse stato diviso a metà, dopo un primo momento di sorpresa accettò.
Gli studenti le riconoscevano l’auctoritas?
Sì: gli studenti sono ricettivi, sentono la passione e l’impegno. Chi invece non me la ha mai riconosciuta sono stati i bidelli: fino al giorno della pensione per loro sono stata “dottoressa”, mentre i miei allievi il giorno dopo la laurea erano già tutti professori. Devo dire, peraltro, che la cosa mi ha sempre e solo fatto sorridere.
Altri episodi?
Ne ricordo uno. Quando Pugliese lasciò Milano per trasferirsi a Roma io ero assistente volontario e arrivò un posto da assistente retribuito. Il nuovo direttore dell’Istituto disse che sarebbe andato al mio collega, dato che io ero sposata: il sotto testo era che avevo chi mi manteneva… Il mio posto fu quello successivo.
Ai cortei delle femministe partecipava?
Nei primi anni Settanta ho partecipato anche alle prime riunioni di Rivolta Femminile, fondata da Carla Lonzi, donna di grande cultura e intelligenza, autrice di un saggio celebre intitolato Sputiamo su Hegel. Un femminismo forse per me troppo estremo, per cui dopo qualche incontro rinunciai. Successivamente ho preso parte ai gruppi di autocoscienza.
Quelli dei processi ai maschi?
Ma no, non si processava nessuno! Ci si riuniva in piccoli gruppi, nei quali si discutevano i rapporti con gli uomini (di regola difficili e sofferti). Anche se questo mi ha aiutata a capire aspetti della condizione femminile che altrimenti non avrei colto, essendo poco portata alla introspezione, dopo un breve periodo mi sono orientata verso un’attività concreta, molto più consona al mio carattere. Le discriminazioni, allora, erano veramente tante, sia sociali sia giuridiche. Fino al 1969 il codice penale puniva come reato l’adulterio (beninteso solo se femminile); nel 1974 è stato indetto il referendum per abrogare l’introduzione del divorzio; fino al 1975 il marito era il “capofamiglia”, unico titolare della potestà sui figli; nel 1981 un altro referendum ha tentato di far tornare l’aborto un crimine. E sono solo alcuni esempi. Io pensavo che fosse quello il campo sul quale impegnarsi, e cercai di farlo.
Oggi quali sono le urgenze?
Ce ne sono tante, alcune delle quali, purtroppo, legate ai tentativi di cancellare le conquiste ottenute: la vergogna delle obiezioni di coscienza che costringono centinaia di donne, se ne hanno i mezzi, a cercare ospedali a volte lontanissimi dove il loro diritto venga riconosciuto, o a ricorrere all’aborto clandestino con i rischi che questo comporta. E poi la disparità salariale e la mancanza di sostegno alla maternità. I consultori familiari sono spariti, manca un sistema di welfare statale. Ma la cosa forse più importante è combattere, a partire dalle scuole, la tendenza maschile a maturare l’idea di una presunta superiorità che porta a stabilire rapporti di malintesa solidarietà mascolina, nei casi estremi alla base della mentalità del “branco” che molesta e stupra le donne.
Che pensa della battaglia della presidente della Camera e di altre donne impegnate in politica sui nomi al femminile?
Onestamente non mi pare sia un problema primario. Certo, la “prepotenza” del maschile esiste. L’italiano non ha il genere neutro, e sono millenni che il maschile comprende il femminile: nel II secolo a.C. il giurista Gaio spiegava: “Non c’è dubbio che il termine uomo comprenda sia il maschio sia la femmina”. La cosa è molto significativa e capisco il desiderio di riequilibrare il rapporto tra i generi anche dal punto di vista grammaticale. Ma farlo pone non pochi problemi linguistici. A volte la desinenza femminile porta a risultati opposti a quelli voluti e, paradossalmente, anche a risultati discriminatori. Prendiamo la vicenda dei “segretari parlamentari” chiamati “segretario” anche se di sesso femminile. Quando la presidente Boldrini ha proposto di chiamarle “segretarie” si sono opposte: il segretario parlamentare ha una funzione diversa da quella delle segretarie. La desinenza “essa” , poi (dal greco -issa) a volte ha valore leggermente dispregiativo: il femminile del francese maître ad esempio, vale a dire maîtresse, indica una donna dai costumi non esattamente irreprensibili. Il problema insomma è complesso, e tra l’altro pone degli interrogativi: che fare dei termini con desinenza in “a”, ad esempio autista o lobbista?
Pubblico ministero è un esempio perfetto.
Certo. Il problema è ben più complesso di quello che sembra. Per quanto mi riguarda quel che conta è essere indicate con un termine che indica chiaramente il ruolo, la funzione, il mestiere che ciascuna di noi svolge.
Professore o professoressa Cantarella, quindi?
Scelga lei, per me è lo stesso. Anche se quando mi chiedono “Che mestiere fa?”, rispondo sempre “professore”… Tra le battaglie da combattere non mi pare sia questa la più importante.
Favorevole o contraria alle quote rosa?
Quando sono state introdotte, le quote sono state una grande conquista: penso, ovviamente, alle quote per i neri negli Stati Uniti. Sulle quote rosa in Italia e in questo momento ho delle perplessità. Se ne è parlato molto, ultimamente, a proposito della protesta sullo scarso numero di donne nei luoghi del potere e in particolare nelle alte cariche della magistratura. Una protesta giusta e più che fondata. In magistratura. come in altri ambienti, oggi le pari opportunità sono un problema di vertice. Nel caso specifico le donne sono il 52% dei magistrati oggi in servizio, ma la prima eletta al Comitato direttivo centrale dell’Anm, nel 1980, è stata Elena Paciotti, successivamente prima eletta, nel 1986, al Consiglio superiore della magistratura e nel 1996 prima (e sino a oggi unica) presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Finora, inoltre, nessuna donna è stata nominata presidente della Cassazione, ma alla successione dell’attuale presidente concorrono anche tre donne, e si può sperare che sia la volta buona. Tutto ciò premesso, peraltro, le quote come mezzo per garantire le pari opportunità ai massimi vertici delle professioni e degli incarichi mi lasciano perplessa. Le discriminazioni vanno combattute dai primi anni di vita, in famiglia e nella scuola. Ai livelli in cui la selezione dovrebbe basarsi esclusivamente sul merito, le quote potrebbero risolversi in un errore. So che è considerata cosa non femminista, ma non ho mai condiviso l’idea che con più donne ai posti di comando, il mondo sarebbe migliore. A volte si sente dire che ci sarebbero meno guerre, come se le donne fossero tutte contrarie alle guerre e alla violenza, per ragioni di sesso.
Che pensa della teoria della differenza?
È un discorso difficile e complesso, a proposito del quale sono certamente influenzata dall’aver studiato a lungo la storia della condizione femminile nell’antichità classica, dove le discriminazioni di cui erano vittime le donne trovavano il fondamento proprio nell’idea della loro differenza, regolarmente tradotta in inferiorità sia fisica, sia morale, sia intellettuale. Certamente, oggi le cose sono diverse, perché a sostenere la teoria della differenza sono le donne, non gli uomini, ma il mio timore (e la mia sensazione) è che il femminile venga ancora identificato più o meno come un tempo: per limitarmi a un esempio con la presunta maggior propensione alla cura.
Infuria il caso Weinstein. Che impressione le fa?
È un caso al tempo stesso chiarissimo e molto delicato. Da un canto – chiarissima – sta la viltà inqualificabile dell’uso maschile del potere, che in campo sessuale purtroppo non è cambiato nei secoli. Dall’altro sta la necessità di non fare di ogni erba un fascio, di non dimenticare che ci sono state e ci sono donne capaci di dire no, e di distinguere quelle che, vittime di uno squilibrio di potere sociale ed economico, sono state costrette a cedere perché psicologicamente (anche se non fisicamente) costrette da quelle che invece hanno accettato lo scambio per ottenere un risultato, compiendo una libera scelta che ciascuno può giudicare come crede ma che rientra nella sfera della libertà individuale.
Per anni la donna oggetto, per esempio nella pubblicità, è stata messa all’indice. Oggi per molte ragazze la libertà è mettersi mezze nude sui social: c’è una contraddizione?
C’è una povertà educativa spaventosa. Quando nasci in condizioni di miseria culturale e morale puoi credere che il massimo della libertà sia esporre il corpo. Il ventennio berlusconiano ha invertito la scala di valori e le donne cresciute in quel clima l’hanno assorbito. Colpisce molto la reviviscenza della violenza contro le donne, altro frutto della povertà educativa, che non ha a che fare solo con la scuola. Anche se è indubbio, purtroppo, l’abbassamento del livello di preparazione degli studenti. E, ahimé, anche della conoscenza della lingua italiana.
Le due cose sono collegate?
Inevitabilmente. E a questo proposito trovo semplicemente lunare la sperimentazione del liceo breve in quattro anni. Per non dire dell’alternanza scuola-lavoro, che si risolve in tempo sottratto allo studio. La funzione della scuola è formare cittadini. Ovviamente nella speranza che al termine degli studi trovino un lavoro: ma sono ben altre le misure da prendere perché questo possa accadere.
Il Fatto 4.11.17
La sabbia che ricoprì le vergogne della Storia
Un web doc risveglia la memoria sui 131 italiani lavoratori coatti massacrati dai tedeschi. Quattro sopravvissero
di Alessia Grossi

“Non si può dimenticare. Ma quando cade la ricorrenza a me piace andare a vedere il posto in cui sono stato sepolto”. Antonio Ceseri è l’ultimo ancora in vita di quattro sopravvissuti Nella sabbia del Brandeburgo. Erano in 131, gli Imi, parte dei soldati italiani catturati dai tedeschi e portati in Germania dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43 che rifiutandosi di combattere nell’esercito di Hitler finirono ai lavori forzati. Antonio e gli altri, nella fattispecie, costruirono munizioni nella fabbrica di Treuenbrietzen nel Brandeburgo. Alla “ricorrenza” – il 23 aprile 1945 – sopravvissero in quattro. Antonio è l’ultimo tra loro che può ancora raccontarlo. La “ricorrenza” è quando è stato trascinato nella sabbia con gli altri 130, bersaglio delle raffiche dei fucili dei soldati tedeschi durata ore, alla fine della quale si è trovato sepolto dai corpi dei compagni.
“Tutti pensavano che fosse finalmente finita. Dopotutto i russi avevano liberato il lager. Invece ritornarono, i tedeschi. Sfondarono le porte urlando: ‘Raus! Raus!’. Sembrava sapessero di non avere molto tempo, ed erano armati. I lavoratori dei lager vennero radunati davanti all’infermeria. Vennero separati: qui gli olandesi. Russi e polacchi, di là. Poi furono mandati alla fabbrica. Tutti, tranne gli italiani”. Inizia così il viaggio che porterà Antonio Ceseri e gli altri al massacro.
“Erano tutti silenziosi, non potevano immaginare cosa gli aspettasse. Poi li portarono via. Alla cava di sabbia. Quando videro il luogo ebbero un presagio di cosa sarebbe successo. All’improvviso fu dato l’ordine: ‘Feuer’!”.
A raccontare una storia che fino a poco tempo fa era rimasta lì sepolta, è il web doc Nella sabbia del Brandeburgo – in tedesco Im märkischen Sand – che dopo decenni raccoglie i ricordi dei sopravvissuti, delle famiglie e le testimonianze della città di Treuenbrietze.
“L’idea del doc è nata dall’amicizia di Ceseri con Matthias Neumann, in seguito ad un’intervista al signore fiorentino che si trovava a Treuenbrietzen”, spiega Nina Mair, che con Neumann e Katalin Ambrus ha curato la regia del web doc. Un lavoro profondo e straziante che fa emergere e tiene insieme ogni aspetto della vicenda e che ha presupposto un lungo lavoro di ricerca. “Abbiamo raccolto materiale d’archivio, quello della propaganda, ma non avevamo molte immagini, a parte una foto aerea. Anche per questo motivo abbiamo deciso di utilizzare la forma animazione – chiarisce Mair, italiana residente in Germania – chiamando uno dei migliori, Cosimo Miorelli”. Si tratta dei sei episodi storici che arricchiscono il web doc: un progetto crossmediale in tre lingue (tedesco, italiano e inglese) che si dipana in 24 episodi tra passato, presente e futuro di Treuenbrietzen. Perché se la memoria di Antonio Ceseri “ha iniziato soltanto da poco a sciogliersi”, come racconta la figlia in uno degli approfondimenti sul sito del documentario, anche quella della cittadina tedesca ha dovuto “aspettare di essere matura” – secondo le impressioni di Mair – per poter mettere insieme i pezzi di una vicenda dalle letture contrastanti. Per non parlare dell’Italia, che da pochi anni affronta il tema. Con grosse difficoltà per le famiglie delle vittime del massacro di poter richiedere i corpi e uno Stato italiano di fatto assente. È di poche settimane fa infatti, il rientro – dopo 70 anni – dei resti di Michele Santoro, uno dei soldati uccisi nella sabbia di Brandeburgo, grazie unicamente ai suoi congiunti.
“La questione è controversa”, spiega ancora la regista Nina Mair. “Noi raccontiamo la storia tragica, il massacro di questi 127 uomini, ma anche quella degli internati militari italiani. Negli ultimi due decenni si è affermata la tendenza, condivisa da molti storici e anche dalle associazioni dei reduci, che gli ‘Imi’ siano stati parte della Resistenza per il loro ‘no’ all’esercito tedesco”, chiarisce Mair. Che si dice “d’accordo sul fatto che abbiano fatto resistenza”, ma che prende le distanze “dal definirli anti-fascisti, soprattutto se la questione viene inserita in un’altra tendenza più generale, di vedere l’Italia come vittima nella Secondo guerra mondiale – dimenticando, conclude la regista – o, per lo meno, minimizzando il resto della Storia fascista”.
Che poi è a parti invertite, l’atteggiamento della cittadina in cui è avvenuto il massacro, fino a qualche anno fa. “Mentre giravamo il doc abbiamo chiesto a diverse persone per strada ciò che è accaduto nella cava. Tra di loro c’è ancora chi prova a fare opera di revisionismo. Uno di questi è il direttore del museo locale, sospeso per aver dichiarato che non si sarebbe trattato di omicidio, ma dell’esecuzione di un ordine di guerra”, racconta la regista italiana.
Anche per questo motivo il web doc prodotto da Out of Focus Filmproduktion e finalista in diversi premi, è stato concepito anche per scopi didattici. “Sul sito c’è del materiale per gli insegnanti che vogliono utilizzare il doc nelle scuole. Abbiamo tenuto molte lezioni nelle scuole italiane”, dice Mair. Ma soprattutto, sono iniziati anche i viaggi nel Brandeburgo. “A gennaio abbiamo incontrato in una settimana un centinaio di studenti e studentesse di Reggio Emilia per prepararli a un viaggio della memoria. I viaggi si concentravano sui lavoratori coatti e Imi e si sono conclusi nella cava di sabbia di Treunbrietzen. Centinaia di studenti nella cava”. Per ricordare chi non ne è più uscito.
Corriere 4.11.17
1917-2017 La cronaca di Ezio Mauro (Feltrinelli) segue in presa diretta l’inizio del totalitarismo sovietico
Due rivoluzioni una contro l’altra Così la Russia diventò bolscevica
di Pierluigi Battista

Si legge L’anno del ferro e del fuoco di Ezio Mauro (pubblicato dall’editore Feltrinelli) ed è come se si percepisse per la prima volta, di fronte allo spettacolo di un uragano sociale e politico, il rumoreggiare del popolo russo in rivolta nel febbraio del 1917 a Pietrogrado, lo scalpiccio dei cavalli delle milizie pronte a caricare, il tintinnio dei bicchieri di un’aristocrazia che, ancora ignara, celebra per l’ultima volta i suoi riti mentre fuori l’apocalisse è sul punto di scatenarsi.
E poi ancora: lo sferragliare di due treni che faranno la storia, quello su cui lo zar Nicola II firma la sua resa con l’atto di abdicazione e quello che, dopo aver attraversato con il sospetto del tradimento mille chilometri nel cuore della Germania nemica, riporta alla Stazione Finlandia di Pietrogrado l’incendiario Lenin dopo 17 anni di esilio, e inoltre, travolgente, la «musica della rivoluzione» che tanto affascina i poeti come Aleksandr Blok, il rombo di una guerra che non riesce a finire, e infine il colpo di cannone dell’incrociatore Aurora sul Palazzo d’Inverno, che poi è il colpo di grazia che sancisce la vittoria dell’Ottobre rosso.
Un’orchestra di suoni dissonanti che Ezio Mauro ci restituisce in una cronaca palpitante, come se il lettore non sapesse il modo e le circostanze in cui le cose andranno a finire, quando un mondo stava crollando, tutto era ancora possibile e la cappa di un’oppressione spaventosa durata settant’anni non si era ancora chiusa. Rumori e suoni che in realtà, a cent’anni di distanza, travalicano l’ambito temporale del 1917, perché comprendono gli spari che nel dicembre del 1916 avevano colpito a morte il «monaco nero», il misticheggiante Rasputin, padrone occulto del destino dello zar, e infine il crepitio delle armi con cui nell’estate del 1918, a Ekaterinburg, verrà sterminata dalle guardie rosse bolsceviche la famiglia imperiale, sigillo finale di una rivoluzione che cambierà il corso della storia.
Il reportage di Mauro, che a un secolo di distanza torna con la stoffa del cronista a visitare palmo a palmo i luoghi cruciali del 1917, si può dire che costituisca il controcanto perfetto dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed. Qui c’è epopea e agiografia, inni e propaganda, nel libro di Mauro si trova invece il racconto disteso dei mille segni di tempesta che hanno fatto di quell’anno grande e terribile uno dei tornanti fondamentali della vicenda storica novecentesca. Come se tutte le passioni si concentrassero su un unico punto, dove le debolezze sono destinate a diventare fatali indizi di morte, e i contrasti prendono una nettezza spietata e irrevocabile. Leggendo le pagine di questo libro noi cerchiamo di rivivere passioni ed esaltazioni, entusiasmi e fanatismi, non attraverso la freddezza dei tradizionali libri di storia che conoscono già gli esiti di quei sommovimenti e ricostruiscono le tessere del puzzle già conoscendo le linee del disegno finale, ma attraverso la microstoria della vita quotidiana che improvvisamente assurge a manifestazione di una svolta epocale nelle vicende umane.
Ezio Mauro perciò non minimizza il rimpianto per la strada che il 1917 di Pietrogrado avrebbe potuto imboccare. E la certezza che non di una rivoluzione unica si deve parlare, ma di due, di cui la seconda è stata la tragica negazione della prima, quella del Febbraio, quella che getta i primi germi del parlamentarismo democratico, che affronta la questione sociale (il pane) nella Russia sfinita dalla guerra, che spezza il giogo del dispotismo zarista consacrato, in un intreccio inestricabile di potere e dominio mondano, nell’acquasantiera della Chiesa russa. Una rivoluzione che apre alle libertà politiche, alle conquiste sociali, ai diritti della parola e dell’opinione. E che verrà travolta dall’inesorabile ferocia rivoluzionaria del partito leninista, che non solo accorcia i tempi delle realizzazioni promesse nel febbraio, ma rovescia con l’imperio della violenza l’ordine delle priorità, cancella le libertà politiche per dare all’élite dei cospiratori bolscevichi lo scettro di un potere assoluto.
Una rivoluzione che raggiungerà nell’Ottobre il suo culmine grazie al genio politico-militare di Lev Trotskij, descritto da Mauro con parole che svuotano la controversa questione se i colpi contro il Palazzo d’Inverno senza una difesa adeguata non possano considerarsi addirittura, anziché una rivoluzione vera e propria, come l’ultimo, simbolicamente definitivo atto di un colpo di Stato che aveva già consegnato il potere al partito dei rivoltosi nelle pieghe della città, nei luoghi dove le cose contano davvero e disseminate nella metropoli. Una descrizione delle condizioni materiali di un popolo esausto, dei gangli della socialità russa, della sensibilità di giganti della letteratura come Anna Akhmatova, i cui versi rappresentano il canto del cigno di ogni speranza, inghiottiti da un terrore senza fine che però ha lasciato intatta la grandezza della poesia non allineata e non conformista. Cent’anni fa, restituiti in queste pagine come se fossero raccontati da un giornale di oggi.
Corriere 4.11.17
Israele-Siria, sale l’allerta sul Golan
di Davide Frattini

A metà settimana i comandanti dell’esercito hanno deciso di rinviare il test periodico delle sirene d’allarme-missili per non scuotere i nervi già tesi degli israeliani. Perché i due fronti — a sud verso la Striscia di Gaza e a nord verso la Siria — nel giro di pochi giorni sono passati dalla calma relativa allo smottamento: non è ancora una frana verso il conflitto — assicurano gli analisti militari — di certo i segnali hanno spinto i generali ad alzare il livello di allerta. Per la prima volta la strategia di non intervento nella guerra civile siriana sembra doversi riadattare a quel che sta succedendo dall’altra parte del confine. L’attentato del gruppo terroristico Al Nusra contro il villaggio druso di Hader — un’autobomba ha ucciso ieri mattina nove persone tra civili e soldati del regime di Bashar Assad — ha costretto Gadi Eisenkot, il capo di Stato Maggiore israeliano, a minacciare di inviare le truppe per proteggere quelli che il premier Benjamin Netanyahu chiama «i nostri fratelli drusi». I rappresentanti delle comunità sul Golan si sono radunati a centinaia vicino alla frontiera e hanno cercato di superare il reticolato, i soldati li hanno riportati indietro: poco lontano è possibile vedere il fumo dei colpi di mortaio e sentire risuonare i botti della battaglia, poco lontano vivono i cugini o i fratelli, i parenti siriani dei drusi d’Israele intrappolati nel caos che ormai va avanti da sei anni e mezzo.
Il generale Eisenkot — commenta il quotidiano Haaretz — spera che le intimidazioni siano sufficienti a tenere gli estremisti di Al Nusra lontani da Hader e soprattutto lontani dal confine.
I veri nemici in Siria sembrano restare gli iraniani e i miliziani di Hezbollah che si muovono ai loro ordini. Netanyahu ha ribadito più volte a Vladimir Putin di non essere disposto ad accettare questa presenza a pochi chilometri dalle città israeliane. Mosca è alleata di Teheran nel sostegno ad Assad e allo stesso tempo per ora sta garantendo ai jet di Tsahal libertà di movimento aereo per le sortite che colpiscono i trasferimenti di armi organizzati dall’Iran verso il gruppo libanese.
Repubblica 4.11.17
Se le manette spingono la Catalogna nel baratro
Con l’ordine d’arresto per Puigdemont Madrid radicalizza la crisi
di Roberto Toscano

LE ultime battute della crisi catalana sembrano quasi giustificare l’impressione che il governo centrale intenda fare tutto il possibile per spingere verso un’ulteriore pericolosa radicalizzazione. Madrid si trincera dietro un legalismo di per sé ineccepibile, ma agisce come se non si rendesse conto del fatto che il diritto non è un sostituto della politica, ma soltanto un quadro che delimita il campo della politica, che a sua volta ha il diritto, e spesso il dovere, di modificarlo. L’articolo 155 della Costituzione, in concreto, autorizza un intervento del governo centrale teso a obbligare gli organi delle regioni autonome al compimento della legge. Si tratta di quello che in Italia chiameremmo commissariamento, ma i cui contenuti non sono definiti dalla Costituzione. Il governo di Madrid, tuttavia, ha applicato la norma nella sua versione più estesa e radicale, tanto che sembra ormai difficile distinguere il commissariamento da una abrogazione di fatto.
Carles Puigdemont
ANCORA più grave è l’aspetto penale. Ieri sera è stato firmato il mandato d’arresto europeo per l’ex presidente Puigdemont e i 4 ministri che lo accompagnano a Bruxelles. Il giorno prima, il vicepresidente Junqueras e sette componenti il governo della Generalitat erano stati incarcerati sulla base di un provvedimento cautelare da parte di un giudice della Audiencia Nacional (una giurisdizione speciale competente per reati contro la Corona e i membri del governo, oltre che per terrorismo e criminalità organizzata) con l’accusa di “sedizione” e “ribellione”. Sono ipotesi di reato previste dal Codice penale, ma se la meno grave, la sedizione, è descritta come opposizione all’attuazione della legge non solo con la forza, ma anche “fuori dalle vie legali”, la ribellione comporta sempre un elemento di violenza — un’insurrezione — che sarebbe molto difficile attribuire agli arrestati e ai milioni di catalani che si sono espressi pacificamente a favore dell’indipendenza. Persino chi ha ritenuto inevitabile che l’avventurismo illegale del separatismo dovesse essere fermato (fra l’altro anche per tutelare i diritti di quella metà della popolazione catalana che non ne condivide i fini e vorrebbe rimanere nello stato spagnolo) si rende conto del fatto che a Madrid sta emergendo un inquietante spirito di vendetta. Lo fa temere il tono revanscista e punitivo non solo dei politici, ma anche di alcuni magistrati, soprattutto il Fiscal General (il nostro Procuratore della Repubblica).
Siamo di fronte a un insieme di spropositi giuridici e forzature politiche che, cosa di cui a Madrid sembra non esservi la consapevolezza, rischiano di far passare in secondo piano gli spropositi e le forzature di una dirigenza catalana responsabile di avere innescato questa crisi per la disinvoltura con cui ha ignorato le norme mettendo in moto un processo che era evidentemente destinato al fallimento. Se si lascia il cammino delle norme si passa a quello della forza, e non doveva essere una sorpresa che lo stato spagnolo ne disponesse e fosse pronto a usarla. Insomma, non si può pensare di istituire unilateralmente una repubblica col permesso del re. Ma adesso gli indipendentisti catalani, che non avevano il diritto dalla loro parte, possono sperare di giocare la carta delle vittime della repressione: gli esuli di Bruxelles e i prigionieri politici di Madrid. E anche di riscuotere in Europa simpatie che finora non sono riusciti ad ottenere.
La strategia, se così si può chiamare, di Rajoy si compone di due elementi: elezioni catalane il 21 dicembre e dura repressione contro i dirigenti indipendentisti. Il fatto è che sembrano entrambe destinate al fallimento. Sondaggi effettuati dopo l’applicazione dell’articolo 155 fanno emergere una conferma, anzi un aumento, dei consensi allo schieramento indipendentista, mentre si può prevedere un ulteriore incremento dei consensi provocato dallo shock dell’incarcerazione dei vertici del Govern. Ma se questi saranno i risultati, come si può pensare che la repressione possa rappresentare una soluzione? L’applicazione della legge, con la sospensione dell’esercizio dell’autonomia, avrebbe avuto un senso solo se fosse stata attuata in parallelo all’avvio di un processo di riforma costituzionale finalizzata ad un riassetto del sistema delle autonomie e tale da permettere un referendum legale e regolato — non quello arbitrario, unilaterale e senza quorum del primo ottobre.
La combinazione di durissime misure giudiziarie e chiusura politica rischia invece di produrre come unico risultato quello di spostare la crisi dalla politica alla piazza, dal dibattito allo scontro fisico. Come scrive il quotidiano di Barcellona La Vanguardia, che pure anche in questi tempi difficili si sforza di mantenere i linguaggi pacati della moderazione, “siamo a un passo dall’abisso.”
Anche se finora, pur nell’asprezza della polemica, le cose sono rimaste sorprendentemente civili e pacifiche (altro che “insurrezione”!), si tratta di una prospettiva che non è purtroppo da escludere. Vale la pena ascoltare le parole del Presidente del governo autonomo basco, Urkullu, che — attualmente in visita in quel Canada che ha dato un esempio di come le aspirazioni indipendentiste possano essere affrontate e governate in modo non traumatico — ha definito i provvedimenti adottati in sede giudiziaria a Madrid come “i peggiori possibili” e ha aggiunto: ”Nello stato spagnolo manca l’intelligenza politica necessaria a gestire situazioni che nascono da aspirazioni che hanno una base sociale importante e che dovrebbero indurre ad adeguare l’azione politica alla realtà”.
Il Fatto 4.11.17
Come far finta che Giulio non sia stato ucciso al Cairo
Omicidio Regeni: - All’improvviso si “scopre” la pista di Cambridge: tutto fa brodo a Roma purché non si tocchi il regime di Al-Sisi
di Guido Rampoldi

Appaiono talvolta sui giornali notizie clamorose che sarebbero ancor più clamorose se in calce comparisse il nome di chi ha passato le carte al cronista, e perché. Per esempio in questi giorni va forte sui quotidiani l’informazione seguente: la Procura di Roma ha chiesto alla Gran Bretagna una rogatoria dell’egiziana Maha Abdel Rahman, docente di Social Sciences all’Università di Cambridge e tutor di Giulio Regeni nella ricerca che l’italiano stava conducendo al Cairo. Dagli articoli che ne riferiscono, risulta che la professoressa sia persona ambigua, legata ai Fratelli musulmani.
Avrebbe usato Regeni per un’attività informativa segreta o inconfessabile. In ogni caso finora si è sottratta alle domande della Procura di Roma, così negando all’inchiesta una parte significativa della verità. E Renzi fa eco: “Noi vogliamo con forza la verità su Giulio Regeni. La verità, solo quella. Per questo chiediamo da mesi chiarezza anche all’Università di Cambridge, come oggi fa il quotidiano Repubblica. Il team che seguiva Giulio sta nascondendo qualcosa?”. Proviamo a rispondere.
Secondo il Corriere della Sera la professoressa Rahman non milita nei Fratelli musulmani ma nella sinistra egiziana, probabilmente in uno di quei network resistenziali creati da egiziani della diaspora dopo il golpe (2013). È verosimile che l’impegno politico le abbia preso la mano quando indirizzava da Cambridge la ricerca di Giulio Regeni suggerendogli contatti e condotte. Di sicuro ha sottovalutato i rischi che Regeni correva, o che lei stessa gli faceva correre. Dopo l’assassinio è caduta in una crisi depressiva: non pare la reazione di una spietata rivoluzionaria, ancor meno di una spia. Perché l’anno scorso svicolò quando gli inquirenti italiani le chiesero di deporre? Presumibilmente per tre motivi: teme per la vita di parenti e amici al Cairo; non si fida di una Procura che dichiara rapporti di mutua collaborazione con i magistrati di Al-Sisi (nella realtà non è così, ma la professoressa non è tenuta a saperlo); è consigliata da Cambridge, che paventa una richiesta di risarcimento dalla famiglia Regeni.
Infine e soprattutto: il sospetto che vuole Regeni strumento inconsapevole di una cospirazione, o comunque di un’attività informativa funzionale a un trama per abbattere la dittatura, è tragicomico. Chiunque conosca un po’ l’Egitto sa che per far fuori Al-Sisi bisogna manovrare nel vertice militare, una vasca di pescecani pronti a divorarsi (il dittatore non si fida neppure dei suoi congiunti, uno dei quali, il capo di Stato maggiore Mahmoud Hegazy, è stato rimosso la settimana scorsa, appena tornato da un viaggio negli Usa). Certamente Regeni studiava un settore sensibilissimo della crisi egiziana, i sindacati indipendenti. Ma i suoi report non potevano aggiungere nulla a quanto già conoscevano i servizi segreti qatarini o turchi, legatissimi ai Fratelli musulmani, o britannici, che hanno una storica presenza in Egitto.
Dunque le reticenze della professoressa Abdel Rahman sono del tutto laterali rispetto ad un assassinio chiarissimo nei suoi tratti essenziali: Giulio Regeni è stato arrestato dagli apparati di sicurezza di Al-Sisi e non è uscito vivo dalle loro prigioni.
La Procura di Roma sarebbe già ora in grado di emettere qualche provvedimento, anche blando, contro poliziotti egiziani. Perché esita? Forse perché è l’ufficio giudiziario fisicamente più vicino al governo, quello tradizionalmente chiamato ad un ruolo improprio, caricarsi sulle spalle ‘preoccupazioni politiche’: Al-Sisi reagirebbe male se i pm italiani accusassero di fatto il suo regime; e l’eventualità spaventa il governo italiano, convinto che l’egiziano sia un interlocutore necessario.
Così necessario che in agosto Roma ha rimandato in Egitto l’ambasciatore, ufficialmente anche per seguire inesistenti indagini sull’omicidio. Però a quel punto bisognava esibire qualche risultato, e il Cairo non collaborava. Allora si è ricorsi ai trucchi di scena. Appena il governo ha avuto dalla Procura la richiesta di rogatoria per la professoressa Abdel Rahman, alcuni quotidiani hanno ricevuto le carte; incolpevoli cronisti giudiziari ne hanno scritto; e Renzi ha potuto lanciare il suo severo monito a Cambridge. Lo stesso Renzi non ha mai speso parole men che garbate verso il regime di Al-Sisi, sul quale in passato riversò lodi e professioni di amicizia. Qualcuno gli ricordi che anche nelle farse occorre rispettare il limite della decenza.
Corriere 4.11.17
La tutor di Giulio al Cairo: non l’abbiamo messo a rischio. Cercate i veri responsabili
di Viviana Mazza

Rabab El Mahdi: «Cambridge non ha niente da nascondere»
«Sono scioccata e arrabbiata», dice Rabab El Mahdi, la tutor di Regeni all’Università Americana del Cairo, dopo le accuse e i sospetti pubblicati sui media italiani sulla supervisor di Cambridge Maha Abdelrahman e su lei stessa. «Non solo questi articoli sono ingannevoli e rivelano una seria mancanza di comprensione su come funzioni la ricerca accademica, ma servono a spostare l’attenzione dalla vera questione: chi ha torturato e ucciso Giulio. Sembrano suggerire che il modo in cui Giulio ha condotto ricerche al Cairo, inclusi i rapporti con i suoi supervisor, spiegherebbe cosa gli è successo. Questo è del tutto sbagliato. Ricordiamoci che il video fatto trapelare su Giulio non lo mostra mentre conduceva interviste per le sue ricerche, ma mentre discuteva l’offerta di un finanziamento con un membro del sindacato (Giulio voleva fare domanda per una borsa da 10 mila sterline alla Antipode Foundation, che assegna fondi per progetti collaborativi tra accademici e attivisti, ndr ). Fondi simili sono estremamente sensibili in Egitto, dove le autorità controllano ogni mossa sulle opportunità di finanziamento. Questa borsa e l’offerta di Giulio non facevano parte della ricerca, nessuno dei supervisor era coinvolto».
Ci sono 5 punti secondo la Procura di Roma su cui è «di massimo interesse investigativo fare chiarezza». Primo: chi ha scelto il tema specifico della ricerca di Giulio? Il sospetto è che sia stata Abdelrahman e non lui.
«Non è vero. A Giulio interessava lavorare sull’Egitto e su questo tema già prima del dottorato a Cambridge. Sul Sole 24 Ore del febbraio 2016, Gilbert Achcar, professore alla Soas, rivela che Giulio lo contattò già nel 2012 per esprimere interesse a condurre ricerche sotto la sua supervisione sui sindacati indipendenti in Egitto. Non riuscì a ottenere i fondi per un dottorato ma andò in Egitto per uno stage con un’agenzia Onu. Quando si è iscritto al dottorato nel 2014, è stato lui a cercare Maha Abdelrahman, in quanto esperta di Egitto e di movimenti sociali. È l’opposto: Giulio ha scelto l’argomento e ha cercato supervisor esperti sul tema».
Chi ha deciso che fosse lei la tutor di Giulio in Egitto?
«Non so chi mi abbia scelto, Giulio mi ha contattata. La decisione è accademica. L’Auc è la maggiore istituzione in lingua inglese in Egitto e io la sola docente lì che abbia lavorato sui sindacati, in particolare quello degli esattori, fulcro della sua ricerca. La sua supervisor ha cercato di offrirgli la rete di supporto più appropriata».
Tre: chi ha deciso il metodo della ricerca partecipata?
«Chiunque abbia competenze basilari di ricerca lo capisce. È come chiedere perché la Procura debba interrogare dei testimoni per un’inchiesta. Visto che studiava un fenomeno socio-politico contemporaneo, questo è l’unico metodo. Non poteva fare ricerche d’archivio, né esperimenti di laboratorio. Doveva fare interviste, osservare gli incontri e i sindacalisti».
Chi definì le domande fatte da Giulio agli ambulanti?
«Giulio, come ogni studente. I supervisor assicurano che siano rilevanti per rispondere al più ampio quesito della ricerca. Vi ricordo che nel video segreto girato dal venditore ambulante Mohamed Abdallah, lui non parla con Giulio delle domande ma delle 10 mila sterline. Se Giulio avesse fatto domande inappropriate o sospette nell’ambito della ricerca, le avremmo sentite».
Infine: Giulio ha consegnato ad Abdelrahman dei «report» durante un incontro al Cairo il 7 gennaio 2016?
«Non so se li abbia scritti o consegnati, con me non li ha condivisi. Presentare come sospetto questo processo normale di scrivere appunti e report è ignorante e contribuisce a confondere la verità sui colpevoli del rapimento e della tragica morte di Giulio».
Lei ha parlato con gli investigatori italiani?
«Certo, poco dopo l’omicidio, e ho risposto a tutte le domande. Nonostante il trauma, sono andata al funerale in Egitto e la supervisor di Cambridge a quello in Italia. Se avessimo qualcosa da nascondere, non l’avremmo fatto. Questo trauma pesa sulle nostre vite accademiche e personali. È per integrità e rispetto che entrambe e specialmente Abdelrahman siamo state lontane dai media: il caso dev’essere sotto i riflettori, non noi e il nostro dolore».
La Procura cerca gli studenti di Cambridge andati al Cairo prima di Giulio. Sospettano che Abdelrahman chiedesse spesso di lavorare sui sindacati autonomi. In una chat Giulio avrebbe espresso preoccupazione anche su di lei perché è un’attivista e un’altra sua studentessa sarebbe stata espulsa dall’Egitto e finita dallo psicologo.
«Nessuno dei miei studenti è stato espulso. Il mio profilo politico non ha mai causato loro problemi. So di studenti di altre università britanniche e americane (non di Cambridge) che stavano lavorando allo stesso tema in Egitto e nessuno ha avuto problemi straordinari. La professoressa Abdelrahman non ha mai avuto altri studenti che lavoravano sui sindacati indipendenti. Ma molti altri hanno espresso interesse perché è un fenomeno relativamente nuovo, che consente di fare un lavoro accademico significativo. Giulio era anche guidato dal desiderio di aiutarli, come si vede nel video, il che rende la sua morte ancor più tragica. Era là per un interesse insaziabile di capire e aiutare, non spinto da qualcuno. È un insulto alla sua memoria suggerire il contrario».
Corriere 4.11.17
Dialogo, attenzione, controllo
Come evitare i rischi ai nostri figli
L’uso dei social, la comunicazione e le trappole
«Un genitore non può delegare a nessuno
il compito di aiutare gli adolescenti a sviluppare i giusti anticorpi contro i pericoli»
intervista di Elvira Serra

1 Claudio Mencacci, psichiatra: cosa spinge una quattordicenne a scambiarsi messaggi con uno sconosciuto sui social network?
«I social garantiscono delle identità come meglio sono desiderate. La semplicità della comunicazione fa emergere tutte le fantasie dell’adolescente, che vengono colte e trasformate da chi risponde dall’altra parte. Questo crea rapidamente un abbassamento delle difese e anche della valutazione dei rischi».
2 Dal messaggio si passa all’incontro reale. Anche qui, perché?
«L’adolescente ha trovato sul social conferma da parte dell’adulto. Si sente riconosciuta e questo la lusinga. Il fatto che lui provi attrazione la fa sentire desiderata, le ha tolto la paura di non essere all’altezza».
3 Non subentra la paura per un incontro di persona?
«No, perché quello che transita sui social network, e lo vediamo anche nella facilità con cui si condividono selfie con segmenti del proprio fisico, è un corpo depauperato della sua emotività. La sessualità è separata dalla relazione».
4 Un tempo ci si scriveva a lungo. Ora i «preliminari» della conoscenza a distanza sono rapidissimi.
«L’intensità degli scambi sui social è altissima, questo aumenta l’impulsività e riduce sensibilmente l’analisi delle conseguenze. Nell’eccesso di realtà offerto dalle piazze virtuali si perde del tutto il principio di responsabilità: si pensa di poter scrivere e cancellare una parola. Ma nel mondo vero non sempre si può tornare indietro ».
5 Un genitore cosa può fare? Come deve vigilare?
«Vigilare è fondamentale. Qui subentra la responsabilità dei padri e delle madri. Hanno anzitutto il compito di spiegare ai figli quali rischi corrono. Le modalità con cui esercitare il controllo possono essere diverse: se si riesce a mantenere un dialogo aperto, il genitore può essere per esempio amico dei figli su Facebook, osservandone il comportamento sui social. Allo stesso modo con cui chiede a pieno diritto di conoscerne gli amici».
6 Questo non può far chiudere a riccio un figlio?
«È importante comprendere la necessità adolescenziale di mantenere i propri spazi. Ma un genitore non può delegare a nessun altro il compito di aiutare un figlio a sviluppare i giusti anticorpi verso i rischi della vita. Se la strada del dialogo e della comprensione trova porte sbarrate, è legittimo controllare di nascosto».
7 In caso di rischio reale che cosa bisogna fare?
«Il genitore deve imparare a segnalare alla polizia postale situazioni che costituiscano veri e propri adescamenti di minori. Oggi assistiamo a una riedizione della vecchia favola di Cappuccetto rosso: i lupi non sono più nascosti dietro gli alberi, ma dietro allo schermo di un computer. Spesso hanno anche venti o trent’anni più delle loro giovani vittime, per le quali aver sollecitato l’attenzione di un uomo tanto più grande è gratificante».
8 Perché un genitore non riesce a capire più se un figlio sta correndo un rischio così grande?
«Il tipo di comunicazione dei più giovani è completamente cambiato e, soprattutto, non rispetta più i tempi canonici del sonno-veglia: oggi avviene nell’arco delle ventiquattro ore, soprattutto la notte prima di addormentarsi e la mattina prima di uscire dalla stanza. Un genitore è tagliato fuori».
9 Come si esce da un’esperienza così drammatica come quella delle due adolescenti romane?
«Un’esperienza così lascia un segno profondo nell’affettività e nell’emotività. L’augurio è che le due ragazzine possano riconciliare sessualità, affettività e relazioni, perché quello che hanno sperimentato è l’esempio piu distante possibile. Data la loro età, può essere molto efficace, in termini di rapidità della risposta, la tecnica dell’Emdr associata a una terapia cognitiva».
Il Fatto 4.11.7
Sexgate anche all’italiana: “Molestata da Tornatore”
La showgirl Miriana Trevisan racconta l’episodio di vent’anni fa. Intanto per Weinstein carcere più vicino. Nuove rivelazioni su Spacey
di Andrea Valdambrini

Giuseppe Tornatore avrebbe molestato Miriana Trevisan. All’edizione italiana del settimanale Vanity Fair la showgirl – oggi ha 44 anni – rivela come il regista siciliano, premio Oscar per Nuovo Cinema Paradiso (1988), la inseguì fuori dal suo ufficio, cominciando a baciarla e spingendola contro il muro. L’episodio, sostiene l’ex di Non è la Rai risale a circa 20 anni fa, quando il suo agente le aveva organizzato un appuntamento con Tornatore in vista dell’eventuale partecipazione al film La leggenda del pianista sull’Oceano. “C’era una segretaria che mi accolse ma poi se ne andò. Rimanemmo soli – racconta Trevisan – dopo qualche chiacchiera, quando ci stavamo salutando, mi chiese di uscire con lui per mangiare una pizza. Io risposi che avevo già un impegno, lo ringraziai e mi alzai per andarmene. Lui mi segui fino alla porta, mi appoggiò al muro e cominciò a baciarmi collo e orecchie, le mani sul seno, in modo abbastanza aggressivo. Ero entrata pensando di fare un film con un premio Oscar… sono uscita sentendomi uno straccio”. Tornatore, 61 anni, è il primo nome che spunta fuori dalle rivelazioni sugli abusi sessuali emerse in seguito al caso Weinstein. In occasione delle denunce di Asia Argento sulle violenze subìte da parte del produttore Harvey Weinstein erano emersi i nomi del responsabile italiano di Miramax Fabrizio Lombardo, mentre anche la moglie di allora, Claudia Gerini, era finita nel mirino delle denunce di un’attrice. Nei giorni scorsi, la trasmissione televisiva Le Iene ha raccolto testimonianze di attrici italiane, ma nessun regista era stato finora nominato.
Proprio Miramax, la società fondata da Harvey e Bob Weinstein ha prodotto Nuovo Cinema Paradiso e altre pellicole del regista di Bagheria. E il caso Weinstein non si ferma. Ieri l’attrice Paz de la Huerta ha affermato di essere stata violentata due volte a New York dall’ex boss della Miramax nel 2010, quando lei aveva 25 anni. La nuova denuncia arriva ancora dalle colonne di Vanity Fair e la donna, che ha recitato nella serie tv Boardwalk Empire, afferma di essere stata forzata a fare sesso dopo che Weinstein le aveva offerto un passaggio a casa; prima le aveva chiesto di poterla accompagnare fin dentro casa, poi l’aveva buttata sul letto. “È un maiale, mi ha stuprata”, ha detto. Le accuse contro Weinstein, che nega tutto, sono ormai decine, ma in questo ultimo caso potrebbero anche avere uno sviluppo di tipo giudiziario. La polizia di New York “è informata dei fatti e sta indagando”, ha affermato un portavoce, che non esclude gli estremi dell’arresto. Anche Kevin Spacey non ha tregua. Dagli Usa arrivano accuse di molestie dallo staff di House of Cards. A Londra (dove l’attore ha diretto per 11 anni l’Old Vic Theatre), un uomo rivela al Sun di essere stato stuprato da Spacey nel 2008, a 23 anni, e di aver presentato denuncia a Scotland Yard.
Repubblica 4.11.17
Le intercettazioni in cattedra
di Tomaso Montanari

PER avere un’opinione sul divieto di pubblicare le notizie «non essenziali» contenute nelle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria bisogna intendersi su ciò che, qui e oggi, è davvero “essenziale”.
Ferma restando l’avversione ad ogni arbitraria gogna mediatica e la necessità di non assecondare voyeurismi morbosi, sembra davvero impossibile stabilire cosa sia o non sia essenziale senza rammentare che siamo il terzo paese più corrotto d’Europa (peggio di noi solo Grecia e Bulgaria), e che (sempre secondo gli ultimi dati di Transparency Italia) la società civile e i media italiani hanno un punteggio di 42 su 100 nella stima della loro efficacia come mezzi di superamento della cultura della corruzione.
In altre parole, se vogliamo cambiare abbiamo un enorme bisogno di un discorso pubblico capace di rappresentare la corruzione per quello che è: senza sconti, senza belletti, senza censure. Abbiamo bisogno di raccontarci per come siamo: con crudo realismo. E per far questo poche cose sono efficaci come le conversazioni private di chi dice la verità perché è convinto che nessuno lo ascolti. Ebbene, le intercettazioni telefoniche che arrivano ai giornali e alle televisioni rappresentano i casi rarissimi in cui il libero, franco, cinico discorso privato irrompe nel contesto controllato, edulcorato e in ultima analisi falso, del discorso pubblico. E il risultato è spesso uno choc estremo: un salutare schiaffo collettivo.
Prendiamo il caso dell’università italiana. L’università dovrebbe essere il tempio del pensiero critico, innanzitutto del pensiero critico su se stessa.
Invece, da molti anni, le nostre università stanno reprimendo il loro dissenso interno, trasformandosi in scuole di conformismo. Citiamo — tra i tanti possibili — il codice etico della più antica università d’Italia (e del mondo occidentale), l’alma
mater studiorum di Bologna. Il suo articolo 19, sulla «autonomia e libertà di critica», recita così: «L’Università promuove un contesto favorevole alle occasioni di confronto e riconosce le libertà di pensiero, di opinione ed espressione, anche in forma critica, al fine di garantire la piena esplicazione della persona, fatti salvi i limiti previsti dall’articolo 15 del presente Codice». Ma a cosa mai si riferirà questo articolo 15 che limita la libertà di critica, e cioè la stessa ragione di essere di un’università? Ecco a che cosa: alla «tutela del nome e dell’immagine dell’Università». In molti altri casi, i codici etici universitari esplicitano il fatto che anche per ricercatori e professori vale il Codice di comportamento dei pubblici dipendenti, il quale stabilisce (art. 13, comma 2) che «salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell’amministrazione ». Il risultato è stato ampiamente raggiunto, purtroppo, perché il dissenso interno del mondo universitario (liquidato come un’offesa) è ormai rarefatto, sconfitto, irrilevante. E così non è cresciuto un pensiero critico radicale sulla deriva morale di troppa parte del sistema accademico.
E finisce che a dire la verità sia uno dei professori coinvolti nella pazzesca vicenda dei concorsi truccati di diritto tributario, il quale viene registrato mentre scandisce: «La logica universitaria è questa… è un mondo di merda… è un mondo di merda… quindi purtroppo è un do ut des». E ancora: «Qui non c’è nessun merito, ognuno ha i suoi...». E un collega: «Con che criterio sei stato escluso dal concorso? Col vile criterio del commercio dei posti …Non è che tu non sei idoneo, è che non rientri nel patto del mutuando». È eloquente che l’avvocato di uno degli indagati non abbia trovato niente di meglio da dichiarare se non che l’«integrità » del suo assistito sarebbe «testimoniata da una limpida e unanimemente apprezzata carriera accademica». L’unanimità omertosa viene invocata per esorcizzare i fatti emersi dal velo squarciato. Ora, chi ama l’università italiana e ne conosce la gran quantità di professori onesti e del tutto dediti alla conoscenza e agli studenti non può che gioire di questa rottura drammatica della famosa «immagine dell’università». Perché è evidente che la vera tutela dell’università, un suo riscatto, non può che passare attraverso un trauma come questo: nessuna analisi, nessuna statistica, nessuna denuncia potrebbe mai avere la forza icastica delle parole che abbiamo letto in quelle intercettazioni.
In questo, come in moltissimi altri casi, la necessaria rivoluzione culturale, quella che sola può cambiare i connotati di questo Paese, non può che essere innescata dalla capacità di dirci le cose come stanno, fino in fondo. È in que
Repubblica 4.11.17
Di Pietro: così si limitano i diritti delle difese e dei giornalisti

ROMA. «Un decreto ponte». Lo chiama così l’ex pm Antonio Di Pietro a Circo Massimo di Giannini. Perché oggi «c’è un doppio pericolo, che vengano pubblicate notizie che non c’azzeccano con le indagini e che vengano strumentalizzate». Però, secondo Di Pietro, il decreto «ha dei buchi importanti» e va cambiato. Sui Trojan horse vietati per la corruzione, sui diritti della difesa «troppo limitati», sul diritto di cronaca. Proprio sul «diritto-dovere del giornalista di pubblicare qualsiasi notizia, anche coperta da segreto, ma che abbia rilevanza per l’opinione pubblica e implichi l’interesse dei cittadini a esserne messi a conoscenza» va ricordato il richiamo della Fnsi, con il presidente Beppe Giulietti e il segretario Raffaele Lorusso.
Repubblica 4.11.17
Intercettazioni. Giulia Bongiorno.
“Chi decide quale ascolto è rilevante e quale no? Grande discrezionalità e controlli quasi impossibili”
“Rischi di falsità e distorsioni la riforma delle intercettazioni è la fine del processo penale”
di Liana Milella

La nuova legge sulle intercettazioni? «Sarà l’estrema unzione del processo penale». Giulia Bongiorno, avvocato penalista di grido ed ex deputata che bloccò la riforma degli ascolti firmata Berlusconi-Alfano, a
Repubblica dice: «Chi ha scritto questa legge non è mai stato in tribunale ».
Il Guardasigilli Orlando insiste, «questa non è una stretta ». Secondo lei?
«Le leggi del ministro tradiscono sistematicamente gli obiettivi annunciati. Prima voleva combattere la violenza sulle donne e ha svuotato di significato lo stalking, adesso dice di voler evitare abusi nelle intercettazioni e offre strumenti per pubblicazioni fuorvianti e distorte».
Pure il centrodestra voleva imbavagliare: vizio di tutti i politici?
«Non è possibile paragonare i testi perché Orlando non vieta al giornalista di pubblicare le notizie private, semplicemente evita sin dall’origine che esista la notizia. Ma le conseguenze saranno devastanti».
Cosa intende?
«Se una conversazione trascritta è smentita da un’altra non trascritta, i giornalisti pubblicheranno quella trascritta. Ci saranno moltissime falsità in circolazione: una contaminazione sistematica della realtà».Se sono rilevanti vanno trascritte, c’è questa garanzia.
«Vi sarà un’enorme discrezionalità, ai limiti dell’arbitrio, nel decidere quali intercettazioni sono rilevanti e quali no. Escludo che i magistrati italiani, pochi e con enormi carichi di lavoro, riescano a fare i controlli che richiederebbe questa legge».
Intercettazioni non rilevanti e quindi non trascritte. Non si rischia il caos quando se ne dovrà ripescare una?
«È una legge scritta da chi non è mai stato in tribunale e ignora anche l’insidia più ovvia di questo delicato strumento: l’ambiguità del linguaggio. Forse il ministro pensa che nelle conversazioni gli interlocutori si esprimono in modo limpido? Sa quante volte si parla di mozzarelle anziché di cocaina? E le mozzarelle saranno ritenute rilevanti o no? Per interpretare correttamente le conversazioni bisogna inquadrarle in un contesto e leggerne ogni parola».
Non sarà la polizia a decidere, sul momento, cos’è rilevante e cosa no determinando il destino dell’indagine?
«Nutro immensa fiducia nelle forze dell’ordine, ma in questa maniera il rischio di parzialità nelle indagini è fisiologico».
Il pm Di Matteo citava il caso Fragalà per spiegare che un’intercettazione apparentemente inutile in realtà può essere determinante per la difesa. Lei ha un esempio da raccontarci?
«Mentre scrivevano i brogliacci, gli agenti che intercettavano Sollecito hanno appuntato a margine commenti offensivi nei confronti dei suoi familiari. Le zie di Raffaele che conversavano tra loro sono state definite “vipere” e “stronze”. Non mi sentirei serena, nel dare questo potere così sconfinato...».
I brogliacci della polizia scompaiono, sostituiti da “annotazioni”. Una sorta di sintesi non ben identificata. Chi garantirà che è vera?
«I brogliacci erano essenziali per risalire a una conversazione che non compariva nell’ordinanza cautelare, erano dunque una bussola. Ora è come essere scaraventati in mare aperto senza strumentazione e senza alcun punto di riferimento».
I legali non avranno più copie di carta. Che conseguenze vede?
«È inaccettabile il principio stesso della diffidenza nei confronti di tutti i legali. Comunque solo gli studi più strutturati avranno la possibilità di inviare i collaboratori in procura ad ascoltare ore e ore di intercettazione per appuntare quelle da ripescare ».
Orlando sostiene che è una legge equilibrata. Alfano ha esultato con un «finalmente»: che tipo di compromesso è stato raggiunto?
«Troppa discrezionalità a chi ascolta le conversazioni e scarsa possibilità di effettivi controlli da parte dei magistrati e degli avvocati rischiano di far diventare questa riforma, battezzata come soluzione ai mali della giustizia, l’estrema unzione al processo penale ».
La Stampa 4.11.17
Sorella banca
di Mattia Feltri

Qui si era già sottolineata la stupefacente coincidenza del tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi - amico e collega di studio (anni fa) di Maria Elena Boschi, amico e socio di studio (adesso) di Emanuele Boschi, fratello di Maria Elena - entrato nella commissione parlamentare d’inchiesta sulle Banche per cui si occuperà di Pierluigi Boschi, ex vicepresidente di Banca Etruria, oltre che babbo dell’amica Maria Elena e del socio Emanuele. Stupefacente coincidenza, perché la rettitudine dei qui elencati è fuori discussione. Si aggiunge che altro e non meno inappuntabile membro della commissione è il cinque stelle Alessio Villarosa, che ha fondato la sua esperienza parlamentare nella irriducibile lotta a Bankitalia, mentre fondò quella pre-parlamentare nella Idea Finanziaria del fratello Massimiliano, in cui lavorò un paio d’anni, e che poi è stata cancellata da Bankitalia per gravi irregolarità e sospetti d’usura, confermati dal tribunale civile, ai quali il nostro Villarosa è senz’altro estraneo. Ora, in commissione, continuerà a fare il contropelo a Bankitalia. Che stupefacente coincidenza. Ah, Ippolita Ghedini, sorella di Niccolò, avvocato di Silvio Berlusconi, è materia della commissione perché accettò consulenze da Veneto Banca, nonostante suo marito fosse procuratore capo di Treviso, dove Veneto Banca aveva sede e indisturbata faceva danni. I componenti di Forza Italia della commissione stabiliranno se ci fu almeno conflitto d’interessi. O se, invece, si trattò di una semplice, stupefacente coincidenza.
Il Fatto 4.11.17
Mafia Capitale e Micaela Campana. “Troppi non ricordo del tutto inverosimili”
Le carte - “Reticenza e falsità” emergono dalle parole di Micaela Campana del Pd
“Troppi non ricordo del tutto inverosimili”
di Antonella Mascali

La primavera non ha portato bene a Nicola Zingaretti, che ora rischia un processo per falsa testimonianza. È il 21 marzo, il governatore del Lazio è costretto a deporre al processo Mafia Capitale. Si capisce subito che vorrebbe essere ovunque tranne che nell’aula bunker di Rebibbia: vieta pure di essere ripreso dalle telecamere. Il 19 ottobre precedente, pur essendo un uomo delle istituzioni, esercitò il suo diritto di indagato per un procedimento connesso per concorso in corruzione e turbativa d’asta e si avvalse della facoltà di non parlare. Con l’archiviazione della sua posizione, però, a marzo Zingaretti è chiamato a testimoniare con l’obbligo di dire la verità. Ma per i giudici di Mafia Capitale la sua deposizione è zeppa di dichiarazioni che “non risultano convincenti” né per i rapporti che ha con personaggi oggetto della sua testimonianza né per le intercettazioni in mano al tribunale né per il contenuto di altre testimonianze.
Salvatore Buzzi, che in passato lo ha finanziato con 10 mila euro regolarmente registrati, lo ha accusato di avere stretto un accordo politico spartitorio con la destra di Storace prima e di Luca Gramazio dopo, per la gara Recup, il centro unico di prenotazione regionale. La Procura di Roma indaga Zingaretti ma chiede e ottiene l’archiviazione non credendo a Buzzi, ma i giudici del Tribunale sembrano pensarla diversamente. Zingaretti, sotto giuramento, a marzo dice di non aver mai parlato di Recup né con il suo “caro amico” Giuseppe Cionci né con il suo capo di gabinetto Maurizio Venafro, accusati da Buzzi, e anche loro archiviati, di essere i mediatori. “Se Cionci ci avesse provato – sostiene – avrei rotto l’amicizia”. La gara Recup era da “40-60 milioni l’anno” e il governatore sostiene di non essersene interessato “per trasparenza”. Quando l’avvocato Piergerardo Santoro gli contesta le intercettazioni in cui Buzzi e i suoi interlocutori parlano di Recup, nominando Cionci e Venafro, mai Zingaretti, il presidente risponde: “E io che ne so?”.
La gara, comunque, fu revocata “per autotutela”. Con il suo amico Cionci, Zingaretti sostiene di non aver parlato neppure degli spazi pubblicitari comprati dalla Provincia, quando lui era presidente, su Cinque, il giornale di Cionci. Non credibile per il tribunale dato i suoi rapporti di “antica amicizia”, di “assoluta fiducia” con Cionci e Venafro. Zingaretti si dice “sereno sui fatti ma anche scosso: ho fatto della legalità la mia ragione di vita”.
Anche la deputata e responsabile del Welfare per il Pd Micaela Campana rischia un processo, com’era ampiamente prevedibile dopo i suoi 39 “non so”, “non ricordo del tutto inverosimili”, sui suoi rapporti con Salvatore Buzzi, per lei “grande capo”. Il 17 ottobre 2016 riesce a far infuriare la presidente del tribunale Rosanna Ianniello che a un certo punto esclama: “Lei è membro della commissione Giustizia della Camera, dovrebbe sapere che il testimone ha l’obbligo di dire la verità”. Per l’accusa, rappresentata in aula da Luca Tescaroli, la sua testimonianza è segnata “da una serie di bugie e reticenze smentite dal contenuto degli atti processuali”. È la vicenda della gara per il Cara di Castelnuovo di Porto, che si è aggiudicata la Eriches, del gruppo di Buzzi, bloccata per un ricorso di concorrenti, l’esempio più significativo della testimonianza “smemorata” di Campana che – è giusto segnalarlo – avrebbe potuto rifiutarsi di deporre perché moglie separata dell’imputato Daniele Ozzimo, ex assessore della giunta Marino.
Un’interminabile sfilza di “non so, non ricordo” in merito a una interrogazione che Buzzi voleva a tutti i costi. L’interrogazione non si fa, non perché, come testimonia la deputata, lo decise sulla base delle carte ma perché glielo chiese Filippo Bubbico, viceministro dell’Interno. Bubbico “ha detto che al momento c’è solo un articolo di stampa”, scrive Simone Barbieri, collaboratore di Campana, a Buzzi. La stessa Campana si giustifica al telefono intercettato con Buzzi al quale scrive alla fine :“Bacio grande capo”. E la presidente Ianniello: “Il riferimento a Bubbico come lo spiega?”. “Volevo far terminare le pressioni”. “Dunque era una menzogna – prosegue la presidente – pertanto, se è il caso, mente?”. Campana, balbettante: “È stato un modo”.
il manifesto 4.11.17
Fava: «Pd sprezzante con la sinistra, ma Micari perde a prescindere»
Claudio Fava, candidato presidente della Sicilia
intervista di Daniela Preziosi

Claudio Fava, mai visti tanti esponenti delle sinistre in Sicilia per un voto regionale. Ieri Bersani, ma anche Fratoianni, e prima D’Alema. Oltre alla regione, cosa vi giocate nel voto di domani?
Una sinistra senza aggettivi, consapevole della domanda che arriva dal paese. Per Renzi la sinistra è residuale, non ha più funzione né progetto di governo. Noi siamo in campo per entrambe le cose. E se non dovesse andare bene con il governo, lavoreremo sul progetto.
Sul governo però la partita sembra solo fra due: destre contro M5S. Le destre sono quelle del 2001, quelle del 61 a zero?
Quelle. Ma più fameliche perché vengono da una lunga astinenza da governo. Con un compromesso che mette assieme posizioni ormai molto diverse. L’altra sera Salvini, Meloni e Berlusconi non sono stati capaci neanche di mettersi d’accordo sul ristorante in cui cenare.
E però sono uniti e favoriti. Sa che le diranno che avrà fatto vincere la destra e perdere il candidato Pd Micari?
Il candidato del Pd perderà a prescindere da me. E noi diremo: potevate non candidare Micari e far vincere Fava.
La morale sarà: sinistre divise fanno vincere le destre. In Sicilia come alle politiche.
Intanto parlare di «sinistra» per definire il Pd è un’improprietà linguistica. E alcuni sostenitori di Micari se sentono parlare di sinistra mettono la mano alla pistola. Da Alfano a Cardinale. Era improponibile far parte di una compagnia di giro in cui si sta insieme per obbedienza elettorale, ma senza rivolgersi parola perché ciascuno disistima l’altro.
Orlando, il ministro, dice già che dopo il voto di domani vi dovreste sedere tutti intorno a un tavolo.
Loro dovranno senz’altro sedersi intorno al loro tavolo per capire quante cose hanno sbagliato. Non solo ad affidare a Renzi una leadership senza se e senza, ma anche le alleanze: l’idea sprezzante di considerare la sinistra un ornamento elettorale mentre i giochi di potere si fanno a destra con Berlusconi e con Alfano.
Renzi ha giusto fatto un passaggio nell’isola.
Sembrava Borgart in Casablanca, parlava con i motori dell’aereo accesi. È venuto a dire una sola cosa: non votate Fava.
Renzi non ci ha messo la faccia perché sa di aver perso?
Sa di aver perso e non ha altri argomenti. A parte di non votare me ha fatto appello ai padri democristiani. A Catania, dove un pezzo della Dc si è divorato la città. È stato imbarazzante per gli stessi ex dc.
Parliamo dei cosiddetti impresentabili. Sulle liste dei suoi avversari ha fatto lei il lavoro che non ha fatto la commissione antimafia?
La commissione antimafia fa quello che fanno i giornalisti, mette insieme le notizie dei carichi pendenti, le vicende giudiziare in corso. E infatti i 5 stelle hanno fatto solo copia-incolla. «Impresentabili» invece sono anche quelli incensurati ma che hanno un profilo morale discutibile, una storia familiare, quelli che esprimono un contesto. La politica deve fare un lavoro a monte, non limitarsi ai certificati dei carichi pendenti. Se i 5 stelle si fossero fatti una domanda non avrebbero candidato Li Destri, cugino di un capomafia di un paese di 3mila abitanti. Né Musumeci avrebbe candidato Pellegrino, fratello di un capomafia di Catania.
Sta parlando di persone incensurate. E di processi non conclusi.
Sto parlando di opportunità politica. Musumeci ha ascoltato le intercettazioni del suo candidato e poteva fare una valutazione politica. Così Cancelleri: nel suo caso stiamo parlando di due cugini in un paese di 3mila abitanti. Uno dei due è il referente di Cosa nostra. Cancelleri ha candidato l’altro: può anche essere persona specchiata, ma il tema dell’opportunità sono capaci di porselo questi giovanotti?
Da vicepresidente della commissione antimafia ha avuto accesso a dati cui altri non arrivano?
No, non ho partecipato alle riunioni della commissione. E ho usato gli strumenti che avevano anche gli altri candidati.
Fava, dà un’immagine della Sicilia che sembra quella di trent’anni fa. È ancora così?
Che Cosa nostra sia presente in questa campagna elettorale è un fatto. Ma non andando a frugare nei seggi, come pensano i 5 stelle. Aspetta di vedere chi vince per capire in che modo essere presente nei processi della spesa pubblica. Stiamo parlano di una regione con un bilancio da 23 miliardi, con 20 miliardi di fondi europei, in questi anni una parte della spesa pubblica è stata intercettata da aziende collegate tramite prestanome a Cosa nostra. Rispetto a vent’anni fa gli strumenti di intercettazione della spesa pubblica si sono affinati, sono meno visibili e più efficaci, utilizzano un pezzo della classe dirigente e delle professioni. È quello che ha fatto la mafia 2.0 di Messina Denaro.
Insomma la mafia è forte e non è stata mai sconfitta?
No, affatto. Sul piano della presenza militare sul territorio è molto più affannata, ma sulla capacità di essere dentro l’economia dell’isola non è affatto sconfitta.
A proposito di Sicilia d’antan. Micari e Leoluca Orlando hanno fatto un comizio in chiesa.
Una piccola vergogna, la foto del sindaco il prete e il candidato, sembrava una roba da don Camillo e Peppone. Cose così Micari ne ha fatte molte. Come la lettera ai docenti e studenti dell’Ateneo di cui è rettore. O la visita di cortesia a Mario Ciancio: ma non lo hanno informato che è un signore rinviato a giudizio per concorso in associazione mafiosa?
Berlusconi promette: toglieremo il bollo auto.
Sarà tre volte Natale, festa tutto l’anno, e toglieremo il bollo.
Se vincono i 5 stelle voi potreste dare una mano?
Darò una mano sul merito dei provvedimenti a chiunque faccia cose buone. Se la domanda è se verso i grillini ho meno pregiudizi rispetto a Musumeci, all’inizio forse sì. Ma ormai dimostrano una tale protervia che comincio a pensare che siano vuoti di intenzioni. In cinque anni di opposizione non hanno fatto una sola battaglia politica di cui si conservi memoria. Li sento parlare di ispettori dell’Osce sul voto. O non hanno capito nulla o pensano che i siciliani siano bambini da stupire con i palloncini e i clown. Promettono di chiamare manager piemontesi, come se il problema fossero i siciliani e non ’gli amici’ che vengono nominati.
La «antimafia sociale» non le è stata tutta accanto come ci si aspettava. O no?
Penso di sì, ma non ho tirato nessuno per la giacca. Faccio un esempio: ho scelto come assessora Gisella Manno Zagarella non perché è di Libera (associazione fondata da don Ciotti, ndr) ma perché è amministratore di una delle aziende confiscate che ha saputo rilanciarsi.
L’ex pm Ingroia invece non sta con lei. Dispiaciuto?
Non me ne frega nulla. Ha detto no a una proposta che nessuno gli ha fatto. Crocetta gli ha dato uno stipendio, voleva dirgli che non sta con Fava.
Crocetta non è sopravvissuto a se stesso o al Pd?
Intanto a se stesso, ha messo insieme una serie di gaffe. Fa tenerezza oggi che, rimasto fuori da tutto, dice ’Renzi è una persona d’onore’ mi metterà in segreteria. Pretesa mite, fossi in Renzi lo accontenterei, non se ne accorgerebbe nessuno. Ma che tristezza.
Neanche Pisapia sta con lei.
Non sposta un voto. Nessuno si è accorto della assenza. E un dirigente politico che non è in condizione di avere un’opinione su quello che accade in Sicilia non è in condizione di averla sul paese.
Ha sentito il presidente del senato Grasso?
No, l’ho visto alla festa di Mdp. Mi ha detto cose che non devo riferire per rispetto alla seconda carica dello stato. Mi ha fatto un sorriso che mi ha rallegrato. Al di là del dato elettorale, senza esserci mai detti nulla, con lui ho la sensazione di stare dallo stesso lato della barricata.