sabato 19 gennaio 2008

l’Unità 19.1.08
Il «prologo» della Shoah
di David Bidussa


Un’ossessione lunghissima dall’Egitto tolemaico ai nostri giorni e al centro l’omicidio consumato dagli ebrei
In tutte le grandi crisi europee, tra pestilenze, carestie e nazionalismi, una accusa che risorge con quella del complotto

LUNEDÌ CON «L’UNITÀ» la storia politica del mito occidentale che ha preceduto e giustificato duemila anni di antisemitismo. Un grande atlante illuminista a firma di Ruggero Taradel che ne segue passo passo genesi e sviluppo fino ad oggi

«L’accusa del sangue», titolo del libro che l’Unità manderà in edicola lunedì prossimo è un’espressione che più volte nell’arco dell’intera epoca cristiana - ovvero negli ultimi duemila anni - è stata rivolta agli ebrei e designa l’accusa di usare il sangue dei cristiani come ingrediente dei cibi e delle bevande prescritte per le feste pasquali.
Con più precisione l’autore del libro Ruggero Taradel, riprendendo una definizione proposta da Gavin I. Langmuir - uno degli studiosi più accreditati che hanno indagato il tema dell’«accusa del sangue» - così la propone: «Possiamo definire l’omicidio rituale come l’atto di uccidere un essere umano, non semplicemente per motivi di odio religioso, ma in un modo tale che la forma dell’uccisione sia in qualche modo determinata dalle idee presuntamene o effettivamente importanti nella religione degli uccisori o delle vittime».
In questo libro(«Chiavi del tempo», Editori Riuniti, pp. 399, Euro 7,90) ripercorre con pazienza la storia di un falso, di un atto che ha molte e diverse trame dall’antichità a oggi ma che si nutre poi di una sequenza molto stretta: l’uccisione per scopi terapeutici, magici o liturgici di un non ebreo da parte di ebrei i quali poi utilizzerebbero il sangue estratto dal suo corpo per produrre pane azzimo per la celebrazione della loro pasqua. Un racconto e un mito che rimangono a lungo «in sonno», ma che poi periodicamente si ripresentano e agiscono. Quel mito, infatti, si presenta una prima volta in Egitto tolemaico e tocca allo storico Giuseppe Flavio dimostrarne l’infondatezza con il suo Contro Apione. Siamo intorno alla fine del I secolo dell’E.v. e nel corso del primo millennio la storia delll’uccisione di vittime cristiane torna a circolare in varie occasioni ma non accende né rimette in moto l’idea di una colpa collettiva. È solo a metà del XII secolo intorno a Norwich che inizia a prendere forma quella che si configura come l’accusa del sangue. È il 25 marzo 1144 e un ragazzo viene trovato ucciso e sepolto in un territorio sconsacrato. Un mese dopo un sacerdote accusa gli ebrei dell’uccisione del ragazzo. Chiamati in discolpa gli ebrei vengono invitati dallo sceriffo di Norwich - e dunque dall’attività secolare - a non presentarsi al vescovo che aveva chiesto loro di discolparsi. Allo stesso tempo il corpo del ragazzo viene dissepolto e seppellito nell’abbazia per essere oggetto di «venerazione e adorazione».
Tre anni dopo, Thomas di Monmouth, giunto a Norwich, riconsidera tutta la vicenda e scrive una storia di quello che dice essere accaduto: è lo scenario di quello che passa poi come scena del delitto rituale: l’accoglimento con l’inganno da parte degli ebrei del fanciullo in una delle loro case, il suo essere legato per poi essere punto e trafitto in modo da raccoglierne il sangue, il suo corpo successivamente lavato e bollito e crocefisso accompagnato da questa formula: «…come abbiamo condannato Cristo ad una morte vergognosa, così condanniamo anche il cristiano, cosìcché unendo il signore e il suo servo nella stessa punizione, noi possiamo ritorcere su di loro la pena di quel rifiuto che essi ci imputano». Infine il corpo viene disperso.
È la formula che dà stabilità e fortuna al racconto dell’omicidio rituale che si arricchisce nel tempo di molte varianti come ricostruisce Taradel in questo suo libro, ma che ha in questa versione la sua immagine principe. Non che i molti casi di accusa ripetano sempre lo stesso copione, anzi nel tempo, e mano a mano che si espande in Europa, il copione dell’accusa si arricchisce sempre di nuovi particolari fino a strutturarsi in una sequenza che ha i suoi momenti topici in 8 componenti base:
1) la vittima: di solito è un bambino; 2) il rapimento: avviene dietro compenso; è indifferente che il rapitore sia cristiano o ebreo; i bambini non sono rapiti con gesti violenti; 3) il periodo: tutti i casi si collocano o vengono identificati nel periodo della Pasqua ebraica; 4) la modalità: non c’è un rito né una norma che stabilisca il luogo dell’omicidio; 5) gli esecutori: sono sempre maschi adulti; 6) il tipo di morte e le fasi dell’omicidio: cambiano alcune sequenze preliminari, ma l’atto decisivo è costituito dalla posizione eretta della vittima con piedi bloccati e braccia aperte, mentre tutto il gruppo dei suoi torturatori lo punge con spilli in varie parti del corpo fino a che non sopraggiunga la morte; 7) il sangue: raccolta del sangue e il suo utilizzo (per impastare il pane azzimo e per celebrare i riti della cena pasquale); 8) il cadavere: suo occultamento.
L’elemento più importante è determinato dal punto 6, ovvero dalle modalità della morte. L’omicidio rituale, più che un’accusa legata all’infanticidio, si definisce come una forma attraverso la quale riversare e reiterare l’accusa di deicidio. La vittima è un bambino, dunque un innocente. La sua è una morte per martirio, la forma suprema di imitatio Christi; il fatto che avvenga in occasione della Pasqua indica il carattere ciclico - e dunque rituale - di quella pratica.
Quello che è importante è la confessione del delitto, e soprattutto l’esternazione della convinzione. In questo atto estorto sta la vera ossessione dell’accusa di omicidio rituale. Tutta la narrazione dell’omicidio rituale non è che una trasposizione in forma simbolica del rifiuto ebraico di riconoscere la verità di Cristo, ovvero di negarlo. Colpire l’atto dell’omicidio rituale, non è che la replica di una nuova verità che ha vinto nel passato e che non può che confermare ogni volta la sua vittoria.
Nella pratica persecutoria e il modo con cui si persegue (si costruisce e si condannano ebrei su molte piazze d’Europa), come ricostruisce Taradel in questo suo libro, sta un meccanismo persecutorio tipico di tutte le maggioranze che si sentono messe in discussione dalla persistenza delle minoranze che non cedono e che perciò hanno la necessità di ribadire e di confermare periodicamente il proprio dominio. È un meccanismo che non è vero solo nel Medio Evo o nella prima Età moderna, ma si ripresenta costantemente. Negli ebrei non si perseguitano i deboli, ma si uccide in effige dei presunti potenti a cui si attribuisce il disegno del dominio del mondo.
Da questo punto di vista l’omicidio rituale non è la storia di un crimine, ma quella dell’ossessione di chi teme di perdere il proprio dominio. A ben vedere è la logica profonda di tutta la mentalità complottarda.
Perché questo elemento che a lungo sta in sonno emerge a partire dal XIII secolo? Perché, spiega Taradel, intorno a quella fase gli elmenti di magismo inducono a rafforzare la figura della «transustantazione», nuovo dogma cristiano sulla trasformazione dell’Ostia nel corpo di Cristo. Il dato allora di pratica anticristica, spiega Taradel, si rafforza proprio nel momento in cui preoccupazione costante della Chiesa diviene il problema della salvaguardia dell’ostia e dell’eucarestia. Almeno nel Trecento. Poi diviene la forza della sua capacità di fede, questo nella Spagna del Trecento, poi dei conflitti interni, nell’alta Italia del Quattrocento, e dell’affermazione dell’istituzione e del controllo dei monti di pietà con la predicazione di Bernardino da Feltre. Una diversa dinamica si ha con l’inizio della riforma protestante. Almeno all’inizio, ma poi con Lutero e soprattutto con il suo testo Degli ebrei e dello loro menzogne, l’accusa riprende forza e spazio. Poi lentamente, a partire dal Settecento, l’accusa tende a cadere per riprendere invece nell’Ottocento in una fase in cui di nuovo la dimensione del complotto ebraico riprende quota. Alla fine sono i Protocolli dei sei anziani di Sion a fare il loro ingresso nella storia.
Perché è importante questa filiera e perché è importante la ricostruzione proposta a Taradel in questo libro? Perché è importante leggerla? Per vari motivi. Uno mi sembra prevalere sugli altri, perché ci riguarda da vicino e riguarda la nostra attualità.
Probabilmente, fino a un anno fa - ovvero all’8 febbraio 2007 - l’espressione «accusa del sangue» e la sua messa in circolazione avrebbe richiesto delle spiegazioni, comunque delle indicazioni precise, o al più sarebbe stata guardata ed evocata come la memoria vaga di un evento che si perdeva nel tempo delle credenze e delle superstizioni. Non è stato così. Nel momento in cui il libro di Ariel Toaff (Pasque di Sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali, il Mulino) è stato andato in libreria, pur al di là delle intenzioni dell’autore, il bagaglio di credenze, di diffidenze, di malessere, di antigiudaismo latente che rimane nel profondo delle nostre società, è tornato e ha chiesto uno spazio pubblico; ed è tornato perché proprio quegli elementi che fanno parte del mito del complotto sono quelli su cui insiste il libro di Toaff, lavorando su documenti che non hanno alcun valore probatorio perché sono quegli stessi su cui si costruirono quei processi, poi dimostratisi falsi.
Il libro di Ruggero Taradel L’accusa del sangue. Storia politica di un mito antisemita (pubblicato per la prima volta nel 2002), proprio per l’accuratezza e la precisione con cui ricostruisce questo lungo percorso (compreso il processo di Trecento al centro del libro di Toaff), è un atlante storico di questa ripetuta catastrofe, ed è un modo per raccontare da un punto di vista saliente, ancorché imbarazzante, sia una storia dell’Europa, sia un’idea di Europa con cui dobbiamo ancora profondamente fare i conti. L’accusa del sangue è l’indicatore di un sentimento consistente tanto nelle campagne come nelle metropoli, e che ha il suo luogo culturale creativo tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 soprattutto nelle pagine della Civiltà cattolica, a cui fanno seguito le pubblicazioni del nazionalismo - in Francia, come in Germania, come in Italia - nonché quelle di alcune correnti del socialismo in cui ateismo e anticlericalismo si incontrano in nome di una rivendicazione di identità nazionale che incrementa l’odio per lo straniero, e che al tempo stesso esalta l’idea del mondo del lavoro come comunità nazionale da salvaguardare.
Elemento essenziale di una cultura politica che ha fortuna nel Novecento di cui i fascismi nazionali si nutrono abbondantemente, che ha nell’antisemitismo razzista una ideologia che consente di eleggere un nemico, di raffigurarselo nella sua «doppiezza» e nella sua «perfidia», di indicarlo come il vero virus da cui liberarsi. Una convinzione e una retorica, tuttavia, che hanno cittadinanza anche a sinistra nelle esperienze politiche dei totalitarismi comunisti. A quel repertorio d’immagini attingeranno nel 1951 sia Stalin, quando scatenerà una persecuzione inventandosi un complotto di medici ebrei in Unione Sovietica; sia la direzione del Pc cecoslovacco scatenando la persecuzione nei confronti di una parte consistente del quadro dirigente del partito di origine ebraica. Lo stesso fenomeno si ripeterà in Polonia dopo il 1967, quando sarà aperta la persecuzione antiebraica come lotta al cosmopolitismo antinazionale degli ebrei sionisti.
Una propaganda che in qualsiasi luogo abbia avuto corso e modo di diffondersi e di circolare, ha i suoi presupposti e i suoi riferimenti nelle parole, nella retorica, nelle raffigurazioni iconografiche, con cui l’accusa del sangue e, più in generale, le molte forme di antigiudaismo tradizionale, hanno accompagnato nel secondo millennio la lenta formazione di un’idea di Europa con cui dobbiamo ancora laicamente confrontarci e di cui dobbiamo essere criticamente consapevoli.

l’Unità 19.1.08
Perché di una scelta
Il fantasma della «purezza» smascherato
di Bruno Gravagnuolo

Giorno della memoria, 27 gennaio. Per non dimenticare l’unicità di Auschwitz. Con qualche giorno di anticipo l’Unità sceglie di aprire le celebrazioni proponendo per le «Chiavi del tempo» un testo di grande rivelanza storiografica e morale: Ruggero Taradel, L’accusa del sangue. Storia politica di un mito antisemita. Una scelta meditata e non casuale: andare al cuore di un ossessione bimillenaria. Che sta nell’intimo dell’occidente cristiano, nella sua Origine stessa. E che ne invade l’identità costitutiva. Cioè l’idea di una connaturale distruttività e perversità dell’ebraismo, in quanto popolo e in quanto religione «falsa e bugiarda». Che minaccia in radice la Veritas proclamata dal cristianesimo e del suo annuncio. E che addirittura la rovescia, facendosene forza. Con la caricatura infernale di un «rito di sangue». Tale è infatti l’accusa del sangue così come Taradel, docente dell’University of Washington of Seattle, la racconta. E come l’articolo di David Bidussa, storico ed esperto di cose ebraiche, la reintepreta. Secondo l’invenzione delirante di quel rito, era tipico degli ebrei cannibalizzare e uccidere innocenti cristiani, specie fanciulli. Al fine di tesaurizzare la ricchezza spirituale del loro sangue, per farsene magicamente forza. O anche semplicemente per uccidere i rivali cristiani e vendicarsi del loro potere. Ricelebrando il sacrificio di Cristo negli stessi termini, o addirittura a contrario a fini esoterici. Taradel dimostra nel suo «atlante» la falsità sistematica dell’accusa, che purtroppo un bravo studioso come Ariel Toaff nel suo Pasque di sangue ha finito per rilanciare. Una cosa infatti sono le accuse estorte con la tortura, come nel caso di San Simonino a Trento nel 1475. Oppure le accuse introiettate come «sindrome di Stoccolma» ante-litteram dagli accusati di stregoneria o di omicidio rituale. Altro la verità dei fatti, la persecuzione allucinatoria e infondata. Che Tradel ha il merito di smontare volta per volta in una cavalcata di secoli liberatoria e illuministica. E tuttavia c’è un punto, che va fissato, più di quanto Taradel non faccia. Perché quell’ossessione si ripete? Che nesso c’è tra l’accusa del sangue e il fantasma di purezza del sangue, alla base della distruttività antisemita e della stessa Shoah? È questo il punto su cui dobbiamo interrogarci, senza timore di ricadere nella «psicostoria» o in «elucubrazioni psicoanalitiche». E una prima risposta è: ebrei capro espiatorio di tutte le angosce di contaminazione dell’occidente cristiano. Ebrei come nazione cosmopolita e indocile a farsi assimilare. Come altro, differenza. Scandalo di una condizione umana che non sa convivere col conflitto e deve sopprimerlo. Anche per questo è «unica» la Shoah. Simbolo di tutti gli orrori che vengono dal quel problema irrisolto.

l’Unità 19.1.08
Dopo aver chiuso la querelle giudiziaria con il Ministero dei Beni Culturali, il Metropolitan restituisce il prezioso cratere trafugato da una tomba di Cerveteri
Dopo trent’anni il vaso di Eufronio torna a casa. In Italia
di Stefano Miliani


Nel 1972 arrivò a New York
Il museo lo acquistò per un milione di dollari
Ora sarà esposto a Roma nella mostra «Nostoi» insieme ad altri pezzi restituiti

Racconta di guerra, eroi e morte, raffigura Sardeponte figlio di Zeus mentre muore e i compagni dai cimieri piumati lo aiutano ad accasciarsi, illustra giovani pronti a combattere a Troia e forse non tornare mai più con una sintesi e un’efficacia a cui avrebbero fatto bene a guardare per il film Troy. Il «vaso di Eufronio», cratere attico a figure rosse su fondo nero del 520-510 a.C., fu trafugato da una tomba a Greppe Sant’Angelo presso Cerveteri nel Lazio nel 1971. Trasvolò senza passaporto l’Atlantico, l’anno dopo lo comprò per un milione di dollari il Metropolitan Museum di New York che oltre un anno fa, sotto pressione dai legali italiani, aveva accettato di restituirlo. Così il cratere ha volato un’altra volta sull’Atlantico, ieri era nel palazzo dell’Avvocatura di Stato e da oggi entra nella mostra in corso al Quirinale fino al 2 marzo «Nostoi-capolavori ritrovati».
Quella nel palazzo presidenziale è l’esposizione con 39 reperti archeologici riconsegnati dal Getty Museum di Los Angeles e con un’altra ventina di pezzi restituiti da altri istituti. E nella vicenda delle opere trafugate il calice rappresenta un capitolo simbolicamente (oltre che giuridicamente) essenziale. Ad accoglierlo ieri c’erano tra i tanti l’ex ministro dei beni culturali Buttiglione, che avviò la battaglia per i recuperi d’arte rubata, e il ministro Rutelli che questa battaglia internazionale l’ha rafforzata e continua a combatterla su altri fronti. Come anticipato ieri al New York Times dal responsabile dei beni culturali, rientreranno a breve 10 importanti pezzi greci (tra cui un altro vaso attribuito ad Eufronio) ed estruschi che la collezionista newyorkese Shelby White. Poi martedì Rutelli incontrerà le autorità egiziane per spingerle a far fronte comune nella lotta internazionale al traffico illegale, entro la fine del mese l’Italia riavrà un pezzo importante, Danimarca, Giappone, seguiti da Germania, Olanda, sono i Paesi interessati a breve scadenza.
Il clamore intorno al vaso di Eufronio infatti non è tanto, o non solo, la sua bellezza o il suo presunto valore economico (non è in vendita, non si può stimare, per i carabinieri valere tra i 10 e i 50 milioni di euro ma sono cifre senza possibile riscontro). «Il ritorno è un simbolo della rinnovata acquisizione di consapevolezza nella comunità internazionale degli studiosi», commenta il segretario generale dei Beni culturali e archeologo Giuseppe Proietti. «Abbiamo provato 30 anni a riavere il vaso». E se per lungo tempo ricorda una generale «disattenzione» (di studiosi, istituzioni, Stati Italia inclusa, stampa), secondo Proietti l’aria è cambiata. Anche perché il traffico clandestino di reperti non è andato a finanziare solo la criminalità organizzata come mafia e Sacra corona unita, in Italia, ma pure «attività terroristiche, come Fbi e Interpol hanno fatto emergere. Mohamed Atta, il capo degli attentatori dell’11 settembre, vendette reperti afhgani in Germania per pagarsi un corso di volo negli Usa».
Dopo il Quirinale, Proietti ipotizza un’esposizione del cratere nel palazzo della grafica (è vicino alla Fontana di Trevi, a Roma). Sul luogo definitivo due le ipotesi: o Cerveteri o il museo di Villa Giulia, nella capitale, il più ricco di cose etrusche. «Una delle ragioni di fondo per riavere le opere trafugate e il vaso di Eufronio - suggerisce l’archeologo - è proprio il riportarle nel loro contesto storico e ambientale». Per quanto per il cratere l’Italia ha messo ben altro, oltre al giustissimo principio scientifico e culturale. Lo indica Maurizio Fiorilli dell’avvocatura dello Stato: «La prova principe è stato il ritrovamento di un memoriale con tanto di polaroid per dimostrarne il valore offerto dal signor Medici al mercante Hecht». Due nomi coinvolti nel processo in corso a Roma all’ex curatrice del Getty Marion True, accusata di aver comprato consapevolmente opere trafugate. Processo nel quale, puntualizza l’avvocato riguardo a voci circolate, l’Italia si è ritirata dal costituirsi come parte civile «solo sui 39 pezzi restituiti e sulla Venere di Morgantina che tornerà da noi nel 2010, non sul resto».

Repubblica 19.1.08
Cuperlo: "Nessuna deriva laicista è la Chiesa che è troppo invadente"


"Tutti nel Pd abbiamo fatto un errore, rinviando il confronto sui temi eticamente sensibili, sulla laicità, sui diritti civili"

ROMA - «Il Partito democratico o è un partito laico o rischia di negare le sue stesse premesse». Gianni Cuperlo è un laico fervente. Con Barbara Pollastrini è promotore di un appello per la laicità e di un seminario che si terrà a febbraio e a cui hanno già aderito intellettuali, personalità della cultura e della scienza, politici. Cento firme in 48 ore, 500 in una settimana. Non gli piace nel Pd il basso tasso di laicità. Tra le adesioni al manifesto laico ci sono la cattolica Albertina Soliani Umberto Veronesi, Salvatore Veca, Fabrizio Onida, Carlo Feltrinelli, Salvatore Bragantini.
Tutti all´Angelus, domenica, per manifestare solidarietà al Papa. È una corsa anche nel Pd?
«Ritengo del tutto legittimo che individualmente ci siano esponenti del Pd che aderiscono all´appello di Ruini. Però voglio far notare che il problema oggi in Italia non è la deriva laicista o l´anticlericalismo diffuso. Il problema che anche il Pd deve affrontare è rappresentato dalla scelta della Chiesa di svolgere un ruolo sempre più attivo e invadente nella sfera politica e istituzionale. Fermo restando che non è in discussione il diritto della Chiesa né dei suoi vertici di affermare le proprie convinzioni nel dibattito pubblico».
Allora, cos´è in discussione?
«Affermare l´autonomia della politica nella decisione. Quindi la laicità è cultura del dialogo e del confronto tra posizioni diverse ma poi è capacità e autonomia della politica nel momento della decisione. Quello che non funziona è uno schema secondo il quale ci sono temi e problemi che riguardano la vita di milioni di persone rispetto ai quali esistono delle Verità che precludono alla politica e alle istituzioni la possibilità di dibattere e di decidere».
Nel Pd, c´è una laicità carente?
«Credo che tutti nel Pd abbiamo compiuto un errore: abbiamo rinviato una discussione di merito sui temi eticamente sensibili, la laicità, i diritti civili. L´abbiamo posticipata, pensando che ce ne potessimo occupare dopo. Ebbene, il "dopo" è arrivato. L´agenda pubblica, dalla fecondazione assistita alle unioni civili, all´offensiva contro la 194, ci mette di fronte alla necessità di affrontare questa discussione. Accantonando temi che potevano dividere, si pensava di rendere più forte il processo costituente del partito nuovo. In realtà, è solo con una discussione seria e responsabile che noi rafforziamo il profilo e la credibilità del partito. Non stiamo parlando di problemi di nicchia - è chiaro che la priorità per gli italiani è il potere d´acquisto di salari e pensioni - ma dietro queste questioni, ci sono i diritti fondamentali dei cittadini. L´altra osservazione è che non si può estendere secondo convenienza la sfera eticamente sensibile anche a questioni, come le coppie di fatto o le norme anti omofobia, che riguardano i diritti civili».
Nel Pd divisioni e fibrillazioni continue tra cattolici e laici?
«Il Pd è nato con l´obiettivo di mettere cattolici e non, credenti e non credenti nella condizione di condividere i valori e la cultura politica di un grande partito. Dobbiamo affrontare questa sfida. E alla maggioranza dei cattolici del Pd, a parte alcuni integralismi come quello di Paola Binetti, non appartengono logiche da crociata».
(g.c.)

Repubblica 19.1.08
Sueddeutsche Zeitung "Pontefice intollerante"


MONACO - Attacco al Papa dal giornale progressista Sueddeutsche Zeitung. Per il quotidiano la vera intolleranza nella vicenda del mancato intervento alla Sapienza era contenuta nel discorso che Benedetto XVI avrebbe dovuto pronunciare. «E´ insolente sul piano concettuale e sul piano storico affermare in una città in cui è stato bruciato Giordano Bruno che le lotte per la verità del passato siano state "un´appassionante competizione" tra teologia e filosofia, di cui "non si può trattare in questa sede"».

Repubblica 19.1.08
Quel dialogo tra teologia e scienza
di Franco Cordero e Gad Lerner


«Dialogo», trisillabo dal bel suono: la prima sillaba indica un moto; le due seguenti significano parola, discorso, pensiero; sommate, evocano dei colloqui. L´atto è tale quando i contenuti mentali circolano secondo regole condivise dai collocutori. Nel poker il primo alla sinistra del mazziere passa o apre: i partners intervengono o no; seguono operazioni relative alle carte, ecc. È un gioco, talvolta serio, anche comunicare idee su cose del mondo o puri teoremi: spesso i partecipanti muovono da posizioni diverse; l´esito dipende dal fair play; nell´ipotesi virtuosa nessuno bara e sopravviene l´accordo, magari nel senso che non consti niente. In un trattatello postumo Schopenhauer enumera 38 stratagemmi con cui farsi dare ragione, l´abbiamo o no, ma un pubblico sveglio ed equanime vede i trucchi. La regola della decisione è prodotto storico. Solo qualche fondamentalista bigotto presuppone in Adamo lumi intellettuali infusi dal Creatore: ci vogliono milioni d´anni; attraverso un lento sviluppo organico animali umani imparano parola e pensiero; l´affascinante dialettica platonica contiene ancora i sedimenti della mente primitiva; due generazioni dopo, Aristotele li segnala ironicamente. Quasi ab immemorabili il vaglio dei discorsi avviene secondo due criteri: coerenza formale e vaglio empirico; la somma degli angoli d´un triangolo dà 180°; le malattie infettive sono causate da microrganismi, e via seguitando sul filo d´innumerevoli massime assiduamente vagliate; Tolomeo non ha più credito, idem la germinazione spontanea, negata da Pasteur, o i biblisti che datavano la creazione 4000 a. C. Va meno bene nelle scienze dell´uomo, infestate da fumo verbale, ma l´ascoltatore attento se ne accorge ed è impossibile istupidirli tutti o almeno sinora nessun stregone c´è riuscito.
Il dialogo corre fin quando i collocutori stiano dans les règles: violate le quali, gli scambi verbali diventano paradosso più o meno geniale o stramberia, sopruso, vaniloquio; ha poco senso discutere una geometria dove gli angoli del triangolo diano più o meno dei soliti 180°, o sistemi fisici senza entropia; l´equivalente nella pratica dei giochi è l´atto con cui il perdente d´un poker pretenda d´avere vinto perché le donne valgono più degli assi. Ora, siamo fuori dell´universo dialogato (nella forma storica in cui l´ha configurato una cultura millenaria) quando logica ed esperienza non contino, essendo imposta la regola da autorità soi-disantes infallibili. L´asserito errore diventa delitto: l´individuo anomalo va riconfigurato; altrimenti i custodi lo estirpano affinché non ne contagi altri; ogni apparato ecclesiocratico aspira al dominio psichico, perciò addestra degl´inquisitori. L´esempio classico del paziente inerme sotto l´ordigno repressivo è Miguel Serveto, aragonese nomade, troppo intelligente per rinchiudersi nelle maglie d´una ortodossia e così incauto da non nascondere i pensieri devianti, anzi li espone: poco male finché discute materie mediche (descrive la circolazione del sangue un secolo prima che la scopra William Harvey); in due libri giovanili sostiene che la Trinità sia un pastiche da non pigliare sul serio; s´è attirato l´odio dei protestanti; toccato nella «Cristianismi restitutio», Calvino gli rende il colpo con una denuncia all´inquisitore cattolico; evaso dalla prigione, incappa nella mano calvinista; invano sostiene che questioni simili siano liberamente disputabili tra persone colte, e nega d´avere disseminato idee sovversive; rende l´anima venerdì 27 ottobre 1553, arso vivo. Capita anche in casa cattolica. Lo sfratato Giordano Bruno soccombe dopo sette anni d´una torpida inquisizione su questioni aperte, mancando prove risolutive: al banco filosofico vale molto ma gli hanno scovato idee empie; che innumerevoli mondi esistano da sempre; le anime trasmigrino; lo Spirito santo sia anima mundi; qualche fonte biblica richieda una lettura correttiva; vivessero uomini prima d´Adamo, ecc. Giovedì mattina 17 febbraio 1600 va al rogo, col morso perché aveva in gola «bruttissime parole». Trecentodue anni dopo monsignor Angelo Mercati, storico della Chiesa, pubblica gli atti del processo: era condanna legittima, sostiene; e «l´Osservatore romano», 20 giugno 1942, insulta l´anima maledetta. Gesto turpe, da patibolo, risponde Benedetto Croce («La Critica», 1942, 283s.), ma altrove aveva lodato l´ortopedia mentale inquisitoria.
Non era un collocutore raccomandabile il Sant´Ufficio. Lo sono gli eredi? Mutato l´ambiente culturale, cadono gli autodafè, forse rimpianti da qualche reazionario: oggi nessuno toccherebbe in corpore l´aragonese Miguel Serveto e l´errabondo fratel Giordano; il brachium saeculare sopravvive in forme larvate quali censure, spesso spontanee, o interdetti silenziosi. Resta il blocco dogmatico, preteso possesso d´una verità assoluta, incompatibile con le procedure della ragione laica. Gli ukase ottocenteschi erano duri. Vediamone alcuni dall´indice del manuale classico (H. Denzinger, «Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum»», § 14, voce «Ecclesia, Relationes ad scientias», ed. 21-23a): la Chiesa «auctoritatem habet» in materia filosofica, anche dove manchino ancora definizioni espresse; perciò non tollera «errores philosophicos»; conclusioni contrarie alla fede non sono mai scientificamente legittime. Poi il lessico suona meno brutale, fermo restando l´asserito monopolio. Nell´ultima versione la pretesa dogmatica diventa gentile metafora botanica: rimasta sola, la ragione inaridisce come l´albero le cui radici non tocchino l´acqua; dunque, renda ossequio alla «verità» custodita dalla Chiesa. Qui bisogna intendersi. Scienza e tecniche avulse da premesse etiche incubano sventure, verissimo, ma l´etica è invenzione umana, su cui le religioni hanno poco da dire, quando non la negano. Esposta in termini coerenti (vedi Calvino), la teologia agostiniana ecclesiasticamente codificata è fiaba nera: rispetto a quel Dio-orco sono passatempi futili le perversioni descritte nelle «Cent Vingt Journées de Sodome»; non potendola predicare così, perché svuoterebbe le chiese, né riabilitare l´umanista cristiano Pelagio, fautore d´una religione senza apparato ecclesiastico, l´autorità conia formule equivoche, dove una cosa non esclude l´opposta, e diventa merito la sordità logica; i devoti inghiottono tranquilli qualunque contraddizione. Il credente curioso vuol sapere quali canoni valgano ancora, ma è poco probabile che glielo dicano: costerebbe troppo; la soi-disante verità immutabile dura finché non se ne parli chiaro; da lì svanisce, onnivora essendo l´intelligenza critica; perciò ogni regime ecclesiocratico la combatte arruolando degli stupidi nelle polizie del pensiero. Un esempio: è lodevole pedofilia mandare in paradiso feti e bambini morti senza battesimo, ma dove finisce il peccato originale, clou della teologia cristiana?; cade l´unica pseudo-giustificazione, in chiave tribale, della scelta ante mundum con cui Iddio predetermina le sorti delle creature; inorridiscono i santi Agostino, Tommaso, Bonaventura, l´eretico Calvino et ceteri. Insomma, siano benvenuti i dialoghi, purché nessuno sfoderi atout abusivi e ciascuno sappia con chi gioca.

Repubblica 19.1.08
I barbari. Non erano né rozzi né incolti e per loro Roma era un mito
Si apre il 26 gennaio a Palazzo Grassi una grande mostra dedicata alle popolazioni che scesero in Italia dal Nord Europa
di Paolo Rumiz


Cieli bassi della Francia del Nord, pioggia fine tra gli abeti. In una radura, alcuni archeologi cercano tra i resti di un campo militare romano del quarto secolo. Dal terriccio saturo di frammenti di coccio, sbuca a un certo punto un testone di pietra arenaria, primitivo e calvo, più simile al guanto di un pugile che a un ariete. Si scava ancora, ed ecco emergere anche il busto, percorso per tutta la lunghezza, fino al mento, da un enorme sesso maschile. Gli esperti riconoscono al volo l´impressionante inquilino del "Castrum". E´ Freyr, il Dio germanico della fertilità, adorato dagli stessi popoli che hanno distrutto le legioni di Augusto nella Selva di Teutoburgo. Una preda di guerra? Niente affatto: è un idolo dei legionari stessi, sistemato accanto alle statue degli dei olimpii, lì sulle retrovie del Limes imperiale.
Domanda: che ci faceva il simbolo di pietra del nemico in mezzo alle aquile e ai fasci littori? Nella logica dello scontro di civiltà, non sarebbe come scoprire oggi un Corano in arabo nello zaino di un soldato americano in Iraq? C´è la risposta: prima dello scontro c´era stato l´incontro. Nel quarto secolo le legioni si erano già "barbarizzate"; avevano inglobato nei loro ranghi contingenti germanici, goti e vandali con tutto il loro armamentario di dei, idoli, usanze. "Franco nel civile, sono soldato romano sotto le armi", si legge in una lapidaria iscrizione tombale di quel tempo. Era chiaro: per reggere all´urto della "grande immigrazione" l´impero aveva dovuto assumere una struttura "federale", accogliendo nel suo territorio popoli stranieri purché questi accettassero di difendere il Limes con le armi. I due mondi - Mediterraneo e mondo continentale - si erano sfiorati e annusati a lungo prima di scontrarsi.
E´ duro assai a sgretolarsi l´immaginario occidentale - greco-romano o giudaico-cristiano non importa - che vede l´arrivo dei barbari come un´orda selvaggia che rompe gli argini, sfonda una muraglia, dilaga stupefatta su terre che non conosce, passa come un caterpillar su templi, strade selciate, acquedotti, palazzi e ville patrizie. Un flagello, una massa incontenibile di guerrieri forti e incorrotti che scardina le difese di una popolazione decadente, i suoi guerrieri effeminati, i suoi affaristi imbroglioni, ne rade al suolo le città, ne rifiuta e ne abbatte gli dei millenari per sostituirli con i propri. Niente di più sbagliato per raccontare un´epoca che fu invece di coabitazione, quella da cui nasce il mondo cristiano, che a impero defunto diventa veicolo di romanizzazione in terre mai toccate dalle legioni. Tempestose scogliere d´Irlanda, ventosa Danimarca alle porte del Baltico, cupe foreste di Sassonia, steppe oltre il Tibisco.
La stessa parola "invasioni" è depistante, perché riduce a evento da rotocalco quello che fu un processo lungo di osmosi, prima che di confronto e scontro; una coabitazione, che prolungò la vita dell´impero anziché accelerarne il crollo. Insomma, i popoli venuti dal Nord e dalle steppe eurasiatiche vanno riabilitati, riletti come civiltà: è quanto ci dice la mostra "Roma e i Barbari, nascita di un nuovo mondo" che dal 26 gennaio sarà aperta per sei mesi a Palazzo Grassi, Venezia, campo San Samuele 3231. Una massa di reperti che travolge, sbriciola stereotipi, evoca l´affresco grandioso di un´epoca lunghissima. Dieci secoli, fino al tempo dei vichinghi, dei magiari e degli slavi. Ultime retroguardie delle turbolenze iniziate poco dopo l´epoca di Augusto.
All´inizio, il barbaro è nient´altro che il trofeo. La misura stessa della potenza dell´impero è data - su colonne, scudi, sarcofaghi e archi di trionfo - dalla quantità di corpi nudi e barbuti massacrati dalle legioni, arrotati da quadrighe o inginocchiati con le mani legate dietro la schiena. E´ questo il senso dell´erculea statua decapitata del prigioniero gallo scoperta in Francia a Saint Bertrand-de-Comminges; e lo stesso può dirsi delle immagini truculente di battaglia che circondano il sarcofago del Portonaccio a Roma, oppure del cammeo col trionfo di Licinio imperatore, i cui cavalli calpestano un tappeto di corpi nemici, aprendosi a ventaglio come quelli di San Marco a Venezia.
«Il tema della supremazia di Roma sull´Orbe è rappresentato in mille varianti da un perfetto sistema di propaganda» spiega Jean-Jacques Aillagon, 61 anni, curatore della mostra ed ex presidente del centro Pompidou a Parigi. «Roma è la prima civiltà che usa l´immagine per diffondere l´idea di se stessa e del mondo». Un´immagine così forte, così venerabile, che il sogno resterà intatto anche dopo il crollo, vedrà nei barbari i suoi più accesi sostenitori, e si reincarnerà da Carlo Magno in poi nell´idea di Sacro Romano Impero Germanico, di cui l´Austria-Ungheria fu l´ultima immagine terrena. Teodorico a Ravenna e Alarico a Tolosa pretendono di essere imperatori; re visigoti e longobardi battono monete che li vedono rappresentati alla romana; alcuni di loro - consapevoli di non poter rivaleggiare con i monumenti del passato - si preoccuparono di restaurarli. L´acquedotto di Ravenna o le terme di Cartagine sono giunte in ottimo stato fino a noi grazie ai barbari invasori.
Tempo fa un abitante di Magonza mi parlò con commozione e orgoglio del "Castrum", il campo romano della sua città. M´accorsi che mai nessun italiano avrebbe vantato con tanta fierezza il passaggio delle legioni. Mi chiesi come mai gli eredi dei barbari Germani ricordassero Roma con più partecipazione dei latini. Cosa poteva spiegarlo se non il fascino che il mito imperiale, la sua formidabile organizzazione, la sua logistica, avevano esercitato sui popoli del Nord e del lontano Oriente? Era chiaro: la leggenda di Roma era sopravvissuta alla periferia dell´impero meglio che nel suo centro papalino, dove un altro potere - un altro monarca circondato da ori, incensi e canti gregoriani - aveva cancellato il vecchio mondo dopo averne accelerato la dissoluzione.
Erano rozzi e incolti? Ma quando mai. Aristocrazie barbare e romani avevano gli stessi modelli di autorappresentazione. L´imperatrice Amalasunta, sesto secolo, è in tutto e per tutto bizantina; la figlia di Teodorico l´ostrogoto ha scettro, corona, globo e dalmatica; abbina magnificamente la potenza del Nord con la raffinatezza d´Oriente, è una valchiria nei panni di Teodora, imperatrice costantinopolitana. E che dire della croce votiva visigota di Cluny, capolavoro di oreficeria e omaggio commovente alla Chiesa di Cristo, oppure della fibbia vandalica trovata a Cartagine, tutta europea nell´anima, segno che l´altra sponda del Mediterraneo - quella che diede origine a Sant´Agostino - fece parte del nostro mondo prima di essere risucchiata dal Jihad. Per non parlare del reliquiario merovingio dell´abbazia di Sain Maurice d´Agaune, nel Vallese, Svizzera, barbarico cofanetto che ingloba un cammeo classico e dopo quattordici secoli esce per la prima volta dalla sua teca claustrale per volare all´estero.
Roma ebbe imperatori africani e illirici, si collegò alle classi dirigenti straniere cooptandole nel senato, costruì a suo favore una rete di complicità internazionale di cui solo la massoneria inglese al tempo della regina Vittoria può dare una pallida idea. Secondo Monique Veaute, amministratrice di Palazzo Grassi, Roma è un esempio perfetto di "bon usage dell´immigration", e sembra che sbatta questa realtà sul muso degli stati-nazione d´Europa che oggi vedono le loro banlieues in fiamme e i loro immigrati in perenne stato d´accusa. Georges Duby scrive che i barbari di allora «avevano un solo desiderio: integrarsi. E per integrarsi veramente era necessario farsi cristiani». E´ accaduto per Longobardi, Goti, Vandali, Alemanni, Svevi, Franchi, Daci, Sassoni e Angli. Perché oggi non accade? Forse perché il cristianesimo sapeva "inculturarsi" meglio nei nuovi popoli, tirandoli a sé senza togliere nulla alle loro identità? O perché l´idea romana dell´ecumene si è estinta con la fine degli imperi e il trionfo delle nazioni?
L´emblema della mostra è un busto aureo di Marco Aurelio, l´imperatore-filosofo che muore combattendo sul Danubio. Questo reperto eccezionale, prestato a Venezia dopo estenuanti trattative dal museo Romains di Avenches in Svizzera, simboleggia il destino dell´impero, il suo apogeo e la sua decadenza. Era il tempo in cui le legioni, irrobustite di nuovo sangue barbarico, avevano raggiunto il top della loro potenza d´urto. Ma l´Orbe era ormai troppo grande per resistere, in quel tempo senza telefoni, senza internet, treni e aeroplani. Le magnifiche strade romane non bastavano più, e lo sguardo di Marco Aurelio imperatore, perso verso le pianure infinite dei sarmati e dei daci oltre i Carpazi - le stesse da cui sarebbero sbucati gli Unni - sembra percepirlo come fato ineluttabile.

Corriere della Sera 19.1.08
Documento dell'Accademia dei Lincei
L'evoluzione ritorni a scuola
di Telmo Piovani


La teoria dell'evoluzione gode di ottima salute sperimentale, parola dell'Accademia Nazionale dei Lincei. La prestigiosa istituzione ha deciso di dedicare all'evoluzione biologica un documento di sintesi per ribadire, con tutto il peso scientifico e l'autorevolezza dei suoi membri, la validità delle intuizioni darwiniane, suffragate oggi da "una quantità gigantesca di osservazioni scientifiche, di reperti fossili, di risultati sperimentali e di considerazioni teoriche".
Il pronunciamento dell'Accademia fa il punto, in modo conciso ed efficace, sullo «stato attuale delle nostre conoscenze » in materia di evoluzione e vuole essere un'occasione di chiarimento per l'opinione pubblica, come accade per i documenti periodici stilati da organismi analoghi come la National Academy of Sciences americana.
Frutto di un lavoro collegiale e interdisciplinare durato un anno, il testo è stato approvato all'unanimità dall'ampio gruppo di lavoro nominato dalla Classe di Scienze matematiche, fisiche e naturali. Una volta descritti i principi fondamentali della teoria neodarwiniana, in particolare la selezione naturale e i meccanismi di ramificazione di nuove specie, i Lincei presentano gli aggiornamenti più recenti delle ricerche in campo evoluzionistico, con particolare attenzione ai rivoluzionari progressi della genomica nella comprensione dei processi biologici.
L'universalità del codice genetico e le affinità strutturali tra le proteine di gruppi diversi rappresentano una prova schiacciante delle relazioni di parentela che uniscono in una sola trama storica tutti gli esseri viventi. Grazie alle scoperte della biologia evoluzionistica dello sviluppo, sappiamo che i geni "architetti" coinvolti nella regolazione dello sviluppo e nella costruzione dei piani corporei sono gli stessi per quasi tutti gli animali. Ciò significa che a partire da un materiale comune e limitato l'evoluzione, come un inventivo bricoleur, è stata capace di sviluppare le "innumerevoli e meravigliose forme" di cui scriveva Darwin nella celebre chiusa de L'origine delle specie.
Una discendenza naturale senza interruzioni ma anche la capacità di esplorare adattamenti innovativi, questo è il duplice significato della teoria evoluzionistica che vale per tutti gli esseri viventi. La specie umana non fa eccezione, notano i nostri scienziati, perché i suoi comportamenti sono profondamente radicati nella storia evolutiva ma anche dotati di caratteristiche culturali inedite. Nel documento viene succintamente ricostruita la storia avvincente dell'evoluzione ominide, con la comparsa di Homo sapiens in Africa intorno a 200 mila anni fa e le successive espansioni geografiche in tutti i continenti che hanno prodotto l'attuale diversità delle popolazioni umane.
Il tempo profondo ci racconta il presente, come avevano senz'altro compreso gli estensori dei vecchi programmi scolastici italiani quando inserirono la voce "Origini ed evoluzione biologica e culturale della specie umana". Oggi quel riferimento non esiste più ed è proprio al mondo dell'insegnamento che è rivolto principalmente l'intervento dell'Accademia.
«Ci è sembrato giusto riaffermare i punti centrali della spiegazione evoluzionistica e ricordare le conoscenze accumulate dalla ricerca scientifica sui processi evolutivi degli organismi viventi — commenta il portavoce del gruppo di lavoro e illustre etologo, Floriano Papi — perché siamo preoccupati della possibilità che in Italia, come negli Stati Uniti, gli attacchi continui e infondati alla teoria evoluzionistica e le confusioni provocate nei dibattiti pubblici dagli interventi dei non esperti facciano sempre più presa sull'educazione dei giovani».

Corriere della Sera 19.1.08
L'inaugurazione dell’anno Accademico
Il no del Pontefice alla Sapienza Libertà di dire, e di non ascoltare
di Alberto Asor Rosa


Professore emerito della «Sapienza» di Roma
Siamo in una fase in cui la Chiesa di Roma tende a espandere i confini del proprio intervento, della propria libertà di parola e del proprio diritto di censura. Questa è la situazione: non certo quella opposta

Caro Direttore, qualche anno or sono Padre Vittorio Liberti S.J., cappellano alla «Sapienza» di Roma, organizzò una serie d'incontri fra credenti e non credenti intorno a temi fondamentali della fede cristiana e della ragione umana (intrecciati fra loro, ovviamente). A me capitò di ragionare con il Vescovo Monsignor Clemente Riva intorno al tema se sia possibile un'etica che prescinda dalla fede. Io sostenevo (ovviamente) di sì: monsignor Riva (ovviamente) di no. E però... (i testi sono stati raccolti accuratamente in un volume,
Sulla soglia del tempio, 1997, con un'introduzione del Cardinal Carlo Maria Martini: chi ne abbia curiosità, può andare a leggerseli).
È stato un bell'esempio, io credo, di «dialogo». Tutt'altra cosa la vicenda riguardante l'invito a Benedetto XVI ad intervenire con un suo proprio discorso all'inaugurazione dell'anno accademico all'Università di Roma «La Sapienza ». Chi non lo capisce — vorrei esser molto chiaro — è un grullo. E, a giudicare dalle reazioni, di grulli ce n'è parecchi in Italia.
L'inaugurazione di un anno accademico è una cerimonia ufficiale, a cui hanno l'obbligo di presenziare tutti i componenti del corpo docente (e la libertà di farlo, secondo me, degli studenti o almeno di loro larghe rappresentanze). Ora, la libertà di parola (lo ricordo ai molti che ne hanno strillato) si compone di due aspetti: la libertà di dire (o non dire); e la libertà di ascoltare (o non ascoltare).
Se la cerimonia è organizzata da un privato qualsiasi, nulla quaestio: ci si va o non ci si va a seconda dei casi. Ma se la cerimonia è ufficiale, e io ho non solo il diritto ma il dovere di parteciparvi in quanto membro effettivo di quella comunità, non mi si può togliere la libertà di non ascoltare, se desidero farlo — di non ascoltare a casa mia, intendo.
Lasciamo stare che in questa grandiosa commedia degli equivoci innescata da una scelta puerilmente malaccorta, si è pensato di risolvere la difficoltà facendo sì che l'inaugurazione accademica di cui si parla fosse ad inviti
e non libera (certo, pre-selezionando il pubblico, s'ottiene l'effetto che si vuole). Resta il fatto che, mancando (ancora una volta ovviamente, data la natura dell'interlocutore) qualsiasi «dialogo» e tanto meno contraddittorio, una parte del pubblico libero potenzialmente dissenziente sarebbe stato costretto ad ascoltare per forza un discorso che non avrebbe voluto ascoltare né lì né altrove.
È per questo che gli accademici d'altri tempi, tradizionalmente prudenti, hanno risolto il problema, dando la parola in consimili occasioni a uno di loro: nel peggiore dei casi (destinato peraltro a verificarsi spesso, ma questo fa parte dei normali casi della vita) non ascolterebbero che le parole di uno di loro, soppesate con il punto di vista della «criticità» e non dell' «autorità».
Nell'invito al Pontefice — il quale, rinunciando a venire ha dato prova di grande saggezza — c'erano dunque un calcolo sbagliato, una concezione abnorme dell'istituzione universitaria, una scarsissima considerazione degli orientamenti del proprio corpo docente e anche, se mi è consentito, un po' di stupidità.
Gli stessi elementi, tuttavia, che ho ritrovato in molti di quel coro che s'è levato quando il Pontefice ha rinunciato a venire. Farei queste due rapide considerazioni.
Quando Veltroni e Ferrara, Casini e Mussi, Turco e Bondi — e altri non meno importanti — dicono esattamente le stesse cose, usando le stesse parole, vuol dire che il senso delle distinzioni su cui uno Stato laico si fonda, si sta perdendo, annegato in quel «comune sentire», che costituisce la «cultura unica» del ceto politico-intellettuale oggi dominante (trasversalismo spinto, direi, altro che legge elettorale).
Quando, di qui a cinquant'anni, uno storico giudicherà questo nostro periodo, non potrà non dire che siamo in una fase in cui la Chiesa di Roma tende continuamente e sempre di più a espandere i confini del proprio intervento, della propria libertà di parola e del proprio diritto di censura. Questa è la situazione: non certo quella opposta. Anche per questo sfondo storico la presenza di Benedetto XVI è stata intesa da molti come uno sviluppo e un'espressione altamente simbolica di questa costante espansione.
Caro Direttore, mettendo insieme questi due «quando », ne esce il quadro di un'Italia confusa, subalterna e divisa — divisa anche su questioni fondamentali. Suggerirei di riprendere e praticare il metodo Liberti, allontanando per sempre quello Guarini. Disponibile, anzi disponibilissimo, al «dialogo »: se è un dialogo.

Corriere della Sera 19.1.08
La chiesa cattolica rispettata ma disobbedita
di Sergio Romano


Il cardinale Sebastiani, in una recente intervista, ha dichiarato che nonostante le polemiche giornalistiche e anche alcuni dolorosi scandali che derivano dalla debolezza dei singoli uomini, il prestigio della Chiesa è in crescita. Anzi, paradossalmente queste polemiche stanno svegliando tanti cattolici freddi o distratti, grazie ai quali gli aiuti economici consegnati alla Chiesa perché possa svolgere la propria missione, sono in crescita costante.
Una conferma a quanto da tempo avevo notato nel giro degli amici e conoscenti anche non praticanti.
Ciro Rossi

Caro Rossi,
Vi è un risveglio religioso da cui trae vantaggio anche la Chiesa cattolica. E vi sono conversioni promettenti come quella di Tony Blair. Ma non sono certo che il cardinale Sebastiani abbia ragione. Negli Stati Uniti la Chiesa non ha ancora superato la crisi dei preti pedofili e non ha ancora smesso di pagare gli indennizzi inflitti alle sue diocesi dai tribunali americani. In America Latina la Chiesa è insidiata da culti locali, di sapore animista, come la santeria a Cuba o il voodoo nei Caraibi, e dall'offensiva missionaria degli evangelici che hanno strappato al cattolicesimo alcune decine di milioni di brasiliani. In Africa deve fare i conti con l'attrazione che il rigoroso monoteismo islamico esercita sulle popolazioni a sud del Sahara. In Asia si scontra con il fondamentalismo indù e un buddismo che in Birmania, negli scorsi mesi, ha dimostrato di possedere una forte capacità di mobilitazione civile. In Cina deve venire a patti con un regime politico che non intende rinunciare al potere dello Stato sulla Chiesa.
Resta il caso, non facilmente decifrabile, dell'Europa. Qui la Chiesa, soprattutto dopo l'elezione di Benedetto XVI, sta ricucendo lo strappo con gli ortodossi, provocato dalla politica «polacca » di Giovanni Paolo II. Dopo avere incontrato il patriarca a Istanbul, il nuovo papa visiterà molto probabilmente la «Terza Roma» e riuscirà forse a stabilire con la Chiesa russa migliori rapporti di quelli che il suo predecessore ebbe con il patriarcato di Mosca. In Europa centro- occidentale, nel frattempo, la situazione, per la Chiesa, non mi sembra positiva. Il governo Zapatero ha adottato leggi, in materia di divorzio e matrimoni fra omosessuali, che il Partito popolare di Mariano Rajoy, se conquisterà il potere, non sembra voler cambiare. Il presidente francese Nicolas Sarkozy rende una rispettosa visita al papa (sia pure con 18 minuti di ritardo) e pronuncia sulle radici cristiane dell'Europa parole molto gradite alla Santa Sede. Ma dubito che alla Chiesa di Roma sia piaciuto assistere allo spettacolo di un presidente due volte divorziato che gira per il Medio Oriente in luna di miele con quella che in altri tempi sarebbe stata chiamata la sua concubina. Le ricordo, caro Rossi, che il capo dello Stato francese, per antica concessione, è canonico d'onore di San Giovanni in Laterano. Non è necessario essere bacchettoni per avere qualche dubbio sulla sua idoneità alla carica.
Il caso del presidente francese, d'altro canto, è soltanto la punta più visibile di un comportamento ormai diffuso in tutti i maggiori Paesi cattolici europei. Nel febbraio dell'anno scorso il Corriere
ha pubblicato alcuni dati Istat da cui risulta che il numero dei matrimoni in Italia è passato da 419.000 nel 1972 a 200.000 nel 2005 e che le coppie di fatto sarebbero oggi circa mezzo milione. Come ha scritto Enzo Bianchi nella Stampa del 4 novembre 2007, gli italiani che si dichiarano cattolici sono il 70% della popolazione, ma la percentuale di coloro che praticano la religione è molto più bassa: fra il 17 e il 20%. Temo che per molti europei il cristianesimo, cattolico o riformato, abbia smesso di essere una fede e sia diventato semplicemente la manifestazione della propria differenza. «Siamo cristiani», in altre parole, è un altro modo per dire «Non siamo musulmani». Non credo che questa riduzione del cristianesimo a rivendicazione identitaria possa piacere alla Chiesa.

Corriere della Sera 19.1.08
Benedetto XVI afferma che né il cristianesimo né la cultura laica possono proporre qualcosa «su cui tutti siano d'accordo»
Se il Papa è relativista
Quando dice che la ragione non regge senza l'ausilio della fede sottrae alla filosofia il compito di ricercare verità indiscutibili
di Emanuele Severino


Antiche radici. La sapienza greca nasce come critica della religione
La divergenza. Ratzinger non segue Tommaso d'Aquino sul «diritto naturale»

Episodi di intolleranza come quello verificatosi in questi giorni nei confronti del Pontefice danneggiano il dialogo sui grandi temi della ragione e della fede. Ma ancora maggiore sarebbe il danno se tale dialogo si interrompesse. Lo sostengo in riferimento al felice libro di Benedetto XVI Perché siamo ancora nella Chiesa
(Rizzoli). Insieme a quella latina, cristiana e moderna, egli indica l'«eredità» greca dell'Europa: la fondazione della democrazia su ciò che Platone chiama eunomia, «buona legge», («buon diritto»), che è buona perché, dice il Pontefice, è la «supremazia, valida per tutti, del nomos » («legge»), «di ciò che è giusto per intima essenza». Ma questa — osservo — è la supremazia della filosofia, che ha sempre inteso indicare, in modo «valido per tutti», la verità. Una giustizia, una virtù, un Dio che non siano veri — dice Platone — li si può e li si deve abbandonare. Solo la verità può mostrare in modo incontrovertibile l'«intima essenza» delle cose. La filosofia respinge tutto ciò che assicura di essere verità senza esserlo, innanzitutto il mito, la religione, il potere e la negazione di esso che siano privi di verità.
Nel libro del Pontefice questo tratto essenziale della filosofia non può essere presente. La relativa distanza di queste pagine dall'essenza della filosofia è il presentimento che non solo quella moderna, ma la filosofia in quanto tale, dunque anche e innanzitutto quella greca, è critica della religione e del mito. Se la filosofia vede che il Dio (e giustizia, virtù, ecc...) delle religioni non può avere verità, e se il cristianesimo (ogni religione) non può accettare che il Dio della filosofia sia «vero», tuttavia il senso dell'incontrovertibile e della «verità» è stato esplorato dalla filosofia, non dalle religioni (e nemmeno dalla scienza). Il Pontefice afferma che «la speranza del cristianesimo... dipende in ultima istanza dal fatto che esso dice la verità», ma questa non può essere la verità a cui la filosofia si rivolge — e si rivolge tuttora quando riesce a mostrare l'impossibilità di un Dio eterno che crea, ama e domina il mondo del divenire. L'eunomia è il «diritto naturale», qualcosa che però, nel dialogo col filosofo Jürgen Habermas — incluso in questo libro e considerato dal curatore come il testo fornito di «maggiore incisività» —, il Pontefice non intende sfruttare. Per semplificare il dialogo adotta una strategia, che però non raggiunge l'intento. Egli enuncia la «regola fondamentale» per evitare i contrasti tra le diverse culture: la «necessaria correlazionalità» o «complementarietà » «tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate a una reciproca chiarificazione e cura, che hanno bisogno l'una dell'altra e che lo devono riconoscere». «I due partner principali in questa correlazionalità sono la fede cristiana e la razionalità laica occidentale ». Per il Pontefice il fondamento di questa «regola» è che, «di fatto», nessuno dei due partner è in grado di proporre qualcosa «su cui tutti siano d'accordo» — anche perché sia la religione sia la ragione sono affette da pericolose «patologie». Un discorso audace, ma controproducente. Le premesse non giustificano le conseguenze.
Infatti la ragione — pur riconoscendo le patologie della cattiva ragione e la possibilità di non riscuotere il consenso di tutti — può non sentire il bisogno della religione. Anzi non deve sentirlo. Nella sua forma fondamentale, infatti, la ragione è il sapere incontrovertibile. Il Pontefice (insieme con molti altri) non lo ricorda. Ma se la filosofia ha evocato il senso — l'idea — di un sapere che non possa esser travolto e smentito nemmeno da un Dio onnipotente, allora la filosofia nasce negando di «aver bisogno» della religione e del mito, ossia di un sapere smentibile. Nessun disprezzo, in questo fatto, se Aristotele ha potuto dire che anche «l'amante del mito», il philomythos, è in qualche modo philosophos; ma bisogna che ogni cosa sia chiamata col suo nome, e che quindi ogni altra forma di sapere diversa dalla filosofia sia chiamata sapere controvertibile.
Giacché la fede cristiana intende, sì, essere rationabile obsequium, cioè fede «ragionevole », ma questa «ragionevolezza» (la stessa fede lo riconosce) non può essere la verità incontrovertibile che può apparire nell'uomo in quanto tale. La fede non può essere l'incontrovertibile perché altrimenti essa non sarebbe dono soprannaturale, «grazia», rivelazione di Cristo a cui l'uomo non può giungere (daccapo secondo la fede) con le sole sue forze. Ne viene che la «ragione» autentica, l'«incontrovertibile », non può aver bisogno di alcuna religione, appunto perché l'incontrovertibile, per esser tale, non può aver bisogno del controvertibile. Il relativismo e lo scetticismo, contro cui la Chiesa e il Pontefice continuano a combattere, consistono proprio nella tesi sostenuta dal Pontefice, cioè che la ragione, in quanto incontrovertibilità, non esiste appunto perché essa ha bisogno della religione, cioè del controvertibile — e se fossero certi scienziati a prender la parola arriverebbero alla stessa conclusione, perché direbbero, in modo analogo, che la filosofia ha bisogno della scienza — un sapere, la scienza, che per la sua struttura concettuale ha sì la massima potenza, ma ormai esclude esso stesso di essere incontrovertibile.
La tesi del Pontefice che la ragione abbia bisogno della religione cattolica, non è la tesi di Tommaso d'Aquino, «dottore della Chiesa» e santo che, almeno nelle intenzioni, sostiene una filosofia basata sulla «ragione naturale», «alla quale tutti sono costretti a dare il proprio assenso» e che ha appunto i tratti dell'incontrovertibilità — mentre per lui la fede cattolica non è un sapere a cui tutti siano costretti a dare il loro assenso («i maomettani e i pagani non la accettano») e appunto per questo non è da lui assunta (o almeno egli si propone di non assumerla) come fondamento del suo filosofare. Dove, si noti, quell'esser qualcosa «su cui tutti siano d'accordo» a cui si riferisce il Pontefice — e che per lui né fede cattolica né ragione laica riescono ad essere —, non va confuso con quell'«esser costretti a dare il proprio assenso» che Tommaso riferisce alla «ragione naturale». Per Tommaso, infatti, anche se «di fatto» nessuno fosse d'accordo con la «ragione naturale», essa sarebbe egualmente ciò a cui tutti — qualora non fossero obnubilati — sarebbero costretti a dare il proprio assenso; mentre nella strategia di queste pagine del Pontefice la «patologia» dell'obnubilazione compete alla ragione in quanto tale, e anche alla fede; le quali, per il fatto di non esser condivise da tutti, sono come due zoppi che per camminare hanno bisogno di appoggiarsi l'uno all'altro, dando luogo comunque a una complessiva claudicazione.
Se si accettasse questo modo di pensare, si dovrebbe dire che quando Gesù fu alla fine, e nessuno fu più d'accordo con lui, allora, per questo disaccordo, la sua fede si sarebbe dovuta appoggiare («correlazionarsi») alla ragione, avrebbe dovuto «aver bisogno» di essa, farsi da essa «chiarificare» (per usare le espressioni del Pontefice richiamate all'inizio). Sembra allora più rispondente allo spirito del cristianesimo (ma anch'essa gravata, si è visto sopra, da gigantesche aporie) l'altra strategia, quella del «diritto naturale» che — il Pontefice riconosce — è la «figura argomentativa » preferita dalla Chiesa nei dibattiti con i non cattolici.

Corriere della Sera 19.1.08
Cagnacci L'animacarnale
Il pittore che trovò il divino nella realtà più sensuale


Costretto alle tele sacre, riuscì a non mortificare la femminilità: persino l'estasi con lui è una gioia del corpo

Guido Cagnacci nasce nel 1601 a Santarcangelo di Romagna. Diciottenne è a Bologna, alla bottega di Ludovico Carracci. Tra il 1621 e il 1622 è a Roma, al seguito del Guercino.
Dal 1623 al '48 la sua attività si svolge in Romagna, dove gode della protezione di Monsignor Bettini, che nel 1635 gli commissiona la pala con San Giuseppe e Sant'Egidio. Nel 1643 lavora ai dipinti del duomo di Forlì, mentre nel 1647 è a Faenza presso la potente famiglia Spada. Dal 1648 si stabilisce a Venezia. Su invito dell'imperatore Leopoldo I, verso il 1660, si trasferisce a Vienna dove muore nel 1663.

«Secolo di teatrali bugiardi è il Seicento, al finger sempre pronto e nell'ingannare accorto. E di teatrali falsari: con Jago, falsario dell'amicizia, nell'Otello di Shakespeare; con il Don Giovanni di Tirso de Molina, falsario dell'amore; con il Tartufo di Molière, falsario della devozione». Attraversano il secolo le intuizioni di Torquato Accetto, autore, nel 1641, del trattato morale Della dissimilazione honesta:
«La dissimulazione è una industria di non far vedere le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello ch'è».
Ciò vale anche per l'arte figurativa. O almeno così intende Guido Cagnacci, rabdomante di una sensitività estrema, di un'istintualità fortemente padana. Egli respira la verità messa a fuoco, prospettata come onnivora dall'Accetto, nell'aria della sua Romagna, nello spostarsi fra Venezia, Roma (in compagnia del Guercino), Bologna, Vienna. E questo respiro sensoriale lo spinge a reagire, via via, al naturalismo come formula, al senso della punizione divina dissimulata nella drammaticità del Caravaggio, alla sensuale malinconia del Meni, agli abusati residui del classicismo.
Da queste fonti di suggestione il Cagnacci trae parziali provocazioni, ma non ne sposa nessuna. Non ha maestri; è, fin dagli inizi, il maestro di se stesso. La simulazione e la dissimulazione, in ogni senso, gli ripugnano (un solo, irridente atto simulatorio, nella sua vita: l'aver indotto una modella sua preferita a vestirsi da uomo per non alimentare chiacchiere moraleggianti). Il pittore di Santarcangelo di Romagna patisce, in particolare, una costrizione che non gli dà tregua: l'obbligo di eseguire tele sacre, figure di santi, dissimulando il vero con la simulazione insita nell'illustrazione religiosa. Obbligo che vede sottomettersi anche geniali maestri. Ne fa le spese la femminilità, che dev'essere espressa secondo dettami che distruggono, spesso con uno spirito inquisitorio maniacale, la naturalezza esistenziale della «creatura donna». Per citare una definizione di Roberto Longhi, in questi casi il corpo «non è che un ricordo mormorato».
Ma il Cagnacci avverte anche che il secolo con cui deve vedersela è, sotto le apparenze, un fiume sotterraneo di fortissimo vitalismo: rende visibili gli abissi dell'animo umano, sentimenti, passioni, affetti. Di conseguenza — essendo un istintivo, sì, tuttavia dotato di un'eccezionale intelligenza dell'istinto — arriva a concepire una sintesi mai esplicitata dalle tante, ardue equazioni e formule: l'anima carnale. Una fusione indissolubile. Nel corpo l'anima, nell'anima il corpo. Persino l'estasi, contrariamente a quanto avviene in Reni, non si manifesta attraverso la negazione del corpo, nemmeno quando si produce, in linea ascensionale, a Dio. Il Cagnacci raggiunge, in alcune opere, vertici espressivi molto alti (sui «Santi Carmelitani », Francesco Arcangeli annota «il sollevarsi ad altezze da non temere troppi confronti con la pittura del secolo»). Tuttavia, una velenosa, retrograda stroncatura lo investe pochi anni prima della sua morte, avvenuta a Vienna nel 1663. È il simbolo, sinistro e punitivo, della mentalità ondulante fra simulazione e dissimulazione. In un passo della «Carta del navegar pittoresco», Marco Boschini colloca il Cagnacci fra i pittori che «i è tanto miserabili in dessegno, e tanto scarsi a trovar l'invencion». Il Cagnacci si trovava già a Vienna quando lesse il Boschini e di quel giudizio messo su carta, disse semplicemente: «Buono tutt'al più per incartarci il pesce al mercato».
Come poteva essere capito il «moderno » di un artista che spezzava la saldatura irragionevole fra umanità e l'artificioso misticismo che simulava l'ineffabile? Il pittore di Santarcangelo spezza la saldatura annullando la sudditanza alle categorie canoniche, ossia muovendosi, quasi artista dei nostri giorni, attraverso gli stili, manomettendoli, ibridandoli, portando violazioni ai codici espressivi. L'idea da esprimere è più importante della tecnica per questo Galileo del pennello, e l'idea è che il sovrumano, il meraviglioso si traducono sulla tela con elementi del vero naturale, non nel senso formale naturalistico, ma nel senso che quella «verità» contiene fantastici collegamenti col divino anche nei suoi aspetti più umili e trasandati. Basta un dettaglio: il «San Giuseppe» dagli imprevedibili piedi nudi in evidenza. Tanto più esistenziali, non simulati, sono la sensualità, il sesso, la tentazione amorosa, in quanto scorrono nel sangue degli uomini e delle donne. Prova ne siano le tante «Maddalene». Per citare a caso, si aggiungano i teleri della «Madonna del fuoco». La celebrazione delle sante figure, inoltre, è concepita come un teatro in cui gli attori si qualificano come tali e fanno le prove. Ancora: i dipinti concepiti per le collezioni private testimoniano che l'Eros non sconfina mai nella pornografia, è privo di ogni speculazione morbosa. Stesso discorso anche per la dimensione esterna alla figura. I cieli del Carracci (valga per tutti il cielo azzurro alle spalle della «Vergine che legge»). Non più artificiali metafore del Paradiso. La novità del pittore di Santarcangelo può valere anche per il concetto di scienza, di Storia.

L'arte di Guido tra estasi e scandalo
A Forlì il Cagnacci a confronto con le altre star del Seicento

Le fonti lo raccontano inquieto, attaccabrighe, trasgressivo, irresistibilmente attratto dalle lusinghe del corpo femminile, ma capace anche di profonda spiritualità. E sicuramente questo pittore di sangue romagnolo e dalla vita errabonda, ammirato per gli altissimi vertici della sua arte ma anche bandito dalla rigida società del tempo, è una delle figure più intriganti e complesse del panorama seicentesco.
Del secolo che ha visto l'Europa entrare nella modernità Guido Cagnacci è stato infatti «non testimone e neppure comprimario, ma protagonista », come afferma Antonio Paolucci, curatore insieme a Daniele Benati della grande mostra che si apre domani a Forlì. Il Seicento è l'epoca che con Galileo ha intuito l'infinito del cielo, con Caravaggio ha portato l'urgenza del vero nella raffigurazione, con Shakespeare, Cervantes e Racine ha messo in scena gli abissi dell'animo umano.
«La modernità di Cagnacci è proprio nell'aver rappresentato l'universo magmatico e tumultuoso delle passioni — continua Antonio Paolucci —. Ha saputo esprimere con una intensità davvero rara la seduzione dell'estasi e insieme la pulsione dell'eros, la fatalità dell'amore che consola e opprime al tempo stesso, da cui nessuno può sottrarsi fin che è in vita. Ne è uno straordinario esempio la celebre «Morte di Cleopatra» di Vienna dove la giovane donna finalmente libera dal giogo delle passioni sorprende per la serenità e la dolcezza del volto. Cagnacci ha interpretato la bellezza sublimata di Guido Reni alla luce del tumulto emozionale di Caravaggio, e sono proprio questi i due poli entro cui si muoverà la sua arte, con esiti di sorprendente originalità».
Scarna, ma significativa la sua biografia. Nato a Sant'Arcangelo di Romagna nel 1601 da padre messo comunale e commerciante di pellami, Guido compie alcuni soggiorni di studio a Bologna e a Roma, dove entra in contatto con l'opera di Caravaggio, che influenzerà le sue prime pitture sacre realizzate per le chiese di Rimini e dintorni. La sua carriera viene però sconvolta da uno scandalo: innamoratosi di una nobildonna riminese, nel 1628 Guido tenta di fuggire con lei. Tutti gli sono contro: il padre, che lo denuncia all'autorità pontificia (e in parte lo disereda), il governatore, che lo bandisce dalla città, il clero e la ricca borghesia che gli voltano le spalle.
Comincia così per il pittore un'esistenza da girovago che lo porterà di nuovo a Bologna, dove conoscerà l'ultimo Guido Reni e quindi a Forlì, felice parentesi che vedrà la nascita dei due quadroni con la Gloria dei santi Mercuriale e Valeriano per la cappella della Madonna del Fuoco, dagli arditi scorci e i cieli vivi, palpitanti, che sembrano irrompere in pittura. Poco dopo è a Faenza e quindi nella più libera e disinvolta Venezia, apprezzato per i suoi dipinti «da stanza», ma costretto a nascondersi sotto falso nome. Morirà infine a Vienna, nel 1663, dove era stato invitato alla corte di Leopoldo I d'Asburgo, suo ammiratore.
Costellato di capolavori è il catalogo di Cagnacci, sue alcune delle immagini più parlanti e seducenti del secolo, che la mostra di Forlì si propone di presentare nella sua quasi globalità insieme a dipinti di Caravaggio e dei suoi seguaci, di Orazio e Artemisia Gentileschi, di Francesco Albani, Ludovico Carracci, Guido Reni e il Guercino, a illustrare il dialogo che il pittore seppe intrattenere con i grandi del tempo, pur rielaborandoli in chiave assolutamente personale. Ci sono le opere giovanili di soggetto sacro, dalla pittura più naturalistica e contrastata e quelle della maturità, dove il suo linguaggio si fa più colto e sapiente e le soluzioni stilistiche di straordinaria eleganza.
Ci sono i capolavori di Rimini ma anche quelli di collezione privata, e poi le tante Cleopatra, Lucrezia, Maddalena, come quelle di Monaco e di Firenze mai esposte prima d'ora insieme, fulgenti immagini di bellezza femminile che sempre ci emoziona.
«Cagnacci ha la capacità di ritornare sul tema rinnovandolo ogni volta. Quello che mette in scena è un messaggio diretto, essenziale, che non ha bisogno di suppellettili o paesaggi e neanche della mediazione del disegno: il duello tra carne e spirito — commenta Daniele Benati —. Le sue eroine sono combattute tra la condizione umana che le lega ai sensi e l'anelito a trascenderli verso un mondo diverso e più alto. E in lui questo dualismo si fa teatro, teatro dell'anima».
Francesca Montorfano Corteggiati

La scelta che fece scalpore
Caravaggio lo influenzò nella gioventù. Poi volle fuggire con una nobildonna. Il padre lo diseredò, Rimini lo cacciò: fu costretto a un'esistenza da girovago
Celebrato
La «Gloria di San Mercuriale» (1642-43) è dedicata al primo vescovo di Forlì che liberò la città dei Visigoti

Il poeta Davide Rondoni e la sua Forlì: dai valori della terra alla sfida della cultura
«Sobri e focosi, la vera Romagna è qui»

Ecco come si può raccontare una città, ripensando a tempo bambino: «Ero a Forlì, mia splendida città natale. Splendida per la gente che c'è (le signore buone e quelle cattive della latteria, i meccanici di bici mezzi matti, i matti interi sotto i portici, i signorotti impettiti, le ragazze) oltre che per alcune cose e scorci che i forestieri spesso non vedono o non possono vedere. Mi ricordo che ero ammalato a letto: gli orecchioni. Era inverno, venne il primo verso: "Ecco arriva l'inverno/ i bambini accendono il termo"».
Quando si racconta così una città si è poeti. Lo si è per destino, ovunque porti la vita. Davide Rondoni poeta lo sarà sempre. E sarà sempre forlivese, anche se da tempo molte cose lo portano altrove. Intriso di quel «Noi siamo gente di terra, con radici profonde. Gente che non se la tira». Non sono parole, ma la sana gerarchia dei valori e dei meriti. Rondoni va sostenendo che «per il fatto di avere scritto qualche poesia e aver pubblicato un po' di libri, non credo di avere una consapevolezza di cosa è il mondo maggiore di quella che aveva mia nonna Bruna, che per tutta la vita ha fatto da mangiare a mio nonno Enea detto Nino».
Vista con l'occhio del poeta, cos'è questa Forlì «splendida per la gente che c'è» ma oscurata o trascurata a lungo, forse perché nella sua terra nacque Benito Mussolini oppure perché a pochi chilometri, sulla linea del mare, la seconda metà del ventesimo secolo ha visto crescere l'abbagliante paradiso delle vacanze? Rondoni sorride, ricorda che in famiglia si è sentito ripetere: «I riminesi hanno fatto i soldi in vent'anni, ma sarà la loro rovina». Profezia discutibile, eppure testimonianza di un certo modo di pensare, di vivere. Senza complessi verso Rimini e Riccione che hanno fatto fortuna con il divertimentificio. Del resto i forlivesi continuano a pensare di avere un primato: «La vera Romagna è soltanto Forlì e Ravenna». Là, sul mare, ci sono i soldi e la frenesia. Qui uno stile sobrio, concreto ma, seppur sotto traccia, anche passionale. «La Madonna del fuoco è la patrona, e il fuoco evoca appunto la passione». Quella di Aurelio Saffi o di Pietro Maroncelli, il carbonaro tenuto nel carcere duro dello Spielberg ricordato perché regalò una rosa al medico che gli aveva amputato la gamba in cancrena. Passione e concretezza. «Essere di terra dà radicamento, evita la schiuma, lo splendore effimero. Eppure gli angeli dipinti da Melozzo sono di una bellezza sublime ».
Dunque città di mezzo e terragnola che alza gli occhi al cielo, all'arte. Come con questa mostra dedicata al romagnolo Cagnacci, con cui vuole rilanciarsi in campo culturale. Rondoni, nato nel 1964, direttore del Centro di poesia contemporanea dell'Università di Bologna, ricorda il gioiello esclusivo della collezione Verzocchi, opere dei migliori pittori del Novecento tutte dedicate al mondo del lavoro. «Penso che sarebbe ora di fare un mostra seria su Mussolini e la sua stagione politica, sarebbe un grande evento internazioForlivese Il poeta Davide Rondoni e, a destra, piazza del Popolo a Forlì

Il simbolo Come i pittori hanno interpretato il petto femminile
Dalle Madonne alle muse anoressiche Il seno in pittura ha svelato la Storia
Le «Vergini del Latte», poi la sensualità barocca. E con Munch l'eros è ossessione

Il seno nudo nell'arte? Mai stato un problema. Caso mai, una questione di misure. Secondo Federico Luigini da Udine, che scriveva negli anni 40 del Cinquecento, le forme ideali dei seni dovevano essere «piccole, tonde, sode e crudette, e tutte simili a due rotondi e dolci pomi». Non c'era alcun imbarazzo, nel Rinascimento imbevuto di cultura classica, nel redigere tali ideali muliebri. Del resto il più antico genere di rappresentazione della Vergine col bambino, la «Madonna del Latte», risalente fino al III secolo, mostra Maria che offre una mammella al piccolo Gesù. Il seno era simbolo della misericordia, della divinità pietosa che accudisce, come già lo era stato nelle rappresentazioni pagane della dea egizia Iside mentre allattava il figlio Oro o di Giunone che con il suo latte assicurò l'immortalità a Ercole. Bernardo da Chiaravalle, che nel XII secolo si dedicò ad incoraggiare il culto mariano, veniva spesso rappresentato nella scena del Miracolo della Lattazione, mentre riceve lo schizzo del latte di Maria.
La devozione medievale per la Vergine si estese prima alla venerazione per la donna angelicata e poi, in certi ambienti sofisticati come quello di corte, fuse sacro e mondano senza trovare contraddizione. Un'immagine di passaggio può essere quella di Jean Fouquet: la sua Madonna col Bambino oggi al Musée Royal des Beaux-Arts di Anversa, con un seno rotondo che esce prorompente dal corpetto slacciato, fu dipinta intorno al 1450 per l'ufficiale di corte di Carlo VII Etienne Chevalier e il volto è probabilmente quello di Agnès Sorel, favorita del re, nota per gli abiti che le lasciavano scoperto il seno.
Furono le raffinatezze della cultura cinquecentesca a introdurre la componente erotica che raggiunse il suo apice nel castello di Fontainebleau pullulante di dame dipinte a seno scoperto. Ma di simili donne se ne trovavano in abbondanza anche in palazzi e chiese meno sontuosi: impersonavano l'Amore sacro, la Verità, la Misericordia, la Carità, Sant'Agata (martirizzata con il taglio delle mammelle) o Maria Maddalena. Quest'ultima divenne un ottimo pretesto per raffigurare sotto mentite spoglie religiose un soggetto via via reso in maniera sempre più erotica secondo il fortunato e plurireplicato modello tizianesco dove i seni si intravedono attraverso lunghi capelli.
Le Veneri, le Flore, le Danae diventarono soggetti molto richiesti e i pittori veneti, da Tiziano a Palma, ne offrirono le prove più sensuali. Ma anche Correggio non fu da meno, così come Raffaello che dipinse la propria amante, la Fornarina, in un provocante ritratto a seno scoperto.
Chi invece si trovava in difficoltà era Michelangelo: a lui le donne proprio non piacevano e quando le scolpiva, per esempio nelle statue de «La Notte» e «L'Aurora», applicava dei seni che sembrano aggiunte estranee su corpi mascolini.
Cagnacci, invece, era un maestro nel genere. Da generazioni, nel gergo degli studenti universitari di storia dell'arte è il «pittore delle tette». Facile, quando il professore sottopone per l'attribuzione l'immagine di una Cleopatra o di un'Europa, evocare subito il nome del pittore romagnolo se i seni appaiono più turgidi e invitanti di quelli solitamente ammessi dai canoni delle proporzioni classiche. Quelle bellezze vivaci, per nulla idealizzate, non possono confondersi con le dee esangui di Guido Reni, troppo perfette per essere vere, ma nemmeno con le bionde ragazze di Tiziano che, pur essendo sensuali, rimangono però sempre regine inarrivabili. Le Cleopatre, le Lucrezie, le Sante Mustiole di Cagnacci, invece, per quanto alto fosse stato il loro rango nella storia, tradiscono la robustezza e la spensieratezza accessibile delle modelle romagnole, felici di donarsi agli sguardi, come tante felliniane Gradische.
Però, se tale floridezza ha e aveva i suoi estimatori — per esempio il cardinale Flavio Chigi o Louis d'Orléans — tuttavia a Cagnacci costò la perdita delle committenze ecclesiastiche. Dopo il Concilio di Trento (1563) tutti i nudi di cui si erano riempite le chiese furono infatti rivestiti o banditi e a Cagnacci non restò che lavorare per i collezionisti privati. Rubens fu suo degno rivale, ma l'esuberanza delle maggiorate del pittore fiammingo segnò il declino del modello. Dopo di lui, nel '700 prevalse il genere «vezzosa», tutto ciprie rosa e azzurre, alla Boucher, e i seni poco per volta si appiattirono fino ad arrivare alle misure anoressiche amate da Schiele. Più che di carne, l'erotismo divenne un fatto di testa, e la donna un veleno. Così i piccoli seni della «Madonna» di Edvard Munch finirono per non avere più nulla di salvifico o misericordioso e per incarnare piuttosto la paura della sessualità. Infine, non più santo, né divino, né sottilmente erotico, con il crepuscolo degli dei, il seno femminile si è avviato a diventare oggetto: tornato prorompente, è diventato icona pop pronta per la mercificazione della pubblicità.
Francesca Bonazzoli

Le censure
Buonarroti, Masaccio, Caravaggio Così la Controriforma coprì il nudo

Dopo la Riforma di Lutero che bandiva le rappresentazioni sacre dalle chiese, il Concilio di Trento (1545-1563) ribadì il culto delle immagini sottoponendole, però, a limitazioni e epurazioni rispetto alla deriva pagana che avevano preso nel corso del Rinascimento. Per la prima volta dopo il Concilio di Nicea (IX secolo) vennero pubblicati un gran numero di manuali che stabilivano le norme di realizzazione delle immagini sacre «ut... nihil profanum nihilique inhonestum appareat». In particolare, nel 1582, l'arcivescovo di Bologna Gabriele Paleotti pubblicò il Discorso intorno alle immagini sacre e profane stabilendo come obbligo primario degli artisti quello della chiarezza pedagogica al fine di «persuadere le persone alla pietà e ordinarle a Dio». Inutile dire che i nudi furono giudicati sconvenienti e così scattarono le censure.
La più famosa: riguarda il Giudizio Universale dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina, giudicato indecente e contrario alla dottrina cristiana perché alcuni personaggi vengono mostrati interamente nudi.
La più divertente: interessa la Cacciata dal Paradiso del Masaccio nella Cappella Brancacci, a Firenze. I genitali di Adamo ed Eva furono ritoccati con foglie di fico (poi tolte nei restauri del 1984)
La più insolita: la subì Caravaggio per Giuditta che decapita Oloferne. Dipinta l'eroina con i seni nudi, il pittore decise poi da solo di coprirli: una sorta di autocensura.
Foglie di fico
Adamo ed Eva nella «Cacciata dal Paradiso» di Masaccio: il ritocco fu eliminato nell'84

Liberazione 19.1.08
Se la politica è mastellismo e cuffarismo...
I grandi temi e i valori vengono delegati ai poteri forti
I partiti scelgono primari, dirigenti ( e veline...). Vantandosi
di Piero Sansonetti


Volete gli elementi essenziali della cronaca politica di oggi? Primo, l'ex ministro della giustizia Mastella ha avvertito il centro-sinistra che o dichiarerà pubblicamente di ritenere giusto e onorevole che ai leader politici sia riconosciuto il diritto di nominare i primari di ospedale, oppure lui farà cadere il governo. Secondo, il presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro, essendo stato condannato a soli cinque anni di prigione per i suoi rapporti con la mafia, e non essendogli state affibbiate dal tribunale le "aggravanti", si è dichiarato «molto contento di questa sentenza che mi restituisce l'onore politico» e - sebbene interdetto dai pubblici uffici per tutta la vita - ha stabilito che il suo reato non è grave (un reato senza aggravanti ovviamente è un lieve reato) e che può restare al suo posto di presidente della regione. Poi c'è Berlusconi che è finito di nuovo nei guai (per una vicenda francamente assai minore rispetto alle due precedenti, e cioè per un affare di raccomandazioni a favore di alcune veline o attrici minori). Berlusconi è stato rinviato a giudizio.
A parte questo non c'è quasi nient'altro nel mattinale del Palazzo. Sulla riforma elettorale molto impegno di tutti i partiti, ma al solito nessuna conclusione. E poi qualche dichiarazione - ma davvero pochissime e pochissimo indignate - per quella faccenduola dei due operai morti soffocati nella stiva di una nave. Mediamente, i partiti politici italiani ritengono l'episodio non certo edificante ma neppure atroce se paragonato a quello che era successo nei giorni scorsi a Roma quando un gruppetto di professori aveva detto male del Papa. Il rapporto tra l'indignazione per l'offesa al papa e l'indignazione per gli operai soffocati, in termini algebrici è più o meno di 1.000 a 1. Del resto è normale: la morte sul lavoro riguarda solo l'umanità, l'offesa al papa offende Dio.
Se le cose stanno così - mi chiedo - esiste o no una gigantesca questione morale che è aperta dinanzi a noi (come peraltro già aveva detto giovedì, nel suo discorso alla Camera, il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano)? E questa crisi morale non rischia di travolgere tutta la politica, di depotenziarla, di renderla immobile e priva di autonomia?
La questione morale esiste al di là delle ragioni o dei torti della magistratura. Possiamo discutere finché volete sulla possibilità che alcuni giudici siano eccessivamente attivi sul fronte politico e mediatico e tentino con la loro azione di determinare l'agenda politica italiana. Può darsi che le cose stiano così. E' una discussione giusta. Ma in nessun modo può cancellare l'altro problema, che ormai è grande come una casa e che più o meno sta nei termini nei quali 27 anni fa lo pose Enrico Berlinguer in una famosissima intervista ad Eugenio Scalfari. La questione morale consiste nel fatto che la parte fondamentale, la più grande, della politica italiana ha abdicato ai suoi compiti fondamentali - delegandoli ai poteri forti: ora alla Chiesa, ora a Confindustria, ora alle multinazionali- e si è assunta l'incarico di impicciarsi della vita civile di tutti i noi, facendo saltare le competenze, il diritto, la professionalità, gli assetti scientifici eccetera eccetera. Ha invaso la società, l'ha assoggettata, le ha tolto indipendenza e libertà. Compiendo una operazione fortemente autoritaria e di regime. Non solo: di questo suo orribile aspetto si vanta.
La cosa che più indigna nell'affare-Mastella non è il merito dei suoi comportamenti (delittuosi o no lo decideranno le indagini dei giudici) ma la gestione politica. Mastella, in piena conferenza stampa, non ha detto: sono indignato del fatto che qualcuno sospetti che io abbia messo bocca nella nomina dei primari nella mia regione. Ha detto esattamente il contrario: certo che mi sono impicciato di quelle nomine, era mio diritto farlo e se non lo avessi fatto mi sarei rimproverato l'omissione!
Voi capite a che punto siamo arrivati nella degenerazione della politica? Pretendere che il proprio compito, dopo aver rinunciato ad occuparsi di valori e di grandi scelte sociali ed economiche, sia diventato quello di imporre il proprio incondizionato potere nella vita della gente e nelle gerarchie professionali. Il politico decide chi è la velina più brava, l'attore più bravo, e ora persino il medico più bravo. E naturalmente il direttore del giornale, il manager eccetera e eccetera. La cosa più originale è che queste singolari teorie sono accompagnate spesso dalla ostinata difesa del ruolo sacro del mercato...
Tutto ciò può rimanere sul piano delle opinioni e della discussione generale finché non si decide di trasportare la questione sul terreno degli equilibri parlamentari. La richiesta di Mastella a tutta l'Unione di dichiarare formalmente la propria "complicità", trasforma la crisi morale in crisi politica. L'Unione è messa di fronte a un diktat: se vuoi sopravvivere devi accettare che i comportamenti immorali di alcuni diventino norma dichiarata e "incriticabile". Per una maggioranza nata sull'imperativo categorico di contestare l'immoralità del berlusconismo e del suo leader non c'è male. Ripenso a tutte le volte che ci hanno detto: se criticate il governo sulle sue politiche sociali, sulle politiche economiche, sulla sua subalternità a Confindustria, sull'Afghanistan... rischiate di fare il gioco di Berlusconi. Ogni prezzo vale l'antiberlusconismo. Ora mi chiedo se vale anche il prezzo di dichiararsi più berlusconisti di Berlusconi...

Liberazione 19.1.08
La Sapienza, dopo il Papa. Devastata l'aula autogestita di Fisica. Gli studenti: «Azione squadrista»


Brutta sorpresa per gli studenti dei Collettivi di Fisica alla Sapienza dopo le manifestazioni di giovedì sulla scelta del rettore, Renato Guarini, di invitare Benedetto XVI in ateneo per l'inaugurazione dell'anno accademico. «La nostra aula autogestita è stata devastata», denuncia il Coordinamento dei Collettivi che insieme alla Rete per l'Autoformazione è sceso in piazza, anche se fuori dalle mura universitarie per via della decisione del rettore di blindare l'ateneo nonostante la rinuncia del Papa alla visita. Un'azione «in perfetto stile squadrista», continuano gli studenti che raccontano aver trovato «foto e manifesti strappati dalle pareti e armadi, computer e libri imbrattati con bombolette» al loro ingresso nell'aula occupata di Fisica ieri mattina. I Collettivi denunciano anche «atti punitivi nel gabbiotto autogestito di geologia e nell'aula occupata di giurisprudenza». E sottolineano: «Sapevamo di aver fatto cosa grande e sgradita a molti, ce l'hanno fatta pagare e speriamo che i responsabili di questi atti non vadano oltre. Ma questo non deve cancellare i contenuti che in questi giorni abbiamo prodotto».
«Solidarietà» dalla Rete per l'Autoformazione: «Migliaia di poliziotti in assetto anti-sommossa hanno cinto d'assedio una città universitaria desolata. L'unico diversivo: la scenetta di sette o otto, forse nove cretini di An che in italiano stentato hanno provato a motivare ai giornalisti la loro indignazione e la loro contestazione (evidentemente gradita al rettore) sotto il rettorato. Come nel football americano, d'altronde, ogni parata militare ha bisogno delle sue ragazze pon-pon». Gli studenti rinnovano la richiesta di dimissioni di Guarini.
Dal rettorato smentiscono: «Non vi è alcun riscontro di danni ai locali del dipartimento di Fisica, nè sono pervenute segnalazioni in tal senso».

Liberazione 19.1.08
La "questione cattolica" e gli uomini di buona volontà
Gramsci, spirito del '68, Concilio II: l'intreccio interrotto per dipanare la confusione tra chiesa, potere e politica
di Domenico Jervolino


"Ci sono più cose fra cielo e terra che non nella vostra filosofia!" dice Amleto all'amico Orazio nella grande tragedia di Shakespeare. Per ora in uno spazio a dire il vero assai più vicino alla terra che al cielo mi pare che ci sia soprattutto molta confusione: tra "atei devoti", politici imbarazzati, crociati improvvisati, miscredenti che si scoprono paladini del Vaticano, che a sua volta, nonostante sia una istituzione ricca e potente ha buon gioco e migliore stampa per presentarsi come vittima e perseguitata (il che suona enorme rispetto a un mondo un cui di vittime e perseguitati veri ce ne sono tanti, anche fra i cristiani sparsi nei più lontani paesi dove non ci sono concordati, prebende e otto per mille e in generale fra tutti coloro, di qualsiasi fede o convinzione, che devono fare i conti in tante situazioni drammatiche - talora cruente - con vecchi e nuovi fanatismi).
In questa confusione, la cosa che a me preoccupa è che rischiamo sempre di vedere gli alberi (spesso sgraziati e sgradevoli alla vista) e non la foresta, proprio noi che avremmo una grande eredità da valorizzare: quella di Gramsci, che aveva posto alla coscienza della sinistra due grandi questioni nazionali: quella meridionale e quella cattolica. Il caso (o meglio la storia) vuole che le due questioni siano esplose insieme in forme paradossali e spesso deprimenti (tra il rifiuti campani e le telenovele pseudo-sapienziali, per la sola gioia del salotto telematico di Vespa). E in tutto ciò, che orientamento siamo in grado di dare ai giovani, a quelli che non hanno vissuto né il '68 né gli anni del Concilio? (due vicende che nelle biografie di qualcuno o di qualcuna di noi si sono intrecciate!)
***
Ormai nessuno può chiudere gli occhi di fronte al fatto che sia riemerso in modo addirittura virulento nella vita politica italiana un dato che appartiene ai tempi lunghi della storia del nostro paese, vale a dire quel complesso di problemi che con una formula appunto di sapore gramsciano (che per la filologia parlava di "questione vaticana") si riassumono nel termine di "questione cattolica". Questa riemersione, in termini almeno in parte inediti, è incominciata a profilarsi paradossalmente nello stesso tempo in cui entrava in crisi l'assetto materiale della Costituzione repubblicana, assetto che era stato caratterizzato per quasi un cinquantennio dalla presenza maggioritaria del partito di ispirazione cattolica. E' accaduto come se la centralità politica della Dc avesse per un lungo periodo oscurato o neutralizzato un vasto retroterra cattolico che è venuto poi allo scoperto allorché non ha avuto più una mediazione politica che in qualche modo funzionava anche da filtro. Fatto è che si sono registrati negli anni della cosiddetta seconda repubblica interventi sempre più diretti delle gerarchie ecclesiastiche nella vita pubblica e un ricompattamento del variegato mondo cattolico sotto la guida non solo pastorale ma anche politica della Conferenza episcopale.
Si è consolidata la posizione di privilegio dell'istituzione ecclesiastica, anche per effetto del nuovo concordato (craxiano) e del finanziamento dell'otto per mille gestito in modo fortemente centralizzato dalla Cei, rendendo meno autonomi vescovi e parroci di periferia. E pur con una diversità di accenti si sono manifestate forme fino a poco fa impensabili di riproposizione di culture e comportamenti propri al cattolicesimo più convenzionale, spesso molto lontani - per quel che riesco a vedere io - dallo spirito evangelico e dalla sensibilità di tanti credenti educati allo spirito del Vaticano secondo. Tutto ciò evidentemente è stato rafforzato dai venti di restaurazione anticonciliare che soffiano sempre più impetuosi.
Questi dati vanno poi inseriti in un contesto globale che registra una nuova, in parte inedita, rilevanza del fenomeno religioso nella società contemporanea e una particolare virulenza dei diversi integralismi e fanatismi che incidono nella vita quotidiana e nella società civile e hanno avuto un impatto politico forte, fino al punto di suggerire l'idea di uno scontro di civiltà o di nuove guerre di religione. Anche se si rigetta e anzi si contrasta questo tipo di teorizzazione, come è giusto fare, non si può non rilevare: a) che occorre comunque fare i conti col ruolo delle ideologie e del simbolico nel mondo d'oggi; b) che il solo fatto che il tema di un conflitto fra culture e religioni venga agitato da forze consistenti dà corpo comunque a questa prospettiva e le conferisce una risonanza sotto molti aspetti paradossale (come quella di spettri in se stessi inconsistenti, ma che diventano fattori reali di paure e di comportamenti socialmente e storicamente rilevanti).
Questione cattolica (in Italia ma con riflessi e interazioni globali, se non altro per il ruolo mondiale della Chiesa cattolica e del papato) e questione religiosa (a livello più generale) non coincidono ma hanno sicuramente molti punti di contatto e interrelazioni.
Bisogna riconoscere che sotto molti aspetti la cultura laica e di sinistra si è rivelata sprovveduta di fronte a tale complessa problematica (questione cattolica, questione religiosa, ruolo del simbolico). Inoltre pesa nel nostro paese (e non solo in esso) una diffusa ignoranza in materia religiosa e teologica, che sotto molti aspetti è stata alimentata dalla stessa istituzione ecclesiastica, che ha rivendicato per sé il monopolio di tale cultura e ha sempre preferito fedeli obbedienti piuttosto che dotti. In fondo la quasi identificazione fra cristiano, cattolico, uomo di fede o di religione, finisce per essere assunta come un dato scontato per i più, laddove invece già il fenomeno cattolico, preso da solo, contiene una pluralità di esperienze e sfaccettature, di cui pochi sono consapevoli. A maggior ragione se si parla di cristianesimo, di religione e di religioni e infine di fede.
Tale situazione ha significato soprattutto subalternità e conformismo, rispetto alla forma prevalente del cattolicesimo convenzionale, dall'altra ha provocato come fenomeno di reazione la ripresa di forme di anticlericalismo che sembravano appartenere al passato e che in effetti - come tutti i fenomeni di reazione - servono ben poco per trasformare la realtà e spesso finiscono per portare acqua al mulino della controparte.
Vedo con preoccupazione ed amarezza mettere in questione e anche dissipare un patrimonio prezioso che si era configurato soprattutto a partire dal Concilio e dal 68-69, vale a dire il dato della militanza a pieno titolo di credenti nella sinistra e nel movimento operaio come ompagni fra compagni, non semplicemente come alleati o compagni occasionali di viaggio ma come soggetti che avevano scelto di giocare e di verificare la propria identità e la propria "differenza credente" al vaglio del conflitto di classe e dell'impegno politico. La critica dell'alienazione religiosa e della commistione fra chiese-istituzioni e potere, che si è sviluppata nel corso dei decenni proprio in questi ambienti - talora nell'indifferenza della sinistra e con la prevedibile ostilità delle gerarchie - può aprire la strada verso una fede non alienante (per chi è interessato a questo discorso) e (per tutti) verso una nuova laicità. Vale a dire verso un rapporto diverso, egualitario e di reciproco riconoscimento fra credenti e non credenti, e fra tutti quelli che potrebbero essere chiamati i "diversamente credenti" formulazione che può significare molte cose: le minoranze religiose, il cristianesimo di base, ma anche quel contenuto di fede vera nell'umano e nei suoi valori che va riconosciuto al di là delle etichette ideologiche e che papa Giovanni aveva espresso parlando agli "uomini di buona volontà" e interrogandosi sui "segni dei tempi". Uno di questi segni era la liberazione della donna così come un altro era il nuovo protagonismo dei popoli del Terzo mondo e tutto confluiva in una nuova cultura della "pace sulla terra".
Questo patrimonio sta per molti aspetti alle nostre spalle, in parte è anche datato, ma l'esperienza dei movimenti degli ultimi anni per la pace e altermondialisti dovrebbe indurci piuttosto a rivisitarlo che a cancellarlo. Chi propone oggi una rifondazione della sinistra dovrebbe contribuire a una riflessione in tal senso. Altrimenti dovremo rassegnarci a lotte difensive o puramente reattive, che alla fine lasciano troppi spazi a chi invece sogna per l'istituzione Chiesa cattolica il ritorno di quelli che furono definiti i "giorni dell'onnipotenza" (l'epoca preconciliare di Pio XII). Poco importa loro che che le dure repliche della storia abbiano più volte illustrato che si tratta di onnipotenza effimera, almeno sul piano dei valori evangelici, che sono i soli che dovrebbero veramente contare in quel contesto.

Liberazione 19.1.08
Egidio Longo, ordinario di Fisica alla Sapienza sulla presenza di Benedetto XVI all'inaugurazione dell'anno accademico
«Le posizioni laiche non hanno spazio»
di Elena Ritondale


Abbiamo incontrato il prof. Egidio Longo, ordinario di fisica all'Università La Sapienza e fra i firmatari della lettera al rettore. A lui abbiamo chiesto di commentare la vicenda e di parlarci dell'attuale situazione della Sapienza.

Le reazioni politiche alla lettera sono state generalmente negative. Come lo spiega?
La lettera era stata scritta al rettore mesi fa e non saprei perché è tornata fuori negli ultimi giorni. Oggi denigrarne lo stringato testo è molto facile e può sembrare persino ragionevole, ma si trattava di una lettera al rettore (dal quale non abbiamo mai ricevuto risposta), in appoggio a una lettera molto più articolata del prof. Cini, che peraltro è pubblica da tempo, anche se nessuno si è dato la pena di leggerla ed eventualmente controbattere. Se avessimo pensato a qualcosa da rendere pubblico, lo avremmo scritto in modo molto diverso e in tempi diversi. Tuttavia il "linciaggio" politico-mediatico dimostra che oggi sono proprio le posizioni laiche ad avere difficoltà a trovare uno spazio sulla scena pubblica.

In passato l'università è stata all'avanguardia nell'elaborazione di idee laiche e libertarie. Perché oggi si ha l'impressione che sia più simile a una trincea, costretta su posizioni difensive del proprio ruolo, che non a un laboratorio?
Intanto devo dire che chi, venendo all'università in questi giorni, sia passato per il dipartimento di fisica, ha trovato un laboratorio scientifico e non una trincea. Se invece vogliamo dire che l'università non è più il laboratorio dove si elaborano le idee sulla nostra società, allora dobbiamo riconoscere che la competizione con altri luoghi di discussione come i salotti televisivi è persa in partenza, anche se proprio le vicende di questi giorni dimostrano quanto possano essere "profondi" i dibattiti in queste sedi. Certo l'elaborazione sulla laicità e in genere sui temi cari alla sinistra è carente ovunque e l'università, come altre istituzioni, non può che rispecchiare il livello non proprio elevato del dibattito politico e culturale in Italia.

Secondo lei ci saranno azioni nei confronti dei firmatari della lettera?
No, non credo che possano esserci iniziative disciplinari, anche perché francamente non vedo quali potrebbero esserne le basi. Certo l'università di Roma non ne esce bene, visto che oggi le richieste delle dimissioni del rettore si incrociavano con quelle di una nostra rimozione. Del resto, le vicende della Sapienza sono state purtroppo sui giornali negli ultimi mesi per tanti motivi che poco hanno a che fare con il sapere. Non che manchino del tutto le notizie positive. Ad esempio, nelle scorse settimane è stata resa nota una analisi pubblicata dal settimanale tedesco "Die Zeit", nella quale il nostro dipartimento risultava il primo in Italia per la fisica e l'unico della Sapienza ad essere annoverato nella prima categoria, quella di "eccellenza". Ma non mi risulta che di questo si sia fatto un gran parlare sui giornali… Non mi aspetto nulla di serio contro di noi, ma neppure che queste vicende suscitino un approfondito dibattito sulla attuale politica culturale della Sapienza.

Un primo bilancio sull'operato del ministro Mussi?
Mussi secondo me è partito con una buona idea, cercando di attuare degli interventi che fossero mirati e immediati, attraverso decreti attuativi ecc… Devo dire però che non ha funzionato, perché se non si interviene sul piano legislativo e al tempo stesso si pretende di agire nel profondo, si genera facilmente un intrico di norme e leggi da cui non si riesce più a uscire. L'esempio è la sequela di decreti con cui si è cercato di dare il via alla riforma dei corsi di studio dopo ben quattro anni. E poi qualcuno si deve mettere a tradurre questa selva di norme in un piano di studi che comporti effettivamente un miglioramento nella didattica. Non lo so, forse la politica italiana è in uno stato di paralisi tale che non si può fare nulla, di fatto però il risultato è che siamo in una situazione di difficile governabilità.

Liberazione lettere 19.1.08
Ratzinger Il demonio e quei 400
Cara "Liberazione", può non piacere la logica dei simboli e dei riti. Ma tant'è, ciascun tipo d'istituzione ha i propri. E sceglie operatori, modalità e tempi con cui rappresentarli. Così come a nessun parroco, vescovo o papa verrebbe in mente di chiamare un ateo a fare l'omelia nel giorno d'inaugurazione dell'anno liturgico non si comprende a quale titolo un pontefice debba fare il suo discorso nel giorno d'inaugurazione dell'anno accademico. Ascoltavo in macchina Radio Popolare, venerdì mattina, e sono stata felice di sentire che lei, direttore, era presente alla manifestazione fuori dell'ateneo di Roma, insieme a quei 400 manifestanti, a ciascuno dei quali è stato "assegnato" un poliziotto in assetto antisommossa. Ce n'era bisogno evidentemente, perché sempre da Radio Popolare ho saputo che l'emittente radiofonica del Vaticano farneticava in modo delirante sulla possessione demoniaca di quei 400. Sono molto arrabbiata, caro Sansonetti, per questa orribile, oscurantista operazione mediatica e politica, che tenta di soffocare la voce di quei pochissimi che ancora vogliono pensare e sperare nella ricerca, piuttosto che credere nello spirito santo… Troppi non conoscono o fingono di dimenticare la storia dell'istituzione Chiesa… Pochi ricordano l'esemplare vicenda dell'abiura dello scienziato Galileo, costretto a rinnegare il pensiero copernicano, oppure l'opposizione della Chiesa all'uso dell'antibiotico, all'epoca in cui fu scoperto. Pochissimi hanno a mente la tragica vicenda di Giordano Bruno... Allora ciascuno si tenga i suoi "operatori simbolici" e i suoi, spesso macabri, rituali.
Paola via e-mail

L'università è di tutti
Caro direttore, «se la ragione diventa sorda al messaggio che le viene dalla fede cristiana, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Che cosa ha da dire il Papa nell'università? E' suo compito invitare la ragione a mettersi alla ricerca di Dio e sollecitarla a percepire Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia». Così Benedetto XVI avrebbe concluso il suo intervento alla Sapienza, negando ancora una volta l'autonomia della ragione umana. Mi domando quali reazioni ci sarebbero se all'inaugurazione dell'università romana si invitasse a parlare un'autorità religiosa che esortasse i suoi ascoltatori a vedere Maometto o Budda «come la Luce che illumina la storia» e che affermasse la necessità di sottomettere la ragione alla fede islamica o alla dottrina buddista. Nessuno nega al Papa il diritto di parola: egli parla quando e come vuole, e i suoi discorsi trovano ampia risonanza in tutti i mezzi di informazione. Ma in uno Stato democratico, e quindi laico, una cerimonia ufficiale di un'università pubblica, in cui insegnano e studiano persone di fedi diverse e non credenti, non può diventare un pulpito da cui un'autorità religiosa proclami la verità assoluta della propria fede e svilisca come «più piccola» la ragione di chi non condivide quella fede.
Roberto Blanco via e-mail


il Riformista 19.1.08
Sapienza. il discorso di Ratzinger rende più difficile il dialogo
L'integralismo cattolico mette in pericolo la laicità
di Orlando Franceschelli


Come tutte le cose, anche le parole si logorano, ammoniscono le Scritture. Destino cui, mai come in questi giorni, proprio il significato e il valore della "laicità" sono parsi andare incontro. Un lusso che però non possiamo permetterci neppure di fronte alle polemiche suscitate dall'invito e dalla mancata presenza di Benedetto XVI alla Sapienza. Certo: abbassare i toni della voce ed elevare quello degli argomenti sembra davvero arduo. Ma assecondare la serie di contumelie e reazioni strumentali serve a ben poco. E di sicuro non a contrastare tutti i comportamenti che della laicità rappresentano quella caricatura da più parti e giustamente denunciata. Salvo addebitarla soltanto ad uno «scientismo patetico» e alle «risse del centro-sinistra intorno ai Dico e all'aborto» (Galli della Loggia).
La nozione di laicità è ben nota e significa innanzitutto rispetto per la libertà di coscienza e per la dignità di ognuno. E perciò anche capacità di dialogare con le ragioni filosofiche, i valori etico-politici, la fede religiosa o l'incredulità che gli altri sono criticamente impegnati a coltivare. Sapendosi confrontare anche con la scienza, che consente a tutti di capire sempre meglio il mondo naturale in cui viviamo.
Da una simile laicità ci si allontana ogni volta che si presenta come una minaccia il valore veramente fondamentale da cui essa è alimentata e arricchita: il pluralismo delle visioni del mondo e dell'uomo. Autentica conquista non negoziabile delle società moderne. Condivisa da chiunque sa rivendicare il diritto a sostenere le proprie ragioni senza mai ledere il diritto degli altri. E di cui non si mostrano all'altezza né lo scientismo, che considera il metodo sperimentale l'unico veicolo di conoscenza, né l'ateismo concepito come polemica ideologica e militante contro la religione.
Ben venga dunque la denuncia di simili, intolleranti violazioni della laicità e l'invito ai giovani a non farle mai proprie. Ma laici è possibile esserlo solo a senso unico? Se la risposta è no, occorre riconoscere che, tanto più in Italia, una violazione non minore della laicità e del pluralismo viene anche dall'integralismo cattolico. Più precisamente: anche da quello di cui è portatrice una gerarchia che pretende - come Benedetto XVI avrebbe ribadito proprio alla Sapienza - di sentirsi depositaria di un «coraggio per la verità» di cui invece - per viltà? - sarebbe priva la ragione moderna emancipata dall'orizzonte sovrannaturale della fede. E che perciò «non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma».
Simili considerazioni sono state pensate per l'inaugurazione dell'anno accademico di una pubblica università. E, diciamo così, arricchiscono ulteriormente l'idea non proprio di interlocutore di pari dignità e valore che papa Ratzinger ha della scienza e della filosofia moderne non più subalterne alla teologia. E condannate a non poter offrire alcuna visione criticamente plausibile e non nichilistica della vita e dell'impegno civile. Anzi: a costituire, insieme ai valori e ai diritti che esse possono ispirare, addirittura una minaccia per la stessa dignità umana. Come non a caso la Cei del cardinale Ruini affermò nella Nota contro i Dico. E come Benedetto XVI ha ribadito di recente, sostenendo persino che le coppie di fatto rappresentino, almeno oggettivamente, un pericolo per la stessa pace. Per tacere dei ripetuti attacchi mossi, insieme al cardinale Schönborn, contro Darwin e la biologia evoluzionistica.
Dunque: nessuna polemica cosiddetta laicista contro la religione. A violare la laicità e il pluralismo è piuttosto questo neointegralismo della gerarchia. A tratti persino gratuitamente arbitrario e offensivo nell'ostinata riduzione dell'emancipazione illuministica dalla tradizione religiosa a mera frantumazione della ragione. Un'emancipazione in realtà né ideologicamente ostile a valori cristianamente ispirati, né timorosa di un confronto alto con la Chiesa. Possibile però solo a patto che la concezione post-religiosa del mondo e dell'uomo non venga equiparata a uno smarrimento vile e nichilistico della ricerca della verità.
Certo: chi ripaga con fervore incondizionato proprio una simile parodia della modernità, in Italia non manca. Persino tra gli atei. Ma ogni laico autentico - come appunto fanno anche non pochi cattolici - dovrebbe contribuire a disinnescarla. Come si deve fare per ogni manifestazione di intolleranza. Senza scaricare tutto su un presunto laicismo di stato e su uno scientismo erede dell'ideologia comunista (Galli della Loggia). Anche queste sono caricature strumentali e sterili della laicità interessata al confronto rispettoso e costruttivo. L'unico che consente di individuare anche soluzioni ragionevoli alle questioni politiche e bioetiche che riguardano tutti ma a cui, da cittadini adulti e responsabili delle nostre società plurali, sappiamo di guardare da prospettive etico-politiche diverse.
A quando una simile laicità cristianamente ispirata ma capace di un effettivo dialogo con la ricchezza umana, intellettuale e politica della coscienza moderna? O è di questa che, in definitiva, la gerarchia e i suoi devoti sostenitori inseguono "laicamente" la moratoria?