sabato 15 giugno 2013

il Fatto 15.6.13
Libertà e Giustizia organizza la difesa della Costituzione

È ORA DI RACCOGLIERE attorno a un unico obiettivo tutte le forze, le associazioni, i movimenti che scelgono di opporsi allo scardinamento della Repubblica parlamentare”. Così, in una nota, Libertà e Giustizia, associazione politica che – attorno a Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Salvatore Settis, Gaetano Azzariti e Carlo Smuraglia – sta radunando i Comitati Dossetti, la Convenzione per la legalità costituzionale, Salviamo la costituzione, l’Anpi nazionale e quella parte di sindacati che ha partecipato alla manifestazione del 2 giugno scorso a Bologna, al fine di una mobilitazione come prossimo “punto di riferimento per il referendum che inevitabilmente si prospetta”. Un incontro organizzativo iniziale si terrà, a questo proposito, prima di luglio. I nodi critici e di forte allarme democratico sono almeno tre, secondo Libertà e Giustizia: al primo punto, il metodo scelto dal governo e dalle forze politiche che lo sostengono, metodo che “non rispetta l’articolo 138 della Costituzione”. Al secondo punto, c’è il semi-presidenzialismo o il presidenzialismo, che “molti, anche fra i cosiddetti saggi, cercano di imporre ”. Al terzo punto la legge elettorale, non più considerata priorità.

il Fatto 15.6.13
Un appello per salvare la Costituzione
di Alessandra Rocca

È possibile che dobbiamo assistere inerti al saccheggio della nostra Costituzione ad opera di una settantina di pseudo-saggi e con il beneplacito di tutte le istituzioni? Davvero ormai in Italia si è creata una situazione per cui una ristretta cerchia di persone, ormai totalmente lontana dalla realtà, dalla volontà e dalle esigenze del Paese, governa a suo piacimento? Sarebbe il caso di cominciare a pensare di organizzare qualcosa: una grande manifestazione a Roma o tante manifestazioni nelle principali città o sommergere di fax il Parlamento o altre istituzioni.

il Fatto 15.6.13
L’inchiesta Il Papa e la lobby omosex
“Altro che scandalo, per la Chiesa è rivoluzione”
di Chiara Paolin


Se un tuo amico gay ti dice che per cuccare si va il venerdì sera alla sauna di via Aureliana, perché lì è pieno di preti che non cercano altro, tu all’inizio non ci credi. Se fai il cronista, sfidi l’amico e ti fai invitare pure tu. Carmelo Abbate è entrato così in una realtà che puzzava di pettegolezzo, e adesso sa di passaggio epocale.
Nel 2010 la prima inchiesta per Panorama, nel 2011 un libro intero sul sesso in Vaticano.
Quell’amico mi parlò di un fenomeno massiccio, sacerdoti che abbordavano senza problemi compagni occasionali o si fidanzavano con donne e uomini alla luce del sole. Non ci credevo, sono andato a vedere.
Ebbene?
Aveva ragione lui. Presentandomi come suo fidanzato, mi ha fatto conoscere decine di preti gay. Dichiaratissimi.
Veri preti?
Celebravano messa, anche a San Pietro. Poi la sera ci incontravamo nei ristorantini di Testaccio. Con le feste, gli spogliarelli, i baci davanti a tutti.
Pare un’esagerazione alla Dan Brown.
Tutti dissero così leggendo il reportage, cui avevo lavorato per un mese. Allora, testardo come sono, ho deciso di andare oltre. Per un anno mi sono infiltrato e ho scritto il libro.
Risultato?
Insulti a valanga. Accuse di voler speculare e infangare. Fui sinceramente sconcertato nel constatare che l’unico quotidiano nazionale a pubblicarne un brano fu il Fatto. Per il resto silenzio, e un vago disprezzo.
Lei parla in dettaglio di sesso estremo, pornografia e perversione: roba forte.
Purtroppo la maggior parte dei religiosi che ho conosciuto vive un desiderio bulimico, una dimensione faticosa e colpevole della sessualità.
Qualcuno ha trovato la pace dei sensi?
Ricordo un sacerdote che ammetteva: ogni weekend esco, faccio l’amore, e sono a posto. Oppure una suora che viveva in Africa e s’era realizzata con un compagno che la rendeva molto felice. Una suora migliore, diceva.
Risolti o problematici, restano episodi minori, nel corpo della Chiesa.
Non lo credo affatto. Lo pensavo prima di cominciare le mie indagini. Ho pubblicato nel 2012 un testo sulla pedofilia nella Chiesa, e ormai sono convintissimo che la materia dei rapporti sessuali e sentimentali sia la vera bomba su cui oggi siede il Vaticano.
Pensavamo i soldi, la finanza, il potere.
Questo aspetto umanissimo dei rapporti interpersonali e delle esigenze corporali mi sembra più forte. Avere una persona accanto, un figlio, una libertà di sentimento. La Chiesa ha tenuto fermo il suo mondo per decenni, lo sfasamento con il contemporaneo è drammatico. Il sistema non tiene più ma le gerarchie sono terrorizzate: che succede se un prete prende moglie, ha figli, vive una vita tutta sua?
Più difficile controllarlo.
Certo. E che succede al patrimonio della Chiesa? Chi lo amministra? Dalla fine del celibato al sacerdozio femminile, il tema è: vogliamo far fare un gigantesco salto avanti al cattolicesimo?
Francesco è pronto alla rivoluzione?
No, la linea è la conservazione più rigida. Le uniche iniziative chiare, per ora, sono la lotta alla finanza spregiudicata e alla pedofilia. Il papa segue Ratzinger su quel passaggio fondamentale della lettera ai cattolici irlandesi, dove invita a denunciare alle autorità nazionali gli episodi di violenza anziché tacitare tutto nel segreto del confessionale.
Basterà a rinnovare la Chiesa?
Non credo. Sono provvedimenti d’emergenza, per sanare gli aspetti più scandalosi, ma la tensione di fondo resterà. Peggiorerà. Quando Bergoglio riconosce l’esistenza della lobby gay ammette che il problema c’è e va gestito, non che l’unica soluzione è liberare gli individui da una condizione insostenibile. Per quasi tutti.
SEX AND THE VATICAN di Carmelo Abbate Piemme, pag 417, 18,50 €

il Fatto 15.6.13
Soldi sporchi
Indagato per riciclaggio il don che gestisce gli immobili vaticani
di Vincenzo Iurillo


Salerno Cinquantasei persone di fiducia, convocate a una a una per ricevere una “donazione”, un assegno da 10.000 euro, da versare nei conti di una società immobiliare salernitana. Una volta ottenuto il titolo di credito monsignor Nunzio Scarano, 61 enne prelato di Salerno e responsabile del servizio di contabilità analitica all’Apsa, l’ufficio della Curia romana che amministra l’enorme patrimonio di beni mobili e immobili del Vaticano, avrebbe restituito al “donatore” l’equivalente in contanti. La classica operazione in nero. Perché? Alla risposta sta lavorando la Procura di Salerno guidata da Franco Roberti, che come anticipato ieri dal quotidiano La Città in un articolo di Clemy De Maio, ha indagato per riciclaggio Scarano e i 56 firmatari degli assegni. Ipotizzando che questo meccanismo sia servito a coprire la provenienza illecita del denaro, nell’ambito di un riciclaggio ancora più ampio dei 560.000 euro di assegni rintracciati. Un giro nel quale potrebbe essere coinvolto anche lo Ior, la banca centrale vaticana.
Sentito dal sostituto procuratore titolare del fascicolo Elena Guarino, Monsignor Scarano si è difeso affermando che le somme erano di provenienza lecita ma che è stato indotto ad agire così su consiglio della sua ex commercialista. I soldi gli sarebbero serviti per estinguere una ipoteca su un suo appartamento che aveva dato in garanzia per una società immobiliare. Società di cui il Monsignore era socio e dalla quale è voluto uscire. Nel frattempo Scarano sarebbe stato sospeso dal servizio all’Apsa.
L’INCHIESTA È AGLI INIZI, in Procura sfilano gli indagati per rendere gli interrogatori. I fatti risalirebbero al 2009, è quello l’anno in cui Scarano e i suoi presunti benefattori si sarebbero incontrati per concordare lo scambio tra gli assegni circolari e i soldi liquidi. Ai firmatari degli assegni, tutti provenienti da Salerno e provincia, il Monsignore avrebbe spiegato che servivano a ripianare i debiti di una immobiliare titolare di alcune case a Salerno, e di essere già in possesso del denaro necessario, che però non poteva versare in prima persona. Di qui la richiesta agli interlocutori di sottoscrivere l’assegno. Ora la Procura vuole chiarire se l’Apsa e lo Ior hanno avuto una parte nella vicenda, e quale. E se la società immobiliare coinvolta nell’inchiesta sia tra quelle utilizzate dall’Apsa per amministrare alcuni dei beni di loro competenza. Circostanze che potrebbero allargare il ventaglio delle indagini fino a toccare i palazzi del Vaticano.

il Fatto 15.6.13
Vladimir Luxuria: “Dentro e fuori San Pietro”
I ragazzi che dicevano faccio sesso con il prete
intervista di Carlo Tecce


In Vaticano non hanno scoperto nulla di nuovo. Ci voleva un po' di attenzione e tanta ipocrisia in meno per capire il fenomeno: la castità e il nubilato non annullano il desiderio umano, terreno, di affetto e sesso”. Vladimir Luxuria, cosa non la sorprende? “Ho conosciuto numerosi ragazzi che mi raccontavano, fra la disperazione e la rassegnazione, di aver offerto prestazioni omosessuali per avere qualche soldo o per qualche favore: dai preti di parrocchia sino ai più ben vestiti. Io li ho sempre spronati a denunciare, ma ci vuole coraggio”.
Vuole dire che non le suona strano sentir parlare dei festini oltre il colonnato di San Pietro?
Quando partecipavo all'evento Muccassassina, in una nota discoteca romana, vedevo tantissimi sacerdoti che, senza il colletto bianco, si muovevano con intraprendenza. Cercavano con ostinazione di rimorchiare. L'impulso è comprensibile, però diventa grave, e soprattutto un reato, se vengono coinvolti dei minorenni: si chiama pedofilia.
Il Vaticano che c'entra?
Quanti uomini lavorano lì? Quanto potere ha la Santa Sede? Avere rapporti, anche sessuali, con quel mondo aiuta moltissimo. E i ragazzi mi confessavano di aver scambiato il proprio corpo per fare carriera. E questo mi fa rabbia.
Perché?
Io dico che i sacerdoti predicano male e razzolano bene, insistono con la balla che il sesso sia soltanto per la riproduzione e poi sfruttano la fragilità di un ragazzo.
Papa Francesco ha denunciato una lobby gay, sembra attento al tema, la sua espressione le sembra omofobica?
No, il Papa voleva far passare un messaggio, avrà letto gli appunti di Ratzinger, non voleva essere offensivo. Voleva, semplicemente, svelare una tradizione di cui si ha vergogna. Questo è il solito paradosso che non rende credibile la Chiesa: dentro San Pietro i gay possono fare pressioni o essere ricattati, fuori, quelli come me, sono deboli e abbandonati. Il gay religioso può essere soggiogato perché sarebbe uno scandalo rendere pubblica o vivere in serenità la propria sessualità. Inviterei la Santa Sede, se ne avessi l'opportunità e credo che Francesco sarebbe sensibile all'argomento, a far riprendere l'inchiesta sui vari suicidi di guardie, sia svizzere che gendarmi, che si sono verificati negli ultimi anni. La definizione lobby gay mi fa sorridere, invece, perché i gay sono costretti a essere omofobici davvero per rispettare i vincoli che gli impongono e che accettano.
Oggi sfilerà l'orgoglio omo a Roma, l'ennesima manifestazione Gay Pride per chiedere riconoscimenti, diritti civili e sconfiggere la discriminazione. Il sindaco Ignazio Marino non ci sarà, la stupisce?
Credo che Marino sia stato eletto anche da chi ripone speranza in un uomo che non si definisce politico classico e soprattutto un cattolico legato al Vaticano. Come spesso accade, il sindaco e il ministro, assunta la carica, si fanno influenzare dal Cupolone e diventano molto più cauti. Nel '94 partecipò Francesco Rutelli e nel 2006 ci fu Barbara Pollastrini, ora siamo tornati indietro perché né Marino né il ministro Idem vogliono schierarsi apertamente con noi. Dispiace tanto perché ora siamo consapevoli che non avremo mai, non presto, un nostro Obama o un nostro Hollande.

Corriere 15.6.13
La Chiesa tutelata dalla Costituzione. Discussione aperta sul Concordato
di Massimo Teodori


Sul Concordato fra la Santa Sede e l'Italia, uno dei due documenti insieme al Trattato dei Patti lateranensi, è stato steso un velo di ambiguo silenzio, sia da parte laica sia cattolica. Alberto Melloni nell'articolo su Stato e Chiesa apparso il 10 giugno sul Corriere, sottolinea che «Francesco e Napolitano si sono liberati da abiti antiquati» e «Francesco ha confermato un cambio di rotta» invitando i vescovi italiani a «comportarsi non come titolari di un negoziato di potere». Tutto ciò dovrebbe comportare anche un mutamento nei rapporti tra Vaticano e Stato italiano dominati nell'ultimo ventennio prima dal cardinale Ruini, e poi dal cardinale Bertone e dalla Conferenza episcopale italiana. Ma Melloni non cita la portata del Concordato se non per sottolineare che «la Costituzione (citata in Concordato) ha fidelizzato vescovi e fedeli imbottiti di clericofascismo alla democrazia repubblicana».
Eppure il patto concordatario continua a essere in Italia un'ingombrante palla al piede sia per la religione cattolica sia per lo Stato laico, tanto più con il nuovo Papa della Chiesa povera e con la trasformazione della società italiana nella quale i fedeli alla Chiesa ecclesiastica sono ormai divenuti una minoranza. I Patti lateranensi stipulati nel 1929 dal cardinal Gasparri e da Mussolini, chiudevano dopo sessant'anni la «questione romana» apertasi con Porta Pia, assicuravano la pace, per non dire il sostegno della Chiesa ufficiale al regime fascista, e garantivano quella libertà religiosa così precaria nei regimi autoritari. Con la Repubblica, quando non era più necessario salvaguardare la libertà dei cattolici, su pressione di Pio XII tramite il costituente Giuseppe Dossetti, i Patti furono inseriti all'articolo 7 della Costituzione, anche in considerazione degli orientamenti religiosi della grande maggioranza degli italiani del tempo. Nel 1984, poi, Craxi e il cardinale Casaroli firmarono un nuovo accordo che attualizzava il Concordato eliminandone gli anacronismi come l'incipit «In nome della santissima Trinità».
Se, dunque, si guarda al nuovo Concordato (non al Trattato che opportunamente è sempre lo stesso), ci si accorge della presenza di norme pleonastiche in quanto vi sono garantiti gli stessi diritti enunciati nella Carta repubblicana: «La Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani»; «la Repubblica riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà della missione pastorale»; «l'esonero dal servizio militare che non esiste più»; «gli edifici aperti al culto che non possono essere requisiti»; «il riconoscimento della personalità giuridica di associazioni ed enti ecclesiastici»; «l'esenzione dai gravami fiscali per enti aventi fini di religione o di culto»; e infine le questioni relative alla «scuola» e al «matrimonio» dopo il divorzio. Il paradosso sta nella patente sovrapposizione di queste norme del Concordato del 1984 con diversi articoli della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità senza distinzione di religione» (articolo 3); «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge» (art.8); Tutti hanno diritto di «professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma» (art.19); e «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative» (art.20). Se le cose stanno così, che bisogno c'è oggi d'una legislazione speciale, modificabile solo con accordi internazionali tra le due parti?
Il Concordato viene considerato un tabù intoccabile per un doppio ordine di ragioni. Perché risponde a una dottrina giuridica che tende a integrare la Chiesa nello Stato attraverso la commistione di valori religiosi con le norme del diritto (come fece notare Benedetto Croce già nel 1929). Infatti le relazioni speciali tra le istituzioni religiose e i poteri statali che sostanziano le intese concordatarie, quando non servono a garantire la libertà di culto in un regime autoritario, rispondono a una visione confessionale dello Stato agli antipodi dello spirito liberale. E soprattutto perché — una ragione ben presente — sono garantiti privilegi, denaro e potere all'alto mondo ecclesiastico e al Vaticano a carico dello Stato italiano. Ma se davvero la Chiesa di Francesco è ad una svolta che prende le distanze dalla ricchezza, è arrivato il momento di aprire un dibattito sul senso del Concordato. Una responsabilità che dovrebbero sentire non solo le coscienze più avvertite del mondo cattolico, ma anche quel ceto politico fin qui sordo a una visione laica e liberale dello Stato per ragioni spesso dettate dall'opportunismo e dallo strumentalismo.

l’Unità 15.6.13
Rivolta contro Grillo tra i Cinquestelle
Rischio scissione sul caso Gambaro: trenta senatori contro l’espulsione
E c’è chi si informa su come dare vita a un gruppo autonomo
Il capogruppo Nuti parla di «compravendita politica e morale»
di Claudia Fusani


Sarebbero una trentina i senatori contrari all’espulsione di Adele Gambaro dal Movimento su un totale di 52 eletti. E c’è chi, tra i Cinque stelle, si sta informando sull’iter per dare vita a una nuovo gruppo parlamentare. Molto semplice: 20 deputati alla Camera, 10 al Senato. E Grillo insiste sulla linea dura.
Finirà in tribunale. Tra carte bollate e insulti e speriamo che basti così. L’ultimo battibecco serale dell’ennesima giornata ad alta tensione tra i Cinque stelle è illuminante. Dice il capogruppo alla Camera Riccardo Nuti, giovanotto siciliano ortodosso tutto d’un pezzo: «È in atto una compravendita politica e morale da parte di personaggi che nutrono rancore per il movimento e per Beppe. Stanno cercando di spaccarci, alla Camera e ancora di più al Senato dove la situazione è più delicata. Basta con le ipocrisie e i ricatti. Ci sono degli infiltrati e li denunceremo. La verità è che si punta a cambiare le maggioranze per dare vita a un nuovo governo». Replica Mario Giarrusso, senatore, avvocato e siciliano pure lui, più volte balzato alle cronache per insofferenza nei confronti di diktat e post firmati Grillo: «Se Nuti ha notizia di una compravendita, ha il dovere andare in Procura. Altrimenti sono fatti inventati, sta diffamando il Movimento e per questo mi troverei costretto a chiedere la sua espulsione».
La cronaca della giornata Cinque stelle racconta che le fratture sono tali da non essere più ricomponibili; che la pretesa di arrivare al voto e alla conta sull’espulsione sì-no della senatrice Gambaro, «colpevole» di aver detto che Grillo sta diventando un problema con la sua rigidità e i suoi eccessi verbali, significa che la scissione da tempo intravista è ormai fisicamente in atto; e che alla fine, forse, proprio Grillo sta cercando il gancio per mollare o quasi il Movimento. Dietro tutto questo,
prende forma non solo l’idea ma la probabilità che presto ci siano i numeri in Parlamento non dare vita a una maggioranza diversa da quella attuale grazie alla diaspora Cinque stelle.
«Aspettate il ballottaggio e poi vedrete, ci sarà il big bang del Movimento» era stato facile profeta la scorsa settimana un senatore grillino colpito anche lui da un senso di insofferenza per il guru ma non per i principi del Movimento. La certificazione dello scarso risultato elettorale, ha messo a nudo il re e i suoi clown. Costringendo a smarcarsi chi clown non si sente.
La giornata segnata con la X resta lunedì, pomeriggio, quando i parlamentari, tutti, di Camera e Senato, si riuniranno per discutere del caso Gambaro. Un appuntamento che fino all’ultimo i senatori hanno cercato di evitare («facciamo una riunione di soli senatori ma non mettiamo nulla ai voti, il dissenso deve essere accettato») proprio per non arrivare a una conta fratricida. Ma che invece i generali dello staff Grillo-Casaleggio e i capi comunicazione hanno preteso «per fare chiarezza» e per ribadire che «Gambero è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Tutte le azioni lesive del Movimento non saranno più tollerate. E se lunedì ci sarà una proposta di espulsione, si procederà con il voto per l’espulsione».
A questo punto è muro contro muro, gli ortodossi e i flessibili. Sarebbero una trentina i senatori contrari all’espulsione di Adele Gambaro dal Movimento su un totale di 52 eletti. E c’è chi, tra i Cinque stelle, si sta informando sull’iter per dare vita a una nuovo gruppo parlamentare. Molto semplice: 20 deputati alla Camera, dieci al Senato, e con il gruppo, in base al regolamento, arrivano anche uffici e rimborsi. Soprattutto, ammettendo che i senatori dissidenti fossero anche solo una quindicina, palazzo Madama potrebbe avere una nuova maggioranza Pd-Selscissionisti Cinque stelle. Scenario possibile, non ancora probabile, ma che agita i sonni del Pdl. E forse anche quelli di Letta. Perchè anche alla Camera ci sarebbero una quindicina di giovani grilli pronti al grande passo.
«Lunedì sarà una guerra» e se Adele Gambaro dovesse essere espulsa, «ci sarebbero davvero i presupposti per una scissione» confermano alcuni deputati. C’è chi parla di processo «illegittimo che non doveva neppure essere preso in considerazione». Gambaro, infatti, ha espresso una critica politica che seppur rivolta al capo Beppe Grillo, in realtà non viola alcuna norma dello statuto nè del codice di comportamento. Serenella Fuksas, in un’intervista all’Huffington post, propone di «evitare il voto facendo mancare il numero legale». Ma anche questo sarebbe visto come un gesto di sfiducia nei confronti di Grillo visto che è stato lui dal blog a pretendere il voto e poi l’espulsione. «O con me o contro di me, eravate nulla e ora che siete entrati qua dentro non rispettate più le regole» è il tormentone del leader di un Movimento sempre più sprovvisto di tattica e visione politica.
La sensazione è il caso Gambaro sia preso da una parte e dall’altra come il pretesto, l’occasione, per fare chiarezza. E pulizia. Gli ortodossi hanno già deciso di votare per l’espulsione. E di mettere a nudo, almeno nel dibattito che precederà il voto, anche i più critici costringendoli ad andare via.
I critici, non ancora scissionisti, hanno un week end per riflettere. Poi sarà il big bang.

l’Unità 15.6.13
Anche Fo gli dà l’ultimatum
Il Movimento nell’ora dei dubbi
Il premio Nobel: «Cambi rotta o non c’è via d’uscita»
Le simpatie dei vip vacillano: delusi altri artisti italiani che si erano entusiasmati per i grillini
di Toni Jop


Certo, il coro è in alcuni registri affettuoso, ma ora è un controcanto mentre fino a pochi mesi fa era una verdiana sintonia con i destini magnifici del salvatore, Giuseppe Grillo. Sarà una notizia se Dario Fo, il miglior sponsor su scala planetaria della lunga marcia del leader dei Cinque Stelle, giusto ieri parlando con i giornalisti ha ammesso «che il Movimento Cinque Stelle deve andare verso una trasformazione, o non vedo vie d’uscita»?
Dario è una sorta di padre spirituale di questa esperienza movimentista, diversamente da altri artisti e intellettuali si è impegnato personalmente, anima e corpo, nell’ascesa del M5S. Anzi, ha portato il suo corpo sul palco milanese della chiusura del fortunatissimo Tsunami Tour, dove ha benedetto e ha ricevuto benedizioni. In gioviale polemica con il figlio Jacopo che pur avendo seguito con rispetto e attenzione l’emersione del fenomeno, ha preso prudenti distanze da una dinamica di potere interna che anche allora prometteva poco di buono. Infatti, a distanza di una manciata di settimane, ecco che quel tessuto mostra falle e natura in un tormento di episodi che sono sotto gli occhi di tutti, a cominciare dalla compagine degli eletti Cinque Stelle in Parlamento.
1) Una defatigante querelle sull’uso dei soldi delle diarie, 2) l’ossessivo violento paternalismo di Grillo nei loro confronti, 3) la drammatica battuta d’arresto di un’onda che si poteva ritenere sconfinata alle amministrative, 4) la mancanza di un libero confronto interno nelle sedi appropriate, 5) l’assenza di Grillo da un momento collegiale di riflessione sul nuovo stato delle cose, 6) una raffica di suicidi attacchi alle assemblee di Camera e Senato, 7) le espulsioni, la ghigliottina sempre in funzione, 8) la messa in stato di arresto domiciliare ai danni di una senatrice coraggiosa «colpevole» di aver addebitato al capo una quota di responsabilità nei più recenti rovesci elettorali: ecco il sintetico e approssimativo rosario di situazioni che hanno tolto al Movimento lo charme di cui aveva goduto e a Grillo l’insindacabilità politica che pure anche in queste ore cerca di difendere con ogni mezzo.
Fo ci fidiamo dei resoconti, non eravamo presenti – ha precisato che secondo lui è necessaria la creazione di una struttura portante che formi i giovani dando loro spazio. Quindi, Dario pone una questione di potere nella forza politica che pure sostiene con determinazione. Altri artisti italiani che pure avevano seguito con entusiasmo il decollo dell’astronave restano ora a mezz’aria oppure macinano delusione per quel che, fondamentalmente, non è accaduto: M5S, una volta entrato in Parlamento, è stato tenuto da Grillo a bagnomaria dopo aver chiuso porte e finestre, un inutile riccio, mentre il capo menava ceffoni a destra e a manca.
Che ne è stato dei favori di Mina, di Fiorella Mannoia, di Celentano, di Venditti? È il momento dei dubbi, della fiducia ritirata e davvero non è colpa loro.

il Fatto 15.6.13
“Vogliono comprarci”, “Invece no! I 5 Stelle sempre più spaccati
Nuti: “Compravendita in atto”. I senatori: “Fai i nomi se li hai”
Resa dei conti dopo la richiesta di espulsione della Gambaro
di Paola Zanca


Per il capogruppo alla Camera Nuti è in atto una compravendita dei parlamentari M5S da parte di Pd e Pdl. Ma per i “dissidenti” si cerca di nascondere la richiesta di espellere la Gambaro. Lunedì resa dei conti nei gruppi Con la paura che Grillo si stanchi

Quella volta era d'inverno: 14 dicembre, data di nascita dei Responsabili di Razzi e Scilipoti. Allora fu Antonio Di Pietro, padre dell'Idv a dire che due dei suoi non solo erano scappati di casa, ma se li erano proprio comprati, come avevano fatto già con Sergio De Gregorio. Le indagini sono ancora in corso, ma a due anni e mezzo precisi di distanza, quella parola, “compravendita”, è tornata a circolare nelle aule dei palazzi della politica. La pronuncia Riccardo Nuti, capogruppo dei Cinque Stelle alla Camera. Dice: “Il livello di attacco al M5S si è alzato e mira diritto al cuore del Movimento. Sappiamo con certezza che c'è in atto una compravendita morale e politica dei nostri parlamentari ad opera di persone esterne al Movimento”. Parla di “infiltrati”, di “piani” per far saltare il governo. Poi aggiunge: “Non avremo timore di fare i nomi”. Troppo tardi. Su Facebook, i senatori – primi indiziati delle trattative per il fantomatico ribaltone – lo sommergono di critiche. “Cialtrone”, dice Alessandra Bencini. “Se non fa i nomi chiedo la sua espulsione”, tuona Mario Giarrusso. “Nuti è un gran simpaticone, evidentemente non aveva altri modi per farsi bello, questa se la poteva anche risparmiare” (Serenella Fucksia al-l'Huffington Post). “Fai i nomi”, lo esorta Francesco Campanella. Parla anche un deputato, Alessio Tacconi: “Queste dichiarazioni sono volte solo a distogliere dal merito della questione”.
GIÀ, LA QUESTIONE. Sarà sul tavolo lunedì: richiesta di espulsione per Adele Gambaro, senatrice che alle telecamere di SkyTg24 ha attaccato frontalmente Beppe Grillo. Come se l'aria non fosse già abbastanza tesa, ci mancava l'uscita di Nuti a riscaldare gli animi. L'asticella si è alzata a tal punto da avere conseguenze imprevedibili. “Se lunedì in 30 senatori votano contro l'espulsione – ragionano ai piani alti del Movimento – Grillo li sfiducia tutti”. Il gruppo non esisterebbe più e basterebbe ritirare l'uso del simbolo per abbandonare i primi eletti a Cinque Stelle al loro destino. Non sono gli stessi che pensano ad un gruppo autonomo. Sono di più, perché la storia della Gambaro ha coagulato intorno a sé un malumore che va oltre il “solito” dissenso. Non né contro Grillo né difendono Adele: sono semplicemente basiti dal metodo del blog: tre righe per dire dentro o fuori. Dicono che quello che ha fatto Beppe è grave quanto la scena davanti alle telecamere della senatrice emiliana. Anche lui, ragionano, prima di sparare a zero poteva venire a Roma e parlare di persona con lei. Ma non è aria di gesti di riflessione: “Beppe e Casaleggio – raccontano ancora – sono esasperati”. Per questo l'addio, l'abbandono, non è uno scenario così remoto. Ma che cosa sarebbe poi, questa compravendita? È lo stesso Nuti, più tardi, a precisare che non ha prove di scambi “economici”. Ma i soldi di mezzo ci sono. Sono quelli, secondo i bene informati, a cui i senatori dissidenti potrebbero accedere se facessero un gruppo autonomo: 800 mila, un milione di euro, sostengono. Le spiegazioni le avrebbero date, durante una cena, esponenti del centrosinistra. Si fantastica sui nomi di Civati, di Sonia Alfano, di Luigi De Magistris, di Antonio Ingroia.
MA NON TUTTI sono convinti che lo scontro si debba accelerare già a lunedì. Ieri hanno provato a risolvere la questione senza strappi: volevano affrontare il caso solo tra senatori, quelli che Adele l'hanno conosciuta in questi mesi. Invece no. La mozione proposta dal senatore Roberto Cotti – subito ribattezzata salva-Gambaro – era pronta per essere messa ai voti. È stato Vito Crimi in persona, ex capogruppo ancora in carica, a dire che è “improcedibile”. La regola parla chiaro: le richieste di espulsione si votano insieme. Dunque la Gambaro è praticamente spacciata. Da settimane i Cinque Stelle di palazzo Madama chiedono una correzione al regolamento interno che introduca il voto ponderato. Ovvero, visto che i senatori sono esattamente la metà dei deputati, un meccanismo che dia uguale peso a “giovani” e “vecchi”, per evitare che la posizione della Camera finisca inevitabilmente per prevalere ogni volta. Ma non si può. Non solo perché lo dice il regolamento. Ma anche perché rinunciare alla conta significava indirettamente sfiduciare il neo capogruppo Nicola Morra. Due sere fa, nell'assemblea infuocata di palazzo Madama, era stato il senatore Fabrizio Bocchino a chiedere a Morra un passo indietro: trovava insopportabile che, a tre giorni dalla sua elezione, avesse già commesso un passo falso così grave come quello di chiedere l'espulsione di una senatrice senza consultarsi con i colleghi. Ormai l’assemblea è convocata. Alcuni senatori proveranno a invalidarla non partecipando alla riunione. Ma c’è il quorum zero. È un’idea loro.

il Fatto 15.6.13
Il deputato Pd Pippo Civati
“Non ho pagato neanche un caffè Attenti alle parole”
intervista di Paola Zanca


Civati di qua, Civati di là. Il suo nome, negli ultimi tre mesi, lo abbiamo sentito tante volte. Sempre affiancato alle parole “pontiere” e “grillino”. Naturale, dunque, pensare a lui appena il capogruppo Cinque Stelle Riccardo Nuti denuncia una “compravendita” a danno dei suoi parlamentari.
Civati, ce l’hanno con lei?
Io non ho mai pagato nemmeno un caffè.
Eppure la frase di Nuti è chiarissima: “È in atto una compravendita morale e politica ad opera di persone esterne al MoVimento”.
Devono stare attenti a usare certe parole. Non perchè io li quereli, figuriamoci. Ma magari a un magistrato può venire in mente di indagare. Siamo tutti giovani e ingenui, ma siamo pur sempre parlamentari della Repubblica.
Parlano di infiltrati e di un piano contro il governo.
Nascondono con questi toni da spionaggio e guerra fredda un problema politico molto banale. Nessuno ha suggerito alla Gambaro o a Currò o a Zaccagnini cosa dire. Lo possono confermare anche loro. Sono semplicemente persone che hanno dignità ed opinioni.
E parlano con lei.
Sì, certo, e sono uno dei pochi. Ma non ho mai dato consigli, figuriamoci ai senatori. Li ho conosciuti ai tempi di Rodotà, quando si discuteva dell'elezione del capo dello Stato.
Dice ancora Nuti: “Presto faremo i nomi dei parlamentari che sono in contatto costante con i nostri”.
Faccio io una domanda ai Cinque Stelle: potete emanare una norma di regolamento spiegandoci con chi possiamo parlare? Alcuni vanno perfino in televisione, adesso: quelli che non ci vanno non possono parlare con nessuno? Mettano un cartello in Parlamento, come sul-l’autobus: “Non parlare al dissidente”.
Le viene da ridere?
Vorrei che questa storia rientrasse nel buon senso. Qui basta fare una riflessione per finire nel girone degli antipatici, per non dire peggio. Almeno i parlamentari degli altri gruppi potrebbero lasciarli stare.
Di lei Grillo ha detto: “Civati? Lo vorresti adottare o, in alternativa, lanciargli un bastone da riporto”. Quelli come lei sono “maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi del M5S” e “non hanno coscienza della trave su cui sono appoggiati”.
In quello stesso post attaccava anche Rodotà e la Gabanelli, mi sento in buona compagnia. Ma da quel giorno, devo ammettere, nei miei confronti noto sguardi piuttosto tesi tra i deputati più ortodossi.
L’accusa è semplice: ci sarebbe stata una cena in cui i dissidenti grillini vi avrebbero chiesto informazioni su come formare un gruppo autonomo. Lei c’era?
No. E poi secondo lei usano il Pd come un centro servizi? Il problema è politico: non è a chi si chiede come si fa un gruppo, il problema è che qualcuno lo chieda.
Un membro dello staff di comunicazione del Senato, Daniele Martinelli, l’ha definita uno “scilipotatore”, una “esca di quel sistema che se la fa sotto per il Movimento”.
Guardi, voglio capire dove vogliono andare a parare. Mi permetta un consiglio a mezzo stampa: vi rendete conto che vi siete autoesclusi dal dibattito?
Forse è quello che vogliono.
Allora stanno minacciando fantasmi.
Li sentirà ancora?
Se il confronto si può aprire in maniera un po’ meno brutale io sono qua. E a quel punto ci sarebbero anche tanti altri del centrosinistra.

La Stampa 15.6.13
Grillo: se mi votate contro ritiro il simbolo
Lunedì la conta sull’espulsione della senatrice Gambaro: tra i parlamentari è scattato il tutti contro tutti
di Andrea Malaguti


C’è aria di espulsioni collettive. Rischia di saltare tutto lunedì sera. Il progetto. Il sogno di Gaia. Il futuro politico di Grillo, pronto a fare coriandoli dello Statuto del Movimento, a ritirare il simbolo e a chiedere ai suoi fedelissimi di uscire dal Palazzo, per non trasformare la «tomba maleodorante» nel suo personale e indecoroso sepolcro. Il Capo è stanco, fisicamente e mentalmente, e anche i suoi dialoghi con Casaleggio sono meno gratificanti di un tempo. Dopodomani si giocherà la partita decisiva. I suoi burrascosi parlamentari, villaggio di Asterix 2.0 senza pozione magica, saranno chiamati a votare l’espulsione della senatrice Adele Gambaro. «Abbiamo perso per colpa di Grillo e dei suoi post violenti». Lesa maestà? Lesa maestà. D’altra parte, nella prima riunione romana post elettorale, il Caro Leader l’aveva detto: «Proveremo a cambiare il Parlamento da dentro, se non ci dovessimo riuscire torneremo nelle strade».
L’operazione pulizia non decolla. Una parte del suo bizzarro esercito non lo segue più. Quanti sono gli infedeli? Lo vuole sapere. E li vuole allontanare. Così ha forzato la mano. «Cacciate la Gambaro». Editto da blog sottoscritto e rilanciato dai suoi dioscuri al Senato, Vito Crimi e Nicola Morra. Scelta che ha generato il caos. Due giorni di confronti pieni di rabbia, lacrime, e risposte mancate. Il caso Gambaro è diventato il caso Grillo. O con me o contro di me. Meglio un Movimento più magro che un Movimento appestato. Malattia incurabile? «Io non voto per l’espulsione di nessuno. Qui al Senato siamo tutti fratelli», spiega Fabrizio Bocchino. E non avete un padre? «Io no». Amen. È uno dei leader del dissenso ragionato. Di quelli che il voto non lo vorrebbero proprio. E neppure vorrebbero l’assemblea. Di quelli che in ogni caso lunedì diranno no. Quanti? Cosa succederà a quel punto? «Chi vota no dimostra di volersi sottrarre al giudizio della Rete. E chi si sottrae al giudizio della Rete è fuori dal Movimento», dice con inusuale durezza staliniana Vito Crimi. Il tribunale del popolo. Orientato dal Signore della Liguria. Le richieste d’espulsione potrebbero essere diverse e contemporanee. «Meglio pochi ma buoni». E se la mozione Grillo andasse in minoranza? «Impossibile», giura Crimi. Ma se succede il Capo lascia. Ci ha già scherzato sopra. «Chi rimane potrà chiamarsi movimento sei pianetini». Non basta una risata a seppellire il disagio. Al Senato gira una lista con i nomi di 15 ribelli presunti. Alla Camera il numero è analogo. Anche per questo a Montecitorio il capogruppo Riccardo Nuti esce allo scoperto. «È in atto una compravendita da parte di personaggi che nutrono rancore nei confronti del Movimento e di Beppe. Il risultato elettorale ha fatto sì che alcuni infiltrati entrassero nel Movimento». Boom. Traditori. Infiltrati. Compravendita. Il senatore Giarrusso si ribella. «Nuti vada in Procura a denunciare ciò che sa o proporrò la sua espulsione». Tutti contro tutti. Rapidamente un pianeta deliziosamente promettente e imperfetto è diventato una giungla tenebrosa e avvelenata.

La Stampa 15.6.13
La deputata Pinna: “Siamo pronti a costituire un nuovo gruppo”
La dissidente: “Se serve, giusto riunirci in una nuova casa. Lunedì ci conteremo”
intervista di Andrea Malaguti

qui

Corriere 15.6.13
La senatrice Alessandra Bencini
«Ci pensino bene su Adele O usciremo prima del voto»
intervista di Al. T.


ROMA — Alessandra Bencini è stata una delle prima senatrici ad esprimersi liberamente in dissenso nel Movimento 5 Stelle. Votando, unica mano alzata su 52 abbassate, una disponibilità a discutere, nel caso di un voto di fiducia al Pd. Quel voto, e la successiva intervista al Corriere, rilasciata non senza difficoltà e con grande cautela, l'hanno messa in una condizione non dissimile da quella attuale di Adele Gambaro. Non stupisce, quindi, che la Bencini sia in prima fila per difenderla.
Senatrice Bencini, si va verso l'espulsione della Gambaro?
«Non credo proprio. Manca l'oggetto del contendere».
In che senso?
«La libertà di parola c'è ancora, no? È vero che va esercitata preferibilmente all'interno del gruppo, ma è anche vero che abbiamo una Costituzione. E il fatto che l'Adele abbia parlato ai media non significa che si sia messa fuori dal gruppo».
Ha parlato con lei?
«Sì, è dispiaciuta di quello che è successo. Si è creata una gran confusione interna. Era molto meglio se la si lasciava andare, se si lasciava spengere la cosa. La gente ha la memoria corta».
Ma a Grillo non è piaciuta.
«Già, al nostro megafono, anzi, al nostro detonatore fuori campo. Avrei preferito che anche lui venisse a parlare al gruppo invece di scrivere sul blog. Ha fatto come la Gambaro, no?».
E se la espellono?
«Io mi batterò. Noi siamo inclusivi. Siamo 53 e vogliamo restare 53».
I capigruppo non la pensano così.
«Anche loro hanno agito mediaticamente, annunciando l'assemblea senza neanche valutare con noi e senza avvertirci».
E dunque? Se si arriva al voto?
«Confido nell'intelligenza collettiva».
E se venisse a mancare?
«Beh, faremo due calcoli. Se ci sono i due terzi, la decisione ha valore, altrimenti no. Vorrà dire che usciremo prima del voto».
I vertici dicono che basta la maggioranza.
«Allora è sufficiente anche se sono in cinque? A mio avviso serve che ci sia il voto favorevole di almeno la metà dei gruppi».
Se votano l'espulsione se ne va?
«Io non voglio uscire, sono arrivata in politica con i 5 Stelle e voglio rimanerci. È un onore, un onere, ma credo ancora in questi valori».
Nuti parla di compravendita. Ci sono dei venduti tra voi?
«Se fa nomi cognomi e indirizzi bene. Altrimenti spara gratis e questa diventa solo cialtroneria. Adduce colpe tanto per colpire a caso».
Anche Grillo non è tenerissimo. Dicono sia in arrivo da voi.
«Ma speriamo. Lo vedo volentieri. Di persona poi è più morbido, anche se lo conosciamo, non ci si aspetta una signora inglese da lui. Spero che venga, ci parli un po' di strategie e ci faccia un po' ridere».
In effetti c'è poco da ridere. Nuti dice che qualcuno di voi si è informato per sapere a quanti soldi si ha diritto con un gruppo nuovo.
«E c'è bisogno di informarsi? C'è scritto sui regolamenti: sono 400 mila euro. Ma io non so che farmene di questi soldi, ma dove siamo? Sono in rosso da una vita, spendo tutto quello che ho e non mi manca niente. Mica me li porto nel frassino i soldi».

Repubblica 15.6.13
Il senatore Fabrizio Bocchino difende la collega:
“Vogliono buttarmi fuori? Possono farlo, io rispondo solo ai cittadini”
“La nostra linea politica non la decide lui”
Al Senato noi siamo cinquantatré fratelli e io non posso espellere uno dei miei fratelli. Lunedì parleremo prima fra di noi
intervista di T. Ci.


ROMA — Fabrizio Bocchino scende giù dal ring stravolto. Anima critica del Movimento cinque stelle, tenta di lasciarsi alle spalle in fretta Palazzo Madama, l’ennesima drammatica riunione tra senatori. «La prego, è stata una mattinata faticosa, non è il caso…». Poi però la sensazione di ribellarsi a un’ingiustizia contro una collega ha la meglio: «Votare per l’espulsione di Adele? Guardi, non esiste. Io non voto per l’espulsione di nessuno. Per principio». Accelera il passo, dilata i silenzi. Si ferma di fronte al portone del suo ufficio. E lì rivela di non temere sorte analoga a quella della senatrice Gambaro, messa alla porta per un’intervista: «Mi vogliono espellere? Se vogliono, lo propongano. Io sono qui per i cittadini. Sono solo un portavoce ». Senatore Bocchino, cinque ore di riunione ma la linea non cambia: lunedì si vota per l’espulsione della senatrice Gambaro.
«Questo lo dice lei. Intanto, noi senatori lunedì ci incontreremo per discutere ancora della questione».
Sì, ma la strada sembra segnata.
«Dobbiamo parlarci. Lunedì, prima della riunione congiunta dei gruppi di Camera e Senato».
Lei, comunque, non ha cambiato idea?
«Io non voto per l’espulsione di nessuno. A prescindere».
A prescindere forse è addirittura troppo…
«Sa cosa dico sempre? Qui noi siamo cinquantatré fratelli. E io non posso espellere uno dei miei cinquantatré fratelli».
In questo caso, però, l’espulsione l’ha chiesta il padre.
«Non c’è un padre, ci siamo noi fratelli, ».
Beh, il padre è Grillo. Quello dei post, con i quali ha chiesto e ottenuto un voto per la cacciata della senatrice.
«La linea politica, l’ho detto e lo ripeto, non la decidono i post di Grillo. Noi discutiamo
in assemblea, sempre. E lo faremo anche lunedì pomeriggio».
Eppure il caso Gambaro sembra uno spartiacque. È decisivo per la sua permanenza nel movimento?
«Io sono, mi sento nel movimento».
Non voterà per l’espulsione e sostiene che i post di Grillo non decidono la linea. In fondo anche lei – come la sua collega potrebbe essere espulso per un’intervista.
«Guardi, se vogliono proporre la mia espulsione, lo facciano pure. Se vogliono espellermi, sono liberi di votarlo e di farlo. Io sono qui, sono nel movimento. Sono solo un portavoce dei cittadini e a loro rispondo. Rendiconto tutto, lavoro e lo faccio essendo in pace con la mia coscienza».

Corriere 15.6.13
Contatti con il Pd, lo scenario gruppo autonomo
Le domande di alcuni parlamentari sui fondi previsti in caso di scissione
di Emanuele Buzzi


MILANO — Incertezza, molta incertezza. Oltre la cortina fumogena dei dibattiti e dei malumori, il futuro politico del Movimento registra uno dei passaggi più delicati. Con scenari sempre più oscuri. Le parole di Riccardo Nuti sulla presunta compravendita di parlamentari alimentano voci e sospetti. «Giù le mani dal Movimento. Non avremo paura di denunciare tutto. Tutto», twitta Roberta Lombardi. Le ipotesi vanno oltre il semplice scouting ed evocano intrecci complessi. Fonti vicine ai Cinque Stelle riferiscono di contatti tra alcuni parlamentari del Movimento ed esponenti del Pd: non si tratterebbe nulla di illecito, ma i pentastellati in questione avrebbero chiesto notizie per la formazione di gruppi parlamentari autonomi. Sul tavolo anche le cifre stanziate per la loro gestione. L'indiscrezione (sul fatto che alcuni dissidenti abbiano preso informazioni) ha destato tanto rumore da essere stata discussa nei giorni scorsi tra i parlamentari anche in assemblea.
Ma i rumors non si fermano qui. Nel Movimento c'è anche chi si spinge oltre e ipotizza la nascita di nuovi gruppi in cui non confluirebbero solo fuoriusciti dai Cinque Stelle: si tratterebbe di una pattuglia più nutrita, che pescherebbe anche in altri partiti di centrosinistra, dando vita a un'ala numericamente robusta. Un gruppo che peserebbe come una spada di Damocle sugli equilibri dell'esecutivo Letta, evocando scenari di maggioranze variabili. «A questo punto sarebbe fondamentale raggiungere quota 16 — commenta un parlamentare —: quella è l'asticella di senatori transfughi necessari per rendere questa eventuale idea tangibile». E prosegue: «Sono ancora lontani però da quella cifra, forse per questo alcuni Cinque Stelle stanno cercando di prendere tempo». Intanto, tra veleni, dubbi e tensioni, si sta cercando di organizzare in tempi brevi il primo «Restitution day», ossia il giorno in cui la parte eccedente della diaria verrà restituita: tra i fedelissimi serpeggia l'idea che, con la scissione, i possibili trasfughi portino con sé anche quei soldi su cui si è tanto dibattuto.
Un'ulteriore piccola crepa che rende ancor più denso di nubi l'orizzonte dei Cinque Stelle in vista dell'assemblea di lunedì (per decidere una eventuale espulsione di Adele Gambaro). Molte le anime che si contrappongono. Non è solo un match fedelissimi contro dissidenti. Le ragioni professionali, di stima, di amicizia giocano un ruolo importante in una partita a scacchi complicata. L'obiettivo dichiarato di una fetta di senatori e deputati — una cinquantina, secondo le stime — è che si eviti il voto, in modo da non spaccare il Movimento. Un'ipotesi al momento improbabile, anche se nel weekend si moltiplicheranno i contatti per cercare una soluzione indolore. Tra i due fuochi ci sono deputati e senatori che ancora non si sono fatti un'idea chiara, ma anche quei parlamentari della commissione Affari esteri in cui lavora Gambaro e dell'Emilia-Romagna, che hanno condiviso sul territorio le battaglie e il successo elettorale. Tra questi ultimi sembra prevalere la libertà di coscienza.
A cercare di sedare gli animi è intervenuto Dario Fo. «Grillo deve cambiare registro su certe cose, sono sicuro che farà delle varianti importanti e riuscirà a legare tutto il gruppo», ha detto a «Otto e mezzo», su La7. Il Nobel poi ha aggiunto: «Adesso si sta facendo una speculazione esagerata sul M5S ma Grillo saprà ricostruire l'equilibrio interno e saprà tirare fuori le qualità stupende di queste persone».

Repubblica 15.6.13
Piano dei dissidenti contro Grillo “No ai suoi diktat”
“Prendere il controllo del gruppo”
Pippo Civati: “Non posso parlare con altri parlamentari? Facessero un regolamento per dire chi può parlare con chi”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Resa nei conti nel Movimento 5Stelle. Venti parlamentari sono pronti a sfidare Beppe Grillo e a difendere la senatrice Adele Gambaro che lunedì potrebbe essere espulsa perché ha criticato la leadership dell’ex comico.

La trappola contro i dissidenti è pronta. È stata piazzata su esplicito ordine di Beppe Grillo e scatterà contro i parlamentari che lunedì oseranno votare contro il diktat del quartier generale con l’obiettivo di salvare Adele Gambaro. «Chi la difenderà, si metterà fuori da solo», è l’avvertimento lanciato dal duo Grillo-Casaleggio. Insomma, i ribelli che non toglieranno immediatamente il disturbo rischieranno l’espulsione. Proposta magari dal collega di scranno parlamentare per semplice alzata di mano. Per questo, l’ala critica prepara le contromosse. Il tentativo sarà quello di mettere già lunedì in minoranza il capogruppo Nicola Morra, espressione dei “duri” del movimento. Ma un manipolo di senatori e alcuni deputati sono comunque pronti a cambiare gruppo.
Il dato più sorprendente è che Vito Crimi, braccio politico del Fondatore e amico personale di Gianroberto Casaleggio, non si tira indietro e illustra senza giri di parole il piano degli ortodossi: «Chi lunedì vota contro la proposta di affidare alla Rete l’espulsione, viola un principio fondamentale del movimento. Più che mettersi fuori dal movimento, è più giusto dire che ne dovrà trarre le conseguenze». Di fatto, è l’annuncio di una campagna di epurazione del dissenso interno che rende quasi superfluo il passaggio assembleare. Crimi lo argomenta così: «Il motivo è chiaro: chi vota contro dimostra di volersi sottrarre al giudizio della Rete. E quindi sceglie di non essere portavoce di chi ci ha individuati come candidati, cioè la Rete».
È l’ultima trincea scelta dal board dei grillini e teorizzata ancora in queste ore dal leader, che ha in tasca nome e simbolo del movimento. È la chiarezza che Grillo esige e per la quale è pronto a sacrificare «anche venti parlamentari ». Quando da Roma gli fanno notare che tira una brutta aria, lui non si scompone. Visti i rapporti di forza fra i deputati, il rischio di essere messo in minoranza è considerato minimo e comunque non giustifica ipotesi di mediazione: «Non c’è problema, se decidono diversamente prendo il simbolo e me ne vado». Lo seguirebbero i fedelissimi, che popolano soprattutto il gruppo della Camera. Una volta raggiunto l’equilibrio interno e allontanati i dissidenti, comunque, i grillini passeranno al contrattacco. E già si valutano iniziative eclatanti per uscire dall’angolo, come ad esempio una nuova occupazione delle aule parlamentari.
Se a Montecitorio il capogruppo Riccardo Nuti serra i ranghi in vista dell’assemblea, a Palazzo Madama i volti stravolti dei senatori raccontano il dramma politico in atto. Il summit di ieri si è trasformato in un surreale processo al dissenso. Perché la maggioranza dei senatori, impegnata in uno scontro durissimo, ha cercato fino all’ultimo di azzerare il timer della resa dei conti, cancellando l’assemblea del lunedì per permettere al gruppo di lavorare alla soluzione del caso Gambaro. Si sarebbe trattato di un’implicita sfiducia al capogruppo in carica. Non sono però riusciti a sfondare.
Morra e Crimi, aggrappandosi al regolamento e facendo infuriare molti dei presenti, hanno richiamato tutti a rispettare lo statuto.
I ribelli, però, sono pronti a tentare un nuovo assalto lunedì. Il piano, al quale stanno lavorando
già da ieri pomeriggio, è quello di chiedere un nuovo voto. L’obiettivo è sfiduciare Morra. È un progetto difficile da realizzare, ma nessuno può azzardare previsioni certe su un gruppo ormai lacerato. I dissidenti hanno anche minacciato di disertare la riunione congiunta. Un atto di guerra contro i colleghi della Camera con i quali, ormai, i rapporti sono compromessi. In tutto i senatori eterodossi sono trenta, divisi tra chi è pronto a votare contro la cacciata e chi invece sceglierà di non partecipare al voto. Sono gli stessi che già ieri hanno annunciato di voler salvare la collega.
Accanto alla guerriglia interna, però, corre sotterranea l’exit strategy dei dissidenti. Battista e una decina di senatori - alcuni siciliani e una fetta della pattuglia tosco-emiliana - attendono solo l’incontro decisivo prima di mollare gli ormeggi. Già si ragiona di nome e simbolo. Gambaro, assente anche ieri alla riunione, è in costante contatto con loro. E l’area dell’insofferenza potrebbe portare nei prossimi mesi un’altra decina di senatori a lasciare.
Alla Camera, intanto, i ribelli sanno di essere a un passo dallo snodo decisivo. Pippo Civati, attaccato da Nuti per i rapporti coltivati con alcuni grillini a disagio, osserva sconsolato la deriva: «Sono accuse ridicole. Non posso neanche parlare con altri parlamentari? Facessero un regolamento per dire chi può parlare con chi...».
Un peso decisivo nella battaglia di lunedì avrebbe potuto assumerlo un’eventuale trasferta romana di Grillo. La macchina organizzativa della Camera è stata preallertata, ma i falchi hanno consigliato al leader di non affacciarsi. Troppo alto il rischio che la situazione precipiti, troppo forte il timore che la presenza del comico accenda ulteriormente gli animi. Meglio sbrigarsela senza compromettere troppo il Fondatore.

Repubblica 15.6.13
L’autoreferendum di Grillo sulla rete
di Giovanni Valentini


TRAMITE l’utilizzo della rete come forma principale di diffusione dei propri messaggi e di interazione con i cittadini, il M5S ha senza dubbio segnato un passo in avanti sul piano dell’evoluzione dei modelli e degli stili della comunicazione politica.
(da “Il partito di Grillo” di Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini – Il Mulino, 2013 – pag. 23)
È , in pratica, un referendum su se stesso quello che Beppe Grillo ha lanciato sulla Rete, dopo il flop alle ultime amministrative e le accuse che gli sono piovute addosso dall’interno del M5S. In un colpo solo, è riuscito così a mortificare la “democrazia rappresentativa” e la “democrazia digitale”, riducendo quest’ultima a una misera parodia della prima. Un “coupe de théâtre” degno di un grande comico, non c’è dubbio. Ma anche un ulteriore colpo all’immagine e alla credibilità del suo Movimento, già provato dall’insuccesso elettorale e dalle tensioni conseguenti.
Un vulnus alla “democrazia rappresentativa”, perché una reazione del genere – accompagnata dal “processo” per espellere la senatrice dissidente Adele Gambaro – nega l’autonomia della funzione e del mandato parlamentare, sancito dalla stessa Costituzione. Ma soprattutto nega la libertà d’opinione e di critica, un diritto fondamentale riconosciuto a qualsiasi cittadino nei limiti stabiliti dalla legge.
Una lesione alla “democrazia digitale”, perché l’autoreferendum si configura di fatto come l’imposizione di una scelta ai suoi seguaci e quindi e di una riconferma plebiscitaria da parte loro. La Rete, dunque, non più come luogo virtuale del confronto, e magari della condivisione, ma piuttosto come strumento di forzatura o coercizione del consenso.
Tornano in mente le recenti dichiarazioni di Stefano Rodotà, duramente contestate da Grillo anche sul piano personale, quando ha avvertito che «la Rete da sola non basta», criticando la mancanza di democrazia all’interno del Movimento 5Stelle. E ancor prima, nel saggio intitolato “Il diritto di avere diritti” o in altri precedenti, il giurista rifletteva sulle contraddizioni della “cittadinanza digitale” in quella che lui stesso chiama “la società dell’algoritmo”.
Poco importa, a questo punto, se e come l’autoreferendum viene in effetti celebrato sulla Rete e quale risultato produce. Basta già l’annuncio per invocare il giudizio del “popolo sovrano”. E l’esito è comunque scontato in partenza: un plebiscito a favore del leader carismatico che, come il “guru” di una setta, si rivolge direttamente ai propri seguaci in nome di quello che gli autori del libro citato all’inizio definiscono «un web-populismo dal destino incerto».
Non si tratta di demonizzare un fenomeno o una tendenza che ormai appartiene su scala internazionale alla democrazia contemporanea. Chi si batte da sempre in favore del pluralismo dell’informazione e della libera concorrenza in Italia, non può non riconoscere al M5S il merito di aver rotto in qualche modo il predominio politico di un “regime televisivo” fondato da trent’anni sul duopolio Rai-Mediaset che qui denunciamo da sempre. «I sostenitori del Movimento – sottolineano il professor Corbetta e la professoressa Gualmini – sembrano essere più vicini dei loro concittadini al superamento del paradigma della comunicazione di massa in favore di un maggiore equilibrio fra televisione, giornali e web, benché continuino a collocare questi tre canali, complessivamente, nello stesso ordine gerarchico del resto della popolazione».
Sta di fatto che Internet è stato scelto da Grillo e dai suoi attivisti come «l’arena principale attraverso cui lanciare la sfida ai partiti, alla classe politica e, non da ultimo, al sistema dell’informazione». La “democrazia digitale”,
appunto, contro la “democrazia rappresentativa”. La cultura libertaria della Rete contro quella considerata conservatrice dei giornali e della televisione, indipendentemente dalle rispettive collocazioni professionali, civili e politiche, nella pretesa illegittima di
un’omologazione generale.
Questa rappresentazione non corrisponde, però, alla realtà oggettiva con tutte le sue articolazioni e sfumature. E a quanto pare gli stessi parlamentari 5Stelle hanno cominciato a rendersene conto, ribellandosi ai diktat del loro capo-popolo, nel tentativo di stabilire rapporti più funzionali ed equilibrati con i giornali e con la tv. La storia dei mezzi di comunicazione di massa insegna del resto che nessun nuovo “medium” ha mai soppiantato completamente quelli precedenti, per favorire piuttosto una contaminazione e un arricchimento reciproco di codici e di linguaggi. È proprio quello che sta gradualmente avvenendo oggi in Italia anche per la comunicazione politica, intaccando il totalitarismo mediatico di Grillo.

il Fatto 15.6.13
La vita vuota del Parlamento
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, ricordo certi tuoi racconti non esaltanti delle giornate in Parlamento, e mi domando se adesso è diverso. Ne dubito perché non leggo mai di qualcosa per cui si possa dire: sì, adesso lavorano. Lavorano a che cosa?
Martina

LE DICHIARAZIONI non mancano. La più frequente è “altrimenti ce ne andiamo a casa”. Due cose cambiano ogni volta, in questa dichiarazione: la ragione (quale legge o riforma urgente). E la data, che si ripete identica un mese dopo. Per cui i famosi “quattro mesi” entro i quali questa o quella cosa devono essere portati a termine, ricominciano sempre da capo. Per esempio dal 12 giugno, se si legge a pag. 8 del Corriere della Sera che “sulle riforme - che Napolitano ha definito ineludibili - governo e Parlamento ora corrono. Il ministro Dario Franceschini ha stimato che entro luglio il decreto legge costituzionale del governo dovrebbe essere approvato in prima lettura sia alla Camera che al Senato. Il provvedimento (n. 813, relatore Anna Finocchiaro) inizia il suo iter in commissione già domani. E anche il ministro Gaetano Quagliariello fissa un nuovo timing per il Pdl: “Quattro mesi per fare le riforme, altrimenti ce ne andiamo”. Trapelano due fatti allarmanti. Il primo è che l’enunciazione dei propositi rimane intatta mentre scorre il tempo, e il decorrere ricomincia sempre da un nuovo punto. Ma il secondo è che non vi è alcuna iniziativa in corso da parte del Parlamento, né alcun dibattito o scontro o incontro o confronto. Il Parlamento appare un reparto di produzione senza iniziativa e senza autonomia che riceve indicazioni “stop and go” su ciò che deve confezionare, e acquista meriti solo se tiene il tempo. Ma il tempo, a sua volta, muta secondo le vicende dei partiti e del governo, che lo cambiano in testa o in coda e senza alcuna relazione con il lavoro parlamentare. Dunque immagino le giornate parlamentari, vuote di contributi e piene di voti (o bottoncini da schiacciare) molto simili ai precedenti governi. Il governo berlusconiano chiedeva e otteneva (non saprei dire perché) consenso dal Pd e votava mostruosità mai discusse come il “pacchetto sicurezza” o il Trattato con la Libia, senza alcun dibattito o irruzione di vera vita parlamentare: il governo Monti ha fatto lavorare commissioni e aula sotto comando e senza mai permettere la minima deviazione (al punto da dettare anche le correzioni alle parti sbagliate dei propri testi): il governo di larghe intese ha una sua missione condivisa dalle due squadre in campo, che nel frattempo hanno fatto amicizia, e non devono condividere niente con nessun’altro, ma solo mantenere la disciplina. Quanto al fare in fretta, l’aria è sempre inquinata dai gas di scarico di gruppi, leader in carica e aspiranti leader che occupano tutto il dibattito interno ai partiti. Ma niente a che fare con la salvezza degli italiani e con il volo cieco del Parlamento. Una non felice storia italiana continua.

l’Unità 15.6.13
Pd, verso l’intesa sulle primarie aperte
Bersani: mai stato per una competizione chiusa, da segretario ho perfino modificato lo statuto
Lunedì la riunione per le nuove regole del congresso
Botta e risposta tra Orlando e Fassina
Una volta erano «I Giovani turchi», la squadra compatta di nuovi volti più vicina a Pier Luigi Bersani
di M. Ze.


ROMA Una volta erano «I Giovani turchi», la squadra compatta di nuovi volti più vicina a Pier Luigi Bersani. Oggi, che questa definizione diventa impegnativa per oggettivi fatti di attualità in Turchia, sono in pieno mutamento politico interno al Pd, non più squadra, ma (più o meno) giovani democrat che in vista del congresso prendono strade diverse e seppur nello stesso governo non mancano di cantarsele. Discutono il ministro Andrea Orlando, ormai vicino all’ala dalemiana, sostenitore di Gianni Cuperlo, in corsa per la segreteria, e il viceministro Stefano Fassina, su posizione bersaniana. Discutono sulla platea degli elettori alle primarie, sul profilo del partito e sulla quantità di critica e autocritica rispetto agli ultimi tre anni di vita della creatura democratica. Discutono anche i renziani, i bersaniani e franceschiniani perché adesso si entra nel vivo e lunedì si riunirà la Commissione che dovrà disegnare le nuove regole per il congresso e dunque l’eventuale modifica dello Statuto.
Acque agitate? Un po’ più del solito ma meno di quanto accadrà quando la discussione entrerà nel vivo e alla fine bisognerà decidere. «Almeno sul percorso lo troviamo un equilibrio?», chiede Antonello Giacomelli, vicepresidente dei deputati Pd, di fede franceschiniana. Areadem, l’area di cui il ministro Dario Franceschini è il leader, non intende, per ora, farsi tirare in questa guerra a distanza che bersaniani e renziani proprio sulle regole stanno portando avanti, il ministro per i Rapporti con il Parlamento è convinto che le regole vadano scritte insieme al sindaco di Firenze, ma Giacomelli inizia a temere che scatti la logica dei veti incrociati e il partito resti impantanato. Walter Veltroni l’altro ieri ha ribadito quello che pensa da sempre: il segretario del Pd è anche il candidato alla premiership. Guglielmo Epifani che oggi parteciperà al Forum dei progressisti europei a Parigi, con Harlem Désir e Martin Schultz intende proporre la modifica dello Statuto e separare le due figure e forse lo fa non solo pensando al futuro più lontano ma anche alla stretta attualità: un segretario che guarda a Palazzo Chigi come candidato naturale del partito potrebbe essere fatale per la durata del governo Letta. «Personalità come Gianni Cuperlo e Matteo Renzi hanno caratteristiche diverse e complementari e sarebbe un grave errore metterle in competizione dice Dario Ginefra, sostenitore della modifica statutaria-. Il Pd deve imparare a giocare di squadra per evitare inutili corse autolesioniste. Siamo in grado di avere un ottimo segretario e un imbattibile candidato alla Presidenza del Consiglio». E mentre Cuperlo conferma la sua candidatura e Fabrizio Barca la sua non candidatura, dicendo che il Pd è «la cosa meno lontana dal partito che uno vorrebbe in un Paese. Un partito così potrebbe costruire in un’interazione continua, anche conflittuale e accesa con le organizzazioni dello Stato, l’itinerario di revisione della spesa. Il Pd lo fa poco, e parla sempre e solo di persone», Renzi per ora non si pronuncia su quale formula preferirebbe. I suoi raccontano che è ormai prossimo l’annuncio della sua discesa in campo per la scalata al partito ed è certissima la sua intenzione a non lasciarsi «fregare dalle regole». Non stavolta.
Spetterà alla Commissione trovare la quadra, non solo sulla figura del segretario, ma anche e soprattutto sulla platea elettorale e il percorso stesso del congresso che Epifani vuole dal basso verso l’alto, prima i circoli e poi la discussione nazionale.
L’articolo 2 dello Statuto al 3° comma definisce «elettori/elettrici» iscritti e non iscritti al Pd che dichiarino di rinoscersi nella sua proposta politica e che «accettino di essere registrate nell’Albo pubblico delle elettrici e degli elettori». I renziani temono che Bersani voglia limitarle, accuse che l’ex segretario respinge: «Io voglio solo bene al Pd perché penso che serva all’Italia. Ma come si può pensare che Bersani pensi a primarie chiuse? Per aprirle ho persino modificato lo statuto. Da dove tirate fuori certe leggende metropolitane?», dice intervenendo ad Agorà. Posizione che ribadisce Fassina, «il nuovo segretario deve essere eletto con primarie aperte che consentano a iscritti ed elettori del Pd di poter partecipare». Ma le diffidenze restano intatte. Orlando torna ancora sul documento stilato nei giorni scorsi dai bersaniani: «Sono convinto che nel documento non ci sia una seria autocritica sul perché tutti quanti, compreso il sottoscritto, non siamo riusciti a fare le cose che avevamo promesso al Congresso e quando Bersani è diventato segretario del partito», provocando al risposta di Fassina: «Il mio collega ministro Andrea Orlando dice che nel documento che ho firmato c’è poca autocritica, io invece ritengo che c’è una profonda autocritica su come siamo stati nel governo Monti». Posizioni distanti tra due ex Giovani turchi che oggi in vista del congresso guardano in direzioni opposte.

l’Unità 15.6.13
Pietro Folena
«Il Pd smetta di essere una confederazione dei capi-corrente e si doti di un programma fondamentale, sul modello della Spd»
«Il partito è cresciuto male Ora una costituente delle idee»
intervista di Maria Zegarelli


Il fermento c’è eccome, perché di fatto il congresso Pd è aperto e la crisi democratica, malgrado il successo del 16 a 0 alle amministrative, è tutta lì: aperta dal giorno delle elezioni politiche di febbraio. Il Laboratorio politico per la sinistra, associazione che raccoglie al suo interno iscritti e non al Pd, vuole arrivare all’appuntamento d’autunno con un proprio contributo, una «Costituente delle idee», per contribuire a rifondare il partito. Intanto venerdì prossimo organizza insieme ad altre associazioni, (tra cui Lavoro e Welfare, di Cesare Damiano, Politica e società.it di Vannino Chiti) un’Assemblea aperta presso la Sala del Garante, in Piazza Montecitorio a Roma, per avviare la discussione sui contenuti sui quali far ripartire in motore che sembra andato in blocco. Pietro Folena, il «laboratorio politico per la sinistra» di cui lei fa parte, fa un’analisi spietata dello stato di salute del partito democratico. Logorato dalle correnti, da un metodo “centralistico ed elitario di direzione politica”...
«Si tratta di una critica a questa prima fase della storia del Pd, nato con l’idea di un partito leggero, non legato alla società, fondamentalmente elettorale, basti pensare all’articolo dello Statuto dove si dice che il segretario è il candidato premier... Pier Luigi Bersani divenne segretario criticando questa opzione ma non è stato sufficiente a cambiare le cose perché il Pd è apparso come una sorta di confederazione di capi-corrente e non di idee, che sarebbe naturale».
E in vista del congresso, malgrado tutti critichino questo aspetto, non sembra che stia cambiando molto. Non crede che i democratici siano vittime delle dinamiche che ognuno di loro critica ma poi pratica?
«È esattamente così, malgrado tutti gli errori commessi le dinamiche restano le stesse. Noi con la Costituente delle idee, che verrà presentata con un ordine del giorno alla prossima direzione del Pd, partiamo da una considerazione, dalla necessità di rimettere al centro del dibattito i contenuti. Non può ridursi tutto a una recita di fedeltà a questo o quel capetto. L’Spd nel 1959 lo chiamava il “programma fondamentale” e si liberò dei dogmi marxisti per arrivare ad una visione più concreta delle riforme: noi oggi dovremmo fare esattamente così. Partiamo da una discussione sul programma di fondo di questo partito, da una critica a questo liberismo sfrenato, alla svalutazione del lavoro, alla mercificazione predatoria di tantissimi aspetti della vita delle persone. Senza estremismi, ma senza fare sconti. Non possiamo continuare soltanto in questa lotta fra leader, frutto di questo ventennio berlusconiano che ha contagiato tutti».
Ogni volta che si parla di leaderismo nel Pd si pensa a Matteo Renzi. Anche lei si riferiva al giovane sindaco?
«Non personalizzo, anche se il pensiero culturale di fondo attorno a cui ruota l’azione politica di Renzi non lo condivido affatto. Renzi ha una grandissima abilità, molti negli ultimi giorni definendolo un talento gli consigliano di studiare di più, io credo che abbia studiato e proprio per questo non mi convince affatto quello che dice. Resto convinto che una sinistra nuova debba fondare la sua azione politica sull’eguaglianza in questo tempo. Ne parla Papa Francesco e noi che facciamo? Ripropone lo schema degli anni Ottanta della meritocrazia?».
Non la convince Renzi. E Gianni Cuperlo?
«Prima delle persone voglio parlare dei programmi e del progetto politico che abbiamo per il Pd».
Ma le idee alla fine saranno rappresentate anche da un nome un cognome al congresso.
«Dopo che ci si è confrontati anche nei circoli sulle idee e sul profilo del Pd si arriverà anche ai nomi, visto che il congresso si esprime in candidature. Ma prima voglio sapere come ci collochiamo in Europa, se l’eguaglianza diventa un valore fondante, se respingiamo il presidenzialismo, che è l’estrema conseguenza di questa una visione leaderistica. Personalmente posso dire di avere molto apprezzato alcune cose espresse da Cuperlo in questi ultimi giorni, a partire dal valore dell’eguaglianza. Ma ho apprezzato anche alcune riflessioni di Fabrizio Barca sul radicamento territoriale del partito». Barca ha definitivamente sgombrato il campo da dubbi dicendo che non si candiderà.
«Ho letto che non intende candidarsi, ma il suo contributo resta importante nella discussione che stiamo aprendo. Quello che voglio dire è che noi in questo momento non abbiamo bisogno di una nuova guerra tra leader, dobbiamo scardinare alla radice questo meccanismo che ci ha portato nello stato di crisi in cui versa il partito. Oggi c’è bisogno di capire cosa vogliamo essere». Parliamo di cosa vorrebbe lei che fosse questo partito. Più di sinistra?
«Non deve essere un partito di centrosinistra vago che non è capace di fare delle scelte chiare ma di sinistra, che guarda al centro e allarga i suoi orizzonti. Non deve essere un Pd che dall’istanza cristiana fa discendere una visione moderata ma una visione dell’eguaglianza di cui parla anche papa Francesco e in grado di fare scelte radicali in campo ambientale».
Il ruolo degli iscritti quale deve essere in questo partito non liquido ma neanche troppo pesante?
«Agli iscritti deve essere restituita la parola anche nei circoli e non perché appartengono ad una corrente che deve riferire a un consigliere comunale che deve riferire ad un deputato in una filiera rigida che toglie anima al partito stesso. E dico questo difendendo le primarie, ma non si può vivere solo di questo. Un partito è condivisione di valori, prima di tutto e poi è passione. Ridiamo passione alla politica».

La Stampa 15.6.13
Cresce l’insofferenza dei bersaniani: “Col Pdl alleanza da rivedere”
Per Renzi popolarità record nei sondaggi, è al 60%
di Carlo Bertini


Negli ultimi anni non è mai successo a nessun leader politico di riuscire a raggiungere Napolitano in cima alle classifiche di popolarità. E invece per la prima volta ieri c’è riuscito Matteo Renzi: anche se nella maggior parte delle rilevazioni il «rottamatore» risulta ancora ben al di sotto di Napolitano, in un sondaggio Swg per Agorà ha toccato la vetta, con un grado pari al 60% di consensi. E se il 7 giugno era a pari merito con il Capo dello Stato, ieri Renzi è balzato di colpo un poco avanti, destando una forte sorpresa non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche tra i parlamentari a lui più vicini: «La cosa più sorprendente è che sia un leader del Pd capace di avere consensi in tutte le aree politiche ed è paradossale che qualcuno consideri questa fortuna come un problema», fa notare Paolo Gentiloni. Sì perché il 68% degli elettori del Pd e il 73% del Pdl sono convinti che si debba candidare al congresso e il suo consenso spazia pure nelle aree di Scelta Civica e nel mondo dei 5Stelle.
Non sorprende invece che tutto ciò agiti ancora più le acque congressuali del Pd e impensierisca un poco gli uomini vicini al premier. I quali però non solo fanno notare che l’unico del Pd che si avvicina a quella soglia sia proprio Letta, salito fino al 49% nel grado di fiducia, ma si mostrano ben più irritati dalle aggressioni ad opera dei bersaniani che dalle pungolature del rottamatore. Un bersaniano doc come il governatore della Toscana, Enrico Rossi, dà voce a quello che in molti a sinistra vedono come «una variabile non indipendente»; e cioè un possibile riaggancio dei grillini in libera uscita. «Chissà se un giorno, tra gli espulsi del Movimento 5 Stelle, o chi lo lascia perché non sopporta i modi autoritari di Grillo, non si possa formare, alla Camera e al Senato, un gruppo di M5S che insieme a Sel e al Pd possa formare una maggioranza di Governo. Mi auguro che avvenga perché in quel momento ne vedremo delle belle», è l’auspicio di Rossi.
D’altra parte, giorni fa, tonificato dal successo dei ballottaggi, seduto su un divano alla Camera, Pierluigi Bersani se ne usciva con una intemerata sorprendente, «è chiaro che noi appoggiamo lealmente il governo Letta, ma nel frattempo dobbiamo tenere alta l’opzione di un governo del cambiamento». Dando l’impressione di volersi risollevare dalla sconfitta agitando di nuovo la sua bandiera. E dalle parole pronunciate ieri ad un convegno della Cgil a Bologna dal suo fedelissimo Davide Zoggia, si capisce che la modalità con cui i bersaniani sfoderano l’ascia di guerra e la brandiscono in chiave congressuale, può diventare una mina pericolosa per le sorti del governo. «L’alleanza su cui si basa il governo Letta non consentirebbe di balbettare e invece dopo quaranta giorni ci sono segnali di insofferenza dai territori. Il tipo di alleanza anomalo che abbiamo fatto, e che non volevamo, o produce effetti immediati o diventa molto complicato per noi continuare con questa esperienza». Uscite che ovviamente provocano la reazione infastidita dei lettiani, «bisogna evitare di tirare Letta per la giacca visto che ha un compito durissimo e deve occuparsi del Paese», reagisce duro Francesco Boccia.

La Stampa 15.6.13
“Il Pd deve cambiare: è diventato soltanto un comitato elettorale”
Barca: “Cinque parole per ripartire: concorrenza, merito, lavoro, giustizia e persona”
Non mi candiderò a segretario, siamo già in preda al correntismo
Serve qualcuno capace di gestire il conflitto interno
intervista di Riccardo Barenghi


Sta girando l’Italia come una trottola, ogni giorno una città, a volte anche due. Riunioni, incontri e assemblee nei circoli del Pd. Partito a cui si è iscritto da una paio di mesi e del quale vuole capire la natura, anzi il suo senso. In parole povere se ancora si possa chiamare partito. Il tour di Fabrizio Barca, una storia comunista, una lunga carriera prima in Banca d’Italia poi al Tesoro, e infine un recente passato da ministro del governo Monti, si concluderà a novembre.
A quel punto, conclusa l’istruttoria, lei si candiderà alla segreteria del Pd?
«No, l’ho detto e lo ripeto. Non è questo il mio obiettivo. Io penso che il Pd debba rinascere e per farlo ha bisogno di ritrovare il senso che dovrebbe avere un Partito politico moderno, magari di sinistra. In poche parole, deve rimettere al centro una strategia che ridefinisca la sua identità».
Sarà lunga visto lo stato dell’arte...
«Dieci, quindici anni. Ma se non si comincia non andiamo da nessuna parte. E per cominciare io metto al centro cinque parole, ognuna delle quali contiene in sé un programma: concorrenza, merito, lavoro, giustizia e persona. Sono gli assi sui quali deve muoversi una forza di centrosinistra. Che inoltre non può continuare a vivere come una sorta di comitato elettorale, chiamato a mobilitarsi solo quando si deve eleggere il Parlamento, il premier o un consigliere regionale. Dopo di che scompare, anche perché gli eletti non sentono il bisogno di avere un rapporto col loro partito e quindi lo abbandonano al suo destino fino a quando non devono farsi rieleggere. Insomma o il Pd mette al centro quella che io chiamo mobilitazione cognitiva, o si mette in rete nel senso che tutti sanno quel che fa il proprio compagno anche se vive a mille chilometri di distanza, o si capisce che non si può essere un partito di centrosinistra pensando solo a quale capo eleggere, oppure non vedo in gran futuro per questo partito».
E lei non potrebbe diventare segretario di questo partito in rinnovamento?
«No, perché prima bisogna passare per un forte conflitto interno e io sono un elemento di animazione e destabilizzazione, voglio essere una tesi che aspetta di discutere con l’antitesi. Non sono adatto alla mediazione e non ho voglia di farla, diventerei l’ennesimo trenino in una stazione stracolma di vagoni vuoti. Siamo in preda a un correntismo senza contenuti. Serve un cambiamento radicale e serve qualcuno che sia più interno di me al Pd e che sia disposto a gestire questo conflitto fino a trovare appunto una sana sintesi senza però mettere tutti insieme in una sorta di neodoroteismo democristiano».
E chi è questo qualcuno, Matteo Renzi?
«Beh, Renzi intanto a una visione dell’Italia capace di convincere le persone ad uscire da questo stato depressivo in cui si trovano. E poi ha un linguaggio genuinamente in sintonia con le nuove generazioni. Non è solo capace di comunicare ma è anche fresco. Ed è più credibile di tanti altri che a parole sembrano più di sinistra di lui ma che usano un linguaggio vecchio, di apparato. Che, e lo dico dopo avere girato mezza Italia, i nostri iscritti non capiscono più».
Quindi Renzi è il leader perfetto?
«Non esageriamo. Deve essere innanzitutto convinto che per governare il Partito e il Paese è necessario il metodo che io sostengo. E poi che il problema dell’Italia non è dare più poteri a un solo uomo. Se assume queste due indicazioni, diventa un razzo».
Letta al governo, Renzi al Partito e un domani anche lui al governo: morirete democristiani?
«Renzi dice sempre che lui è un “nativo”, ossia politicamente nato col Pd. Ma insomma, l’origine non mi sembra più un problema. Quando ho aderito al Pd ho cambiatoidea sul fatto che ci volessero due sinistre, una socialdemocratica e una cristiano-sociale. Oggi penso che debbano essere una sola, capaci di pensare al lavoro come rinnovamento della società e delle sue gerarchie (idea socialdemocratica) e di mettere al centro la persona (idea cristiano-sociale) ».
Che impressione ha di questa nuova guerriglia che si scatenata nel Pd?
«Impressione pessima. Dico: fuori i contenuti e poi discutiamo».
Infine, Barca, primarie aperte o chiuse?
«Aperte per il candidato premier. Mentre per il segretario io farei votare non solo gli iscritti ma anche tutti coloro che hanno lavorato per il Partito. Anche se non hanno la tessera».

La Stampa 15.6.13
«Preferenze bipartisan Il rottamatore incarna il nuovo»
5 domande a Roberto Weber presidente Swg
di A. Pit.


Renzi al 60% nella fiducia degli italiani sorpassa anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al secondo posto con il 54%. Per il presidente dell’Swg Roberto Weber, che ha curato il sondaggio, «Napolitano ha fatto un grande lavoro di composizione di conflittualità e di rissosità, ma anche di indirizzo. Però ora il Paese chiede un salto in avanti, che si traduce in una dimensione di radicalità».
E Renzi è la risposta?
«Non lo sappiamo, ma sembrerebbe di sì. Nel percepito incarna questa chiave di discontinuità. Quello che mi colpisce di più in questo Paese fazioso e costruito su fazioni - e non lo dico in senso negativo ma come dato oggettivo - è che Renzi prenda un po’ di qua e un po’ di là».
Però cresce anche Letta (49%), tutt’altro che il prototipo della radicalità. Come se lo spiega?
«Non mi sorprende: Letta e Renzi sono due estremi che si contengono e si compenetrano. Di sicuro, premesso che Renzi non lo conosco, è forte la sensazione che in questa fase sia lui a spingere di più».
Berlusconi (26%) in declino?
«È sempre egemonico nel suo perimetro, indipendentemente dalle percentuali».

Corriere 15.6.13
Pier Luigi Bersani
«Un'altra maggioranza se Berlusconi decide di far cadere il governo»
intervista di Aldo Cazzullo


Pier Luigi Bersani, in un'intervista al Corriere, difende la sua strategia verso i 5 Stelle: «Le consultazioni in streaming non sono state inutili. I grillini cominciano a capire che devono ingaggiarsi. Oggi sosteniamo Letta; ma è compito di tutti noi tenere viva la prospettiva di un governo di cambiamento». Un avviso a Berlusconi: «Non pensi di avere le chiavi del futuro: se stacca la spina non si torna a votare». E sulla lealtà di Renzi: «Non so se lo è stato. Ma non mi accusi di voler cambiare le regole. Per lui abbiamo separato le figure di segretario e candidato premier, strano tornare indietro».

Bersani: il governo di cambiamento è ancora una prospettiva possibile
«Non so se Renzi sia stato leale. Assurdo accusarci sulle regole»
Stanzetta al secondo piano, molto più piccola di quella del segretario. Due bersaniani che non hanno voltato gabbana: Stefano Di Traglia e Chiara Geloni. Lui è alla scrivania, camicia senza cravatta, sigaro.
Pier Luigi Bersani, quattro mesi fa lei pareva a un passo da Palazzo Chigi. Cos'è successo?
«È successo che abbiamo perso 5 punti, un milione e 700 mila voti, a favore di Grillo. Un milione, forse più, erano gli arrabbiati. Gli altri pensavano che avremmo vinto lo stesso».
Invece avete continuato a perdere. Almeno il tentativo di fare il governo di cambiamento con i grillini è stato sincero? O metà partito si stava già mettendo d'accordo con Berlusconi?
«Parlare di sconfitta quando abbiamo un presidente del Consiglio è piuttosto curioso. Ma lasciamo perdere... Il mio è stato un tentativo convinto, e anche ragionevole: non prendi il 25% senza ingaggiarti. Puoi metterci un mese a capirlo, forse due; ma devi capirlo. Era solo questione di tempo. Infatti è proprio quello che sta accadendo».
Sta dicendo che il governo di cambiamento è ancora possibile?
«La mia idea è pragmatica e realistica: i governi di coalizione puoi doverli fare, ma non sono governi di scossa. Evitano un rischio, ma non sono motori di cambiamento. Le consultazioni in streaming non sono state inutili. Ora se le ricordano».
Renzi disse che lei si fece umiliare.
«Invece avevo la testa alta e rivolta in avanti, con l'idea di far ragionare un mondo. Oggi abbiamo un governo di servizio. Lo sosteniamo e lo sosterremo. Vi abbiamo impegnato i nostri migliori esponenti. Ma è compito di tutti noi tenere viva la prospettiva di un governo di cambiamento».
Lo smottamento in corso tra i grillini può far nascere un'altra maggioranza?
«Lo ripeto quattro volte con la massima chiarezza: io sostengo Letta, persona intelligente, capace e leale. Ma Berlusconi non pensi di avere in mano le chiavi del futuro. Ci pensi bene. Stavolta staccare la spina al governo non comporta automaticamente andare a votare. Gliel'ha detto persino Cicchitto».
Lei dopo il voto tentò di parlare con Grillo?
«Sì. Ma non è stato possibile».
Perché però non avete colto il primo segnale di apertura e non avete votato Rodotà?
«L'elezione del capo dello Stato implica la ricerca di una soluzione il più possibile condivisa. Ritirato Marini, abbiamo indicato Prodi, che compariva tra i candidati di Grillo. E se nelle file del Pd non ha avuto abbastanza voti il fondatore del partito, non credo proprio che li avrebbe avuti Rodotà».
La accusano di non aver preparato bene la candidatura di Prodi. Non era meglio metterla prima ai voti dentro il partito?
«Io ho chiesto di votare a scrutinio segreto. Ma la reazione al nome di Prodi è stata un'ovazione unanime. Allora ho chiesto di votare per alzata di mano. Tutti hanno alzato la mano. Adesso tutti mi chiedono chi sono i 101. Io rispondo: parliamo prima dei 200 per Marini».
Ma molti dei 200 avevano espresso prima il loro dissenso.
«Non è così che si sta in un partito. Vorrei un partito in cui si dialoga con la base su facebook e su twitter, ma si ha il coraggio di seguire e difendere le scelte collettive».
Marini significava larghe intese. Con Berlusconi.
«Contesto in radice questa affermazione. Il nuovo capo dello Stato sarebbe stato nella pienezza dei suoi poteri, dall'assegnazione dell'incarico allo scioglimento delle Camere. E poi con Berlusconi abbiamo eletto Ciampi, in un momento in cui eravamo noi al governo e la conflittualità con la destra era da guerra mondiale. In ogni caso, alla fine non restava che chiedere a Napolitano il sacrificio di cui dobbiamo essergli grati».
Potesse tornare indietro si dimetterebbe ancora?
«Io non mi sono dimesso per ragioni personali, o per dispetto, sentimento che non conosco nella mia anima. Mi sono dimesso per fissare un punto: al prossimo congresso ragioniamo su cos'è un partito, cos'è una democrazia. Questo Paese è inchiodato, non cresce, non riesce a fare riforme, non ha un'idea del futuro, perché è tarato su modelli personalistici o padronali o trasformisti o plebiscitari».
In tutte le democrazie ci sono i leader.
«Certo. Ma mentre le altre democrazie possono contare sulla stabilità che danno le formazioni politiche, da noi si alzano comete che durano molto o poco ma finiscono, e aprono vuoti d'aria di sfiducia. Cosa c'è dopo Berlusconi? Dopo Monti? Dopo Bossi? Dopo Grillo? Dopo Di Pietro? Grillo ora perde voti: qualcosa torna da noi; ma il resto va in sfiducia ulteriore».
Nel Pd dopo di lei potrebbe toccare a Renzi. Che cosa pensa davvero di lui?
«È un ragazzo sveglissimo, intelligente, fresco, pieno di energia. Può essere di enorme utilità per il Pd. Mi va bene tutto, ma non il vittimismo. Renzi non può dire che ora noi vogliamo cambiare le regole per danneggiarlo, dopo che io ho cambiato le regole per farlo partecipare alle primarie, separando il ruolo da segretario da quello di candidato premier. Possiamo decidere di tornare indietro, ma sarebbe davvero strano. A maggior ragione adesso, che il premier è un dirigente del Pd».
Renzi è stato leale con lei?
«Non lo so. Non ho cose da lamentare, se non lo scarso affetto per il collettivo. Voglio un partito che sia uno strumento al servizio della società civile, non uno spazio dove agiscono miniformazioni personalizzate. Magari fossero correnti; rischiano di essere filiere al servizio di una persona».
Quindi lei è per un segretario diverso dal candidato premier, eletto solo dagli iscritti?
«Nessuno può accusare di voler restringere il campo proprio me, che ho fatto due volte le primarie, e le ho vinte. E non si dica che l'esito è stato deciso da qualche burocrate; hanno votato milioni di persone. Ora Epifani propone: sganciamo i congressi di circolo e di federazione dal congresso nazionale. Sono d'accordo. Diamo tutto il tempo possibile e con il massimo di apertura a chi vuole iscriversi, anche a titolo speciale. Ma è il Pd che sceglie il suo segretario. Quando sarà il momento, discuteremo del candidato premier».
Se il Pd diventa un partito personale, magari spostato al centro, c'è il rischio di una scissione a sinistra?
«Sono radicalmente contrario. Non è accettabile il solo pensarci. Ma il rischio che tornino le vecchie faglie, Ds e Margherita, può prendere la mano. E il rischio si evita costruendo un grande partito europeo».
Perché D'Alema ce l'ha tanto con lei?
«Ce l'hanno tutti con me? Pensi che invece io non ce l'ho con nessuno».
Neppure con la Moretti, che lei scelse come portavoce e non votò Marini?
«Con nessuno. Sono fiero di aver aperto il partito alle nuove generazioni. Che però devono maturare, devono capire che noi siamo un salmone controcorrente. Ci faccia caso: il Pd è l'unico a chiamarsi "partito". Tutti gli altri, compreso Vendola, rifiutano quella parola. Berlusconi vuole trasformare il Pdl in un'azienda di soli managers. Noi dobbiamo tutti essere consapevoli della drammaticità della scelta di chiamarci partito democratico».
Quanto dura il governo Letta?
«Il governo non deve legare la sua vita solo al compimento delle riforme istituzionali. Deve durare fino a quando la democrazia non si prende un presidio, fino a quando non si vedano risultati di una riforma della politica e dei partiti di cui il Pd con il suo congresso deve essere il battistrada».
Secondo lei è davvero impossibile evitare l'aumento dell'Iva?
«La penso come Fassina: non possiamo togliere l'Imu a zio Paperone e scaricare l'aumento dell'Iva sul piccolo commerciante e sul consumatore. Noi dobbiamo rendere visibile il nostro punto di vista. Sta al governo trovare la mediazione. La priorità è il lavoro. L'Italia deve chiarire di essere disposta a stringere ancora di più il controllo politico sui bilanci, per superare le perplessità tedesche, in cambio di investimenti sul lavoro, subito. I benefici della fine della procedura di infrazione devono arrivare adesso, non a babbo morto. Aggiungerei anche il tema dei diritti, come le unioni civili, la cittadinanza. Trovo sconvolgenti le parole rivolte al ministro Kyenge. Mi aspetto che su un fatto del genere si faccia giustizia».
Perché lei è contrario all'elezione diretta del capo dello Stato?
«Io non sono pregiudizialmente contrario al semipresidenzialismo. La mia preoccupazione è evitare derive plebiscitarie, che però esistono anche nell'altra ipotesi di riforma, il cancellierato. Discutiamo di entrambe, ma partendo dai contrappesi».

Corriere 15.6.13
Esecutivo con Sel e 5 Stelle La tentazione degli ex ds
Rossi: sogno un'altra maggioranza. I timori di Renzi
di M. T. M.


ROMA — È un particolare. Apparentemente poco importante, ma è dai dettagli che si capisce quale veicolo — e quanti scossoni — sta per prendere la politica italiana. Pier Luigi Bersani ha chiesto (e ottenuto) un ufficio a largo del Nazareno.
Detta — e scritta — così può sembrare un'inezia. In fondo, perché mai un ex segretario non dovrebbe avere una stanza al partito? Semplicemente perché non l'ha mai avuta (né tanto meno sollecitata) nessuno. Non Walter Veltroni, quando si è dimesso, e neanche Dario Franceschini, dopo la sua reggenza. Il fatto poi che lo studio di Bersani stia a pochi passi da quello di Guglielmo Epifani provoca dubbi e sospetti tra i «Democrat».
La trasformazione dell'ex leader in un capo corrente sta producendo effetti a catena. E non solo nel Pd. Finora si è detto e scritto che era Matteo Renzi il potenziale killer di questo governo. Adesso si è scoperto che non è così. In questo momento sono i bersaniani che stanno facendo fibrillare l'esecutivo guidato da Enrico Letta. Come testimoniano le parole di Davide Zoggia, neo responsabile dell'Organizzazione: «Se non vanno in porto le riforme, prime fra tutte quelle istituzionali, il governo con il Pdl è un prezzo che non possiamo permetterci di pagare». Ma, soprattutto, se Letta non incassa subito alcuni risultati, spiega ancora Zoggia, «per noi diventa molto complicato continuare con questa esperienza: ci sono già segnali di insofferenza dai territori».
Affermazioni, queste, che vanno lette insieme alle dichiarazioni rilasciate da un altro buon amico dell'ex segretario del Partito democratico, Enrico Rossi. Confessa il presidente della Regione Toscana: «Il mio sogno è quello della nascita di una maggioranza con Pd, Sel e Movimento 5 stelle». Ecco l'idea che una parte degli ex Ds del Pd continua ad accarezzare: il ribaltone. Ossia, la caduta del governo Letta e la nascita di un altro esecutivo sostenuto da una maggioranza ben più spostata a sinistra. L'idea fa accapponare la pelle a Matteo Renzi, che con la franchezza di sempre dice: «È una grandissima cazzata pensare di far cadere il governo Letta per dare vita a un ribaltone».
L'ipotesi è giunta, in un modo o nell'altro, fino alle stanze del Quirinale, provocando un certa irritazione nell'inquilino del Colle. Ma è meno peregrina di quanto sembri. O, meglio, nella ridotta bersaniana c'è chi ci pensa sul serio. Non a caso due fedelissimi del presidente del Consiglio ieri sono scesi in campo per dare l'altolà a certe esternazioni dei sostenitori dell'ex segretario. «Smettiamo di tirare il governo e il premier per la giacchetta e impegniamoci tutti per lavorare seriamente e per raggiungere degli obiettivi», ha dichiarato il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia. E la vice presidente del gruppo del Pd alla Camera, Paola De Micheli, è stata ancora più esplicita: «Non c'è nessun bisogno di minacciare la crisi».
Insomma, nel Pd non è solo Renzi che, come gli ha suggerito Walter Veltroni, deve guardarsi dal fuoco amico. Anche il presidente del Consiglio deve stare attento. Del resto, lui, da politico avveduto qual è, ne è ben conscio: «Certe fibrillazioni interne al Pd non fanno bene al governo e alla stabilità: possono pregiudicare i risultati che ci siamo prefissati», ha spiegato ai suoi il premier.
Il nervosismo dei bersaniani sembra direttamente proporzionale ai consensi che in questi giorni sta nuovamente mietendo Renzi. Dopo che due settimane fa la popolarità del sindaco di Firenze aveva subito una battuta d'arresto, adesso sta nuovamente crescendo. Secondo l'Swg la fiducia nel primo cittadino del capoluogo toscano è aumentata di 5 punti in percentuale nell'ultima settimana. Renzi supera così nella classifica del gradimento il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Cresce anche la fiducia in Letta, mentre scende quella nei suoi compagni d'avventura Silvio Berlusconi e Angelino Alfano. Un ultimo dato: secondo il 70 per cento dell'elettorato del Pd il sindaco di Firenze deve candidarsi alla segreteria.


Corriere 15.6.13
D'Alema chiama a raccolta le «anime» democratiche

ROMA — Proprio nel giorno in cui la commissione Congresso del Pd avvierà la battaglia sulle regole, Massimo D'Alema chiamerà a raccolta, alla fondazione «Italianieuropei», tutte le anime del Pd per discutere di un tema cruciale per il futuro dei Democratici: la forma partito. Al seminario, che si svolgerà lunedì porte chiuse, parteciperanno il segretario Pd Guglielmo Epifani insieme a Gianni Cuperlo, candidato dei dalemiani per la leadership e big della vecchia e nuova guardia del Pd: accanto a Giuliano Amato e Anna Finocchiaro, anche Fabrizio Barca e i renziani Dario Nardella e Salvatore Vassallo. Una mattinata di riflessione su come rendere attrattivi i partiti in tempi di antipolitica ma in cui le varie aree del Pd leggono anche un crescente attivismo dell'ex ministro degli Esteri in vista del congresso.

Corriere 15.6.13
I tempi delle primarie e del Congresso

Lunedì si riunirà la commissione che dovrà preparare il Congresso nazionale e scrivere le regole per la corsa alla segreteria. I renziani sollecitano Epifani affinché stabilisca quanto prima le date, il segretario ha assicurato che l'assise «rifondativa» del Pd si svolgerà entro l'anno
Il primo nodo da sciogliere è chi potrà votare il nuovo segretario: i renziani sono per primarie aperte, i bersaniani sono tentati di affidare la scelta ai soli iscritti
o di consentire la partecipazione a chi si registra, anche via web, in un apposito albo degli elettori
Il secondo punto è che i bersaniani vorrebbero modificare in modo permanente lo statuto in modo che la figura del segretario non coincida con quella del candidato premier alle elezioni. Una variazione che potrebbe far desistere Matteo Renzi dall'idea di candidarsi alla guida del partito

Repubblica 15.6.13
Pd, Epifani si sfila: “Non corro da segretario”
E Bersani frena sulle regole: io voglio primarie aperte. Si spaccano i Giovani Turchi
di Giovanna Casadio


ROMA — «Per quanto mi riguarda, è confermato: non mi ricandido alla segreteria, l’ho già detto ... se no, non sarei così olimpico». Guglielmo Epifani, da cinque settimane segretario del Pd, oggi è in viaggio con D’Alema a Parigi per il Forum dei progressisti europei, e lunedì sarà ospite sempre di D’Alema al seminario di ItalianiEuropei sulla “forma partito” che vedrà partecipare tutte le correnti. Un attivismo che però, giura, non significa un ripensamento, magari pressato da Bersani, da Franceschini e dai lettiani in cerca di candidato. Il leader democratico mette così a tacere le voci di chi nel partito sostiene che, alla fine, si farà convincere a correre contro Renzi, la cui candidatura incombe. Il sindaco “rottamatore si riserva di decidere. E lo scontro sulle regole per il congresso si inasprisce.
Non una discussione accademica, ma politica. Un esempio: le primarie riservate solo agli iscritti penalizzerebbero Renzi, se scendesse in campo. Ma a sorpresa Bersani, l’ex segretario, fa marcia indietro su questo, anche per non rompere con Franceschini: «Io voglio solo bene al Pd perché penso che serva all’Italia. Ma come si può pensare che Bersani pensi a primarie chiuse? Per aprire ho persino modificato lo statuto, da dove arrivano queste leggende
metropolitane?». Per la verità, erano stati proprio i bersaniani, promotori di un documento e di un sito (fareilpd.it) a ipotizzare una premiership forte (con primarie aperte a tutti) e una leadership più debole, con primarie riservate solo agli iscritti. Lo stesso Stefano Fassina, vice ministro dell’Economia, tra i promotori di quel documento, precisa: «Sono per primarie aperte». Sostiene inoltre di non prendersela per la critica aspra che gli muove Andrea Orlando, ministro dell’Ambiente, e compagno di corrente (quella dei “giovani turchi”): «Il documento di Fassina non contiene una seria autocritica », accusa Orlando. In questo magma di fibrillazioni, Epifani invita alla calma: «Le diversità sulle regole? Le affronteremo nella commissione per il congresso che s’insedia lunedì, e io ci sarò». Ci sarà anche un braccio di ferro sul presidente della commissione: i bersaniani e Epifani vogliono Davide Zoggia; i “giovani turchi” no.
Anche se il mantra nel Pd è che si discute prima di temi e poi di nomi (questa volta il congresso parte dai circoli), gli sfidanti scaldano i muscoli. Gianni Cuperlo, appoggiato da D’Alema e dalla sinistra Pd, è in gara. Interviene al convegno di “Rinnovamento della sinistra” e parla della ricostruzione del centrosinistra. Però Vendola, il leader di Sel, nei giorni scorsi ha aperto a Renzi. E attacca il governo Letta, giudicandolo «vicino allo showdown, non riesce a fare niente, se non propaganda». Si ritira dalla competizione, Fabrizio Barca. Sostiene di non avere pensato mai a candidarsi. «Posso essere d’aiuto, il mio viaggio nei circoli porta a questo; giusto si candidi Renzi, se dice cosa fa». I “giovani turchi” si dividono anche sul candidato. «Appoggio Cuperlo », ribadisce Orlando. «Vedremo in seguito», precisa Fassina. Epifani dovrebbe incontrare i “non allineati”, cioè il gruppo di 45 parlamentari, tra cui Alessandra Moretti, che hanno sottoscritto una lettera contro il correntismo. «Sono d’accordo», ha risposto il segretario. Ma poi le correnti si organizzano anche a livello locale. A Bologna, manifestazione di OccupyPd. Dario Ginefra, ecumenico: «Cuperlo e Renzi sono complementari », come segretario e come premier. In un sondaggio Swg, Renzi (con il 60%) supera Napolitano (54%) nella fiducia degli italiani.

Corriere 15.6.13
La via stretta di Letta e Alfano
di Francesco Verderami


Se non vogliono ballare una sola estate, anzi, se all'estate vogliono arrivarci, devono trovare il modo (cioè i soldi) per tagliare l'Imu e quantomeno congelare l'aumento dell'Iva fino a dicembre. «E il modo lo troveremo», concordano Letta e Alfano, sebbene ieri siano stati di nuovo costretti al gioco delle parti.

Il premier e il suo vice sapevano che il periodo di rodaggio sarebbe stato per loro il momento più difficile, perché — al contrario di tutti i governi precedenti — a questo non è concessa la luna di miele dei primi cento giorni: non gliela possono garantire nè i partiti che li sorreggono nè il Paese che non regge. E forse è vero che nell'abbrivio si sono un po' incartati sul tema più drammatico e decisivo dell'economia. Il premier, sensibile ai numeri di Bankitalia e alle parole di Saccomanni, avverte la complessità della sfida e anche la competizione di Renzi, che lo attende al varco: «Avrà il coraggio di incidere profondamente sulla spesa pubblica improduttiva?». Il modo in cui il sindaco di Firenze pone la domanda delle domande, lascia presagire che si sia già dato la risposta.
Perciò a Letta servirà il coraggio delle scelte, e non gli servono le esortazioni del Cavaliere, che al telefono gli dice: «Coraggio Enrico, mi raccomando». Il punto è che al premier si raccomanda anche Saccomanni, ministro e portavoce (nel senso lessicale del termine) dei poteri forti europei, dei moniti pubblici e riservati di Bruxelles, Francoforte e Berlino, che vedono sempre l'Italia con sospetto, paese delle cicale e ora anche dei Grillo. I veti irritano Berlusconi ma anche chi — come Bersani — vorrebbe dal governo un gesto di «coraggio»: «Non è possibile che appena quelli alzano il sopracciglio, noi subito ci adeguiamo».
Così Letta deve andar di fretta, violentando la sua indole e il precetto che mette in guardia dalla cattiva consigliera. Gestire l'emergenza e programmare strategie è maledettamente complicato. Se poi i ministri smarriscono la missione, il rischio è il crac. Il premier ha dovuto rimediare alla sortita di Zanonato, che dopo i fischi dei commercianti è andato anche in tv a smentire il taglio dell'Imu e il blocco dell'Iva. Un'«ingenuità», l'ha definita Letta. Più duro è stato il vice all'Economia Fassina, che ha subito chiamato il compagno di partito, urlandogli nella cornetta i danni politici e mediatici appena prodotti. «Non possiamo impegnare tutte le risorse su quei due fronti», ha replicato il titolare allo Sviluppo economico: «Altrimenti, per gli altri interventi, non rimarrebbe niente».
«Niente» di cosa? È questo l'interrogativo che si fa strada nel governo, la tesi che Saccomanni si sarebbe dedicato finora a tagli marginali, mentre bisognerebbe incidere con interventi strutturali nel comparto della funzione pubblica. I sospetti sono il segno del nervosismo, e c'è un motivo se Alfano ha voluto tagliare quel nodo che rischia di soffocare il governo: «Noi ci battiamo per eliminare l'Imu sulla prima casa e per evitare l'aumento dell'Iva, e attendiamo che il ministro dell'Economia completi la ricognizione sulle fonti di copertura per compensare queste spese». Chiaro il messaggio al responsabile di via XX settembre, siccome — per usare le parole di Fassina — «il nostro governo è politico, non più tecnico».
Nel gioco delle parti, il presidente del Consiglio ha lasciato libertà di manovra ad Alfano, per consentirgli di tenere a bada il suo partito e uscire dal centro del mirino dov'era finito, se è vero che giovedì l'attacco di Brunetta contro Saccomanni sulla «trasparenza» dei conti all'Economia e quello di Schifani contro Letta sulla «cabina di regia» del governo, avevano come bersaglio proprio il vice premier. Per arrivare all'estate, e superarla, gli inquilini di palazzo Chigi intendono trovare i soldi per l'Imu e l'Iva.
Poi servirà il coraggio delle scelte, «servirebbero tagli alla Monti che per ora non vedo», dice Mauro, ospite l'altra sera di Berlusconi. Il Cavaliere lo ha pregato di rendere noto che «non ho alcun interesse a far cadere il governo. Lo sostengo con convinzione»: «Piuttosto, sono preoccupato per la progressiva perdita di competitività delle nostre aziende, dovuta all'eccessivo costo del lavoro». Il ministro della Difesa conosce bene Berlusconi, sa che quando ripete a più persone lo stesso concetto — ed è questo il caso — lo fa come volesse narrare a se stesso, in una sorta di training preparatorio di altri appuntamenti. Una conferenza stampa o un comizio in piazza...

il Fatto 15.6.13
Gay Pride, Marino tiene famiglia
Il sindaco di Roma diserta il corteo di oggi: “Devo stare con moglie e figlia”
L’ira delle associazioni
I promotori: “Parole offensive per la nostra comunità”
Il registro delle unioni civili era stato uno dei punti forti nella campagna per il Campidoglio all’ombra di San Pietro
di Luca De Carolis


LA PRIMA STECCA DEL CHIRURGO MARINO DISERTA IL GAY PRIDE
“DEVO STARE CON LA MIA FAMIGLIA”. AL SUO POSTO, IL CONSIGLIERE COMUNALE NIERI. GLI ORGANIZZATORI: “RISPOSTA OFFENSIVA”

Dopo lo spumante, gli annunci sui Fori pedonali e le salite in bici, la prima grana: o il primo autogol. Tramutatosi in poche ore da innovatore a “pompiere”, Ignazio Marino ha deciso (forse) di non irritare quel Cupolone che pesa persino su di lui, eletto nonostante il gelo della Curia. E così ieri sul Corriere della Sera il neo-sindaco ha fatto sapere che non andrà al Gay Pride di questo pomeriggio a Roma, a cui era stato invitato: “Ci sono andato quasi ogni anno, spesso ho preso la parola: ma in questo fine settimana ho bisogno di trascorrere tre giorni con mia moglie e mia figlia”.
PAROLE che suscitano tanti mal di pancia, proprio nel giorno in cui il presidente della Camera, Laura Boldrini, e il ministro per le Pari opportunità, Josefa Idem, sono a Palermo per presentare il Gay pride nazionale. E proprio la Boldrini precisa: “Non sta a me valutare le scelte del sindaco di Roma: io sentivo il dovere di essere a Palermo come rappresentante delle istituzioni”. Sillabe diplomatiche, ma la diversità di linea emerge ugualmente. Proprio come è evidente l’irritazione delle associazioni gay. In cima alla lista il Comitato Pride Roma 2013, che morde così: “La risposta del sindaco è irrispettosa e offensiva nei confronti di una comunità che si batte da anni per vedere riconosciuti i diritti, la visibilità e la dignità delle proprie famiglie. Marino ha il dovere di offrire alla città una disponibilità diversa rispetto al passato e di dimostrare più attenzione alle richieste di una grande manifestazione per i diritti civili. Siamo molto delusi da questa scelta, confidiamo che il sindaco comprenda l’importanza che avrebbe la sua presenza”. Chiaro il messaggio: Marino, ripensaci. Si fa sentire anche il circolo Mario Mieli: “Falsa partenza e brutto segnale nei confronti di una comunità importante, che ha contribuito in modo rilevante alla sua vittoria e che si aspettava un segnale in netta discontinuità col passato. Già ieri il sindaco aveva schivato con imbarazzo una richiesta diretta rivoltagli in piazza del Campidoglio da una nostra attivista”. Parla anche Equality Italia: “Condividiamo il dispiacere per la sua assenza, ci aspettiamo da Marino gesti che dimostrino nei fatti la volontà espressa in campagna elettorale”. Traduzione ovvia: sul registro delle unioni civili non è possibile arretrare.
IL SINDACO ne aveva fatto uno dei punti forti del suo programma. Ma ieri su Repubblica è parso più cauto: “Del registro discuterà con il Consiglio comunale, certamente in agenda c’è il riconoscimento di tutti i diritti”. Nel pomeriggio, l’annuncio che prova a tamponare: al Pride come delegato di Marino andrà Luigi Nieri (Sel), consigliere comunale e probabile assessore. Porterà agli organizzatori un messaggio del sindaco. Ne trapela una parte: “Voglio ribadire il mio impegno affinché a Roma i diritti di tutti siano garantiti e venga sradicata ogni forma di intolleranza: odio e discriminazione non avranno cittadinanza”. Ambienti del Pd precisano: “Marino ha l’esigenza di stare con la famiglia e di riposarsi”. A sinistra però c’è agitazione. Il vice del governatore Zingaretti, Massimiliano Smeriglio (Sel): “Il Pride è un appuntamento per nulla rituale che parla di diritti e di democrazia: io sarò in piazza”. Non ci sarà Zingaretti. Ma da un’associazione ricordano: “Da presidente della Provincia di Roma ha patrocinato il Pride 2008 e ha partecipato a quello del 2010”. Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista: “L’assenza di Marino è un errore, noi ci saremo”. Arriva la notizia che il Comune di Milano darà il patrocinio al prossimo Pride cittadino, a fine mese. Batte un colpo il Cinque Stelle del Lazio: “Abbiamo presentato in Consiglio regionale una proposta di legge contro le discriminazioni e per la tutela dei diritti dei conviventi”. Imma Battaglia, consigliere comunale e attivista gay, difende il sindaco: “È solo un problema di agenda, Marino farà quello che ha promesso e al Pride 2014 ci sarà. Timore della Curia? Per carità, un uomo che parla di eutanasia e diritti come lui... ”. Ma su Repubblica Tv Aldo Busi è duro: “Tanto valeva rimanesse Alemanno”. Eppure sui diritti civili Marino aveva impostato la sua campagna per la segreteria Pd, nel 2009. Imperativi: riconoscere i diritti delle coppie gay con il modello della civil partnership britannica, leggi sull’omofobia e sull’omogenitorialità. Si riavvolge il nastro, e si torna a martedì scorso. Il quotidiano della Cei Avvenire titolava: “Il chirurgo e il nodo dei temi etici”.

il Fatto 15.6.13
Complimenti, Marino cambia slogan da daje ad amen
di Gianni Boncompagni


IL NUOVO SINDACO di Roma è molto cattolico. E fin qui niente di grave. Del resto i cattolici nel mondo sono molti di più di un miliardo, quindi uno in più non impressiona. Il sindaco Marino sembra però essere molto cattolico: si dice che si confessi ogni ora con il suo confessore personale. “Non commette peccati” sostiene questo confessore. “Ogni tanto ruba qualche piccolo cucchiaino di marmellata dal frigo del suo ufficio e insiste a farsi assolvere. Io lo assicuro che in giro c’è di peggio ma lui non transige. Vuole l’assoluzione. Ma non solo”. Sembra che preghi tutto il giorno e anche la notte e ad alta voce tanto che la moglie si è rivolta varie volte ad Amnesty International. I suoi collaboratori stanno iscrivendolo a un corso rapido di ateismo pratico-teorico ma lui, il sindaco, non ci pensa proprio e anzi è andato da un chirurgo suo amico per farsi fare le stimmate. Staremoavedè!

Repubblica 15.6.13
Vaticano, a Roma il "popolo della vita".
Migliaia di cattolici da tutto il mondo
Stasera, per la seconda volta in un mese, la marcia fino a piazza San Pietro, fiaccole alla mano. Mentre sull'altra sponda del Tevere sfileranno i carri del Gay Pride. Domani l'incontro con Papa Francesco
di Andrea Gualtieri

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il Fatto 15.6.13
Amplesso con una escort È il Comune di Firenze
di Sara Frangini


C’è chi il lavoro se lo porta a casa e chi, quando è in ufficio, sbriga ben altre pratiche. È il caso di un funzionario del settore Mobilità di Palazzo Vecchio che è stato scoperto nella sede del-l’amministrazione a fare sesso con una escort. A pizzicare il dipendente è stata un’addetta alle pulizie del Comune di Firenze che, aprendo la porta della sala Conferenze, si è trovata davanti alla scena. Impossibile, a quel punto, negare l’evidenza.
Lo scandalo a luci rosse, consumato all’ombra del Biancone, è emerso a seguito di un’inchiesta della Procura di Firenze su un giro di prostituzione che ha portato 14 persone a finire iscritte nel registro degli indagati. Nell’indagine della Guardia di Finanza sono stati puntati i fari su due noti alberghi fiorentini attorno ai quali ruotavano alcune escort, sia italiane che straniere. E ce n’era una in particolare: una 42enne rumena che, secondo quanto emerge dalle carte degli inquirenti, era “la più richiesta”. Al punto che alcuni clienti, quando la ragazza è dovuta tornare in patria ed era rimasta senza soldi, avrebbero fatto una colletta per pagarle il viaggio di ritorno e poterla riavere a Firenze. Secondo alcune indiscrezioni sarebbe proprio lei la donna con la quale si intratteneva il funzionario, incastrato anche da un’intercettazione telefonica. La escort racconta cosa è successo al suo ex fidanzato. Un amplesso che, secondo gli investigatori, sarebbe stato “violento”.
“TUTTO CHE TREMAVA, mi ha strappato le calze, siamo andati lì nella stanza dei… delle conferenze…” dice la escort, spiegando anche l’ingresso della donna delle pulizie: “È entrata la donna delle pulizie (…). Ma a questa qua è caduta tutta l’acqua per terra, (…), era tutto partito lì, dico guarda se sta arrivando l’ascensore, non c’è nessuno a quest’ora e questo scemo ha lasciato la porta lì aperta, capito? ”. Uno scandalo che potrebbe allargarsi a macchia d’olio nell’amministrazione guidata da Matteo Renzi. Tra le intercettazioni al vaglio degli inquirenti, infatti, ci sono anche conversazioni avvenute usando un’utenza comunale.

Repubblica 15.6.13
Jennifer, Pamela e le 140 escort che fanno tremare la Firenze-bene
Un grande albergo, orge, nomi noti. Eincontri hard anche in Comune
di Massimo Vanni


FIRENZE — Pamela, Marisa e Jennifer fanno tremare i palazzi del potere. Dopo aver fatto i conti per anni con i misteriosi delitti del “mostro” e dopo aver disquisito sui gusti sessuali dei fiorentini che la notte cercano trans nel parco delle Cascine, ora Firenze si trova alle prese con uno scandalo sessuale diventato in pochi giorni l’oggetto del gossip generale. Non sembrano emergere, per ora, risvolti violenti. Lo scandalo però ha come ingredienti il più grande albergo della città, le perversioni sessuali e molti nomi più o meno noti. E, tra un cappuccino e un cornetto, ogni mattina si ascoltano nei bar della città commenti e racconti boccaceschi.
Con immancabili risolini, ci si chiede chi sia quel gioielliere o quel bancario, visto che sulle intercettazioni fin qui trapelate i nomi sono stati cancellati.
Due albergatori e un orefice hanno favorito per anni, secondo le accuse, un  impressionante giro di escort italiane e straniere, ricavandone soddisfazione personale in orge e festini oltre che notevoli profitti. Un giro che vede coinvolti imprenditori, artigiani, professionisti, un noto procuratore sportivo, il direttore di una nota palestra cittadina, perfino qualche politico e qualche giornalista. E che comprende decine di studentesse e casalinghe italianissime come Pamela e Marisa e decine di straniere come Jennifer (i nomi sono di fantasia).
Secondo le accuse, l’Hotel Mediterraneo, 4 stelle sul Lungarno, era divenuto il terminale locale del sito escortforum, «vetrina virtuale di offerte sessuali operativa su tutto il territorio nazionale e non solo». La polizia postale ha contato in soli 23 giorni, fra il dicembre 2011 e il marzo 2012, 142 escort, da 3-4 fino a 10 al giorno, che ricevevano i clienti al Mediterraneo: il tutto sotto lo sguardo soddisfatto dei due gestori, i fratelli Marco e Simone Taddei, che si dedicavano per lo più al golf e alla caccia, ma erano ben contenti per i benefici effetti del giro di escort sui bilanci dell’hotel e spesso rivendicavano una sorta di diritto di prelazione sui nuovi arrivi. Ora sono interdetti dall’attività alberghiera, costretti dai soci di maggioranza a dimettersi, e indagati con altre 12 persone dal pm Giuseppe Bianco per favoreggiamento della prostituzione.
Uno di loro, in una memorabile conversazione con un compagno di bagordi, commenta: «Quando ci si vede si fa a scambio di figurine». Instancabile nel reclutare donne di ogni genere è stato per anni l’orologiaio-orefice, detto “capo puttaniere”, specialista nel convincere studentesse in difficoltà economiche, infermiere, riluttanti bariste sposate e con figli a intraprendere la professione, salvo poi coprirle di disprezzo nelle  onversazioni con i suoi sodali. Di una che aveva osato avanzare una sommessa critica sulle loro inenarrabili volgarità, dice: «Oh, e poi sai che ti dico io? Se vogliono meno “sguaiato” vanno a lavorare, invece di anda’ a fa’ i... No? Vanno alla Coop, vanno a lavorare. Vanno a far fare le lezioni ai loro bambini invece di...». Salvo aggiungere: «E poi mi sono incazzato perché la venne senza reggicalze».
Lo scandalo è lievitato piano piano ed è esploso quando sono stati depositati gli atti di indagine, che seppur pieni di omissis qualcosa rivelano. Come il grottesco tentativo di ingaggiare Nicole Minetti per un festino a Firenze e come il rapporto sessuale ad alta intensità fra un funzionario comunale, ex collaboratore dell’assessore alla mobilità Massimo Mattei, e una ricercatissima escort straniera. Rapporto avvenuto in una sala conferenze del Comune e interrotto dall’arrivo di un’addetta alle pulizie. Due giorni fa, mentre la notizia delle escort negli uffici comunali già faceva il giro della città, l’assessore Mattei è stato ricoverato in ospedale per una malattia infiammatoria che richiede esami clinici e forse anche un intervento chirurgico. Ragion per cui l’assessore ha scritto al sindaco Matteo Renzi le dimissioni per motivi di salute. Occuparsi di traffico a Firenze non è uno scherzo. Soprattutto adesso che incombono i lavori per i mondiali di ciclismo attesi a settembre. E i problemi di salute e le conseguenti dimissioni tolgono forse l’assessore anche dall’imbarazzo per la vicenda che coinvolge un suo ex collaboratore.

l’Unità 15.6.13
Cassazione
Bolzaneto, tutti liberi e risarcimenti ridotti
Sentenza confermata ma tra indulto e attenuanti nessuno andrà in carcere
di Claudia Fusani


La Corte di Cassazione ha confermato le sette condanne disposte in Appello ad agenti di polizia, carabinieri e infermieri per le violenze nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova nel 2001. Ma nessuno, tra indulto e attenuanti, finirà in carcere.
Sarà che si sente ancora l’odore del sangue misto agli umori e alla pipì. Che non si possono scordare i racconti e le immagini di quei ragazzi messi nudi contro il muro in piedi, gambe divaricate, così per ore. O delle ragazze umiliate e minacciate di stupro. Che rimbombano nelle testa gli ordini: «Canta faccetta nera», «viva il Duce», «un-due-tre viva Pinochet». Gli urli della ragazza a cui fu strappato il piercing dal naso.
Per tutto questo, scritto in migliaia di pagine di atti processuali, la sentenza con cui ieri la Cassazione ha chiuso definitivamente la mala storia del G8 di Genova, capitolo torture nella caserma di Bolzaneto, è inconsistente, una beffa, un’offesa a un paese che si dice democratico. Anche un pericoloso precedente la cui morale è che omertà e spirito di corpo vincono sempre rispetto ai fondamenti democratici.
Dopo sette ore di camera di consiglio la V sezione penale della Cassazione ha confermato le sette condanne disposte in Appello ad agenti di polizia, carabinieri, agenti penitenziari e infermieri accusati di aver picchiato, umiliato e offeso (lesioni personali aggravate) giovani raccattati per caso nelle strade di Genova, quindi anche persone che non avevano avuto alcun ruolo nelle devastazioni, Confermate anche le quattro assoluzioni di altrettanti uomini delle forze dell’ordine. Nessuno, tra indulto e attenuanti, finirà in carcere. Tutti rischiano una sanzione disciplinare da parte della loro stessa pubblica amministrazione (possiamo immaginare di quale intensità). Ulteriore beffa: rendendo definitiva la condanna, la Cassazione ha anche ridotto i risarcimenti che in ogni caso saranno riconosciuti in sede civile, cioè chissà come e quando. La sentenza di secondo grado (5 marzo 2010) aveva stabilito dieci milioni di risarcimenti da suddividere tra le 150 vittime ammesse tra le parti civili. Ora non ci sono più neppure questi.
Per comprendere fino in fondo l’insopportabile beffa di queste sentenza, occorre ricordare almeno un paio di cose. La prima: erano 44 gli imputati quando è cominciato il processo, tutte posizioni definite e riscontrare con testimonianze coincidenti non solo delle vittime ma anche di qualche agente in servizio che s’è messo la mano sul cuore, ha ascoltato la coscienza e ha parlato. Solo che per 37 imputati è scattata, dopo 12 anni di processi, la prescrizione. Perché il vizio della dilazione nei processi non è appannaggio esclusivo di Berlusconi.
La seconda: la pochezza, quasi insussistenza delle condanne, nasce dal fatto, più volte denunciato dai pm sia in primo che in secondo grado, che il nostro codice penale non contempla il reato di tortura. «E quelle avvenute alla caserma di Bolzaneto erano decisamente torture» hanno detto i magistrati nelle loro requisitorie.
«Gli agenti, dalla finestra della cella, ci insultavano: "puttane", "troie", "ora vi scopiamo tutte"» ha raccontato in aula una ragazza di 25 anni arrestata la sera del 20 luglio 2001. La sua deposizione portò alla luce tutto il repertorio di insulti e umiliazioni sessiste subito dalle ragazze. «Gli agenti dicevano che le avrebbero dovute stuprare come in Bosnia» è riportato in un altro verbale. Minacce di stupro che i pm hanno voluto sottolineare nella memoria. «Come in ogni caso di tortura, avvennero grazie all’impunità percepita, ovvero quel meccanismo fatto di omissioni per cui i responsabili non vengono puniti e le vittime terrorizzate hanno paura di denunciare i maltrattamenti subiti».
E che dire del personale medico penitenziario? Un altro verbale: «Al medico avevo raccontato che mi avevano rotto il labbro, ma lui disse che me l’ero fatto da solo».
Per come s’erano messe le cose in questo processo, per i familiari è già una buona cosa che alla fine ci siano state sette condanne e tutti gli altri prescritti (quindi non assolti). «Significa che le torture e i soprusi sono avvenuti, solo che non abbiamo il reato per condannarli» diceva ieri Enrica Bartesaghi, mamma di una delle giovani finite a Bolzaneto. Adesso i familiari chiedono l’introduzione del reato di tortura e «le scuse da parte dello Stato perchè è lo Stato che ha umiliato e abusato dei nostri figli».
Si chiude, nei fatti, con questa sentenza, la pagina nera del G8 di Genova. Di quei giorni in cui, è scritto in sentenza, «sono stati sospesi di diritti democratici». Il bilancio è insufficiente. Hanno pagato, molto, i funzionari di polizia che fecero irruzione alla Diaz. Ma solo alcuni e, possiamo dire, forse quelli meno colpevoli di altri. Storia drammatica. Da cui non è nato alcuna forma di riscatto.

Repubblica 15.6.13
A Milano un maxiraduno per Hitler: skinhead in arrivo da tutta Europa
A Rogoredo, alle porte della città, la Skinhouse del capoluogo si aspetta oltre duemila persone per uno dei più grandi raduni degli ultimi anni: ci saranno anche gli americani Bully Booys e gli inglesi Brutal Attack
di Paolo Berizzi

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l’Unità 15.6.13
Legge 194, le Regioni devono garantirne i servizi a tutti
di Valeria Fedeli
Vicepresidente del Senato


LA 194/78 È UNA LEGGE CHE TUTELA LE DONNE. È UNA LEGGE DELLO STATO E IN QUANTO TALE DEVE ESSERE APPLICATA. Questo semplice e banale principio, che non dovrebbe trovare contraddittorio, è invece negato dall’esperienza.
L’accesso alle strutture dove si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza è diventato complesso quando non impossibile. Il motivo principale è l’altissimo numero di medici obiettori, passato dal 58,7% del 2005 al 70% circa nel 2010 per quanto riguarda i ginecologi (leggermente minori le percentuali per anestesisti e altro personale medico).
L’obiezione di coscienza è un diritto dei medici, diritto che nessuno vuole mettere in discussione. Si tratta però di un diritto individuale, che non può riguardare le strutture, né può ledere i diritti previsti e garantiti dalla 194.
È esattamente in questa direzione che vanno le mozioni presentate come Pd alla Camera e al Senato durante il dibattito in Aula in questa settimana. Abbiamo chiesto e chiediamo che le singole obiezioni di coscienza da parte del singolo medico non si trasformino in obiezioni di intere strutture sanitarie: il governo deve impegnarsi concretamente perché almeno il 50% di personale in ogni struttura non sia obiettore.
Oggi ci sono Regioni, come la Campania o la Basilicata, dove il numero di obiettori supera l’80%, rendendo di fatto impossibile l’accesso alle strutture e inapplicabile quindi la legge o costringendo donne e coppie a migrare verso altre regioni o all’estero.
E iniziano a spuntare di nuovo, spesso per notizie di cronaca nera o giudiziaria, gli ambulatori fuorilegge, dove si pratica l’aborto senza garanzie e controlli.
È una situazione che non può essere tollerata. Non degna di un Paese civile, democratico, libero, rispettoso dell’autonomia delle donne.
Credevamo di aver dimenticato per sempre l’esperienza delle interruzioni clandestine di gravidanza, anche perché i dati dimostrano che la 194 è stata una legge efficace, se gli aborti in Italia erano circa 400.000 nel 1978 e sono circa 115.000 l’anno, riguardando nel 75% dei casi donne straniere, spesso poco informate sui propri diritti.
Accolgo quindi con favore l’annuncio del governo che si è impegnato a vigilare sulle Regioni perché vengano garantiti i servizi di interruzione volontaria di gravidanza, a seguito anche dell’approvazione delle mozioni alla Camera che chiedevano proprio un impegno in questo senso.
C’è da passare dalla teoria dove i diritti delle donne sono perfettamente tutelati alla pratica, per garantire le scelte libere e la salute delle donne. Finanziando e ridando piena centralità ai consultori; proponendo come opzione alle donne l’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica; promuovendo la conoscenza dei diritti in tema di contraccezione di emergenza; prevedendo azioni di prevenzione dell’interruzione volontaria di gravidanza mediante attività di educazione alla tutela della salute e di informazione sulla contraccezione nelle scuole; tornando a far interagire, come nelle intenzioni della 194, competenze sanitarie e psicologiche, di cura e sociali, di assistenza e di prevenzione.
La 194 perseguiva un equilibrio tra salute e l’autonomia, la libertà e la responsabilità delle donne e doveri e diritti dei medici, che sono indubbiamente portatori di libertà di scelta, ma hanno anche responsabilità, come singoli e come categoria, cui non possono sottrarsi. Questo equilibrio tra libertà individuale e responsabilità delle strutture va rivisto, per garantire sempre le cure e l’assistenza alle donne.
I tempi rispetto al 1978 sono cambiati. Tante cose per le donne sono migliorate, ma molto c’è ancora da fare per raggiungere una vera parità di genere e una vera libertà.
Alla legge sull’aborto si arrivò dopo la stagione del femminismo, delle battaglie culturali per una società più libera e aperta. Una stagione che ha prodotto enormi risultati, per l’autonomia, la libertà e la responsabilità delle donne e per il Paese. Una stagione che pur con le dovute differenze di pensiero e coinvolgimento si è sentita di nuovo viva negli ultimi due anni, da quando il movimento delle donne invase piazza del Popolo a Roma, chiedendo con forza rispetto, diritti, cambiamento. Per far ripartire l’Italia anche con l’energia libera e sana delle donne.

Corriere 15.6.13
La condanna (a morte) dei bimbi malati

Se l'Eutanasia in Olanda nega la speranza anche ai bambini malati
Una proposta di legge simile in Belgio
di Isabella Bossi Fedrigotti


In Olanda l'associazione dei medici propone un regolamento per estendere l'eutanasia ai bambini affetti da malattie o malformazioni mortali. E in Belgio un progetto di legge prevede di estenderla ai minori.
L'eutanasia è sempre la negazione della speranza, motore della vita. La cosiddetta morte dolce somministrata a un piccolo malato cancella tutto. I medici olandesi spiegano che il loro scopo è «limitare la sofferenza del paziente e dei genitori», ma «l'operazione» suggerisce immagini del tutto diverse.

In Olanda, dove l'eutanasia è da dodici anni autorizzata dalla legge, l'associazione dei medici propone un regolamento secondo il quale la si possa applicare anche ai bambini piccoli affetti da malattie o malformazioni mortali. E in Belgio, che a sua volta è tra i Paesi che da tempo la autorizzano, un progetto di legge al momento allo studio prevede di estenderla ai minori, ragazzi e ragazze in condizioni terminali giudicati in grado di «decidere ragionevolmente dei propri interessi»; e nel caso non avessero ancora compiuto sedici anni, ci vorrebbe per loro il permesso dei genitori.
Meglio fare morire, piuttosto che far soffrire. Più o meno lo stesso che si fa con i vecchi cani ammalati cui il veterinario, su richiesta dei padroni, fa l'iniezione letale. Se sapessero, se capissero, probabilmente le povere bestie concentrerebbero le loro poche forze rimanenti per alzarsi sulle zampe, scodinzolare debolmente nel tentativo di far intendere che così malmessi in fondo ancora non sono, che quella visita dal dottor morte degli animali è fuori luogo.
Se sapessero, se capissero, non farebbero così anche quei bambini? E i ragazzi più grandi, per quale motivo acconsentirebbero a lasciarsi uccidere? Forse davvero perché capaci di «decidere ragionevolmente dei loro interessi», forse però anche — chissà — semplicemente perché desiderosi di togliersi di mezzo nell'interesse dei genitori, dei famigliari, spiritualmente ed economicamente spossati dalla lunga malattia?
L'eutanasia è sempre la negazione della speranza, motore della vita. Ma nel caso di un bambino, di un ragazzo lo è a maggior ragione. Si rinuncia alla speranza in un miglioramento, in una guarigione che per istinto di padre e madre non si vorrebbe mai abbandonare; si dispera in quel che i credenti chiamano miracolo, gli altri inspiegabile ripresa oppure progresso della medicina. La cosiddetta morte dolce somministrata a un piccolo malato cancella tutto quanto.
I medici olandesi spiegano ovviamente che scopo della loro proposta è di «limitare la sofferenza del paziente e dei suoi genitori in quanto spesso i bambini condannati impiegano tempi lunghi per spegnersi». Come dire — quasi — che non si devono permettere di sottrarre giorni, energie, risorse ai sani, che non devono abusare della loro pazienza, che non devono fiaccarli con lo spettacolo di una troppo lenta morte. Inevitabile pensare, almeno di sfuggita, che l'eutanasia di quei piccoli — trecento all'anno ne calcola l'associazione dei medici olandesi — più che loro soccorra i grandi, genitori e dottori, visto che presumibilmente le terapie del dolore, almeno in quei Paesi, vengono applicate con generosità.
Chi soffre sono perciò, comprensibilmente, soprattutto padri e madri. Ma chi sono, come sono quelli che poi diranno al dottor morte di turno di «procedere» senza esitazione? Ce ne saranno di quelli che hanno perso ogni speranza, che in un certo senso a loro volta non sono già più vivi; ma ce ne saranno anche di quelli che la malattia del figlio ha sfiancato per mesi o anche per anni, tanto che aspirano soltanto a che tutto finisca più in fretta possibile. Li si capisce, ovviamente, e li si compiange dal profondo perché a loro è capitato il peggiore degli incubi di ogni genitore, ma è difficile sottrarsi all'idea che quell'aspirazione, quel desiderio di voltare pagina possano in qualche modo essere inquinati dall'egoismo.
Egoismo sano, dirà qualcuno, come ora usa, o magari diranno molti, e forse hanno ragione, perché quei genitori potrebbero avere altri figli da accudire, potrebbero non avere i mezzi economici per degenze lunghe, potrebbero non essere in condizione di sottrarre ancora ore -per assistere il piccolo malato- ai loro impegni professionali. Eppure quel condannare a morte, sia pure dolce - l'espressione è violenta, ma come altro chiamare «l'operazione»? — il bambino malformato, malriuscito inevitabilmente suggerisce immagini di merce uscita dalla fabbrica con un difetto di costruzione che il negoziante si affretta a togliere dagli scaffali per avviarla alla discarica.

Repubblica 15.6.13
Quale futuro per l’eurosinistra
di Marc Lazar

OGGI a Parigi ha luogo il Forum dei progressisti europei, che riunisce i rappresentanti di vari partiti, tra cui il Partito Socialista francese, l’Spd tedesco, il Partito Democratico, il Partito Socialista portoghese, il Pasok greco, il Partito Socialista Operaio spagnolo. La sinistra europea tenta così di disporsi in ordine di combattimento in vista delle elezioni del giugno 2014. Nel suo seno continuano a sussistere motivi di disaccordo. C’è chi da tempo si pronuncia nettamente in favore di un’Europa federale, mentre altri si mostrano più riservati. Come i socialisti francesi, sempre
divisi su questo tema.

Nonostante alcune dichiarazioni del presidente Hollande, che con la sua abituale prudenza cerca di convertire a questa prospettiva i suoi compagni di partito. Alcuni continuano a richiamarsi alla socialdemocrazia; se i francesi si proclamano tuttora socialisti, altri preferiscono il termine di progressisti. Tutti però condividono gli obiettivi generali, che saranno riaffermati nel corso di quest’incontro: favorire la crescita e l’occupazione in Europa, in via prioritaria per i giovani, e rifondare un’Unione europea più democratica, ecologica e sociale.
Queste proposte costituiscono peraltro i capisaldi delle politiche della sinistra quando è al potere, come ad esempio in Francia e in Italia – seppure in situazioni del tutto diverse. In Francia i socialisti, alleati agli ecologisti, governano con un presidente della Repubblica che dispone di considerevoli poteri, di una maggioranza parlamentare, del controllo di quasi tutte le regioni e di moltissimi comuni; mentre in Italia i Democratici operano nel quadro di un governo di larghe intese, instabile e incerto, minacciato ogni giorno di paralisi. In entrambi i casi le difficoltà sono comunque notevoli, sia per le limitazioni dei margini di manovra imposte dai vincoli di bilancio, sia perché a livello europeo una politica comune di rilancio della crescita stenta a decollare, nonostante alcuni piccoli progressi registrati in quest’ultimo anno, che attendono conferma al Consiglio europeo del 27 giugno. Per di più, la sinistra è chiamata ad affrontare una serie di sfide di grande rilievo: tre in particolare, che si impongono in maniera sempre più netta, e rappresentano altrettanti dilemmi da risolvere.
Innanzitutto, come agire in un contesto caratterizzato da contrasti e forze centrifughe? Da un lato le società europee sono tentate a chiudersi, a ripiegarsi su se stesse: egoismo sfrenato, xenofobia, paura della globalizzazione, contrasti identitari. La crisi economica e la disoccupazione crescente accentuano queste tendenze, provocando una forma di radicalizzazione verso destra, percepibile in particolare – e qui sta il grosso problema per la sinistra – nei ceti popolari, che però al tempo stesso vorrebbero il mantenimento delle politiche sociali e di welfare, escludendone gli immigrati. Ma d’altra parte si manifestano anche tendenze di segno opposto: apertura al mondo, aspirazione al cosmopolitismo, propensione al métissage, volontà di liberalizzazione dei costumi, tolleranza, desiderio di riattivare la solidarietà sociale e la fratellanza umana. La necessità di tener conto di queste aspirazioni contraddittorie, presenti nelle due principali componenti della sua base elettorale — da un lato le fasce popolari, dall’altro i ceti medi urbani e istruiti, in buona parte giovani – rappresenta per la sinistra una scommessa rischiosa ma ineludibile.
Un’altra sfida è quella di rispondere alla “crisi della politica”. Come è noto, la sinistra è in difficoltà: criticata incessantemente dalla sua ala più radicale, delude chi la sostiene, soffre di un deficit di idee, di strategie e di leadership, e non è sempre impermeabile alla corruzione. Di fatto, però, la situazione della destra non è migliore, come dimostra il disastro del Pdl alle ultime elezioni locali, o le forti turbolenze in seno all’Unione del Movimento popolare in Francia, dilaniato dopo il ritiro – provvisorio? definitivo? solo il futuro lo dirà – di Nicolas Sarkozy. I populisti hanno il vento in poppa, ma l’attuale disintegrazione del Movimento 5 Stelle mette a nudo la fragilità politica e strutturale di questi gruppi. Una fragilità che ritroviamo, sia pure in forme diverse, al di là delle Alpi, nel Fronte nazionale, dove Marine Le Pen guadagna in popolarità ma non riesce a dissimulare lo scarso radicamento del suo partito sul territorio, né la mancanza di professionalità dei suoi amici. Perché la politica è anche un mestiere, che dev’essere rinnovato e reinventato in un’epoca in cui i partiti, pur senza scomparire, sono chiamati a evolvere considerevolmente. Un altro cantiere per la sinistra, e di grande rilievo, poiché è in gioco la stessa democrazia che talora, come in Italia, passa per una serie di riforme istituzionali di vasta portata.
Infine, la sinistra riformista è chiamata a riformulare il suo progetto. Nel XIX e nel XX secolo – a differenza delle forze rivoluzionarie che ripetono a iosa le stesse ricette – ha saputo adattarsi alle mutazioni del capitalismo, della politica e delle società. E oggi tenta di ripensare le modalità del compromesso tra le forze del lavoro, trasformate e assai più complesse, e quelle del capitale, in un’economia aperta e globalizzata, con un capitalismo finanziario potente e spietato, ma al tempo stesso foriero di continue innovazioni. Il compito della sinistra consiste nel conciliare tra loro gli incentivi all’efficienza economica delle imprese, le misure in favore dell’attrattività dei Paesi europei e le esigenze della solidarietà sociale. Deve dunque affrontare una rivoluzione culturale che richiede coraggio e audacia.
Traduzione di Elisabetta Horvat

l’Unità 15.6.13
Quella della Corte suprema Usa è una decisione storica
Perché fissa un limite a tutela dell’uomo
Eppure consente eccezioni
Non si brevetta il Dna
Ma la sentenza americana contiene delle ambiguità
di Stefano Semplici


La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti sulla brevettabilità dei geni umani era attesa da tempo. L’intera vicenda era iniziata con la sentenza di una Corte distrettuale di New York, che si era già espressa in questo senso. La decisione era poi stata rovesciata, nel luglio del 2011, dalla Corte d’Appello del Circuito federale, che aveva invece riconosciuto la brevettabilità del Dna isolato artificialmente e confermato sostanzialmente la sua decisione anche dopo un primo invito della Corte Suprema a riconsiderare il caso. Di qui un nuovo ricorso e la decisione finale, ancora più significativa in quanto presa all’unanimità: i geni umani non possono essere brevettati.
Per capire le possibili conseguenze di questa sentenza è sufficiente ricordare che si discuteva in concreto di due geni la cui mutazione determina un alto rischio di cancro ovarico e della mammella (Brca-1 e Brca-2): riconoscere che questo tipo di conoscenza non può essere «privatizzato» e trasformato in fonte di profitto cambia evidentemente le condizioni della ricerca in questo campo e quelle di accesso ai nuovi mezzi diagnostici e terapeutici che già si sono resi disponibili. Angelina Jolie, annunciando la sua scelta di sottoporsi ad una doppia mastectomia preventiva, aveva anche confessato il suo disagio per la consapevolezza di potersi permettere ciò che per altre donne resta impossibile per ragioni meramente economiche. La sua scelta continuerà probabilmente a far discutere ed evidentemente nulla cambia rispetto al problema di chi debba sostenere i costi di un intervento chirurgico. Ma prima di operare bisogna sapere e per questo la sentenza della Corte Suprema viene largamente interpretata come un passo nella direzione di una più ampia condivisione dei benefici del progresso scientifico.
Ci sono però due osservazioni da fare. La prima è che la questione discussa negli Stati Uniti era aperta da tempo anche altrove. L’argomento utilizzato dalla Corte del Circuito federale corrisponde per esempio a quello impiegato nel 1998 dall’Unione europea nella Direttiva sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche. Il corpo umano e la semplice scoperta di uno dei suoi elementi, «ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene, non possono costituire invenzioni brevettabili». Questa conclusione, tuttavia, non si applica quando il brevetto è richiesto per «un elemento isolato dal corpo umano o diversamente prodotto mediante un procedimento tecnico». E ciò anche quando «la struttura di detto elemento è identica a quella di un elemento naturale» (Art. 5). La radice di questa ambiguità va cercata appunto nella polarità naturale-artificiale. L’articolo 4 della Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti umani, adottata nel 1997 dalla Conferenza generale dell’Unesco, afferma che è «nel suo stato naturale» che il genoma umano «non può dar luogo a profitto», coerentemente con la sua celebre definizione, proposta nell’articolo 1, di «patrimonio dell’umanità» in senso simbolico. Nel suo stato naturale e dunque lasciando aperta la possibilità di considerare un’invenzione brevettabile quel che risulta comunque da un processo di manipolazione, come era ed è per alcuni quello necessario per isolare le molecole di Dna dal loro contesto cellulare e cromosomico.
La seconda osservazione è immediatamente collegata a questa difficoltà interpretativa. Nella sentenza della Corte Suprema vengono chiaramente indicati i limiti oltre i quali una richiesta di brevetto potrebbe conservare la sua legittimità: se la Myriad avesse creato un metodo innovativo di manipolazione dei geni, «avrebbe potuto chiedere un brevetto per il metodo». Analogamente, la Corte non si esprime sulla brevettabilità del Dna nel quale «sia stato alterato l’ordine dei nucleotidi che si presenta naturalmente» e, soprattutto, è esplicita nello specificare che la decisione non riguarda i brevetti «sulle nuove applicazioni della conoscenza dei geni Brca-1 e Brca-2». Quel che viene stabilito è solo che i geni e l’informazione da essi codificata non sono brevettabili «solo perché sono stati isolati dal materiale genetico che li circonda». La precisazione di questi limiti è importante, tanto è vero che l’affermazione che non basta isolare un gene per brevettarlo non toglie neppure la brevettabilità del risultato di interventi «tecnici» più pesanti, come quelli utilizzati nella ricerca sugli esoni.
Il grande valore di questa sentenza è fuori discussione, ma non è difficile immaginare che si continuerà a discutere della sovrapposizione e possibile contrapposizione fra l’interesse delle aziende che legittimamente operano for profit e la responsabilità di garantire che le nuove scoperte in campo biomedico non creino barriere di esclusione e discriminazione. La conclusione della Corte Suprema, d’altronde, è che la sentenza della Corte d’Appello non è semplicemente rovesciata, ma in parte confermata e in parte rovesciata. Sarebbe stato più difficile, forse, approvare all’unanimità una decisione più netta...

l’Unità 15.6.13
Il profitto che minaccia la privacy
di Luca Landò


Dai cellulari alle cellule. Non è una battuta ma un’inquietante salto di qualità in fatto di privacy, ovviamente violata. Lo ha denunciato giovedì il New York Times spiegando che negli Stati Uniti le polizie locali, non più solo l’Fbi, hanno iniziato a raccogliere campioni di Dna di decine di migliaia di cittadini: 11.000 a New York, 3.000 a Baltimora, addirittura 90.000 a Orange County in California. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone sospettate di aver commesso un reato, ma i prelievi vengono spesso presi alle stesse vittime con la banale scusa di non contaminare i dati raccolti. In alcuni casi la raccolta diventa materia di patteggiamento: a chi è imputato viene offerta la possibilità di uno sconto di pena in cambio della sua schedatura biologica. Molte volte il Dna viene però raccolto all’insaputa dell’interessato, anche perché con le tecniche di replicazione genica inventate da Kary Mullys (appassionato surfista e premio Nobel) basta un residuo di saliva su un bicchiere usato o un mozzicone di sigaretta per ricostruire il profilo genetico di una persona.
La notizia, se confermata, rischia di aprire scenari ancora più devastanti di quelli intravisti con il «datagate», cioè il trasferimento dei dati internet e telefonici di milioni di cittadini nei server dell’intelligence americana. Il motivo è semplice: se i dati «telefonici» rivelano il passato e il presente di una persona, quelli genetici raccontano il suo futuro. Nel bene e nel male. È utilizzando un test del Dna che Angelina Jolie ha scoperto di avere nel proprio genoma uno di quei geni (Brca-1 e Brca-2) che aumentano il rischio di tumore al seno e all’ovaia. Ed è in base a quelle informazioni che ha deciso, per ridurre quel rischio, di farsi asportare entrambi i seni.
Una scelta radicale e non condivisa da tutti i medici, ma comunque una decisione libera e personale. Che sarebbe successo se quegli stessi dati fossero invece finiti, all’insaputa dell’interessata, nelle mani di una compagnia di assicurazione? Quanto sarebbe aumentato il premio per una polizza sulla salute o sulla vita? E se al posto della bella attrice ricca, famosa e senza problemi di occupazione ci fosse stata una ragazza in cerca di lavoro? Sicuri che l’ufficio personale, una volta letti i referti, le avrebbe comunque offerto il posto?
Certo, gli uffici di polizia locale sostengono che quei dati vengono raccolti solo per motivi di sicurezza e combattere il crimine. Peccato che lo stesso argomento, usato da Obama a proposito della lotta al terrorismo, non abbia impedito al presidente degli Stati Uniti di finire nel tornado delle polemiche. E il motivo è semplice: una volta aperta, la porta della privacy difficilmente può essere richiusa. Chi può assicurare i cittadini americani (anzi, del mondo) che i loro dati telefonici e online non passeranno nei database di aziende e imprese, come già avviene quasi sempre a nostra insaputa? E chi può garantire che il prelievo di Dna effettuato dal poliziotto di quartiere resterà dentro il computer del commissariato di zona?
Sono circa tremila le malattie di origine genetica e vanno dal diabete ad alcuni tumori ad altre disturbi più o meno rari. Ammalarci fa parte della nostra vita e della nostra natura. È per questo che abbiamo inventato le polizze di assicurazione e le mutue. Ed è anche per questo che paghiamo le tasse e difendiamo non tutti ma molti il concetto di welfare state. Un’analisi genetica e indiscriminata della popolazione rischia di mandare all’aria tutto questo, sostituendo il principio della solidarietà universale con quello di rischio individuale.
È questo che vogliamo? Nello stesso giorno in cui il New York Times rivelava delle banche del Dna della polizia, la Corte suprema Usa ha stabilito con voto unanime che non è possibile brevettare i geni estratti dal corpo umano: sono di chi li possiede, non del biologo che li ha prelevati o dell’azienda che ha brevettato la tecnica di prelievo o di analisi. Una decisione importante che pone un limite allo sfruttamento commerciale del genoma. Ma che dovrebbe aprire gli occhi anche a chi, in nome della sicurezza, parla di controllo dei dati personali e privati. E che provengano da un cellulare o da una cellula poco importa.

l’Unità 15.6.13
Annalena Di Giovanni
Ricercatrice italiana a Istanbul, ha creato una radio che trasmette dal parco occupato da giovani e ambientalisti
È la nuova Turchia il popolo arcobaleno del Gezi Park
intervista di Claudia Bruno


Kemalisti, curdi, ultras, persone di ogni età e professione: tutti insieme da oltre dieci giorni a Gezi Park, in un’occupazione pacifica che sfida il premier Erdogan e ribadisce che i cittadini non ci stanno a vedere un’area verde demolita per far spazio all’ennesimo centro commerciale. «Un miracolo per cui dobbiamo ringraziare l’autoritarismo di Erdogan e la reazione sproporzionata della polizia» – spiega Annalena Di Giovanni, 33 anni, ricercatrice italiana residente a Istanbul. Il suo gruppo Mustereklerimiz (I nostri beni comuni, ndr) è una delle circa 80 associazioni riunite nella Piattaforma di solidarietà per Taksim, l’organo di rappresentanza in cui si riconoscono i manifestanti. «Le massicce riforme sul diritto del lavoro, gli spazi pubblici trasformati in spazi di speculazione edilizia, le difficoltà economiche hanno messo insieme diverse fasce della popolazione: c’era un malcontento diffuso che è esploso».
Si può parlare di una nuova forma di mobilitazione spontanea e apolitica?
«In realtà nella piattaforma ci sono diverse istanze politiche, ordini professionali, associazioni d’impegno civile come la nostra, che si occupa di spazi pubblici e beni collettivi. La stessa occupazione ha un valore politico e una forte impronta anticapitalistica. È vero che è un movimento spontaneo ma qui siamo organizzatissimi con tende, coperte, cucine che funzionano tutto il giorno, anche sotto attacco. Ci riuniamo e discutiamo ogni giorno, abbiamo messo su una radio, Gezi Radyo, e trasmettiamo tra mille difficoltà. Ogni mattina le persone vengono a portarci cibo, abbiamo talmente tanta solidarietà che non possiamo fermarci».
Erdogan ha incontrato una delegazione dei manifestanti e ha detto che si atterrà alla decisione della Corte sulla demolizione del parco. Un segnale di distensione?
«Il premier ha accettato di aspettare la pronuncia definitiva della Corte, ma si riserva comunque la possibilità di fare un referendum se la sentenza dovesse essere negativa. Molti temevano che la proposta del referendum potesse creare delle divisioni al nostro interno, invece abbiamo dimostrato ancora una volta unità e voglia di andare avanti. Continuiamo a chiedere che vengano accolte le nostre cinque richieste: revoca del piano urbanistico di Taksim, messa al bando dei gas lacrimogeni, processo per i responsabili delle violenze di questi giorni, immediato rilascio delle per-
sone arrestate e libertà di assemblea ed espressione politica nelle piazze turche».
Ci sono affinità con altri movimenti analoghi quali Occupy Wall Street?
«Occupy Wall Street era un movimento più istituzionale, aveva degli obiettivi diversi. Forse siamo più simili al movimento No Tav per gli ostacoli che incontriamo e per le critiche ricevute anche dalla stampa. Ma nel nostro caso abbiamo goduto di un’opinione pubblica compattissima a nostro favore».
Al di là della mobilitazione di queste settimane, c’è un futuro per la Piattaforma?
«È evidente che non possiamo continuare così per sempre: facciamo dei turni estenuanti per presidiare il parco, abbiamo messo da parte le nostre vite private, prima o poi inizieremo a dividerci. Quello che spero, però, è che la piattaforma si evolva e diventi un forum capace di tenere insieme le sue diverse realtà, in modo da garantirci una rappresentanza al di là dei partiti politici tradizionali. In Parlamento c’è lo sbarramento al 10%, la gente non si sente rappresentata, la maggior parte dei giovani che è qui non ha mai fatto attività politica prima. Le persone hanno visto in Erdogan il “babbo buono” capace di unire le anime del Paese e ridurre il potere dei militari dopo anni di colpi di Stato: ci è riuscito, ora non credo che si potrebbe arrivare a uno stato di emergenza tanto facilmente».
E ora?
«Ha esagerato pensando di poter scavalcare la volontà dei cittadini, come ha fatto per il parco. E la gente ha risposto unita: dopo qualche scontro verbale e qualche diffidenza iniziale, abbiamo visto convivere fianco a fianco nel parco kemalisti e curdi, qualcosa di impensabile fino a poco tempo fa; e questo è un tesoro che va preservato. Ecco perché spero che il movimento riesca a trasformarsi in un organo di rappresentanza orizzontale e allargato alle diverse voci della società».

il Fatto 15.6.13
La leggenda del pianista sulla piazza di Istanbul
L’italo-tedesco Davide Martello col suo pianoforte tra la folla e le note di “Imagine” e “Bella ciao”
di Roberta Zunini


Istanbul Dopo le prime note di Imagine, la signora Guler, madre di Ezgi, una bellissima studentessa appena laureata in Pedagogia all’Univesità di Istanbul, inizia a piangere in silenzio. Le lacrime bagnano la mascherina bianca ancora sulla bocca. Poi, quando Davide Martello suona l’ultima strofa della canzone pacifista più famosa del mondo, tre poliziotti rimasti incantati dall’apparizione del musicista italo-tedesco nel bel mezzo di piazza Taksim sotto assedio, mettono a terra i fucili caricati con pallottole di gomma. “Davide Martello rimarrà per sempre nei miei ricordi come il vero eroe della nostra protesta”, dice con gli occhi lucidi Ayge, una trentacinquenne con un master in economia, mentre il marito Damon, un afroamericano che insegna inglese in un liceo privato, annuisce con un gran sorriso: “Quest’uomo, assieme alla mamma di mia moglie e a tutte le altre madri che sono venute a sostenere i loro figli invece di supplicarli di lasciare Gezi e tornare a casa, come aveva consigliato loro Erdogan, ci hanno salvati. Davide e queste signore sono i nostri eroi ma quel che ha fatto questo giovane uomo è incredibile sotto tutti gli aspetti”. Quel che ha fatto il pianista italo-tedesco, un ragazzone nato a Costanza da genitori originari di Caltanissetta, è stato caricare il pesante pianoforte a coda sul suo furgone e guidare no stop dalla Germania alla Turchia per portare solidarietà con la sua musica ai manifestanti di Occupygezi. Sembra la trama di un film fantasy o una canzone ironica e malinconica di Paolo Conte. E infatti quando Davide era comparso con il suo pianoforte l’altra notte sembrava un miraggio. Qualcuno si domandava se oltre ai gas lacrimogeni e agli spray al peperoncino, la polizia non avesse usato anche qualche sostanza “stupefacente” o un gas sconosciuto in grado di scatenare un’allucinazione collettiva.
Altri invece si domandavano se quindici notti insonni passate in tenda e sotto la pioggia, sommate al terrore che la polizia ripetesse ciò che aveva fatto due sere prima nell’attigua piazza Taksim, non gli avessero dato al cervello. “Davide e il suo pianoforte sembravano irreali, era come se un alieno fosse sceso in mezzo a noi per portare un po’ di pace in questo mondo ingiusto e ci è riuscito. Eravamo tutti terrorizzati, compresa mia mamma che era venuta con tante altre a sostenerci, ma quando ha iniziato a suonare ci ha calmati e dopo qualche minuto ci sentivamo sollevati”, ricorda Bulent, uno studente del liceo linguistico che presta servizio volontario nella libreria allestita a Gezi dai manifestanti. Perché Davide Martello ha suonato tutta la notte, compresa una versione swingata di Bella Ciao, la colonna sonora di questi quindici giorni che hanno mostrato il lato oscuro della Turchia di Erdogan. “Dopo aver visto le immagini di queste persone pacifiche, di questi ragazzi che lottano per la libertà e per la natura, attaccate così brutalmente, ho sentito il bisogno di stargli vicino come so fare. Con la musica”.

l’Unità 15.6.13
L’astensione l’unica protesta contro l’Iran teocratico
Stretto controllo del regime sui media durante le «presidenziali»
Dati incerti sull’affluenza. Epidemia di influenza per disertare i seggi
di Michele Di Salvo


Velayati e Rohani non replicano a chi chiede loro se saranno possibili scontri come nel 2009 e glissano. «Non parliamone più, vedrete che non succederà niente» affermano.
Intanto ai giornalisti stranieri il visto temporaneo scade domani, ed è stato predisposto un ramificato sistema di controllo dei loro movimenti, per rintracciarli immediatamente ed accompagnarli direttamente in aeroporto. Misure di sicurezza interna: è la versione ufficiale.
L’unica protesta è l’astensione, e c’è chi teme anche per ragioni di propaganda interna una falsificazione dei dati sull’affluenza. Si, perché in assenza di qualsiasi vera alternativa politica, i sei candidati ufficiali, approvati direttamente da Kamanei, non rappresentano in alcun modo, né per cultura né per età, la maggioranza dei cittadini iraniani, il 50% dei quali ha la metà degli anni della Guida Suprema e dei candidati in lizza. Questo emerge. E allora l’unica possibile protesta è l’astensione di massa: è così che si può mettere a nudo la non corrispondenza di quel sistema con la realtà vera del Paese.
Intanto giornalisti sono confinati nelle redazioni, anche in previsione di titoli fotocopia e articoli già scritti e fortemente controllati. Sono sospese tutte le riviste periodiche non ortodosse, anche quelle che non sono dichiaratamente di opposizione, da circa tre mesi e «sino a dopo il voto» che con ogni probabilità si protrarrà sino ai ballottaggi previsti per il 21 giugno.
IL BLOCCO MEDIATICO
Internet ad accesso limitato e social network chiusi. Non solo. Bloccate le celle dei cellulari interni per non inviare messaggi, né mail o allegati. Funziona, poco e male, la rete abilitata per i cellulari tipo Gsm, ma il traffico dati viene rallentato, quando non bloccato.
Tra i primi a recarsi alle urne proprio la Guida Suprema, che ha chiarito essere un «dovere religioso» andare a votare. Le frasi più nazionaliste sono rilasciate da «interviste alle persone comuni» che spiegano alla televisione nazionale perché «andare a votare è necessario per difendere il Paese dagli attacchi e dalle minacce straniere». Peccato che gli intervistati siano tutti donne e uomini anziani, immediatamente riconoscibili dell’abbigliamento per la loro ortodossia religiosa: uno spaccato che a stento rappresenta ormai il 10% della popolazione reale.
«Non andare a votare è comunque un rischio, non credere» confida Hassan, il giornalista iraniano «perché risulta dalla tessera elettorale se hai votato o no. Io oggi sapevo che non sarei dovuto andare a lavoro, e per non votare da ieri ho un certificato medico. Non so se lo sai, ma tutta la mia famiglia ha l’influenza in questi giorni, e non possiamo uscire di casa. Tranne mia nonna...».
L’EPIDEMIA D’ INFLUENZA
Si perché pare che tra i giovani in questi ultimi tre giorni si sia diffusa una strana influenza, propedeutica a
non vedersi penalizzati negli studi universitari o sul lavoro, o non essere visti male in caso di fermo di polizia. Anche questo è l’Iran che va a votare.
Alle troupe nazionali è stata data una indicazione precisa: copertura dei seggi, riprendere file di persone (qualsiasi fila, anche per il pane) e montare servizi per indurre le persone a votare. Da stasera solo interventi dalle sedi dei candidati, al chiuso, nessuna ripresa esterna.
LA PRESSIONE
Nessuno parla della presa di posizione di Washington sulla Siria. Oggi non c’è né tempo, né spazio per queste cose. La priorità è mostrare un paese interessato al voto, attivo, e stretto attorno al Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. L’unica possibile è quella del 1979. E sembra che a quella data sia stato congelata anche l’intera società iraniana che qualcuno vuole che non si scongeli mai.
«Alla fine passerà anche questa» continua Hassan «e dopo il 22 giugno mi ritroverò i messaggi a cui rispondere via internet che si saranno accumulati». Ed anche in una poco stabile chat è come se volesse far percepire la voglia di sdrammatizzare, e anche di non farci preoccupare troppo.

il Fatto e The Independent 15.6.13
Ahamadinejad addio
L’Iran ha scelto il nuovo burattino
Vincerà il riformista Rohani o il conservatore Jalili?
Qualunque sia l’esito prenderà ordini dall’Ayatollah
di Robert Fisk


Ci mancherà. Il ghigno sinistro, gli occhi luciferini, la barbetta da conquistatore spagnolo, il presidente tiranno che una volta alle Nazioni Unite ebbe l’ardire di dire che sul suo capo aleggiava una nuvola, salvo poi smentire di aver detto una simile sciocchezza, e successivamente ammetterla di averla detta quando gli fecero sentire la registrazione nella quale si proclamava unto del Signore. Solo l’ex primo ministro di Israele, Avigdor Lieberman – che una volta telegrafò ai ministri degli Esteri europei inviando alcune foto del gran muftì di Gerusalemme che parlava con Adolf Hitler – poteva tener testa a Mahmoud Ahmadinejad quanto a irriducibile e sconfinata stoltezza. Roba da sentirsi male per l’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema della teocrazia iraniana, e per Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele. Entrambi erano razzisti. Ahmadinejad considera gli ebrei una razza inferiore, Lieberman ha la stessa opinione degli arabi e tutti e due si vergognano del loro Paese.
Ahmadinejad sapeva come mandare su tutte le furie gli Stati Uniti, Israele, la Russia, gli esuli iraniani e l’Unione europea contemporaneamente. Un giorno disse che la storia dell’Olocausto era una “esagerazione” e che il regime israeliano avrebbe dovuto essere “cancellato dalla carta geografica” e che Teheran avrebbe proseguito sulla strada della tecnologia nucleare sebbene Israele e Washington minacciassero di bombardare l’Iran. Per fortuna – o sfortuna – la legge elettorale iraniana proibisce un terzo mandato da presidente. Sapevano tutti che Ahmadinejad non avrebbe mai scatenato una guerra nucleare – molti dubitavano che conoscesse la differenza tra fisica nucleare ed energia elettrica – ma è riuscito a ergersi a personaggio da odiare (malauguratamente per un Paese con un grande passato storico come l’Iran) rivaleggiando con Gheddafi e con gli altri tirannelli del Medio Oriente.
C’ERA anche il lato serio della faccenda. Noi lo odiavamo, ma sottovalutavamo, anzi non prendevamo in considerazione alcuna la popolarità di cui godeva tra i poveri. Alzi la mano chi sa quanto crebbe il suo prestigio personale quando decise di istituire un fondo pensionistico per migliaia di tessitrici di tappeti che a 40 anni, a causa del loro massacrante lavoro, diventano cieche. Tuttavia non possiamo nemmeno dimenticare le torture, le violenze, le brutalità, i morti seguiti ai disordini scatenati dal risultato delle elezioni del 2009. La sua semplicità nascondeva uno spaventoso cinismo. Quando nel 2009, dopo la sua contestata vittoria, gli chiesi se era in grado di garantire che mai più sarebbe stata impiccata un’altra giovane di 22 anni come quella trascinata al patibolo tra le lacrime della madre che, attaccata al cellulare, continuava a cercare di salvare la vita alla figlia, mi rispose: “Personalmente non ucciderei nemmeno una mosca”. E poi mi impartì un patetico sermoncino sull’autonomia della magistratura iraniana.
Intanto gli iraniani hanno votato dopo otto anni di presidenza Ahmadinejad. I candidati sono sei. Il Consiglio dei guardiani della Costituzione ha fatto in modo che né le donne né i riformisti potessero avanzare la loro candidatura. Inoltre non ci sono partiti e i candidati indipendenti debbono giurare fedeltà alla “guida suprema”, all’ayatollah Khamenei. All’inizio i candidati erano 680. Il Consiglio dei guardiani – un organismo che non è stato eletto da nessuno e che consta di sei religiosi e sei giuristi – ne ha approvati otto. In seguito due si sono ritirati volontariamente dalla corsa. Dei restanti sei il favorito sembra essere il religioso Hassan Rohani che ha ottenuto l’appoggio anche di alcuni esponenti del fronte riformista. In assenza di candidati più credibili, Rohani appare la sola figura in grado di dare un minimo di rappresentanza alle opposizioni. Saeed Jalili, negoziatore nucleare iraniano, schierato su posizioni più conservatrici è un altro dei favoriti. Noto per il suo stile di vita monastico e per l’assoluta devozione alla guida suprema, Jalili è un intransigente nemico dell’Occidente. “Voterò per Jalili”, ha detto Hossein, un ventisettenne di Teheran. “È il solo che rispetta i valori della rivoluzione. Inoltre ha a cuore il destino dei più bisognosi e dei più poveri”. Mona, studentessa universitaria, dice che nella capitale si respira un clima di euforia: “All’inizio non volevo votare. Nel mio Paese le elezioni non sono libere. Ma ho cambiato idea dopo aver visto l’euforia degli ultimi due giorni per le strade della capitale. La gente ha disperato bisogno di un cambiamento e ho deciso di votare per Rohani”. Comunque sia e chiunque la spunti, non ci saranno cambiamenti significativi né per quanto riguarda i rapporti internazionali né per quanto attiene alle ambizioni nucleari iraniane. In fondo su queste questioni l’ultima parola spetta al falco Khamenei, non al presidente.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 15.6.13
La questione israeliana e l’elefante
di Moni Ovadia


L’OSSESSIONE EBRAICA PER LA PROPRIA IDENTITÀ PROBLEMATICA È NOTORIA E HA PARTORITO MOLTE FAMOSE STORIELLE. LA PIÙ CELEBRE È FORSE QUESTA. In una scuola elementare di Parigi viene assegnato un tema in classe sull’Elefante. Ciascuno degli alunni sviluppa il tema affrontandolo da un’angolazione diversa. Un bimbo scrive: «la prodigiosa memoria dell’elefante», un altro invece svolge il compito su: «l’elefante come animale da lavoro». Un bimbo ebreo propone il suo scritto con il titolo: «l’elefante e la questione ebraica!».
L’ossessione identitaria degli ebrei si è progressivamente attenuata nel secondo dopoguerra soprattutto con il declino della pandemia antisemita. L’antisemitismo, sia chiaro esiste ancora, ma in termini di intensità, diffusione e virulenza si è esponenzialmente indebolito rispetto al furore che lo caratterizzò nella prima metà del secolo scorso. L’elefante però è rimasto incombente con la sua ingombrante mole nell’orizzonte ebraico, ha solo cambiato indirizzo e, fra le varie residenze ebraiche, ha scelto quella israeliana. L’effetto di questo cambio di indirizzo lo racconta il giornalista e scrittore israeliano Uri Avnery in un suo articolo dal titolo «Occupazione? Quale occupazione?» apparso sul prestigioso quotidiano di Israele Ha’aretz il 7 Giugno scorso: «(...) possiamo utilizzare la consunta metafora del gigantesco elefante che sta nella stanza dove ci troviamo e di cui noi neghiamo la presenza. Elefante? Quale elefante? Qui? Noi camminiamo in punta di piedi intorno all’elefante, distogliamo da lui gli occhi così non dobbiamo guardarlo. Dopotutto non esiste. Noi stiamo completamente governando sopra un altro popolo. Ciò influenza ogni sfera della nostra vita nazionale – la nostra politica, la nostra economia, i nostri valori, il nostro sistema legale e militare e ancora di più. Ma noi non vediamo – non vogliamo vedere cosa accade a pochi minuti di guida dalle nostre case (...) Ci siamo abituati a questa situazione che vediamo come normale. Ma l’occupazione è intrinsecamente una situazione temporanea anormale (...). Israele invece ha inventato qualcosa che non ha precedenti: l’occupazione eterna. Nel 1967, poiché nessuna pressione avrebbe portato Israele a restituire i territori occupati, Moshè Dayan se ne venne fuori con un’idea brillante – continuare l’occupazione per sempre (...) Ma noi siamo un popolo morale per lo meno ai nostri occhi. Allora, come risolviamo la contraddizione fra la nostra estrema moralità e le circostanze palesemente immorali? Semplice: scegliamo la negazione».
Uri Avnery ci spiega che il vero ostacolo alla pace è il negazionismo israeliano che ha contagiato la maggioranza della società di quel Paese, delle comunità ebraiche della Diaspora, e della cosiddetta comunità internazionale.

La Stampa 15.6.13
Comandante delle SS ucraine smascherato in Usa da un cacciatore di nazisti
Michael Karkoc si nascondeva in Minnesota
Ora rischia di essere espulso verso Berlino o Varsavia, dove lo aspetta una condanna esemplare
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 15.6.13
Il Nicaragua sfida Panama con il canale “made in China”
Il tracciato partirà dal lago Nicaragua Ancora due opzioni aperte per lo sbocco sulla costa est
Investimenti da 40 miliardi per unire Atlantico e Pacifico. Ortega: “Ci farà ricchi”
di Paolo Mastrolilli


La nuova via d’acqua tra l’Atlantico e il Pacifico farà concorrenza a Panama. Dopo 100 anni sarà di proprietà del Nicaragua

Alcuni lo liquidano come un sogno, che non si realizza da quasi due secoli; per altri, invece, è la nuova sfida cinese all’influenza degli Stati Uniti nel loro stesso continente. Fatto sta che i parlamentari del Nicaragua hanno ufficialmente approvato il progetto per costruire un canale alternativo a quello di Panama, per collegare l’Atlantico al Pacifico, e lo hanno assegnato a una società di Hong Kong posseduta da un imprenditore di Pechino.
La stima del costo è 40 miliardi di dollari, e l’iniziativa è ancora nella fase degli studi di fattibilità. Le possibili strade da seguire sarebbero quattro, ma la scelta si sta già riducendo a due. Entrambe userebbero come punto di partenza il lago Nicaragua, anche noto come Cocibolca, perché è separato dal Pacifico da una piccola lingua di terra. Il resto del canale potrebbe essere costruito lungo il fiume San Juan, al confine con il Costa Rica, o sfruttando una zona di drenaggio più a Nord. Nel primo caso c’è un problema politico da superare, perché gli esperti legali ritengono che sarebbe necessario il via libera del governo vicino; nel secondo il lavoro sarebbe molto più complicato, perché bisognerebbe scavare 178 miglia di terreno nella foresta tropicale.
Il presidente Ortega sembra assolutamente determinato a procedere, Pereir perché considera questa idea come il passaporto del Nicaragua per uscire dalla povertà. Secondo le stime del governo, i soli studi di fattibilità hanno aiutato la crescita economica a salire nell’ultimo anno dal 4% al 10%.
Il partner che ha scelto è Wang Jing, un imprenditore quarantenne che risiede a Pechino, dove è presidente della Xinwei Telecom Enterprise Group, una compagnia di telecomunicazione che nel 2012 ha registrato profitti per 326 milioni di dollari. Per realizzare il progetto, però, ha fondato la HK Nicaragua Canal Development Investment, una società basata a Hong Kong. In cambio, ha ricevuto da Ortega anche un contratto da 300 milioni di dollari per sviluppare le infrastrutture digitali del Paese.
La concessione è di cinquant’anni, ma può essere rinnovata. L’accordo prevede che ogni anno Wang paghi a Managua 10 milioni di dollari per i diritti sul canale, che dopo un secolo diventerà completamente di proprietà del Nicaragua. L’imprenditore dice che cercherà di raccogliere sui mercati internazionali gli investimenti necessari a realizzare il progetto, che include anche la costruzione di due porti, due zone di libero commercio, una ferrovia e un aeroporto internazionale. Fonti molto vicine ad Ortega, però, dicono apertamente di aspettarsi che i soldi arriveranno dalla Repubblica Popolare.
Sul piano economico, la realizzazione di questa sfida non è facile: il Nicaragua progettò per la prima volta un canale di collegamento tra Pacifico e Atlantico nel 1825, e ancora non c’è. Panama inoltre ha investito 5 miliardi per allargare il proprio, e molti analisti dubitano che ci sia abbastanza traffico per giustificare entrambi i passaggi.
Sul piano strategico, però, la Cina potrebbe avere un interesse tanto a creare la propria strada di accesso all’Atlantico, quanto a stabilire una sua presenza più solida in America Latina, dove ci sono molte risorse che le fanno gola. Lo ha dimostrato lo stesso presidente Xi Jinping che, prima di incontrare Obama in California, ha fatto tappa proprio a Trinidad e Tobago nei Caraibi, in Messico e in Costa Rica. Un potenziale nuovo fronte della sfida globale, ormai in corso con gli Stati Uniti.

La Stampa 15.6.13
Snowden da talpa a pedina cinese
Pechino userà il Datagate per recuperare terreno?
di Maurizio Molinari


Con un editoriale del «China Daily» Pechino trasforma Edward Snowden in una pedina da usare contro Washington nella disputa sul cyberspazio. L’articolo del quotidiano, espressione delle autorità cinesi, rimprovera a Washington di aver accusato le forze armate di Pechino di coordinare gli attacchi cibernetici agli Stati Uniti da una palazzina di Shanghai, dove ha sede l’unità militare 61398, e oltre ribadire le smentite in proposito commenta che Snowden fa ora trovare gli americani «in una posizione scomoda». Come dire: ci volevano accusare di essere hacker mentre sono loro a spiare noi. «È la Cina la principale vittima del cyberspionaggio» aggiunge Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, riferendosi alle dichiarazioni di Snowden. L’affondo del «China Daily» segue infatti quanto affermato da Snowden nell’intervista al «South China Morning Post» di Hong Kong sullo spionaggio elettronico condotto dagli Stati Uniti ai danni di Pechino, con almeno 61 mila infiltrazioni. Ciò significa che alla prima riunione sul cyberspazio fra i due Paesi, in programma a luglio a Pechino, saranno i cinesi a chiedere spiegazioni alla controparte. In concreto, per Washington, ciò porta a dedurre che Snowden sta aiutando gli interessi cinesi nel cyberspazio. L’ex agente della Cia Robert Baer ritiene che «le autorità cinesi hanno già contattato Snowden» e poiché «a Hong Kong ci si può rifugiare solo con l’avallo dell’intelligence di Pechino» l’ex analista della Nsa sarebbe già, di fatto, un disertore. Per nulla diverso da quelli della Guerra Fredda. Sulla base di questa tesi i leader repubblicani al Congresso di Washington chiedono con insistenza all’Fbi di incriminare Snowden per «violazione delle leggi sullo spionaggio» anche perché, secondo il ministro della Giustizia Eric Holder, «le sue rivelazioni hanno già arrecato danni significativi alla sicurezza nazionale ed a Paesi nostri alleati». Ma potrebbe avvenire anche di peggio. Il timore dell’intelligence americana infatti è che Edward Snowden, al fine di ottenere asilo a Hong Kong, sveli agli 007 cinesi quali sono le singole utenze della Repubblica Popolare intercettate dalla «National Security Agency», consentendogli così di capire il metodo di infiltrazione e quindi di neutralizzare gran parte delle operazioni di cyberspionaggio Usa.

l’Unità 15.6.13
Perché oggi abbiamo bisogno di Platone
di Marco Rovelli


«LA REPUBBLICA DI PLATONE» RISCRITTA DA ALAIN BADIOU (EDITA DA PONTE ALLE GRAZIE) CREDO SIA UNO DEI LIBRI PIÙ BELLI CHE HO LETTO QUEST’ANNO: si legge come un testo teatrale, c’è il medesimo tono brillante e la messa in scena propria di un drammaturgo (quale Badiou è, del resto). Peraltro Badiou si appropria di Platone a tal punto che gli stessi concetti fondamentali cambiano nome: «Idea del Bene» diventa «Verità», «anima» diventa «Soggetto» (e la sua tripartizione diventa «le tre istanze del Soggetto»: Desiderio, Affetto, Pensiero), e, lacanianamente, Dio diventa il «grande Altro». Una riscrittura vera e propria, anacronismi compresi (da Mao al mito della caverna calato in una sala cinematografica). Perché abbiamo bisogno di Platone, oggi? Perché, come scrive Badiou nella prefazione, «ha aperto la strada alla convinzione che governare noi stessi nel mondo presupponga che una qualche via d’accesso all’assoluto ci sia dischiusa». Non si tratta dell’Assoluto di un Dio, o dell’Assoluto idealistico, ma di questo: che «il sensibile di cui siamo intessuti, al di là della corporeità individuale e della retorica collettiva, partecipa della costruzione di verità eterne» una verità vuota, che accoglie gli eventi che producono senso, e molteplice. In una intervista che si trova sul blog Superdupont di Stefano Montefiori, Badiou afferma: «Platone è il maestro dell’idea di universalità, senza la quale l’umanità non riuscirà a uscire dal caos. Se Platone attribuisce molta importanza alla matematica è solo per questo, perché vede nella matematica un esempio astratto di universale. Se conosci le regole del gioco, tutti possono giocare. Platone non pensava certo che fosse una ricetta facile o immediata, questa universalità bisogna cercarla e costruirla». Il comunismo prefigurato nella Repubblica è, per Badiou, il momento più alto di questa universalità: e solo sulla base di questa idea si può uscire dall’unica altra universalità, quella che sta devastando il genere umano, ovvero quella del denaro.

Repubblica 15.6.13
Un nuovo Illuminismo per uscire dalla crisi
Il saggio di Carlo Galli sulla rinascita dell’Italia e della buona politica
di Massimo L. Salvadori


La parola “crisi” nel greco antico ha una molteplicità di significati: separazione, scioglimento, lotta, scelta, fase decisiva nel decorso di una malattia. Corrente nel nostro linguaggio è la sintesi di essi, secondo cui si ha una condizione di crisi quando avviene una separazione tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che si avvia ad essere in un contesto di gravi difficoltà nel quale si richiede di compiere scelte. Dai primi Novanta del secolo scorso in avanti l’Italia è passata attraverso una serie di crisi, che in effetti ne fanno i capitoli di una sola, la quale si trascina da circa vent’anni. E ciascuno è costretto a viverci dentro e a suo modo a rifletterci. Lo ha fatto anche Carlo Galli, storico del pensiero politico e fresco deputato nelle file del Partito democratico, nei saggi — che coprono l’intero periodo in questione — raccolti in un volumetto, edito da Bruno Mondadori, dal titolo Itinerario nelle crisi (pagg. 129, euro 16).
Nel passare attraverso alcuni dei temi centrali della riflessione dell’autore, voglio iniziare da una pregnante affermazione su quel che la storia può insegnare: «La storia insegna per ciò che essa non è, e non è stata; per ciò che si è perduto (…) e che ora ci interpella come un dovere inadempiuto». Colpisce leggere quanto Galli scrive nelle pagine iniziali dei suoi “Itinerari”, dove — siamo nel 1991 — si parla di un principio di legalità travolto, di un legalismo formale che si contrappone all’illegalità di fatto, della perdita di legittimità del sistema politico, del compito urgente di dare una nuova credibilità ad un sistema politico che l’ha perduta.
Colpisce, appunto, perché si tratta di considerazioni che potrebbero essere scritte, senza variazioni, oggi. Il che dà piena testimonianza del fatto che un ventennio è trascorso senza che quel compito sia stato affrontato e tanto meno eseguito con successo. Quando da poco il Paese si era inoltrato nella sconclusionata Seconda repubblica, l’autore denunciava in maniera perspicace «il rischio» che il rifiuto dell’inefficienza sfociasse nel rifiuto del pubblico, il rifiuto delle ideologie nel «rifiuto della stessa politica, nella sua forma statuale e istituzionale », così da prefigurare «il trionfo di un regime post-politico, di un nuovo populismo » nutrito di un individualismo neoliberistico posto sotto la cappa di «una guida carismatica virtuale (televisiva) », inneggiante alla diseguaglianza come impulso dinamico e facente leva su una ridefinizione dei rapporti tra potere politico e potere mediato. Anche qui ciò che si presentava in potenza si è tramutato in atto.
All’ordine del giorno «nello spazio teorico del pensiero politico — osserva Galli — si fronteggiano due complessi ideali» (sono i volti della destra e della sinistra): l’uno fa appello all’autoregolazione della società, respinge l’eccesso di interventi progettuali, sostiene il primato dell’iniziativa dei singoli; l’altro invece ritiene la società bisognosa di regole stabilite da un’autorità pubblica e la necessità del primato, del comando, democraticamente fondato, della politica: di una politica, che deve rimontare la china agli occhi di una pubblica opinione sempre più delusa e persino ostile.
Nelle pagine conclusive il nostro autore affida la sua speranza nella rinascita della buona politica, auspicando che su di essa prenda a soffiare «il vento del pensiero» di cui parlava Hannah Arendt, ovvero di un sapere che «si nutra, oltre che di scienza, di memoria del passato e di immaginazione del futuro »; ed invoca «un nuovo illuminismo, adatto a tempi più disincantati, e anche più spaventati». Si può ben capire, dato lo stato in cui versa il Pd, che l’autore chiuda le sue lucide considerazioni volgendo lo sguardo preoccupato al suo partito: che, «appaesato in un contesto di crescita economica neoliberista» e inteso a far «valere istanze di giustizia sociale e di sviluppo dei diritti», non ha però saputo finora trovare la chiave di efficaci risposte.

Itinerario nelle crisi, di Carlo Galli (Bruno Mondadori pagg. 129 euro 16)

Repubblica 15.6.13
Le opere fanno i conti con l’economia E i documenti sostituiscono l’estetica
Arte. Se la bellezza è sottoscritta dal notaio
di Maurizio Ferraris


Si dice che l’arte dell’ultimo secolo è prevalentemente concettuale, ma in che senso lo scolabottiglie di Duchamp sarebbe più concettuale della Scuola di Atene di Raffaello, che riesce, con un semplice gesto della mano di Aristotele levata a metà, a illustrarci il carattere di medietà proprio delle virtù etiche? Il “concetto” dell’arte concettuale, a ben vedere, è una nozione giuridica. Così, nella coppia “legge e arte” che intitola il libro di Alessandra Donati (Law and Art. Diritto e arte contemporanea, Giuffrè, ma si veda anche il volume, curato con Gianmaria Ajani, I diritti dell’arte contemporanea, Allemandi) la giuridicità non è estrinseca, come sarebbe, poniamo, il tentativo di spiegare le opere a partire dalle patologie degli autori nella coppia “psichiatria e arte”. L’arte concettuale dell’ultimo secolo è, in effetti, un’arte contrattuale: fa i conti con il dato economico (il mondo dell’arte è anzitutto il mercato dell’arte) e insieme cerca di allargare la definizione di arte, rinegoziando l’implicito contratto tra committente, autore, fruitore, sino al punto da diventare essa stessa un contratto. Perché il solo concetto con cui lavora l’arte concettual- contrattuale è, dopotutto, la legge dell’arte, l’idea canonica che un’opera sia una cosa fisica, con un autore, con una gradevolezza estetica. Dunque, bisogna contraddire i canoni, aggirarli, smontarli, e il tutto, piuttosto perversamente, avviene attraverso uno strumento che è associato al canone e alla legalità, il contratto.
Grandi sono i poteri del contratto, che gode di una dimensione performativa e permette di fare cose con le parole, come suggeriva il filosofo inglese John L. Austin (1911-1960), il teorico degli atti linguistici, che osservava come la parola “sì” in un matrimonio, non si limitasse a descrivere un matrimonio, ma producesse due nuovi oggetti sociali, un marito e una moglie. E come sistematicamente avviene nei documenti, che permettono di attestare, documentare, archiviare, secondo una duplice modalità che si può ricondurre alle tipologie del “documento debole” (come registrazione di un fatto) e del “documento forte” (come iscrizione di un atto). Per intenderci, tutti gli artisti che registrano performance altrimenti destinate a scomparire producono documenti deboli, e lo stesso avviene quando gli artisti sfruttano il fascino estetico delle scartoffie e il potere magico dell’archivio, come Gordon Matta- Clark, che realizza collage con carte legali e catastali.
Ma il documento può essere adoperato in forma più forte, cioè letteralmente per produrre atti: Theodore Fu Wan modifica contrattualmente il proprio nome in Saskatche Wan, Alix Lambert in sei mesi si sposa con cinque mogli differenti, Maria Eichhorn concepisce la propria attività artistica come la redazione di contratti per tutelare zone urbane minacciate dalla speculazione. E il potere attributivo del documento è al centro di pratiche come quelle di Stefan Bruggemann, e di Robert Barry, che dispongono che due loro opere siano assegnate ogni cinque anni all’uno e all’altro. Il contratto può spingersi sino alla messa in scena di una sovversione delle regole che non sono più quelle dell’arte, ma del codice penale, come per esempio quando l’artista dà l’ordine di rubare in un supermercato, o, come in Corruption Contract del gruppo Superflex, l’acquirente — in evidente deroga rispetto alla teoria del bello come simbolo del bene morale — si impegna a estorcere o corrompere. Si può fare anche di più: costruire opere per mero fiat contrattuale. Già nel 1959 Yves Klein aveva realizzato Vuoto d’artista, una mostra senza opere, nella quale veniva rilasciato un contratto di cessione di una “zona di sensibilità pittorica immateriale”, e molto più tardi, nel 2010, Étienne Chambaud ha realizzato un’opera che consiste soltanto in contratti, certificati e dichiarazioni di autenticità. Ma l’iperbole si tocca forse nel contratto di Robert Morris del 1963, che si compone di due parti: a sinistra, una placca di piombo con qualche riga incisa, a destra una dichiarazione in cui l’artista ritira il carattere di opera d’arte all’opera, trasferendo l’aura artistica sul documento di disconoscimento.
Kant aveva detto che il carattere proprio dell’arte consiste nel far “pensare molto”. Ma quali pensieri suscitano queste opere? Interrogativi di indole essenzialmente giuridica. Per esempio: chi è l’autore, se si limita a rilasciare delle istruzioni? Certo una figura che può essere dispotica se, come Seth Siegelaub, prescrive nel contratto di esecuzione che anche il minimo cambiamento comporta una alterazione irreversibile dell’opera. O persino più dispotica, in modo perverso: è il caso di Daniel Buren che si astiene dal firmare o autenticare le proprie opere. E ancora: il curatore di una mostra o di un museo è un autore, nel momento in cui la sua responsabilità va molto oltre la gestione di uno spazio espositivo? E davvero la performance è un’opera senza supporto che si sottrae al mercato? Così era nell’ideologia originaria, ma ora il mondo è pieno di registrazioni di performance. E ancora di “scripta”, opere che si montano e smontano accompagnate da istruzioni per l’uso. O opere che consistono soltanto in documenti, come il foglio della denuncia presentata da Cattelan alla Questura di Forlì, che lamentava il furto dalla sua macchina di un’opera d’arte invisibile.
Tuttavia, l’arte contemporanea si limita a portare in primo piano un carattere proprio delle opere di ogni tempo e tipo. Una dimensione documentale ha sempre definito l’orizzonte del-l’arte, che è costituzione di oggetti sociali. Per cui, come ogni altro oggetto sociale, l’opera è definita da una legge che ho provato a formalizzare nei termini di Oggetto = Atto Iscritto. Vale a dire che gli oggetti sociali sono il risultato di atti sociali caratterizzati dal fatto di essere iscritti, su un pezzo di carta, un file di computer, o anche solo nella testa delle persone. Perciò la dimensione contrattuale non è una rottura rispetto all’essenza dell’arte tradizionale, che in quanto tale postula la cooperazione tra autore e fruitore suggerita più di trent’anni fa da Umberto Eco in Lector in fabula.
La piena realizzazione delle aspettative comportava spesso un fattore di sorpresa, di lieve trasgressione della norma, per dare un soffio di autorialità e di novità in quelle arti che (diversamente da tradizioni codificate) lo prevedono.
La variante contemporanea è per l’appunto il brivido contrattuale, in cui l’artista si sente tanto più rivoluzionario quanto più sviluppa sofisticatezze da azzeccagarbugli. Qui la trasgressione e la sorpresa divengono l’elemento prioritario dell’opera, e il frisson burocratico prende il posto di altri elementi (informazione, emozione, soddisfacimento estetico) costitutivi delle opere nella tradizione. La trasformazione del mondo in opera d’arte sognata dai romantici si è realizzata nelle scartoffie, e l’arte scende davvero nella vita. Il barista che non ti dà lo scontrino del caffè è potenzialmente un performer assoluto, ma l’evento risulta ancora più sublime se accompagnato da una denuncia della finanza. Aspettiamo tutti il momento in cui una riunione di condominio potrà diventare un’opera d’arte, il cui vestigio, il verbale, potrà ornare le pareti di casa. Nell’arte contrattuale si realizza la vecchia vignetta di Giuseppe Novello, che raffigura un giovanotto che la nobile famiglia voleva a tutti costi compositore, ma che di notte — sotto gli occhi accigliati di un busto di Beethoven — dava sfogo alla sua vera Musa, la ragioneria. Niente di strano. Dopotutto, Jeff Koons lavorava in borsa, ma ovviamente la perfezione dell’arte contrattuale sarebbe quella per cui Cattelan ricevesse una cattedra di diritto commerciale mettendo a frutto l’expertise accumulata nei suoi anni di militanza artistica.

Corriere 15.6.13
Eschilo, l'aquila e la tartaruga La strana morte di un drammaturgo
di Eva Cantarella


Un tempo, si raccontava che Eschilo, il grande Eschilo era morto per un singolare infortunio, molto diverso da quello che si aspettava, e tutti si aspettavano, da quando un oracolo gli aveva predetto che sarebbe stato colpito da un proiettile dal cielo: una morte nobile, quasi divina, degna di chi, come lui, al di là dei meriti letterari, aveva combattuto contro il nemico persiano a Maratona, a Salamina e Platea. Ma le cose andarono diversamente. Recatosi a Siracusa, alla corte del tiranno Gerone, un giorno uscì dalla mura per fare una passeggiata, e poi, per riposarsi, sedette su un muretto- Senonché, per sua sfortuna, un'aquila volteggiava nel cielo soprastante, cercano una pietra sulla quale scagliare una tartaruga che aveva catturato e teneva tra gli artigli. Se avesse trovata la pietra avrebbe potuto rompere il guscio e mangiarla. Ed ecco, finalmente la pietra perfetta. Eschilo, con il passare degli anni, aveva perduto i capelli. Dall'alto la sua testa liscia e lucente era quanto di meglio l'aquila potesse desiderare: pregustando il banchetto, prese la mira e scagliò. Così, diceva l'irrispettosa leggenda, era morto il grandissimo Eschilo.

La Stampa TuttoLibri 15.6.13
Giacomo, il fratello cancellato di Gesù
di Enzo Bianchi, priore di Bose


Il titolo dell’ultimo libro di Claudio Gianotto – docente di Storia del cristianesimo e Storia delle origini cristiane all’Università di Torino – sembra fatto apposta per stuzzicare la curiosità: Giacomo, fratello di Gesù (Il Mulino, pp. 144, € 13). Ma l’indicazione «fratello del Signore» per uno dei cinque personaggi di nome Giacomo che appaiono nel Nuovo Testamento è biblica, appunto, non legata a mode o pruriti più o meno recenti.
L’analisi di Gianotto si concentra su questo personaggio storico – guida della prima comunità cristiana di Gerusalemme, autore o comunque ispiratore della Lettera di Giacomo – evidenziando il contesto storico, culturale e religioso in cui prende l’avvio il movimento dei discepoli di Gesù, testimoni della sua morte e annunciatori della sua risurrezione.
Certo, un capitolo è anche dedicato a «Giacomo, i fratelli di Gesù e la verginità di Maria» e alla ormai millenaria diatriba su come vada inteso il termine «fratello»: se in senso stretto o in quello allargato di «cugino», come propose san Girolamo già alla fine del IV secolo. Ma anche questa riflessione è focalizzata più sul ruolo decisivo svolto da Giacomo nei primi anni del cristianesimo – anche in virtù della sua appartenenza alla famiglia di Gesù – e sulla rapida perdita di importanza della componente di origine giudaica nella chiesa nascente, che non sulla disputa attorno a un dogma teologico.
Come è avvenuto che la comunità descritta nei primi capitoli degli Atti degli apostoli – comunità che per altro verso fornirà per secoli l’immagine idealizzata di ogni vita comune cristiana, dove tutto era in comune e dove non c’erano bisognosi – perda ben presto di influenza sullo stile di vita dei cristiani nel mondo? L’insistenza propria di Giacomo sulle parole e gli insegnamenti di Gesù, con le loro ricadute nel comportamento quotidiano del discepolo, come può caratterizzare la presenza e l’azione dei cristiani nella società contemporanea?
La stagione che sembra essersi aperta con il pontificato di papa Francesco può indubbiamente far tesoro della semplicità, dell’immediatezza e della concretezza che scaturiscono dal patrimonio della prima comunità di Gerusalemme: il tornare al modo di comportarsi di Gesù, al suo parlare franco, al suo essere vicino alle persone più povere, dai malati ai peccatori, così come il riscoprire la genuinità dei rapporti fraterni in seno alle comunità cristiane, la solidarietà, la condivisione dei beni e dei doni di cui ciascuno è dotato, offrono alla chiesa e alla stessa società in crisi di senso stimoli ben più importanti del sapere se Giacomo era fratello o solo cugino di Gesù.