sabato 10 ottobre 2009

l’Unità 10.10.09
Manifestazioni a Milano, Firenze, Roma, Napoli e Palermo. Nel capoluogo lombardo in 100mila
Ma il governo e le altre organizzazioni tirano diritto. L’intesa tra martedì e mercoledì
«Sospendete la trattativa» 250mila operai in piazza
di Giuseppe Vespo


Lo sciopero della Fiom ha portato in cinque piazze italiane 250mila persone, per dire no all’accordo separato sul rinnovo del contratto e chiedere misura più efficaci contro la crisi. «Un fallimento» secondo Fim e Uilm.

«Meno male che non ho una famiglia», dice Stefano Monteresis, da 25 operaio anni alla Bonino Cardin Machines, piccola azienda di macchine tessili del Biellese che da gennaio ha messo i suoi cinquanta dipendenti in cassa integrazione. «Come avrei fatto a mantenerla con 750 euro al mese di cassa integrazione e un mutuo?».
DUECENTOCINQUANTAMILA
Stefano è uno dei centomila arrivati ieri in piazza Duomo a Milano insieme alla Fiom. Uno dei duecentocinquamila stima il sindacato che hanno partecipato allo sciopero generale indetto dalle tute blu Cgil per chiedere il blocco dei licenziamenti, l’estensione degli ammortizzatori sociali e per dire no all’ipotesi di un accordo separato per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici.
Con il sindacato guidato da Gianni Rinaldini si sono riunite in strada centomila persone a Milano, trentamila a Roma, sessantamila a Firenze, cinquantamila a Napoli e diecimila a Palermo. Un assaggio reale di crisi ma anche una prova di forza per la Fiom, che tira fuori i muscoli per far vedere sia a Federmeccanica sia a Fim-Cisl e Uilm-Uil, che rimane l’organizzazione più rappresentativa tra le tute blu, senza la quale è illogico rinnovare il contratto di settore.
REAZIONI
Così, a seconda di chi la interpreta, la partecipazione alle manifestazioni assume un peso diverso. Il ministro Sacconi, per esempio, si augura che la Fiom «voglia riflettere sulla poca adesione che ha registrato» nelle fabbriche. Un dato che per il sindacato si è attestato al 70 per cento mentre per Federmeccanica solo al 13. Di «fallimento», parla anche Giuseppe Farina, segretario della Fim-Cisl, che sentenzia: «Non c’è nessuna alternativa al rinnovo del contratto». E sulla stessa linea si posiziona il leader dei meccanici della Uil, Antonino Regazzi, che non esclude si possa trovare l’intesa sul contratto tra martedì e mercoledì, quando si tornerà a parlare con Federmeccanica di salario.
LA PROPOSTA
Difficile quindi che venga presa in considerazione la proposta lanciata ieri dal palco milanese di piazza Duomo da Rinaldini, che ha chiesto a sindacati e industriali di fermare le trattative e di sottoporre ai lavoratori un referendum sulle due piattaforme presentate alle imprese. «Se la maggioranza si pronuncerà per la piattaforma di Fim e Uilm noi ne prenderemo atto, perché il nostro unico vincolo è la volontà dei lavoratori ha detto il segretario Fiom viceversa chiediamo agli altri sindacati di comportarsi allo stesso modo».
A questo proposito la Fiom ha inviato a tutti i partiti una lettera per chiedere una legge che istituisca il referendum tra i lavoratori come passaggio obbligato per il rinnovo dei contratti nazionali. «Un principio di democrazia», secondo Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, ovviamente contrario ad un accordo dei metalmeccanici senza la Fiom. Mentre per Raffaele Bonanni (Cisl) la posizione dell’organizzazione di Rinaldini è «inadatta al delicato momento del sindacalismo italiano. Siamo costretti a garantire ai lavoratori un contratto e la prospettiva di un lavoro». Concorde Luigi Angeletti (Uil), che insieme a Renata Polverini (Ugl) esprime «rispetto per chi manifesta».
Tra questi, ieri in tutta Italia c’erano anche 150mila studenti, mobilitati al fianco degli operai e contro i tagli alla scuola. Alla giornata milanese hanno partecipato, oltre al segretario Cgil, Susanna Camusso, e alla segretaria della Filtea, Valeria Fedeli, anche i leader di Rifondazione, Paolo Ferrero, e dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro e il senatore Pd Paolo Nerozzi.❖

l’Unità 10.10.09
Conversando con José Saramago Poeta e scrittore, premio Nobel per la letteratura nel 1998
«Berlusconi è un bubbone ed è la malattia del Paese La sinistra? Non ha idee»
di Oreste Pivetta


Alto, magro, sottile nell’abito grigio, la giacca abbottonata, la cravatta rossa, ecco Saramago che mi cammina incontro lungo il corridoio di un albergo torinese, che mi porge la mano, che mi dice cose terribili con la calma del saggio, la puntualità di chi misura le parole, di chi le parole usa da una vita e che delle parole ha fatto la sua ragione di vita. Siamo nel campo delle «interviste impossibili»: come si fa a restituire il tono di fondo e il contorno di quelle parole, di parole come Obama, pace, sinistra, comunista e , naturalmente, Berlusconi e persino D’Addario.
Josè Saramago è a Torino. Ieri sera ha festeggiato il suo nuovo libro al Circolo dei lettori, oggi avrà altri appuntamenti a Palazzo Nuovo, l’università, lunedì sarà a Milano al Teatro Franco Parenti, mercoledì a Roma al Quirino. Il libro in questione è «Il Quaderno», pubblicato da Bollati Boringhieri dopo che la Einaudi l’aveva respinto. È la raccolta di quanto comparso nel giro
di un anno e mezzo, tra il 2008 e il 2009, nel blog di Saramago, un articolo, un pensiero, una breve nota di carattere politico o un ricordo letterario: dalla sua Lisbona alla poesia di Machado, da Ratzinger a Gaza. Einaudi lo bocciò per quel ritrattino impietoso di Silvio Berlusconi e del popolo italiano, che sta alle prime pagine: «Nel paese della mafia e della camorra, che importanza potrà mai avere il fatto provato che il primo ministro sia un delinquente?»
Però vorrei cominciare dalla notizia del giorno: il Nobel per la pace a Obama. Lei ha dedicato molte pagine del suo blog al nuovo presidente degli Stati Uniti, dopo essersi dedicato con feroce lucidità al predecessore, George Bush, «bugiardo compulsivo», «bugiardo emerito», un cow boy che credeva d’aver ereditato il mondo e lo aveva confuso con una mandria di buoi.
Adesso c’è Obama, quasi una rivoluzione, certo una speranza. Che cosa pensa di questo premio? «Mi rallegra moltissimo. Attendo il suo discorso con curiosità. Qualcuno in giro dirà che è prematuro, che in fondo non si sono ancora visti i risultati di una eventuale politica di pace di Obama. Io penso prima di tutto che si tratti di un buon investimento: la dimostrazione che vale per i mondo intero di quanto abbiamo bisogno di un uomo come Obama. Almeno dei pensieri, degli intendimenti che finora ha espresso. Bene. Certo che il presidente degli Stati Uniti si ritrova sulle spalle una responsabilità enorme. Come ho scritto, un uomo che ci sorprende in questo mondo cinico, senza speranza, terribile, che ci sorprende perché ha voluto alzare la voce per parlare di valori,di responsabi-
lità personale e collettiva di rispetto per il lavoro e anche per la memoria di chi ci ha preceduto...». Ma lei sapeva che anni fa un parlamentare italiano lanciò l’idea di una petizione popolare perché il premio Nobel per la pace venisse assegnato a Berlusconi?
«No, questo mi è sfuggito. E che cosa avrebbe mai fatto Berlusconi per la pace? Non so. Ho solo visto invece come ha ridotto il suo paese, ho potuto apprezzare la decadenza morale e culturale di un paese che amo molto...».
Berlusconi dirà che lei è un vecchio comunista. Non si senta solo... Però, di fronte alle sue analisi perfette (anche quelle che toccano la sinistra,il partito democratico, Veltroni) mi chiedo come faccia lei da Lisbona o da Lanzarote a vedere tutto, ad analizzare tutto con tanta precisione?
«Non mi è stato difficile, perché, ripeto,ho sempre amato l’Italia. In realtà quando sulla scena è comparso Berlusconi me ne sono allontanato. Dopo, ad ascoltare quanto accadeva, mi sono sentito addosso il dovere morale di dire quanto pensavo. Anche adesso: che Berlusconi è un bubbone ed è la malattia del paese, anche se ha riscosso molte simpatie,se è vero che per tre volte gli italiani lo
hanno eletto. Un uomo senza morale, capace di tutto...». Sa anche delle escort?
«Sì e mi hanno molto colpito le sue proteste quando la signorina D’Addario è comparsa in televisione. Si-
gnificative del suo modo proprietario di pensare il paese. La signorina D’Addario può frequentare i palazzi del potere, ma non può comparire in televisione...».
Beh,si potrebbe dire che Palazzo Grazioli non è palazzo Chigi. Palazzo Grazioli è “roba” di Berlusconi. «Certo, ma lui ne ha fatto il
luogo privilegiato di esercizio del suo potere, in modo aperto, chiaro, incontrando lì gli stessi uomini del governo italiano».
Lei non è tenero neppure con la sinistra, tantomeno con quella italiana. Ha scritto che il Partito democratico. È cominciato come una caricatura di partito ed è diventato il convitato di pietra sulla scena politica. Ha scritto che Veltroni ha suscitato tante speranze defraudate dalla sua indefinitezza ideologica e dalla fragilità del suo carattere. È sempre di questa convinzione? «Tempo fa durante una conferenza a Buenos Aires dissi che la sinistra (e mi riferivo alla sinistra dei paesi che conosco) non ha la più schifosa idea del mondo in cui vive. Della realtà che ci sta attorno. Francamente temevo reazioni durissime, parole forti contro di me, rivendicazioni di orizzonti, di progetti, di battaglie. E invece mi sono ritrovato immerso nel silenzio. Nulla. È la dimostrazione che la sinistra non ha idee. Si può dire che la sinistra moderata abbia ad esempio espresso qualcosa di sinistra di fronte alla crisi economica e finanziaria di questi tem-
pi? Avete assistito a qualche reazione ispirata da una cultura di sinistra? E la sinistra comunista che fa? Aspetta di dar l’assalto a un altro Palazzo d’inverno».
Abbia pazienza: ci siamo tutti arresi al mercato e alla sue regole... «Ho scritto anche e ne sono convinto che Marx non aveva mai avuto tanta ragione come oggi».
Mi ha colpito un capitoletto del suo blog, dove cita alcune parole cardine e cioè bontà, giustizia, carità. Per un comunista come lei e come noi non dovrebbe contare in primo luogo l’eguaglianza?
«Le ho pure collocate in ordine di importanza quelle parole: prima la bontà che dovrebbe implicare la giustizia, all’ultimo posto la carità che ha sempre qualcosa di compassionevole e soprattutto consente a chi la fa di godere di uno stato di superiorità. Di fronte alle mistificazioni del nostro tempo retrocederei la bontà (quanti fanno del male, assumendo le sembianze dei buoni) e farei avanzare la giustizia,introdurrei la parola libertà e cancellerei carità».
Eguaglianza niente?
«È un concetto molto complesso. Anche con la Rivoluzione francese arrivò per ultimo. L’eguaglianza è impossibile. Se la giustizia funziona ci si avvicina».
Abbiamo parlato dell’Italia. Lei segue la produzione letteraria italiana? «Ci sono tanti bravi scrittori. Non parlo soltanto dei classici. Penso ai miei contemporanei, da Eco a Tabucchi a Camilleri. Sono scrittori che in Italia però mi sembra non abbiano eco. Non è un gioco di parole... Scrivono,dicono, fanno,ma nessuno li ascolta. Cioè non hanno alcuna influenza sulla società, sulla cultura e sul costume degli italiani, tantomeno sulla politica. Sono molto più apprezzati all’estero. Ho scritto di etica verdiana,riferendomi appunto alla straordi-
naria popolarità di quel grande compositore. Ma scrivere sui muri, come si faceva allora, “Viva Verdi” aveva un significato politico chiaro: Viva Vittorio Emanuele re d’Italia eccetera eccetera. Ora non c’è
parola che scuota una società apatica, che non ha evidentemente coscienza del fatto che la democrazia non è una conquista garantita per l’eternità. Basta poco a perderla».
Lei è un grande scrittore, considerato tra i più grandi del secolo passato e di questo. Dia qualche consiglio ai giovani: come si fa a diventare bravi quanto lei?
«Non mi sogno proprio di dare consigli. Mi permetto solo di ammonire così: non avere fretta, non perdere tempo. La fretta è un difetto giovanile: si vuole arrivare presto ai risultati, al successo. Non perdere tempo, perché ogni momento è prezioso per studiare, imparare, conoscere,sperimentare». Scusi, vorrei chiudere con una citazione, tanto per risollevare il morale della sinistra... «Abbiamo ragione,la ragione che assiste chi propone di costruire un mondo migliore prima che sia troppo tardi...».❖

Repubblica 10.10.09
Il Cavaliere e la dignità violata
di Nadia Urbinati


Berlusconi ripete spesso che "la maggioranza degli italiani è con me". Ma forse pensa che quando parla di donne la totalità degli italiani (uomini ) è con lui. Il silenzio protratto di molti, troppi uomini su come il premier tratta e descrive le donne, sembrerebbe provare che egli rappresenta davvero il costume di una gran parte dei maschi. Anche alcuni leader dell´opposizione, quando si cominciò a sapere di escort e festini, dissero che erano affari privati e che la politica non doveva infilarsi sotto le lenzuola. Poi però si seppe che spesso le lenzuola vennero usate come trampolino per poltrone, affari e clientele e allora la tesi giustificativa del "privato" non tenne più.
Naturalmente, il ricorso al privato é ancora l´arma più brandita dal leader e da chi lo sostiene anche con la strategia del dileggio contro chi la mette in discussione. E tutto viene liquidato con l´accusa dell´invidia, la quale è un vizio privato non giustificabile; é un vizio e basta.
La donna, dice il Signor Berlusconi, è il più bel dono che il creato ci (leggi: a noi uomini, non al genere umano) ha dato. La logica è vecchia come il mondo ma sempre nuova: noi siamo state create ed educate per alleggerire il peso di chi ha potere e responsabilità. Noi siamo solo privato. Se proviamo a essere noi, né doni né veline, allora siamo niente, oggetto di offesa e di attacco: brutte, vecchie, e via di seguito. Anche in questo caso l´accusa di invidia viene usata per squalificare le nostre ragioni: perché, presumibilmente, se fossimo giovani e belle non ci offenderebbe essere trattate come un dono. Se ci offende, ecco la conclusione della filosofia dell´invidia del signor Berlusconi, è perché nessuno ci vuole più come un dono. Risultato: a bocca chiusa siamo accettate sempre, da giovani o vecchie, se belle o brutte; ma se usiamo il cervello siamo offese sempre: se belle perché pensare non si addice alla bellezza, se brutte perché pensare è germe di invidia.
La logica é chiara: il leader del nostro paese usa le armi del maschilismo più trito per azzerare nelle abitudini la cultura dei diritti e dell´eguale dignità che generazioni di donne e di uomini hanno con durissima fatica costruito. Si potrebbe dire che la sua è una logica controrivoluzionaria da manuale, una truculenta reazione contro una cultura che ci ha consentito di essere cittadine uguali fra cittadini uguali. Con una precisazione importante: non è la presenza nel pubblico che ci viene tolta; molto più subdolamente, è l´autonomia, la scelta competente di poter essere parte del pubblico che ci si vuole togliere (le poche ministre del governo sono lì perché sono gradevoli al capo, per ragioni tutte private e soprattutto per volontà altrui). È anche per questo che la distinzione tra pubblico e privato oggi non tiene: perché questa distinzione ha valore solo se riposa su un presupposto di eguaglianza di dignità; diversamente il privato è un serraglio e il pubblico uno spazio dispotico e di fatto un´estensione del privato, dei suoi interessi e delle sue pulsioni.
Viviamo un tempo in cui i diritti dell´eguaglianza sono sotto attacco: dall´istituzione della carta di povertà, alla demolizione della scuola pubblica e del servizio sanitario nazionale, al trattamento di privilegio rispetto alla legge che i potenti pretendono: tutto va nella direzione di una maggiore diseguaglianza. E l´offesa che subiscono le donne – l´insulto alle ragazze veline, a Rosy Bindi e a tutte noi–è la madre di tutte gli arbitri e di tutte le diseguaglianze. E per troppo tempo questo fenomeno è stato digerito come cibo normale, come se, appunto, il Signor Berlusconi fosse davvero rappresentativo della mentalità generale di tutti gli italiani. è vero che troppo spesso si vedono platee di convegni o di eventi pubblici popolate di soli uomini, come se il genere femminile non contemplasse anche studiose oltre che intrattenitrici. Ed è vero che purtroppo è quasi sempre solo l´occhio delle donne a vedere questa uniformità al maschile. Certo, è bene non generalizzare. Tuttavia non é fuori luogo ricordare anche a chi lo sa già che la dignità violata delle donne è dignità violata per tutti, anche per gli uomini. I quali, in una società compiutamente berlusconiana non sarebbero meno subalterni e più autonomi delle loro concittadine.

Repubblica 10.10.09
Le due ottime ragioni della Consulta
di Alessandro Pace


Sul Lodo Schifani la Corte aveva indicato che la costituzionalità era ancora da valutare
Era chiaro che lo scudo per le alte cariche non poteva essere istituito con legge ordinaria

Caro direttore, da più parti, e non solo dal centro-destra, si muovono alla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l´incostituzionalità del cosiddetto Lodo Alfano due rilievi critici: il primo, di aver rinnegato ciò che nel 2004 aveva affermato, e cioè che l´«assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono» alle alte cariche dello Stato costituirebbe «un interesse apprezzabile»; il secondo, di non aver esplicitato che il Lodo Schifani violava l´articolo 138 oltre agli articoli 3 e 24 della Costituzione.
Il primo rilievo è inesatto, perché se è vero che tali parole figurano nel paragrafo 4 della sentenza, è anche vero che esse vanno lette alla luce della frase conclusiva dello stesso paragrafo, che suona così: «Occorre ora accertare e valutare come la norma incida sui principi del processo e sulle posizioni e sui diritti in esso coinvolti»
Una frase, quest´ultima, che rende chiaro, al lettore attento, come l´effettiva rilevanza costituzionale di quell´interesse costituisse, per la Corte, non la conclusione di un iter argomentativo, ma un problema (ancora) da valutare alla luce dei principi costituzionali. Ciò che la Corte ha poi fatto nei paragrafi 6, 7 e 8 evidenziando il contrasto della legge Schifani con il «principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili è regolato da precetti costituzionali».
Il secondo rilievo è altrettanto inesatto. È vero che in quella sentenza non si parla dell´articolo 138, ma il riferimento a questa norma, per quanto implicito, è trasparente (almeno per un costituzionalista). Non si può infatti sostenere, nel contempo: a) che la Costituzione sia superiore alle leggi ordinarie; b) che essa sia posta allo stesso livello delle leggi ordinarie che possono modificarla.
Ne segue che, nel momento stesso in cui la Corte ha annullato il Lodo Schifani alla luce degli articoli 3 e 24 della Costituzione, essa - nel riaffermare la superiorità della nostra Carta fondamentale (che è un «prius logico» di tutte le sentenze della Corte costituzionale dichiarative dell´incostituzionalità di una legge) – ha altresì certificato anche l´insufficienza formale della legge ordinaria come strumento normativo idoneo a modificare le disposizioni costituzionali alla luce delle quali la legge è stata annullata.
Pertanto, qualora, nonostante la sentenza n. 24 del 2004, il governo e il Parlamento avessero voluto – come è appunto avvenuto – riprodurre, pur con taluni (insufficienti) ritocchi, la norma derogatoria del principio costituzionale d´eguaglianza già dichiarata incostituzionale, avrebbero dovuto seguire la procedura dell´articolo 138, essendo già stata accertata l´insufficienza della procedura ordinaria.
In conclusione, è bensì vero che la sentenza non forniva, in positivo, questa indicazione (la Corte non era tenuta a farlo); ma è altrettanto vero che, dato il contenuto decisorio della sentenza, non c´era, per il legislatore, altra via da tentare.
Dico "tentare", perché è assai discutibile che una legge ad personam, come le leggi Schifani e Alfano volute nell´interesse di un solo soggetto, potrebbe superare il vaglio del sindacato di costituzionalità non solo con riferimento all´articolo 3 della Costituzione ma anche (e soprattutto) all´articolo 1 comma 2, secondo il quale «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Da cui chiaramente deriva che nel nostro ordinamento costituzionale non esistono "sovrani" o "unti del signore" che si pongano al di sopra dei cittadini.
L´autore è professore di diritto costituzionale presso l´Università La Sapienza di Roma

Corriere della Sera 10.10.09
Le gang delle cattive ragazze. Cresce il bullismo in rosa
Sono responsabili del dieci per cento dei reati di lesioni
di Giuseppe Guastella 



MILANO — Aggrediscono, picchiano e rapinano le coeta­nee per strada e a scuola. Le co­stringono a consegnare il giubbi­no, il cellulare, l’iPod o qualun­que altra cosa attiri il loro desi­derio predatorio irrefrenabile. Spregiudicate, sfrontate, spesso alticce, se non ubriache o perfi­no drogate, nelle tasche dei jeans alla moda o sotto le gonnine a vi­ta bassissima qual­che volta nascondo­no un coltello. Sono le ragazze violente, le protagoniste del «bullismo al femmi­nile », un fenomeno metropolitano che, poco conosciuto fi­no a qualche anno fa, sta crescendo in modo allarmante tra le giovanis­sime.
I dati annuali raccolti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Milano — ma la situazione è si­mile in molte altre aree italiane — registrano una lieve generale riduzione dei reati commessi dai ragazzi al di sotto dei 18 an­ni, ma l’incremento di quelli a carico delle «cattive» ragazze di nazionalità italiana è notevole. Se fino a uno-due anni fa le stati­stiche stilate in questo periodo in vista dell’inaugurazione del­l’anno giudiziario di gennaio parlavano di pochissimi episo­di, ora per reati come le lesioni personali il 10% dei minori che finiscono sotto indagine è di ses­so femminile.
Il bullismo è in crescita. Nella sua relazione, il procuratore Mo­nica Frediani, infatti, scrive che è «sempre maggiore il ricorso da parte dei ragazzi alla violenza quale strumento di sopraffazio­ne, prevaricazione e risoluzione di contrasti anche banali». Il ma­gistrato sottolinea «la serietà e la qualità dei reati commessi, la diffusa legittimazione dell’uso della forza o della minaccia nel­le dinamiche relazionali che tra­spare dagli interrogatori» dei minori. Tutto condito da «una facile e generalizzata assunzione di stupefacenti e alcolici». E per di più i ragazzi non sono in gra­do di «cogliere il disvalore socia­le » di quello che fanno e, quin­di, di avviare «un processo di spontanea e sincera rielaborazio­ne ».
Il 58% dei minori coinvolti in procedimenti penali a Milano so­no italiani. Molte volte proven­gono da famiglie in difficoltà, ma tante altre sono cresciuti in nuclei benestanti e del tutto «normali» ma che, al pari delle prime, non sono stati in grado di dare «riferimenti educativi e culturali» ed hanno cresciuto i fi­gli in una situazione di abbando­no morale». In un anno le lesio­ni personali sono passate da 364 a 434, le estorsioni da 20 a 29. Le rapine sono scese da 280 a 251 (più altre 65 solo tentate). Sono i reati tipici dei bulli e il calo del­le ultime non deve trarre in in­ganno: la paura di ritorsioni po­trebbe aver suggerito che è me­glio non parlare, tant’è vero che ben 169 fascicoli sono contro ignoti.
Nel bullismo «prevale l'uso della violenza e della minaccia ri­spetto al fine di lucro poiché og­getto dell'impossessamento con­tinuano ad essere beni di modi­co valore e simbolici». Un feno­meno che «non accenna a dimi­nuire », nonostante lo sforzo dei magistrati per i minorenni, del­la scuola e dei servizi sociali. E che anzi, nella sua variante al femminile, pur rimanendo anco­ra molto minoritaria, conosce un boom inquietante.
Tant’è vero che sono 63 i nuo­vi fascicoli per lesioni volonta­rie a carico di ragazze italiane (erano 43 e 52 nei due periodi precedenti), 26 su percosse, 100 per minacce e ingiurie, 11 mole­stie (prima una sola) e 9 per por­to di coltello (erano 3).
Non hanno a che fare con i bulli, ma sono aumentati gli omicidi, che da 7 sono raddop­piati a 14 (12 solo tentati) men­tre sono diminuite lievemente le violenze sessuali (da 68 a 64), però ben dieci sono di gruppo. Desolante in questi casi la reazio­ne dei ragazzi maschi sotto accu­sa che non riescono neppure a comprendere le loro responsabi­lità e a capire il dramma delle vittime delle loro violenze. Uno scenario in cui si inquadrano an­che gli 8 fascicoli aperti dopo che alcuni minori hanno diffuso via internet immagini pedopor­nografiche realizzate mentre fa­cevano sesso con ragazzine.
Le cause di questi comporta­menti devianti? Frediani scrive che stano nelle «carenze educa­zionali e affettive, spesso nem­meno percepite dai genitori, abi­tuati a delegare ad altri, preva­lentemente alla scuola, i compi­ti di educazione e crescita dei fi­gli e troppo spesso occupati a soddisfarne solo le esigenze ma­teriali ». 


Corriere della Sera 10.10.09
I risultati della ricerca di un team di neuropsicologi dell’Università del Texas e di Padova: nei test i non vedenti risultano più bravi
L’ordine dei numeri è già nella nostra mente
Fin dalla nascita conosciamo il valore distribuito in sequenza da sinistra a destra
di Massimo Piattelli Palmarini


L’esperimento. Partendo da un numero fisso di riferimento, le grandezze vanno decise nel modo più rapido possibile

Immaginiamo di partecipa­re alla seguente gara di calco­lo mentale: ci viene dato un numero fisso di riferimento, un numero bersaglio, per esempio il 57. Poi vengono proiettati al centro dello schermo di un computer, uno dopo l’altro, dei numeri diversi, per esempio il 35, poi il 61, poi il 24 e così via.
Ogni volta dobbiamo deci­dere il più rapidamente possi­bile, e premere uno di due pulsanti, se il numero appena presentato è più grande o più piccolo del 57. Facilissimo, certo, ma ciò che conta qui è la rapidità delle risposte. 
Rapidità 
Da alcuni anni a questa par­te, a partire dai lavori pionie­ristici del francese Stanislas Dehaene e altri, si è visto che la rapidità della risposta è maggiore se il pulsante da premere quando il numero è più grande del numero bersa­glio viene premuto con la ma­no destra, e invece con la sini­stra l’altro pulsante, se il nu­mero è più piccolo.
La sigla tecnica per questo ormai ben noto effetto è piut­tosto sgraziata, si chiama Snarc, iniziali di Spatial Num­ber Association of the Re­sponse Code. Insieme ad altri dati speri­mentali, si è così dimostrata l’esistenza di una rappresen­tazione mentale dei numeri su una linea che va da sini­stra a destra. Un lavoro as­sai stupefacente su que­sto effetto è stato appe­na pubblicato sulla rivi­sta specializzata Plos One da un’equipe mista di neuropsicologi del­l’Università del Texas a Austin e delle Università di Padova e di Venezia, ca­pitanati da Carlo Semenza. 
Spazio immaginato 
Questo lavoro mostra, in­fatti, che anche i ciechi con­geniti, come i vedenti, han­no una linea numerica men­tale organizzata da sinistra a destra in uno spazio immagi­nato. Tutti la usiamo, senza nemmeno accorgercene, quando si devono fare conti mentali o in compiti numeri­ci molto semplici.
I ciechi la usano però in modo diverso dai vedenti, in modo meno automatico e più controllato. Ovviamente, ai ciechi i numeri venivano pre­sentati acusticamente, e rigo­rosamente ad un solo orec­chio, per esempio all’orec­chio destro i numeri più gran­di del bersaglio e al sinistro i più piccoli, ovvero l’inverso. Essenzialmente, si è visto che i ciechi rispondono più velo­cemente alle cifre piccole se presentate all’orecchio sini­stro e alle cifre grandi se pre­sentate all’orecchio destro.
Chiedo al professor Semen­za di sintetizzare la portata di questo esperimento: «Si di­mostra che anche i ciechi han­no una linea numerica orien­tata nello spazio.
Il fatto che abbiano svilup­pato questa linea in assenza di visione è sorprendente. Possiamo concludere che esi­ste una capacità di rappre­sentazione innata, indi­pendente dal tipo di espe­rienza, per le quantità numeriche».
In altre parole, que­sto dato significa che la natura spaziale della rappresentazione men­tale dei numeri non è, come verrebbe facilmen­te da pensare (e si pensa­va in ambito scientifico) necessariamente attribui­bile all’esperienza visiva con le quantità numeri­che: l’assenza congenita di visione non ha effetti sulla rappresentazione mentale di quantità. Que­sti studiosi non si sono, pe­rò, limitati a registrare solo la rapidità delle risposte, ma hanno esplorato al contempo alcune «firme» ben note delle attività cerebrali, cioè delle speciali onde elettro-encefa­lo- grafiche in tempo reale. 
Lo stimolo 
Il loro dato più originale è, afferma Semenza, che «i cie­chi si orientano su questa li­nea (la 'esplorano' nella men­te) in modo diverso dai ve­denti, cioè meno automatica­mente ». L’effetto Snarc c’è, ed è ugualmente veloce nei due gruppi. Ma i vedenti rea­giscono allo stimolo attivan­do l’attenzione più precoce­mente (è più ampia la cosid­detta onda elettroencefalogra­fica N100, molto precoce) co­me si fa per esplorare automa­ticamente un’immagine sen­soriale appena captata. 
Memoria a breve 
I ciechi invece danno la ri­sposta in modo più «control­lato ». Mettono direttamente in memoria a breve termine (con una maggiore ampiezza della cosiddetta onda P300) lo stimolo, per poi prenderci sopra una decisione. Il che può risultare in un vantag­gio. Infatti si sapeva che i cie­chi mostrano sorprendenti prestazioni nei compiti di sti­ma numerica, ove spesso su­perano i normali. Per esempio nello stimare quante note ci sono in una da­ta sequenza o quanto dura un dato suono. I ciechi potrebbe­ro, quindi, avere un’idea astratta dei numeri migliore, in cui c’è una corrisponden­za, acquisita in modalità di­verse dalla visione, tra la rap­presentazione simbolica dei numeri e le corrispondenti grandezze naturali.

il Riformista 10.10.09
Massimo D'Alema e il futuro di Berlusconi «Dovrebbe dimettersi»
Intervista. «In un paese normale il suo partito lo avrebbe già mandato via. Ma non è l'opposizione che può cambiare il capo del governo. Contro il Colle per fare il padrone».
di Stefano Cappellini


«Eccole le nostre élite, si tengono un premier accusato di gravi reati»
Dice D'Alema: «Scandaloso che certi mezzi di informazione considerino normale la situazione. Il principio di maggioranza non può schiacciare quello di legalità». Sul Governo: «Tremonti è abile, ma sbaglia analisi sulla crisi. Il Cavaliere vive solo sulle emergenze. Non ci fosse Bertolaso, potrebbe fare il capo della Protezione civile». «Io ministro degli Esteri Ue? Ruolo interessante».

«In un paese normale si sarebbe già dimesso, lo avrebbe costretto il suo partito», dice Massimo D'Alema di Silvio Berlusconi. E se il Pd non ne chiede le dimissioni, spiega D'Alema, è perché «non è l'opposizione che può cambiare il capo del governo, e in un momento così delicato la priorità è limitare il danno alle istituzioni». L'ex premier consegna al Riformista la sua preoccupazione per la stagione che si apre dopo la sentenza della Consulta sul lodo Alfano, ma anche il suo ottimismo in vista delle primarie democratiche del 25 ottobre («La credibilità di Bersani è enormemente superiore a quella di Franceschini»), allontanando lo spettro di un ribaltone rispetto al responso dei circoli. «Un ruolo interessante», dice poi D'Alema della nuova figura di "ministro degli Esteri Ue", incarico che secondo molti osservatori sarebbe in cima alle sue ambizioni future.
Onorevole D'Alema, dopo la sentenza della Consulta il paese è di nuovo precipitato in un clima da guerra civile.
Andiamo alla sostanza del problema. Abbiamo un presidente del Consiglio che ha diversi problemi con la giustizia.
Per difendersi, aveva costruito un argine totalmente inappropriato. Siamo però un paese democratico e abbiamo una costituzione che sancisce un principio di eguaglianza tra i cittadini. Questo non significa che non ci possa essere un sistema di garanzie e tutele, ma dal momento in cui le abbiamo abbattute per i parlamentari con la sostanziale abrogazione dell'articolo 68 della Costituzione, diventa molto difficile costruire una tutela ad personam, anche se ingegnosamente estesa alle più alte cariche istituzionali.
Il premier parla di sentenza politica.
Berlusconi non è perseguito per reati politici o perché è un leader politico. Berlusconi era perseguito per reati comuni, semmai la politica gli ha fornito un riparo. Normalmente, in un paese democratico un leader che si trova in questa situazione viene sostituito. Agiscono degli anticorpi naturali. Innanzitutto il suo stesso partito chiede al leader di farsi da parte. Ma in questo caso il partito di Berlusconi, il Pdl, è suo in senso proprietario. Poi c'è la debolezza di tanta parte del sistema di informazione. Sembra che per una parte delle élite del paese e per i grandi giornali che le danno voce sia normale avere un presidente del Consiglio contro il quale vi sono accuse così gravi.
Berlusconi rivendica di essere l'unica carica direttamente investita dal consenso elettorale. Non conta nulla?
Chiariamo prima un punto. Berlusconi non è stato eletto dal popolo. Il nostro è un sistema parlamentare. La maggioranza degli italiani non ha votato per Berlusconi. Inoltre, è la legge elettorale che trasforma una maggioranza relativa in maggioranza assoluta in Parlamento. Infine, l'idea che il principio maggioritario possa schiacciare il principio di legalità è inaccettabile. Vi sono paesi democratici nei quali anche premier che hanno vinto le elezioni hanno dovuto dimettersi per le accuse che rivolgevano loro i magistrati. L'esempio più recente è dell'israeliano Olmert.
Ma se è così convinto che Berlusconi dovrebbe dare le dimissioni, perché lei e il Pd non le chiedete?
Non è l'opposizione che può cambiare il capo del governo. È la maggioranza che dovrebbe farlo.
Si dice che un pezzo di Pdl lavori già da tempo al dopo-Berlusconi.
Sciocchezze. Se il capo dei popolari spagnoli avesse vicende personali del tipo di quelle di Berlusconi e fosse sotto accusa in tribunale il partito gli avrebbe già detto "grazie, ti auguriamo di dimostrare la tua innocenza, ma intanto devi farti da parte". In Italia non accade per i motivi appena detti. L'opposizione può lamentarsene, ma deve tenere conto delle condizioni concrete della lotta politica nel nostro paese. Siamo in un momento estremamente delicato, si rischia di trascinare il paese in un scontro drammatico e dobbiamo avere il buon senso di non contribuire a sfasciare l'edificio comune. Evitare cioè che Berlusconi, in questa confusa fase di crisi anche personale, possa intaccare seriamente l'impianto istituzionale e produrre un danno ancora più grave di quello attuale.
Le dimissioni del premier le chiede invece Di Pietro, che ancora una volta può accreditarsi agli occhi del vostro elettorato come l'unica vera opposizione.
Gran parte del lavoro di Di Pietro consiste nell'usare gli attacchi a Berlusconi con l'obiettivo di togliere voti a noi. Cosa che non ci fa fare un minimo passo avanti nella costruzione di un'alternativa nel paese.
Sorpreso dell'attacco a Napolitano?
Di Berlusconi non stupisce più nulla. Voleva che Napolitano premesse sulla Corte, perché lui è abituato a ragionare così. "I giudici li hai messi tu lì, rispondono a te". In questo lui è sincero. È totalmente estraneo alla cultura delle istituzioni, ha una concezione padronale e le regole della democrazia gli sono estranee. Berlusconi è a-democratico. Continuo a pensare che non sa governare.
Gli italiani non la pensano così.
Berlusconi è un fenomeno complesso, che ha un rapporto profondo con una parte del paese, ma ha costruito la finzione di un governo efficiente sulla gestione delle emergenze, con risultati anche positivi. Senza esagerare, perché a Napoli, per esempio, il problema dei rifiuti non è stato affatto risolto. Ha aperto due discariche con l'aiuto dell'esercito, ma non essendo intervenuto sul ciclo dei rifiuti, questi cominciano a tornare nelle strade, con la differenza che ora non ne scrive più nessuno. Berlusconi non affronta i problemi del paese. Non ci fosse Bertolaso, sarebbe tutt'al più un ottimo capo della Protezione civile.
Che scenario si apre ora con un premier costretto a destreggiarsi tra Palazzo Chigi e le aule di tribunale?
Siccome il premier non mi pare in grado di dimostrare l'infondatezza delle accuse, lui e i suoi avvocati cercheranno di evitare i processi con trucchi ordinari al posto del super-trucco del lodo Alfano. Naturalmente dobbiamo sapere che questo comporterà un prezzo molto alto per il nostro paese.
Berlusconi lamenta una persecuzione giudiziaria. Il numero delle inchieste e dei processi a suo carico appare in effetti sproporzionato rispetto alla media a carico del resto del mondo politico e dell'imprenditoria.
La tesi della persecuzione giudiziaria non ha alcun fondamento serio. La correttezza di chi è a capo del governo suscita naturalmente una maggiore attenzione. Casomai il problema riguarda in generale i politici. Anche in Tangentopoli i politici furono maltrattati mentre alcuni imprenditori vennero trattati coi guanti bianchi.
Adesso molti elettori del centrosinistra saranno tentati di resuscitare la tesi della via giudiziaria al dopo-Berlusconi. I giudici, in fondo, riescono laddove la sinistra fallisce.
C'è ancora chi pensa che Berlusconi sta lì perché i magistrati non l'hanno preso o perché non s'è fatta la leggina sul conflitto di interessi…
"Non la facciamo così lo teniamo al guinzaglio", è la frase che le viene attribuita ai tempi della Bicamerale…
È sconcertante che si possano dire bugie così clamorose. Cercare i traditori nel proprio campo è stata, a sinistra, una tragedia che oggi si ripete come farsa. Io ho provato a fare la legge sul conflitto di interessi. Vorrei ricordare che fu proprio in Bicamerale che venne approvata, e nella forma più severa, introducendo in Costituzione il principio di incompatibilità e affidando alla Consulta il compito di vigilare.
Con le chance che ha oggi la sinistra di tornare al governo quella legge non la vedremo mai.
Nulla è scritto nel libro del destino e non vedo questa sconfitta di lunga durata. La nostra via passa dal tornare a convincere la maggioranza degli italiani. Il punto di forza di Berlusconi, anche in quella parte di opinione pubblica che sulla sua presenza a Palazzo Chigi comincia a fare seriamente un calcolo del rapporto costi/benefici, è la mancanza di una forza d'alternativa credibile.
Vi siete attardati a parlare di Noemi e del sexgate molto più che incalzare il governo sulle sue lacune.
Il problema è che se si dice una mezza parola sulla D'Addario si va sui giornali. Se si parla dei problemi del paese, molto molto meno. È il filtro dell'informazione che è deformato.
Tremonti vanta di aver tenuto l'Italia al riparo dalla grande crisi economica.
Tremonti è abile e intelligente. Ma è la sua filosofia che non condivido, quella secondo cui il modello Italia, basato sulla piccola impresa e il nord industriale, è fortissimo e quindi non dobbiamo fare niente, o comunque il meno possibile, perché quando ripartirà il mercato mondiale ripartiremo anche noi, che siamo i più bravi e i più creativi. Non sottovaluto la forza di questo modello, ma comincia a essere affaticato e impaurito. E già il fatto che riguardi solo metà del paese è preoccupante. Si è spezzato il nesso duale tra sviluppo del Mezzogiorno e sviluppo dell'intero paese. E comunque Tremonti dimentica quanto decisivo sia stato il contributo del sud, che non sconta alcuna inferiorità antropologica, per la creazione del cosiddetto modello padano. In più, Tremonti non coglie la crisi come un'occasione. Tra qualche anno faremo i conti con le non scelte di questi giorni. La verità è che oggi quando le cose nel mondo vanno bene da noi vanno meno bene, e quando vanno male da noi vanno peggio.
Tremonti è candidato alla presidenza dell'Eurogruppo. Si augura che raggiunga l'obiettivo?
Sì. Mi fa un po' sorridere che di tutti i gruppi possibili possa andare a presiedere uno che si chiama Euro. Non posso dimenticare che quando votammo la finanziaria dell'euro il centrodestra abbandonò il Parlamento. Fu un atto gravissimo. Diciamo che Tremonti e altri hanno cambiato pelle ma senza fare una seria riflessione su ciò che hanno detto e fatto in passato.
La candidatura Tremonti potrebbe affossare le chance di Draghi di andare a guidare la Bce.
Le dinamiche attraverso le quali si decidono queste nomine sono molto complesse. Ho gestito quella di Prodi alla Commissione e so come funziona. Ci vorrebbe un lavoro di regia del capo del governo. Il dibattito pubblico non aiuta.
Si dice che la sua ambizione sia diventare "ministro degli Esteri dell'Ue", la nuova figura introdotta dal trattato di Lisbona.
Un ruolo interessante, perché unendo le funzioni di Alto rappresentante con quello di commissario alle relazioni esterne e di vicepresidente della Commissione, rappresenta l'unica figura a cavallo tra Commissione e Consiglio e incarna questa idea dell'Europa globale. L'Unione del futuro sarà spinta dalle grandi sfide internazionali: o compie ulteriori passi decisivi per rafforzare il suo ruolo nel mondo e parlare con una sola voce oppure i singoli paesi europei non potranno sedersi al tavolo dei nuovi Grandi.
Tornando in Italia, il congresso del Pd non è stato un dibattito di alto profilo. Un'occasione persa?
La drammatizzazione del congresso, questa idea che Bersani rappresenta un ritorno all'indietro, è inaccettabile. Se c'è stato nell'esperienza del centrosinistra uno che ha varato riforme liberali, oltre l'orizzonte socialdemocratico, è Bersani. La sua credibilità, in generale e come riformatore, è incommensurabile rispetto a quella di Franceschini.
Franceschini si dice convinto che alle primarie ribalterà il responso dei circoli?
L'unico rischio che corre Bersani è che alle primarie voti un campione non rappresentativo del nostro elettorato. Altrimenti l'esito è chiaro. Casomai, è Marino che può raccogliere qualche voto in più alle primarie. Marino porta nel congresso del Pd persone che forse non ci sarebbero state e appare una scelta radicalmente innovativa.
Ma se invece Franceschini dovesse farcela? Cosa racconterete agli iscritti che vedranno sconfessata la loro scelta?
Sarebbe uno scenario paradossale. Le regole sono queste. Certamente i dirigenti le rispetteranno. Gli iscritti non so. Ma adesso l'importante è che si impegnino a essere protagonisti anche alle primarie.
Si parla molto, non solo a proposito di Rutelli, di scissione del Pd verso il centro.
Che in Italia possa nascere un Grande Centro non mi pare credibile. Andiamo verso un sistema alla tedesca - che non esclude la presenza di forze intermedie tra i due maggiori partiti, ma certo non dominanti - e dobbiamo darci le regole per arrivare a questo risultato, a cominciare dal sistema elettorale. Moderato pluripartitismo, uno sbarramento serio per disincentivare la frammentazione, un ragionevole sistema di alleanze. Era quello che si doveva fare nella legislatura scorsa per frenare la deriva plebiscitaria di cui ora misuriamo tutti i danni.
E se Montezemolo scende in campo?
Un partito di Montezemolo mi pare credibile tanto quanto il Grande Centro. Invece la sua fondazione, che dà un contributo di idee e proposte al paese, è un fatto positivo.
La nascita di Pd e Pdl doveva chiudere la lunga transizione italiana. Scommetterebbe sul fatto che esisteranno ancora tra cinque anni?
La nascita di Pd e Pdl non era un approdo, doveva essere l'inizio di un cammino. Sbagliata era l'idea di un bipartitismo che si impone per legge anziché per la cultura, l'organizzazione e le classi dirigenti che un partito riesce a darsi. L'unico punto di sintesi del Pdl è Berlusconi. Fini propone un'altra idea di partito ma, anche se gode di un ampio prestigio nell'opinione pubblica, sembra abbastanza emarginato nel Pdl. Essendo nato con l'impronta incancellabile di Berlusconi, il Pdl andrebbe rifondato perché sia qualcosa di diverso. Quanto al Pd, è nato su basi fragili, come partito del leader. Una imitazione in tono minore del modello avverso, che non ha funzionato.

Liberazione 9.10.09
«La politica non risolve la povertà perché schiava dell'ideologia»
Intervista a sabino Acquaviva, sociologo di Laura Eduati


Tre milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà alimentare, ovvero non dispongono di soldi sufficienti per comperare cibo sano. Oltre l'80% sono operai, prevalentemente disoccupati, o anche persone con un lavoro che però non frutta abbastanza: i cosiddetti working poors . Uno scenario, questo, difficile da accettare in un paese industrializzato come l'Italia. Per Sabino Acquaviva, illustre sociologo, «gli emarginati sono sempre esistiti e semmai bisognerebbe chiedersi perché gli immigrati stanno meglio degli italiani poveri».

Trova?
Constato che cinquant'anni di sviluppo non sono riusciti a eliminare la povertà e questo perché la politica produce molte chiacchiere e non risolve i problemi tecnici. Questo era vero ai tempi della Democrazia Cristiana ed è vero oggi, nonostante il progresso scientifico e tecnologico. Un tempo la fame spingeva a emigrare, ora non è così. Anzi, abbiamo accolto quattro milioni di immigrati che si sono integrati benissimo e questo dimostra che la società poteva assorbirli.

Perché pensa che gli italiani stiano peggio?
Bisognerebbe vedere dove si concentrano maggiormente le persone povere. Nel Triveneto gli immigrati sono riusciti a trovare un posto nella società, i loro figli vanno a scuola, il tasso di disoccupazione è molto basso. Penso che gli stranieri riescano meglio nella autotutela, si aggregano in gruppi etnici, li protegge una rete di solidarietà.

La politica non risolve la povertà, ma perché chi sta male non cerca di cambiare le cose? I sondaggi dicono che Berlusconi vincerebbe le elezioni se si tornasse a votare, nonostante tutto, e per la sinistra questo risulta incomprensibile.
La gente vive in una società tecnico-scientifica molto avanzata dove i problemi vengono vissuti come molto concreti: il traffico, la sicurezza. La vecchia distinzione tra destra e sinistra ha smesso di funzionare, la classe operaia non esiste più e nemmeno esiste il rapporto tra borghesia e proletariato, il livello di istruzione è cambiato. Ebbene, la politica continua ad utilizzare gli stessi linguaggi che usava cinquant'anni fa, senza capire che viene percepita come una unica classe indistinta, una casta privilegiata e spendacciona. Il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo non ha fatto altro che codificare questo sentire profondo.

Non ha nemmeno senso mobilitarsi contro la cosiddetta casta?
Per molti non ha senso perché pensano che non cambierebbe nulla, e dunque ognuno fa la sua battaglia personale. Un tempo i poveri votavano per la sinistra, oggi dobbiamo cambiare logica altrimenti produciamo soltanto chiacchiere. Quando è caduta l'Unione sovietica mi chiedevano: cosa succederà alla sinistra? Oggi risponderei: sono cambiate più cose in questi ultimi dieci anni che negli ultimi mille. Il problema è che la politica non se ne accorge.

Cosa dovrebbero fare i politici per uscire dall'autoinganno?
Progettare la felicità. Lo spiego nel mio ultimo libro, La fine di un mito. Destra, sinistra e nuova civiltà (Marsilio): dobbiamo rivolgerci al design, all'urbanistica, alla ricerca scientifica, alla scienza dell'alimentazione per risolvere i problemi degli esseri umani. La fine del mito è la fine delle ideologie. Togliatti e De Gasperi erano avversari chiari e soprattutto seri. Oggi non esiste questo tipo di contrapposizione, le cose sono mescolate. Bisognerebbe sostituire le ideologie con il codice genetico dove sono scritte le nostre reali necessità, da quelle elementari come il cibo a quelle complesse come dare un senso alla nostra vita. La giustizia è la realizzazione del destino della nostra specie, e il destino è il nostro Dna.

Sembra uno scenario utopico.
Non è così. La nuova civiltà è qui. Viviamo immersi nella tecnologia eppure i nostri politici sono rimasti indietro: a questo punto lasciamoli amministrare l'esistente e affidiamo la visione del nostro futuro agli specialisti, ai tecnici, agli antropologi, agli architetti.

La politica dunque può salvarsi soltanto se legata alla scienza e alla tecnica? Deve prima di tutto, per esempio, costruire alloggi eco-compatibili e dare sostegno ai disoccupati, educare alla buona alimentazione e fornire spazi urbani immersi nel verde?
Certamente. Le ideologie vanno messe in soffitta, hanno causato milioni di morti.

l’Unità 10.10.09
Festival dei matti tra arte, filosofia e letteratura

Se non son matti non li vogliamo. Potrebbe essere questo, per riprendere il titolo di un vecchio film, lo slogan del «Festival del matti» (www.festivaldeimatti.org), che si apre oggi a Venezia, dove si svolgerà fino a sabato. Un appuntamento tutto dedicato alla follia, tra arte, letteratura, filosofia e psichiatria, sulle orme del pensiero del grande Franco Basaglia. L’idea centrale del festival è quella di promuovere la costruzione di un contesto culturale in cui i diversi linguaggi si misurino con l’esperienza della follia, per smontare vecchi tabù e nuove diffidenze. Il risvolto sociale dell’operazione è anche quello di offrire ai pazienti psichiatrici un’opportunità di formazione e di lavoro. Il celebre spettacolo teatrale Stravaganza – che racconta il ritorno a casa di alcuni pazienti in seguito all’entrata in vigore della legge 180, cioè la legge Basaglia, il 31 dicembre 1978 – verrà per la prima volta interamente diretto e interpretato da ex pazienti psichiatrici. Tra gli ospiti del festival, Umberto Galimberti, lo psicologo e autore teatrale Massimo Cirri, lo psichiatra Franco Rotelli, Alice Banfi e Dacia Maraini. R.CAR.

venerdì 9 ottobre 2009

l’Unità 9.10.09
Mille pullman in giro per l’Italia. A Milano l’appuntamento principale
Rinaldini: «È la più grande manifestazione operaia in Europa»
Contro l’accordo separato la Fiom scende in piazza
di Giuseppe Vespo


Epifani «Non firmerei mai un accordo sulle tute blu senza la Fiom»

Sciopero generale e manifestazioni in cinque piazze d’Italia. Da Milano a Palermo, la Fiom chiama a raccolta i lavoratori contro l’accordo separato per il rinnovo del contratto, la crisi e l’occupazione.
Per i lavoro, il contratto e la democrazia, oggi scendono in piazza le tute blu della Cgil. In cinque grandi città si riuniranno i lavoratori che aderiscono allo sciopero generale indetto dalla Fiom. Negli auspici del segretario del sindacato, Gianni Rinaldini, assisteremo alla «più grande manifestazione operaia che l’Europa ricordi negli ultimi anni».
MILLE PULLMAN
Mille pullman in giro per l’Italia. A Palermo con i lavoratori siciliani, a Napoli con quelli di Campania, Puglia, Basilicata e Calabria; a Roma arriveranno da tutto il Lazio, l’Abruzzo, il Molise e la Sardegna; a Firenze andranno i toscani, gli
emiliani gli umbri e i marchigiani. A Milano, il Nord: Lombardia, Piemonte, Valle D’Aosta, Trentino, Liguria, Veneto e Friuli. Nel capoluogo lombardo sono attese più di cinquantamila persone, che alle 9,30 si sposteranno da porta Venezia in piazza del Duomo dove è previsto l’intervento di Rinaldini.
Ieri il sindacalista è stato in giro per le fabbriche in crisi della regione e ha riassunto così i motivi dello sciopero: «Ho passato la giornata facendo riunioni nelle fabbriche presidiate dagli operai. Alcuni di questi sono senza stipendio da molti mesi ma ancora c’è chi dice la cassa integrazione arriva subito. Il Paese soffre un’emergenza sociale vera, per questo chiediamo di bloccare immediatamente i licenziamenti e di estendere gli ammortizzatori sociali». E poi c’è il contratto.
ACCORDO SEPARATO
La Fiom va in piazza contro l’accordo separato. Martedì e mercoledì riprenderà il tavolo tra Fim-Cisl, Uilm-Uil e Federmeccanica. «Noi chiediamo che le trattative vengano sospese», riprende Rinaldini, per il quale sarebbe giusto sottoporre le diverse piattaforme ad un referendum tra i lavoratori. Di diverso avviso il ministro Sacconi, secondo cui il rinnovo del contratto «è un negoziato tra le parti, che spero si concluda presto». Ieri sul tema è intervenuto anche il leader della Cgil, Guglielmo Epifani. «Io ha detto non firmerei mai un accordo dei metalmeccanici senza la più grande rappresentanza sindacale di quel settore». La Fiom. In diverse città insieme agli operai manifesteranno anche gli studenti. Sono previsti cinquanta cortei organizzati dall’Unione degli studenti (uds). dalla Rete degli studenti medi e dall'Unione degli universitari.❖

Liberazione 9.10.09

Contratto, sciopero Fiom del 9 ottobre: «Stop alla trattativa e referendum» Metalmeccanici in piazza per la democrazia
di Fabio Sebastiani



«Sospensione della trattativa e referendum subito». Tutto si può dire della contromossa della Fiom, che il 9 ottobre si appresta a scendere in piazza in segno di protesta contro l'accordo separato di categoria, fuorché manchi di chiarezza e determinazione. L'obiettivo è demolire il vulnus dell'azione di Federmeccanica, da una parte, e di Fim e Uilm dall'altra: l'attacco alla democrazia. «Noi proponiamo di sospendere la trattativa, di definire un regolamento democratico che garantisca tutti e di andare al referendum delle lavoratrici e dei lavoratori metalmeccanici sulle due piattaforme», sostiene Gianni Rinaldini nel corso della conferenza stampa convocata nella sede nazionale di Corso Trieste a Roma per presentare i cinque cortei di venerdì prossimo. «Sono i lavoratori che devono decidere sul contratto - aggiunge -. Se siamo in minoranza, prendiamo atto della volontà dei lavoratori e ci risediamo al tavolo. Ci aspettiamo che anche gli altri facciano altrettanto». Fim e Uilm, organizzazioni sindacali minoritarie, prima ancora di essere "selezionate" da Federmeccanica per sedere al tavolo del rinnovo del contratto nazionale, hanno infatti disdettato «senza mandato e senza chiederlo» un contratto nazionale «approvato con referendum vigente sino alla fine del 2011». Lo hanno fatto in nome dell'accordo separato firmato da Cisl e Uil, di cui sono pronti a recepire le regole, e senza tener minimamente conto della proposta della Fiom di unificare le due piattaforme, che valgono rispettivamente 113 euro e 130 euro. A Federmeccanica è bastato il tempo di uno starnuto per estromettere la Fiom, che pretendeva di rinnovare il contratto stando nel segno precedente modello concertativo, e portare avanti la trattativa con Giuseppe Farina (Cisl) e Tonino Regazzi (Uilm). 
Come accade sempre quando di mezzo c'è la Fiom, la questione è eminentemente politica. Si tratta di sperimentare sulla pelle dei metalmeccanici le conseguenze nefaste dell'accordo separato da Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. La Fiom è pronta a dare battaglia. «Se cambiano la parte normativa andremo per vie legali», dice chiaramente Rinaldini. 
Per il segretario nazionale della Fiom, la protesta di venerdì «si configura come la manifestazione operaia più grossa che si sia svolta, in questa fase, in tutta Europa». Un orgoglio del tutto giustificato, visto che la piattaforma delle tute blu della Cgil prevede non solo una richiesta di aumento di 130 euro, ma anche un confronto a tutto campo sulla politica economica e sulla crisi. Non solo, il corteo di Roma finirà il suo percorso sotto la Rai. L'obiettivo è di porre al centro dell'iniziativa il tema del rapporto tra mondo del lavoro e dell'informazione. «La Fiom ha infatti anche chiesto, con una lettera inviata al presidente e al direttore generale della Rai, un incontro con una delegazione sindacale «per sottolineare - ricorda Rinaldini - come il conflitto sociale sia in gran parte oscurato e si dia una rappresentazione della realtà diversa da quella che quotidianamente abbiamo di fronte» con «gli stabilimenti presidiati in ogni città». Scioperare, ha ammesso il leader della Fiom, «significa chiedere un doppio sacrificio ai lavoratori», ma «è lo strumento necessario» perchè «piegare la testa significa solo far passare il disegno di Federmeccanica e del governo».
Infine, la risposta al veleno da parte della Uilm. «Altro che fermarsi! Mi permetto di consigliare la Fiom di mettersi al passo con gli altri, dato che finora si è attardata troppo. Mentre la Uilm, insieme alla Fim, sta facendo un buon contratto per i lavoratori, la Fiom fa uno sciopero contro di noi», ha scritto in una nota il segretario della Uilm Tonino Regazzi. «Continuo a non capire le finalità dello sciopero del 9 ottobre e quale sia la piattaforma contrattuale della Fiom», ha detto il segretario generale Giuseppe Farina.« Ho la preoccupazione che il vero obiettivo sia di impedire un rinnovo del contratto che porterà benefici ai lavoratori».
Il 9 ottobre sarà giornata di mobilitazione anche per gli studenti, che hanno organizzato decine di cortei in quindici regioni italiane. E ovviamente saranno a fianco delle tute blu. Ieri alla conferenza stampa in Corso Trieste era presente anche il coordinatore dell'Unione degli studenti.


l’Unità 9.10.09
Intervista a Giorgio Bocca
«Ci siamo liberati del fascismo, ci salveremo anche dal berlusconismo»
La reazione del premier? «Un padre padrone che disprezza le istituzioni e distrugge la democrazia ma quello che allarma è il male profondo di un paese così privo di dignità da accettare la guida di un uomo corrotto»
di Oreste Pivetta


I processi del premier «I suoi avvocati troveranno mille cavilli per ottenere la prescrizione. È un piccolo dittatore vestito di nero»

Spero nel miracolo» risponde Giorgio Bocca a un amico partigiano, che gli chiede un confronto tra ieri e oggi, tra i vent'anni di Mussolini e i quindici di Silvio. Cioè: ci siamo liberati del fascismo, ci salveremo anche dal berlusconismo. E poi spiega: "Il popolo italiano ha già dimostrato altre volte una forza straordinaria e insperata... ". Prima di tutto dovrebbe rendersi conto del precipizio morale, della corruzione, della devastazione culturale. Più che Berlusconi c'è a spaventare l'esito diffuso della sua politica e della sua cultura. Parlano le immagini: "Basta guardare una fotografia: lui, il piccolo dittatore, vestito di nero, sempre circondato da cinque o sei energumeni vestiti di nero”.
Giorgio Bocca, partigiano e giornalista, a che punto siamo dopo la bocciatura del lodo Alfano? Che succederà? «Berlusconi rimarrà al governo, i suoi avvocati inventeranno mille cavilli perchè i suoi processi cadano in prescrizione e se anche Berlusconi dovesse cadere resterà il berlusconismo, il male profondo di un paese che ha così poca dignità d'accettare la guida di un uomo corrotto che sta distruggendo la democrazia...».
Come scrive Saramago nel suo «Quaderno» censurato dalla Einaudi e pubblicato dalla Bollati Boringhieri: «Nel caso concreto del popolo italiano... è dimostrato come l'inclinazione sentimentale che prova per Berlusconi, tre volte manifestata, sia indifferente a qualsiasi considerazione di ordine morale». Preciso, no?
«Che gli italiani, figli di un fascismo mai completamente estirpato, siano corrotti lo si vede: quanta mafia, quanta camorra, quante tangentopoli, quanto fisco evaso. Berlusconi ha avuto modo di dare una patente alla corruzione: con lui, sul suo esempio, non s'è più sentito il bisogno di celare, nascondere. Si può fare tutto alla luce del sole. Sentire quelli che si vantano perchè non pagano le tasse... Che cosa gliene importa della democrazia?».
La malattia è profonda. Tanto più difficile rimediare. «Certo. Davvero occorre darsi tempo e sperare nel miracolo, appunto, o in quelle scosse profonde nella coscienza, cui abbiamo talvolta assistito».
Ti è già capitato di vivere momenti come questi? «Da giovane ho conosciuto il fascismo e la privazione di tutti i diritti».
Berlusconi vanta i suoi sondaggi e il suo sessanta, settanta, ottanta per cento di preferenze tra gli elettori... «Anche Mussolini vantava un grande seguito popolare. Era un padre padrone, proprio come s’atteggia Berlusconi. Mussolini andava a mietere il grano, si mostrava a torso nudo e incantava le folle. Berlusconi va in televisione e inaugura le casette. Hitler era un mostro. Loro li definirei dittatori morbidi». Come giudichi, a proposito, le reazioni di Berlusconi?
«Privo di qualsiasi bussola politica. Come si fa a gridare che Napolitano è di sinistra, che Napolitano avrebbe dovuto pesare sulla Corte? Come si fa a dire che la Consulta è di sinistra? Una follia. Non è solo questione di rispetto di una sentenza, è anche mancanza di senso della realtà: ma li conosce i giudici della Consulta, che in maggioranza se mai sono di destra per formazione, cultura, età...».
E il presidente Napolitano?
«Cauto come sempre. Prudente. Vuol fare il Presidente. Di fronte alle nefandezze di Berlusconi avrei preferito sentire parole più forti. A un certo punto viene il momento di dire basta».
Oltre i giudici chi e che cosa dovrebbe temere di più Berlusconi? Fini?
«Ma intanto deve temere quanti nel suo stesso schieramento si sono convinti che un individuo simile è pericoloso anche per la destra. Si è capito poi che Berlusconi non incanta più gli industriali, che preferirebbero un Tremonti».
E la Chiesa, dopo gli scandali con le escort? «La Chiesa lo tiene in piedi, perché sa di poterlo ricattare, sa di poter pretendere da lui in cambio soldi e leggi».
Non dimentichiamo la sinistra...
«Pelandrona e inconcludente. Di fronte a quanto sta avvenendo non ci si può limitare a dire che Berlusconi deve continuare a governare».
Per fortuna, stiamo in Europa.
«L’Europa è una garanzia. Non può consentire che nel suo cuore a un certo punto spunti un regime con i connotati del fascismo. Ma quello è pure capace di trascinarci fuori dall’Europa. Le tenterà tutte».❖

l’Unità 9.10.09
Nel Pd cresce l’allarme, il leader: «Pronti a chiamare il nostro popolo»
di Andrea Carugati


Nel Pd cresce l’allerta dopo gli attacchi scomposti del premier a Consulta e Quirinale. Franceschini: «Pronti a una risposta di popolo». Tensioni con Di Pietro che attacca ancora Napolitano e convoca una «piazza Navona 2».

«Non consentiremo al premier attacchi eversivi contro il Quirinale e la Corte Costituzionale», annuncia di primo mattino Anna Finocchiaro. Lo sfogo rabbioso (e inedito nella storia repubblicana) di Berlusconi a Porta Porta contro Colle e Consulta fa scattare l’allarme nel Pd. Che si trova suo malgrado coinvolto in uno scontro istituzionale che non ha cercato. I democratici mercoledì avevano trovato una linea comune: evitiamo di
trarre conseguenze politiche dalla sentenza. Ma l’escalation distruttiva di Berlusconi, ancora una volta, li costringe a reagire, a buttarsi loro malgrado in una mischia dove l’unico a sguazzare come un pesce è Antonio Di Pietro, che indice una «piazza Navona 2» per «chiedere il ritorno alle urne», attacca il Pd («Fanno i pesci in barile, chiedono addirittura di lasciare lavorare il premier») e torna a criticare duramente il Capo dello stato: «Grazie anche al fatto che Napolitano ha promulgato il lodo, il processo contro Berlusconi deve ricominciare da capo, e finirà in prescrizione». «Di Pietro è politicamente suicida», gli risponde Franceschini. «Attacchi ignobili come quelli di Berlusconi», taglia corto il dalemiano Latorre.
NEL PD CRESCE L’ALLERTA
Ma tra i democratici cresce l’allerta per la deriva berlusconiana. Tanto che Franceschini, dopo un’intervista abbastanza soft su Repubblica, ieri ha alzato decisamente i toni, invitando il partito a «evitare errori di sottovalutazione» e annunciando che il Pd è pronto a «chiamare il suo popolo a una reazione per difendere la Costituzione». Franceschini, per ora, non propone alcuna manifestazione, ma «siamo pronti», ha spiegato il segretario Pd, che punta su una partecipazione ancora più vasta alle primarie del 25 ottobre anche come risposta al premier. «In tv ha detto una serie di farneticazioni inqualificabili. Ma sappia che non ci fanno nessuna paura il suo potere, i suoi soldi, le sue minacce. La smetta si insultare in modo vergognoso il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale e si rassegni all’idea che vincere le elezioni non significa stare sopra la Costituzione, le regole e gli organi di garanzia». Anche Pierluigi Bersani alza la voce: «Berlusconi sta dando picconate ai muri portanti della casa comune. Bisogna richiamare tutti, l’opinione pubblica, ad un presidio fondamentale della nostra Costituzione. Siamo in mezzo ad una questione democratica acuta». D’Alema si chiama fuori da un commento su Berlusconi che chiede rispetto per sé in quanto «eletto dal popolo»: «Ci vorrebbe un costituzionalista, non entro in questo dibattito». La linea dei dalemiani resta la stessa, la ribadisce Latorre: «Politicamente con la sentenza non cambia niente, Berlusconi è legittimato a governare».
Mentre Casini invita il premier a «recuperare la calma e lavorare per il Paese», da sinistra arrivano inviti al Pd ad andare in piazza. «Berlusconi e Alfano si dimettano», dice il leader di Sinistra e libertà Nichi Vendola. Mussi e Fava chiedono «una manifestazione unitaria di tutte le opposizioni». E Paolo Ferrero, dopo un breve colloquio con il leader Pd, dice: «Siamo preoccupati per i toni da golpe di Berlusconi».❖

l’Unità 9.10.09
Il bambino malato
risponde Luigi Cancrini, psichiatra


Leggo sui siti che le persone che contestano Berlusconi o i suoi ministri dicendo anche frasi più o meno pesanti («Buffone, Ladro, A casa, Dimettiti...») vengono identificate e portate in questura per la denuncia. Perche? Non assomiglia tanto ai regimi attuali tipo Iran o passati alla Benito?
Emanuele

Ha dato pubblicamente dei “farabutti” a tutti quelli che lo criticano. Ha offeso pubblicamente, trattandoli da “coglioni”, quelli che non lo votano. Ha parlato pubblicamente dei giudici che si sono occupati dei suoi affari come di toghe rosse che portano avanti un complotto o delle “farse”. Furibondo, offende ora pubblicamente i giudici delle Corte Costituzionale e il Presidente della Repubblica. Perché? Perché il bambino che sta dentro di lui si sente braccato, ferito, umiliato da tutti quelli che non si accorgono di quanto lui è bravo, generoso, disinteressato e il suo essere fuori di sé dipende da questo, dal dolore del bambino viziato e infelice cui si nega qualcosa. Non lo hanno capito i cattivi che gli hanno detto di tornare a casa l’altra sera ma l’hanno capito, da bravi psicologi, i poliziotti che li hanno identificati e denunciati. Non ci si comporta così, infatti, con un bambino che, urlando, piange. Stargli vicino si dovrebbe e consolarlo. Come già fanno tutti quelli che come un bambino lo trattano tutti i giorni. Dandogli ragione e distraendolo con i giochini che gli piacciono di più.

Repubblica 9.10.09
La notte della repubblica
di Massimo Giannini


Sappiamo bene che la notte della Repubblica berlusconiana è appena agli inizi. E sappiamo altrettanto bene che, con il Cavaliere, a scommettere sul peggio non si sbaglia mai. Ma vorremmo rassicurare il presidente del Consiglio: non c´è bisogno di aspettare il prossimo strappo costituzionale, o la prossima intemperanza verbale, per vedere «di che pasta è fatto», come minaccia lui stesso. L´avevamo capito da un pezzo.
Abbiamo avuto una prima conferma due sere fa, subito dopo la sentenza che ha bocciato il Lodo Alfano, con le accuse infamanti contro Giorgio Napolitano. Poi una seconda conferma ieri sera, con il farneticante documento del Pdl che rilancia le accuse incongruenti contro la Consulta. A lasciare basiti non è solo la violenza politicamente distruttiva degli attacchi contro tutti gli organi di garanzia: presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, giudici ordinari. Ma è anche e soprattutto la valenza tecnicamente "eversiva" del ragionamento con il quale il premier (purtroppo sempre insieme ai docili maggiorenti del suo partito) sta delegittimando, in un colpo solo, le tre più alte magistrature della Repubblica. Di fronte a tanta irresponsabilità, conforta il comunicato col quale i presidenti di Camera e Senato hanno fatto quadrato intorno al Quirinale. Ma questo atto dovuto (voluto fermamente da Fini e a quanto si racconta subito passivamente da Schifani) non basta a ridimensionare la portata di uno scontro istituzionale inaudito e pericoloso.
Le parole che Berlusconi ha pronunciato l´altro ieri, prima in strada poi in diretta televisiva, andranno studiate a fondo. Servono a comprendere la vera essenza del moderno populismo plebiscitario che, in nome di un suffragio universale trasformato in ordalia personale, snatura lo Stato di diritto perché uccide, allo stesso tempo, sia lo Stato che il diritto. La prima affermazione del Cavaliere è la solita invettiva anti-comunista. «Napolitano, voi sapete da che parte sta... Poi abbiamo giudici della Corte costituzionale eletti da tre Capi di Stato della sinistra che fanno della Corte non un organo di garanzia ma un organo politico». Ma quando, poco più tardi, il presidente della Repubblica replica che lui «sta dalla parte della Costituzione», scatta l´escalation del premier: «Non mi interessa quello che dice Napolitano. Io mi sento preso in giro e non mi interessa, chiuso».
Quel «preso in giro» non può passare inascoltato. Infatti più tardi (nel confortevole salotto di Porta a Porta, dove il beato cerimoniere Bruno Vespa non si degna neanche di difendere Rosy Bindi dagli insulti da trivio del premier e di un inqualificabile Castelli) il Cavaliere rincara la dose dei veleni. «Su Napolitano ho detto quello che penso: non ho nulla da modificare sulle mie dichiarazioni che potrebbero essere anche più esplicite e più dirette». Un´allusione tanto vaga quanto pesante. E poi: «Il presidente della Repubblica aveva garantito con la sua firma che la legge sarebbe stata approvata dalla Consulta, posta la sua nota influenza sui giudici di sinistra della Corte». Vespa, ossequioso, tace. Parla il leader dell´Udc Casini, per fortuna: «È un´accusa inaccettabile nei riguardi di Napolitano». Ma il premier non arretra. Anzi, porta il colpo finale: «Non accuso il capo dello Stato, prendo atto di una situazione in cui c´erano certi suoi comportamenti e sappiamo tutti quali relazioni intercorrano tra i capi dello Stato e i membri della Consulta. Sono da anni in politica, so quali siano i rapporti che intercorrono».
Con questa micidiale miscela di allusioni e intimidazioni (indegnamente condita dalla ridicola accusa del Pdl alla Consulta per aver «sviato l´azione legislativa del Parlamento») si celebra la negazione della democrazia liberale. Non si scherza sulla pelle delle istituzioni repubblicane. Se Berlusconi è a conoscenza di trattative politiche avvenute sottobanco tra i palazzi del potere intorno al Lodo Alfano, ha il dovere di denunciarle con chiarezza, raccontando fatti e facendo nomi e cognomi davanti al Parlamento e al Paese. Ma poiché, con tutta evidenza, non ha in mano nulla se non il suo disperato furore ideologico, allora ha il dovere di tacere, e soprattutto di chiedere scusa. Ma non lo farà. Le sue parole dissennate tradiscono la sua visione "originale" e del tutto illiberale del costituzionalismo democratico.
Nello schema del Cavaliere, Napolitano (o perché aveva promulgato a suo tempo lo scudo salva-processi per il premier o perché gli aveva «promesso» riservatamente non si sa cosa) avrebbe dovuto fare ciò che la Costituzione gli vieta: interferire nella decisione dei giudici della Consulta, convincendoli a dare via libera al Lodo Alfano. Avrebbe dovuto, lui sì, chiedere ai giudici una «sentenza politica», che violasse apertamente la legge con l´unico obiettivo di proteggere il «sereno svolgimento» della legislatura. In questa logica, aberrante, non esiste la «leale collaborazione» tra istituzioni, ma il banale "collaborazionismo" tra complici. Non esistono il "nomos", le regole, la divisione dei poteri e il "check and balance". Esistono l´anomia, l´arbitrio, la potestà illimitata del leader consacrato per sempre dall´investitura popolare. Non esistono organi di garanzia sovrani e indipendenti, che decidono autonomamente, ciascuno nel proprio ambito e secondo i principi sanciti dalla Carta fondamentale. Esistono solo semplici emanazioni del potere esecutivo, che condiziona le altre istituzioni e comanda, in un meccanismo di pura cinghia di trasmissione, il legislativo e il giudiziario.
Quali altre estreme forzature del quadro politico-istituzionale dobbiamo attenderci, nei prossimi giorni e nei prossimi mesi? Quale piano inclinato sta prendendo, questa anomala democrazia italiana dove l´"autoritas" del Principe rivendica il primato indiscusso sulla "potestas" delle istituzioni? Già si evocano nuove riforme della giustizia da usare come una clava contro i magistrati, e magari come ennesimo trucco "ad personam" per fermare qualche processo. Viene in mente Ehud Olmert che, sospettato per corruzione, si dimette dicendo: «Sono orgoglioso di aver guidato un Paese in cui anche un primo ministro può essere indagato come un semplice cittadino». Ma l´Italia non è Israele. Il coraggio dei giudici della Consulta, la tenuta del presidente della Repubblica, la tenacia del presidente della Camera, rappresentano una speranza. Ma non nascondiamocelo: il Potere, quando non vuole riconoscere che la democrazia è limite, fa anche un po´ paura.
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 9.10.09
Il governo antistato
di Francesco Merlo


Nulla si salva nell´inedita guerra del governo italiano allo Stato italiano, neppure il maresciallo dei carabinieri e il parroco. I ministri leghisti attaccano la bandiera e l´unità dello Stato e Berlusconi organizza la piazza contro i tribunali di Stato, contro la Corte costituzionale e contro il capo dello Stato.
Brunetta mitraglia il pubblico impiego dei fannulloni di Stato e la Gelmini smonta la scuola e l´università di Stato. Anche il federalismo in Italia non prende, come negli Usa e come in Germania, la forma dello Stato, ma dell´attacco al cuore dello Stato.
Ed è un attacco che non richiede coraggio, non presuppone l´allestimento di covi, non c´è neppure necessità di drogarsi ideologicamente: basta accendere un microfono e subito il premier di Stato, il ministro di Stato, il sottosegretario di Stato diventano la torre di sfondamento dello Stato, insultano lo Stato, cercano di far saltare il catenaccio e, dal quartiere generale dello Stato, bombardano lo Stato.
Ormai anche l´informazione di Stato attacca lo Stato. Anche il Tg1 e "Porta a Porta", famosi un tempo per l´ineleganza sacerdotale e la garbata goffaggine "a modo", che sta nel mezzo, medium, "mezzano"..., ormai anche Vespa e Minzolini, anche il giornalismo governativo, pur nella modestia estetica e nella creatività disadorna, mettono in scena film di Tarantino: pulp fiction sullo Stato, sui magistrati, sul presidente della Repubblica, sul sindacato, sui bidelli, sulla libertà di stampa...; pulp fiction su Rosy Bindi che, signora dell´opposizione, è stata, nel complice silenzio dei presenti, dileggiata e insolentita da un Berlusconi così volgare e gaglioffo da far vergogna – speriamo – anche ai suoi elettori per bene, e forse pure a se stesso.
Tra le molte indecenze della nostra storia nazionale questa del governo di Stato che demolisce lo Stato non si era mai vista e non perché non abbiamo avuto anarchici scamiciati con le cravatte nere a fiocco, e rivoluzionari di ogni specie, fascisti e comunisti, cortei cattivissimi con i ritratti di Stalin e processioni incolonnate dietro le Madonne che piangono. Insomma c´è di tutto nella storia dell´Italia eversiva, anche i governi perfidi e intelligenti che lavoravano nell´ombra e c´è ovviamente il colpo di Stato: la marcia su Roma. Ma non c´è lo statista che demolisce lo Stato. Non c´è il governo che si vuole sostituire allo Stato e anziché amministrare sgretola la qualità dello Stato, aggredisce invece di proteggere i servitori dello Stato, dai magistrati agli impiegati agli insegnanti.
Nella storia d´Italia abbiamo avuto politici che, in nome dello Stato, hanno denunziato l´esistenza di un presunto doppio Stato che minacciava lo Stato, con prefetti e questori, poliziotti e generali che tramavano... Abbiamo avuto persino lo statista che si è fatto Belzebù, ma sempre per proteggere, sia pure a modo suo, lo Stato. Giuseppe Alessi, fondatore della Dc siciliana, ci disse: «Dovevamo fermare il comunismo a qualsiasi costo, il comunismo pesante, quello che non avete conosciuto. Nell´immediato dopoguerra era meglio co-governare con i mafiosi piuttosto che consegnare il Paese ai comunisti di Stalin». L´innegabile contiguità tra la mafia siciliana e la Dc, tra l´innervatura dell´una nell´altra, sino ai cugini Salvo e a Salvo Lima, nasce probabilmente da quell´idea di guerra fredda. È da lì che viene la leggenda di Andreotti, lo statista-diavolo. Mai però avevamo avuto lo statista antistato che sega l´albero sul quale è legittimamente appollaiato.
E non è il solito ossimoro italiano, la prova dell´identità dei contrari garantita da Gesù che forse mutò l´acqua in vino non per fare un miracolo ma per dimostrare appunto l´uguaglianza degli opposti. Anche l´ossimoro qui è speciale perché è speciale l´idea di uno Stato sostanziale (Berlusconi) da sostituire allo Stato formale, quello delle regole, della grammatica istituzionale, dei bilanciamenti, dei controlli, delle garanzie, delle competenze, della legge uguale per tutti, della divisione dei poteri... Il comunismo qui non c´entra nulla. Sotto attacco c´è la forma dello Stato, il nostro modo si stare insieme, che il governo vuole piegare alla logica del più forte. O con i numeri elettorali o con i soldi debbono sempre vincere i più forti.
Lasciamo stare i sondaggi che, quanto più inconfutabili sembrano, tanto più bugiardi sono. Il loro martellante, sommario, clamoroso linguaggio è solo uno strumento di intimidatoria propaganda. Ci sono però i risultati elettorali reali che legittimano pienamente il governo Berlusconi. Gli danno il diritto e il dovere di governare, ma non di mettere la macchina in doppia fila e pretendere di non pagare la multa, né di commettere reati o di corrompere i giudici... La corte costituzionale ha stabilito che nessun cittadino può sottrarsi ai processi. La politica non c´entra nulla. Ma Berlusconi non sopporta la repubblica parlamentare, vuole trasformare il consenso popolare in odio popolare. E contro i poteri che limitano (e garantiscono) il suo potere, contro i giudici che indagano e giudicano i cittadini, tutti uguali davanti alla legge dello Stato, contro lo Stato si appella ai descamisados, come Evita: «Don´t cry for me, Italia». Vuole avere tutto nelle sue mani, e dunque vuol far saltare i dispositivi più elementari, occupare tutti i poteri che contano, non rispondere agli organi di garanzia. Sta nello Stato per sgretolare lo Stato, per rosicchiarlo, per larvalizzarlo, per svuotarlo. «Lo Stato si abbatte e non si cambia» era lo slogan di guerra dei leninisti. Un governo che sconfessa, destruttura e delegittima tutti i servitori dello Stato, dai magistrati ai partiti avversari, dagli insegnanti ai bidelli, è un governo di guerra. Come credete che nascano le guerre civili?

Repubblica 9.10.09
La filosofia dell’utilizzatore
di Chiara Saraceno


Il premier che «adora le donne», come ha graziosamente risposto al giornalista spagnolo che lo interrogava sulle sue frequentazioni, perde non solo le staffe, ma ogni senso della buona educazione e del limite appena una donna, una sua collega parlamentare e vicepresidente della camera, si permette di criticarlo.
Nella cultura da caserma in cui sembra trovarsi a suo agio quando tratta di donne e con le donne, non gli basta insultarla genericamente come comunista mangiabambini, come fa di consueto con gli oppositori del suo stesso sesso. Non può trattenersi dall´appoggiare il suo disprezzo ad un giudizio estetico. Confermando che per lui – per altro brutto, tinto e rifatto, oltre che piuttosto anziano – le donne si dividono in due categorie: quelle (per lui) guardabili e potenzialmente utilizzabili (se non già utilizzate), la cui intelligenza è eventualmente un optional e comunque non deve velarne il giudizio obbligatoriamente positivo nei suoi confronti, e tutte le altre. Le non convenzionalmente belle e le anziane sono accettabili solo se adoranti. Altrimenti cadono sotto la mannaia del giudizio di non esistenza.
Il leghista Castelli ha offerto un´altra variante della stessa cultura da caserma, scegliendo un altro topos classico, quello della zitella. Come se, tra l´altro, una donna senza un uomo fosse automaticamente una donna non voluta, non desiderata e non una che ha scelto di non avere un compagno (saggiamente, verrebbe da dire, se questi fossero gli unici tipi di maschi disponibili sul mercato). Per i leghisti, apparentemente, le donne non devono coprirsi il volto e il capo per motivi religiosi, ma vale sempre l´esortazione del Veneto profondo, secondo cui la donna «Che la tosa la tasa, che la piasa, che la staga a casa» – un atteggiamento non molto distante da quello degli uomini tradizionalisti mussulmani da cui gli orgogliosi leghisti nordici si sentono tanto diversi.
Con prontezza, Rosy Bindi ha reagito all´insulto osservando che ovviamente lei non appartiene alla categoria delle disponibili e utilizzabili . Ma è stata la sola a reagire alla maleducazione di Berlusconi e Castelli. Nonostante qualche faccia imbarazzata, nessuno dei maschi presenti, incluso il conduttore, ha ritenuto doveroso prendere le distanze da questo tipo di linguaggio e comportamento gravemente sessista, che rende difficile partecipare alla comunicazione pubblica le poche donne cui, raramente, si concede la parola (Bindi era la sola donna l´altra sera a Porta a Porta, in un folto parterre di uomini). Nessuno dei molti brutti, sfatti e rifatti uomini più o meno anziani che popolano la politica italiana deve temere di essere insultato e delegittimato per questo dai propri interlocutori, per quanto aggressivi. Il silenzio – complice, imbarazzato o codardo – degli uomini sia alleati a Berlusconi che all´opposizione, sia in politica che nei media è una questione politicamente seria che andrebbe affrontata, perché segnala quanto siano profonde le radici culturali del sessismo nel nostro paese. Non dimentichiamo che in Spagna Zapatero è stato attaccato dalla stampa per aver assistito in silenzio allo show in cui Berlusconi ha spiegato come intende le norme di ospitalità quando si trova di fronte una bella donna potenzialmente disponibile.
Ma c´è anche un altro silenzio che disturba: quello delle donne dei partiti di governo, a cominciare dalle ministre. Le loro voci si sono levate solo quando il capo le ha chiamate all´appello perché lo difendessero allorché scoppiarono gli scandali a catena: dalle candidature promesse alle veline a Noemi ai festini di Villa Certosa. Mai nessuna presa di distanza dalla immagine di donna – e di loro come politiche e come ministre – che emerge dalle appassionate autodifese del loro capo. Particolarmente silente è la ministra delle Pari opportunità, che pure dovrebbe parlare per dovere istituzionale. Qualsiasi siano i motivi per cui è finita lì, cerchi di ricordarsi per favore che le pari opportunità non sono un concorso di bellezza. E che non si può lasciare a dei vecchi mandrilli, per quanto ricchi e potenti, il potere di parola e di giudizio su ciò che sono, sanno e possono fare e dire le donne, a prescindere dall´età e dai canoni estetici. Lasciare insultare una collega, anche della opposizione, con argomenti che nulla hanno a che fare con la politica, ma solo con il sessismo, è un errore grave, di cui paghiamo il prezzo tutte.

l’Unità 9.10.09
Questioni di vita e di morte
di Luigi Manconi


Il testamento biologico riguarda tutti Perché il Pd non prende l’iniziativa e lancia una grande manifestazione di massa?

Cari Franceschini, Bersani, Marino,
domani saranno esattamente sette giorni dalla manifestazione per la libertà di informazione di piazza del Popolo, a Roma. È stata una iniziativa importante, che ha risposto perfettamente al suo duplice scopo: quello di esprimere e quello di sensibilizzare. La manifestazione ha espresso la preoccupazione diffusa per l’attuale fragilità di quel fondamentale principio di democrazia che è il diritto di informarsi e di informare. E ha contribuito a sensibilizzare sul tema altri cittadini e altri gruppi sociali. Ciò ha confermato una tendenza classica del modello di manifestazione nell’Italia contemporanea. L’azione collettiva di strada, in altre parole, tende a coagularsi intorno a due gruppi essenziali di questioni: quelle economico-sociali (contratti, pensioni, diritti sindacali...) e quelle relative all’uso della forza in ambito nazionale e sovranazionale (la repressione interna, quella a opera di regimi dispotici, le guerre...). Un terzo gruppo di questioni comincia a emergere come oggetto di manifestazione (il razzismo per esempio). Ciò corrisponde puntualmente alle tematiche fondamentali della lotta politica, come si è sviluppata nell’ultimo mezzo secolo, che si articola su piani diversi e in sedi differenti e, infine, nella mobilitazione di massa nelle strade e nelle piazze. Ma quella stessa lotta politica conosce oggi profondi mutamenti.
Detta in breve, diventano oggetto di azione pubblica e di conflitto collettivo tematiche confinate, fino a qualche decennio fa, nella sfera privata e affidate alla capacità di autodeterminazione individuale. Le “questioni di vita e di morte” diventano la posta in gioco e il cuore pulsante di lotte culturali, ideologiche, ma anche direttamente politiche, che coinvolgono milioni di cittadini e investono il sistema politico in senso stretto. Si pensi alle problematiche dell’aborto e del Testamento biologico, delle coppie di fatto e della procreazione assistita.
Se è vero come è vero che quello sul Testamento biologico è diventato un conflitto squisitamente politico (oltre che filosofico, religioso, culturale), perché mai non dovrebbe costituire tema e obiettivo di una manifestazione di massa? La risposta è semplice: perché molti esitano a considerarlo tale. E, invece, proprio di conflitto politico si tratta: perché, a seconda della normativa che verrà adottata, si produrranno effetti concreti, corposamente materiali, sulla vita dei cittadini. Ne discenderanno conseguenze sullo stato di benessere o di sofferenza delle persone, sulle loro aspettative di vita e sulle loro relazioni private e sociali. In ultima analisi, sulla loro felicità o sulla loro infelicità: ovvero in altri, più concreti e modesti termini sulla capacità delle leggi degli uomini di ridurre la quota di dolore non necessario che tutti in un modo o nell’altro, prima o poi, rischiamo di subire.
Perché mai, dunque, non si dovrebbe poter manifestare collettivamente la propria opinione su tale questione? E c’è un ulteriore ragione che rende, quell’azione pubblica, quanto mai necessaria: il fatto che l’orientamento della maggioranza parlamentare corrisponde, nella società italiana, a quello di un’esigua minoranza. Insomma, la gran parte della società italiana ha un’opinione esattamente opposta, sul tema del Testamento biologico, a quella del centro destra. E questo rappresenta uno dei pochi motivi di speranza per quanto riguarda i rapporti di forza nell’Italia contemporanea: per giunta, su un tema a dir poco cruciale. Se diventasse legge il testo approvato al Senato, l’ordinamento giuridico del nostro Paese avrebbe subito una lesione pari solo a quella inferta dall’introduzione del reato di immigrazione clandestina. Quel disegno di legge, infatti, prevede che pur in presenza di un rifiuto esplicito, firmato e autenticato al paziente vengano imposte nutrizione e idratazione forzate. Si avrebbe, così, la più brutale negazione del diritto all’autodeterminazione individuale e l’imposizione di una volontà esterna, esercitata dallo stato, nella sfera più intima della persona. E nel momento estremo e più delicato: quello del fine vita.
Cari Franceschini, Bersani, Marino, temo che la sentenza della Consulta sul “Lodo Alfano” porti, tra l’altro, a una accelerazione e a un ulteriore irrigidimento della posizione del centro-destra in tale materia. Tutto ciò non vale una manifestazione a Piazza del Popolo? Una manifestazione che sottragga un tema tanto decisivo sia alle strettoie della discussione parlamentare che alle angustie del dibattito congressuale, e lo rimetta nelle mani e nelle voci dei cittadini.❖

l’Unità 9.10.09
Diritto di scelta per le minorenni
Sì del Comitato di bioetica alla riforma dell’aborto voluta dal governo Zapatero
di Claudia Cucchiarata


Il Comitato di bioetica ieri ha dato il via libera alla riforma della legge sull’aborto voluta da Zapatero. Sì anche ad uno dei punti più controversi: il diritto di scelta per le minorenni. Antiabortisti in piazza il 17 ottobre.

«L'argomento di cui ci stiamo occupando è un progetto di riforma legislativa, non l'inclusione ex novo della depenalizzazione dell'aborto nel nostro sistema giuridico». Il Comitato di Bioetica spagnolo ha voluto precisare con questa premessa il giudizio depositato mercoledì, dopo cinque mesi di discussione sul disegno di legge più polemico del governo Zapatero. Un progetto che ha diviso l'opinione pubblica e che, secondo recenti sondaggi, raccoglie più detrattori che sostenitori.
LE CRITICHE
I punti maggiormente criticati della proposta di modifica di una legge che risale al 1985 sono due. Il primo è l'innalzamento da 12 a 14 settimane del limite di tempo di gestazione consentito per l'interruzione di gravidanza. Il secondo, e più spinoso, la possibilità di abortire estesa alle minori tra i 16 e i 18 anni, senza l'approvazione esplicita dei genitori. Entrambi i punti hanno ricevuto il giudizio positiva quasi unanime (undici voti a favore e un solo contrario) del Comitato, un organo indipendente creato nel 2007 ed eletto da governo e amministrazioni regionali.
La notizia si è trasformata in una boccata d'aria fresca per l'esecutivo di Zapatero e la sua ministro attualmente meno amata, la 32enne Bibiana Aído, a capo del dicastero delle Pari Opportunità e principale promotrice della riforma. Solo due settimane fa, infatti, il Consiglio di Stato aveva espresso perplessità nei confronti del secondo punto. E chiesto che si permettesse ai genitori delle minorenni di essere resi partecipi di una decisione così delicata. Il Comitato sostiene che l'adolescenza sia «un'età poco propizia alla comunicazione famigliare» e invita a «rispettare il diritto all'intimità ed alla protezione dei dati personali delle minori». Ognuno deciderà indipendentemente che fare, quindi. E il nuovo quadro legislativo dovrà garantire l'informazione sulla prevenzione, le alternative e la protezione sanitaria adeguata ad ogni caso, nel rispetto della volontà delle interessate.
La riforma della legge passerà presto, e senza modifiche, in seconda lettura al Consiglio dei ministri. La sua approvazione sarà un passo in avanti per la garanzia della salute e dei diritti di chi vuole abortire. La legge attualmente in vigore sarebbe infatti, secondo gli esperti, una specie di colabrodo al quale si sono appigliate decine di migliaia di donne, anche straniere, perché consente di giustificare le interruzioni, in qualsiasi momento della gestazione, se sono in pericolo la salute della madre o del feto.
CURIA E PARTITO POPOLARE
Eppure, la polemica non sembra placarsi. Mentre ancora divampa la discussione sulla liberalizzazione della pillola del giorno dopo, da metà settembre in vendita in tutte le farmacie del Paese, più di 40 organizzazioni pro-vita preparano una manifestazione massiva per sabato prossimo, 17 ottobre. Appoggiato dalla Curia e dal Partito Popolare, il Foro della Famiglia promette di inondare le strade di Madrid dietro lo slogan: «Ogni vita importa». Gli antiabortisti ci avevano già provato a fine marzo, ma il corteo fu un flop. ❖

Repubblica 9.10.09
Roma, in piazza Venezia riaffiora l’ateneo di Adriano
Scoperti i resti della scuola dei filosofi
La sala rettangolare è venuto alla luce durante gli scavi per il metrò
di Carlo Alberto Bucci


Le memorie di Adriano erano nascoste sotto appena cinque metri di terra. E sono venute alla luce in faccia all´Altare della Patria. Hanno la forma inedita di una doppia scalea contrapposta, come nella Camera dei Lord. Ma si tratta probabilmente degli scranni dell´Athenaeum.
Adriano fece costruire l´ateneo nel 133 dopo Cristo per ospitare poeti, retori, filosofi, letterati, scienziati e magistrati, invitati a cimentarsi in greco e in latino in orazioni, gare di versi, dibattiti infuocati. Un auditorium famoso che Aurelio Vittore definisce ludum ingenuarum artium. E che l´imperatore filosofo fece costruire a sue spese sul modello di quello visto nel tempio di Atena ad Atene. Ma di questo istituto filosofico a Roma si erano perse le tracce. E la caccia alle sue vestigia è aperta da anni.
L´ipotesi che in quell´angolo di piazza Venezia dove non si è mai scavato prima, sotto i pini abbattuti l´anno scorso per poter proseguire le indagini, possa esserci proprio l´Athenaeum che Adriano volle edificare al suo ritorno dal viaggio in Palestina, sarà illustrata dagli archeologi della Soprintendenza speciale di Roma quando, il 21 ottobre, il commissario per la metropolitana, Roberto Cecchi, farà il punto sull´andamento dei lavori in tutta la città. Ma la notizia del ritrovamento è doppiamente buona: verrà musealizzato un edificio sconosciuto (non è presente nella Forma Urbis, la pianta del 203-211) ma nel contesto dell´uscita della metro C che potrà passare pochi metri più in là.
A Roma dunque un´altra scoperta importante, dopo il recente ritrovamento della struttura che forse sosteneva la sala da pranzo rotante di Nerone sul Palatino. Tutto nasce nell´aprile del 2008. Durante un primo sondaggio accanto alla chiesa di Santa Maria di Loreto, a piazza Venezia apparve una scala monumentale. E si pensò all´ingresso di un edificio pubblico d´età imperiale. Ma subito dopo il soprintendente archeologo Angelo Bottini precisò che quei gradini sembravano fatti più per stare seduti che per essere saliti. Ora è arrivata la scoperta della "scala gemella". E ha preso corpo l´ipotesi Athenaeum: ecco le gradinate dell´aula magna.
Gli scavi devono essere ultimati. E i lavori vanno avanti nonostante il cattivo odore che si sente da quando la nettezza urbana ha deciso di appoggiare lì accanto un suo camion per la raccolta dei rifiuti. Ma sbirciando oltre la recinzione del cantiere di "Roma Metropolitane", appare già chiara la forma della sala rettangolare: due gradinate contrapposte ancora parzialmente coperte dal crollo del piano superiore. Gli spalti hanno sei gradoni ciascuno ma uno dei due è più corto perché contiene le uscite dalla sala, che misura circa venti metri di lunghezza per tre di larghezza. Al centro, dove l´imperatore e i poeti verseggiavano, c´è un pavimento in granito con listelli color giallo antico. È lo stesso tipo di pavimenti delle biblioteche che Adriano fece costruire ai lati della Colonna di Traiano, 50 metri più in là. Pavimenti tutti allo stesso livello. Legati quindi da un piano urbanistico unitario, monumentale e illuminato.

Repubblica 9.10.09
L'intervento di Eric J. Hobsbawm al World Political Forum
La giustizia del XXI secolo
Una nuova egualianza dopo la crisi
di Eric J. Hobsbawm


Tutti i paesi all´Est come all´Ovest dovranno uscire dalla ortodossia della crescita economica a ogni costo e fare più attenzione all´equità sociale
I paesi ex sovietici non hanno ancora superato le difficoltà della transizione al nuovo sistema
Le politiche liberiste hanno portato alla distruzione del welfare

Pubblichiamo parte della relazione che terrà oggi nella prima giornata del World Political Forum a Bosco Marengo (Alessandria). Al Forum di quest´anno, sul tema "L´Est, quale futuro dopo il comunismo", partecipano tra gli altri Mikhail Gorbaciov e Yuri Afanasiev.
Il "secolo breve", il XX, è stato un periodo contrassegnato da un conflitto religioso tra ideologie laiche. Per ragioni più storiche che logiche è stato dominato dalla contrapposizione di due modelli economici – e soltanto due modelli vicendevolmente esclusivi – il "Socialismo", identificabile con economie a pianificazione centrale di tipo sovietico, e il "Capitalismo", che copriva tutto il resto. Tale contrapposizione, apparentemente fondamentale, tra un sistema che ambiva a togliere di mezzo le imprese private interessate agli utili (il mercato, per esempio) e uno che intendeva affrancare il mercato da ogni restrizione ufficiale o di altro tipo, non è mai stata realistica. Tutte le economie moderne devono abbinare pubblico e privato in vario modo e in vario grado, e di fatto così fanno. Entrambi i tentativi di vivere all´altezza di questa logica del tutto binaria di queste definizioni di "capitalismo" e "socialismo" sono falliti. Le economie di tipo sovietico a organizzazione e gestione statale non sono sopravvissute agli anni Ottanta. Il "fondamentalismo di mercato" angloamericano è crollato nel 2008, nel momento del suo apogeo. Il XXI secolo dovrà pertanto riconsiderare i propri problemi in termini molto più realistici.
Come ha influito tutto ciò sui Paesi in passato devoti al modello "socialista"? Sotto il socialismo avevano riscontrato l´impossibilità di riformare i loro sistemi dirigenziali a pianificazione statale, quantunque i loro tecnici e i loro economisti fossero pienamente consapevoli delle loro principali carenze. I sistemi – non competitivi a livello internazionale – furono in grado di sopravvivere finché poterono restare completamenti isolati dal resto dell´economia mondiale.
Questo isolamento, però, non poté essere mantenuto nel tempo e quando il socialismo fu abbandonato – vuoi in seguito al crollo dei regimi politici come in Europa, vuoi dal regime stesso, come in Cina o in Vietnam – questi stati senza alcun preavviso si ritrovarono immersi in quella che a molti sembrò l´unica alternativa disponibile: il capitalismo globalizzante, nella sua forma allora predominante di capitalismo del libero mercato. Le conseguenze dirette in Europa furono catastrofiche. I Paesi dell´ex Unione Sovietica non ne hanno ancora superato le ripercussioni. La Cina, per sua fortuna, scelse un modello capitalista diverso dal neoliberalismo angloamericano, preferendo quello molto più dirigista delle "economie tigre" o d´assalto dell´Asia orientale, ma diede il via al suo "gigantesco balzo economico in avanti" con ben scarsa preoccupazione e considerazione per le implicazioni sociali e umane.
Quel periodo è ormai alle spalle, come lo è il predominio globale del liberalismo economico estremo di matrice angloamericana, quantunque non sappiamo ancora quali cambiamenti implicherà la crisi economica mondiale in corso – la più grave dagli anni Trenta – quando si saranno riusciti a superare gli esiti sconvolgenti degli ultimi due anni. Una cosa, tuttavia, è sin d´ora molto chiara: è in corso un avvicendamento di immani proporzioni dalle vecchie economie nordatlantiche al Sud del pianeta e soprattutto all´Asia orientale.
In questo frangente, gli ex stati sovietici (compresi quelli tuttora governati da Partiti comunisti) si trovano a dover affrontare problemi e prospettive molto diverse. Escludendo in partenza le divergenze di allineamento politico, dirò solo che la maggior parte di essi resta relativamente fragile. In Europa alcuni si stanno assimilando al modello social-capitalista dell´Europa occidentale, benché abbiano un reddito medio pro-capite considerevolmente inferiore. Nell´Unione europea è alquanto verosimile presagire la comparsa di una doppia economia. La Russia, ripresasi in certa misura dalla catastrofe degli anni Novanta, è ridotta ormai a Paese esportatore, potente ma vulnerabile, di prodotti primari e di energia ed è stata finora incapace di ricostruirsi una base economica meglio bilanciata.
Le reazioni contro gli eccessi dell´era neoliberale hanno portato a un ritorno, parziale, a forme di capitalismo statale accompagnate da una sorta di regressione a taluni aspetti dell´eredità sovietica. Palesemente, la semplice "imitazione dell´Occidente" ha smesso di essere un´opzione possibile. Questo fenomeno è ancora più evidente in Cina, che ha sviluppato con considerevole successo un proprio capitalismo post-comunista, al punto che in futuro può anche darsi che gli storici possano vedere in questo Paese il vero salvatore dell´economia capitalista mondiale nella crisi nella quale ci troviamo attualmente. In sintesi, non è più possibile credere in una unica forma globale di capitalismo o di post-capitalismo.
In ogni caso, delineare l´economia del domani è forse la parte meno rilevante delle nostre future preoccupazioni. La differenza cruciale tra i sistemi economici non risiede nella loro struttura, bensì nelle loro priorità sociali e morali, e queste dovrebbero pertanto essere l´argomento principale del nostro dibattito. Permettetemi dunque, a tal proposito, di illustrarvene due aspetti di fondamentale importanza.
Il primo è che la fine del Comunismo ha comportato la scomparsa repentina di valori, abitudini e pratiche sociali che avevano segnato la vita di intere generazioni, non soltanto quelle dei regimi comunisti in senso stretto, ma anche quelle del passato pre-comunista che sotto questi regimi erano state in buona parte tutelate. Dobbiamo riconoscere quanto siano stati profondi e gravi lo shock e le disgrazie in termini umani verificatisi in conseguenza di questo brusco e inaspettato terremoto sociale. Inevitabilmente, occorreranno parecchi decenni prima che le società post-comuniste trovino una stabilità nel loro modus vivendi nella nuova era, e alcune delle conseguenze di questa disgregazione sociale, della corruzione e della criminalità istituzionalizzate potrebbero richiedere ancora molto più tempo per essere debellate.
Il secondo aspetto è che sia la politica occidentale del neoliberalismo, sia le politiche postcomuniste che essa ispirò hanno di proposito subordinato il welfare e la giustizia sociale alla tirannia del Pil, il Prodotto Interno Lordo: la più grande crescita economica possibile, volutamente inegalitaria. Così facendo, essi hanno minato – e negli ex Paesi comunisti hanno addirittura abbattuto – i sistemi dell´assistenza sociale, del welfare, dei valori e delle finalità dei servizi pubblici. Tutto ciò non costituisce una premessa da cui partire sia per il "capitalismo europeo dal volto umano" dei decenni post-1945 sia per soddisfacenti sistemi misti post-comunisti. Obiettivo di un´economia non è il guadagno, bensì il benessere di tutta una popolazione. La crescita economica non è un fine, ma un mezzo per dar vita a società buone, umane e giuste. Non importa come chiamiamo i regimi che perseguono questa finalità. Conta unicamente come e con quali priorità sapremo abbinare le potenzialità del settore pubblico e del settore privato nelle nostre economie miste. Questa è la questione politica più importante del XXI secolo.
(© Eric J. Hobsbawm 2009 Traduzione di Anna Bissanti)

il Riformista 9.10.09
Stalin. In Russia torna la nostalgia del "Piccolo Padre"
di Lucia Sgueglia


Stalin baffone. Tra i suoi fan c'è il nipote: ha citato in giudizio i giornali che hanno accusato il dittatore di eccidi quali la strage di Katyn.
Revival.Il Piccolo Padre Stalin sembra riconquistare spazio nei cuori di molti russi

Mosca. Lui, Evgeny Dzhugashvili, 73 anni, dalla sua casa a Tiblisi, di tornare nella città ove suo nonno fu burattinaio dell'Urss fino al 1953, non ci pensava neppure. Anche perché col "Piccolo Padre" il suo di padre non andava d'accordo, tanto che un giorno tentò il suicidio per quell'incomunicabilità, ma sopravvisse. A finirlo furono i nazisti, nel '43: lo avevano fatto prigioniero in guerra, Stalin si rifiutò di scambiarlo con un alto ufficiale tedesco.
A convincerlo a volare a Mosca ci ha pensato Leonid Zhura, anni 63, un fan di Baffone. In Russia non è l'unico. Ad aprile ha letto su Novaya Gazeta, il bisettimanale di Anna Politkovaskaja, un articolo di Anatoly Yablokov su Katyn, la strage compiuta nel 1940 dall'Nkvd, a lungo nascosta dai sovietici, poi ammessa da Gorbaciov e Eltsin: «L'ordine di fucilare 20mila ufficiali polacchi fu dato da Stalin in persona», c'è scritto, e «L'operato suo e della sua polizia segreta (la famigerata Ceka) nelle purghe del 1937-38 (il Grande Terrore) costituiscono un crimine sanguinoso contro il proprio popolo». Zhura non è d'accordo, e convince Dzhugashvili a far causa al giornale per "danni morali", chiedendo un risarcimento di 299mila dollari, più 500mila rubli all'autore. Negli atti da lui depositati dichiara che la colpa di Katyn non è dei sovietici ma dei nazisti. Anche se sul documento c'è la firma di Stalin. «Non ne sapeva nulla, la colpa è dei suoi associati, firma falsa» concorda il nipote. «Vogliamo riabilitarlo - insiste Zhura usando a rovescio quel lessico legato al Disgelo, e al riconoscimento di milioni di vittime dello stalinismo. - Ha trasformato una popolazione in popolo, inaugurato un'era d'oro della letteratura e delle arti, era un vero leader». «Dopo 50 anni di bugie riversate su di lui non può difendersi, è il momento di agire» ha detto il 16 settembre nella seduta preliminare del processo alla Corte di Basmannaya a Mosca. Ieri, alla seconda udienza sono accorsi 30 pensionati, alcuni con la medaglia del loro eroe sul petto. Rimasti fuori dalla minuscola aula tanti giornalisti, quasi tutti da Polonia, Georgia, Ucraina, gli ex satelliti sovietici oggi impegnati in un'aspra battaglia con Mosca sull'eredità del comunismo.
In Russia tanti non sono d'accordo con Zhura, sicuramente non le famiglie di quei milioni di vittime. Ma a contestare pubblicamente la versione ufficiale della storia patria offerta dal Cremlino, restano pochi. Come Memorial, la ong per i diritti umani, che ha fornito documenti desecretati per l'articolo di Yablokov. Zhura ha fatto causa anche a loro. Del resto, alle aule giudiziarie da qualche mese Novaya Gazeta e Memorial ci han fatto l'abitudine. Martedì scorso la ong si è vista condannare a risarcire per diffamazione nientemeno che Ramzan Kadyrov, padre-padrone di Cecenia, che aveva accusato di «responsabilità» nell'omicidio di Natalia Estemirova.
Intanto, opposizione e liberali denunciano una «campagna di revisionismo» a favore di Stalin varata dal Cremlino. Dai nuovi libri di storia che lo definiscono "manager efficiente" e "artefice della modernizzazione e industrializzazione sovietica", al restauro della metro Kurskaja a Mosca, dove è riapparso il verso dell'inno sovietico inneggiante al dittatore abolito da Krushchev; il terzo posto ottenuto dal Piccolo Padre in un programma tv che elegge il personaggio-simbolo della storia russa. Fino alle recenti polemiche sul Patto Molotov-Ribbentrop: Putin in Polonia per i 70 anni dall'inizio della guerra lo ha definito un gesto comunque importante, «immorale», ricordando però le colpe di Francia e Inghilterra per lo scellerato accordo di Monaco con Hitler.
Esattamente il secondo conflitto mondiale è al centro del rischio di idealizzazione del Piccolo Padre nella Russia d'oggi: per i russi è la "Grande Guerra Patriottica", la sua memoria sacra e intoccabile in virtù di quei 27milioni di caduti. E la vittoria contro il nazismo il merito piu grande del dirigente sovietico. Ecco perché in questi giorni un giornalista, A. Podrabinek, si trova assediato da "giovani patrioti" per aver raccontato la storia di un ristorante costretto a rimuovere l'insegna Antisovietskaja. «Fino a poco fa tutto ciò era impensabile - nota Yablokov - Oggi ascoltiamo molto meno sulle repressioni, rispetto agli anni 90». Per Nikita Petrov di Memorial, «È molto triste. Una visione della storia da hooligan del calcio».
Ma parlare di revival staliniano sarebbe una semplificazione. L'operazione non è priva di contraddizioni, se si pensa che allo stesso tempo Putin ha imposto Arcipelago Gulag di Solzhenytsin come lettura obbligatoria nei licei, e guarda allo zarismo come a un modello da recuperare.

Repubblica 9.10.09
Il WSJ attacca anche Harvard che l’ha editato
Usa, stroncato Toni Negri
“Un libro malvagio”
di Angelo Aquaro


New York. «Commonwealth è un libro malvagio, pericoloso, ed è inquietante che sia pubblicato dalla prestigiosa Harvard University Press». Non si può dire che il Wall Street Journal dia il benvenuto all´ultimo libro di Toni Negri, l´ex capo di Autonomia Operaia condannato per "insurrezione armata", e di Michael Hardt, docente di letteratura italiana alla Duke University, quel Commonwealth, appunto (448 pagine, uscito negli Usa il primo ottobre) che conclude la trilogia iniziata con Impero, 2003, e proseguita con Moltitudine, 2004.
Certo il recensore, Brian C. Anderson, conservatore brillante - ha fatto scuola il suo saggio South Park Conservatives: la rivolta contro il pregiudizio liberale dei media - non poteva provare alcuna simpatia per quello che definisce «l´infuso da strega del radicalismo contemporaneo». Ma la recensione non lascia appello al lavoro dei due, già a suo tempo stroncato sul New York Times da Francis Fukuyama, che aveva parlato di «soluzione immaginaria a un problema reale». Che la soluzione sia, oggi come allora, la rivoluzione, non stupisce.
«Brothers in Marx» è il titolo che il Wsj dà alla recensione, giocando tra «Fratelli in Armi» e «Fratelli Marx». Ma c´è poco da ridere. Il capitalismo deve morire - così Anderson riassume il Negri/Hardt-pensiero - perché ha abusato e corrotto il Bene Comune, che oggi non è solo il frutto della terra e del lavoro, «ma l´universo delle cose necessarie alla vita sociale: le conoscenze, i linguaggi, i codici, le informazioni, gli affetti». Non c´è spazio per il riformismo: la rivoluzione trionferà. Ma come? «Quale sia l´arma migliore - le pistole, le manifestazioni pacifiche, l´esodo, le campagne mediatiche, gli scioperi, la trasgressione delle norme sessuali, il silenzio, l´ironia o molte altre - dipenderà dalle situazioni».
I tempi cambiano, e Commonwealth aggiorna «la scelta del proletariato fatta da Marx come agente della rivoluzione. Gli autori oggi preferiscono "la moltitudine", che include lavoratori di ogni genere, naturalmente, ma raggruppa anche attivisti neri e ispanici, femministe, queer trasgressive». Dai «pirati somali ai musulmani delle banlieues di Parigi», toccherà così ai nuovi «eroi della distruzione» abbattere il sempiterno capitalismo, che oggi sfrutta i lavoratori dei call center come ieri gli operai. Malgrado il linguaggio up to date, però, Negri e Hardt - secondo Anderson - «scrivono come se ignorassero la storia del XX secolo, citando ancora Lenin e Mao, senza sforzarsi di costruire argomenti a supporto delle loro asserzioni selvagge: come può l´abolizione della proprietà privata non riportare a uno stato totalitario? Loro promettono che stavolta sarò differente: ma non spiegano perché».
Dice Naomi Klein che Commomwealth fa «esplodere il dibattito clustrofobico» sulle «alternative a questo nostro sistema economico in frantumi». Ma il Wsj è lapidario: «Milioni di persone sono state massacrate nel nome di Karl Mark nel XX secolo: che Dio ci aiuti se questo flagello dovesse tornare nel XXI secolo».