l’Unità 28.6.14
Il Cdr ai lettori
Vogliamo riaffermarlo con orgoglio. Se il valore della testata l’Unità non si è depauperato nel corso di questi mesi è solo grazie al nostro impegno, alla nostra professionalità, al nostro attaccamento a un giornale che per tutti noi, giornalisti e poligrafici, rappresenta molto di più di un posto di lavoro. Ci sentiamo parte di una comunità, un sentimento condiviso con i nostri lettori che non hanno fatto mai mancare il sostegno alla nostra lotta in difesa del giornale fondato novant'anni fa da Antonio Gramsci. Questo stesso orgoglio, questo forte senso di responsabilità, lo chiediamo, lo esigiamo da coloro da cui dipende se l’Unità sarà ancora in vita. Giovedì prossimo le rappresentanze sindacali incontreranno i liquidatori della società editrice. Non sarà, non potrà essere un incontro di facciata. Da mesi i giornalisti lavorano senza stipendio e chiedono certezze sull'occupazione. La situazione non è più tollerabile, risposte evasive o ennesimi rinvii vedranno l'immediata risposta dei lavoratori. Per questo, e fino all'incontro del 3luglio,proseguiràlo sciopero delle firme. E se l’incontro sarà deludente, l'astensione dal lavoro diverrà inevitabile. Ne va del nostro presente. E del futuro del nostro e del vostro giornale.
Il CDR
l’Unità 28.6.14
Riforme, si riaccende lo scontro nel Pd
Renziani contro Chiti
Il premier: «Ogni volta che vado all’estero una minoranza riapre discussioni chiuse. Ma l’accordo terrà»
Grasso: «Numeri sul filo del rasoio»
Da lunedì le votazioni in commissione
Vannino Chiti resta in trincea sulla riforma del Senato, e con lui i 16 dissidenti del Pd. In totale sono 36 i senatori che hanno firmato l’emendamento per l’elezione popolare: 19 della maggioranza, visto che ieri si è unito anche Tito Di Maggio, vicino a Mario Mauro.
Numeri che rendono decisivo l’atteggiamento di Forza Italia e Lega. «Numeri sul filo del rasoio», dice il presidente Pietro Grasso. Giovedì l’ex Cavaliere riunirà tutti i suoi parlamentari e lì si capirà se i tanti malpancisti, guidati da Augusto Minzolini, si acconceranno a seguire il Patto del Nazareno con Renzi o se la fronda di Forza Italia rischierà davvero di travolgere tutto. I numeri del dissenso dentro il Pd, in realtà, non sono cresciuti: sono 16 i senatori a favore dell’elezione diretta, una battaglia che conducono da settimane alla luce del sole. «O si adotta per intero il sistema tedesco o si sceglie la via del Senato elettivo. Il resto sono soluzioni pasticciate che farebbero fare alle nostre istituzioni un passo indietro, non in avanti», ha ribadito ieri Chiti. «Se per la Camera si vuole adottare una legge di impianto maggioritario, è necessario avere un Senato che faccia da contrappeso e che sia letto direttamente dai cittadini con legge proporzionale, in concomitanza con le elezioni dei Consigli regionali». Chiti e i suoi si preparano dunque a votare contro il sistema di elezione voluto dal governo. Quanto al finale, la decisione è ancora sospesa. «Devo prima vedere come sarà quel testo», mette le mani avanti Chiti.
Lunedì si inizia a votare in commissione Affari costituzionali, dove, dopo la sostituzione dei ribelli Corradino Mineo e Mario Mauro, non ci sono grandi ostacoli. Intorno al 10 luglio è previsto lo sbarco in Aula della riforma. «Terrò fede all’accordo con Renzi», ha ribadito Berlusconi ai suoi. L’unica incognita reale è se il voto finale arriverà prima del 18 luglio, quando è prevista la sentenza d’appello sul processo Ruby. In caso di una nuova condanna, l’umore dell’ex Cavaliere potrebbe volgere al peggio. «Sono ottimista e determinato », dice il premier Renzi a margine del Consiglio europeo. «Quello sulle riforme è un compromesso molto buono, l‘accordo terrà». Il premier non è tenero con i ribelli Pd: «Trovo davvero sorprendente che tutte le volte che si va all’estero per fare una battaglia in Europa, il premier non fa in tempo a prendere l’aereo che una parte del suo partito, anche se minoritaria, riapre discussioni che sembravano chiuse. È un atteggiamento che si giudica per quello che è, e che non ha bisogno di parole ulteriori». Dalle fila renziane parte subito un attacco contro Chiti. «I conservatori non avranno la maggioranza in Senato, le riforme del governo Renzi avranno via libera dell'Aula. Non è possibile costruire muri per fermare il cambiamento», dice il senatore Andrea Marcucci. «Da lunedì con il voto della commissione chiude l’accademia dove da 30 anni discutiamo se correggere o meno il bicameralismo perfetto e comincia una nuova stagione. Il patto del Nazareno reggerà, i conservatori se ne facciano una ragione». Molto netto anche Dario Parrini, segretario del Pd toscano: «I dissidenti del Pd al Senato sono un po’ come chi non ha capito che un'epoca è finita e chi sta conducendo questa battaglia autoreferenziale, personalistica, molto ideologica e poco sensata è profondamente isolato dall’opinione pubblica».
Sul tavolo c’è anche l’accenno di dialogo con i 5 stelle, che ha al centro la legge elettorale ma non esclude le riforme costituzionali. «Molti dicono che il M5s sia arrivato in ritardo sulle riforme. Io dico che, visto il caos, siamo arrivati al momento giusto per aiutare i cittadini italiani», dice Luigi Di Maio. «Grillo si è svegliato un po’ tardi, ma ci fa piacere abbia voglia di sedersi al tavolo assieme a noi, perché le regole del gioco si cambiano tutti insieme», replica il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti. «È chiaro che c’è un punto di partenza a cui noi non veniamo meno: abbiamo fatto un accordo, abbiamo iniziato a discutere con altri partiti e Forza Italia è uno di questi ». Il renziano Roberto Giachetti è ancora più esplicito: «Una volta che c'è stato l’accordo tra due leader e due forze politiche come Pd e Forza Italia, su quell’accordo si deve andare avanti. Se la riforma del Senato non viene approvata, torniamo a chiamare al voto il popolo italiano, che già con il 40,8% ha dato un’ulteriore validazione alla nostra impostazione».
Grillo, dal canto suo, fa di tutto per far saltare il patto del Nazareno. E scrive: «Silviostaisereno. I prossimi incontri per le riforme li potrai fare comunque in streaming nell’ora d’aria o nel parlatorio. In carcere per una questione di probabilità potrai trovare molti vecchi amici come Dell'Utri, Scajola e Cosentino. Più che la galera sarà una rimpatriata». Commenta Mariastella Gelmini: «Il tentativo del M5s di entrare in dialogo col governo sulle riforme è già naufragato, ed è Forza Italia l’unico partito di opposizione con cui Renzi può dialogare senza degenerare».
Un via libera al confronto col M5s arriva dal sottosegretario Pd Giovanni Legnini. Anche l’ex segretario Pierluigi Bersani è soddisfatto: «Meglio tardi che mai. Ho sempre pensato che un movimento che prende oltre il 20% dei consensi non può non inserirsi nel gioco democratico. Era inevitabile che prima o poi accadesse e credo che questo sia nell’interesse di tutti».
Corriere 28.6.14
Senato, fronde e tensioni sulla riforma. E il premier accusa la minoranza pd
«Io parto e riaprono discussioni chiuse». Grasso: è tutto sul filo del rasoio
di Dino Martirano
ROMA — «È dialettica parlamentare, è un portare avanti le proprie idee ma rispettando sempre la maggioranza... Il Senato, come sapete, è sul filo del rasoio. Ci può essere qualsiasi soluzione ma che sia condivisa...». Alla vigilia dei primi voti sulla riforma del Senato e del Titolo V, il presidente dell’assemblea di Palazzo Madama, Pietro Grasso, fa una sintesi dei lavori in commissione che rappresenta con realismo le possibili geometrie variabili dell’Aula non solo sull’elezione diretta del Senato. Maggioranze ad intermittenza alimentate dalla fronda interna al Pd guidata da Vannino Chiti, capace ora di creare un fronte trasversale con i dissidenti di Forza Italia, gli ex grillini, Sel , i popolari, Fratelli d’Italia, qualche pezzo del Ncd e gli stessi grillini ortodossi. Un piccolo esercito che per ora conterebbe una settantina di senatori più i 40 grillini: quindi non ancora in grado di mandare sotto la maggioranza.
Eppure a Bruxelles, il premier Matteo Renzi, impegnato in un vertice «tosto e complicato», ha voluto parlare molto anche di politica domestica, ribadendo il suo pensiero sul dissenso interno al Pd catalizzato soprattutto dalla questione del Senato elettivo: «Quello sulle riforme è un buon compromesso, l’accordo (con Forza Italia, ndr) terrà... Sono ottimista, il risultato si vedrà già la prossima settimana o alla fine di quella successiva». Per questo le notizie che arrivano dal Senato sono spine per il governo: «Trovo davvero sorprendente — attacca il premier — che tutte le volte che c’è un tentativo di fare una battaglia in Europa sostenendo le riforme in cambio della flessibilità, uno prende l’aereo e non fa in tempo ad atterrare» perché c’è «una parte del suo partito, ancorché minoritaria, che riapre discussioni che sembravano chiuse».
L’opposizione ad orologeria cui si riferisce il presidente del Consiglio deve fare i conti ora con il calendario che ha in mente l’altro contraente del patto del Nazareno, Forza Italia. La riforma dovrebbe andare in aula il 3 giugno: ma quel giorno al Senato arriva l’ex Cavaliere per tentare di ricompattare il suo gruppo scosso dall’offensiva dell’ex direttore del Tg1 Augusto Minzolini, che ha presentato un subemendamento sull’elezione diretta del Senato e che è convinto di avere 30 senatori azzurri con sé: «Io sono pronto a votare l’emendamento di Chiti. Vedremo lui cosa farà con il mio...». E di questa convergenza approfittano i grillini: «Dicono che siamo arrivati tardi sulle riforme ma, visto il caos, siamo arrivati al momento giusto», osserva il vicepresidente della camera Luigi Di Maio.
Ma per Berlusconi quel che più conta nella tempistica è il processo d’appello sul caso Ruby, in programma per il 18 luglio a Milano, in cui rischia la conferma della condanna. L’ex Cavaliere viene descritto come disinteressato al tema delle riforme perché concentrato sulle sue vicende giudiziarie. E per questo, il Pd vuole andare al più presto in Aula per evitare «pericolose concomitanze».
Reggerebbe, dunque, il patto del Nazareno ma sui tempi certi nessuno, in FI, è disposto a mettere la mano sul fuoco. Anche perché, oltre all’elezione diretta dei senatori e alla loro immunità, ci sono altri temi sensibili. La riduzione del numero dei parlamentari (compresi i 630 deputati, dunque) è un banco di prova durissimo per il governo che vuole tagliare solo al Senato (da 315 a 100 seggi). Miguel Gotor, uno dei 35 senatori dell’area riformista del Pd legati a Bersani e a Letta, dice che questo è un problema serissimo: «Senza riduzione dei deputati, o in assenza di un aumento dei grandi elettori previsti per il Senato, a un partito basterà vincere il premio di maggioranza alla Camera e controllare appena il 33% del Senato per eleggere da solo il capo dello Stato. Si potrebbe verificare così un quadro di tipo russo: nel quale un premier vincente alle elezioni si fa poi eleggere presidente della Repubblica dalle Camere controllate magari per un pugno di voti». Per il relatore Roberto Calderoli è questa la vera linea Maginot contro la quale si infrangerà il governo: «Facciamola, la riforma del Senato, ma anche i deputati devono pagare pegno». Si allarga, dunque, il fronte favorevole a ridurre i deputati, da 630 a 500, secondo quanto stabilisce anche l’emendamento di Doris Lo Moro (Pd).
il Fatto 28.6.14
Senato, arrivano i malpancisti
risponde Furio Colombo
CARO COLOMBO, Il fronte unico politica-media nell'era di Renzi arriva al punto che un grande quotidiano definisce “malpancisti” i senatori che si oppongono alla graziosa liquidazione di quella Camera da parte del ministro Boschi. Evidentemente qualcuno lassù apprezza la presa in giro e il fastidio per chi non applaude la fine del Senato.
Elvio
IL TESTO DEL CORRIERE DELLA SERA, a firma Dino Martirano (27 giugno) contiene anche specifiche dichiarazioni dei "renziani", che ormai sono simbolo di vittoria in tutti i campi. Dicono i renziani (Marcucci) che "i numeri sono insufficienti per fermare le riforme renziane". Dicono i renziani (Guerini) "il percorso procederà secondo la direzione e i tempi previsti". Seguono notizie di un fitto lavorio che prevede e abolisce immunità, prevede e abolisce l'elezione diretta, cambia continuamente il numero dei senatori a "tranche de vie" che potranno essere nominati dal presidente della Repubblica. Niente, in tutta questa confusione che assorbe tempo, energia, impegno politico e tensione nervosa (mentre tutte le risorse, materiali e morali, dovrebbero essere concentrate sul famoso semestre italiano), niente ci dice perché siamo fermi a questa stazione. Forse lo impongono gli accordi del Nazareno? Forse bisogna chiudere il Senato per vendicare l’espulsione di Berlusconi? Certo prima del patto segreto del Nazareno lo strano fatto non era incluso in alcuna lista di riforme, non era in attesa, dunque non era mai stato rinviato e non era stato richiesto neppure da coloro che avrebbero dovuto aprire il Parlamento come scatola di sardine. Non ha rapporto con i costi, perché basta tagliare seriamente il numero di tutti i parlamentari. Non ha rapporto con i tempi del lavoro parlamentare perché il "filibuste-ring" , detto da noi "ostruzionismo", celebre tecnica per ritardare il voto, ha sempre funzionato benissimo nei sistemi monocamerali. Matteo Renzi è persona onesta. Non nasconde di essere il padre della strana riforma, e non fa finta che la madre, Maria Elena Boschi, abbia legiferato per partenogenesi. Lei ha portato con grazia il provvedimento già fatto ai senatori stupiti, e basta. Ma, a parte Renzi e tutti coloro che adesso gli danno ragione su tutto, qualunque cosa il nostro ragazzo abbia voglia di dire, da dove viene l'abolizione del Senato, nel luogo del mondo in cui il Senato è nato e ha persino un valore turistico, come il Pantheon? La sua abolizione non è importante, non è utile, non è necessaria, non è urgente, e per giunta è destinata a generare una quantità di altri mutamenti costituzionali, mentre sembrava che i tempi stretti e l'urgenza della crisi che dura, richiedessero fredda e ordinata razionalità. Non c'è risposta. C'è il comunicato tipo generale Patton (quello che rompeva con tutti e sacrificava tutti pur di avanzare) "il percorso procede secondo la direzione e i tempi previsti". Se è vero, perché?
La Stampa 28.6.14
Berlusconi imporrà il rispetto dei patti
Negli ultimi giorni sono aumentati i senatori di Forza Italia che vorrebbero un Senato di eletti e non di nominati
Giovedì prossimo l’assemblea dei parlamentari, ma i critici sono avvertiti: “pacta sunt servanda”
di Ugo Magri
qui
La Stampa 28.6.14
Riforme, Di Maio: “Caos maggioranza, il M5s è arrivato al momento giusto”
Il Movimento prova a fare sentire la sua voce dopo l’incontro con il governo sul Senato
Ma l’intesa del Pd con Forza Italia e Lega regge
qui
Repubblica 28.6.14
L’ultimo no del premier a Enrico Letta
“Per noi in corsa Mogherini e D’Alema”
di Alberto D’Argenio
BRUXELLES. «Allora Matteo, chi proponi come Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione?». È pomeriggio, Angela Merkel chiede un secondo incontro riservato a Matteo Renzi. I due entrano nella saletta della delegazione tedesca all’interno del Justus Lipsius, il palazzone dei vertici europei di Bruxelles. La risposta del premier italiano alla domanda a bruciapelo della Cancelliera è altrettanto netta: «Se c’è bisogno di una donna è Federica Mogherini, se invece serve un uomo sarà Massimo D’Alema». La partita per l’Italia dunque sembra essere decisa, tra le cinque grandi poltrone dell’Unione in ballo in queste settimane avrà quella di Mr Pesc, vicepresidente della Commissione e capo della diplomazia europea. Una scelta che verrà formalizzata il 16 luglio, quando i leader si troveranno di nuovo nella capitale belga per chiudere il pacchetto di nomine dopo che ieri hanno designato Juncker alla presidenza dell’esecutivo comunitario.
Resta però una casella ancora aperta, che nei prossimi giorni potrebbe ancora terremotare quanto fin qui deciso dai grandi d’Europa: quella del presidente del Consiglio europeo, colui che coordina i vertici dei capi di Stato e di governo oggi in mano a Van Rompuy. E qui di nuovo la partita europea si intreccia con l’Italia. In conferenza stampa Renzi ha risposto così a una domanda di un cronista: «Il nome di Letta non è mai stato fatto al Consiglio europeo, l’Italia ha già la guida della Bce con Draghi e non può avere due dei tre grandi incarichi dell’Unione. Il nome di Letta è figlio del dibattito politico italiano». Eppure la figura dell’ex premier in questi giorni ha calamitato l’attenzione di molti leader. Quando la corsa di Juncker alla Commissione sembrava in salita, tanto Van Rompuy quanto Cameron hanno chiesto a Renzi se fosse disponibile a mandare a Bruxelles il suo predecessore a Palazzo Chigi. Ma l’ipotesi è sfumata perché più di un premier pur esprimendo gradimento per Letta, ha osservato che in quel caso Draghi avrebbe dovuto lasciare Francoforte. Impensabile. Ora che il tassello che manca per chiudere la delicata partita delle nomine, molte Cancellerie ripensano a Letta: «È un politico stimato - riassume un diplomatico straniero - potrebbe mettere tutti d’accordo, socialisti e popolari». Il suo nome aleggia dunque al vertice. Soprattutto tra gli sherpa e la “tecnostruttura” di Bruxelles. Negli ultimi due giorni nessuno dei leader lo ha però avanzato esplicitamente. In un singolare gioco di “detto e non detto”. Anche perché proprio la Merkel ha indirettamente fatto riferimento a quel “gioco”. Ed è stata netta nel dire che anche la poltrona che oggi è di Van Rompuy confligge con la presidenza della Banca centrale, al contrario di quanto spesso sostenuto nei circoli diplomatici dell’Unione: «L’Italia non può avere il Consiglio oltre alla Bce», avrebbe detto la Cancelliera nel racconto di uno sherpa presente al summit. E Renzi, racconta chi gli ha parlato nelle ultime ore, ha deciso di scartare Letta anche dalla rosa dei canditati alla guida della diplomazie europea, forse infastidito da un attivismo che imputa al suo predecessore, nonostante il suo nome non sarebbe sgradito ad altri leader: «Al Pse spetterà l’Alto rappresentante e la prima scelta del Pse va all’Italia, visto che il Pd è il partito che ha preso più voti alle europee. Ma il premier italiano sono io e il nome lo indico io», sarebbe la tesi che Renzi sostiene in privato.
Al Consiglio intanto avanzano altre candidature, con una partita ancora aperta tra socialisti, popolari e liberali su chi prenderà l’ambita poltrona. Senza contare che il blocco dell’Est invoca per sé un incarico di peso. Per questo ieri al summit oltre all’olandese Mark Rutte, che sconta la fama di rigorista, e alla danese Thoring-Schmidt, la cui corsa sembra esaurita, è spuntato il nome dell’ex premier Estone, il popolare Andrus Ansip. All’Eurogruppo invece tiene la candidatura dello spagnolo Luis de Guindos. Intanto Renzi, forte della vittoria alle europee, lavora anche alle posizioni di seconda fila ma di grande rilievo politico. Così Gianni Pittella sarà il primo italiano a guidare il gruppo del Pse all’Europarlamento, mentre Roberto Gualtieri sarà presidente della potente commissione economica a Strasburgo. Il premier ieri ha anche dato mandato ai nostri diplomatici di stilare un elenco dei funzionari italiani all’interno delle istituzioni Ue da “accompagnare” nella loro carriera perché, ha spiegato ai suoi, «serve poco avere i commissari se la tecnorazia non premia nessun italiano». Un approccio atteso da tempo dagli italiani che finora, al contrario di molti colleghi stranieri, si sono fatti strada da soli. E lunedì il Consiglio dei ministri nominerà il commissario italiano che sostituirà il dimissionario Tajani negli ultimi 4 mesi nella squadra di Barroso: con ogni probabilità sarà l’ex ambasciatore presso la Ue Ferdinando Nelli Feroci.
Ieri il premier ha avuto a margine del summit due bilaterali con la Merkel, uno per appianare lo scontro del giorno prima a Ypres sulla flessibilità e l’altra sulle nomine. E a fine giornata i due si sono scambiati cortesie a distanza, per far capire che il diverbio è acqua passata. «Renzi - ha scandito la Cancelliera davanti alla stampa - è un premier di grande successo, apprezzo il piano di riforme in 1000 giorni, sono certa che aumenterà la crescita». Renzi ha risposto: «Stimo la Merkel, con lei ho un rapporto molto buono».
Repubblica 28.6.14
L’eterno duello tra i gemelli pd
di Filippo Ceccarelli
È DUNQUE la miglior legna da ardere, per giunta in estate, quella che da Parigi e da Londra, ma un po’ anche da Roma, è stata gettata sul fuoco dell’ormai conclamatissima rivalità fra Renzi e il suo predecessore Letta. Poi, certo, si può discutere sulle reali disponibilità di queste poltrone europee, sulle vere ragioni che muovono inglesi e francesi, così come sulle plausibili chiusure di Renzi nei confronti di Letta.
IL QUALE peraltro, già dieci giorni orsono, aveva giudicato «altamente improbabile se non impossibile» ottenere «una posizione di vertice» a Bruxelles per via di Draghi alla Bce.
Da quelle parti «gli equilibri e gli incastri», per i quali il premier ha ieri evocato l’accorta figura democristiana di Massimiliano Cencelli, trascendono tuttavia le beghe nazionali, scappatoie comprese. Dato che tutto più o meno è già accaduto, se ne può chiedere conferma a Giuliano Amato che candidato in un primo momento presidente della Convenzione europea, alla fine del 2001 dallo stesso Berlusconi, allora a Palazzo Chigi, venne prima disconosciuto e quindi retrocesso a vice di Giscard. Quando non è la geografia, infatti, è la famiglia politica, e adesso anche l’alternanza di genere.
Sennonché il gioco del potere sempre e comunque accende la fantasia degli spettatori, di norma vogliosi di assistere ai più cruenti duelli. Per cui, anche a prescindere da come andrà a finire, tra Renzi e Letta si apre e anzi s’intensifica un promettente ciclo di nevrosi agonistica ad alto impatto e dissimulata intermittenza.
La contesa si dispiega con rassegnata abitudinarietà. Ci sono sempre due galli che si scontrano, per lo più a colpi di disprezzo e risentimento, senza che mai si capisca bene chi ha cominciato e chi poi ha esagerato. In genere, a questo punto, va citato un poeta, Umberto Saba, che alza il livello e secondo il quale: «Gli italiani non sono parricidi, sono fratricidi. Romolo e Remo. Ferruccio e Maramaldo. Mussolini e i socialisti. Graziani e Badoglio». Questi due ultimi, generali del periodo fascista, a lungo rivaleggiarono in pace per poi ritrovarsi l’un contro l’altro dopo l’8 settembre: «Combatteremo - annunciò il primo - fratelli contro fratelli».
Ora è difficile scendere a livello della politicuccia. Ma anche nel corso della Prima e della Seconda Repubblica abbondano, pur con tutte le differenze, le coppie di privatissimi nemici e fratricidi continuativi: De Gasperi e Dossetti, Fanfani e Moro, Mancini e De Martino nel Psi; a loro modo anche De Mita e Forlani (con la variabile Craxi di mezzo) inscenarono un conflitto di questo tipo; mentre a sinistra, o meglio nel mondo postcomunista l’esempio di più durevole tenzone ha visto contrapposti per una ventina d’anni Veltroni e D’Alema. Quest’ultimo, peraltro, fu inizialmente distolto dallo scontro ingaggiato con Occhetto e poi da quello con Prodi, che nel 1998 sostituì a Palazzo Chigi, ma che l’anno seguente si preoccupò di spedire alla guida della Commissione europea, secondo l’adagio curiale « promoveatur ut amoveatur » - per quanto Prodi gli slanciò contro l’asinello al grido « competition is competition ».
Inutile dire che nessuno di tutti i personaggi menzionati ha mai ammesso, né mai ammetterà il proprio coinvolgimento in queste guerre personali che pure il pubblico, vieppiù ammaestrato dai talkshow, segue con indubbia passione.
Del resto anche Renzi e Letta hanno sempre negato ogni sospetto di competizione personalizzata. Sin da quando, come racconta Davide Allegranti nel suo « The boy » (Marsilio), il sindaco di Firenze irrompeva platealmente in pulmino con i suoi seguaci al meeting estivo e lettiano di VeDrò, subito monopolizzando l’attenzione dei giornalisti presenti. Perciò è inutile, anche se suscita sempre un po’ d’allegria, rammentare qui le frequenti rassicurazioni e le assidue promesse d’amicizia che i due galli presero a farsi l’un l’altro proprio quando le loro strade cominciavano a incrociarsi. Basterà qui il motto «Enrico stai sereno », destinato a restare prova della più sfacciata ipocrisia.
Anche la faccia di Enrico, d’altra parte, più che imbronciata durante il rito del passaggio della campanella, rappresenta un rimarchevole documento politico e sentimentale in questa stagione di giovanile inimicizia. Al solito, tutto cambia in Italia per rimanere uguale, almeno sul piano del più scontato e al tempo stesso mirabile intrattenimento.
Allo stesso modo, come ogni rivalità che divampi sotto gli occhi del pubblico, sia Letta che Renzi capiranno a tempo debito, magari troppo tardi, che starsi cordialmente sulle scatole e per ciò stesso farsi la guerra non avrà fatto bene a nessuno dei due quarantenni. E tuttavia, secondo leggi davvero molto antiche, desiderare le stesse cose nello stesso momento è una tentazione irresistibile del potere.
Così ogni moralismo, più che ingiusto, appare vano. Ma è pure vero che i duelli non solo consumano tempo ed energie, ma soprattutto fanno sbagliare; e quando è in ballo la politica internazionale, dove tutti si sentono grandi statisti, gli errori si pagano il doppio.
il Fatto 28.6.14
Renzi fa da scudo alla Boschi: “L’immunità l’ho voluta io”
Per fonti di Palazzo Chigi sarebbe stato lo stesso premier a decidere l’introduzione dopo la riunione del 7 giugno con un gruppo di senatori. E il ministro ha eseguito
di Carlo Tecce
Una riforma con l'immunità al centro e i balletti intorno. Ci sono i ribelli in Forza Italia, le ridotte al Nazareno, le furerie in zona Nuovo Centro Destra. Tutti vigili poco incisivi. E la riforma di Palazzo Madama scivola verso il tira e molla di sub-emendamenti (oltre 500) di lunedì in Commissione Affari costituzionali e, fra un paio di settimane, finirà in aula. In stiva, protetta, viaggia l'immunità per i futuri senatori che poi senatori non saranno, non come oggi, non eletti, non equivalenti ai deputati, ma consiglieri regionali, sindaci e nominati. L'immunità non è apparsa per caso, e per caso potrebbe restare. Com'è andata lo spiegano fonti di Palazzo di Chigi, che rispondono a precisa domanda: il 17 giugno, due giorni prima che terminassero le mediazioni in Commissione, Matteo Renzi e una delegazione di senatori democratici hanno siglato un compromesso e riesumato l'immunità. Questa è la novità. Un particolare schiacciante che aiuta a interpretare l'immobilismo di Maria Elena Boschi, il ministro competente e piuttosto riservata e silente su questa vicenda. I passaggi sono numerosi, però, e vanno messi in fila. Per fare ordine. Roberto Calderoli, il leghista relatore in Commissione assieme ad Anna Finocchiaro, ha ricostruito le origini di quest'apparizione. Calderoli e Finocchiaro, per non ignorare la questione, introdurre o escludere l'immunità per una Camera non più paritaria, volevano coinvolgere l'arbitro più preparato e imparziale che si possa coinvolgere: la Consulta. I democratici avevano fretta. Il ministro per le Riforme aveva fretta. Calderoli ha consegnato al Fatto il contenuto di un paio di email provenienti dal dicastero per le Riforme che certificano un elemento: Boschi sapeva dell'immunità - siamo al 19 giugno, giovedì - e non ha modificato il documento. Ma non poteva intervenire: la decisione l'aveva timbrata Matteo Renzi. Il 17 giugno, raccontano fonti di Palazzo Chigi, Renzi ha incontrato una delegazione di senatori democratici e, in quella sede, è emersa la convinzione che fosse necessario ripristinare l'immunità per Palazzo Madama in versione aggiornata. I motivi. Aumentati poteri legislativi, di controllo e di garanzia, l'immunità era invocata da gran parte dei senatori in Commissione e da un gruppo di costituzionalisti che hanno osservato l'evoluzione di un testo che, in fase di approvazione preliminare (Cdm del 31 marzo), non prevedeva l'ombrello contro l'arresto, le perquisizioni e le intercettazioni senza la tradizionale autorizzazione, articolo costituzionale numero 68.
IL FACCIA A FACCIA tra i senatori e il segretario-premier è servito anche a reperire la formula più adatta per aggiornare il testo: un emendamento dei relatori. E dunque il governo, ricevuto il via libera da Renzi, non ha eliminato l'immunità e ha confermato - come dimostrano i documenti pubblicati ieri dal Fatto e come ammettono le fonti di Palazzo Chigi - le proposte teleguidate dei relatori. Non è stato un incidente burocratico. Non è stato un equivoco fra uffici. Non è stata una dimenticanza, una spietata leggerezza. Ma è stata una volontà politica, vidimata fra i doppi livelli di esecutivo e partito. Unica differenza: il governo non ha accettato, in quei giorni frenetici, il suggerimento di Calderoli e Finocchiaro che volevano (e vogliono ) interpellare la Consulta.
Il leghista, autore di porcate elettorali e dotato di sagacia tattica, non voleva sembrare uno sprovveduto né un difensore di una nuova categoria di privilegiati: i senatori non eletti, di fatto una squadra di fortunati politici locali. E così Calderoli ha sfidato il ministro Boschi a negare l'evidenza: l'immunità è un desiderio di Palazzo Chigi, non l'estremo, non l'unico, ma comunque di proprietà di Palazzo Chigi. Boschi non ha replicato a Calderoli, non ne ha avvertito l'esigenza. Ma non ha più importanza: perché Palazzo Chigi si è intestato la paternità di questa scelta.
L'ARCANO non esiste più. Anzi, non è mai esistito. Il ministro Boschi ha degradato a questione non "dirimente" (testuale) l'immunità perché era a conoscenza degli accordi fra Renzi e un gruppo di senatori. Non poteva smentire il premier. E il premier non ha smentito l'ultimo testo. Ma non hanno più valore le frasi di circostanza, le esternazioni quasi piccate di chi sosteneva con sicumera: se l'immunità è un problema, la togliamo. Forse adesso è un problema, ma l'hanno voluta. E sta lì, nel documento, come richiesto.
il manifesto 28.6.14
Bertinotti
«L’ordine nuovo di Renzi. Autoritario, non di sinistra»
intervista di Daniela Preziosi
L'intervista. «Il centrosinistra è storia chiusa. E quella di Sel non è neanche una scissione. Il premier è un Giano bifronte: populista dall’alto e insieme bonapartista». «Le mie colpe? Tre occasioni perse». «Ho votato Ingroia e con più vicinanza la lista Tsipras, ma non credo in queste strade». «Vendola e Migliore? Non sono il loro maestro, abbiamo condiviso la stessa comunità»
L’avvertenza, cordiale ma ferma, è che della politica politicante non vuole parlare. La sente, spiega, «come cosa lontana, faccio delle riflessioni, le scrivo, le rileggo e capisco che sono profondamente inattuali». Ma Fausto Bertinotti è la primo volto che viene in mente al combinato disposto delle parole ’sinistra’ e ’scissione’, ’centrosinistra’. Presidente della camera dal 2006 al 2008, poi leader della sinistra arcobaleno azzerata dalla vocazione maggioritaria. Ma prima segretario dal ’94 di Rifondazione comunista, quasi per imposizione del fondatore Armando Cossutta. Quel partito da lì ha infilato una serie di scissioni a destra e sinistra (anche Cossutta nel ’98 lo lasciò), fra sostegno e rotture con i governi di centrosinistra. Fino alla scissione della scissione, quella dei nostri giorni fra due uomini che gli sono stati vicinissimi: Nichi Vendola, a sua volta scissionista e fondatore di Sel; e Gennaro Migliore, ora vicino al Pd renzista. Una storia, e le scelte che hanno portato tutta la ’sinistra sinistra’ fino a qui — non in condizioni smaglianti — è storia di un’intera comunità. Lo incontriamo al quarto piano di un bel palazzo della Camera, sede di una fondazione — Cercare ancora — che a settembre traslocherà. Tempi duri. E non solo a causa spending review.
Presidente Bertinotti, lei sostiene ormai da anni che la sinistra non esiste più. Allora perché la sinistra continua a dividersi?
Questa divisione già dimostra che non c’è più. Quando c’era si chiamava ’scissione’. Si poteva persino evocare, lo fece Gramsci nel ’21, ’spirito di scissione’. C’è scissione se c’è, lo dico con Togliatti, ’rinnovamento nella continuità’, l’idea che da un albero può spezzarsi un un ramo e rimettere radici. Ma se non c’è continuità non c’è neanche rinnovamento, e allora la divisione è un esodo, una fuoriuscita. La storia della sinistra e del movimento operaio in Europa si è chiusa in tre cicli: la sconfitta del 900, riassunta nel crollo del Muro di Berlino; il Dopoguerra delle costituzioni democratiche, dei partiti e dei sindacati di massa, che termina con la sconfitta degli anni 80. Di qui, siamo al terzo ciclo, quei partiti si candidano a governare la modernizzazione. È il centrosinistra, una condizione ambigua e anfibia di cui in parte circola ancora l’eredità. Muore sepolto dalla nascita del capitalismo finanziario e dell’Europa reale, una tenaglia ne cancella le ultime tracce. E i partiti eredi completano la loro mutazione genetica. Erano i partiti dell’alternativa di società, diventano i partiti dell’alternanza di governo.
Renzi rappresenta il compimento di un ciclo o una ripartenza?
Renzi è un fenomeno importante. A sinistra abbiamo un tic, non accettare che i nostri avversari siano forti. Ricordiamo un vecchio carosello con Ernesto Calindri e Franco Volpi: si vedeva un aereo che volava, era la modernità, Volpi scuoteva la testa e diceva: ’el dura minga’. Renzi avvia una nuova fase: l’egemonia di una cultura postmoderna e postdemocratica, una gigantesca costruzione ideologica che copre come una coltre una realtà sfrangiata e devastata. Renzi è il portatore naturale della politica funzionale di questo nuovo ciclo, quello della governabilità come elemento totalizzante. La sua Weltanschauung è ’vincere e governare’, contro chi e per fare cosa non importa. Siamo alla morte delle famiglie politiche europee. I socialisti perdono ovunque. E invece Renzi che socialista non è — lasciamo stare la scelta governativa di aderire al Pse — non essendo socialista vince. Perché sceglie la trasversalità. È coevo a questo tempo, quello che ha sostituito lo scontro fra destra e sinistra con quello fra l’alto e il basso che noi imperfettamente chiamiamo populismo. E perché Renzi è fortissimo? Perché la sua trasversalità fonda il populismo dall’alto. È un Giano bifronte: per un lato populista, per l’altro è neobonapartista, cioè usa il populismo per plasmare il governo dall’alto. L’esito è neautoritario: un governo che si presume così, asettico, obbligato nelle scelte e privo di alternative, ’naturale’.
Eppure Renzi si presenta come un uomo di sinistra. E così viene percepito da molti suoi elettori.
No, non è vero. Persino la sua retorica è accuratamente trasversale, tanto che può permettersi alcune citazioni di sinistra. Il caso più clamoroso è l’adesione al Pse: i vecchi del Pd hanno disputato per anni se aderire o no. Era una discussione ridicola, caricaturale, ma le vecchie famiglie ancora confliggevano. Spazzate via queste famiglie, lui può aderire al Pse senza subirne il ricasco definitorio. Renzi non diventa socialista, è il partito socialista europeo che diventa renziano. La sua è un’uscita dalla storia socialista per presa d’atto della sua conclusione. Così restaura le feste dell’Unità: nessuno può accusarlo di essere comunista. Né democristiano. È trasversale.
Questa trasversalità assorbe tutto il campo della politica? A suo parere non c’è spazio per altro?
Alfredo Reichlin gli ha offerto la formula ’partito della nazione’. Ma, lo dico con rispetto, è una citazione del mondo antico. Il suo è il ’ partito del governo’. Non al governo, né di governo. La sua è una vocazione totalitaria in sintonia con questo capitalismo totalitario che ha l’ambizione di conquistare tutti al principio della competitività.
Lei, negli anni 90, è stato il fondatore, poi anche l’affondatore, dell’idea di una sinistra del centrosinistra. Non c’è più una sinistra che possa ambire a una dialettica con questa ’trasversalità’?
No, se resta nel recinto. Quel tentativo di mescolarsi è stato sconfitto. Allora c’erano due sinistre che si misuravano con la globalizzazione, con due idee opposte. Per capirci: governabilità contro altermondialismo. Era l’ultimo stadio della storia di quella sinistra, e la Rifondazione comunista era l’ultima ipotesi revisionistica. Fallita per la sconfitta e la mutazione genetica, e per il cambiamento radicale della scena prodotto dal capitalismo finanziario globale.
Posto che i vincitori hanno sempre le loro colpe, quali sono le colpe degli sconfitti, le vostre?
Le occasioni mancate. In Italia — e sto sulle ultime, non parto dall’XI congresso del Pci come farebbe Pietro Ingrao — sono almeno tre: lo scioglimento del Pci poteva essere diverso, qualche recriminazione di Occhetto che chiedeva innovazione nella tradizione aveva nuclei di verità; lì una comunità si smembra. Seconda occasione mancata, il movimento altermondialista, nel 2000 — 2001. Lì c’è il primo smacco del centrosinistra: all’avvio della globalizzazione e alla nascita dell’Europa di Maastricht neanche il tentativo timido ma interessante di Jospin viene sostenuto. Il centrosinistra italiano è tra i responsabile dell’uccisione di quel tentativo. E noi, poco dopo, e cioè all’avvento del movimento altermondialista, manchiamo l’ultima occasione, quella di devolvere ciò che era rimasto della sinistra di alternativa in quel movimento.
Lei era già il teorico del partito a rete. Sta dicendo che avrebbe dovuto fare di più, sciogliersi?
Avremo dovuto capire che il mondo dei partiti tradizionali era finito. E buttarci nel nuovo emergente orizzonte anticapitalista.
Rinunciando definitivamente all’idea repubblicana di una moderna democrazia dei partiti?
Avremmo dovuto reinventarci. I partiti attuali sono organizzazioni di ceto politico all’americana, che vive la stagione elettorale per la sola rappresentanza nelle istituzioni. E quelli così fatti, qualunque sia la loro collocazione, sono interni a un sistema neoautoritario in cui il governo è tutto. Persino Grillo che ha avuto la giusta intuizione che il sistema politico si abbatte e non si riforma, oggi viene catturato dalla logica di governo, per essere presentabile e per far parte del gioco politico .
Il sistema si abbatte da destra, nel caso di Grillo.
No, dal basso. Grillo è un sistema autoritario che tuttavia dà voce al conflitto dal basso. Così il Front di Le Pen e le formazioni populiste che intercettano il conflitto fra popolo e élite. La sinistra non c’è se non nasce da questo conflitto. Quella che pensa di rinascere nel recinto prenda atto che il recinto soffoca.
Nonostante i suoi certificati di morte, lei resta vicino alla sinistra che ci prova. Oggi a Tsipras, ieri a Ingroia. Lei è garantista: perché sosteneva un giustizialista?
Non avevo nessuna fascinazione per Ingroia, e non credo per niente a queste strade. Tuttavia se i miei parenti ci riprovano non mi metto contro. Li voto affettuosamente.
Così anche la lista Tsipras?
Qui ho un elemento in più. Tsipras mi intriga non per la nostra vicenda italiana ma perché indica una ricostruzione su scala europea invece che dalle prigioni nazionali.
Tsipras non corrisponde al suo modello: non è ’fuori dal recinto’. È un politico capace di aprire confronti con la socialdemocrazia.
Mi prende su una corda scoperta, le similitudini con una certa Riforndazione sono evidenti. Ma c’è una differenza: da dove viene Syriza? Nessuno mi dica che viene dalle formazioni precedenti alla grande rivolta. Il Synaspimos, da cui viene parte di questo gruppo dirigente, guadagnava a fatica il 2 per cento. Syriza ora veleggia verso il 40. Non mi si dica che c’è una parentela.
Il Synaspismos è uno dei padri, uno dei partiti della coalizione della sinistra radicale greca.
Anagraficamente sì, ma Syriza è la dimostrazione che la sinistra può nascere solo dalla rivolta, non dalle costole dei vecchi partiti.
Torno ai suoi ’parenti’ e alle loro divisioni. Sia Vendola che Migliore sono suoi allievi, il primo anche erede di una leadership, la sua, con tratti di personalismo. Oggi si separano, ma restano entrambi convinti della possibilità di una sinistra del centrosinistra. Come spiega la distanza dal maestro?
Non direi maestro, direi che abbiamo condiviso una stessa comunità. Conosco due modelli di leadership politica: una che figlia per discendenza diretta, quando un allievo assume tutto di un maestro, atteggiamenti fisici inclusi; e una che figlia orizzontalmente, penso a Ingrao, Magri, Rossanda, i miei maestri. Si parva licet, nel caso di Nichi e Gennaro riconosco il tratto della mia direzione e qualche scampolo di me. Ma politicamente sono molto diversi. Quanto al resto, con un gruppo di amici psicoanalisti lacaniani sto lavorando a capire perché a sinistra si producono conflitti mortali diversamente dalle altre storie politiche. I socialisti e i democristiani fanno scelte opposte ma restano affratellati. Noi deflagriamo. Quando avrò una risposta le dirò meglio.
Se il treno della rivolta non passa, da noi non ci sarà più sinistra?
Ne passerà un altro. Intendiamoci, per me rivolta è rottura: Occupy Wall Street, indignados, Grecia. Anche le primavere arabe: forme di lotta dal basso senza partito e senza leader che costruiscono nuove istituzioni, al di là dell’esito. L’altro fondamento è la coalizione sociale, le tessiture extramercantili di conflitti, autonomia, autogestione, autogoverno. Il riferimento è a fine 800 inizi 900: atelier parigini, Iww negli Stati uniti. Forme di contestazione fuori dalla tradizione organizzata. Oggi in Italia i No Tav ma anche il Cinema America e il Teatro Valle di Roma, le 160 aziende autogestite, i 200 scioperanti della Maserati. Rivolta è ciò che dal basso promuove conflitto contro le élite e si manifesta come irruzione di energia e di forza.
È una rivolta nonviolenta?
Lo spero, dipenderà dalla reazione delle classi dirigenti. Io credo che ci siano le condizioni culturali perché possa esserlo. La rivolta non è per forza maieutica della sinistra. Ma è il punto di rottura necessario. Come nel ’48, e in quella cosa straordinaria e magica che fu la Comune di Parigi.
Lei per primo guidò la sinistra radicale nelle primarie. Niente più primarie ormai?
Le primarie avevano un senso finché era ipotizzabile la riformabilità della sinistra politica. Oggi sono funzionali all’ordine nuovo neoautoritario del partito del governo. La verità è che noi che eravamo avversi al riformismo siamo stati gli ultimi a lavorare per salvarlo. E invece l’hanno ucciso. E si sono suicidati.
il Fatto 28.6.14
La tradizione orale grandi riforme? No, solo linee guida
Dalle slide ai proclami: il metodo del rensismo spopola in tv e arriva in Europa.
E i fatti sono la nebbia milanese di Totò e Peppino, che c’ò ma non si vede
di Fabrizio d’Esposito
Il renzismo c’è ma non si vede. Esattamente come la mitica nebbia milanese nella mala-femmina di Totò e Peppino. L’ultimo sviluppo della tradizione orale imposta dalla nuova era di Matteo Renzi ingloba adesso anche la delicatissima materia della giustizia, al centro dello scontro politico nel ventennio breve berlusconiano. Il dibattito sulla presunta riforma, annunciata dal Guardasigilli in un’intervistona a Repubblica, ferve da due giorni ma si basa appunto su proclami e intenti. Di scritto, nulla. Falso in bilancio, stretta o meno sulle intercettazioni, prescrizione, giustizia civile, responsabilità dei magistrati sono questioni tornate d’attualità solo in pagine di giornali e dichiarazioni d’agenzia. Qualcosa di concreto dovrebbe arrivare lunedì prossimo ma attenzione: nel Consiglio dei ministri la Grande Riforma della giustizia sarà truccata sotto forma di linee guida.
TUTTO il renzismo è impregnato di linee guida: la riforma della Pubblica amministrazione (sfociata poi in due decreti), quella del terzo settore, la presidenza del semestre europeo e ora la giustizia. Le linee guida sono un caposaldo della tradizione orale del governo (già raccontata da Salvatore Cannavò sul Fatto del 19 giugno scorso) e rischiano di trasformare il Pd non solo nel PdR, cioè il Partito di Renzi, ma anche nel nuovo Pnf, secondo la strepitosa battuta di Pietrangelo Buttafuoco: Pnf come Partito nazionale della fuffa. Di questo passo il renzismo postideologico del Terzo millennio porrà un serio problema agli storici di domani. Lo stesso che ha assillato generazioni di studiosi dell’Africa. La storia del continente nero è infatti definita come “civiltà della parola” per mancanza di fonti scritte e stabili. Tutto deriva della tradizione orale, appunto.
Oltre alla maschera delle linee guida, resa più sexy dal culto delle slide, un altro concetto chiave della propaganda del premier è il fatidico metodo. Il “metodo” si sta affermando in questi giorni europei molto intensi. Ancora non si sa cosa porterà a casa di fattuale Renzi, ma i suoi aedi girano di trasmissione in trasmissione ad annunciare che il “metodo di Matteo” ha spopolato in Europa. Esemplare, in merito, il sottosegretario Sandro Gozi, ex prodiano, che ha una faccia da secchione pignolo. L’altra mattina, a Omnibus, i giornalisti lo incalzavano sulla natura dei risultati raggiunti da Renzi nell’Ue. Lui, con ossessiva ripetitività, ha opposto sempre “la vittoria del metodo”. In che cosa consista il metodo non è però ben chiaro. Si torna alla metafora della nebbia di Totò e Peppino. Il metodo c’è ma non si vede.
SULLE PROMESSE e sulle linee guida Renzi ha messo la faccia centinaia di volte. Memorabile il suo duetto con Bruno Vespa nel marzo scorso, a Porta a Porta, sul pagamento dei debiti alle aziende da parte della Pubblica amministrazione. Il premier annunciò, sicurissimo di sé, l’azzeramento delle richieste entro la fine dell’estate. Il conduttore si mostrò scettico e lui rilanciò: “Al 21 settembre, ultimo giorno d’estate, se noi abbiamo pagato tutti i debiti della pubblica amministrazione Bruno Vespa fa un pellegrinaggio a piedi da Firenze e Monte Senario”. Il 21 settembre si avvicina, mancano meno di tre mesi, ma l’unica certezza è che l’Italia è stata colpita da una procedura di infrazione europea. Non solo. Tutti i pagamenti fatti sinora, 23,5 miliardi di euro su un totale di 68, sono merito soprattutto dei soldi stanziati dai precedenti governi di Mario Monti ed Enrico Letta. Archiviato il tormentone degli 80 euro, approvati per decreto quasi un mese dopo le elezioni europee (la specialità del Pnf è l’azzardo), il premier ha puntato tantissimo anche sulle riforme istituzionali, ridottesi alla fine nella querelle sul Senato non elettivo e di fatto congelando l’Italicum, la nuova legge elettorale. Qui, sul Senato, il renzismo delle linee guida e del metodo dovrà fare i conti con una variabile impazzita che ha già ingannato molti a sinistra: Silvio Berlusconi. Il Condannato, in vista della sentenza d’Appello del processo Ruby, sembra sempre più intenzionato a legare i suoi guai giudiziari al patto del Nazareno, sottoscritto con “Matteo”. Senza dimenticare i mal di pancia trasversali sul nuovo Senato, cosa succederà quando l’ennesima Grande Riforma resterà sulla carta per la marcia indietro dell’ex Cavaliere, gravato da una nuova condanna definitiva sulle spalle?
Giustizia, Pubblica amministrazione, riforme istituzionali. Il renzismo, a parole, non si è risparmiato nulla. Un altro grandioso annuncio è stato il Jobs Act, il piano per il lavoro. Ma tra spacchettamenti e legge-delega bisognerà attendere almeno il 2015 per vedere qualcosa di concreto. È la conferma ulteriore che siamo precipitati in una civiltà della parola. E quando gli storici rinverranno le slide renziane come fonti storiografiche, aggiorneranno il catalogo delle forme della tradizione orale.
Repubblica 28.6.14
Ma la Ue all’Italia: pareggio nel 2015
Malgrado l’accordo sulla flessibilità, le raccomandazioni del Consiglio sono più rigide di quelle di inizio giugno
Così il nostro Paese rischia di dover varare in autunno una manovra correttiva da almeno 25 miliardi
di Federico Fubini
ROMA. C’è un negoziato parallelo che si sta sviluppando a Bruxelles in queste settimane, più al riparo dai riflettori. Non attrae l’attenzione forse perché si gioca più sui dettagli tecnici che sulle grandi dichiarazioni di principio. Ma per l’Italia e per le dimensioni della manovra finanziaria in arrivo a ottobre, fa un’enorme differenza. E per il momento non sta andando come il governo avrebbe voluto: i documenti ufficiali dicono che sul proprio specifico piano di finanza pubblica il governo non ha ottenuto la «flessibilità» che chiedeva.
La posta in gioco è quella che ha dichiarato Pier Carlo Padoan nella sua lettera alla Commissione europea del 16 aprile scorso. In quella comunicazione, il ministro dell’Economia annunciava che l’Italia avrebbe rallentato il passo del risanamento di bilancio: l’obiettivo del pareggio «strutturale », ossia scontando l’impatto della recessione da cui il Paese è appena uscito, sarebbe slittato di un anno. Padoan scrisse che l’Italia avrebbe raggiunto il pareggio nel 2016, non nel 2015 come concordato in precedenza. Non si tratta di un dettaglio da poco, perché ne va della taglia della correzione che dovrà imporre la Legge di bilancio in arrivo ad ottobre. Con lo slittamento degli obiettivi al 2016, poteva essere meno pesante. Senza, la manovra d’autunno rischia di profilarsi invece come un’operazione da circa 25 miliardi: quanto serve a coprire il bonus Irpef e gli altri impegni presi dal governo, senza perdere il controllo del debito pubblico.
Lo spazio sul debito del resto è ridotto: ieri è emerso che nei primi quattro mesi dell’anno il debito è cresciuto di 77 miliardi, ossia quasi quanto in tutto il 2013. Quest’anno il volume dell’onere dello Stato salirà a quota 2150 miliardi e, superando la Germania, sarà terzo al mondo per volume finanziario dopo Stati Uniti e Giappone. Solo l’anno scorso, i contribuenti hanno pagato 82 miliardi solo in interessi sul debito dello Stato e nel 2014 replicheranno.
Il negoziato in corso a Bruxelles si innesta qui. La novità passata sottotraccia nel vertice appena concluso è che la proposta del governo di rinviare il pareggio di bilancio per ora è stata respinta. Addirittura i leader, incluso il premier Matteo Renzi, hanno dato il loro « endorsement » (appoggio, approvazione) a un documento ufficiale che raccomanda all’Italia di fare l’opposto di ciò che aveva chiesto: il pareggio già l’anno prossimo, non nel 2016. Si tratta del testo della «raccomandazione del Consiglio» (cioè dei governi) su proposta della Commissione europea riguardo al programma di stabilità italiano. Si tratta di una risposta ragionata degli altri Paesi al piano finanziario dell’Italia, come si fa per tutti i governi.
Quella raccomandazione contiene una sorpresa importante, perché è più intransigente persino di quanto suggerito dalla Commissione europea. Quest’ultima aveva chiesto all’Italia il due giugno: «Nel 2015 (bisogna, ndr) rafforzare in modo significativo la strategia di bilancio per garantire le esigenze di riduzione del debito». Quel testo ora è stato inasprito e ieri i capi di Stato e di governo hanno dato il loro «endorsement» al più alto livello politicolegale in Europa. Le modifiche sono state apportate in una riunione del Comitato economico e finanziario a Bruxelles. Presieduto dall’austriaco Thomas Wieser, il Comitato Ecofin riunisce i direttori del Tesoro di tutti i Paesi per preparare le conclusioni dei vertici dei ministri finanziari: per l’Italia partecipa il direttore generale del Tesoro Vincenzo La Via, anche se la cooperazione fra Palazzo Chigi con le strutture tecniche del ministero dell’Economia in questi mesi è stata molto meno che eccellente.
Di solito nel Comitato Ecofin si negozia fra sherpa per diluire, non per inasprire, le proposte di raccomandazione ai Paesi avanzate dalla Commissione europea. Questa volta all’Italia è accaduto l’opposto. Il testo ora recita: «Nel 2015 (...) Il Consiglio raccomanda all’Italia di garantire le esigenze di riduzione del debito e così raggiungere l’obiettivo di medio termine (il pareggio di bilancio strutturale, ndr) ». Non solo. Si chiede anche di «assicurare il progresso» verso il pareggio già nel 2014. In sostanza si chiede una maggiore correzione dei conti già quest’anno e si respinge la richiesta di slittamento del pareggio per il prossimo.
Era stato evidente dall’inizio che la strategia di bilancio del governo Renzi sollevava forti perplessità nel resto d’Europa, come anticipato da Repubblica ( «I dubbi di Bruxelles sul piano Renzi», 20 aprile). Il fatto che la lettera di Padoan in aprile non ebbe una prima risposta a livello politico, ma burocratico, era già una prima spia proprio di un problema politico, non uno sgarbo personale al ministro. Adesso i nodi sono venuti al pettine. Non sarà facile ribaltare gli equilibri, dopo il via libera di ieri dai capi di Stato e di governo dell’Unione. Ma il vertice Ecofin del prossimo mese si annuncia tempestoso, perché tutto si deciderà lì.
Repubblica 28.6.14
“Altro che flessibilità, il potere ce l’ha la Commissione”
di Eugenio Occorsio
«Mi sembra fuori luogo, o perlomeno prematuro, quest’ottimismo sulla “conseguita flessibilità” in Europa. Perché tutti parlano di accordo fra Stati? C’è solo una sorta di intesa fra il premier italiano e il cancelliere tedesco sul relativo ammorbidimento di alcuni parametri ma nulla è deciso, tutto andrà verificato con la nuova Commissione». Daniel Gros, il tedesco che si laureato in economia alla Sapienza di Roma prima di andare a prendere il PhdD a Chicago, direttore del Ceps di Bruxelles (Centre for European Policy Studies), getta acqua sul fuoco. «Attenzione - insiste - perché non basterà neanche l’appoggio del presidente Juncker, che pure è stato nominato con il decisivo appoggio italiano e tedesco, perché servirà una maggioranza forte all’interno della Commissione e soprattutto la convinzione ferma del nuovo commissario agli Affari Economici che, come insegna Olli Rehn, è molto più potente del successore di Barroso».
Però, professore, converrà che un appoggio
politico di base è propedeutico a qualsiasi accordo. Oppure è inutile?
«Senta, le ricordo che ci sono delle regole comuni fissate con il Six Pack, molto rigide, precise e cogenti. L’Italia è stata fra i più convinti sostenitori di esse, ora vuole disattenderle? E gli altri, alla prima occasione le bypassano?
Non si possono fare e disfare le norme a seconda degli accordi politici» Insomma Renzi ha sbagliato indirizzo andando a tirare per la giacchetta la Merkel sino a farle ammettere che bisogna essere più flessibili?
«Intendiamoci, Renzi è stato molto bravo nel suo approccio all’Europa. Ha condotto una campagna elettorale basata non sulla lamentazione perché l’Ue è un “cattivo tiranno” ma tutta in positivo sull’idea dell’integrazione, e ha conseguito una vittoria nettissima. A lui va buona parte del merito se nel Parlamento di Strasburgo c’è una solida maggioranza pro-Europa. Ora però deve fare un uso attento del suo prestigio e non favorire lo scavalcamento di regole comuni che sono invece molto preziose. Mi sembra un po’ arbitrario pretendere che le riforme diano automaticamente diritto alla flessibilità».
Ma, guardando nel merito, non ritiene che se viene accordata questa benedetta flessibilità all’Italia, ne potrebbe uscire un quadro di sviluppo dal quale alla fine beneficerebbe tutta l’Europa?
«Guardiamola al contrario: l’Italia non dovrebbe chiedere più margini per se stessa. Cosa potrà ottenere? Lo 0,1-0,2% in più? Sarebbe produttivo invece provare a convincere la Germania a spendere di più. È l’unica che se lo può permettere: dovrebbe investire sulle sue infrastrutture, sul mercato interno, la produzione industriale. Allora sì che i benefici per tutta l’Unione sarebbero evidenti e tangibili. Sarebbe una bella prova di unità: quasi miracolosamente da un sondaggio post-elettorale è uscito che il 40% degli europei ancora crede nel Parlamento di Strasburgo, più degli americani che credono nel Congresso. Non dissipiamo questo patrimonio».
Repubblica 28.6.14
I big della grande distribuzione: giugno magro nonostante gli aiuti Scadenze fiscali e disoccupazione allontanano la gente dai negozi
Il bonus da 80 euro rimane nel portafoglio impatto zero sui consumi
di F. Fub.
IN QUESTI giorni per la seconda volta dieci milioni di italiani trovano sui conti bancari, nelle buste paga e nei cedolini della pensione, gli 80 euro (circa) del bonus Irpef. Giugno è stato il primo mese nel quale il loro potere d’acquisto è aumentato con lo sgravio concesso dal governo. Per tirare le somme è presto. Impossibile capire se davvero si sia innescato il circolo virtuoso sperato: una spinta ai consumi e uno stimolo alla domanda di beni e servizi, tale da far ripartire le vendite e dunque anche la produzione delle imprese rivolte al mercato italiano.
Non è presto però per cercare di misurare se i primi 80 euro in busta paga (o nel cedolino previdenziale), quelli versati un mese fa, abbiano provocato un primo risveglio delle vendite al dettaglio. La risposta, per il momento, è no. Non sembra sia successo. Né la ristorazione a basso costo, né la grande distribuzione organizzata sembrano aver registrato il benché minimo incremento dell’attività in giugno rispetto a maggio. Né Esselunga, né la rete dei punti vendita Coop riferiscono di aver notato un’inversione, soprattutto non in senso positivo. Sommate, le due grandi concorrenti italiane pesano per quasi un terzo della rete di supermercati e ipermercati sul territorio nazionale, con un fatturato annuo cumulato di quasi venti miliardi. Ma per nessuna delle due, per il momento, il bonus da 80 euro sembra aver fatto alcuna differenza.
Francesco Cecere, direttore del marketing Coop, in giugno non ha notato svolte nella capacità di spesa degli italiani. Però ha trovato la conferma di un nuovo fenomeno: «Le famiglie di età medio-alta stanno incrementando i consumi, mentre quelle giovani continuano nella tendenza alla contrazione». Secondo le analisi svolte a Coop, molti giovani con figli mangiano sempre meno spesso a casa propria e preferiscono andare dai genitori, per risparmiare. Tocca a questi ultimi, spesso pensionati, magari beneficiari del bonus Irpef a differenza dei figli che non guadagnano abbastanza per avervi diritto, a fare più spesa: devono mettere a tavola anche figli e nipoti.
Roberto Masi, amministratore delegato di McDonald’s Italia, conferma le stesse tendenze. Il fatturato in Italia della catena americana è in calo del 3% rispetto a un anno fa e in lievissima flessione, decisamente meno dell’1%, in giugno rispetto a maggio. Gli italiani non hanno speso i loro 80 euro di bonus andando più spesso a mangiare un hamburger con una bibita. Masi osserva che possono esserci spiegazioni episodiche: «Nel mese dei mondiali, le famiglie preferiscono restare a casa a guardare le partite - dice - Gli italiani escono meno spesso».
Soprattutto, il mancato aumento dei consumi nel primo mese del bonus può avere motivazioni più generali. In una parte dei Comuni a metà giugno i proprietari di casa hanno dovuto pagare la Tasi, la nuova tassa sui servizi urbani. Per le imprese, anche quelle a conduzione familiare, sono arrivate poi le scadenze Iva. Serviranno dunque alcuni mesi per valutare se il bonus possa avere un impatto al netto degli impegni fiscali.
Un sondaggio dell’Istat pubblicato giovedì segnala però che potrebbero esserci altre forze a frenare. In giugno il clima di fiducia dei consumatori è sceso, così come i giudizi sulla situazione economica della famiglia e sulle prospettive familiari future. Non tutto è negativo. Segnala Cecere, di Coop, che le risposte ai sondaggi dei loro consumatori mostrano «un ritorno di speranza nel futuro, se non proprio di fiducia». Certo in Italia il clima sull’economia rilevato dalla Commissione Ue è ancora in calo, mentre in Spagna è ai massimi dal 2007. E il motivo è facile da capire: secondo l’Istat, in giugno sono aumentate le persone che prevedono o temono la disoccupazione.
Un bilancio sull’impatto degli 80 euro è dunque prematuro. Ma non lo è per azzardare una previsione: non aiuteranno a far ripartire i consumi, fino a quando le imprese non saranno in condizioni di riprendere a creare posti di lavoro. Ma per quello, forse, serve qualcosa più di uno sgravio da 80 euro sull’Irpef.
il Fatto 28.6.14
Renzi con la flessibilità può fare il re in Italia
In nome dell’”abbiamo promesso all’Europa” il parlamento è suo
di Stefano Feltri
Bruxelles. Matteo Renzi si è guadagnato il diritto di provarci, ma nessun regalo o sconto automatico. “È stato un Consiglio europeo tosto”, dice il premier quando arriva in sala stampa dopo quasi dieci ore di negoziati. Questa volta ha studiato, si è preparato sul risiko delle nomine e ha appreso l'arte tutta europea di celebrare come successo una impercettibile sfumatura verbale. L'Italia esulta perché nel documento programmatico per la legislatura europea che si apre c’è un riferimento al “miglior uso della flessibilità” nel rispetto “delle regole esistenti”. A dicembre la Commissione riferirà al Parlamento sui risultati della gabbia del rigore composta dalla combinazione di six pack (riduzione del debito, contenimento del deficit) e two pack (approvazione preventiva da Bruxelles delle leggi di bilancio). E solo allora si aprirà, forse, il dibattito su come cambiare davvero le regole.
IL PATTO di stabilità e crescita e tutte le sue evoluzioni, da Maastricht al Fiscal compact, impone vincoli e rigidità: dal tetto del 3 per cento al rapporto tra deficit e Pil all'obbligo del pareggio di bilancio strutturale alla riduzione del debito. Ma Renzi rivendica il diritto ad avere anche un po' di “flessibilità”. Due esempi concreti dal premier: l'Italia è sotto procedura di infrazione perché non sta pagando i fornitori della Pubblica amministrazione a 30 o 60 giorni, ha avviato una riforma che rende obbligatoria la fattura elettronica in modo da rendere i pagamenti più veloci e al contempo rischia altre sanzioni perché, per saldare il pregresso, sta accumulando debito pubblico. Renzi, come ha già fatto nel Documento di economia e finanza, vuole che i costi delle riforme strutturali (come il pagamento dei debiti arretrati) non vengano conteggiati ai fini dei parametri europei. Secondo esempio: l'Italia rischia di perdere miliardi di euro di fondi europei del bilancio 2007.-2013 perché le Regioni o gli enti locali non hanno i progetti pronti o non possono spendere la loro parte (il co-finanziamento che integra le risorse europee) a causa del patto di stabilità interno, cioè la declinazione sul territorio dei vincoli europei. Come ha proposto il vice-cancelliere tedesco Sigmar Gabriel (socialista), Renzi vorrebbe che i soldi del co-finanziamento venissero scorporati dal conto del deficit ai fini del patto di stabilità. Una richiesta che però in parte si sovrappone e complica il ricorso al margine di flessibilità ottenuto ai tempi di Mario Monti ed Enzo Moavero, cioè la “clausola per gli investimenti” che poi l'Italia non è riuscita a usare perché il governo Letta non ha rispettato i parametri. “Il pacchetto delle nostre riforme e delle nostre proposte sulla flessibilità sarà pronto il primo settembre, ora capite meglio i mille giorni che ci siamo dati, perché le riforme devono avere lo stesso orizzonte temporale delle proposte sulla flessibilità”, dice il premier.
Tutta teoria, quindi, l'unica cosa concreta è la ricaduta di politica interna che Renzi spera di incassare: adesso le riforme renziane - da quelle istituzionali al mercato del lavoro al fisco - andranno fatte non perché “ce lo chiede l'Europa” ma perché “lo abbiamo promesso all'Europa in cambio della flessibilità”. Una nuova versione del vincolo esterno che generazioni di leader italiani, da Giulio Andreotti a Romano Prodi a Mario Monti, hanno usato per vincere le resistenze dei partiti o delle correnti. Renzi conta sulla sponda del sempre più debole François Hollande: in conferenza stampa il presidente francese ha sottolineato l'importanza della flessibilità rifiutandosi di rispondere alla domanda se la Francia riuscirà ad avere un deficit al 3 per cento nel 2015 (al momento le stime dicono 3,9, e scatterebbe di nuovo la procedura d'infrazione). Ma Renzi sa che le sue conquiste per il momento sono scritte sull'acqua, possono diventare tutto e niente, dipende dalla forza politica. E molto dipenderà dalle nomine della nuova Commissione. Il governo italiano continua a chiedere l'Alto rappresentante per la politica estera, cioè il ministro degli esteri dell'Unione, per Federica Mogherini, oggi alla Farnesina a Roma. Ma il premier farà di tutto per pesare anche sulle poltrone economiche che contano: se al posto di Olli Rehn agli Affari economici andrà Jirky Katainen , altro finlandese che si è dimesso da premier proprio per andare a Bruxelles, difficile che prevalgano le interpretazioni
morbide dei vincoli di bilancio. Mogherini a parte, l'altra certezza di Renzi riguarda il destino di Enrico Letta. Secondo alcuni retroscena, l'ex premier era un potenziale candidato alla presidenza del Consiglio europeo al posto di Herman van Rompuy: “In Europa ci sono tre top job, la guida della Commissione, quella del Consiglio e quella della Bce. C'è già un italiano alla Banca centrale, Mario Draghi, non si possono avere due posizioni di vertice. E ai vertici europei nessuno ha mai fatto il nome di Letta, né formalmente né informalmente”. Fine della discussione.
Repubblica 28.6.14
Se Renzi si ispira a Schroeder e Blair
di Luciano Gallino
NEL discorso volto a illustrare in Parlamento le linee programmatiche del semestre di presidenza italiano della Ue il presidente del Consiglio Matteo Renzi, riportano i giornali, ha detto che “la Germania di Schroeder nel 2003 ha scelto un pacchetto di riforme molto importanti, che oggi consentono a quel paese di essere più degli altri fuori dalla crisi”. Alcuni giorni prima, a Bruxelles, Renzi aveva dichiarato di voler ispirare il suddetto programma al manifesto rilasciato da Schroeder e Blair nel 1999 allo scopo di modernizzare sia la socialdemocrazia che lo stato sociale. Ambedue le dichiarazioni di Renzi sono preoccupanti per il futuro del lavoro e dello stato sociale nel nostro paese. Vediamo perché.
Il manifesto Schroeder-Blair del 1999, che s’intitolava La strada in avanti per i socialdemocratici d’Europa , conteneva una serie di propositi che parevano scritti non da politici di sinistra, bensì da avversari storici della socialdemocrazia, quelli per cui lo stato sociale è sempre stato soltanto un intralcio sulla via della prosperità economica. Tra i tanti: “La strada della giustizia sociale era lastricata con spese pubbliche sempre più alte… [ma essa] non si può misurare dal livello delle spese sociali”; “Un unico posto di lavoro per tutta la vita appartiene al passato. I socialdemocratici debbono accogliere le crescenti richieste di flessibilità”; “Le riduzioni d’imposta alle società rafforzano la redditività e creano stimoli all’investimento”; “La riduzione dei costi addizionali del lavoro per mezzo di riforme strutturali della sicurezza sociale… ha un particolare significato.”
In Germania, i propositi del manifesto del ‘99 divennero la base della cosiddetta Agenda 2010 varata dal cancelliere Schroeder nel 2003. È appunto il pacchetto di leggi, emanate nel giro di alcuni anni, cui si riferiva Renzi nel suo discorso alla Camera. Esso ha dato origine a peggioramenti delle condizioni di lavoro per milioni di lavoratori tedeschi ed a tagli della spesa sociale (in specie indennità di disoccupazione, pensioni e sanità) quali non si erano mai visti dalla fondazione della repubblica federale. L’anno scorso, in occasione del decennale dell’Agenda 2010, sono stati pubblicati in Germania numerosi rapporti ricchi di dati. C’è solo da scegliere. Sul fronte del lavoro, i risultati principali sono stati un forte aumento delle occupazioni precarie e della quota di lavoratori che percepiscono un basso salario. Dal 2003 al 2012 il numero dei lavoratori in affitto è triplicato, passando da poco più di 300.000 a 900.000. I contratti a tem- po determinato, la maggior parte di breve durata, hanno conosciuto un incremento esplosivo. Più della metà degli occupati fino a 35 anni ha soltanto un contratto di tal genere. Il numero dei lavoratori a basso salario ha raggiunto nel 2012 gli 8 milioni, quasi un quarto degli occupati. In Germania “basso salario” (Niedriglohn) non è un modo di dire. Corrisponde a due terzi della media della paga oraria lorda. Nel 2013 il basso salario ammontava nella Germania ovest a 10 euro e qualcosa, pari a poco più di 6 euro netti. Mentre nella Germania est era ancora più basso, di circa due euro.
Altri effetti dell’Agenda 2010 sono stati un forte incremento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Al vistoso aumento dei lavoratori a basso salario ha fatto riscontro un analogo aumento dei lavoratori a salario elevato. Mentre la concentrazione di ricchezza nella mani di poche migliaia di famiglie ha toccato livelli inauditi, tali da collocare la Germania nel gruppo di testa dei paesi più disuguali del mondo.
Sul fronte della spesa sociale è stata fortemente ridotta l’indennità di disoccupazione, in parallelo con un forte inasprimento delle condizioni per ottenerla. Tra di esse rientra anche l’impegno ad accettare qualsiasi occupazione venga offerta, anche se questa risulti al disotto della propria qualifica professionale, pagata meno della precedente, e lontana da casa. È stato aumentato il contributo dei lavoratori al sistema sanitario e diminuito quello delle imprese. L’assegno per i neo-pensionati è stato ridotto del 5 per cento circa, anche quando si tratta di poche centinaia di euro al mese, mentre le pensioni in vigore hanno subito un taglio di quasi il 7 per cento. Dinanzi a questi risultati negativi delle riforme di Schroeder, che hanno messo in atto i precetti del manifesto del 1999, il presidente Renzi potrebbe obiettare, per citare ancora il suo discorso alla Camera, che esse consentono oggi “a quel paese di essere fuori, più degli altri, dalla crisi”. Il fatto è che dette riforme non c’entrano nulla con il successo della Germania nel fronteggiare la crisi. Lo dicono anzitutto i dati. L’occupazione totale, misurata dal numero di ore lavorate, non è affatto aumentata dal 2000 in poi, e rispetto ai primi anni 90 è addirittura diminuita. Nel 1991 il volume di ore lavorate in Germania toccava i 60 miliardi. Nel 2000 era sceso a 58 miliardi, e tale è rimasto fino al 2012. Il numero degli occupati in tale anno - 41,5 milioni - era tenuto alto dal cospicuo aumento di precari e di occupati a tempo parziale. In altre parole lo stesso volume di lavoro era suddiviso tra un maggior numero di persone, le quali grazie alle statistiche che non distinguono tra chi lavora 40 ore la settimana e chi ne lavora 15, figurano tutte come occupate. In secondo luogo studi recenti hanno posto in luce come il rilancio dell’economia tedesca sia cominciato assai prima delle riforme di Schroeder. Il suo motore principale è stata la stagnazione dei salari reali, imposta dalle imprese già alla fine degli anni 90 in accordo con i sindacati, accoppiata a un forte aumento della produttività. È questa la dissociazione che ha permesso alla Germania di conquistare il primato dell’export sull’import, che ha toccato negli ultimi tempi i 200 miliardi l’anno.
D’altra parte non conta poi molto se il presidente Renzi si sbaglia nel collegare l’Agenda 2010 al successo tedesco nel gestire la crisi. Ciò che preoccupa è che i suoi ripetuti richiami a un manifesto politico e a riforme concepite quindici anni fa, che nell’insieme hanno compendiato il peggio delle politiche di austerità imposte via via alle popolazioni europee non solo dalla Troika di Bruxelles, ma pure dai loro governi, prefigurino davvero le politiche economiche e sociali che Matteo Renzi intende attuare in Italia nel prossimo futuro, sia lungo o no mille giorni.
Corriere 28.6.14
Parlamento senza tetto agli stipendi
Bisogna trattare con 25 sindacati
Il percorso a ostacoli per applicare il limite di 240 mila euro
di Enrico Marro
ROMA — L’altro ieri l’ufficio di presidenza della Camera ha approvato il bilancio pluriennale 2014-16 che verrà portato all’esame dell’aula il 21 luglio. Le spese di Montecitorio, assicura un comunicato, diminuiranno di 138 milioni in due anni. Un piccolo segnale rispetto al totale delle spese di funzionamento della Camera che ammonta a circa un miliardo l’anno. Segnale al quale tra l’altro non contribuisce, almeno per ora, il tetto di 240 mila euro lordi alle retribuzioni, già in vigore da maggio per tutti i dirigenti pubblici in virtù del decreto legge 66 del governo, ma che alla Camera, come al Senato, non può essere applicato. Affinché il tetto sia valido anche per i dirigenti del Parlamento, che nelle posizioni di vertice guadagno il doppio, c’è infatti bisogno di una autonoma decisione delle camere, che arriverà però solo dopo una trattativa con i sindacati. I quali, incredibile ma vero, sono 25: 11 alla Camera per circa 1.400 dipendenti (una sigla ogni 127 lavoratori) e 14 al Senato per 820 dipendenti (una organizzazione ogni 58 addetti).
Questa mission impossible è affidata alla Camera al «Cap», il Comitato per gli affari del personale guidato dalla vicepresidente Marina Sereni (Pd), e al Senato alla «Rappresentanza permanente» diretta dalla vicepresidente Valeria Fedeli, anche lei del Pd. Entrambe vorrebbero procedere insieme e chiudere la partita prima delle ferie d’agosto, ma al momento non esiste neppure la proposta da presentare ai sindacati. I due uffici, nei quali sono presenti parlamentari della maggioranza e dell’opposizione, si sono riuniti due volte, l’ultima l’altro ieri, ma senza trovare un accordo. Si fronteggiano infatti due posizioni: una, maggioritaria, che vorrebbe sì il tetto di 240mila euro, ma al netto degli oneri previdenziali e di indennità varie; l’altra, del Movimento 5 stelle, per il quale «il tetto deve essere onnicomprensivo, altrimenti si realizza un aggiramento dello stesso», dice Riccardo Fraccaro membro del Cap. Basti pensare che gli oneri previdenziali valgono da soli più di 71 mila euro l’anno per il segretario generale della Camera e più di 40mila euro per la metà dei consiglieri.
Ma, al di là della difficoltà di arrivare a una proposta da presentare ai sindacati, il problema è che l’applicazione del tetto comporterebbe un taglio forte, in alcuni casi fortissimo, della retribuzione di almeno il 40% del personale. Non si può infatti applicare semplicemente il limite dei 240mila euro (che pure colpirebbe 88 consiglieri solo alla Camera) senza riparametrare tutte le fasce stipendiali. Altrimenti si avrebbe il paradosso che il vertice, cioè il segretario generale, prenderebbe quanto un documentarista o un tecnico ragioniere. Quindi, per mantenere le giuste proporzioni, se il segretario generale, che oggi prende circa 480 mila euro lordi , dovesse scendere a 240 mila, dovrebbero essere messi dei tetti a scalare per le qualifiche inferiori. Il clima tra i dipendenti rasenta la rivolta. Chi può, nel caso passassero i tagli, avrebbe convenienza ad andare in pensione: prenderebbe di più, visto che sulle pensioni almeno per ora non si parla di tetti e considerando che i lavoratori più anziani godono ancora di età di accesso al pensionamento anticipato e di regole di calcolo dell’assegno estremamente favorevoli.
Ma perché quello che il governo ha stabilito con l’articolo 13 del decreto 66, cioè il tetto di 240mila euro lordi non può essere applicato a Camera e Senato? Perché il Parlamento gode della «autodichia», conseguenza dell’articolo 64 della Costituzione. L’autodichia significa che le Camere hanno una giurisdizione riservata sullo status giuridico ed economico dei propri dipendenti, che viene quindi definito attraverso atti interni, non modificabili dalla legge. L’istituto, nato per garantire l’indipendenza del Parlamento, ha tuttavia dato luogo a un insieme di trattamenti retributivi e pensionistici privilegiati. Di recente sull’autodichia si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza 120 (pubblicata lo scorso 14 maggio sulla Gazzetta ufficiale) redatta da Giuliano Amato. Il caso riguardava un dipendente del Senato che in una controversia di lavoro voleva essere giudicato dalla magistratura ordinaria anziché dagli organi interni di Palazzo Madama e chiedeva quindi fosse dichiarata l’incostituzionalità dell’autodichia. Amato ha respinto la richiesta, ma solo per un fatto formale, cioè perché la Corte non è competente ad esprimersi sui regolamenti parlamentari in quanto non sono leggi. Il «dottor Sottile», tra le righe, ha però suggerito una via d’uscita al governo. Che se davvero volesse mettere in discussione il raggio d’azione dell’autodichia potrebbe sollevare «un conflitto di attribuzione» contestando che i regolamenti parlamentari possano disciplinare anche i rapporti di lavoro (in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna infatti non è così, osserva Amato). In quel caso, conclude la sentenza, la Corte potrebbe «ristabilire il confine tra i poteri». Chissà che non debba finire così.
Repubblica 28.6.14
Immigrati, salta l’accordo sulla reciprocità dell’asilo Frontex avrà più fondi
di Alberto Custodero
ROMA. Scompare la reciprocità di asilo. «Ma l’Italia - ha detto Matteo Renzi - ha messo la base per poter finalmente dare vita ad un Frontex plus», allargandone l’operatività con una polizia frontaliera unica per la gestione dei confini. E con maggiori fondi.
«E questo - ha aggiunto - ci permette di stare un po’ meno da soli nel Mediteraneo». Ad indicare l’uscita italiana dall’isolamento sono le conclusioni che individuano Frontex come uno «strumento della solidarietà europea» che dovrà «sostenere quei Paesi che affrontano una forte pressione», come l’Italia, che in soli sei mesi ha registrato 50mila arrivi, superando così il totale dei migranti sbarcati in tutto il 2013.
È la prima volta, va sottolineato, che la Ue fa proprio il principio della “solidarietà”, e apre a una gestione comune delle frontiere. Ma è un fatto che l’Italia non abbia incassato il risultato sperato.
Lo ammette, del resto, lo stesso premier. «L’accordo sul documento finale è buono - commenta - anche se ha visto l’esclusione del passaggio sull’asilo che noi avremmo preferito restasse». Di questa “esclusione” voluta dai Paesi del Nord Europa hanno approfittato le opposizioni per sparare alzo zero contro il segretario Pd. «Il governo italiano è stato sconfitto - tuona Deborah Bergamini, Fi - si continua a scaricare sui Paesi d’arrivo, come l’Italia, anche la permanenza dei rifugiati». «Sull’immigrazione chiosa il segretario del Carroccio, Matteo Salvini - Renzi cala le braghe». «Nessuna parola - critica Giorgia Meloni, FdI-An - sui costi dell’accoglienza che resteranno a carico nostro».
l’Unità 28.6.14
Gelo demografico, più vicino il punto di non ritorno
Le imprese globali non investono in Paesi a bassa natalità come il nostro
di Nicola Cacace
«LE NASCITE DIMINUISCONO PER IL QUINTO ANNO CONSECUTIVO, ATTESTANDOSI A 514 MILA NEL 2013, DI CUI UN QUINTO DA STRANIERE. Il numero medio di figli per donna scende a 1,39». Il testo del secco comunicato dell’Istat deve preoccupare soprattutto i politici. Quando in Italia nascevano un milione di bambini l’anno, sino al 1975, con una popolazione di 55 milioni (oggi siamo più di 60), 25 anni dopo c’erano mezzo milione di potenziali madri, tra 25 anni le mamme saranno solo 250mila, o faranno 4 figli ciascuna, cosa impossibile, o il Paese tocca il punto di non ritorno.
Che significa? Come è successo spesso nei 4000 anni di storia conosciuta, interi popoli, Paesi e città sono passati dalla prosperità alla povertà, dai milioni di abitanti alle poche migliaia, come Roma tra l’anno zero ed il Medio Evo, passata da più di un milione a meno di 100mila. E non si può pensare di risolvere tutto con le immigrazioni, che sono, è vero un fenomeno mondiale in crescita come tutta la mobilità da quella turistica a quella lavorativa.
Il massiccio afflusso di immigrati in Italia segue un trend mondiale, 4 milioni di immigrazione netta nel decennio 2000-10 è necessaria per riempire il buco demografico ma, oltre ad alimentare derive xenofobe per la velocità con cui avviene, non risolve il problema dell’invecchiamento della popolazione e neanche quello della natalità. In pochi anni le donne straniere si adeguano al modello italiano, nel 2006 avevano 2,7 figli a testa, nel 2013 ne hanno avuto 2,2. Anche a causa della crisi del Paese, il flusso migratorio netto annuo è passato dai 400mila degli anni 2000 ai meno di 300mila del 2013 e scenderà ancora. Il Paese diventerà sempre più multietnico ma non è detto che la «pezza» immigrazione, pur necessaria per non fermare il Paese, in agricoltura, industria, servizi e soprattutto nelle famiglie, oltre a continuare a pagar le pensioni, sia sufficiente ad impedirne il collasso economico.
Il problema non è solo demografico è anche economico, come ben sanno gli economisti, quelli veri. Le multinazionali non investono nei Paesi vecchi. Le multinazionali investono nei Paesi giovani per una duplice serie di motivi, attinenti alla domanda ed all’offerta. I Paesi giovani sono ad alta crescita del Pil e quindi con una domanda attrattiva, a differenza dei paesi vecchi. I Paesi giovani dispongono di un’offerta di lavoro giovane, altamente ricercata dalle multinazionali. Tutti i dati lo dimostrano.
Da anni gli Ide, investimenti diretti esteri, cioè quelli diretti alla produzione, si sono massicciamente spostati dai paesi industriali a quelli emergenti, Asia, Africa ed America latina. Anche l’Africa subsahariana, pur con decine di Paesi, Nigeria, Ghana, Sudan, in preda a guerre tribali, sta raccogliendo Ide crescenti. In Europa gli unici Paesi con una quota di Ide sul Pil intorno al 2% sono stati, nel 2012, Olanda, Svezia, Gran Bretagna e Francia, Paesi con tasso di natalità pari o prossimo ai 2 figli per donna. Mentre i Paesi a più basso tasso di natalità, Italia e Germania, 1,3 figli per donna, hanno ricevuto investimenti dall’estero prossimi allo zero% del Pil. Addirittura il Giappone, altro Paese a bassa natalità Ide pari a zero secco.
Se questa è la diagnosi, assai nera, quali sono le cure? Di tre tipi, anzitutto occupazione non precaria dei giovani, tale da consentire loro uno straccio di progetto futuro e questa, alla luce dei previsti tassi di crescita del Pil, intorno od inferiori all1%, non potrà essere raggiunta senza una redistribuzione del lavoro come fatto in Germania e tutti i paesi del nord Europa. Secondo, detrazioni per i figli non ridicole come in Italia ma consistenti come in Francia, Svezia, Olanda. Per le detrazioni, altro che quoziente familiare, il presidente del Forum, Francesco Beletti, aveva detto anni fa che servivano 16 miliardi. Terzo ed ultima modalità per invertire il punto di non ritorno, forte ridimensionamento della gens italica come accadde alla Roma del Medio Evo, è l’attivazione di servizi per l’infanzia accompagnata ad una migliore conciliazione casa-lavoro, con più asili comunali e anche con asili nido di azienda e contratti part time incentivati a quante lo richiedano.
Se i politici non affronteranno nella sua globalità e complessità il tema della natalità, il punto di non ritorno si avvicina e la speranza di un futuro migliore sarà uccisa dalla dittatura del presente.
La Stampa 28.6.14
Giovani, emergenza di tutti
di Luigi La Spina
qui
Repubblica 28.6.14
Studio della Fondazione: tra gli homeless più giovani e donne
Nel Vecchio Continente arrivano ormai a quota 2 milioni
Europa, senzatetto record “La crisi li fa salire del 45%” De Benedetti: Italia distratta
di Luisa Grion
ROMA. Cacciati di casa dalla crisi economica che li ha privati di un lavoro, di un reddito, della possibilità di pagare le rate del mutuo o di trovarsi un altro alloggio in caso di separazione dal coniuge. La recessione ha fatto esplodere il problema dei senzatetto: nell’Europa a 27, secondo le stime, sono quasi due milioni, in crescita del 45% rispetto agli anni pre-crisi. Se ne contano 50 mila solo nelle grandi città: un popolo di senzatetto del quale sempre più raramente si entra a far parte per scelta romantica o anarchica. Si può restare senza casa anche perché durante il giorno ci si arrangia con dei lavoretti, ma la sera, non potendosi permettere un affitto, si dorme in macchina. La fisionomia degli homeless, negli anni della crisi, è cambiata.
A mettere in evidenza questa nuova emergenza abitativa è uno studio della Fondazione Rodolfo Debenedetti che - poggiando su una raccolta di dati coordinata da Michela Braga - fa notare come il problema stia emergendo a livello mondiale. Si stima infatti che manchi di un tetto il 2% della popolazione americana, lo 0,12 di quella australiana, e lo 0,18 dell’Unione europea a 23 Paesi, dove però la tendenza risulta in crescita.
Per quanti riguarda l’Italia, fra senza fissa dimora che vivono in strada e senza tetto che trovano ospitalità in strutture di accoglienza, il totale della persone che non dispongono di una abitazione fra il 2000 e il 2011 è quasi triplicato (da 17 ai quasi 48 mila stimati). Secondo i dati raccolti dallo studio, a Roma oggi ci sono 3.334 senza tetto (lo 0,12% della popolazione) e 2.592 a Milano (lo 0,21 nei dati 2013). Per Torino si parla di 765 persone, lo 0,08% dei residenti, ma la rilevazione risale al 2010. La composizione sociale dei senza tetto varia: gli immigrati rappresentano la percentuale più alta nelle regioni settentrionali, mentre nel Sud, dove la disoccupazione giovanile raggiunge imbarazzanti record, è più alta la quota di italiani collocata nelle fasce d’età più bassa (in generale il picco dei proprietari si colloca sempre fra i 54 e i 64 anni). Nei Paesi dell’Est Europa pesa, in particolare, il ritorno a casa di chi aveva tentato di fare fortuna nella parte ricca del Vecchio Continente e che, rientrato in patria, non trova più nemmeno quel poco che aveva.
La difficoltà di reperire dati e la scarsa attenzione posta al problema sono un chiaro segnale di come questo aspetto della crisi sia stato fino ad oggi sottovalutato. Ma «l’abitazione è un bene di consumo molto particolare ed è cruciale per la vita delle persone e per l'economia nel suo complesso», ricorda Carlo De Benedetti, presidente della Fondazione che sul tema ha centrato la sua sedicesima conferenza europea. «Oggi, in Italia, la realtà è cambiata rispetto a qualche decennio fa. Se è vero che più del 70% delle famiglie vive in una casa di proprietà, è anche vero che negli ultimi anni l'accesso alla casa è diventato più difficile e che la proprietà non sempre è associata a un reddito adeguato». Ma sull’assenza di dimora, commenta De Benedetti, «c’è ancora pochissima attenzione».
Fondamentali, riconosce lo studio, sarebbero gli investimenti in edilizia sociale, che in Italia languono: le liste d’attesa dei cittadini che chiedono un’abitazione a condizioni di sostegno lievitano in tutta Europa; in Italia, nel 2012, risultavano 630 mila richieste.
Repubblica 28.6.14
L’amaca
di Michele Serra
C’ È grande discussione, nel mondo del giornalismo, sul cosiddetto “equo compenso” per i collaboratori, in larghissima parte giovani, precari e mal pagati. La sperequazione tra chi fa questo mestiere da qualche decennio e chi lo comincia adesso è così rilevante che l’“equo compenso”, a dispetto delle migliori intenzioni, fa l’effetto di una mancia, per giunta tardiva. E comunque sia questa e altre dispute tra garantiti e no, tra anziani con pensione maturata e ragazzi che non la matureranno mai, hanno il difetto di omettere l’aspetto strutturale del problema: piaccia o non piaccia ci sono mestieri che il web sta piallando via dalla faccia della terra. Al di sotto dei trent’anni ormai quasi nessuno è disposto a spendere un solo centesimo per ciò che chiamiamo “informazione”. Ognuno si fabbrica il suo “giornale” navigando e cliccando, convinto con maggiore o minore ragione di essere ugualmente “informato”. Il giornalismo così come lo abbiano letto e scritto per un paio di secoli diventerà, bene che vada, un genere di lusso, come il sigaro cubano. La gratuità ha i suoi evidenti vantaggi, ma distrugge lavoro (e lavori) in proporzione geometrica. Qui sta il problema, e non mi sembra che editori e sindacalisti ne parlino quanto dovrebbero.
La Stampa 28.6.14
La Cassazione: “Tav, ecco perché l’assalto al cantiere non è terrorismo”
Non c’è stato danno per lo Stato
di Massimiliano Peggio
qui
il Fatto 28.6.14
Sicurezza a Roma, Marino nel pallone si rivolge ad Alfano
SI DICE ESASPERATO il sindaco Ignazio Marino dai problemi di sicurezza in due quartieri di Roma, Pigneto e San Lorenzo. Si tratta di zone difficili che adesso stanno diventando un vero e proprio problema, poiché le piazze di spaccio aumentano e i cittadini continuano a lamentarsi. Spacciatori per strada, siringhe sui marciapiedi, traffico di cocaina ed eroina a cielo aperto, è lo scenario da incubo che descrive Marino: “Nonostante io sia intervenuto con un’ordinanza sulla vendita dell’alcol non c'è poi il controllo che renda efficace quell'ordinanza. Io non sono per il sindaco sceriffo”. Marino tenta dunque di giustificarsi e batte cassa per quanto riguarda le forze dell’ordine, secondo lui troppo poche. E rilancia il suo SOS nei confronti del prefetto della Capitale, Giuseppe Pecoraro: “Se necessario chiederò di essere ricevuto con urgenza dal ministro dell’Interno entro le prossime 72 ore”.
Momento difficile dunque per il sindaco non solo sul fronte della sicurezza. Marino, infatti, non è ancora riuscito a trovare un assessore alla cultura che sostituisca la dimissionaria Flavia Barca. Problemi anche sulla casa con manifestazioni di senza tetto che si susseguono da tempo contro il Campidoglio.
Corriere 28.6.14
Verso le unioni civili «Non possiamo aspettare altro tempo»
Nitto Palma (FI): pronti al confronto
di Alessandra Arachi
ROMA — Il testo unificato sulle unioni civili è stato incardinato al Senato. In commissione Giustizia. Ed è Francesco Nitto Palma (FI), presidente della commissione di Palazzo Madama, che ieri ha annunciato: «Dedicherò la seduta di giovedì prossimo interamente a questo tema. È arrivato il momento di metterci attorno ad un tavolo e fare valutazioni politiche ancor prima che tecniche».
È arrivato il momento di capire quanto davvero grazie all’approvazione di un testo sulle Unioni civili l’Italia possa avvicinarsi all’Europa: siamo il fanalino di coda in tema di diritti civili. Intanto il sindaco di Roma Ignazio Marino annuncia: «Noi riconosceremo i matrimoni, qualunque sia il sesso degli sposi, che sono celebrati all’estero».
Il premier Matteo Renzi nei giorni scorsi lo ha detto chiaro: un provvedimento sulle unioni civili deve essere approvato a settembre. E la senatrice Monica Cirinnà (Pd) ha depositato in commissione Giustizia un testo che ha unificato i disegni di legge già depositati in precedenza. «Erano una dozzina in tutto le proposte di legge presenti in Senato», spiega la senatrice Cirinnà che è relatrice di questo testo. E spiega. «Ho espressamente accantonato i tre disegni di legge che parlavano di matrimonio omosessuale. Ho eliminato dal testo tutto quello che riguardava le adozioni per le coppie omosessuali».
Il risultato è un testo che prevede le unioni civili per le coppie omosessuali sul modello tedesco e patti di convivenza per le altre coppie. «La verità è che queste unioni civili per le coppie omosessuali previste dal testo assomigliano un po’ troppo al matrimonio, e questo non è possibile, lo vieta la nostra Costituzione», commenta il presidente della commissione Nitto Palma, di Forza Italia. Ma subito dopo aggiunge: «Io sono convinto tuttavia che basteranno pochi aggiustamenti tecnici per poter arrivare ad un testo largamente condiviso. Non possiamo aspettare altro tempo, ce lo ha detto la Corte Costituzionale».
Bisogna mettersi attorno ad un tavolo e contarsi. Nel Pd sembra esserci un fronte compatto di accordo. Ma all’interno della maggioranza l’Ncd continua a non volerne sapere, nemmeno dopo il documento dei vescovi che ha posto la questione sul tavolo del sinodo.
È di ieri un comunicato di Maurizio Sacconi, presidente dei senatori Ncd, che si rivolge a Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme che si occupa delle tematiche omosessuali in Parlamento. Dice Sacconi: «Il Nuovo centrodestra ribadisce al sottosegretario Scalfarotto che una cosa sono le leggi pragmatiche (e senza costi) per agevolare le convivenze, un’altra le leggi ideologiche che vogliono estendere matrimonio e provvidenze. A queste seconde ci opporremo fino in fondo». E il senatore Roberto Formigoni minaccia addirittura di far saltare il governo.
A fare i conti, i voti dell’Ncd potrebbero essere ininfluenti nell’approvazione di un testo sulle Unioni civili che vede il M5S favorevolmente schierato con grande slancio. Dice Enrico Cappelletti, membro della commissione Giustizia del Movimento 5 Stelle: «Sulla carta i numeri per far passare questa legge senza alcun problema ci sono: sommando i voti di Pd più quelli di M5S viene fuori una maggioranza assoluta sia al Senato che alla Camera. Però lo sappiamo: non sono i numeri che decidono i provvedimenti, la storia ce lo insegna».
Quelli del Movimento cinque Stelle, ad esempio, non hanno intenzione di accettare compromessi al ribasso sul testo pronto. «Già questo testo unico ci lascia un po’ perplessi», dice Alberto Airola che nel movimento di Grillo si occupa di tutte queste tematiche. E spiega: «È importante far capire a chi, ad esempio, si oppone alla reversibilità della pensione per le coppie omosessuali invocando problemi di tipo economico che non è certo questo che ha distrutto la famiglia, bensì le politiche economiche degli ultimi trent’anni».
il Fatto 28.6.14
Abusi La diocesi caccia l’allievo di Giussani
Al meeting di Comunione e Liberazione i giovani lo acclamavano. Al liceo linguistico “Shakespeare” era un leader e un padre. Don Mauro Inzoli, il discepolo di don Giussani, vicino a Roberto Formigoni, già presidente del Banco Alimentare, ora non potrà più nemmeno mettere piede nella diocesi di Crema, dov’è stato parroco fino al 2010. La sentenza della Congregazione per la Dottrina della Fede ha stabilito che il prete ciellino abusava di minori. A dare la notizia è stato il Vescovo di Crema, monsignor Oscar Cantoni: “La Congregazione della Dottrina della fede, su incarico di Papa Francesco, mi ha fatto pervenire un decreto con il quale infligge una ‘pena medicinale perpetua’ nei confronti di don Inzoli”.
Nel comunicato è stabilità la pena: “In considerazione della gravità dei comportamenti e del conseguente scandalo, don Inzoli è invitato a una vita di preghiera e di umile riservatezza. Gli è inoltre prescritto di sottostare ad alcune restrizioni, la cui inosservanza comporterà la dimissione dallo stato clericale. Don Mauro non potrà celebrare in pubblico l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, né predicare. Non potrà svolgere accompagnamento spirituale nei confronti dei minori o altre attività pastorali, ricreative o culturali che li coinvolgano. Non potrà assumere ruoli di responsabilità e operare in enti a scopo educativo. Non potrà dimorare nella Diocesi di Crema, entrarvi e svolgere in essa qualsiasi atto ministeriale. Dovrà inoltre intraprendere, per almeno cinque anni, un’adeguata psicoterapia.” Addio alle belle abitudini, ai pranzi e alle cene nei ristoranti lussuosi di Milano. “Don Mercedes”, come lo chiamavano in diocesi vista la sua passione per la berlina tedesca, dovrà fare una vita riservata.
il Fatto 28.6.14
Caso Weselowsky
Il papa “spreta” il nunzio pedofilo
di Valeria Pacelli
Rischia l’arresto o comunque una limitazione della libertà Josef Wesolowski, l’arcivescovo 66enne, accusato di aver abusato di alcuni minori mentre si trovava a Santo Domingo. La sua condanna allo stato laicale è stata inflitta nei giorni scorsi durante il primo grado di giudizio del processo canonico. Qualora questa sentenza diventasse definitiva, nei confronti di Jozef Wesolowski proseguirà anche il procedimento penale presso gli organi giudiziari vaticani. Gli abusi contestati a Wesolowski, secondo quanto riportato dalla stampa domenicana e dall’inchiesta della giornalista Nuria Peria, sarebbero avvenuti negli anni durante i quali era stato rappresentante diplomatico della Santa Sede. Il Fatto è riuscito a contattare la cronista autrice dello scoop che, nonostante la decisione di oggi, accusa il Vaticano di non aver fatto il possibile per prevenire gli abusi e, anzi di aver dato la possibilità al nunzio di lasciare Santo Domingo, coprendolo. “La nostra inchiesta è partita più di un anno fa - spiega Peria - quando abbiamo ricevuto la denuncia dal proprietario di un ristorante nella zona del Male-con, dove il nunzio era solito andare. In un primo momento non sapevano chi fosse e lo vedevano solo come uno straniero degenerato. Finché un giorno l’hanno riconosciuto su un giornale e hanno capito di chi si trattasse. Per le nostre ricerche ci sono voluti molti mesi, finché non siamo rimasti sorpresi con l’annuncio che aveva lasciato il Paese perché aveva cessato di ricoprire la carica. Un tentativo di nascondere la vera ragione del trasferimento”. E aggiunge: “Abbiamo intervistato uno dei bambini, così il mondo intero ha saputo la ragione della sua partenza. La chiesa, che ora ammette di sapere, lo ha lasciato andar via dal Paese. Cercando così di nascondere la verità e aiutandolo a fuggire dalla giustizia dominicana”. Quando la notizia è arrivata in Vaticano, Papa Francesco ha fatto rientrare l’arcivescovo Wesolowski in Italia. Intanto su questa faccenda era calato il silenzio, rotto da quel monito del Comitato Onu Contro la Tortura, che a maggio scorso a Ginevra ha stilato un rapporto molto duro nei confronti del Vaticano composto da nove raccomandazioni, una di queste dedicata proprio al nunzio: “Quanto al caso dell’arcivescovo Joseph Wesolowsky, ex nunzio nella Repubblica domenicana, egli dovrà o essere estradato a Porto Rico oppure dovrà essere sottoposto a processo penale in Vaticano, poiché non gli può essere riconosciuta l’immunità” dovuta al suo status diplomatico. A rivelare che il nunzio si trovava in Vaticano è stato un tweet di monsignor Victor Masalles: “Per me è stata una sorpresa vedere Wesolowski passeggiare per via della Scrofa a Roma. Il silenzio della Chiesa ha ferito il popolo di Dio”. La sala stampa si giustifica così: “Tenuto conto della sentenza ora pronunciata (dall’ex-Sant’Uffizio, ndr) saranno adottati nei confronti dell’ex nunzio tutti i provvedimenti adeguati alla gravità del caso”. “Si precisa - continua la nota - che finora monsignor Wesolowski ha usufruito di una relativa libertà di movimento in attesa che la Congregazione per la Dottrina della Fede procedesse a verificare il fondamento delle accuse mosse a suo carico”. Ora però, ha spiegato il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, “si prenderanno misure perché sia residente in un posto preciso, limitato, senza libertà di movimento, poiché è una persona giudicata colpevole di un reato grave e in attesa di un ulteriore procedimento giudiziario”. Questo sarebbe il primo di una serie di provvedimenti che forse verranno presi in linea con quella “tolleranza zero” annunciata da Francesco.
Repubblica 28.6.14
Tolleranza zero per il nunzio pedofilo
di Paolo Rodari
CITTÀ DEL VATICANO. Riduzione allo stato laicale. È questa la pena che la Congregazione per la Dottrina della fede ha comminato in primo grado a monsignor Jozef Wesolowski. L’accusa parla di abusi sessuali su minori. Ora l’arcivescovo ha due mesi per ricorrere in appello. L’arcivescovo di origini polacche, 66 anni, era nunzio a Santo Domingo dal 2008. E aveva iniziato la sua carriera diplomatica sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Accusato di atti di pedofilia già nella Repubblica Dominicana, venne rimosso dal suo incarico circa un anno fa per volere di papa Francesco. Allora, era stato il cardinale Nicolas Lopez Rodriguez, arcivescovo di Santo Domingo, a rivolgersi direttamente a Bergoglio riferendo le accuse di pedofilia. Su invito del Papa, la segreteria di Stato vaticana era intervenuta all’inizio di agosto, richiamando a Roma Wesolowski, sollevandolo dal suo incarico, e avviando un’indagine affidata all’ex Sant’Uffizio. Un procedimento celere, che conferma la linea della tolleranza zero iniziata già nel pontificato di Benedetto XVI.
Due settimane fa il vescovo ausiliare di Santo Domingo, Victor Masalles, aveva notato Wesolowski passeggiare per una via di Roma e aveva parlato della cosa ad alcuni mezzi d’informazione. In particolare su Twitter egli si era detto «sorpreso» che l’ex nunzio godesse di tale libertà. Padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, ha però precisato che la «relativa libertà di movimento» concessa all’ex nunzio con ieri decade. L’arresto, insomma, è una possibilità reale: «Tenuto conto della sentenza ora pronunciata, saranno adottati nei confronti dell’ex nunzio tutti i provvedimenti adeguati alla gravità del caso». Wesolowski, dunque, sarà residente in un posto preciso, limitato, senza libertà di movimento, «poiché è una persona giudicata colpevole di un reato grave e in attesa di un ulteriore procedimento giudiziario».
Francesco, oltre ad esigere che coloro che si sono macchiati del crimine di pedofilia paghino (anche se si tratta di alti prelati), è particolarmente attento alle vittime. Non a caso, il prossimo 7 luglio, celebrerà con alcune persone che hanno subìto violenze una Messa a Santa Marta. Qualche settimana fa, sul volo di ritorno dalla Terra Santa, egli era arrivato a paragonare il crimine della pedofilia a una Messa nera: «Questo sacerdote - aveva detto riferendosi a chi abusa di minori - deve portare questo bambino, questa bambina, questo ragazzo, questa ragazza alla santità; il ragazzo, la bambina si fidano, e lui invece di portarli alla santità, abusa di loro. È gravissimo! È come fare una Messa nera. Tu devi portarlo alla santità e lo porti a un problema che durerà tutta la vita. Su questo si deve andare avanti, avanti: tolleranza zero».
Lo scorso dicembre Francesco aveva istituito una commissione per la tutela dei minori e aveva chiamato a farne parte anche l’irlandese Marie Collins proprio in rappresentanza delle vittime degli abusi. Nella commissione anche due gesuiti di fiducia del Papa, il tedesco Hans Zollner, studioso della questione e decano della facoltà di psicologia dell’Università Gregoriana, e l’argentino Humberto Miguel Yanez, direttore del dipartimento di teologia morale della Gregoriana ed ex docente al seminario San Miguel di Buenos Aires. Fu però soltanto poche settimane dopo l’istituzione della commissione, che l’organismo garante dei diritti dei minori dell’Onu aveva denunciato «le politiche che hanno consentito a religiosi di abusare di decine di migliaia di bambini e ragazzi e poi li hanno coperti ». Sotto accusa anche le posizioni su omosessualità, contraccezione e aborto. Ma la Santa Sede aveva espresso «rincrescimento per il tentativo di interferire sull’insegnamento della Chiesa».
Corriere 28.6.14
Il marito
Franzoni, «felici come una famiglia normale»
Prima notte a casa per Annamaria Franzoni, dopo la decisione del tribunale di Sorveglianza di Bologna di concederle la detenzione domiciliare per scontare quel che resta della pena inflittale per l’omicidio del figlio Samuele. È uscita dal carcere a gran velocità, a bordo di una Multipla grigia, della cooperativa di don Giovanni Nicolini, seduta sul lato passeggeri, chinata per sfuggire a fotografi e telecamere. La sua nuova vita è ripartita da Ripoli, con una giornata dedicata al ritrovato menage di famiglia, al pranzo, al figlio minore che gioca con i suoi amichetti. Normalità. Come ha rivendicato ieri il marito Stefano: «Lasciateci tranquilli. Vogliamo tornare a una vita normale». È quel nucleo familiare che i giudici del tribunale di Sorveglianza di Bologna hanno considerato come determinante nel nuovo equilibrio della donna. Una famiglia per i giudici «coesa» e «ampiamente favorevole ad accoglierla e a sostenerla». Il marito, alle 7.30, è andato a lavorare. Poco dopo Davide, il figlio maggiore, 19 anni, ha aperto la porta della villetta a due piani. In mano la ciotola con la pappa per il labrador di casa, Edo. Annamaria, che potrebbe avere fino a quattro ore al giorno di uscita, nel suo primo giorno a casa ha deciso di non farsi vedere. L’esposizione mediatica, come ha spiegato anche il consulente del tribunale, Augusto Balloni, le può solo nuocere. A far la spesa, a comperare pane, acqua e biscotti, vanno i bambini. L’unico negozio del paesino di pochi abitanti lo gestisce Monia, che non ha dubbi. «Noi siamo contenti — dice — è giusto che Annamaria sia qui. È giusto per i suoi figli. Poi cosa cambia? Era già spesso qua». Nella messa del mattino il parroco, don Marco Baroncini, vicino ai Lorenzi, non ha ritenuto necessario affrontare il tema della detenzione domiciliare della loro concittadina più famosa. «E perché avrei dovuto farlo?», chiede ridendo il giovane prete. «Non ce n’era davvero bisogno. Per la gente di Ripoli è tutto tranquillo». A un certo punto dalla villetta dei Lorenzi all’ora di pranzo si alza il profumo di carne alla griglia e peperoni. Monia del negozio degli alimentati sorride e sottolinea: «Lo sanno tutti, Annamaria è sempre stata un’ottima cuoca».
La Stampa 28.6.14
L’Italia alza il tiro contro Israele “Stop agli affari nelle colonie”
Mogherini: entrerà in vigore la decisione presa dalla Ue nel 2012
di Maurizio Molinari
qui
La Stampa 28.6.14
Israele: ecco i rapitori dei ragazzi
E scatta l’attacco mirato su Gaza
di Maurizio Molinari
Israele divulga foto e identità di due militanti di Hamas sospettati per il rapimento dei tre ragazzi ebrei al fine di aumentare la pressione sui sequestratori e di spingere Abu Mazen a rompere l’unità nazionale palestinese. I militanti sono Marwan Qawasmeh e Amar Abu Aisha, 29 e 32 anni, membri dell’ala militare di Hamas e residenti nell’area di Hebron, dove le forze israeliane ritengono possa trovarsi la prigione di Naftali Fraenkel, Eyal Yifrah e Gilad Shaer. Le abitazioni di Qawasmeh e Abu Aisha sono state perquisite 72 ore dopo il sequestro, avvenuto il 12 giugno, e molti loro parenti sono stati arrestati: le informazioni ottenute hanno portato ad appurare che entrambi hanno fatto perdere ogni traccia dall’indomani del sequestro. In comune hanno l’esperienza di essere stati detenuti da Israele a seguito di azioni compiute dall’ala militare di Hamas e proprio tali precedenti portano Peter Lerner, portavoce militare israeliano, a dedurre che il sequestro sia stato un’operazione «studiata nei particolari» dal gruppo fondamentalista. Fonti militari israeliane ammettono al quotidiano «Haaretz» che «si tratta di una cellula ben organizzata, a conoscenza dei nostri metodi» come dimostra il fatto di essersi nascosta «in un’area densamente popolata» dove condurre le ricerche è più difficile. Divulgare volti e identità serve a Israele per accrescere la pressione su tutti coloro che li conoscono contando per ottenere informazioni utili a trovare la prigione.
E sempre per mantenere alta la pressione su Hamas, Israele ha eliminato a Gaza con un attacco aereo due miliziani dei Comitati di resistenza popolari, «responsabili del lancio di razzi contro il Sud del Paese» ha spiegato il ministro della Difesa Moshe Yaalon.
Sul fronte politico il premier Benjamin Netanyauh ha fatto coincidere la divulgazione delle identità dei super-ricercati con la richiesta ad Abu Mazen, presidente palestinese, di «dare seguito alle affermazioni fatte in Arabia Saudita e porre fine al governo di unità con Hamas». E Hamas, con il portavoce Sami Abu-Zawahari, accusa Israele di «creare scuse per attaccarci» mentre Khaled Meshal, capo dell’Ufficio politico, dice ad «Al Jazeera» che «i tre ragazzi erano soldati» aggiungendo: «Se sarà provata la matrice palestinese, plaudiremo agli autori perché liberare i detenuti nelle prigioni israeliane è un dovere morale».
Corriere 28.6.14
Cina, la megalopoli che impressiona il mondo L’idea di Xi Jinping per rinnovare i fasti della Grande Muraglia
di Guido Santevecchi
PECHINO — Si chiamerà Jing-Jin-Ji. Sembra uno scioglilingua, ma è il nome della megalopoli da oltre 110 milioni di abitanti che nei disegni dei pianificatori cinesi servirà da modello per una nuova forma di urbanizzazione e di sviluppo dell’economia. Si tratta di fondere Pechino con Tianjin e lo Hebei, la provincia che circonda la capitale. «Jing» riassume Beijing; «Jin» sta per Tianjin e «Ji» è un’abbreviazione di Hebei. Il progetto Jing-Jin-Ji ha avuto la benedizione del presidente Xi Jinping, che lo dirige. Il nuovo agglomerato sta prendendo forma: intorno alla capitale è in fase avanzata di costruzione un anello autostradale che collegherà la super area urbana; Pechino è già contornata da sei tangenziali, che qui si chiamano anelli, a partire dal quadrilatero della Città proibita, ma questo settimo sarà lungo 940 chilometri per collegare e integrare la nuova regione cittadina. L’apertura al traffico è prevista nel 2015.
Oltre all’impatto sociale e allo stupore per un progetto così enorme, la megalopoli ha un significato politico: i politologi cinesi dicono che Xi l’ha immaginata come impronta ed eredità della sua presidenza. Una tradizione che risale all’era imperiale: l’ordine di innalzare la Grande Muraglia venne dal primo imperatore, Qin, due secoli prima di Cristo; il Grande Canale d’acqua che collega Hangzhou nel Sud a Pechino fu fatto scavare dall’imperatore Sui Yang nel settimo secolo. Nel nuovo impero globalizzato in cui si è trasformata la Repubblica popolare, Deng Xiaoping ha costituito la zona economica speciale di Shenzhen nel 1978, lanciando il «mercato con caratteristiche cinesi»; Jiang Zemin ha spinto l’industrializzazione del delta dello Yangtze designando Shanghai come il centro finanziario della Cina.
E l’era Xi sarà segnata da Jing-Jin-Ji, che oltre a proporre una forma di urbanizzazione centrata sui trasporti ferroviari ultraveloci e le superstrade a otto corsie, dovrà servire da vetrina per la nuova riforma dell’economia. L’area intorno a Pechino interessata dal progetto si estende per 216 mila chilometri quadrati, circa due terzi della superficie italiana; con i suoi 110 milioni di abitanti (21 a Pechino, 14 a Tianjin, 73 nello Hebei) si avvicina alla popolazione del Giappone; ha un Prodotto interno lordo combinato di oltre sei trilioni di yuan, quasi mille miliardi di dollari, ossia il 10 per cento del totale cinese. Di Jing-Jin-Ji si è cominciato a parlare da anni, perché le gigantesche pianificazioni sono la specialità di questa Cina. Ma ora la realizzazione rapida sembra vitale. Anzitutto bisogna trovare una cura per le malattie urbane che rischiano di rendere invivibile la capitale: il traffico pazzo di quasi sei milioni di automobili, gli ingorghi chilometrici, l’inquinamento cronico e il costante aumento della popolazione (Pechino sta crescendo di 600 mila abitanti l’anno). Anche Tianjin, con i suoi 14 milioni di anime, soffre su scala lievemente ridotta degli stessi mali. Per questo viene coinvolta la provincia dello Hebei. Il governo ha deciso che alcuni dipartimenti ministeriali, università e ospedali verranno spostati dalla capitale a Baoding, 150 chilometri a sudovest. E per convincere cinque milioni di abitanti a spostarsi subito almeno di qualche decina di chilometri, le autorità pechinesi hanno già cominciato ad abbattere dei grandi mercati di periferia che richiamavano decine e decine di migliaia di lavoratori migranti.
Pechino e Tianjin distano 130 chilometri, ma in realtà si fa prima a muoversi tra le due città che da un capo all’altro della capitale. Con il treno superveloce, dalla modernissima stazione Sud di Pechino che somiglia a un aeroporto, si impiegano 33 minuti esatti per sbarcare nel centro di Tianjin, dove all’inizio del secolo scorso sorgeva la concessione italiana in Cina. Ora, intorno alle nostre vecchie palazzine coloniali (che vengono restaurate per ospitare sedi di società del terziario e locali pubblici) stanno sorgendo grattacieli di vetro e acciaio ispirati al modello Manhattan. Poi c’è la questione economica. Xi ha detto che integrare e coordinare lo sviluppo della regione intorno a Pechino in termini di funzioni amministrative, di distribuzione delle industrie, trasporti, servizi urbani, eviterà doppioni, sprechi, inefficienze dovuti all’inutile concorrenza tra città vicine per gli stessi settori di business.
Presentato così, il futuro di Jing-Jin-Ji sembra roseo. Ma naturalmente ci sono urbanisti che contestano l’idea, sostenendo che è una finzione. Le città dell’area intorno a Pechino sono già quasi contigue, i benefici reali della fusione saranno minimi, dice Ray Kwong del China Institute presso la University of Southern California: «Usando il criterio che i cinesi sostengono di voler inventare con “Jing-Jin-Ji” si potrebbe già chiamare l’area tra Boston e Washington “Bosington”».
l’Unità 28.6.14
Monuments men
L’appassionante libro di Robert M. Edsel che ha ispirato il film di George Clooney
È SOLO PERDENDO QUANTO ABBIAMO DI CARO CHE COMPRENDIAMO COSA NUTRE LA NOSTRA VITA? Lo si dice spesso per amori e affetti, lo si può dire per capolavori di gente come Botticelli, Michelangelo, Caravaggio, Rubens, Tiziano, Raffaello: quando li vediamo agli Uffizi, al Bargello o a Palazzo Pitti a Firenze diamo per scontato stiano lì, sani, salvi e intoccabili, eppure per un soffio non sono diventati cenere, polvere, il nulla. Quei musei non furono bombardati, centinaia di opere trafugate ai musei fiorentini furono ritrovate nel maggio del 1945, nascoste dai nazisti in luoghi segreti in Alto Adige, per consegnarle a Hitler o Himmler. Poteva andare in tutt’altro modo: se abbiamo ancora quelle manifestazioni dell’ingegno tra noi dobbiamo ringraziare qualcuno.
Dà molti brividi leggere l’appassionante Monuments Men. Missione Italia (Sperling e Kupfer, 400 pagine con foto, 16,90 euro). L’ha scritto Robert M. Edsel, americano, l’autore del libro Monuments Men che ha ispirato il film di George Clooney sull’intervento, nell’Europa stravolta dalla seconda guerra mondiale, degli esperti prestati alle forze alleate per salvare l’arte dalla depredazione, dalla scomparsa o dal fuoco. Dopo il capitolo europeo l’uomo d’affari ha voluto raccontare l’epopea italiana degli studiosi che, tra coraggio e spregiudicatezza, mollarono casa e studi per mettere al riparo ogni preziosa eredità artistica e culturale dai bombardamenti, dalle azioni degli anglo- americani oltre che da fascisti e nazisti. Perché la loro missione, rocambolesca, senza mezzi né all’inizio alcuna autorità (ve l’immaginate un occhialuto storico dell’arte in divisa che intima ai soldati laceri in battaglia di non lanciare granate perché in quel posto ci sono quadri importanti?) nacque con un obiettivo nobile e preciso: aiutare l’esercito e l’aviazione a non colpire monumenti. E man mano che il fronte avanzava, il compito si allargò all’inseguire le opere trafugate dai nazisti.
È una storia di dedizione, coraggio, rivalità, gelosie, ambiguità, terrore, pericoli, delusioni atroci, errori clamorosi. Edsel non esita a definire uno sbaglio gigantesco, anche da un punto di vista militare, il bombardamento alleato dell’abbazia di Montecassino nel 1943 così come reputa inutili, e devastanti, le bombe cadute sul Camposanto di Pisa con gli affreschi medioevali di Buffalmacco. Nelle sue pagine ci fa capire come un’opera capitale quale l’Ultima cena di Leonardo a Milano sia scampata alla distruzione per un puro «miracolo» solo perché le bombe piombarono sul cenacolo stesso senza colpire, per puro caso, quella parete che diligenti funzionari avevano protetto come potevano, con sistemi di fortuna. Qualcuno dirà che non è una storia nuova. Può darsi, eppure Edsel mette insieme con ottima tensione narrativa una quantità impressionante di tasselli per raccontare l’azione dei 23 americani e 17 inglesi MFAA men (Monuments, Fine Arts and Archives) in azione in Italia e guidati dai colleghi-rivali Keller e Hartt in situazioni spesso assurde e, in teoria, irrisolvibili. Edsel, pur citando appena una volta lo 007 dell’arte Siviero, racconta anche degli italiani che agirono e rischiarono la vita, come il direttore dei musei fiorentini Poggi o don Anelli, un prete-paracadutista schierato con i partigiani; l’autore ricorda efficacemente la follia distruttiva dei tedeschi che, in ritirata da Firenze, tranne Ponte Vecchio distrussero tutti i ponti nell’estate del 1944; e spaventa leggere che un capo nazista aveva deciso di far esplodere una miniera stipata di migliaia di opere immense nelle Alpi perché la loro guerra era perduta.
Il genere umano esce da questo affresco storico come capace tanto di scelte magnifiche quanto di abiezione e crudeltà indicibili. Edsel, ammettendo che tanti passaggi resteranno per sempre misteriosi, affronta di petto la domanda cruciale: di fronte al dilemma, bisogna salvare un’opera d’arte o la vita umana? Diremmo la vita umana, ma forse una risposta netta non esiste. Però il messaggio è chiaro: spesso è un falso dilemma, distruggere le cose d’arte non serve neppure militarmente. Ed Edsel ricorda che la tragedia si ripete proprio nei nostri giorni e con analoga ferocia: la Siria, con le sue bellezze diventate macerie, è una ferita mortale e quanto l’umanità avrà perduto lo capiremo quando sarà tardi, visto che ancora non ne siamo consapevoli.
«Oggi si combatte una guerra economica»
ROBERT M.EDSEL, SOGGIORNANDO A FIRENZE, SI MISE A STUDIARE COME TANTA ARTE EUROPEA FOSSE SOPRAVVISSUTA ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE, scoprì l’esistenza dei «Monuments Men», l’ha studiata, l’ha portata a galla e nel 2007 ha creato la Monuments Men Foundation (monumentsmenfoundation.org). Da allora gira il mondo affinché non si dia per scontata la presenza di città storiche e della loro arte.
Mr. Edsel, presentando alla stampa il libro lei mostra foto del Ponte Santa Trinita di Firenze distrutto dalle mine naziste e racconta che poi fu ricostruito così com’era. Ritiene che i monumenti dovrebbero essere ricostruiti sempre con questi criteri? Usare materiale non originale rappresenterebbe un falso? Il problema in Italia riguarda le ricostruzioni post terremoto.
«Se qualcuno sostiene che non si dovrebbe ricostruire un monumento com’era dovrebbe studiare Ponte Santa Trinita. Quando è stato ricostruito usarono foto scattate prima della guerra e, il più possibile, le stesse pietre. Non posso immaginare un altro sistema. Non sarebbe un falso. Quale sarebbe l’alternativa? Avremmo un ponte di Calatrava? Lui è un genio incredibile, ma ci sarebbero molte più critiche se usassimo in parte materiale originario e in parte un’interpretazione moderna e nuova. Guardiamo il lato meridionale dell’Arno sui due lati di Ponte Vecchio a Firenze: è poco attraente perché, completamente cancellato dalle distruzioni, è una zona di edifici post-bellici. Detto questo, bisogna essere pratici».
Che significa, in questo quadro?
«A meno che non si parli di ricostruire dove, tanto per fare un esempio, il terreno sia instabile, pericoloso, ovvero non siano in ballo questioni strutturali. Ma oggi è in corso un altro tipo di guerra».
Qual è?
«Quella dell’economia. I governi e l’Italia in particolare non hanno e non avranno mai più tutto il denaro per prendersi cura di tutta la loro arte. Allora spetta ai singoli individui farsi avanti, al settore privato, ai turisti, alle organizzazioni come i Friends of Florence che raccolgono fondi destinati a preservare questo patrimonio».
il Fatto 28.6.14
Cent’anni da Sarajevo
Oggi ebbe inizio la carneficina
di Mario Marcis
Oggi, 28 giugno 1914, ore 10 in punto, cento anni fa, a Sarajevo Gavrilo Princip, studente serbo di 19 anni, uccideva l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, erede al trono d’Asburgo. Fu il pretesto da cui, un mese dopo, iniziò la Prima guerra mondiale, meglio nota come “Grande guerra”. Furono 9 i milioni di morti tra i militari, 7 tra i civili. Il conflitto decretò anche la fine di imperi sorti secoli prima. L’impero Austro-ungarico dichiarò guerra alla Serbia e da quel momento si scatenò il gioco delle alleanze maturato nei decenni precedenti: Francia, impero russo e Regno Unito da una parte, impero Austro-ungarico e Prussia dall’altra. Fu considerata la prima guerra mondiale perché con l’ingresso di Giappone e Usa fu il primo conflitto di dimensioni planetarie e ‘totale’ e perché coinvolse tutta la società civile.
IL BLITZKRIEG - la guerra lampo - fu la strategia scelta dalla Germania per attaccare la Francia sul fronte occidentale passando dal Belgio e l’Olanda, neutrali. Il piano ideato dal generale von Schlieffen, prevedeva che in 6 settimane le truppe comandate dal generale von Moltke sarebbero entrate a Parigi. La resistenza francese, nel frattempo soccorsa dalle truppe britanniche riuscì ad arginare l’avanzata tedesca. Con la prima battaglia di Ypres - cittadina delle Fiandre, non a caso scelta come sede del Vertice europeo di giovedi e ieri - combattuta nell’autunno 1914 anche con uso di agenti chimici (il gas poi chiamato iprite), finì il concetto di guerra di movimento. Iniziò il lento e logorante conflitto nelle trincee.
SUL FRONTE ORIENTALE il fallimento del piano von Schlieffen favorì la Russia, che contro Vienna e i prussiani dimezzati, all’inizio ebbe gioco facile. Poi le truppe prussiane furono convogliate di nuovo a est e colsero due vittorie decisive nelle battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri.
IL 26 APRILE 1915 l’Italia si accordò in segreto per l’ingresso in guerra al fianco di Francia e Inghilterra. Il 23 maggio si aprì il nuovo fronte. In caso di vittoria contro l’Austria, l’Italia avrebbe ottenuto il Trentino, l’Alto Adige, Trieste, e l’Istria. Dopo la proverbiale sconfitta delle truppe italiane a Caporetto il 24 ottobre 1917, L’Italia si risollevò con il nuovo comando del generale Armando Diaz e gli sviluppi favorevoli dei suoi alleati. Il più importante tra questi l’ingresso in guerra degli Stati Uniti al fianco della Triplice intesa in risposta alla guerra navale portata avanti dalla Prussia contro gli approvvigionamenti per gli alleati.
il Fatto 28.6.14
I soldati “italiani” che Cecco Beppe mandò in Siberia
L’epopea di migliaia di uomini spediti contro la Russia zarista dall’impero asburgico, fatti prigionieri e tornati liberi durante la rivoluzione del ‘17, poi rientrati in patria attraverso gli USA
di Maurizio Chierici
Cento anni fa, ultimo giorno di luglio, i trentini vengono a sapere della dichiarazione di guerra. Se ne parlava da un mese dopo quei colpi del 28 giugno a Sarajevo. La dignità dell’imperatore doveva schiacciare la Serbia per aver ispirato il complotto fatale all’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono. Se ne parlava a Vienna; se ne parlava nel Trentino angosciato dall’ipotesi della catastrofe che vignaioli, montanari, intellettuali immaginavano di non sopportare. Voci di voci. Nodo che il sovrano scioglie il 28 luglio 1914, 30 giorni dopo l’attentato: 390 mila sudditi di lingua italiana chiamati alle armi nelle valli attorno a Trento; 62.500 a Trieste e in Friuli. Divisa grigio azzurra: partono i figli assieme ai padri che hanno appena compiuto 42 anni. Per riscaldare il patriottismo degli scontenti, fiaccolate e musica dei reggimenti di lingua tedesca. Attraversano Rovereto e Trento, castelli illuminati da torce piegate dal vento. Ma non è una festa. Gli “italiani” diffidano delle fanfare e riversano nei diari la malinconia dell’ultimo giorno nella patria che forse cambierà bandiera.
L’annuncio li raggiunge all’improvviso, racconta Quinto Antonelli autore de I dimenticati della grande guerra in frettolosa ristampa del Margine, prima edizione bruciata. Li raggiunge sul monte Vies, dove tagliano il fieno. “Servi del comune” si arrampicano con l’ordine del “dovete partire”. Spiega Antonelli che ogni ricordo comincia più o meno allo stesso modo: nei campi o mentre si chiudono le botteghe o sotto le lanterne delle cene di famiglia. Le mogli tremano. Osterie che si riempiono nella notte più lunga. E appena schiarisce, in chiesa per la benedizione.
PARTONO NEI VAGONI BESTIAME delle tradotte. Destinazione Galizia. Pochi sanno dov’è: al confine dell’impero non più felix, 6 giorni di viaggio per affrontare i cosacchi dello zar. A Vienna “molti signori attendevano il nostro passaggio e dal fondo della stazione si avvicina un personaggio: Zita Borbone Parma, arciduchessa d’Asburgo”. Sarà l’ultima imperatrice. “Le sue ancelle distribuiscono medaglie con l’effigie del sacro cuore” e guidano i soldati verso una piazzetta di bancarelle “come nei giorni della sagra”. Cioccolate che i ragazzi vorrebbero pagare. “Solo un regalo…”. Bon ton che svanisce nei Carpazi. Stazioni dai nomi che aggrovigliano z, k, t, h: impossibile pronunciarli.
I violini degli zingari provano a far festa, ma nessuno ride. E poi il fango della Galizia, bambini negli stracci allungano la mano della carità. Cariche all’arma bianca falciate dalle mitragliatrici. Quei cosacchi senza pietà, eppure si piegano sui trentini per consolarli dopo averli colpiti. Qualcuno si salva nascosto fra i cadaveri: racconti delle cartoline postali che la Croce Rossa danese e svedese recapita nelle case vuote malgrado il filtro della censura austriaca. I racconti passano per le allusioni a storie di famiglia che per i burocrati è impossibile decifrare. Spiegano come vanno le cose. Trattati come bestie dagli ufficiali tedeschi. Nessuna tenerezza verso i triestini. La gente di mare osserva con supponenza la gente di montagna che non ne sopporta il disprezzo. Lo storico Armando Vadagnini (Le pagine dimenticate della storia del trentino) fa capire l’imbroglio del mito Trento-Trieste gonfiato dalla propaganda. I triestini sbandieravano ricchezza e cultura di una città aperta alle fantasie del mare. Rabbia dei trentini “dalle scarpe grosse”. Poi il dramma di chi si arrende alle divise dello zar. Sussurri misteriosi sulle linee del fronte. Gli scontenti alzano le mani e passano dall’altra parte . Attacchi, ripiegamenti, migliaia di morti: arrivano i giorni del disastro. I russi sfondano e nell’inverno terribile, 15 mila trentini finiscono ai lavori forzati o fra le baracche del campo di Omsk, Siberia, alla frontiera col Kazakistan.
Quasi la fine del mondo. Campo dove Dostoevsky aveva pagato il sospetto di appartenere a una società segreta avversa agli zar. Topi e colera, 40 sotto zero ispirano le allucinazioni di Memorie nella casa dei morti. Ma i “lavori forzati” non devono ingannare. I trentini preferivano sgobbare nei campi o sulla pialla dei falegnami o negli scavi delle miniere . Le slitte dei proprietari li aspettavano in piccole stazioni dove cominciava la scoperta di un medioevo insospettato. Devozioni quotidiane delle famiglie senza lustro, a gruppi ammucchiate in case di legno e obbligo ai prigionieri di partecipare a lunghe preghiere “dai brontolii che non capivamo”. Ma i rapporti diventano subito buoni. Con le ragazze, soprattutto. Si accendono passioni che gli armistizi a volte non riescono a sciogliere. Ci si disperde dimenticando famiglie, amici, il passato. Spariti in Siberia senza la certezza del perché.
Fin qui più o meno la storia di ogni guerra dove i protagonisti senza censo diventano carne di nessuno. Lo zar offre a Roma il ritorno dei prigionieri, ma i Savoia non accettano per non rompere la finzione della neutralità necessaria ai tempi del riarmo. L’Italia non era pronta. Per gli “irredenti” che vogliono cambiare cittadinanza si apre il campo di Kirsanov, 600 chilometri a sud di Mosca, ancora cameroni immensi; la disperazione non cambia nella testimonianza di Ceccato, mercante d’arte trentino, vita morbida attorno al Cremlino.
VISITA KIRSANOV anche Virginio Gayda, giornalista de La Stampa. La loro indignazione sveglia il consolato italiano: “irredenti trattati come bestie”. Non ha senso tenere alla catena cittadini che hanno cambiato divisa, alleati dello zar dal 24 maggio 1915 quando Roma comincia a sparare. Allora, è finita? L’illusione trasforma Kirsanov nell’anticamera del ritorno, mentre i testardi dispersi in Siberia restano fedeli a Vienna per difendere posti di lavoro, orti e piccole proprietà: “Patria vuol dire dove si sta bene, la casa sua, molii e filii, quelli sono la patria”. Non si fidano delle novità anche se cominciano a ricredersi: nel gelo di Osmk muoiono come mosche e Kirsanov diventa l’illusione di chissà quale ritorno. Intanto, vita dura. Marce di trasferimento da Kirsanov ai campi di lavoro: neve, gelo, scarpe di paglia. Mangiano brodaglie riscaldate da militari russi, ma sono i militari ormai “italiani” a improvvisare un piccolo ospedale. E nell’attesa delle partenze-rimandate-cancellate resuscitano le abitudini dello stare assieme con l’allegria delle vallate.
Organizzano cori, un’orchestrina, pubblicano un giornale patriottico: “La nostra fede”. Quasi liberi nella costrizione. E poi il balletto delle partenze rimandate, interrotte; ritorni alle baracche dopo la felicità di averle abbandonate per i piroscafi che dovevano aspettarli ad Arcangelo, porto sul mare Bianco dove non arrivano bloccati dal gelo e dagli agguati degli u-boot. Finalmente, dopo su e giù, marce e tradotte, nel settembre del ’16, 1760 uomini si imbarcano per Glasgow. Dall’Inghilterra attraversano la Francia, arrivano nella Torino imbandierata subito comandati nelle fabbriche al lavoro per la guerra.
I trasbordi continuano fino all’inverno che trasforma il mare in un deserto di ghiaccio. Gli ultimi devono aspettare il disgelo. Si allunga l’esilio per 2600 soldati e 57 ufficiali ormai non prigionieri eppure costretti a pellegrinaggi surreali attraverso una Siberia sempre più pericolosa. Perché in Russia sta succedendo qualcosa. Nove milioni di morti, combattimenti ed epidemie, e la disperazione delle campagne incendia le città. Comincia la rivoluzione.
I trentini ne sono coinvolti: chi diffida delle guardie dalla stella rossa e chi osserva, con una meraviglia (che scivola nell’entusiasmo) la distruzione delle belle case padronali: servi della gleba arrivano nella notte con le torce della rabbia. Bruciano e portano via. Un po’ di trentini si riconoscono nelle loro bandiere. Qualcuno infila la divisa della rivoluzione. E c’è chi fa una specie di carriera: Giorgio Bugna, ortolano e giardiniere, accompagna un delegato del popolo a Pietrogrado, settimo congresso del Partito comunista. A due passi dalla tribuna ascolta Lenin: parla “con gesti di misura”.
Vladivostok diventa la fata morgana dove aspettare le navi del ritorno. Deposto lo zar, paese nel caos. Russi bianchi e bolscevichi combattono per il controllo della transiberiana. E i superstiti dell’impero di Vienna non sanno come raggiungere l’ultima speranza.
Ecco la sorpresa: entra in scena un Brancaleone dall’identità indefinita. Nome, cognome e accento di Benevento: ragionier Angelo Andrea Compatangelo in Russia per commerci anche se il mistero del come sia finito lì resta l’ombra sulla quale nessuno riesce a soffiare. Appena l’Austria entra in guerra, Compatangelo lascia l’Italia per sistemarsi a Samara, città sul Volga, osservatorio strategico degli umori che risalgono e scendono il grande fiume. E commerci e affari, ma anche teatri con attorno le terme dove Tolstoj va a fare “i bagni di zolfo” e si lascia incantare dalla setta Malachon che sdegna le cerimonie della chiesa greco ortodossa. Nelle colline dove riempie “le amate carte” lo scrittore immagina un futuro spirituale, non importa se sta pensando ad Anna Karenina. L’eclettismo del ragioniere trasmette all’Avanti! diretto da Mussolini rapporti sul declino dello zar. Scoppia la guerra e chiude bottega. Taglia anche con l’Avanti! che ha licenziato il Mussolini neutrale trasformato in feroce interventista.
FORSE È IL SEGNO che può far capire qualcosa sull’identità di Compatangelo. Il quale con slancio patriottico parte alla ricerca dei trentini ormai italiani dispersi in mille posti irraggiungibili dalla Commissione Militare di Roma. Assume due infermiere russe; viaggio-raccolta per raggiungere Vladivostok. Si autopromuove capitano del Battaglione Savoia che inventa “per darsi autorità”. Chissà dove trova soldi e chi gli passa la divisa. Discute la libera circolazione dei prigionieri con i gerarchi di ogni dipartimento. Estate 1918: requisisce un treno e si incammina verso Vladivostok.
Viaggio non facile per gli scontri tra russi bianchi e bandiere rosse, ma Compatangelo si accoda ai 40 mila uomini della Legione Cecoslovacca anche loro al fronte con le mostrine Austria-Germania, anche loro ex prigionieri dei russi: li aiutano a disarmare “gli odiati tedeschi” e quando la rivoluzione travolge i comandi prendono la strada di Vladivostok per tornare a casa. Non è facile per bande e banditi in lotta per il controllo del territorio. I bolscevichi pretendono di sequestrare “l’equipaggiamento militare” che la legione di Praga non ha restituito ai generali dell’impero né ha consegnato ai russi ai quali si è arresa con l’onore del tenersi le armi. Il ragioniere-capitano dà una mano senza esporre al fuoco i suoi irredenti. Lungo la ferrovia cambia locomotiva, aggiusta binari. Si ferma a Krasnojarsk, città dove gli zar confinavano le teste pericolose.
Più tardi Stalin allargherà i suoi gulag. Contadini, operai e militari hanno preso il comando della regione con poche idee e nessuna esperienza. E Compatangelo offre di coordinare il cambiamento in equilibrio tra bolscevichi e socialisti. Quasi un colpo di Stato. Dittatore improvvisato: governa, decide, stringe alleanze, dialoga al telegrafo con Vladivosok dove li aspetta la Missione Militare Italiana che ha abbandonato Pietrogrado con Lenin al potere. Intanto l’Europa decide di dare una mano ai Russi Bianchi. E l’Italia si accoda attentissima alle spese e confidando sugli irredentisti vagabondi già lì mentre rinforzi modesti sono in viaggio da Napoli e Massaua verso Tientsin, porto della Manciuria con bandiera italiana per la concessione commerciale conquistata da Roma nel 1901 dopo aver partecipato alla repressione della Rivolta dei Boxer.
Tanto per non sfigurare, l’Italia aveva mandato 100 uomini; la vittoria di francesi, inglesi e tedeschi le regala lo spazio di Tientsin. Dove arrivano i reduci sfiniti dalle avventure. Lo considerano un anticipo della patria promessa. E dopo 6 mesi di viaggio, Compatangelo lascia il comando del battaglione fantasma mai contemplato nei registri dello Stato maggiore. Si ritira in un albergo di lusso “per il meritato risposo”.
Un mese dopo sparisce: nessuno spiega dove. Intanto gli irredenti vengono convinti a combattere l’ultima battaglia decisa a Parigi dalle potenze inquiete per una rivoluzione che potrebbe minacciare l’armonia dei loro poteri. Trentini che tornano in Siberia con divise giapponesi, cinesi o mezze italiane ricucite in qualche modo: “Bande nere” dal colore delle mostrine di truppe speciali. Qualche scontro ma le cancellerie lontane decidono che la Russia Bianca non c’è più. Ecco l’ ordine atteso: rompete le righe.
Primi a partire cento trentini malandati: fanno il giro del mondo per respirare fra le loro montagne. Attraversano il Pacifico, sbarcano a San Francisco, in treno a New York dove li aspetta il piroscafo Giuseppe Verdi. Finalmente a Genova. Un po’ alla volta si imbarcano tutti. Gli americani li accolgono coi coriandoli delle parate; gli italiani dell’emigrazione orgogliosi dei loro eroi. Diario di Mano Becanélla di Casteltesino. Invitato dalla folla in un “gran caffè di San Francisco”, posa il berretto sul tavolo e mangia il primo gelato della sua vita. Racconta e racconta e gli emigranti ascoltano. Alla fine riafferra il cappello e lo scopre pieno di dollari. Vuol sapere di chi sono.
Gli americani non capiscono il suo creolo trentino-italiano e quel cappello a mezz’aria scioglie la generosità. Piovono altri biglietti verdi che Becanélla accetta fingendosi “commosso e un po’ tonto”. Ripete la “ distrazione” a New York dove arriva non su carri “da bestie” come aveva immaginato: treno speciale, vagoni letto e ristorante. Con l’aria del nababbo raggiunge la famiglia profuga a Pianello Valditone. E cominciano i ricordi.
DIVERSA LA FORTUNA di Umberto Ticcò, ultimo trentino a tornare a casa: 5 maggio 1920. Il viaggio che da Napoli lo porta al nord cancella il tepore dei vagoni americani. Accoglienza che raggela. Sbarcati quasi di nascosto nell’Italia preoccupata dalle settimane rosse, il treno viene bloccato tra Massa e Carrara.
Gli scioperanti lo scambiano per un convoglio militare che ha l’ordine di spegnere la loro protesta. No, tranquillizzano i trentini ormai stanchi. E Umberto scende e annacqua il sospetto. Poi l’arrivo nella sua Roncegno distrutta. Affacciato sulla Valsugana che da Bassano porta a Trento, il paese si è trovato sulla linea di fuoco e di conquista che inchiodava austriaci e italiani nell’immobile contrapposizione di fortini e trincee. Da una parte e dall’altra popolazioni deportate in Austria o nell’Italia mediterranea. Vienna diffidava dei tirolesi di lingua italiana, Roma degli austriaci che mai avevano rinnegato l’imperatore. In rovina anche la macelleria di Ticcò, ma non ne è addolorato: il macellaio non lo vuol più fare. Non sopporta l’odore del sangue. I massacri della Galizia gli hanno cambiato la vita. Turbamenti raccontati da Remo Caramaschi nel romanzo Una piccola luce di ondulati orizzonti: uscirà a settembre.
Umberto non ce la fa a riprendere il tempo perduto. Gli anni da soldato quasi di ventura hanno cancellato il vecchio ragazzo donne-lavoro e vino. E gli amici ai quali ripete le “incredibili esperienze” sbalordiscono per le conquiste amorose e l’eroismo di un cacciatore delle Alpi ritrovato con le piume del bersagliere. Realtà o invenzione? Sospetto che lo perseguita fino all’ultimo respiro. Anche il Podestà lo diffida per le “vanaglorie” e quel suo criticare Mussolini, ormai Duce intoccabile. Dove sei davvero stato? ripete la moglie confusa dalla tortuosità di una geografia impossibile da seguire. In Russia ,in Cina, nell’America dei grandi palazzi? La diffidenza lo accompagna nella tomba. La guerra non può essere andata così.
Repubblica 28.6.14
Da Sarajevo a Villa D’Este
di Ferdinando Salleo
ERA il pomeriggio di una domenica d’estate, quel 28 giugno di cent’anni fa. Nella tregua che gli lasciavano per qualche ora le battaglie parlamentari sui provvedimenti del bilancio, il presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia, Antonio Salandra, lo trascorreva immerso nelle carte più urgenti quando lo raggiunse sulla linea diretta del governo un’inattesa telefonata del suo ministro degli Esteri. Senza tanti preamboli, Antonino di San Giuliano gli disse subito: “Sai, ci siamo liberati di quella noiosa faccenda di Villa d’Este” e precisò a Salandra, perplesso per l’annuncio apparentemente incongruo, che quella mattina a Sarajevo era stato assassinato l’Arciduca Francesco Ferdinando, l’erede al trono della Duplice Monarchia.
La bella villa di Tivoli, transitata per l’eredità degli Este a un ramo della Casa d’Austria, gli Asburgo-Este che ne aveva assunto il nome e la successione, era ancora oggetto di una lunga e complessa controversia, nata dopo che il Ducato di Modena nel 1859 era entrato a far parte del Regno d’Italia. Era, cioè, proprietà della dinastia asburgico-estense, o di uno Stato “debellato”, parte ormai del nuovo Regno? In ogni caso, tra scambi di note diplomatiche e sviluppi sul terreno che avevano tumultuosamente mutato la carta geografica dell’Italia o, almeno, quella politica, i decenni trascorsi si erano conclusi con la concessione della villa in usufrutto al Cardinale Hohenlohe. Alla morte di questi, l’ultimo Austria-Este, Francesco Ferdinando, proprio la vittima di Sarajevo, aveva aperto trattative per la vendita di Villa d’Este per un prezzo che il governo di Roma riteneva esorbitante dato lo stato della villa e avrebbe richiesto un provvedimento di legge. Troppo tardi. Del resto, la povera Sophie Chotková, la contessa boema che perì con lui per mano di Gavrilo Princip, era moglie morganatica dell’erede al trono imperiale. In base alle regole asburgiche, i loro figli non potevano quindi ereditare la villa di Tivoli. La situazione politica tra l’Italia e la monarchia danubiana era già molto tesa quando l’attentato ebbe luogo: la controversia italo-austriaca sull’Albania che riguardava soprattutto il controllo dell’Adriatico le aveva avvelenate forse persino più di quella sulle terre irredente dell’Impero abitate da italiani. Lo scontro aveva raggiunto un livello di estrema pericolosità dopo la rivolta delle popolazioni musulmane contro il sovrano d’Albania, il principe Guglielmo di Wied nominato dalle Potenze dell’Europa con un compromesso tra i candidati proposti dai contendenti che ricorda l’odierno Consiglio Europeo: un principe tedesco e protestante, sovrano di un Paese a grande maggioranza musulmano, con una forte minoranza di ortodossi e una più piccola di cattolici. Insediato con poco appoggio militare e finanziario dalle Potenze, Wied dopo sei mesi era ormai allo stremo e, perso in pratica tutto il territorio albanese, avrebbe presto lasciato Durazzo, la sua capitale in cui era assediato.
Pochi giorni prima dell’attentato, l’ambasciatore austriaco a Roma, Mérey, non aveva esitato a formulare a San Giuliano minacce abbastanza esplicite di “un atto energico che avrebbe cagionato in Italia la più spiacevole sorpresa”. Da Vienna, l’ambasciatore Avarna sospettava in quel linguaggio proprio l’influenza di Francesco Ferdinando. Ma il suo dispaccio fu letto il giorno dopo Sarajevo… In queste circostanze, la bizzarria del tono con cui San Giuliano mise Salandra al corrente di quell’attentato che, tremendo in sé, fu poi l’innesco della Grande Guerra, “suicidio collettivo dell’Europa”, sorprese molto lo stesso Capo del governo. Tuttavia, il marchese di San Giuliano, commentò più tardi Salandra, non era un sentimentale, ma neanche un cinico: “gli piaceva atteggiare il linguaggio al signorile scetticismo”. Ci piace pensare a una somiglianza, forse, con lo humour che ci è stato così bene descritto a proposito del conterraneo principe di Salina.
Corriere 28.6.14
Se scoppia la democrazia del «no!»
Perché la nuova politica è antagonista
Spontanea, non violenta, fuori dai partiti e refrattaria alle ideologie
Lo studioso bulgaro mette a confronto le forme della protesta globale giovanile
e le regole classiche di partecipazione nelle istituzioni
Come inquadrare le proteste che hanno scosso il mondo? Segnalano forse un cambiamento radicale nel modo in cui la politica verrà praticata in futuro? Oppure sono solo un’esplosione spettacolare, ma a conti fatti insignificante, di rabbia popolare? È la tecnologia, l’economia, la psicologia di massa o semplicemente lo spirito dei tempi ad aver causato questa rivolta globale? Le proteste segnalano il nuovo potere del cittadino, oppure il declino dell’influenza politica della classe media e il suo crescente scontento verso la democrazia?
Oggi, il sistema non interessa quasi più a nessuno. La rivoluzione attuale non è fatta di lettori; gli odierni studenti radicali si preoccupano solo di come essi stessi vivono il sistema, non della sua natura e dei meccanismi che lo governano.
Nella maggior parte delle proteste i manifestanti non descrivono la politica come un insieme di questioni, ma come un modo di essere. La sollevazione ha avuto le connotazioni di una trance collettiva, di un’allucinazione di massa.
Nel complesso, le piazze hanno ignorato i partiti politici, diffidato della stampa, rifiutato di riconoscere una qualsiasi leadership e rigettato tutte le organizzazioni formali, affidandosi a Internet e ad assemblee locali per dibattere e prendere decisioni.
I manifestanti sono individui esasperati. Amano stare insieme e combattere insieme, ma non hanno un progetto collettivo. Diffidando delle istituzioni, non sono interessati a prendere il potere; sono una miscela tra un desiderio genuino di comunità e un incoercibile individualismo. Descrivono il loro attivismo politico quasi in termini religiosi, sottolineando la rivoluzione dell’anima e il cambiamento mentale ispirati dalla loro esperienza di piazza. È una rivoluzione a cui ognuno è tentato di prendere parte, spinto dall’indignazione e guidato dalla speranza. Estrema destra ed estrema sinistra vi si sentono entrambe a proprio agio; dopo tutto, è una rivoluzione di brava gente contro governanti cattivi. È l’autentica rivolta del 99%: per la prima volta dal 1848 (l’ultima delle rivoluzioni premarxiste) non ci si solleva contro il governo, ma contro l’essere governati. È lo spirito libertario che tiene insieme le manifestazioni contro il regime autoritario in Egitto con Occupy Wall Street.
Ai manifestanti non importa chi vinca le elezioni o chi guidi il governo, perché ogni qualvolta la gente sentirà i propri interessi minacciati, scenderà di nuovo in strada. Ma possiamo confidare nel fatto che la gente manifesterà in massa quando l’interesse pubblico fosse violato? È possibile che la prossima volta le dimostrazioni falliscano per mancanza di manifestanti? La strategia della protesta permanente è più promettente del sogno, un tempo diffuso, della rivoluzione permanente?
Le proteste di Mosca, Sofia, Istanbul, São Paulo e Kiev configurano il nuovo volto della politica democratica. Ma non chiedete ai dimostranti cosa vogliono: essi sanno solo ciò che non vogliono. La loro etica del rigetto può essere radicale e totale, come il rifiuto in blocco del capitalismo globale che ha connotato il movimento Occupy Wall Street; oppure modesta e localistica, come le proteste contro la nuova stazione ferroviaria di Stoccarda. Ma il principio è lo stesso: abdicazione a qualsiasi scelta e attivismo politico confinato unicamente al rifiuto. Le proteste possono riuscire o fallire, ma ciò che ne definisce il profilo politico è un generalizzato «no». Per essere gridato, questo «no» non ha più bisogno di leader o istituzioni: bastano telefonini e social network.
Le proteste di massa in qualche modo svolgono lo stesso ruolo storicamente proprio delle insurrezioni: attestare che il popolo sovrano esiste e che è arrabbiato. Esse fungono da surrogato delle elezioni nella misura in cui creano una rappresentanza alternativa del popolo. Tuttavia, per svolgere il loro ruolo simbolico, le proteste devono rispondere a determinati criteri: essere di massa e spontanee, ovvero non organizzate da un partito politico; mettere insieme persone che in condizioni normali non farebbero gruppo; rinunciare del tutto – per incapacità o disinteresse – a formare partiti o a formulare alternative politiche; parlare in termini morali, non politici. Il punto è che, per avere successo, la protesta dev’essere o estremamente concreta, o puramente simbolica. La via di mezzo – il vasto, caotico spazio della politica reale – è assente.
Per molti aspetti, le odierne proteste di massa sono atti in cerca di concetti, pratica senza teoria. Sono l’espressione più plateale della convinzione diffusa che le élite non governino nell’interesse del popolo e che l’elettorato ha perso il controllo sugli eletti. Si scagliano contro le istituzioni della democrazia rappresentativa, ma non offrono alcuna alternativa. Questa nuova ondata di proteste è priva di leader non perché i social media abbiano reso possibili rivoluzioni acefale, ma perché l’ambizione di mettere in discussione ogni forma di rappresentanza è sfociata nel rigetto dei leader politici in quanto tali. La spiccata inclinazione alla non violenza è anch’essa frutto del timore della gerarchia e della rappresentanza: e infatti, non appena le proteste sono diventate violente, a trarne vantaggio sono stati gruppi paramilitari organizzati. Il successo della lotta armata è la tomba della rivoluzione senza leader: la lotta, al pari del voto, fa sciogliere queste nuove proteste come neve al sole.
Le grandi proteste, a differenza delle elezioni, giungono inaspettate. È il loro carattere anti-istituzionale a renderle ciò che sono. Sono degli arnesi inservibili per governare, ma costituiscono un notevole strumento di controllo sul governo. Il tipo di controllo esercitato, tuttavia, è molto diverso da quello insito nelle elezioni.
Nel processo elettorale il controllo sui politici consiste nel decidere a scadenze regolari se essi rappresentano o meno gli elettori, se abbiano tenuto fede o meno alle loro promesse. Nella politica antagonista, invece, la nozione di controllo si incentra sulla manipolazione delle élite, per impedire loro di trarre beneficio dal potere che detengono. Ed è la spontaneità delle proteste che rende difficile ai politici pilotarle. Gli obiettivi e la composizione sociale delle proteste variano a seconda dei contesti; in comune hanno il fatto di risultare gli unici comportamenti politici efficaci in Stati di fatto dominati dagli interessi costituiti.
Qual è, allora, il significato ultimo delle proteste? Malgrado le innumerevoli dimostrazioni di coraggio civico e di idealismo politico, i video ispiranti e le immaginifiche espressioni di controcultura alternativa, le proteste non sono la risposta alla politica del “non c’è alternativa”. Sono però una potente manifestazione di resistenza alla subordinazione della politica al mercato (anche quando i manifestanti non sono contro il mercato). In ultima analisi, le proteste attestano la resilienza della politica, ma segnalano anche il declino della riforma della politica. L’affievolimento della politica di strada è un effetto collaterale di questa generazione di mobilitazioni.
L’ondata di proteste non ha segnato il ritorno della rivoluzione: le proteste, come le elezioni, servono piuttosto a tenere il più lontano possibile la rivoluzione e le sue promesse di un futuro radicalmente diverso. Il «laureato senza futuro» non è il nuovo proletario: le rivoluzioni necessitano di un’ideologia e l’attuale ondata di proteste non è riuscita a offrire una visione alternativa del futuro. Niente ideologia, niente rivoluzione.
In conclusione, il termine di paragone più calzante per questa esplosione di energia politica cui stiamo assistendo sono le rivoluzioni del 1848. Oggi come allora, siamo a un punto di svolta. Ma il mondo non riesce a svoltare.
Repubblica 28.6.14
Prima del Rinascimento
Alla riscoperta dei “primitivi” i maestri dell’età di mezzo che furono i veri preraffaelliti
di Antonio Pinelli
È UNA mostra molto bella, godibilissima per il grande pubblico e preziosa per gli “addetti ai lavori”, quella che terrà banco fino all’8 dicembre alla Galleria dell’Accademia di Firenze ( La Fortuna dei Primitivi. Tesori d’arte dalle collezioni italiane tra Sette e Ottocento , a cura di Angelo Tartuferi e Gianluca Tormen con Ada Labriola). Sono passati esattamente cinquant’anni dall’uscita, nella collana dei saggi Einaudi, dello straordinario libro d’esordio di un grande storico dell’arte prematuramente scomparso, Giovanni Previtali, cui i curatori dell’odierna rassegna rendono esplicito omaggio mutuando il titolo di quel testo pionieristico, da cui prese le mosse un vivacissimo filone di studi storico-artistici, che trova finalmente in questa mostra il suo più compiuto approdo espositivo e nel suo monumentale catalogo, ricco di scoperte e contributi innovativi, un’insostituibile opera di riferimento per gli studi a venire.
Schiacciata tra la duplice esaltazione dell’arte greco-romana e della rinascimentale “maniera moderna”, la produzione artistica della vituperata “età di mezzo” fu rivalutata e sottratta all’oblio (nel caso delle sculture lignee e dei “fondi oro” anche ai bracieri e ai camini dei conventi, dove finivano bruciati d’inverno) da un manipolo di conoscitori e collezionisti italiani vissuti a cavallo tra Sette e Ottocento. Mossi dal culto delle memorie patrie e, talvolta, anche da zelo religioso, essi precorsero quella piena rivalutazione dell’arte paleocristiana, medievale e del primo rinascimento pre-raffaellita, che fu il combinato disposto dello storicismo romantico e di quello che Chastel definì «lo straordinario rimescolamento (remue ménage) di opere d’arte provocato dalle rivoluzioni europee, dalle secolarizzazioni dei conventi, dalle dispersioni di gallerie illustri e dalle confische repubblicane e napoleoniche», che portò, in piena Restaurazione, alla nascita dei grandi musei “generalisti”.
Il libro di Previtali fece venire di colpo alla ribalta questo dimenticato mondo di appassionati conoscitori, il cui centro propulsore fu Roma, ma che si estendeva anche a molte altre aree, dalla Toscana, che era il naturale bacino d’elezione di questo recupero, al Veneto, alla Lombardia, agli stati estensi dell’Emilia, alla stessa Napoli. Le acquisizioni storiografiche seguite a questo incipit previtaliano sono state di recente convogliate e arricchite da Gianluca Tormen, che ne ha ricavato l’odierna mostra, composta da ben 42 sezioni: tante quanti sono i collezionisti di cui è stato possibile ricostruire la fisionomia e le predilezioni. Così, accolto di volta in volta dall’effigie del proprietario, il pubblico è introdotto in ciascuna di queste raccolte, e ne assapora gli assortiti tesori - miniature, fondi oro, avori, oreficerie, tavole del primo ‘400, incunaboli dell’illustrazione ottocentesca «a puro contorno » - godendo di un allestimento che evoca, nella misura del possibile, perfino l’ambientazione originaria.
Sottotitolando il suo saggio Da Vasari ai neoclassici , Previtali esplicitò i limiti cronologici entro cui si sviluppava la sua ricerca. Gli studi successivi hanno messo in evidenza il rischio di distorsione prospettica che quel riferimento a Vasari comportava. Pur nel doveroso omaggio al suo testo capitale, la mostra corregge pertanto quei veniali “errori di gioventù”, derivanti dal notorio toscocentrismo di Vasari, la cui riabilitazione dei «primi rudimenti dell’arte» si limitava a tracciare una dogmatica linea ascendente che dai Pisano padre e figlio, Arnolfo, Cimabue, Giotto, Duccio e i Lorenzetti riconnetteva il ripudio dell’arte bizantina (l’aborrita “maniera greca”) alla riscoperta dell’antico e alla triade Brunelleschi Masaccio-Donatello, conducendo per gradi, ma ineluttabilmente, al sommo Michelangelo.
Per ragioni ideologiche, inoltre, Previtali tendeva a negare lo zelo religioso di tipo riformatore, che pure fu fin dal primo Cinquecento uno dei principali moventi dell’interesse per l’arte delle origini. Il drammatico braccio di ferro tra chi voleva conservare la millenaria basilica costantiniana di San Pietro e chi, invece, costruire sulle sue rovine un tempio vaticano capace di sfidare i più colossali edifici dell’antichità a maggior gloria di un papato erede della missione universale di Roma caput mundi , si risolse in uno stallo costruttivo che fece convivere per un secolo il nuovo cantiere, spesso abbandonato e assalito dalla vegetazione, con buona parte della vecchia basilica, ancora officiata e perfettamente funzionante. Finché Paolo V non sciolse il nodo gordiano, decidendone l’abbattimento, ma dopo aver fatto documentare dal chierico Jacopo Grimaldi « per verba et imagines » tutto ciò che era destinato a cadere sotto i colpi del piccone. La pietas documentaria di Grimaldi e il lucido zelo del cardinal Baronio, che strappò a quel piccone lacerti di affresco e di mosaico risalenti ai primordi della chiesa cui aveva dedicato il primo volume dei suoi Annales ecclesiastici , sono davvero all’origine del recupero dei Primitivi. Fu a partire da quel loro culto delle reliquie di un’“ ecclesia” sobria, in comunione con i suoi fedeli e non paganeggiante che prese le mosse il revival paleocristiano tra Cinque e Seicento, decretando la mosaicizzazione di tutte le pale della nuova San Pietro e riscoprendo la “Roma sotterranea” delle catacombe. Da lì discendono il Museo sacro, aperto da Benedetto XIV nel 1757, e le sterminate raccolte realizzate dai cardinali Francesco Saverio Zelada e Stefano Borgia nell’ultimo scorcio dell’età dei Lumi. L’enciclopedica raccolta che il cardinal Borgia aveva stipato nel suo palazzo di Velletri fu celebre nell’Europa dei dotti, tanto da costituire una meta imprescindibile per i maggiori intellettuali di passaggio nello Stato Pontificio, da Goethe a Jan Potocki, il geniale autore de Il manoscritto trovato a Saragozza , che di fronte ai 628 pezzi egizi radunati dal cardinale non esitò a dichiarare di «aver trovato Menfi a Velletri ». Ma sebbene fosse la maggiore collezione di quel tipo che vi fosse in Europa prima della spedizione napoleonica di Champollion, la sezione delle antichità egiziane non era che una delle dodici in cui si suddivideva il Museo veliterno. Un pindarico labirinto la cui eccezionalità era costituita proprio dal suo orizzonte universale - si passava dall’Amazzonia all’Oceania, dall’Estremo Oriente all’Europa cristiana, in un periplo transcontinentale e comparatista del Primitivismo, in cui Borgia aveva fuso ecumenismo cattolico ed enciclopedismo illuminista, alimentandolo a getto continuo grazie ai missionari di Propaganda Fide disseminati un po’ ovunque, di cui poteva liberamente disporre dall’alto della sua carica di Prefetto a vita della Congregazione.