sabato 18 aprile 2009

l’Unità 18.4.09
Impunità ai torturatori Cia
Obama delude sui diritti
di Umberto De Giovannangeli

La pubblicazione dei memorandum dell’era Bush giudicata positivamente
Le critiche delle organizzazioni arrivano sulla non punibilità garantita agli agenti

Le pratiche della vergogna rese pubbliche. Ma al prezzo di una impunità per chi le aveva praticate su ordine superiore. È la doppia scelta di Barack Obama. Al centro la Cia e la «guerra al terrorismo» di George W. Bush.

La «luna di miele» rischia di consumarsi sulle torture «impunite» della Cia. Fuoco incrociato su Barack Obama dopo la pubblicazione dei memorandum sulle torture permesse alla Cia di George W. Bush sugli uomini di Al Qaeda Il presidente degli Stati Uniti è stato criticato da destra, per aver svelato nei dettagli i metodi brutali usati negli interrogatori, e da sinistra, per aver garantito l'immunità agli 007 che «in buona fede» li hanno posti in atto.
Il capo dell'intelligence nazionale Dennis Blair ha risposto alla raffica di critiche affermando che gli Stati Uniti »non utilizzeranno più queste tecniche in futuro. Ma sono determinati a difendere quanti si sono conformati alle direttive«. E lo stesso Obama non ha raccolto le accuse di aver scagionato chi, obbedendo agli ordini, ha eseguito atti che la sua stessa amministrazione ha giudicato »una pagina buia e dolorosa« nella storia d'America: »È gente che ha fatto il proprio dovere».
CRITICHE INCROCIATE
A sparare a zero su Obama per l’immunità agli agenti della Cia sono state le organizzazioni per i diritti umani: «Il Dipartimento della Giustizia offre l'impunità a individui che, secondo lo stesso ministro della giustizia Eric Holder, hanno torturato prigionieri», ha protestato Larry Cox di Amnesty, International, mentre Anthony Romero della Aclu (l'associazione libertaria American Civil Liberties Union) ha chiesto a Obama di affidare a un magistrato indipendente il compito di indagare e possibilmente ottenere il rinvio a giudizio di chi ha autorizzato e posto in atto metodi di tortura.
Di tono opposto ma egualmente accese sono state le polemiche da destra: Obama »si lega le mani nella guerra al terrorismo», hanno sostenuto sul Wall Street Journal l’ex capo della Cia di Bush Michael Hayden e l'ex Attorney General della passata amministrazione Michael Mukasey. «La pubblicazione di queste opinioni non era necessaria dal punto di vista legale ed è stata poco saggia dal punto di vista politico: il suo effetto sarà di invitare quella forma di paura istituzionale di recriminazioni che indebolì le operazioni dell’intelligence prima dell'11 settembre«, hanno scritto Hayden, al timone dell'agenzia di Langley dal 2006 al 2009, e Mukasey, alla Giustizia dal 2007 all'insediamento di Holder. Presi nel loro insieme i quattro memorandum gettano luce non solo sui metodi della Cia ma sugli sforzi del Dipartimento della Giustizia di giustificarli alla luce del diritto nazionale e internazionale. Passaggi sulla nudità forzata, le docce gelate e le percosse si alternano con discettazioni giuridiche sulla Convenzione Internazionale contro la Tortura.
OPERAZIONE TRASPARENZA
I documenti sono stati resi pubblici con pochissime censure, segno che Obama ha preso le distanze dalle richieste della Cia di mantenere segreti i dettagli degli interrogatori. Lo stesso capo della Cia della nuova amministrazione, Leon Panetta, aveva sostenuto che, rivelando queste informazioni, si sarebbe creato un precedente per future pubblicazioni di metodi di raccolta dell'intelligence. e informazioni riservate vengono normalmente protette per ragioni di sicurezza, ma ho deciso di pubblicare questi memorandum perché credo fortemente nella trasparenza e nella responsabilità». Un sostegno «condizionato» a Obama viene dal Washington Post. Il giornale sottolinea come Obama abbia agito in modo «saggio e coraggioso» sulla questione, da una parte «perdonando gli agenti governativi che possono aver commesso atroci crimini perché gli era stato detto che era legale, ma dall’altro segnalando che queste azioni non saranno mai più perdonate dagli Stati Uniti». La decisione di non incriminare gli agenti non deve essere però un colpo di spugna, aggiunge il quotidiano di Washington che sottolinea come anzi debba «incoraggiare inchieste sulle circostanze che hanno portato a queste torture».
«Si deve fare più luce - conclude il Post - su come le decisioni siano state prese e perché - e c’è bisogno di più informazioni su chi abbia preso la decisione finale per autorizzare l’uso di tecniche di interrogatorio che per molto tempo sono state considerate una tortura ed una violazione delle leggi americane ed internazionali».

Repubblica 18.4.09
Torture, polemiche sul "perdono" di Obama
La destra: "Folle pubblicare le carte di Bush". E da sinistra: "No all´amnistia"
Il capo della Cia, Leon Panetta, aveva cercato di dissuadere il presidente

NEW YORK - Critiche da destra e da sinistra, il plauso (con qualche distinguo) dei media, la richiesta di una commissione d´inchiesta del Senato. La decisione di Barack Obama di pubblicare i memo sulle "tecniche di tortura" usate dall´Intelligence Usa nella guerra al terrorismo e la scelta di garantire l’immunità agli agenti della Cia coinvolti negli interrogatori, ha provocato una pioggia di reazioni.
Il nuovo capo della Cia Leon Panetta si era opposto fino all´ultimo alla decisione, e contro la scelta di Obama di rendere pubblici i documenti dell´amministrazione Bush si era schierato anche Dennis Blair, direttore dell´Intelligence. Di diverso avviso Patrick Leahy, il democratico che guida la commisisone Giustizia del Senato, che ha rinnovato la richiesta di una commissione d´inchiesta indipendente che possa garantire l´immunità a chi accetta di collaborare. Ricevendo dalla casa Bianca un altro no.
Gli uomini di George Bush e i blog della destra conservatrice si ritrovano accomunati negli attacchi alla Casa Bianca con i leader dell´American Civil Liberties Union, loro nemici giurati, e con Amnesty International. Ovviamente con motivazioni molto diverse. Obama «si lega le mani nella guerra al terrorismo», scrivono sul Wall Street Journal Michael Hayden (capo della Cia dal 2006 al 2009) e Michael Mukasey (ministro della Giustizia dal 2007 al 2009): «La pubblicazione non era necessaria dal punto di vista legale ed è stata poco saggia dal punto di vista politico: il suo effetto sarà di evocare quella forma di paura istituzionale che indebolì le operazioni dell´Intelligence prima dell´11 settembre».
Di tono opposto le critiche delle organizzazioni per i diritti umani, che contestano alla Casa Bianca l´assenza di azioni legali nei confronti di chi ha autorizzato le tecniche di tortura. L´Aclu, che aveva iniziato il procedimento legale per ottenere la pubblicazione dei documenti, chiede ora ad Obama di nominare un procuratore speciale che indaghi sui responsabili degli ordini dati all´Intelligence: «I memorandum forniscono la prova irrefutabile che responsabili dell´amministrazione Bush hanno autorizzato e dato la benedizione legale ad atti di tortura che violano le leggi internazionali e nazionali». Dello stesso tenore il Center for Constitutional Rights e Amnesty International: «Il ministero della Giustizia offre un lasciapassare gratis per la libertà a persone che secondo lo stesso ministro Eric Holder sono coinvolte in atti di tortura».

Repubblica 18.4.09
Il Vaticano: in Europa campagna mediatica
Ratzinger contro il Belgio "Intimidazioni"
"Campagna mediatica contro il Papa" il Vaticano condanna il Belgio
Polemiche sul preservativo, accuse al parlamento di Bruxelles
di Marco Politi

I deputati belgi avevano votato una risoluzione di condanna delle parole di Ratzinger
CITTA´ DEL VATICANO - La "guerra del preservativo", scatenata dalle parole di papa Ratzinger in volo per Yaoundè nel marzo scorso, provoca uno scontro al massimo livello tra Vaticano e Belgio. Mercoledì scorso, subito dopo le feste pasquali, l´ambasciatore belga si è presentato dal ministro degli Esteri vaticano mons. Mamberti per trasmettergli una risoluzione del parlamento di Bruxelles con la richiesta di «condannare le dichiarazioni inaccettabili del Papa in occasione del suo viaggio in Africa e di protestare ufficialmente presso la Santa Sede». Aspra e offesa la reazione del Palazzo apostolico: «La Segreteria di Stato prende atto con rammarico di tale passo, inconsueto nelle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e il Regno del Belgio». Di più, il Vaticano deplora ufficialmente che un´«assemblea parlamentare abbia creduto opportuno di criticare il Santo Padre, sulla base di un estratto d´intervista troncato e isolato dal contesto».
«Il problema dell´Aids - aveva dichiarato il pontefice ai giornalisti in aereo, suggerendo costumi sessuali improntati alla responsabilità e alla spiritualità - non si può superare con la distribuzione di preservativi. Al contrario, aumentano il problema». La frase aveva subito provocato indignate reazioni da parte dei governi di Francia, Germania, Spagna e dell´Unione Europea nonché delle organizzazioni non governative impegnate nel contrasto dell´epidemia. Forte era stato anche l´imbarazzo di preti, suore e missionari impegnati in Africa e che non condividono affatto la demonizzazione dei profilattici, e anzi spesso li distribuiscono direttamente. Paradossalmente, nei giorni in cui l´Osservatore Romano in prima pagina svalutava l´utilizzo dei profilattici, si poteva leggere nelle pagine interne dello stesso giornale vaticano l´intervento di un missionario che - oltre a sostenere l´importanza della fedeltà coniugale, dell´astinenza e del rifiuto di rapporti promiscui - sosteneva l´utilità dei condom in caso di situazioni epidemiche e in presenza di «gruppi a rischio», tra cui prostitute, omosessuali e drogati.
Ma in Belgio non hanno voluto fermarsi alle proteste estemporanee. Il 3 aprile la Camera dei deputati ha votato una risoluzione di protesta ufficiale, definendo «inaccettabili» le espressioni di Benedetto XVI. Hanno votato a favore quasi tutti i gruppi parlamentari: dai cristiano-democratici fiamminghi (a cui appartiene il premier Van Rompuy) ai centristi francofoni, ai socialisti e ai liberali. Contro solo i partiti dell´estrema destra e i nazionalisti. 95 voti a favore, 18 contrari, 7 astensioni. Significativo è stato l´intervento del premier democristiano Van Rompuy, secondo cui «non spetta al Papa mettere in dubbio le politiche della sanità pubblica, che godono di unanime sostegno e ogni giorno salvano delle vite».
E proprio questo brucia al Vaticano: il disconoscimento che il romano pontefice venga considerato automaticamente suprema autorità internazionale di ciò che è bene e male in ogni campo. La Nota vaticana accusa che in alcuni paesi d´Europa si sia scatenata una «campagna mediatica senza precedenti sul valore preponderante, per non dire esclusivo, del profilattico nella lotta contro l´Aids». E poi denuncia certi gruppi mobilitati con «chiaro intento intimidatorio» nei confronti del Papa per dissuaderlo dall´esprimersi in merito a temi di grande rilevanza morale e impedirgli di «insegnare la dottrina della Chiesa». Contro la campagna mediatica anti-Ratzinger si schiera anche l´Osservatore Romano.

Repubblica 18.4.09
Il diplomatico che doveva presentare al Papa il documento del Parlamento ha atteso due settimane
L’anticamera dell´ambasciatore costretto a una "Canossa belga"
Parla il direttore dell´Osservatore Romano: "I veri problemi sono altri, l’Africa l’ha capito"
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - Una Canossa vaticana per l´ambasciatore belga. Ma con una variante peggiorativa. Se l´imperatore Enrico IV nel gennaio del 1077 per farsi ricevere da papa Gregorio VII fu costretto ad attendere davanti al castello di Canossa 3 giorni e 3 notti, al rappresentante del Belgio è andata peggio: per essere ricevuto dal «ministro» degli Esteri della Santa Sede (e non dal Papa) ha dovuto aspettare 2 settimane. Per presentare la nota di protesta votata dal suo Parlamento il 2 aprile scorso, il diplomatico ha dovuto attendere, infatti, fino a mercoledì 15. «Non è stato un ritardo casuale», si apprende Oltretevere, dove non si nasconde che «l´attesa è stata voluta e ponderata per meglio accentuare il disappunto della Santa Sede per il passo inconsueto, deplorevole e intollerante» fatto dai governanti belgi contro papa Ratzinger.
Canossa torna, dunque, a fare scuola in Vaticano? «E´ paragone azzardato, ma la tempistica di questa vicenda si può tranquillamente evincere dal comunicato della Segreteria di Stato», risponde il direttore dell´Osservatore Romano, lo storico Giovanni Maria Vian, secondo il quale «i veri problemi sono altri, e gli africani, contrariamente ai paesi occidentali, lo hanno capito benissimo». Il direttore addita, in particolare, «quel clima neocolonialistico che gli africani, proprio durante la visita del Papa, hanno notato negli atteggiamenti dell´Occidente sull´aids». Un atteggiamento provocato, a suo dire, «dal cortocircuito mediatico esploso intorno a una parola, preservativo, decontestualizzata dalla risposta data a una domanda di un giornalista, che ha oscurato tutto quanto Benedetto XVI ha detto in difesa dell´Africa». Quasi un black out ideologico, azzarda il direttore, il quale assicura pure che la Santa Sede non è contro l´Onu in materia di morale, ma solo contro «alcune agenzie che promuovono l´aborto come metodo contraccettivo e il condom come il solo mezzo per combattere il l´aids, come le grandi industrie vorrebbero fare in Africa». «Questo continente ha invece bisogno di ben altro», come ha detto il Papa durante la visita, chiedendo medicine gratis, aiuti, lotta a povertà, abbandono e sfruttamento; la fine delle guerre e degli armamenti. Quanto all´aids - ricorda ancora Vian - «il Papa ha parlato di sessualità responsabile, rispetto della donna, educazione, difesa dei più deboli. Ma di tutto questo niente è stato detto in Occidente per le polemiche sollevate artatamente intorno al preservativo. L´Africa non ha bisogno di essere invasa da condom». Ma il Papa sull´aids non è isolato? «Assolutamente no - conclude Vian - la sua posizione è condivisa da tanti studiosi, anche non credenti, ed ora anche da giornali come il Washington Post, il Guardian e Le Monde. Ma soprattutto dall´Africa. Non è quindi solo. Basta ascoltarlo».

Repubblica 18.4.09
Parla Padre Enzo Bianchi: a volte l’intransigenza cattolica può alimentare l’anticlericalismo
"Un conflitto con uno Stato sovrano è un colpo al dialogo con i laici"
Spesso noi credenti fatichiamo a spiegarci sui temi dell’etica. Ma qui vedo una sordità precostituita
di Michele Smargiassi

«I "giorni cattivi" del dialogo diventano più cattivi�». Non è il momento giusto per parlare con padre Enzo Bianchi del suo ultimo libro, Per un´etica condivisa, lamento sull´agonia del dialogo tra credenti e non, ma anche profezia della sua rinascita. «Quando il conflitto si istituzionalizza a questi livelli, tra Vaticano e stati sovrani, rischia di non chiudersi più», sospira deluso il priore della comunità di Bose. «Spesso noi cattolici fatichiamo a spiegarci. Ma qui vedo una sordità precostituita. Il discorso del papa sull´Aids era colmo di intenzioni umanizzanti. Ma ormai quando la Chiesa parla di etica le orecchie si chiudono automaticamente».
Per la verità il suo libro sembra un monito ai credenti più che ai laici.
«Essendo cattolico, sento la responsabilità di rendere un servizio di verità ai cattolici. Del resto tendere la mano per primi, senza garanzia di ricambio, a noi è dato come un dovere».
Però lei sembra attribuire ai cattolici la responsabilità prima dei litigi, ai laici soprattutto "falli di reazione".
«Nei due ultimi decenni molti cattolici con forte senso di militanza - non la Chiesa in sé � hanno cercato di imporre le proprie opzioni attraverso l´occupazione dello spazio pubblico. La reazione è stata un´onda di anticlericalismo che, confermo, è sempre una reazione a un clericalismo percepito come intransigente e irrispettoso. A sua volta, l´anticlericalismo alimenta le intransigenze cattoliche, e il circolo vizioso finisce in chiasso e barbarie».
Eppure la Chiesa italiana dialoga volentieri con la classe politica al governo.
«E´ seducente l´offerta del potere: un patto fondato sulla "religione civile" da imporre con le leggi. Il Cristianesimo nacque eversivo, poi spesso accettò il patto. Oggi però questa scelta è pericolosa per la sopravvivenza stessa del Cristianesimo: negli Usa, dove la religione civile è in pieno vigore, non si sa a chi si riferiscono i politici quando invocano Dio. Per fortuna, da noi questa prospettiva è ormai perdente».
Ne è sicuro? Nel caso Englaro la Chiesa ha invocato leggi per imporre la propria visione dell´uomo.
«Conoscendo cosa si muove nelle chiese locali, nelle comunità, so che le aspettative dei credenti sono diverse: che la Chiesa non si appiattisca più sul neo-liberismo, prenda le distanze da chi la usa come strumento, si cali nella storia con lo spirito dello "straniero pellegrino", cosciente di essere una fertile minoranza».
Non sembra che le gerarchie abbiano elaborato il lutto da egemonia perduta.
«Accettare di essere minoranza è necessario come elaborare un lutto. Dopo, puoi raggiungere persone che non appartengono alla tua tradizione, e averle con te in un percorso di umanizzazione sociale».
Ma quanta strada possono fare assieme credenti e non? Don Milani avvertì l´amico ateo: non ti fidare di me, un giorno io ti tradirò�
«Non non è detto che accada, o che il tradimento sia così drammatico. Certo, parlando di Cristo, resurrezione e vita eterna, è ovvio che io e l´ateo ci divideremo, ma non significa distruggere il cammino fatto assieme».
I "valori non negoziabili" non sono il limite dell´"etica condivisa"?
«Ogni dialogo ha limiti, ma se parliamo di diritti umani, siamo ben lontani dall´averli raggiunti. Ora dobbiamo tutti accettare i metodi che possiede la democrazia per giungere alle decisioni. Possono uscirne scelte non condivise, ma accettabili. Per quelle non accettabili, il cristiano sa da sempre che può invocare il diritto di dire non possumus».
L´obiezione di coscienza non è un grimaldello per scardinare decisioni democratiche?
«No, se chi la invoca mette in conto di pagare per la sua "eversione", per il diritto di dire di no alla polis in certi particolari casi. Accettandone le conseguenze, dimostrerà di non avere altri interessi oltre la coscienza e la verità».
Vale anche quando la Chiesa invita a boicottare un referendum? Capitò con la legge 40, può accadere di nuovo sul testamento biologico.
«L´iniziativa fu di alcune componenti ecclesiali, più che della Chiesa come tale. In ogni caso, queste battaglie devono farle i credenti come cittadini, non i vescovi. Le figure rappresentative della Chiesa devono fermarsi sulla soglia del pre-politico».
Ai cattolici lei chiede di abbandonare il vittimismo. Agli "ateologi autodidatti", cosa chiede?
«Di abbandonare una lettura vecchia e comoda della Chiesa, in cui il male è la fede e non il suo uso nella storia. E di smettere il tentativo di renderci ridicoli. E´ un obiettivo poco onesto: si abbassa arbitrariamente il bersaglio per colpirlo meglio. Chi deforma non ascolta, chi non ascolta non capisce che c´è già una Chiesa che sa declinare l´insegnamento di Cristo nell´arena della polis».
Cosa succede se l´etica non si condivide? Tra i due litiganti, chi gode?
«Il potere, è ovvio. Ad ogni potere fa piacere veder sperperare una profezia di speranza. Ogni potere cerca di evitare sinergie tra buone volontà. Se continuiamo a non ascoltarci, il potere ce ne sarà grato».

Repubblica 18.4.09
Il Papa cancelliere
di Adriano Prosperi

Francamente non credevamo possibile che si potesse intimidire il papa. Né che qualcuno lo immaginasse possibile. Da quando, grazie alla breccia di Porta Pia, il pontefice della Chiesa cattolica non è più il sovrano di uno stato territoriale obbligato a fare politica con gli stessi strumenti degli altri stati, la sua capacità di agire sulle cose del mondo ha acquistato una dimensione nuova che non tollera confronti con quella che apparteneva all´antico Stato Pontificio. «Quante divisioni ha il papa?» chiedeva Stalin. È una domanda che ha avuto la risposta della storia.
Ne sono documento il crollo del muro di Berlino e i tanti altri crolli che hanno alzato nuvole di polvere in mezzo a cui parte della vita politica � anche e soprattutto italiana � brancola ancora. E´ singolare che lo si debba ricordare oggi a chi fa risuonare dalla Città del Vaticano queste voci preoccupate. La lingua in cui sono espresse appare quasi un reperto archeologico d´altri secoli: una voce aspramente burocratica, da potenza a potenza. Ed è con la lingua d´altri secoli che forse in qualche ministero statale qualcuno sarà tentato di rispondere. Vedremo. Se ciò accadesse assisteremmo al ritorno di fantasmi che credevamo per sempre evaporati non solo dalla realtà ma anche dall´immaginario della politica.
Sarebbe un tuffo nel passato remoto, come uno spettacolo in costume dove i figuranti provano a recitare una specie di tragicommedia. Gli appelli che giungevano alle cancellerie europee, in special modo alla Francia di Napoleone III dai portavoce di Pio IX - «quel di se stesso antico prigionier», come lo chiamò Giosuè Carducci - furono l´ultimo esercizio storicamente noto di ridar vita all´antico Papa Re. Ma erano già allora stonati e tradivano la tristezza di un difficile distacco dal mondo del passato da parte di un papa che ascoltava cupe profezie di prossima fine del mondo dal suo predicatore e a quel mondo che riteneva prossimo alla fine mandava raffiche di scomuniche.
Ogni tanto la voglia di vibrare scomuniche come strumento per dominare la lotta politica si è riaffacciata ancora. Ma la realtà storica si è imposta regalando ai pontefici che hanno saputo approfittarne l´occasione di governare non i comportamenti di ministri e capi di stato, ma i sentimenti delle masse, interpretandone i desideri e le speranze, recando benedizioni e aprendo le braccia nel gesto della fraternità. Mai il papa è stato più potente di quando è stato disarmato e ha bussato alle porte dei sovrani temporali come un "pellegrino apostolico". Nell´epoca delle masse e della globalizzazione il papato ha scoperto quanto può essere efficace e persuasiva la parola di un uomo vestito di bianco che reca parole di pace, che non ha bisogno di guardaspalle armati, che si inginocchia e bacia la terra quando giunge in un nuovo paese. Sono in molti oggi tra i politici di professione e tra gli uomini di potere che si applicano nello studio e nell´imitazione di questo modello, costretti come sono dai tempi a inventare forme di esercizio del potere che saldino direttamente il capo alla folla. Ma il carisma che i secoli hanno conferito al linguaggio e ai rituali pontifici opera in maniera ben più efficace e si rivela seducente ben al di là della cerchia dei fedeli seguaci della Chiesa cattolica.
Naturalmente ci sono delle regole che governano l´efficacia del rituale: e una regola fondamentale è quella di lasciare nell´ombra l´opera politica fatta di scelte concrete nel gioco delle potenze che il papato non ha certo rinunciato a svolgere. Ora ciò che non cessa di meravigliare nel modo in cui si svolge la comunicazione col mondo di Papa Ratzinger e della sua cerchia è una certa tendenza al registro aspro, il frequente ricorso all´avvertimento severo, il privilegiare compagnie francamente strane come quella del gruppo di seguaci di Monsignor Lefebvre. E la cosa stupisce soprattutto chi conosce l´opera di teologo e di guida religiosa raccolta nei molti libri dell´attuale pontefice.
Tanta familiarità con la letteratura antica, coi testi dei Vangeli, con le pagine dei teologi antichi e moderni stenta a trovare la via per un rapporto non burocratico coi problemi di guida della Chiesa. Una Chiesa che oggi ancora una volta e forse più che mai sembra davanti al bivio tra i problemi del mondo e quelli che riguardano solo la struttura di governo di un corpo ecclesiastico rigidamente gerarchizzato e dotato di un pesante bagaglio di dottrina e di norme giuridiche. Il dossier che sotto il nuovo pontefice si è venuto riempiendo reca molti esempi del prevalere di una volontà di rialzare le muraglie che secoli fa Martin Lutero accusò il papato di avere eretto intorno al corpo ecclesiastico. Il prezzo pagato è stato alto. E qui non teniamo conto di quello che è stato pagato all´interno della comunità ecclesiale cattolica ma di quello che pagano e pagheranno i cittadini italiani da quando una formazione politica assai composita ha deciso di muovere alla conquista del potere politico stringendo un patto che le impone l´ossequio a tutte le direttive della Roma papale e del suo gruppo dirigente attuale. Forse è proprio questo orizzonte italiano che rischia oggi di fare un cattivo servizio a una dirigenza ecclesiastica che guarda al mondo dall´osservatorio di Roma con le lenti offuscate del passato: e arriva a scontrarsi con un parlamento di uno stato europeo, immagina una campagna mediatica rivolta contro il Vaticano e infine trasforma la figura del papa in quella di un cancelliere.

Corriere della Sera 18.4.09
Il Paese e le divisioni
L’ombra della linea anti Chiesa nella Bruxelles del re cattolico
di Luigi Offeddu

BRUXELLES — Delphine Bo­el, scultrice, dichiara che lei è la figlia naturale di Alberto II del Belgio. Vive scortata, e vie­ne svegliata da telefonate not­turne che le preannunciano una brutta morte: pare che molti non le perdonino di aver scalfito l’immagine del re, e questo già la dice lunga su certi sentimenti profondi che ancora circondano il tro­no più cattolico d’Europa, for­se del mondo.
Perché a Bruxelles, da sem­pre, regna la monarchia più vi­cina al Papa. Ma detta legge il Parlamento che ne è più lonta­no, il più laico dei parlamenti europei. Secondo soltanto al Parlamento d’Olanda — l’Olanda protestante, un tem­po orangista e «anti-papista» — per la «laicità» di certe leg­gi, approvate nonostante il «no» della Chiesa. Il Belgio è sempre stato così, piccolo pae­se di grandi convinzioni in un senso o nell’altro: quello in cui, oltre mezzo secolo fa, il giovane Baldovino fu in dub­bio se salire al trono o chiuder­si in un convento; per poi, trent’anni più tardi, chiedere al governo di dichiararlo «tem­poraneamente impedito» per 48 ore, così da non firmare la legge sull’aborto. Obbedì al Pa­pa, oltre che alla sua coscien­za, ma non al Parlamento. Ave­va per moglie donna Fabiola Fernanda Maria de las Victo­rias Antonia Adelaida de Mora y Aragon, una vita da infermie­ra nelle corsie degli ospedali e da regina nei saloni di Corte, dama spagnola che arrivò a un passo dalla morte nel tenta­tivo di divenire madre, e che pregava per ore inginocchiata accanto a lui, al marito. Don­na Fabiola ha 81 anni, mesi fa sembrava giunta alla fine: tut­to la nazione, molti deputati compresi, ha pregato per lei; e anche questo è il Belgio.
Quanto alle ultime critiche rivolte a Benedetto XVI, sono acqua fresca, rispetto ai duri scambi di battute fra i partiti di governo e, per esempio, il cardinale Godfried Danneels, un anno fa, subito dopo la morte dello scrittore Hugo Claus. Un caso di eutanasia: Claus non accettava le soffe­renze del morbo di Alzheimer. Tutto il governo giustificò la scelta. Ma il cardinale Danne­els no: «Così non c’è risposta al problema della sofferenza e della morte. Eludere il proble­ma non è né un atto eroico».
Per mesi, l’opinione pubbli­ca è rimasta spaccata in due. E si discute ancora. Eppure, da 7 anni, sotto il profilo legislati­vo, non vi sarebbe più molto da dire: il Belgio è stato il se­condo paese al mondo, dopo la solita Olanda, a legalizzare l’eutanasia e il suicidio assisti­to. Da allora, oltre 2000 i casi, e il Parlamento già va oltre. Dopo un’indagine negli ospe­dali, che ha rivelato circa 80 casi di «dolce morte» fra ra­gazzi e neonati, si discute di una nuova di legge che esten­derebbe l’eutanasia ai bambi­ni, e agli handicappati psichi­ci. Come in Olanda, ancora una volta. E forse, qualcosa conterà la storia: due secoli fa, Olanda e Belgio stavano insie­me in un regno unito sotto Gu­glielmo d’Orange, l’uomo che voleva separare la Chiesa — ri­formata, protestante — dallo Stato. Poi i belgi cattolici si ri­bellarono, conquistarono l’in­dipendenza sulle barricate, e cominciarono il loro cammi­no con quei re vicini al Papa, e quei ministri sempre più lon­tani.

Repubblica 18.4.09
La sinistra in Italia
di guido Crainz

Il libro di Aldo Schiavone, L´Italia contesa (ed. Laterza) e la discussione che ne è seguita fra l´autore ed Ernesto Galli della Loggia sollevano molto utilmente alcuni problemi decisivi. In primo luogo, che rapporto c´è fra l´Italia che si è delineata dall´inizio degli anni novanta e la storia precedente della Repubblica? In altri termini: lo snodo centrale si colloca fra la caduta del muro di Berlino e l´esplosione di Tangentopoli, o molto più all´indietro? Il profilo del Paese che si è delineato in questi anni � con la dissoluzione del vecchio sistema politico e il mutamento post-industriale � ha le sue prime ragioni nella crisi radicale (di dimensioni internazionali, non solo italiane) dei primi anni novanta? Se così fosse, sarebbe possibile vedere nel "berlusconismo" solo l´ ideologia della transizione italiana. E quindi pensare (e sperare) che la vittoria elettorale del 2008 rappresenti il punto terminale della sua parabola, "un capitolo della nostra storia che si sta chiudendo". Anche accogliendo con comprensibile favore questa lettura, lascia qualche dubbio l´idea che "la sinistra sia ancora nelle condizioni migliori per poter rispondere" alle domande del Paese perché dispone "di più conoscenze, di un pensiero più educato, di un maggior allenamento alla riflessione" (traggo le citazioni dal libro di Schiavone). I dubbi non sono legati solo a quella che a me sembra l´agonia (o, se preferite, perdita di profilo e di cultura comune) delle differenti sinistre, da quella riformatrice a quella che ancora evoca fantasmi comunisti. I dubbi rinviano alla natura e alla genesi profonda della crisi. Si considerino gli elementi, strettamente intrecciati, che Schiavone indica con grande chiarezza, in primo luogo il dissolversi del rapporto fra le masse organizzate dall´economia industriale della "Prima Repubblica" e il sistema dei partiti. Più ancora, lo scomparire stesso delle classi, a partire dalla classe operaia, e l´affermarsi di un inedito "popolo" di consumatori, caratterizzato da un forte individualismo acquisitivo. Sono processi che nascono con le trasformazioni degli anni ottanta o rinviano per certi versi alle modalità stesse della modernizzazione italiana, a partire dal "miracolo economico"? Dobbiamo riflettere meglio, a mio avviso, non tanto �come talora accade- su di un plurisecolare "carattere degli italiani" quanto sulle conseguenze dello "sviluppo senza guida" di quegli anni, per dirla con Pietro Scoppola. Sin da allora è in questione, a me sembra, anche il rapporto fra forze politiche e Paese. I partiti � annotava nel 1965 Giorgio Bocca � sono obbligati "a costruire sulle sabbie mobili. Le cellule, le sezioni, i circoli, le associazioni inseguono in affanno un popolo che sta cambiando sedi, gusti, abitudini e aspettative politiche". E già dieci anni prima Roberto Guiducci irrideva al "mito del proletariato come osso non frantumabile della storia". I problemi, insomma, non venivano solo dai pesantissimi condizionamenti internazionali e dai grevi meccanismi della democrazia bloccata. Negli anni ottanta e novanta sembrano dissolversi non tanto solide realtà, incrinate ormai da tempo, quanto categorie logore, sempre più inadeguate a dar conto di un mutamento colossale. Ci si volga allora alla modernizzazione italiana nel suo insieme, e al ruolo delle forze politiche al suo interno. E´ certo sbagliato attribuire ogni nostro disastro alle responsabilità del Partito comunista, come è incline a fare Galli della Loggia, ma un´analisi adeguata è ancora da compiere. Mi sembrano illuminanti, ad esempio, le discussioni interne al Pci degli anni settanta, anni in cui una parte crescente del Paese iniziò a vedere in esso il possibile protagonista di un profondo, positivo cambiamento. È la fase che portò al referendum sul divorzio e poi alle elezioni del 1975 e del 1976: il punto più alto del consenso al Pci e al tempo stesso l´inizio � esse sì � di un inarrestabile declino. Da quelle discussioni interne emerge in realtà una distanza enorme fra il Partito (i suoi quadri mentali, i suoi apparati, il suo gruppo dirigente) e la società italiana, e su essa occorrerebbe riflettere ancora. E´ solo una parte, naturalmente, di un approfondimento più generale. Le basi di esso furono poste tutte, a mio avviso, nel dibattito storiografico, politico e giornalistico alimentato dalla crisi dei primi anni novanta. Da punti di vista molto differenti vennero sollevate allora domande radicali sulla nostra vicenda nazionale: di lì a poco, nell´attesa di una salvifica "Seconda Repubblica", l´urgere di esse fu infelicemente dimenticato. Erano troppo radicali? A me non sembra. Lo scorrer degli anni ha semmai confermato che quei nodi poco autorizzano visioni ottimistiche del futuro civile e politico del paese.

Repubblica 18.4.09
L’anima e la scienza
Se le parole non spiegano il mistero della vita
di Antonio Monda

L’incontro tra lo scrittore Tom Wolfe e il neuroscienziato Steven Pinker. Dall’evoluzionismo alla filosofia

TOM WOLFE - Sono cresciuto secondo gli insegnamenti presbiteriani, ma ricordo ero molto colpito dal fatto che in chiesa non sentivo mai parlare di anima. Devo dire che oggi non sono particolarmente interessato al fatto che l´anima possa esistere, tuttavia continuo a sentire che esiste qualcosa di insondabile, e sono perplesso rispetto alle risposte prettamente scientifiche. Ho scritto quel pezzo come una specie di nota a piè di pagina rispetto all´affermazione di Nietzsche «Dio è morto». Studiando quel testo sono rimasto molto colpito dal fatto che il filosofo parla dell´inevitabile avvento di barbari movimenti nazionalistici. Nel giro di pochi decenni nascono il nazismo e il comunismo, segnati da paganesimo e ateismo: quante tragedie, quante guerre catastrofiche sono nate nel momento in cui l´investimento dell´essere umano nelle religione si è spostato su questi ideali?
STEVEN PINKER - La catastrofe della Seconda guerra mondiale è stata generata da movimenti che non erano ispirati da religioni, anzi che spesso le combattevano, ma non si può dire lo stesso della Prima guerra mondiale, dove le principali nazioni coinvolte erano cristiane. Non si può negare che anche le religioni, o quantomeno l´interpretazione che ne hanno dato gli uomini abbiano causato guerre e disastri.
WOLFE - Non c´è dubbio, e oggi provo paura per le forze estremiste di stampo religioso. Tuttavia mi colpisce un altro dato: con l´eccezione di alcuni focolai, terribili ma abbastanza limitati, l´Europa è diventato uno dei posti più pacifici della storia. Mi chiedo se questo non rappresenti un segno di evoluzione, e vorrei spostare la conversazione sul modo in cui rapportiamo il linguaggio all´evoluzione. Penso alle prime testimonianze apparse settemila anni fa, ma anche a quello che succede oggi con Internet. Penso all´evoluzione come selezione naturale ed artificiale. Mi chiedo ad esempio se quello che mangiamo - così selezionato e modificato - non finisca per cambiare anche noi. Ricordo che mio padre mi portava a vedere le piantagioni di granturco: quello che mangiavo da piccolo è lo stesso di quello che mangio oggi?
PINKER - Non è possibile dare una risposta evoluzionistica a tutto per il semplice motivo che ci stiamo ancora evolvendo. Pensa al linguaggio: non si tratta di qualcosa deciso da un comitato, ma di una realtà viva, in continua evoluzione, che comporta anche scomparse. Mi vengono in mente termini recenti come blog, spam, podcast. E poi ci sono le invenzioni lessicali delle quale proprio tu sei un rappresentante importante con espressioni diventate di uso comune come "radical chic". Si tratta invenzioni generate dal tuo cervello, che hanno immortalato una realtà esistente.
WOLFE - Il tuo approccio mi sembra simile a quello degli gnostici, gli eretici che credevano di essere gli unici depositari della luce divina. Nel fondo si tratta di un approccio scientifico che tende a ritenere gli esseri umani delle macchine, dei quali è possibile conoscere e analizzare i meccanismi. Lo stesso può dirsi per Richard Dawkins, e Noam Chomski, che peraltro di cervello umano non sa nulla.
PINKER - Ma sei stato tu a scrivere che l´anima non esiste: a questo punto come fai a non definire gli esseri umani se non macchine? Il mio approccio non nega che esista la libera scelta oltre a comportamenti non plausibili e non prevedibili.
WOLFE - Possiamo dire anche libero arbitrio? Io dico che il mistero rimane, ma sento che in risposta alla mia posizione di dubbio, tra coloro che hanno un approccio unicamente scientifico c´è chi è convinto che esista anche un gene della religione.
PINKER - Lo penso anch´io, o almeno che ci sia un´inclinazione. Solo che non si tratta di un gene ma di una combinazione di 10 mila geni. Sono stati fatti a riguardo degli studi mettendo a confronto gemelli nati da genitori credenti e gemelli adottati. Una volta che sono stati separati alla nascita, si è visto che l´atteggiamento rispetto alla fede di queste coppie di gemelli è stato drasticamente diverso.
WOLFE - Io penso sempre alla tribù Piraha che vive sul fiume Maici, nel cuore della foresta amazzonica: non hanno arte, decorazioni. Non conoscono la danza e perfino le collane che indossano non sono state create per generare qualcosa di bello, ma per scacciare gli spiriti maligni. Il fatto che non abbiano una religione ha portato a dire subito che essa sia un prodotto culturale, ma quelle collane rivelano una superstizione, che forse risponde proprio ad una necessità religiosa.
PINKER - Come definisci la religione, se non attraverso le parole?
WOLFE - Le parole possono dirti cosa succede. Non come e perché. Un grande scienziato come José Delgado sosteneva che conosciamo solo una piccola parte del funzionamento della mente. Tutto il resto è letteratura. Ma le parole possono moltissimo: nei primi anni il cristianesimo era un culto di dimensioni modeste. Cristo parlava a poche persone di cose rivoluzionarie come gli ultimi saranno i primi. Pensa ai miliardi di persone che ne sono state conquistate, e all´influenza che ha avuto su movimenti ed ideologie diversissime: l´idea dell´eredità della terra di cui Cristo parla nel discorso della montagna non ha ispirato il marxismo ateo? E se non vogliamo entrare nel terreno religioso, pensa a Rousseau, i cui libri avevano una diffusione scarsissima.
PINKER - Ma non credi sia fondamentale sapere cosa succede nella mente umana, perché gli esseri umani reagiscono in tal modo, e qual è il rapporto con la dimensione sociale, economica e politica?
WOLFE - Certo che mi interessa, ma a volte penso che ci comportiamo come l´aria condizionata nei confronti del sole, o un cerotto nei confronti di una ferita. Tentiamo di superare i nostri limiti, ma il mistero rimane. Mi viene sempre in mente l´incipit del Vangelo di San Giovanni: «In principio era il Verbo. E il Verbo era presso Dio. E il Verbo era Dio». Chiunque abbia scritto questo passaggio era un genio. Se non hai le parole, non puoi avere l´idea di Dio.

Corriere della Sera 18.4.09
Berlino. Il reporter che «provocò» l’apertura dei confini Est-Ovest confessa: «Fui consigliato da un funzionario Ddr»
La domanda «suggerita» che fece cadere il Muro
di Danilo Taino

BERLINO — La notte in cui la storia svoltò, le cose non ac­caddero per caso. Era il 9 no­vembre 1989, il regime comu­nista della Germania dell’Est (Ddr) vacillava da settimane sotto la pressione di migliaia di cittadini che volevano usci­re dalla gabbia di Muro e filo spinato. Il governo, per respira­re, aveva deciso di emanare al­cune leggi che permettevano una certa libertà di circolazio­ne.
Un’ora prima di una conferenza stampa pro­grammata, che sareb­be stata tenuta dal ministro della Pro­paganda Günter Schabowski, il tele­fono nell’ufficio di Riccardo Ehrman, il corrispondente dell’agenzia di stampa Ansa a Berli­no, squillò. «Sono l’uomo del sottomari­no », disse una voce.
«Capii immediatamente chi era — racconta oggi Ehr­man —. Si trattava di Günter Pötschke, membro del comita­to centrale della Sed (il partito al potere, ndr), che mi parlava in codice, i telefoni erano con­trollati. Il sottomarino era il no­me che si usava per la sede, in uno scantinato, dell’agenzia di stampa ufficiale del regime, la Adn, della quale era direttore. Mi consigliò di fare a Scha­bowski una domanda sulla li­bertà di viaggio». Verso la fine della conferenza stampa — al­le 18.53, ora entrata nei libri di storia — il giornalista italiano la fece. Chiese al ministro della Propaganda quando le restri­zioni di viaggio sarebbero sta­te tolte. «Credo anche subito», fu la risposta incerta che scari­cò un brivido nella mente di Ehrman. Corse in ufficio e subi­to lanciò una breve notizia An­sa: «Un annuncio — diceva — che equivale alla caduta del Muro di Berlino è stato dato questa sera dal governo», ricor­da Ehrman. Un paio d’ore do­po, le Trabant attraversava­no da Est a Ovest i che­ck- point chiusi da quasi trent’anni, il Muro ini­ziava a sbriciolarsi e, in piena festa, inizia­va l’era post-comu­nista.
Finora, della tele­fonata di suggeri­mento fatta dell’al­to funzionario del regime non s’era sa­puto. Ehrman è di­ventato famoso nel mondo per quella do­manda, la domanda della vita che decise il momento del grande crollo. Fino a oggi, però, era sembrata una doman­da ingenua, forse un po’ casua­le. Anzi, alcuni giornali in Ger­mania e Spagna, di recente, hanno proprio sostenuto che si trattò di un caso, di una cu­riosità fortunata. «Per questo ho deciso di raccontare l’episo­dio — spiega ora al telefono da Madrid, dove vive, l’ex corri­spondente dell’Ansa — Ho sa­puto che Pötschke è morto di recente e quindi posso parlare liberamente. Non fu un caso. E nemmeno una manovra di par­tito o di regime come ha soste­nuto qualcuno. Quello fu il ri­sultato del lavoro di un giorna­lista che conosceva il Paese, aveva molti contatti e tra que­sti la fonte che mi mise sulla strada giusta».
Non fu la domanda, natural­mente, a causare il crollo del re­gime della Ddr. Ma certamente fu essa a provocare l’esplosio­ne di felicità e di incredulità in una delle notti più straordina­rie della storia recente: la Berli­no unificata nella gioia, la Ger­mania unica un anno dopo, la fine della Guerra Fredda sven­tolata sul Muro della vergo­gna. Quel che Ehrman oggi ri­fiuta è l’idea, che ieri circolava in alcuni giornali tedeschi, che si sia trattato di un complotto, che «l’uomo del sottomarino» avesse un obiettivo politico, forse dettato da scontri interni al regime nei giorni del crepu­scolo. «No — dice il giornali­sta italiano —. Non ci fu mano­vra: Pötschke era informato dei fatti del regime, mi cono­sceva, si fidava e mi diede un suggerimento. Non fu nemme­no un caso: fu giornalismo».

Corriere della Sera 18.4.09
Intervista allo studioso oggi considerato tra i maestri della neurofisiologia
Ammirazione, decifrata la biochimica del sentimento
Damasio: «Così sondiamo le basi della morale»
di Massimo Piattelli Palmarini

Per immedesimarci con i soggetti studiati mediante ri­sonanza magnetica funziona­le da Antonio Damasio, Han­na Damasio, Mary Helen Im­mordino- Yang e Andrea Mc­Call, all’Università della Cali­fornia del Sud, a Los Angeles, leggiamo questa storia vera e immaginiamoci sia corredata da un video e da un’intervista con la protagonista.

E’ direttore dell’Istituto per il cervello dell’Università della California
Nel processo di auto-coscienza sono coinvolte numerose aree cerebrali
L’esperimento condotto su tredici soggetti: storie vere, video e interviste
Letteratura, poesia e psicologia spiegate con le regole della scienza

Isolamento
«Questa donna è paralizza­ta. Racconta che non è mai stata baciata, nè ha mai avuto una relazione amorosa. La sua sedia a rotelle la isola dal resto del mondo. Da bambi­na, alle elementari, era gioio­sa e aveva tanti amici, con i quali giocava e rideva. Ma già alle medie cominciò a sentir­si isolata, brutta e non apprez­zata. I maschi nemmeno la guardavano. Le piacerebbe molto avere amici, ma si è ras­segnata alla solitudine e al­l’isolamento. Nell’intervista che vedrete (in­tervista che i soggetti effetti­vamente vede­vano) lei parla con il suo fidato cardiologo, che la conosce e la cura da anni, e si confida con lui». Ebbene, il det­tagliato studio da loro appena pubblicato su «Proceedings of the National Academy of Sciences Usa» ri­vela che, nel no­stro cervello, la compassione per questa don­na ha attivato svariate aree: l’insula anteriore, il cingolato anteriore, l’ipotalamo e il me­sencefalo. Queste sono regio­ni connesse all’interiorizza­zione delle sensazioni e al mantenimento dell’equili­brio psichico. Poco stupisce che anche la compassione le mobiliti. Più sorprendente, però, è stata l’attivazione an­che di aree della corteccia po­stero- mediale (comprenden­te il pre-cuneo, la corteccia cingolata posteriore e la regio­ne retro-splenica) coinvolte nei processi di auto-coscien­za.
Inoltre, i profili di attivazio­ne in tempo reale dell’insula anteriore si sono rivelati di­versi per diversi contenuti mentali. Si osserva un picco di attività immediato e breve nella compassione per la sof­ferenza fisica, ma invece ritar­dato e più prolungato nel­l’ammirazione della virtù e nella compassione per la sof­ferenza sociale.
Ben scelto, quindi, è il ter­mine «empatia», cioè il gioire e soffrire all’unisono con al­tri, coniato nel 1909 dallo psi­cologo anglo-americano Ed­ward Bradford Titchener e da lui definito come «il sentire del muscolo della mente». Non solo il vedere, distaccati, ma il sentire corposamente, profondamente, compassio­ne o ammirazione.
Damasio e colleghi sono i primi ad aver sondato le basi primigenie di questi senti­menti, che stanno anche alla base della morale. Hanno pre­sentato ai loro 13 soggetti, per­fettamente nor­mali( 6 uomini e 7 donne), storie vere, video e in­terviste, ciascu­na scelta atten­tamente, ciascu­na capace di in­durre uno dei seguenti senti­menti: ammira­zione della vir­tù, ammirazio­ne della bravu­ra, compassio­ne per una soffe­renza sociale (come il caso della donna pa­ralizzata) e com­passione per una sofferenza fisica (casi di calciatori e sollevatori di pesi con arti lesionati durante le loro performance).
Regolatori
In un’intervista in esclusi­va, chiedo ad Antonio Dama­sio, autore anche di libri mol­to noti e tradotti in italiano, ideatore e direttore di un «Istituto per il Cervello e la Creativita», cosa deve colpir­ci di più in questo suo esperi­mento. «La corteccia insulare - risponde - , l’ipotalamo e il tegumento del tronco encefa­lico sono i regolatori degli equilibri vitali. Questo studio rivela che sono pesantemen­te coinvolti anche nelle emo­zioni sociali. Un’area recente­mente individuata nello stu­dio del cervello è il PMC (cioè la corteccia postero-media­na), un settore funzionale del cervello coinvolto nelle sensa­zioni interne autonome, e ab­biamo visto che si attiva nelle situazioni di compassione e di ammirazione». Questo, sot­tolinea Damasio, era del tutto inaspettato e suggerisce che il fattore trascinante non è il tipo di emozione, bensì il con­tenuto mentale che suscita l’emozione.
Voglio essere un po’ attivo, con il beneplacito di Dama­sio, e gli chiedo se questi stu­di neuro-biologici veramente rendono scienti­fico quanto già sapevamo sulla compassione e l’ammirazione attraverso il sen­so comune, la psicologia del comportamen­to, la letteratura e la poesia. Sen­za esitazioni, ri­sponde: «Quan­do la scoperta di specifiche ba­si cerebrali di un processo mentale delimi­ta e rinnova il modo di porci un problema, di­rei proprio che si è fatto qualco­sa di importan­te e utile. Nel no­stro studio, sospettavamo che, suscitando emozioni co­me la compassione e l’ammi­razione, si mobilitassero zo­ne cerebrali ben al di sotto della corteccia, cioè il tronco encefalico e l’ipotalamo, ma non potevamo averne la cer­tezza. Sono centri che regola­no la vita. Inoltre, non avrem­mo mai scoperto, altrimenti, che la corteccia postero-me­diana rispecchia la distinzio­ne tra compassione fisica e compassione sociale, tra con­tenuti fisici e contenuti socia­li della mente. Nell’articolo appena pubblicato mostria­mo che proprio questo avvie­ne. Infine, non avremmo po­tuto accertare, senza questi da­ti, che il profilo in tempo reale delle attività ce­rebrali nelle aree deputate è diverso per emozioni diver­se».
Passo
Diamo atto a Damasio e colla­boratori di aver fatto un passo ulteriore verso una migliore comprensione di noi stessi. Esemplari resta­no comunque, in molti di noi, i versi di Monta­le rivolti ad Este­rina, «ti guardiamo noi della razza di chi rimane a terra» (ammirazione per la destrez­za), e nella straziante «Ballata scritta in una clinica»: «Con te anch'io m'affaccio alla voce che irrompe nell'alba, all' enorme presenza dei morti; e poi l'ululo del cane di legno è il mio, muto». Difficile decide­re se la sua era compassione sociale o fisica.

Corriere della Sera 18.4.09
Un nuovo studio sul cervello accomuna gli uomini agli animali di 500 milioni di anni fa
Perché ci viene l’amaro in bocca
Disgusto: una reazione fisica e psicologica con la stessa origine
di Giuseppe Remuzzi

«Amaro in bocca» lo lascia il sapore di un cibo contamina­to certamente, ma si resta con «l'amaro in bocca» se ti tradi­sce un amico o per un amore che finisce male. Che c'è di più «disgustoso» dell'olio di fegato di merluzzo, terrore dei bambini di un tempo? Ma «di­sgustoso » è anche un atto di violenza, utilizzare i bambini come piccoli mendicanti o ab­bandonare gli animali d'esta­te. Stessi modi di dire per si­tuazioni molto diverse. Sarà un caso? E se invece ci fosse una ragione?
E' la domanda che si è po­sta Hanah Chapman che lavo­ra all'Università di Toronto in Canada. Lei ed altri scienziati si sono presi la briga di studia­re le basi neurofisiologiche del disgusto (il lavoro è stato pubblicato sulla rivista ameri­cana Science) quello dell'olio di fegato di merluzzo prima di tutto, ma del disgusto che si prova con comportamenti di­sdicevoli, immorali, ingiusti o violenti. Sono partiti dall' espressione del volto e si sono chiesti perché tutti di fronte a un cattivo sapore facciamo la stessa faccia. Se uno prende una medicina amara (ma an­che se si trova di fronte a un atto di violenza) si mettono in moto gli stessi muscoli cioè l'elevatore dei muscoli del lab­bro che poi coinvolge i musco­li dei movimenti dell'ala del naso da una parte all'altra.
E' la contrazione sincrona di questi muscoli che conferi­sce a chi prova disgusto quell' espressione inconfondibile, «schifata», come dice la gen­te. E succede a tutti, uomini e donne in qualunque parte del mondo. Chi governa questi muscoli? Dietro all'espressio­ne di disgusto ci sono una se­rie di attività mentali, in termi­ni tecnici è il sistema di valuta­zione del disgusto, che proces­sa le informazioni e reagisce. Quando l'area del cervello pre­posta alla valutazione del di­sgusto si attiva partono reazio­ni a catena — di out-put dico­no gli scienziati — da cui di­pende l'espressione del volto appunto, ma si arriva fino alla nausea o a perdere l'appetito. La capacità di processare situa­zioni di disgusto e governarle non l'abbiamo imparata, ce la siamo portata dietro. Ce l'ave­vano gli anemoni di mare 500 milioni di anni fa, una sorta di sensore chimico per accorger­si delle sostanze tossiche per non farsi avvelenare. I sistemi di valutazione di disgusto so­no passati poi ai primi verte­brati, ai primati, all'uomo evol­vendosi per situazioni diverse dal disgusto «di bocca» per coinvolgere la sfera della mo­rale. Gli scienziati di Toronto hanno visto che la stessa area del cervello che ci fa provare disgusto per il cibo si attiva di fronte a situazioni che suscita­no riprovazione morale. Saper esprimere il disgusto per un comportamento che viola il senso comune è stato per l'uo­mo uno dei modi di imparare a vivere con altri in una socie­tà che aveva bisogno di rego­le.
Questo studio ci dice anche delle basi neurofisiologiche della morale, che parte da istinti molto primitivi. «Ama­ro in bocca» per situazioni spiacevoli non è una metafo­ra, è nato proprio dalla bocca, quella degli anemoni di mare, milioni e milioni di anni fa.

Corriere della Sera 18.4.09
La mappa del genoma e le malattie imprevedibili
di Edoardo Boncinelli

La conoscenza del genoma umano ha mantenuto le sue pro­messe?
Diffidare dei laboratori che promettono mari e monti.
E non leggere mai da soli i risultati ottenuti dai test

E a cosa è servito tutto questo per quanto riguarda la vi­ta di tutti i giorni? Queste sono le domande che qualcuno si pone di tanto in tanto, dando di volta in volta le risposte più diverse. Se non c’è dubbio che sul pia­no conoscitivo e scientifico i risultati sono stati enormi e di enorme portata, meno cla­morosi sembrano essere gli avanzamenti sul piano della salute individuale. O alme­no questo emerge dagli studi statistici del momento. Il tutto è particolarmente signifi­cativo per due motivi. Perché in questo aspetto c’è in ballo un universo di aspettati­ve e di comprensibili apprensioni e perché particolarmente in Italia sono fioriti i labo­ratori che promettono analisi genetiche ca­paci di grandi e fondate previsioni. Forse occorre adesso andare più cauti.
Lo studio del genoma partì qualche an­no fa tra grandi aspettative e qualche pole­mica. Tra tutte le cose belle che se ne pote­va dire i media hanno sottolineato e il gran­de pubblico ha colto soprattutto l’aspetto predittivo. Avendo a disposizione la se­quenza completa del genoma umano e del­le sue innumerevoli varianti si sarebbe po­tuto prevedere con largo anticipo alcune malattie che avrebbero poi colto questa o quella persona durante la sua vita. Il desti­no delle notizie scientifiche, si sa, è quello di oscillare tra l’essere accolte nella totale indifferenza e quello di essere enfatizzate e reclamizzate oltre misura, magari con qual­che esagerazione che talvolta arriva a trasfi­gurarle.
Che cosa ci si poteva ragionevolmente aspettare da questo tipo di analisi? E che cosa è emerso fino adesso? Nel nostro ge­noma ci sono scritte molte cose, ci sono le istruzioni per vivere e prosperare e ci è regi­strato anche qualcosa della nostra natura genetica individuale. Delle malattie pura­mente genetiche, fortunatamente rare, c’è scritto tutto. Delle malattie puramente ac­quisite, dalle infezioni agli incidenti, non c’è scritto comprensibilmente niente. C’è scritto qualcosa della stragrande maggio­ranza delle altre malattie, inclusi i tumori, le quali hanno una base genetica innata ma per scattare hanno bisogno di una se­rie di eventi negativi, genetici e non, che ci possono capitare nell’arco della nostra vi­ta.
Sono appunto queste le patologie per le quali ci si aspetta di ricavare qualche infor­mazione utile dall’analisi del genoma. Per prevenire o per darsi semplicemente una regolata. E’ utile tutto questo? Quanto biso­gna farci affidamento? E come dobbiamo accogliere eventuali risultati? Al di là delle oscillazioni del momento, i miei consigli sono questi.
Informarsi bene su quali test sono utili e quali inutili. Non sono tutti utili, ovviamen­te, perché dal prevedere all’essere ci corre molto. In questo caso ci corre la vita. Molte patologie che sono per strada possono non arrivare mai, mentre altre che non si erano ancora avviate al momento dell’analisi pos­sono capitarci addosso in men che non si dica.
Fra i test utili, e ce ne sono molti, farsi consigliare quale fare e magari rifare e do­ve e come. Non tutti i laboratori sono at­trezzati alla stessa maniera. Diffidare so­prattutto di quelli che promettono mari e monti. Talvolta è meglio fare e ripetere al­cune analisi cliniche convenzionali che mi­rabolanti profili genetici. Non leggere mai da soli i risultati dei test, ma farseli spiega­re e commentare da chi ne capisce, di soli­to un genetista medico. Solo questo ci può dire se non abbiamo niente, se abbiamo qualcosa della quale preoccuparsi — e quindi come comportarci — o se potrem­mo avere in futuro qualcosa, ma con quale probabilità e a quali condizioni.

Corriere della Sera 18.4.09
In Francia vacilla la fede ma non è colpa dei filosofi
di Francesco Margiotta Boglio

La stampa italiana non ha dato notizia dei sorprendenti risultati di un recente sondaggio commissio­nato in Francia dal settimanale cattolico Pèlerin, che lo ha pub­blicato per Pasqua, su un fonda­mento centrale delle fede cri­stiana. Si tratta della credenza dei francesi nella resurrezione, propria e del Redentore, che vie­ne proclamata nel «Credo».
Ebbene solo il 13 per cento dei cattolici crede nella resurre­zione e solo il 19 spera di resu­scitare, mentre sul totale degli interrogati solo il 10 ci crede e solo il 14 ci spera. Il 7 per cento del totale e dei cattolici pensa a una reincarnazione in terra, il 33 (40 dei cattolici) spera che ci sia qualcosa dopo la morte, ma non sa di che genere; il 43 per cento del totale e il 33 dei catto­lici è persuaso che non ci sia nulla dopo la morte, mentre il 19 dei cattolici (che sale al 61 per i praticanti regolari) spera nella resurrezione, il 21 nella reincarnazione in terra e il 24 non è interessato all’aldilà.
«Dobbiamo vedere in questi dati il segno di una regressione della fede nei Paesi di antica cri­stianità? », si è chiesto il diretto­re del settimanale. Forse no, ri­sponde, ma è certo che fare am­mettere e comprendere la resur­rezione resta la sfida per tutti i predicatori della recente setti­mana santa. Di chi la colpa? Del solito relativismo, diranno ov­viamente le autorità religiose, ma sarebbe utile che le «sommi­tà » pontificie si interrogassero su una situazione, quella france­se, che dagli anni Quaranta del Novecento è andata sistematica­mente degradandosi, nonostan­te l’alto livello della cultura teo­logica francese. Sarebbe più produttivo del frequente baloc­carsi con dotte ma pastoralmen­te sterili dispute sulle filosofie di ieri e di oggi. Ma com’è ben noto, anche i docenti universita­ri, come i lupi, perdono il pelo, ma non il vizio...

il Riformista 18.4.09
Sally è pazza? Vita di una figlia bipolare
Greenberg. Un'estate in famiglia interrotta da un disturbo. Il giornalista americano racconta una storia vera psicosi contemporanea.
di Francesco Longo

Una volta, ad un paziente maniaco-depressivo, fu applicata la macchina della verità. Gli chiesero se lui era Napoleone, e il malato disse: «No». La macchina della verità segnalò che l'uomo stava mentendo. La profondità che raggiunge la malattia mentale, nell'identità di chi ne è affetto, è oggi raccontata nel libro di Michael Greenberg.
L'autore, giornalista e scrittore americano, racconta la storia - vera - di sua figlia, che un giorno manifestò di essere malata di disturbo bipolare. Il libro, che ripercorre le tappe della malattia durante l'arco di un'estate, racconta non solo la trasformazione della ragazza, ma il mondo dei genitori. Il primo pregio di questo libro è infatti di registrare i pensieri dei genitori che non riescono ad accettare la malattia mentale della figlia. Il padre pensa che il crollo sia frutto di droghe, o che lei sia un genio: perché ama i sonetti di Shakespeare o ascolta all'infinito le Variazioni Goldberg suonate da Glenn Gould. La madre (i genitori sono separati) è influenzata dall'ideologia New Age e quando viene a sapere del ricovero della figlia commenta così: «Sally sta avendo un'esperienza, Michael, ne sono certa, questa non è una malattia. È una ragazza profondamente spirituale». E Michael anche, dentro di sé ci spera: «La sua evoluzione. Il suo viaggio. Anch'io volevo crederci». La prima parte della terapia dunque consiste, per la ragazza e per chi le sta attorno, nell'accettare la verità.
Il libro cerca di indagare anche l'insoluto nodo tra responsabilità e sensi di colpa. Quando Sally viene ricoverata e messa in isolamento, l'autore scrive: «L'unica altra volta in cui l'ho vista in ospedale era notte in cui è nata. A quel punto del nostro matrimonio, sua madre e io eravamo come due persone che devono da sole in un bar. Non ostili, solo lontani mille miglia». Il fratello si sente responsabile per come la trattava quando erano piccoli. La madre si ricorda di averla lasciata piangere da neonata. Ora la viene a trovare e poi riparte. Tutti si sentono in colpa. Ma nessuno è capace di intervenire e nessuno, se mai errori potessero aver rinforzato la patologia, è in grado di denunciarli. La seconda parte della terapia consiste nell'accettare l'uso delle medicine per curare qualcosa che sembra solo eccentricità, creatività e genialità. E il padre fa anche questo passo: «le medicine sono necessarie, sono l'unico modo di strappare una persona dalla morsa della psicosi acuta».
Mentre la figlia fa lenti progressi e viene dimessa, mentre «New York a luglio sembra una catacomba», il lettore viene posto davanti ad una malattia che sempre di più oggi diventa nota e diffusa. Il libro non si chiede mai perché questa malattia sia sempre più frequente. Ogni epoca storica manifesta in modo diverso il disagio mentale. C'è l'età dell'isteria, quella della schizofrenia, il secolo della depressione, gli anni delle malattie alimentari e oggi il disturbo bipolare: picchi e precipizi nell'umore, fasi di iper-attività alternati dal letargo della volontà. Euforia e disperazione. Estro e apatia, apatia ed estro. Perché oggi?
Sally, superata la fase acuta, viene dimessa e riprende la sua vita: la Clinica Comportamentale e le medicine l'aiutano a riprendere la scuola. Le ultime due pagine raccontano le crisi che a distanza di anni tornano a colpire Sally. La malattia è ciclica, le ricadute esistono, per ora la cura non c'è. Un libro così, sincero e ben scritto, è importante per riconoscere in tempo la patologia e per incoraggiare chi sta attraversando il «bosco» insieme ai milioni di Sally lo percorrono. Il secondo pregio di questo libro è di non indugiare nel sentimentalismo ma di saper raccontare il tragico (il padre prende a calci la porta, schiaffeggia la nuova compagna). Questa vicenda ha la forza emblematica di quando Stevenson scrisse Dr Jekyll e Mr Hyde. Storie delicate, complesse, che la letteratura riesce a divulgare e a rendere più accettabili. Che hanno anche il privilegio di far apprezzare, una volta che sono state narrate, «il miracolo della normalità».

IL GIORNO CHE MIA FIGLIA IMPAZZÍ
Michael Greenberg
Rizzoli, 207 pp., euro 16

il Riformista 18.4.09
Islam è donna
Un libro per far emergere le problematiche legate all'Islam, all'immigrazione, all'integrazione e al diritto di cittadinanza

Un libro per far emergere le problematiche legate all'Islam, all'immigrazione, all'integrazione e al diritto di cittadinanza. È questo l'obiettivo del libro "Islam e donne in politica" della professoressa Rkia Soussi Tamli, d'origine berbera e nata in Marocco, ma in Italia da circa 22 anni. Qui scatta la scintilla che ha acceso il suo interessante tomo. E cioè: la condizione di numerose donne musulmane in Occidente, magari senza velo, istruite e qualificate, ma senza diritto di cittadinanza ed affini. Ecco, come sottolinea l'autrice, «il "burqa" sociale italiano-europeo degli stereotipi, dei pregiudizi», nonostante da noi si parli sempre di libertà, democrazia e pari opportunità.
La Tamli ha vissuto sulla propria pelle la condizione di invisibilità in quanto donna musulmana: nonostante fosse arrivata regolarmente in Italia come studentessa universitaria, la conquista dei diritti si è rivelata una difficile corsa ad ostacoli. Forse per via del proprio credo musulmano? Chissà. Eppure la scrittrice vuole convincerci che l'Islam è pace e fede, innegabili ed incancellabili, ma non contro l'Occidente.
Per questo Tamli crede fortemente come sia possibile migliorare la condizione delle donne velate in Europa, Usa e più specificatamente in Italia, soprattutto con il dialogo. Per questo ha pubblicato il suo libro, una raccolta di interviste a numerose donne italiane delle più disparate appartenenze politiche. Dalla Mussolini alla de Zulueta, dalla Santanché alla Bresso, sino a Iva Zanicchi. Tutte che parlano dell'Islam lontano dalle telecamere. E con meno demagogia del solito.

venerdì 17 aprile 2009

Repubblica 17.4.09
Lo psicologo sotto la tenda
Paure, incubi, depressione. Sono migliaia gli sfollati che chiedono aiuto. Perché la ricostruzione più difficile è quella dell’anima
di Michele Smargiassi


L´AQUILA. Le viene fuori di getto: «Ma io, dottoressa, posso ancora sgridare le mie tre figlie?». Anche S. s´è presentata al centro d´ascolto, come tanti, apparentemente a chiedere solo qualcosa per dormire. «Non chiudo occhio da giorni, mi aiuti»: lo psicologo da campo se lo sente ripetere decine di volte. Invece S. d´un tratto ha deciso di liberarsi dal suo tormento più segreto: «Non riesco più a fare la mamma. Non so più cos´è giusto e cos´è sbagliato. Mi spieghi dottoressa: le regole di prima valgono ancora? Anche dopo? Anche qui?».
Un terremoto non fa crollare solo i soffitti di calce. Incrina i muri portanti di un´identità. Scuote le fondamenta dell´Io. Spacca in due lo schema mentale che dà ordine a ogni vita: prima e dopo, là e qui. In mezzo: una faglia, un crepaccio di cui è difficile intravedere il fondo. La desolazione di S., sfollata dal suo ruolo materno, potremmo accontentarci di spiegarla con il senso di impotenza e anche di colpa (immotivato ma fortissimo) per non aver saputo proteggere le bambine dalla perdita di ogni sicurezza. Ma gli psicologi delle catastrofi sanno di dover cercare più a fondo. Nei sedimenti ancestrali della psiche umana. Emanuela Torbidoni, che ha lasciato il suo studio a Teramo per farsi volontaria dell´ascolto, suggerisce un indizio: «La terra è un simbolo materno». Se la Grande Madre impazzisce e si ribella ai suoi figli, come potranno le piccole madri resistere salde nel loro ruolo?
"Posso ancora sgridare le mie tre figlie?". La donna che non sa più fare la mamma è una delle migliaia di persone affette da ansia e senso d´impotenza, dopo il sisma in Abruzzo. La ricostruzione più difficile, quella dello spirito di una popolazione traumatizzata, è affidata a sessanta psicologi dell´emergenza. Raccolgono le confessioni degli sfollati e offrono loro assistenza. "Un disastro naturale è peggio della guerra. Non c´è un nemico da incolpare"
Tutti parlano all´imperfetto. "Io ero un´impiegata" Si sentono parte di una massa ferita L´identità è rimasta sotto le macerie
Le famiglie si stringono: nessuno riesce a lasciare da soli i propri cari I divorziati si riavvicinano, ma non durerà a lungo
Si piange senza vergogna. Anzi, le lacrime sono liberatorie. E chi racconta non bada più al rispetto della privacy
Nella piccola "città di tela" di Poggio di Roio nessuno ha ancora visto il paese distrutto "Sarebbe uno shock troppo forte"
La psicologia dell´emergenza è giovane ma ha una storia e una letteratura ormai consolidate. Però forse è qui, nelle tendopoli d´Abruzzo, che per la prima volta si è fatta esperimento di massa. Una sessantina gli psicologi costantemente sul campo, organizzati da associazioni professionali specializzate: sono abbastanza per coprire quasi tutti i cento campi degli sfollati. In quello più grande, piazza d´Armi all´Aquila, le tende del pronto soccorso dell´anima sono addirittura tre: una per gli incontri di gruppo, una per i colloqui individuali e una per lo scarico di tensione dei volontari, perché anche tirar fuori cadaveri dalle macerie lascia cicatrici interiori. Le sottili pareti di tela verde non fanno gran schermo alla privacy, filtrano brandelli di confessioni, «non so cosa mi succede, ero così energico», «non riesco a consolare mia madre». Non importa, tanto tutti, nel cuore, hanno le stesse cose. Il pudore e la riservatezza sono cose del prima. Nei debriefing collettivi, per dirla con Federica, psicologa di Novara, «si apre il rubinetto» davanti agli sconosciuti, si racconta ancora una volta quella notte. Un cieco parla del boato. Un vedente preferirebbe non aver visto. Un uomo descrive per dieci minuti buoni una sola cosa, una lampada, statuetta di porcellana e sfera di cristallo, dono di matrimonio, «fragile, bellissima» finita in briciole. «Una vita condensata in un oggetto», traduce Oriana Broccolini di Pea, associazione abruzzese di psicologi d´emergenza. Si piange senza vergogna, a torrenti. Lacrime liberatorie, benvenute, perché i volti che appaiono sulla soglia delle tende spesso sono come le facciate delle case abbandonate: mostrano poche crepe, ma dietro magari è crollato tutto. A sorpresa, giungono risate dalla tenda 56: vere, gioiose, cristalline. Ne sbuca un medico-clown, Professor Pastrocchio, naso rosso a pallina e scarpone smisurate, è uno psicologo anche lui, a suo modo: «La signora mi ha detto: di notte bene o male dormi, ma i giorni non finiscono mai».
Ansia, crisi di panico sono solo la superficie del nulla che incombe. «Come ti senti?», è la domanda d´approccio. «Vuoto», è la risposta standard. Nel vuoto, gli echi più brutti della tua vita risuonano più forte. «Mi sento come quando divorziai da mio marito»: questa è una signora matura, storia vecchia di vent´anni, eppure rieccola qui come una scossa del quinto grado. «Non faccio altro che pensare a mio padre»: questo invece è un ragazzo ormai grande, allevato da una ragazza-madre, papà non l´ha mai conosciuto, ma ecco che gli appare dalle crepe del muro. «Sono la passività forzata e la vita sospesa che resuscitano fantasmi del passato», spiega Antonio Mancinella che per la Società italiana di psicologia dell´emergenza accudisce gli sfollati degli alberghi al mare, situazione logisticamente felice e interiormente rischiosissima. Nella saletta dell´hotel Don Juan di Giulianova riceve ogni pomeriggio persone che parlano di sé all´imperfetto: «Io ero un ingegnere», «io ero un´impiegata», perché ora si sentono rifuse in massa nell´indifferenziata categoria dei terremotati. «Ci hanno anche dato la maglietta della Protezione civile�». L´identità di un tempo è sotto le macerie. Quella futura, chissà. Nel presente, nulla. Dieci giorni dopo la grande paura, anche l´euforia degli abbracci è esaurita. I teorici conoscono bene la progressione delle fasi post-cataclisma: l´eroismo sovrumano delle prime ore, l´esplosione affettiva del subito-dopo, poi la delusione del tempo sospeso. L´evaporazione dello stress da lavoro lascia campo libero all´esplosione degli affetti. Le famiglie si stringono nelle tende. «Il mio ufficio ha riaperto ma non posso andare a lavorare, ho paura a lasciarli qui»: un padre. Contatto visivo obbligatorio. A vedere i muri della casa vecchia si va in processione familiare. Raccontano di coppie divorziate che hanno chiesto una tenda insieme. Ma anche questo finirà. Un terremoto non ricuce mai. La psicologa Lucrezia: «Ricominciano le liti. Il padre preferisce l´albergo, la madre restare vicino alla casa. I figli grandi vogliono cambiare città, ricominciare da zero, i genitori li rimproverano soffrendo: allora tutto quello che abbiamo costruito per voi?».
Chi non ha un passato da perdere o da ritrovare, invece, soffre di più. I bambini. Due giorni fa, chiamata d´urgenza da un hotel di Roseto: «È scoppiato il panico fra i ragazzini», pianti, ansie, una crisi collettiva. Il terremoto replicato con grida, rumori, tremori, da chi non sa tradurlo in parole. Il vuoto è contagioso. Per quelli appena più grandicelli è anche un vuoto cibernetico: i computer per Messenger e Facebook sono sotto i mattoni, e il mondo s´è di colpo rimpicciolito. «Ho perso tutti gli amici», ragazzina in lacrime, lo psicologo Antonio le ha trovato un Internet point. Ma fosse sempre così facile. «È lo stress da campo ora il nemico più insidioso», spiega Fabio Sbattella, presidente di Psicologi dei Popoli: in quello affidato alle loro cure, Monticchio, il primo impegno è stato ridare nome ai luoghi e misura al tempo. Orologi e calendari appesi nei locali collettivi. Cartelli con i nomi dei camminamenti fra le tende, «Piazza Speranza», «Via Ricostruzione». Claudia e Marco ci passeggiano con le loro casacche gialle e la scritta "psicologo" sul petto, sicuri che qualcuno li fermerà, infatti succede a ogni passo: c´è la biondina che domani torna a lavorare alle Poste e anche questo le dà ansia, «mi sembra di essere tornata bambina, ho paura di non saper più fare nulla». C´è la madre di famiglia che tiene insieme a fatica i pezzi del clan, la sorella è appena «scappata via, io invece resto qui», ma ci sta male. C´è l´operaio robusto che si rode per il rimorso di aver stuzzicato il destino: «Stavamo a giocà col terremoto, ci scherzavamo�». C´è l´infermiera pensionata già in sindrome da abbandono: «Come faremo quando ve ne andrete?».
«Qualcuno dovrà continuare, faremo i turni», immagina Marilena Esposito, veterana della psicologia d´emergenza: ha fatto il Pakistan, l´Iraq, lo Tsunami e ora è alle prese col microcosmo di Roio Poggio, forse la più piccola delle cittadelle blu senza nome che punteggiano la valle, issata dopo decine di tornanti fuori dal clamore delle telecamere. «Il terremoto è peggio della guerra. Non c´è un nemico a cui dare la colpa. Non c´è un senso». Il paese distrutto è lì sotto, basterebbe affacciarsi oltre quel bordo, ma un altro del team, Maurizio Agnesi, ha fatto sbarrare il sentiero: «Nessuno ha ancora visto cos´è rimasto, lo shock può essere troppo». Ma nella Roio di tela e brande nessuno ha il coraggio di fare quei due tornanti. Solo una settantenne, solo lei ha voluto farsi accompagnare a vedere. Ha vacillato. Ha resistito. Poi ha deciso cosa fare del suo passato. «Tenga questo», ha allungato a Marilena un ciondolino a forma di animaletto, «è l´unica cosa che mi è rimasta di quel che avevo. Gliela regalo», ed è tornata nel limbo della sua irreale, nuova casa blu.

Repubblica 17.4.09
Antonio Picano, dell´Associazione Strade 360
"Serve una task force contro la depressione"


Una task force di psichiatri per curare la depressione post-terremoto, una struttura specifica di professionisti specializzati nella cura dei traumi provocati da catastrofi. È la proposta di Antonio Picano, psichiatra, presidente dell´Associazione Strade 360, che si occupa da anni di organizzare strutture pubbliche per il trattamento della depressione.
Professore, di che si tratta?
«È un progetto che verrà presentato alla Protezione civile, da trasformare in un comitato permanente che gestisce eventi di questo genere. Il trattamento della depressione dopo un terremoto va affrontato in modo scientifico, non può essere una cosa affidata al volontariato, ci vogliono professionisti».
Quante persone dovranno essere seguite?
«Possiamo ipotizzare che ci saranno circa 10 mila persone da trattare e dobbiamo prevedere un periodo di lavoro di almeno tre anni. La depressione dopo una catastrofe è una branchia della psichiatria, investire sulla sua cura è una cosa strategica per lo Stato, è fondamentale per il recupero di queste persone e quindi per il recupero di tutta l´area colpita».
La depressione ha un costo sociale.
«Sì, e bisogna evitare che la situazione si degradi, il terremoto ha colpito un capoluogo, tutta la classe dirigente è segnata, bisogna agire in modo professionale non basta la buona volontà».
Dopo le perdite, i lutti, quale pericolo rischiano ora i sopravvissuti?
«L´improduttività, l´isolamento, la noia della vita nelle tendopoli possono destabilizzare ulteriormente. Dopo un evento di questo genere c´è anche il rischio di suicidio. Alcuni tentativi, nelle aree terremotate d´Abruzzo, ci sono già stati».
(m. c.)

Repubblica 17.4.09
Parigi, tutte le case del Vaticano anche Kouchner tra gli inquilini
Affitti bassi per molti politici. E scoppia la polemica
Imbarazzo per il ministro degli Esteri. Che replica: "Contratto vecchio di 35 anni"
di Anais Ginori


PARIGI - In un lussuoso appartamento di rue Guynemer, nel cuore di Parigi, abitano Bernard Kouchner e sua moglie, la giornalista Christine Ockrent. Il palazzo ottocentesco ha una splendida vista sui giardini del Luxembourg. «Non vedo dove sia il problema» ha commentato ieri il ministro degli Esteri.
L´indirizzo del titolare della diplomazia non avrebbe in sé nessun interesse se non fosse per il padrone di casa che ogni mese riscuote l´affitto. Kouchner è infatti uno dei tanti inquilini eccellenti del Vaticano. Certo è in buona compagnia. Un tempo, nello stesso immobile di Kouchner, viveva François Mitterrand. E a pochi passi, in un altro palazzo della Santa Sede, in boulevard Montparnasse, ha abitato l´attuale ministro della Cultura, Christine Albanel.
"Le ricchezze nascoste della Chiesa", titolava ieri in prima pagina Le Parisien con una documentata inchiesta. Nella capitale francese, ha rivelato il giornale, il Vaticano gestisce una decina di immobili di grande valore attraverso una sua controllata, la Sopridex. Albanel ha confermato la notizia, precisando però che ha lasciato l´appartamento nel 2006: 85 metri quadrati a 1.700 euro al mese. «Un prezzo di mercato» ha commentato il ministro della Cultura. Kouchner non ha voluto invece rivelare dettagli sulla casa né dire quanto paga. Il suo portavoce ha fatto sapere che il contratto è vecchio di 35 anni, quando era solo un «french doctor», semplice militante di organizzazioni umanitarie. Il nuovo incarico di governo rischia però di creare qualche imbarazzo. Il Quai d´Orsay è interlocutore costante della Santa Sede. Negli ultimi tempi non sono mancati i punti di disaccordo: Kouchner ha duramente criticato le frasi di Papa Benedetto XVI sui preservativi.
Ci sarebbero, secondo Le Parisien, altri politici e personalità importanti che abitano in case del Vaticano. Ma il quotidiano non è stato in grado di fornirne i nomi. Ancora più ricco sarebbe il patrimonio immobiliare della Chiesa francese. Secondo Jean-Michel Coulot, vice segretario generale alla Conferenza episcopale, gli affitti a Parigi equivalgono a un reddito variabile fra i 10 e i 20 milioni di euro. «Smettiamola con queste polemiche - ha replicato Coulot - La Chiesa è povera, abbiamo più spese che entrate». I redditi immobiliari, ha spiegato ancora il responsabile, sono infatti destinati alla manutenzione di scuole e chiese, che secondo la legge del 1905 sono beni dello Stato. Eppure la Chiesa francese ha comprato due anni fa, nell´elegante settimo arrondissement, altri 5.000 metri quadri sulla avenue de Breteuil, per 36 milioni di euro. Le «Piccole suore dei poveri» hanno invece venduto il loro ospizio e i terreni adiacenti in boulevard Murat, nel sedicesimo arrondissement, alla società Cogedim. Prezzo della transazione: 37 milioni di euro. Qui sorgeranno 180 appartamenti, 80 alloggi popolari, una casa di riposo e un giardino pubblico. Sarà il più grande cantiere immobiliare dentro Parigi dei prossimi anni. Con il ricavato, hanno detto le suore, finanzieranno le loro missioni nel mondo.

Repubblica 17.4.09
Centro psichiatrico degli orrori, arrestato direttore
di Benedetta Pintus


Parma, secondo l´accusa i ragazzi ospitati nella struttura venivano maltrattati e sedati con la forza a scopo punitivo

PARMA - Maltrattamenti e somministrazione forzata di medicinali ad adolescenti con disturbi psichiatrici, anche a scopo punitivo. È questa l´accusa con cui da due giorni è agli arresti domiciliari Ron Shmueli, direttore della comunità terapeutica Cavanà di Pellegrino Parmense, in provincia di Parma, dove sono ospitati ragazzi dai 14 ai 19 anni. Sette dei suoi collaboratori sono stati iscritti nel registro degli indagati.
Gli accertamenti dei Nas sono iniziati la scorsa estate dopo che un ex educatore del centro, Lorenzo Vecchi, aveva denunciato sul sito di Repubblica Parma la sedazione forzata dei ragazzi. «All´interno del Cavanà - si legge nell´esposto poi presentato in Procura - si ricorre alla fiala contro il consenso dell´utente in maniera coercitiva, anche quando il ragazzo si rifiuta di obbedire agli ordini impartiti o si permette di contestarli». La "fiala" è un mix di psicofarmaci iniettati per endovena che «nello spazio di pochi minuti causa una profonda debolezza e sonnolenza». In seguito a queste accuse Shmueli si era affrettato a screditare la figura di Lorenzo Vecchi, definendo le sue dichiarazioni «pura fantasia morbosa».
A gennaio il Cavanà è tornato a far parlare di sé dopo la fuga di uno dei suoi ospiti, un giovane appena diventato maggiorenne: «Mi hanno dato dei farmaci contro la mia volontà». I carabinieri hanno accertato che in certe circostanze, anche in assenza del medico responsabile, venivano eseguite delle terapie contro la volontà degli ospiti. «Sono tranquillo», ha commentato il direttore dopo la notizia dell´arresto. «Non sapevo di essere indagato e nemmeno ho ricevuto un avviso di garanzia. Di certo questo provvedimento cautelare mi appare esagerato ed eclatante».

l’Unità 17.4.09
Consiglio d’Europa: l’Italia criminalizza gli immigrati
di Maristella Iervasi


Il rapporto del commissario per i diritti umani Thomas Hammarberg: «Rivedere le leggi»
Critiche alle politiche per i Rom, ddl sicurezza ed espulsioni. «Condannare le intolleranze»
Laura Boldrini (Unhcr): I 300 morti in mare meritavano la stessa
solidarietà dell’Abruzzo

In Italia «c’è una tendenza al razzismo e alla xenofobia». Dal Consiglio europeo un richiamo alle politiche migratorie del governo, che rimanda al mittente le critiche. Maroni a Tunisi ma gli sbarchi non cessano.

Diritti umani ignorati, leggi ingiuste e draconiane, che criminalizzano l’immigrazione irregolare. L’Italia è di nuovo sotto accusa per le politiche sui i Rom, le misure legislative contenute nel ddl sicurezza (la contestatissima norma sui medici che possono denunciare i clandestini che si rivolgono al sistema sanitario) e le espulsioni facili degli stranieri in paesi dove «è accertato che ricorrono alla tortura». Un richiamo pesante per il governo Berlusconi, che arriva dal Consiglio d’europa - l’organismo internazionale che non fa parte dell’Ue e che ha tra i suoi compiti la tutela dei diritti dell’uomo - proprio nel giorno in cui il ministro dell’Interno Roberto Maroni è in Tunisia per accelerare i rimpatri dei migranti sbarcati sulle coste siciliane. Sbarchi che sono senza fine: solo ieri 3 imbarcazioni a Lampedusa per un totale di 300 persone.
Tendenza al razzismo
«Le autorità italiane dovrebbero condannare con più fermezza tutte le manifestazioni di razzismo o di intolleranza, ed assicurare un’efficace attuazione della legislazione anti-discriminazione», ha scritto nero su bianco Thomas Hammarberg, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, nel rapporto sul Belpaese dopo una visita nel gennaio scorso. «Nonostante siano stati compiuti degli sforzi - precisa Hammarberg - siamo preoccupati per la tendenza al razzismo e all’xenofobia in Italia che sfocia in atti estremamente violenti, rivolti principalmente contro immigrati, Rom e Sinti o cittadini italiani con origini straniere, anche in ambito sportivo».
La replica
Il governo rimanda al mittente la richieste di cambiare le misure legate alla politica migratoria: «sono essenziali - riporta l’agenzia Ansa - per una efficacia dei flussi migratori». Secondo l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, organismo del ministero delle Pari opportunità, inoltre, sono stati elaborati piani di azione che prevedono interventi strutturali a favore delle comunità Rom e Sinti. Secondo Hammarberg, invece, l’Italia dovrebbe «condannare con maggiore forza» ogni forma di razzismo applicando «pene più severe» per i reati legati a questo fenomeno, procedere a una revisione di alcune misure riguardanti l’immigrazione e aumentare la rappresentanza di gruppi etnici nella polizia.
Rom e Sinti
«Vi è un persistente clima di intolleranza contro di loro - scrive Hammarberg - e le loro condizioni di vita sono ancora inaccettabili in numerosi insediamenti da me visitati. Esistono esempi di buone pratiche che dovrebbero essere estese». Preoccupazione anche anche per il censimento nei campi nomadi.
Ddl sicurezza
«Criminalizzare i migranti è una misura sproporzionata che rischia di provocare ulteriori tendenze discriminatorie e xenofobia nel paese»: il riferimento è alla norma introdotta al Senato nel provvedimento sulla sicurezza che consente al personale medico di denunciare i migranti irregolari.
Espulsioni e terrorismo
Sul caso dei ritorni forzati in Tunisia imposti per motivi di sicurezza, Hammarber lamenta: «L’Italia non ha provveduto ad applicare le misure provvisorie e le vincolanti richieste della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo volte a fermare le espulsioni, compromettendo l’efficacia del sistema europeo».
Le reazioni
Livia Turco, Pd: «Aumento di clandestini e città insicure. Maroni dovrebbe dimettersi». Filippo Miraglia, Arci: «Il rapporto è una bocciatura per l’Italia, il giudizio europeo è condivisibile».

l’Unità 17.4.09
L’India vota
La leader degli Intoccabili sogna l’exploit
di Gabriel Bertinetto


Da un anno Mayawati governa l’Uttar Pradesh, il più popoloso Stato dell’Unione indiana. Fra un mese potrebbe dirigere l’intero Paese. L’India ha già avuto una donna premier. Mai però sinora un’«intoccabile».

La rivincita. Mayawati Kumari potrebbe diventare l’ago della bilancia per il nuovo governo
La maratona elettorale. Si svolgerà in quattro tornate e passerà un mese per avere i risultati

Tutelati dalle leggi dello Stato. Disprezzati dal comune pregiudizio. Vittime di discriminazioni sociali e di violenze, tollerate nei fatti quanto estranee ai valori fondanti della democrazia indiana. Sono i dalit, gli «intoccabili», i fuoricasta. Il mahatma Gandhi voleva sollevarli dal fango della loro atavica esclusione. Li chiamava «harijan» (paria), cioè «figli di Dio». Una bella parola, cui tuttora corrisponde spesso purtroppo una condizione abominevole. Sono loro i mestieri più sporchi: pulire le latrine, rimuovere le carcasse, maneggiare i concimi più luridi. Esseri impuri, da tenere a distanza, ai quali vietare l’accesso ai templi come ai ristoranti. Intoccabili, appunto.
Per 170 milioni di indiani, il 16% rispetto alla popolazione complessiva, ma quasi un quarto sul totale dei cittadini di fede indù, è vicino forse il momento della rivincita. Una di loro potrebbe ricevere talmente tanti voti da diventare l’ago della bilancia, quando, fra un mese circa, si tireranno le fila della maratona elettorale iniziata ieri e destinata a proseguire attraverso quattro successive tappe sino al 16 maggio prossimo. Si chiama Mayawati Kumari, 53 anni, e dirige il «Bahujan Samaj» («Partito della maggioranza», Bsp).
Poco più di un anno fa Maywati stravinse le elezioni nello Stato dell’Uttar Pradesh, diventandone primo ministro. Ed ora, confortata dalle previsioni di analisti e sondaggi, spera di replicare il successo su scala nazionale. Impensabile che possa scavalcare i due partiti maggiori, di governo e di opposizione, rispettivamente il «Congresso» ed il «Bharatiya Janata» (Bjp). Ma la probabile crescita nei consensi popolari, accompagnata al pronosticato calo dei due colossi, darebbe a Mayawati una tale forza contrattuale, da permetterle persino, si dice, di barattare il sostegno all’uno o all’altro con la poltrona di premier.
Un gran passo in avanti per l’intoccabile Mayawati. Da bambina andava a scuola scalza come tanti coetanei poveri della poverissima India. Abitava a Delhi con otto tra fratelli e sorelle che Ram Rati, la mamma, aveva avuto da Prabhu Das, un impiegato della compagnia telefonica statale. La democrazia indiana promuove il riscatto degli umili e cerca di contrastare il peso di tradizioni strumentalizzate per usi socialmente nefasti. Quote di impieghi pubblici ed iscrizioni scolastiche ed universitarie sono riservate ai fuoricasta ed ai membri delle caste più basse. Beneficiando di quei meccanismi di tutela, il padre aveva trovato un lavoro da colletto bianco, e grazie a quegli stessi meccanismi Mayawati conseguì un diploma in legge. Nel 1977 l’incontro con Kanshi Ram, fondatore del Bahujan Samaj, segnò una svolta nella sua vita proiettandola in politica.
INSOLITA ALLEANZA
Diversamente dal Congresso, che si è sempre rivolto ai connazionali con un messaggio interclassista intersecato con l’appello alla collaborazione fra le caste, il Bsp di Kanshi Ram si ispirava ad un’ideologia che mette al primo posto l’avanzamento delle caste inferiori, e soprattutto di coloro che sono addirittura considerati fuori dalla ripartizione in caste, i paria, così come di quel quasi venti per cento di cittadini che non si riconoscono nella religione di Brama Shiva e Vishnu: buddhisti, cristiani, musulmani. Eppure per ottenere nelle urne il trionfo che le consente di governare da oltre un anno in Uttar Pradesh, Mayawati ha dovuto varare un’inedita alleanza fra gli infimi scalini della scala sociale, naturale bacino elettorale del Bsp, e la casta superiore, quella dei bramini. L’esercito dei senzaterra delle campagne ha trovato nei gruppi dirigenti delle città sostegno nella lotta contro i proprietari terrieri delle caste intermedie.
L’Uttar Pradesh è il più popoloso Stato dell’Unione ma anche uno dei più poveri. Fra il 1999 ed il 2008 il prodotto lordo è cresciuto qui a ritmi inferiori al 5%, un’inezia rispetto alla media nazionale. Quasi metà del reddito proviene dall’agricoltura, e nei lavori dei campi sono impegnati tre quarti degli abitanti. Mayawati ed il Bahujan Samaj hanno trovato seguito nella sconfinata massa di braccianti e contadini senza terra. Hanno dato voce agli intoccabili indù, ai buddhisti emarginati, alle caste più basse. Che nelle zone rurali, assai più che nelle città, subiscono le conseguenze dell’emarginazione perpetrata dietro il paravento delle consuetudini e dei valori religiosi.
STIMATA SORELLA
L’Uttar Pradesh contribuisce massicciamente a rimpolpare le statistiche sugli atti di violenza commessi contro i dalit in India. Ogni anno vengono ufficialmente registrati nel Paese 110mila casi di omicidi, stupri, aggressioni ai danni dei fuoricasta. L’opinione comune è che la cifra sia in realtà molto più alta, perché tanti episodi non sono denunciati. Mayawati ha alzato la voce contro intolleranza ed abusi. Ha promosso iniziative legali contro funzionari disonesti e poliziotti infedeli. Non è uscita indenne a sua volta da pesanti accuse di corruzione e autoritarismo. Ha lanciato grandi opere pubbliche, ma non è riuscita per ora a ridurre in maniera evidente la disoccupazione. Il bilancio della sua azione di governo nell’Uttar Pradesh non è tutto positivo. Ma per molti intoccabili oggi è un raggio di luce nel buio. La chiamano «Behenji» (Stimata sorella). Ieri molti hanno probabilmente votato per lei e altri lo faranno nelle prossime tornate.

l’Unità 17.4.09
L’anno nero dell’editoria
Nel 2008 perdite più 100%
di Oscar De Biasi


Conti in rosso per il calo (talvolta crollo) della pubblicità e dei lettori
Anche per i giornalisi potrà sperare qualcosa a partire dal 2010
Situazione d’allarme per i giornali italiani: lettori in calo, pubblicità in calo, bilanci in rosso. Il presidente degli editori chiede interventi rapidi e la convocazione degli Stati generali dell’editoria. D’accordo la Fnsi.

Che la salute dei giornali fosse malferma lo si sapeva e lo dicevano i bilanci non certo brillanti di alcune delle testate più prestigiose e più ricche (di pubblicità) a cominciare da quelle del gruppo Corriere della Sera. La conferma, che peggiora le sensazioni, arriva dalla Fieg, Federazione italiana degli editori, che presenta il suo rapporto annuale, denunciando calo della pubblicità, diminuzione dei lettori e costi che gravano e la cui riduzione non è stata sufficiente a raggiungere la parità dei bilanci. Il biennio 2009-2010 sarà decisivo. Perciò «bisogna muoversi con urgenza e delineare un disegno coerente di intervento per restituire slancio al settore». La raccomandazione con il sapore dell’avvertenza intimidatoria, è degli editori, che hanno proposto rimedi urgenti: credito agevolato per accelerare il meccanismo produttivo; credito d'imposta su carta e investimenti per stimolare innovazioni di processo e prodotto; promozione della lettura in scuole e famiglie.
Anno orribile
Per il complesso delle società editrici di quotidiani nel 2008, quando la crisi ancora non aveva dispiegato i suoi terribili effetti, come ha spiegato il presidente Fieg Carlo Malinconico, si è rilevato un aumento delle perdite del 100% ed una contrazione degli utili del 30%. I numeri peggioreranno nel 2009, considerando che gli investimenti pubblicitari nei primi due mesi dell’anno sono diminuiti in media del 25%, con punte anche del 60% in giornali locali.
In media, ha spiegato ancora il presidente Fieg, il fatturato editoriale del 2008 ha fatto registrare un calo del 3,3% rispetto al 2007. La componente dei ricavi che ha mostrato segnali di maggiore debolezza è stata la pubblicità, calata nell'anno del 3,8%, con un trend che si è andato aggravando. Quanto ai ricavi da diffusione delle copie, la flessione media annua è stata del 2,8%.
Il primo commento alla relazione di Malinconico è stato di Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della stampa, che ha rivendicato il valore del nuovo contratto giornalistico:, «un perno per il sistema dell'editoria». Alle aziende Siddi ha chiesto più coraggio, condividendo l’appello per Stati Generali dell'editoria, occasione per definire un quadro organico di sistema che accompagni le trasformazioni e valorizzi la specificità dell'impresa editoriale e del lavoro giornalistico. Il sottosegretario Bonaiuti e il ministro Sacconi si sono detti disponbili.

l’Unità 17.4.09
Testamento biologico
Medici, pazienti e quell’ambigua alleanza
di Sergio Bartolommei


A proposito del Disegno di legge sul testamento biologico approvato in Senato si è mancato di rilevare un aspetto preliminare che svela il carattere ideologico dell’intero impianto. Riguarda il titolo stesso del DL: «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica ecc. ecc». Forse non tutti sanno che l’“alleanza” di cui si parla è quella tra medico e paziente. La formula è accattivante, e a nessuno verrebbe in mente di contestarla: sarebbe come boicottare l’intesa, che si presume ovvia e naturale, tra due amici. Il ragionamento è tuttavia errato, e non solo perché tra amici “si bisticcia” e le intese si esauriscono.
In un certo senso si può dire che la bioetica contemporanea è nata dalla trasformazione radicale della relazione medico-paziente. Perno di questo cambiamento è stata la “rivoluzione” del “consenso informato”. Dalla lunga stagione ippocratica, contrassegnata dall’idea che il medico conosce più e meglio del paziente quale sia il vero bene di quest’ultimo, si è passati a vedere nella libertà di scelta del cittadino in fatto di salute e malattia il criterio di liceità degli atti medici. Il rifiuto delle cure, anche delle cure salvavita, è divenuta l’espressione più avanzata del “consenso” e dell’autonomia del paziente.
Ciò significa che la nozione di “alleanza terapeutica” non può essere usata come una nozione descrittiva. È una categoria morale frutto di una visione del rapporto medico-paziente secondo cui il secondo non può che affidarsi al primo e entrambi non possono che convergere su “soluzioni condivise”. Eppure oggi nelle relazioni sanitarie troviamo sì pazienti che continuano ad affidarsi ciecamente ai medici, ma anche altri che, sul piano morale, si affidano solo a se stessi e alle proprie idee, preferendo per esempio alla proposta di nuove terapie nessuna terapia, fino al sacrificio della vita. Ciò che il paziente vuole o non vuole per sé può anche non coincidere con l’orientamento del medico perché medico e paziente non formano una simbiosi con interessi logicamente convergenti.
“Alleanza terapeutica” è dunque il nuovo nome per ridare smalto al “vecchio” paternalismo medico. Intitolare ad essa una legge dello Stato rivela l’ispirazione illiberale del Disegno: volendo rendere indisponibile la vita agli individui, la si consegna alla tecnica e alla discrezionalità dei medici. Correggere questa impostazione avrebbe un doppio vantaggio. Non solo libera il paziente da uno stato di minorità nei confronti del medico. Libera anche i medici da una responsabilità tirannica, quella che il DL intenderebbe attribuire loro imponendogli l’obbligo di nutrire e idratare anche i pazienti che rifiutano questi trattamenti.
Docente di Bioetica, Università di Pisa, Membro della Consulta di Bioetica

Corriere della Sera 17.4.09
Funerali di Stato e laicità. I riti del lutto collettivo
Risponde Sergio Romano


Ricordo che l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana dice testualmente: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Le chiedo quindi: a chi spettava la decisione di far celebrare i funerali di Stato delle vittime del sisma dell’Aquila al cardinale Tarcisio Bertone? La decisione viola palesemente l’articolo 3, impedendo che tutti i cittadini possano sentirsi parimenti rappresentati come si conviene a uno Stato effettivamente laico. La scelta, al contrario, ne privilegia alcuni e ne discrimina molti altri. I funerali di Stato devono essere laici e, a seguito di questi, ogni famiglia può decidere se e come celebrare un rito che soddisfi la propria fede, religiosa o laica che sia. Dato il ripetersi gravissimo di queste imposizioni tutt’altro che democratiche, sarebbe il caso che si avesse il coraggio di modificare davvero quella Costituzione partendo proprio dall’articolo 3 e accettando la realtà che vede il nostro come uno Stato confessionale che non considera affatto i cittadini tutti uguali, perché alcuni sono più uguali di altri.
Enrico Bonfatti

Caro Bonfatti,
Potrei risponderle che l’Italia è stata laica sol­tanto per qualche de­cennio fra l’Unità e il 1929, vale a dire negli anni in cui gli uomini pubblici sfidava­no la scomunica pur di resta­re fedeli all’indipendenza dello Stato che stavano co­struendo. Non è più laica dal momento in cui, nel 1929, firmò con la Santa Sede un trattato (il Concordato) che garantisce alla Chiesa un ruo­lo privilegiato nella società nazionale e le affida alcune funzioni ufficiali. Da allora, il problema italiano non è la separazione fra Stato e Chie­sa, ormai impossibile, ma il rapporto di forze tra i due fir­matari del Trattato. Vi è sta­to un periodo, durante il fa­scismo, quando lo Stato poté usare la Chiesa, entro certi limiti, per rafforzare se stesso e conquistare maggio­re consenso. Vi è stato un se­condo periodo, dopo la fine della Seconda guerra mon­diale, quando la Chiesa di Pio XII cercò di fare dello Sta­to, nelle questioni etiche, l’esecutore della sua volon­tà.
Vi è stato un terzo perio­do, fra gli anni Sessanta e Ottanta, quando la società strappò ai governi alcuni di­ritti che la Chiesa considera­va contrari ai suoi insegna­menti. E stiamo attraversan­do una fase, infine, in cui la politica, chiunque governi, è troppo debole per resiste­re alle offensive della Chie­sa nelle questioni a cui que­sta attribuisce grande im­portanza.
Detto questo, caro Bonfat­ti, è difficile immaginare che l’Italia, anche senza i vincoli del Concordato, possa essere laica nel senso che lei sem­bra attribuire alla parola. Il cristianesimo romano, per noi, non è soltanto una reli­gione. È la forma concreta­mente assunta, nel corso dei secoli, dalla spiritualità italia­na. È il titolare dei riti e delle liturgie con cui scandiamo la nostra vita quotidiana e cele­briamo i momenti fonda­mentali dell’esistenza. Vi è una parte della società italia­na che ha cercato di elabora­re liturgie alternative a cui ciascuno di noi può libera­mente ricorrere. Ma temo che un grande funerale laico nella piazza d’Armi dell’Aqui­la per le vittime del terremo­to sarebbe stato una ridicola scopiazzatura e non avrebbe soddisfatto nemmeno i mol­ti agnostici che hanno parte­cipato alla messa del cardina­le Bertone. È possibile essere laici e liberali senza ignorare i sentimenti e le tradizioni della maggior parte della so­cietà in cui viviamo. La Fran­cia, ad esempio, è probabil­mente lo Stato più laico d’Eu­ropa. Ma la prima cerimonia a cui il generale de Gaulle prese parte dopo la liberazio­ne di Parigi nel 1944 fu un so­lenne Te Deum nella catte­drale di Notre Dame. E a nes­suno venne in mente che la Francia stesse rinunciando al principio della separazio­ne tra lo Stato e la Chiesa.

Corriere della Sera 17.4.09
La Biennale di studi su Giordano Bruno: astrofisica e filosofia alla ricerca dei modi di penetrare i segreti dell’universo
Elogio dell’incertezza: è l’insoddisfazione che muove la scienza
Ogni teoria è provvisoria e passibile di smentita perciò è vitale che le tesi eretiche si facciano avanti
di Giulio Giorello


Studi bruniani e libero pensiero
Continua a Nola fino al 19 aprile Elogio dell’incertezza, prima Biennale di studi bruniani. L’intervento di Giulio Giorello anticipato in questa pagina è previsto per oggi alle 18 nell’Aula Magna del Seminario arcivescovile, dove, sul tema «Liberi di scegliere. Lo Stato tra ragione e religione», interverrà anche Edoardo Boncinelli. I relatori saranno introdotti da Nuccio Ordine, presidente della fondazione Giordano Bruno. Per informazioni: www.fondazionegiordano­bruno.org.

È uscito il secondo tomo di Opere mnemotecniche di Giordano Bruno (Adelphi, pp. LXXVI-992, e 80), edizione diretta da Michele Ciliberto e curata da Marco Matteoli, Rita Sturlese, Nicoletta Tirinnanzi.

«Vorrei proprio sapere quale sia la legge o il compito di queste stelle e di questi globi», dotati di «moto incessante» come delle «palle erranti», le quali «emettono e ri­cevono l’una nei confronti dell’altra raggi di luce e influenze benefiche». Verso il 1617 così scriveva il copernicano Mark Ridley. Pochi an­ni dopo, nel Saggiatore (1623) Galileo Galilei, di fronte al proliferare di «sistemi» che pretendevano tutti di spiegare «come vanno i cieli » (Tolomeo, Copernico, Tycho Brahe, ecc.) rivendica il diritto a «desiderare la vera costituzione dell’universo», con un tono che assomiglia al linguaggio dell’eros. L’amore per la conoscenza doveva portarlo davanti al Sant’Uffizio, che l’avrebbe costretto all’abiura (1633). Più di trent’anni prima, con maggiore coerenza filosofica, Giordano Bruno aveva affrontato il rogo (1600). Era stato proprio lui a smantellare la distinzione aristotelica tra fisica terrestre e celeste, a teorizzare la relatività del movimento, a sostenere, prima di Galileo, la rotazione del sole attorno al proprio asse.
Certo, anche se esortava a fondare «il principio della scienza sulla considerazione dei rapporti intercorrenti tra gli oggetti e sulla concordante testimonianza dei sensi», il Nolano non era uno scienziato nell’accezione moderna del termine e neanche un filosofo della natura come Galileo: niente apparati sperimentali, niente strumenti tecnologici come il telescopio e la sua matematica (diversamente da quella galileiana) era piuttosto una «matemagica » (per dirla... con Paperino). Il Dio di Bruno, «infinito nell’infinito», è «dovunque in tutte le cose». Ecco perché il desiderio è insieme mancanza e tensione: come si legge in una pagina del De immenso (1591), «l’inda­gine e la ricerca non si appagano nel conse­guimento di una verità limitata e di un bene definito». Non c’è essere umano che non vo­glia abbracciare la totalità: ma come Narciso rischia di affogare nell’acqua cercando inva­no di afferrare la propria immagine. I dogma­tici di tutte le risme si accontentano della par­te per il tutto e troppo spesso si compiaccio­no della ristrettezza delle loro idee. I veri filo­sofi, invece, sanno che ogni conquista è prov­visoria. Questa perpetua insoddisfazione è il nucleo della loro libertà, per la quale possono anche rinunciare alla vita.
Karl Popper, teorico del carattere sempre ri­vedibile della conoscenza scientifica e del­l’apertura al nuovo per qualsiasi società libe­ra, ha dichiarato una volta che la filosofia è in fondo cosmologia. Il filosofo novecentesco non aveva in mente solo la lezione della scien­za galileiana, ma anche le scoperte che, nel XX secolo, avevano indicato come il cosmo ab­bia una storia. Ha scritto l’astrofisico Martin Rees in Prima dell’inizio (Raffaello Cortina, pp. 382, e 25): «Possiamo risalire nell’evolu­zione dell’universo fino al suo primo secondo di vita... io, personalmente, sarei disposto a scommettere dieci contro uno che ogni cosa che osser­viamo ha avuto il suo inizio in una palla di fuoco estrema­mente compressa, assai più calda del sole». Questa teo­ria, detta del Big Bang, era eresia nella prima metà del secolo scorso e oggi costitui­sce invece l’ortodossia scienti­fica; anche se, come aggiun­ge Rees, «c’è ancora una mi­noranza che non sarebbe tan­to d’accordo».
Intervistando Popper, nel­l’estate 1986 (il testo è stato poi pubblicato sul numero 15 della rivista Panta, 1987) gli chiesi cosa pensasse di tutta quanta la vicenda. Negli anni Venti del Novecento non po­chi astronomi si erano dedi­cati all’analisi della luce pro­veniente dalle galassie. Attra­verso un prisma, questa pote­va venire scomposta in uno spettro di vari colori e l’ameri­cano Edwin Hubble constatò che le lunghezze d’onda era­no più lunghe, cioè spostate verso il rosso, a paragone di quelle misurate in laborato­rio o in spettri di stelle della nostra galassia (la Via Lattea).
Congetturò pure che tale spo­stamento verso il rosso (o re­dshift) dovesse essere proporzionale alla di­stanza delle galassie e formulò infine l’ipotesi che esse dovessero allontanarsi da noi (e cia­scuna da ogni altra) con velocità proporziona­le alla distanza. E qui stava, per Popper, il noc­ciolo della questione. «Come sappiamo che tali galassie sono tanto distanti? Lo sappiamo attraverso lo spostamento verso il rosso. Co­me calcoliamo la velocità di espansione dell’universo? La ricaviamo calcolando la di­stanza e vedendo poi quale sia la relazione tra la distanza e lo spostamento verso il ros­so... Hubble aveva introdotto metodi di misurazione della distanza di galassie non mol­to lontane che erano indipen­denti da tale redshift. Ma se si estende il metodo di calco­lo da queste galassie alle altre si cade in un ragionamento circolare». Se l’ortodossia ver­sa in queste condizioni, per­ché non ridare voce all’ere­sia? Per Popper chi era con­vinto della teoria del Big Bang doveva continuare a uti­lizzarla; ma era importante che altri cosmologi si facesse­ro avanti con teorie alternati­ve.
Halton Arp, astronomo americano, che a suo tempo è stato discepolo di Hubble e ora è «esule» in Europa, ha fatto sua, per così dire, l’esor­tazione del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte: «È aperto a tutti quanti. Viva la libertà». Popper approvava. La comu­nità degli «esperti» no. Arp ha davvero «visto rosso», co­me recita il titolo della sua ul­tima fatica ( Seeing red, ora edito in Italia da Jaca Book, pp. 387, e 40,80). Lungi dal mostra­re che l’universo si espande, gli spostamenti verso il rosso per Arp rifletterebbero invece l’età degli oggetti cosmici, come le galassie che hanno ormai preso nel dibattito il posto delle palle erranti di Ridley. Riprendendo idee alternative al Big Bang, Arp sostiene che i mattoni dell’Universo, le particelle elementa­ri, variano nel tempo. In breve, redshift eleva­to vuol dire semplicemente giovinezza dell’og­getto cosmico pertinente.
Non entro in merito alla validità delle tesi di Arp. Ovviamente, nessuno ha mai visto un atomo crescere o un elettrone acquistare mas­sa nel tempo! Penso però che la provocazione di Arp sfidi quell’abitudine intellettuale per cui «la nostra minuscola porzione di spazio e di tempo sarebbe rappresentativa del tutto». Ma non è questa la radice del narcisismo di cui parlava Bruno quattro secoli fa? Nel pre­sentare il volume di Arp al pubblico italiano, Enrico Biava invoca uno «spirito di tolleranza per chi nutre opinioni diverse». Di mio, ag­giungo che ciò deve valere anche e soprattut­to se l’opinione «emarginata» ci sembra erro­nea e le ragioni militano a favore dell’ortodos­sia! È solo così che possiamo riconoscere nel conflitto delle opinioni un’occasione per an­dar oltre il vecchio pessimismo biblico: «Nul­la di nuovo sotto il sole». Come hanno mostra­to l’astronomia dei tempi di Bruno e di Gali­leo o il dibattito cosmologico dopo Hubble, molte novità sono comparse, per così dire, sia sopra che sotto la nostra stella.

Corriere della Sera 17.4.09
Per Galli della Loggia, Berlusconi ha dato al Paese una connotazione ideologica analoga a quella della prima Repubblica. Risponde Virginio Rognoni
L’anticomunismo come l’antifascismo: un’equazione che svaluta la Costituzione
«Conciliare le due Italie non vuol dire omologarle: si tradirebbe la Carta»
di Virginio Rognoni


La Legge fondamentale suggerisce ancora positive lealtà anche a chi le era storicamente estraneo

Caro direttore, qualche settimana fa, sulle co­lonne di questo giornale (ve­di Corriere del 29 marzo), Ernesto Galli della Loggia ha sostenuto che Silvio Berlusconi, col suo discorso inaugurale del primo congresso del «Popolo della Libertà», in una sede formale e altamente simbolica, ha collocato il suo partito nella prospet­tiva di un anticomunismo inteso «co­me reale ideologia fondativa dell’or­dine politico e motivo di autoidentifi­cazione legittimante»; un partito, dunque, che nasce «contro la sini­stra » (perché la sinistra «è il comuni­smo ») e, così identificandosi, si pre­sta a proporre la sua ideologia alla base dell’ordine politico del Paese.
Affermando la centralità dell’anti­comunismo e dandogli questa finali­tà, Berlusconi — sostiene sempre Galli della Loggia — «compie la stes­sa operazione che la prima Repubbli­ca compì con l’antifascismo».
Io non so se l’anticomunismo del partito di Berlusconi abbia la funzio­ne o la finalità descritta da Galli della Loggia; se l’avesse sarebbe assai peri­coloso perché, presto o tardi, potreb­be affacciarsi, sul pretesto anche di chiudere la lunga «transizione» ita­liana (ma la politica non è sempre transizione?) una inquietante fase co­stituente per il nostro Paese; l’antico­munismo di Berlusconi mi pare, più banalmente, un’arma, fino a che pun­to duratura non lo so, di forte propa­ganda, una operazione fruttuosa di ricerca del consenso.
Ma non è qui il mio interesse. È la simmetria che Galli della Loggia pro­spetta fra l’uso dell’anticomunismo di Berlusconi e l’uso dell’antifasci­smo della prima Repubblica, l’uno e l’altro a sostegno dell’ordine politico del Paese, che mi suggerisce qualche riflessione.
L’antifascismo dei gruppi dirigen­ti della prima Repubblica non era una ideologia dei partiti che ne costi­tuivano il nerbo e l’ossatura; essi era­no antifascisti perché democristiani, comunisti, socialisti, liberali, repub­blicani e così via. Il loro antifasci­smo, affermato con maggiore o mi­nore forza a seconda della storia di ciascuno (di più il Pci, giusto per la sua storia, in particolare per il ruolo che aveva giocato, anche sul piano organizzativo, nella lotta partigiana, e non solo, come è stato detto, per legittimarsi come partito nazionale, quasi a compenso del legame con l’Unione Sovietica), era il riferimento costante alle ragioni di una lunga op­posizione a un regime autoritario e illiberale che aveva, via via, portato il Paese alla rovina, coinvolgendolo, al­la fine, nella folle guerra nazista. Di più, era il riferimento costante al ri­sultato politico straordinario di quel processo di libertà e di liberazione che, con la fine del regime fascista, il crollo della monarchia e l’avvento della Repubblica aveva portato alla Costituzione, cambiando e segnan­do profondamente la vita istituziona­le del Paese.
Tutta questa complessa realtà sto­rico- civile può essere intesa, se si vuole, per usare ancora parole di Gal­li della Loggia, anche «come ideolo­gia fondante dell’ordine politico», del nuovo ordine costituzionale. Una realtà e, insieme, una lealtà che hanno permesso di incanalare negli spazi costituzionali, previsti dalla Carta del ’48, tutta la tumultuo­sa vicenda politica del Paese, senza quelle rotture, di volta in volta sem­pre annunciate o anche tentate (ba­sta pensare ai cosiddetti «anni di piombo»). Lo stesso passaggio dalla prima alla seconda Repubblica non è stato una rottura costituzionale, ma il crollo improvviso di importanti for­mazioni politiche, con la sanzione, che ne è conseguita, dell’esaurimen­to di un assetto politico da tempo esi­stente. Ma l’architettura costituziona­le ha retto bene e ha resistito al for­midabile urto. Tutte queste mie osservazioni so­no cose molto ovvie che ho fin il pu­dore di ricordarle a Galli della Log­gia, ma la simmetria da lui costruita, e di cui ho parlato all’inizio, non mi piace affatto, la ritengo sbagliata.
Del resto, l’analisi che egli fa par­te da una pregiudiziale a mio giudi­zio sbagliata e inaccettabile. Parte dalla svalutazione della Costituzio­ne e del suo valore di fondo come patto di cittadinanza nella Repubbli­ca. Galli della Loggia lo dice aperta­mente e anche in via indiretta quan­do mette la Carta del lavoro fascista (ma come si fa?!) sullo stesso piano della Carta del ’48 e dello stesso Sta­tuto albertino per accomunarle nel giudizio negativo di «scarso valore ideal-simbolico».
È una svalutazione che, a sua volta, parte dalla considerazione di quel lontano 8 settembre non come il gior­no da cui inizia il riscatto della Pa­tria, ma come il giorno della morte della Patria. Da qui, e fino alla fine della guerra, un Paese, dunque, attra­versato da eserciti stranieri, con gli italiani alla finestra o a far la guerra fra loro sul fronte fascismo-antifasci­smo. Una guerra civile che, avulsa dal grande conflitto mondiale, cancella d’un colpo la Resistenza in sé e come premessa dei processi istituzionali che vengono dopo, a partire dalla Re­pubblica e dalla sua Costituzione.
Questa argomentazione l’ho sem­pre ritenuta pericolosa sul piano po­litico- istituzionale perché, se fosse vero, e non lo è, che la lotta partigia­na è stata niente più che un cruento regolamento di conti fra due Italie ideologicamente opposte, allora, a distanza di tempo, le due Italie non solo si possono e si debbono conci­liare, come è giusto, ma si omologa­no, l’una è uguale all’altra. Ma così salta la Carta del ’48, ormai priva del­la sua storia e, come pure è stato adombrato, può iniziare una fase co­stituente per il Paese, libera final­mente dall’antifascismo e dall’antico­munismo, «ombre del passato».
Sarebbe questa una deriva avven­turosa; ancora di più se poi fosse esatta la prospettiva che Galli della Loggia vede coltivata da Berlusconi e dal suo «popolo», di cui si è parlato all’inizio; il Paese sarebbe sottoposto a una fortissima e inutile tensione.
Per fortuna non è così o, quanto­meno, mi pare che non sia così: la Carta del ’48, proprio per il suo valo­re di fondo, che non ha creato in pas­sato nè crea oggi vuoti pericolosi nel­la vita del Paese (mi riferisco natural­mente ai suoi principi fondamenta­­li), non solo è riconosciuta, ma sugge­risce positive lealtà proprio in chi le era stato storicamente più estraneo. Basta pensare alla posizione del lea­der di questa parte politica, Gianfran­co Fini, e le sue dichiarazioni di rico­noscimento dell’antifascismo, prima e alle spalle della Costituzione.
L’unità degli italiani che si ritrova e si rinnova quando sofferenze e tra­gedie ne colpiscono il vissuto, può essere stabilmente quella che si rico­nosce nella Carta del ’48 e nella sto­ria che l’ha preparata; il 25 aprile (è prossima la ricorrenza) insieme al 2 giugno ne sono certamente un forte simbolo riassuntivo e ideale.

il Riformista 17.4.09
Resoconti di Bottegone
di Fabrizio d'Esposito


Giornalisti al Comitato centrale. Parla il decano dell'Unità e della stampa parlamentare, Giorgio Frasca Polara: «Eravamo gli unici giornalisti ammessi al Cc. Poi i testi venivano vistati dall'oratore e dalla segreteria e passati all'ufficio stampa che li recapitava ai quotidiani borghesi». L'esame con Togliatti e la morte di Petroselli, sindaco di Roma: «Ma per noi il momento più difficile fu la radiazione di Natoli, Pintor e Rossanda».

Quando la politica era una cosa seria e grave, grave sia nel senso di importanza sia in quello di pesantezza, nei quotidiani di partito c'erano i resocontisti. All'Unità comunista i resocontisti erano amanuensi laici che davano conto fedelmente ai militanti lettori degli interventi sgranati come un rosario rosso nella liturgia del comitato centrale, organo santificato nella mitica sigla Cc. Il Cc si teneva con cadenza regolare ogni mese e mezzo e spesso era abbinato alle riunioni della Ccc, Commissione centrale di controllo. A Botteghe Oscure il salone dove prendevano posto i componenti del Cc, massimo settanta, era al quinto piano. I resocontisti lavoravano in una stanzetta attigua, insieme con i tecnici addetti alla registrazione.
Decano di questo "ordine" ormai estinto del giornalismo italiano è Giorgio Frasca Polara. Esponente storico della stampa parlamentare, Frasca Polara è stato quarantatré anni all'Unità, che comprendono anche i tredici trascorsi a Montecitorio da portavoce di Nilde Iotti, la prima donna a essere eletta presidente della Camera. GFP, come veniva chiamato dai suo redattori, era il capo dei resocontisti. Prima di accedere nel 1962 al santuario di Botteghe Oscure, Frasca Polara fece il suo vero esame da giornalista con Palmiro Togliatti. Era la fine degli anni cinquanta e il Compagno Segretario era a Palermo per un comizio serale.
Come andò?
Io allora abitavo a Palermo perché i miei si erano trasferiti in Sicilia da Roma. Ero l'ultimo arrivato alla redazione locale dell'Unità, un ragazzino. Il resocontista abituale di Togliatti era Luca Pavolini, ma quel giorno era malato e io ero da solo in redazione. Mi dissero: «Vai tu». Mi venne una strizza tremenda: il comizio era alle nove di sera quando il giornale era già in stampa.
Cosa accadde?
Andai da Togliatti in albergo e lui mi consegnò gli appunti del comizio che avrebbe fatto, ovviamente scritti con l'inchiostro verde. Tornai poco dopo con l'articolo già pronto. Togliatti lo prese e lo passò a Nilde Iotti, accanto a lui sul divano: «Nilde, vedi un po' cosa ha fatto il nostro giovane compagno». Lei si alzò e si mise seduta a un tavolo: cambiò un aggettivo e tolse una frase. Ce l'avevo fatta.
E poi?
In seguito divenni capo della redazione siciliana. Quand'era direttore Mario Alicata chiesi di fare un'esperienza a Roma. Mi risposero di sì e dopo un passaggio alla redazione culturale mi chiamarono a far parte della squadra dei resocontisti del comitato centrale.
Come funzionava?
Noi eravamo chiusi in una stanzetta attaccata al salone delle riunioni, al quinto piano. Dentro, a fianco dell'oratore, c'era un tavolino dove a turno ci alternavamo. I giornalisti dei quotidiani "borghesi" erano parcheggiati giù. I nostri testi erano rivisti dall'oratore e nei casi più delicati anche da un membro della segreteria. Poi passavano all'ufficio stampa che li fotocopiava e li dava ai cronisti "borghesi". I resocontisti sono esistiti fino al 1991.
Quanti eravate?
Sette, al massimo otto. In occasione dei congressi la squadra si allargava. Umberto Terracini, per esempio, era roba mia. Lo seguivo sempre io. Aveva un intercalare, «nevero», che mi dispiaceva non inserire nei testi. Ognuno aveva i "suoi" esponenti. Ugo Baduel era il resocontista di Berlinguer ma quando si ammalò per un anno toccò a me, che ero anche portavoce di Iotti e capo dei servizi parlamentari dell'Unità. I compiti venivano distribuiti per consonanze regionali e simpatie personali. Non c'era calcolo politico.
Lo spazio sul giornale variava?
Sì. In genere il relatore che introduceva il Cc aveva l'intervento quasi integrale. Le regole erano poche e poco elastiche. Per i dirigenti periferici era prevista una cartella e mezza, per i big almeno tre.
Il più pignolo?
Giorgio Napolitano, una volta mi disse: «Qua ricordo di aver messo una virgola, dov'è?». Anche Alfredo Reichlin era preciso. Ma c'era un allenamento tale che non avevamo grossi problemi. L'unico momento difficile fu con la radiazione di Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda nel 1969. Io ero già capo dei resocontisti.
Il caso del manifesto.
Sì. Il clima era pesante ma sempre civile. Si sapeva come sarebbe andata a finire: la Ccc avrebbe optato per la radiazione e non l'espulsione. Una misura più cauta che prevedeva un giorno la possibilità di rientrare. Andai quindi a parlare con Natta, che era il relatore.
Per quale motivo?
Gli dissi: «I loro interventi faranno notizia, ci conviene darli ampiamente, altrimenti i giornali "borghesi" cercheranno di servirsi di altre fonti». Natta, di cui avevo una profondissima stima, riconobbe il valore dell'osservazione e approvò. Scrivemmo senza pensare al numero delle cartelle. Ma il ricordo personale più scioccante è un altro.
Quale?
La morte di Luigi Petroselli, sindaco di Roma, in pieno comitato centrale. Si sentì male e di lì a poco morì. Un'emozione fortissima.
Un ricordo bello?
Quando mi affacciai con Berlinguer al famoso balcone e c'era il nostro popolo sotto che festeggiava la storica vittoria alle amministrative del '75. Enrico era felice come una Pasqua e sorrideva. Ebbi la percezione netta che eravamo una grande forza.
Lei ha seguito per un anno Berlinguer.
Era una persona deliziosa, terribilmente timida. Quando non era impacciato era capace persino di fare battute spiritose. Ricordo soprattutto le nostre diatribe musicali. Io sono un verdian-belliniano. Lui era un wagneriano.
Wagneriano?
Sì. E si tormentava per questo. Mi chiedeva: «Amo Wagner: sono passibile di sospetto nazismo?».
Che giornalista era il resocontista?
Siamo sempre stati considerati una sottospecie di cronisti. All'Unità c'erano gli "scrittori", tipo Enzo Roggi e Bruno Miserendino, e i resocontisti. Sono stato a capo di fior di giornalisti: Vincenzo Vasile, Stefano Di Michele, Peppino Mennella, Bruno Enriotti, Bianca Mazzoni, Onide Donati, Renzo Cassigoli, Sergio Sergi, Matilde Passa. Qualcuno c'era, però, che non voleva riconoscersi in questa sottospecie.
Chi era?
Antonio Caprarica. Oggi ci sono giornalisti della Rai che nelle loro biografie omettono di essere stati all'Unità. Caprarica diceva: «Io non voglio andare nella squadra di GFP, fatemi scrivere di politica». Io, invece, sono sempre stato fiero di essere un bracciante della tastiera.
Del resto lavorare a Botteghe Oscure era un privilegio.
Vero, era un privilegio. Quante storie e quanti amori clandestini. E poi si scendeva tutti alla libreria Rinascita. L'unico che si autoescludeva da questo rito era Togliatti.
Perché?
Quando l'Unità era a via IV Novembre lui iniziò a frequentare la libreria Tombolini e non cambiò mai.
Nostalgia per il Bottegone?
Non tanto per il palazzo quanto per lo stile cui ci aveva educato il Partito. Avevamo un'identità. Per questo motivo non ho aderito al Pd e mi sono iscritto al Pse.

l’Unità Lettere 17.4.09
Il nuovo Vajont

Abbiamo conferito deleghe in bianco a una classe politica miope e avida, zelante solo quando si tratta di legiferare sull’embrione, sul sondino o sulla prescrizione dei reati, interessata più alla stabilità del bipartitismo che alla stabilità degli edifici, affidata esclusivamente alle benedizioni dei vescovi. L’Aquila è il nuovo Vajont
Roberto Martina

RISPOSTA. I palazzi crollati, lì, c’erano tutti. Il censimento di vulnerabilità degli edifici pubblici, strategici e speciali in Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise, Puglia e Sicilia redatto nel 1999 da Vincenzo Petrini direttore dell’istituto di Ricerca sul rischio sismico su richiesta di Franco Barberi sottosegretario del governo Prodi segnalava il deficit strutturale della Regione Abruzzo, dove 171 palazzi destinati all’istruzione erano in fascia alta di vulnerabilità ed altri 314 in quella medio-alta. A l’Aquila erano censiti come ad alto rischio l’Università e l’Ospedale, la Prefettura e il Catasto. Su questi documenti sta lavorando oggi la Procura. Sul modo in cui la politica è riuscita ad ignorare gli avvertimenti dei tecnici siamo chiamati a riflettere tutti. Quello cui ci troviamo di fronte, infatti, è un sistema politico sempre più chiuso di fronte al progredire delle conoscenze scientifiche. Autoreferenziale. Paralizzato dalla mancanza di competenze professionali dei tuttologi che pensano (sognano) di essere stati chiamati (da Dio, dal popolo?) a svolgere attività di governo.
Luigi Cancrini

Repubblica Lettere 17.4.09
Franco Volpi in bicicletta travolto come Barthes
di Flore Murard-Yovanovitch

Scrivono che Franco Volpi è morto in un incidente stradale. Precisione: è morto in bicicletta, travolto da un'auto. Bicyclette, mi ricorda la canzone di Montand. Forse andava più lentamente, con la lentezza che scegliamo, noi che scegliamo la bici come mezzo di mobilità eco sostenibile e non violenta. Forse lo studioso di Heidegger, contemplava un dettaglio del paesaggio, un frammento di cielo, un suo pensiero da fare nascere. In bicicletta. Una macchina lo travolge. Come Roland Barthes (le statistiche dimostrano il folle incremento: più 82% rispetto al 2007 gli atti di pirateria, persino sulle strisce). Un traffico "disumano" che ti ammazza per non fare tardi, per arrivare prima. Dove? Resta solo piangere.