sabato 9 giugno 2007

il manifesto 9.6.07
L'editore del settimanale annuncia alla redazione la sostituzione di Purgatori-Ferrigolo. Via il consigliere Gardini
Sciopero a «Left», saltano altri due direttori
di Andrea Fabozzi


Roma Adesso cominceranno a chiamarlo il Maurizio Zamparini dell'editoria. Come il presidente del Palermo calcio, l'editore di Left-Avvenimenti Luca Bonaccorsi ha comunicato ieri alla sbigottita assemblea dei redattori il quarto cambio di allenatore. Cioè direttore. Il quarto in un anno e quattro mesi. E come Zamparini, Bonaccorsi - direttore editoriale e amministratore delegato del settimanale che da questo mese accompagna in edicola la rivista Alternative per il socialismo del presidente della camera Bertinotti - pare intenzionato a richiamare in servizio un collaboratore già sperimentato. La redazione ha risposto con tre giornate di sciopero.
I defenestrati questa volta sono due, il direttore Alberto Ferrigolo e il condirettore Andrea Purgatori. Arrivati solo sei mesi fa per rilanciare il settimanale. Due giornalisti conosciuti ed esperti, che avevano preso il posto di Pino Di Maula a sua volta arrivato per sostituire Giulietto Chiesa e Adalberto Minucci allontanati per aver cercato di resistere alla pubblicazione settimanale del pensiero di Massimo Fagioli. Lo psichiatra eretico che di Left è il nume tutelare e che ha ospitato la presentazione della rivista di Bertinotti solo sette giorni fa. A febbraio, con l'ultimo cambio di direzione, il settimanale aveva ripreso quota in edicola. Ora l'assemblea dei lavoratori in un comunicato spiega che «la scelta di allontanare questi direttori è in contrasto con l'impegno a mantenere un giornale forte e autorevole, principale garanzia dei posti di lavoro». Purgatori dice di essere preoccupato soprattutto per questo e per il futuro della testata. E per «il rispetto delle regole». Anche perché ai direttori nulla è stato formalmente comunicato, mentre ai lavoratori la proprietà ha annunciato il cambio per il prossimo martedì. Intanto dal consiglio di amministrazione di Left è uscito Ivan Gardini. Un addio che preoccupa anche la segretaria di Stampa romana, il sindacato dei giornalisti. Dice infatti Silvia Garambois: «Siamo molto preoccupati che vada via il socio economicamente più forte». E poi aggiunge: «Avvenimenti ha una storia importante, ora è in una situazione molto delicata, questo costante e vorticoso cambio di direttori rende impossibile il lavoro dei redattori e ci fa preoccupare per il destino del giornale». L'editore annuncia nuovi tagli per fare fronte a non meglio specificate difficoltà economiche. Ma la redazione teme che il progetto sia quello di ridimensionare molto le ambizioni del giornale, che solo cinque mesi fa voleva mettersi nel solco, com'era spiegato nel piano editoriale presentato dai direttori e dagli amministratori, del primo Espresso. Ora il rischio è che si prepari un destino da piccolo giornale di area. «Noi avevamo avvertito - spiega Ferrigolo - che per assicurare un pubblico a Left bisognava evitare di appiattirlo su Rifondazione». Diversità di vedute tra direzione e proprietà, dopo solo 5 mesi, che Purgatori riassume in un episodio: «Per leggere la rivista di Bertinotti che è uscita allegata al giornale che dirigo ho dovuto comprarla in edicola, non me l'hanno fatta vedere prima». «La più totale solidarietà ai lavoratori di Left» è stata espressa ieri dal portavoce di Articolo 21 Giuseppe Giulietti. Aggiungiamo quella del manifesto.

l’Unità 9.6.07
Piazza del Popolo: quelli che tifano «l’altra America» Organizzano Arci e Fiom. C’è la sinistra radicale, scrittori, intellettuali, ambientalisti


«CON L’ALTRA AMERICA», quelli di piazza del Popolo la pensano così. Pacifisti, con il pedigree a posto. Quelli che sono contro la politica del presidente Bush, contro la guerra in Iraq, contro l’eterno rinvio di qualunque piano decente per tentare di salvare il pianeta dal surriscaldamento globale. Non «contro» l’America, ma «con l’altra America». «Con l’altra America fermiamo le guerre di Bush, suoniamogliele e cantiamogliele»: è questo lo slogan della manifestazione-concerto a piazza dal Popolo, dalle 15 di oggi (ma la scaletta di interventi e musica comincia dalle 16,30 fino alle 23 circa). Se c’è qualche timore per l’ordine pubblico non è in questa piazza - che sconta semmai il rischio di un possibile attrito con la sinistra anti-governativa dell’altra manifestazione. L’ambasciata Usa ha comunque invitato gli statunitensi a stare alla larga da entrambe le iniziative.
Promossa da Arci, Associazione per la pace, Fiom-Cgil - che parteciperà anche al corteo per piazza Navona - Forum Ambientalista, Libera, Un ponte per, l’iniziativadi piazza del Popolo conta tra le adesioni gli Statunitensi per la pace e la giustizia, l’Unione degli Studenti, l’Unione degli Universitari, Transform Italia, Lavoro e Società-Cgil. E infinite altre sigle, dal Coordinamento Comitati Cittadini No dal Molin, a Legambiente, Arci Gay, Donne in Nero, Terres des Hommes. E ancora Ebrei contro l’occupazione, Coordinamento Italiano Solidarietà Donne Afgane, Rete degli Studenti. Tra le forze politiche aderiscono Rifondazione Comunista Sinistra Europea, Partito dei Comunisti Italiani, Uniti a Sinistra e Verdi. Incerta ancora ieri la partecipazione del sottosegretario all’economia Paolo Cento - «la mia presenza alla manifestazione è irrilevante». Romano Prodi è contrario alla presenza in piazza di ministri e sottosegretari. Perché «non si può ricevere il presidente Bush e poi andare a manifestare contro di lui».
In piazza del Popolo ci saranno comunque i rappresentanti di movimenti statunitensi, molto critici con l’amministrazione americana. Dal palco interverranno Ann Wright, colonnello dell esercito Usa, Christine Selig a nome del Forum Sociale Usa che si terrà ad Atlanta dal 27 giugno al 1 luglio, Tom Hayden scrittore e attivista pacifista. Gli interventi italiani saranno affidati, tra gli altri, a Giuliana Sgrena per ricordare la richiesta di verità per Nicola Calipari
Sul palco anche Daniel Amit professore israeliano e Jamal Zakout esponente politico palestinese di Gaza. In piazza saranno presentate la campagna per la legge di iniziativa popolare contro la presenza di armi nucleari in Italia e quella contro i profitti di guerra in Iraq. E ci sarà anche un saluto alla manifestazione dai promotori delle manifestazioni anti G8 di Rostock. Ad accompagnare la giornata le note dei Folkabbestia, Gang, Modena City Rambles, Dall Ouna, One Love, Smoke, e il gruppo giamaicano Raymond Wright.

l’Unità 9.6.07
IL CORTEO DEI «DURI» Da piazza della Repubblica partirà il corteo più «osservato». I milanesi della Casa Loca: «Ci chiamano terroristi, ma non siamo noi a fomentare l’odio»
Quelli dei centri sociali, sempre nel mirino: «Ma noi veniamo in pace»
di Francesca Pannone


Estremisti di sinistra. Possibile fucina di neo terroristi. Giovani dediti ad atti di disturbo e rottura, specie nelle manifestazioni e cortei pubblici. Questi alcuni dei giudizi poco teneri, da sempre, espressi riguardo ai vari centri sociali esistenti in Italia, trattati con diffidenza, quando non con aperta ostilità dalla maggior parte delle persone. Di recente, la polemica si è riaccesa intorno a tali realtà giovanili, colpevoli di aver nascosto tra i loro frequentatori i componenti delle Nuove Br. Un gran numero di centri sociali convive, inoltre, da tempo indefinito, con diversi ordini di sgombero. In tale clima, e alla vigilia della visita di George W. Bush, non è facile parlare di questa situazione con rappresentanti dei centri sociali, per esempio, di Milano. In partenza per Roma. «Ci si sente sotto attacco, perciò ci si chiude in se stessi, giocando in difesa» spiega un componente di Casa Loca, centro sociale milanese, situato in Viale Sarca 183, che ha accettato di rispondere a qualche domanda. «Riguardo all’idea che i centri sociali possono essere il coacervo di giovani terroristi» continua l’intervistato, «è una falsità di cui anche i suoi sostenitori sono consapevoli. I centri sociali e il terrorismo sono distanti l’uno dall’altro come pensiero e azioni». Alcuni gesti, come la mania scoppiata di scrivere frasi di rottura sui muri della città, spedire buste con dentro proiettili sono troppo enfatizzati, soprattutto dal punto di vista mediatico, prosegue il ragazzo. «Un centro sociale, quando non è d'accordo con una persona, un’idea, lo dice senza paura, non ha bisogno di scriverlo sulle pareti. Non si possono incolpare i giovani di un centro sociale solo perché, magari, la frase incriminata è scritta a poca distanza dalla loro sede. Neppure si può parlare di terrorismo in casi di buste contenenti proiettili o bollare come terrorista un ragazzo arrestato che non è neanche riuscito a derubare un bancomat». Al contrario, «la parola terrorismo implica che esista qualcuno terrorizzato. Fino al delitto Moro, anche per le Br si parlava di lotta armata, non di terrorismo. Quest’ultimo lo operano le alte sfere e si chiama stato del terrore. Un esempio è indurre in diversi modi, le persone a temere il flusso migratorio. I centri sociali, possono essere definiti frange meno omologate, minorità che non si inquadrano nelle linee ufficiali, formati da persone provenienti da cooperative, che lavorano nel sociale. Al loro interno, si organizzano iniziative culturali, corsi di teatro, mediante cui cercare un’alternativa al classico lavoro salariale». Le varie iniziative, aggiunge un’universitaria che frequenta vari centri sociali della città, sono anche utili alla vita di altri progetti dei centri sociali come gli sportelli e i corsi d'italiano per migranti. «Frequento i centri sociali da tempo con i miei amici e nessuno mi ha mai chiesto di andare a piazzare bombe o sparare a qualcuno» ironizza. Ciò trova conferma nelle parole del componente di Casa Loca. «Non possiamo controllare tutti quelli che entrano nel centro e se uno di loro decide di scrivere sui muri, è libero di farlo». Sul versante politico, ciò che differenzia il lavoro condotto in un centro sociale da quello di un partito, chiarisce il giovane di Casa Loca, è il volontarismo. «Nei centri sociali le decisioni sono prese mediante un collettivo. In un partito, invece, i progetti sono dati dall’alto, dalla federazione. Il rapporto con gli organi politici ufficiali è strumentale. Con noi non funziona la richiesta di tacere, pena il possibile ritorno di Berlusconi al potere. Il presente governo è immobile, ha passato un anno parlando del Partito Democratico, senza risolvere nessun problema concreto, come la precarietà lavorativa». Questo, Casa Loca, lo sostiene anche nel comunicato riguardo al corteo romano contro Bush. «L'Italia continua a scegliere la guerra e la militarizzazione dei territori, a sottostare a Bush anche una volta insediatisi al governo ministri e sottosegretari ostili alla sua politica guerrafondaia». Il comunicato, infine, ribadisce «che sarà un corteo del tutto pacifico, di massa, colorato e determinato».

l’Unità 9.6.07
I RADICALI
Quelli che stanno con Bush senza troppi «se o ma»


La terza manifestazione del giorno è il presidio nell’immensa piazza San Giovanni organizzato dai radicali e in sostegno dell’America sempre e comunque, anche con Bush. Lo ha annunciato giorni fa Marco Pannella, si sono accodati anche politici del centrodestra. «I Conservatori contemporanei italiani sanno quale è il loro posto: affianco agli Stati Uniti», fanno sapere i “Conservatori” di Italo Bocchino. Anche l’altro deputato di An Gustavo Selva ha dato la sua adesione. «Il 5 giugno era il sessantesimo anniversario del Piano Marshall: anche oggi il contributo principale alla causa internazionale (di sangue, specialmente in Afghanistan) è degli americani».

Corriere della Sera 9.6.07
Pannella, benvenuto a George con discorso a Radio radicale
ROMA — Il benvenuto a George Bush è affidato ad un comunicato stampa della Fondazione Magna Charta e ad un messaggio audio di Marco Pannella sulle frequenze di Radio Radicale. I filo-atlantici non vanno in piazza, tutt'al più all'ultimo momento il leader radicale e i suoi, che oggi sono riuniti nella sede di Torre Argentina, potrebbero decidere un blitz in giro per Roma, ma ieri sera l'idea non riscuoteva particolare entusiasmo. Sarà forse perché, come dice Emanuele Macaluso, «di fronte ad un personaggio così squallido non capisco le manifestazioni»? Pannella ha già spiegato che il suo benvenuto è «al presidente della più grande democrazia del mondo, qualunque sia il suo nome». Ma intanto persino un convegno con Antonio Martino, Massimo Teodori, Giuliano Ferrara e Giulio Andreotti per celebrare il sessantesimo anniversario del Piano Marshall è naufragato di fronte all'impossibilità di avere sul palco Walter Veltroni e rendere l'appuntamento bipartisan.
Forse più che il benvenuto, i filoamericani riusciranno a coalizzarsi con il centrodestra per ottenere un dibattito sulla visita di Bush in Parlamento, una volta che il presidente sia partito.

l’Unità 9.6.07
Welby, il giudice si accanisce: «Eutanasia passiva»
Il gip di Roma vuole processare l’anestesista:
«Non è vero che ha solo staccato la spina»
di Anna Tarquini


NEMMENO COSÌ poteva morire Piergiorgio Welby. Nemmeno così, come la Costituzione garantisce, e cioè semplicemente rifiutando l’accanimento terapeutico e chiedere di esser staccato da una macchina che ti tiene in vita, senza nessun altro intervento che possa configurarsi come attivo. A sei mesi di distanza, per la seconda volta e contro lo stesso parere del pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari ha detto che no, l’intervento attivo c’è stato e Mario Riccio il medico che ha aiutato Welby a morire deve essere processato. «È una questione etica», una questione di principio. Perciò i magistrati si affrettino a formulare un capo di imputazione, che di eutanasia si è trattato e non di diritto ad andarsene dolcemente e a rifiutare le cure.
Omicidio del consenziente con eutanasia passiva, come dire una nuova fattispecie di reato. Un colpo per Mina Welby, la vedova: «Proprio ora che è in Senato si discute la legge sul testamento biologico» commenta amara. La circostanza, secondo il gip, si sarebbe estrinsecata con «l'intervento attivo dell'anestesista Mario Riccio. Per Renato Laviola non importa che persino l’autopsia su Welby aveva scagionato l’anestesista. L’esame era stato chiesto proprio dai magistrati per chiarire se l’esponente radicale malato di distrofia muscolare era deceduto per eccesso di sedazione o perché era stato staccato dal respiratore artificiale. E alla fine si era sgomberato il campo ad ogni equivoco: Welby era morto perché lo stadio della malattia non gli consentiva di sopravvivere senza la macchina. Ecco, questo non è bastato e nemmeno sono bastate le convinzioni della pubblica accusa.
Ieri Laviola ha respinto la richiesta di archiviazione della posizione di Mario Riccio perché nel nostro ordinamento «c’è il diritto al rifiuto delle cure» anche per motivi etici e religiosi, costituzionalmente garantito; ma nel caso di Piergiorgio Welby c’è stato un intervento attivo di Riccio, giunto apposta a Roma per praticare l’interruzione della ventilazione. Nel viaggio di Riccio da Cremona a Roma - si potrebbe spiegare ironicamente - è ravvisato il reato di eutanasia passiva.
Tanto più - sottolinea il giudice - che Riccio non era il suo medico curante ed era stato chiamato per esperire quella pratica. Spiega infatti Laviola che c’è un diritto costituzionale a rifiutare la cure, ma che nel caso di Welby l’eutanasia passiva «non è consistita nella mera omissione di cure e trattamenti».
Esiste un diritto alla vita - dice - che pure se non è codificato si fonda su varie fattispecie e molte norme codificate, come i reati che sanzionano l’omicidio del consenziente e l’istigazione al suicidio.
Ora la procura di Roma dovrà ora formulare un capo di imputazione coatto e chiedere il rinvio a giudizio del medico per il reato di omicidio del consenziente. «Sono dispiaciuta - dice Mina Welby - . Credo anche però che ci sarà una riscossa, visto che non c'è cittadino, in italia, che non abbia avuto in casa una persona che ha sofferto tantissimo, alla fine della propria vita, da arrivare chiedere la fine di queste sofferenze». Mario Riccio ha detto di essere «pronto ad assumersi ogni responsabilità, anche se dovesse costare 15 anni di carcere. Sono convinto - sottolinea l'anestetista - e ribadirò nei vari gradi di giudizio che in Italia la legge garantisca il rifiuto della terapia». Marco Cappato che è anche lui indagato per la morte di Piergiorgio Welby ha ringraziato «Furio Colombo e Federico Orlando che hanno per primi contribuito al fondo per le spese processuali, ccp 41025677 intestato a Associazione Luca Coscioni, causale fondo processo Welby».

Repubblica 9.6.07
"Il gip parla di eutanasia passiva, un concetto di retroguardia"
La sorpresa di Riccio "Avevo chiarito tutto"
di Enrico Bonerandi

Ci si appella al diritto alla vita? Se è un diritto si può esercitarlo oppure no
Anche papa Wojtyla rifiutò di sottoporsi a ventilazione e così morì

MILANO - Mario Riccio, si sente perseguitato dalla giustizia?
«La parola giusta è "sorpreso". Pensavo di aver chiarito col gip, nell´udienza del 28 maggio, ogni aspetto del consenso del paziente, che poi era il punto che più interessava il magistrato».
Invece è arrivata la richiesta di imputazione coatta.
«Il pm ha già affermato che ripresenterà richiesta di archiviazione. Devo ancora leggere la sentenza, ma mi sembra che il gip si basi sul concetto di eutanasia passiva, che non ha rilevanza penale. E anche dal punto di vista etico, è un concetto di retroguardia, che ormai non usa quasi più nessuno».
Sia più chiaro.
«Il gip parla di diritto alla vita. Se è un diritto, si può esercitarlo oppure no. Ammesso che esista una legge che sancisca il diritto alla vita, non può essere tramutato in dovere. Anche papa Wojtyla si rifiutò di sottoporsi a ventilazione, e morì. E la donna che due anni fa a Milano non volle farsi amputare la gamba? Dovevano costringerli?».
Allora la sentenza del gip di Roma è strampalata, o sottende un attacco politico?
«Non voglio fare una battaglia ideologica. Mi rifaccio a quanto affermato finora dalla Procura e dal Tribunale civile di Roma. Nella vicenda di Piergiorgio Welby ho agito come loro hanno sostenuto che avessi diritto a fare».
Verrebbe contestata anche la sedazione che lei procurò a Welby per alleviargli il dolore dell´agonia?
«No, a quanto mi risulta, dal punto di vista tecnico il gip non avanza alcuna riserva».
Su questo versante la sua posizione è stata già archiviata dal consiglio dell´ordine dei medici di Cremona.
«Appunto».
È un caso che questa sentenza arrivi quando in parlamento si sta avviando la discussione sul testamento biologico?
«Non so. Di certo l´arretratezza del dibattito etico in Italia è impressionante. Invece di confrontarsi ci si contrappone, senza fare passi in avanti. Voglio sottolineare però che non si deve confondere il diritto con l´etica. Un esempio: abbiamo una legge sull´interruzione di gravidanza, che dunque è consentita. C´è chi ritiene l´aborto un fatto riprovevole, e parecchi medici si rifiutano di procurarlo. Benissimo, c´è una legge che consente l´obiezione. Veniamo al mio caso. Un paziente ha pieno diritto di interrompere le terapie. Ha chiesto a me di intervenire, e io ho esaudito la sua volontà. Poteva chiederlo ad altri medici, che avevano facoltà di rifiutarsi. Punto e basta».
E invece per lei non è ancora finita.
«Ho fiducia che in un´avanzata sede di giudizio il caso verrà archiviato. Sono tranquillo, anche se un´ipotesi che va da 12 a 15 anni di galera sospesa sulla testa non mi fa piacere. Ma visto che siamo in ballo, balliamo».
Anche Giovanni Nuvoli, dopo Welby, si è rivolto a lei.
«Ho chiarito più volte, anche davanti al gip, che si è trattato di un unicum. Sono un medico ospedaliero, il mio lavoro è d´altro tipo. Ho acconsentito perché si era creata con Piergiorgio una relazione personale».
Se ne è mai pentito?
«Portare avanti le proprie idee, anche pagando dei prezzi personali, è così scandaloso?».

l’Unità 9.6.07
Hobsbawm nel segno di Gramsci e del Jazz
di Bruno Gravagnuolo


COMPLEANNI Oggi il grande storico compie 90 anni. Una parabola di ricerca sviluppatasi nel solco del marxismo inglese e arricchita dall’incontro con i «Quaderni del Carcere». Storia, musica e classi subalterne

«Gramsci? Un dono che la campagna ha fatto alla città». È una battuta di Eric Hobsbawm, lo storico gallese e tra i massimi storici britannici, che proprio oggi compie novantanni. Bella perché azzeccata, riferita com’è a una figura ponte tra masse oppresse e alta cultura del 900, un sardo di ascendenze albanesi, capace di ergersi a visioni globali.
Ma bella quella frase perché racchiude tutto il senso delle passioni e del lavoro di Hobsbawm. Ovvero, l’impegno di conoscenza storiografica, volto alla liberazione delle classi subalterne. Nel contesto dello stato-nazione e in quello più ampio del mondo unificato dalle rivoluzioni industriali, a partire dalla prima nell’Inghilterra del 700.
Ma chi è Hobsbawm? Lo abbiamo detto, un grande storico e poi un amico e un ammiratore dell’Italia, e del Pci in particolare, alle cui fortune culturali e alla cui (contrastata) «egemonia» è legata una parte rilevante della sua biografia. Un’Italia incontrata per la prima volta da «emigrante» a due anni, nel passare da Trieste a Vienna. Da cui fuggirà a fine anni trenta per sottrasi alla persecuzione nazista. Italia reincontrata negli anni 50, in visita da Londra, con una lettera di presentazione al Pci di Piero Sraffa. Ma a quel tempo Hobsbawm era già entrato nel circolo aureo degli storici marxisti di Past and Present leggendaria rivista, all’inizio non esclusivamente marxista, a cui prendevano parte Cristopher Hill, studioso della rivoluzione inglese, E. P. Thompson, storico sociale e della classe operaia, Victor Kierman, storico dell’imperialismo. Dunque Hobsbawm comunista e marxista, che si cimenta con la «storia dal basso»: brigranti, ribelli, emarginati, profeti popolari e contadini. Ad esempio studia Il Davide Lazzaretti ribelle «escatologico» del Monte Amiata, ignorando che di lì a poco ne avrebbe ritrovato la figura in un’opera destinata a cambiare la sua vita intellettuale: I Quaderni del Carcere. È Gramsci infatti che muta il suo approccio dottrinario benché mai stalinista. Gramsci che lo persuade che la rivoluzione è un processo complesso, variegato, «chimico». Che risente delle «onde d’urto» internazionali e le ritraduce nei contesti nazionali. Con rivoluzioni attive, rivoluzioni passive, arretramenti, esplosioni, avanzamenti. Ecco allora che la scoperta di Gramsci e del Pci, fanno di Eric Hobsbawm quasi un propagandista della «diversità» di entrambi nel mondo comunista. Un lavoro di sdoganamento e rilancio del marxismo in sede politica e storiografica che parte nel gallese dall’amore per quei Quaderni, su cui relaziona al primo dei grandi convegni gramsciani, quello del 1958.
E così, fecondate da quelle lettuare, arrivano le grandi opere di Eric Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, 1789-1848; Il trionfo della borghesia, 1848-1875; L’età degli imperi, 1875- 1914. Ed ancora, gli studi sui briganti, cartografia sociale e antropologica della rivolta endemica di classi sottomesse che stano ai margini e incalzano, ma non si fanno «dirigenti». E poi, il saggio introduttivo alla Storia del marxismo Einaudi, mappa minuta e ancor valida per orientarsi nel dedalo dei «marxismi» novecenteschi.
Infine il suo capolavoro, quello che ha fatto tanto parlare, uscito in Italia da Rizzoli: Il Secolo breve, 1914-1991. Qual è l’idea di fondo, gramsciana, e compendiata già nel titolo? Qualla di un 900 come «età degli estremi», tra massacri di massa e progresso della scienza e dei diritti. Di un mondo unificato dalla tecnica, tra barbarie ed emancipazioni collettive. Dove un punto di svolta è dato dalla prima guerra mondiale, in cui precipitano in lotta gli imperalismi dei grandi stati-nazione. E il punto finale sta nell’ammaina bandiere al Cremlino, nel natale del 1991.
Periodizzazione criticata quella di Hobsbawm, specie sul « terminus ad quem». Visto che la dinamica di guerre e imperialismi, dopo quella data, è ricominciata sotto forma di nazionalismi, guerre di civiltà e nuovo disordine mondiale, all’ombra dell’unipolarismo americano.
E tuttavia proprio Hobsbawm, ragionandone con Antonio Polito in una intervista Laterza del 1999 (Intervista sul nuovo secolo) si è mostrato ben consapevole che il suo secolo «breve» si allunga, riproducendo all’infinito, e con maggiore espansione delle forze produttive, tutti i fenomeni in precedenza descritti e avviati dal 1914: lo squilibrio tra stati nazione e cosmpolitismo globale, non governato. Due volte gramsciano Hobsbawm, nell’indicare quello squilibrio, e nel segnalare la prima volta in cui si manifesta e cioè la prima guerra mondiale.
E oggi? Oggi Hobsbawm è in bilico tra disicanto, difesa illuminista dell’universalismo, e rivendicazione di ciò che resta dell’utopia comunista. Intesa come capacità di resistenza al dominio planetario sui diseredati. E del resto, pur nel disincanto, Hobsbawm si oppose, da comunista italiano «acquisito», alla svolta dal Pci al Pds. E il giudizio sul comunismo reale? Per lo storico fu decisivo, malgrado le oppressioni e i fallimenti, a favorire e stabilizzare il Welfare in occidente. E a «con- causare» l’età dell’oro: il cinquantennio che va dal 1945 alla metà dei novanta. Ultimo appunto: Hobsbawm è anche un grande amante del Jazz, «musica nera dei subalterni». E scrisse col nome di Frank Newton, tromba di Billie Holiday, The Jazz scene, una storia del genere. Lo incoraggiò Gramsci, quando in carcere predisse: «un giorno berremo il caffè al mattino col Jazz».

Repubblica 9.6.07
Mio padre ucciso da Stalin
Un libro di Gabriele Nissim sulla tragica sorte di Gino De Marchi
di Nello Ajello


L'uomo fu bollato come un traditore Gramsci tentò di difenderlo. Ma nel '38 venne fucilato
Protagonista è Luciana, figlia di un militante comunista emigrato in Urss
Da giovane era stato arrestato a Torino e sotto minaccia aveva fatto il nome di un complice
A Mosca lavora come regista di documentari dedicati alla scienza e alla tecnica

Una tragedia che porta il marchio del Novecento, il memorabile e funesto secolo delle ideologie. È lo spettacolo offerto dal volume di Gabriele Nissim, Una bambina contro Stalin, appena uscito in edizione Mondadori (pagg. 278, euro 17). La bambina che figura nel titolo si chiama Luciana, ed è la figlia di Gino De Marchi, un comunista italiano che venne soppresso nel 1938 in Unione Sovietica, dove il suo partito l´aveva inviato perché potesse espiare, nella patria dei Soviet, una colpa "politica" commessa in patria nella prima gioventù. Il progetto punitivo, purtroppo, si sarebbe attuato alla lettera.
Il caso non può dirsi insolito negli annali del comunismo italiano: di nostri connazionali emigrati in Urss negli anni Venti o Trenta e coinvolti fino al sacrificio nelle trame della repressione staliniana se ne contano vari, e ciascuno restituisce a suo modo il sapore d´un tempo spietato. La specialità che si coglie in questo libro è data proprio dalla figura filiale associata alla vicenda, fin quasi a contendere al padre il ruolo di protagonista. È a lei che l´autore si è rivolto - incontrandola ripetutamente, in anni recenti, in Russia e in Italia - per ricostruire i fatti. Luciana, nata nel 1924, ne è stata diretta testimone fin dalla prima infanzia, e si è poi dedicata lungo oltre mezzo secolo, a coltivare «l´arte della memoria»: riabilitare suo padre, rievocarne le traversie, ricostruire i tratti della sua figura, è stata per lei una missione. Accanto a questa erede, Nissim è riuscito a comporre una saga «dal vero», insieme dolente ed esemplare.
Classe 1902, Gino De Marchi, è stato un comunista della prima ora. Risultava, anzi, iscritto al partito socialista (con netta inclinazione verso la corrente bolscevica), in epoca antecedente alla scissione di Livorno. Idealista, poeta dilettante e politico tutto d´un pezzo, ha svolto attività "militante" fin quasi dall´adolescenza. Nel suo paese di nascita, Fossano, a un passo da Torino, il comunismo s´incarna in un "genius loci", Giovanni Germanetto, autore di Memorie di un barbiere, un´autobiografia popolaresca che, tradotta in Russia dopo il trasferimento dell´autore in quel paese in seguito all´avvento del fascismo, verrà letta come un piccolo classico.
L´occupazione delle fabbriche con epicentro nella Torino operaia trova Gino in prima linea, diventando per lui, insieme, un´epopea e una fonte di guai. Proprio a lui, Gino, poco più che diciottenne, viene affidato, accanto ad altri, il compito di nascondere un piccolo arsenale di armi raccolte in vista di un´eventuale sommossa proletaria: e la cantina in cui vengono depositate è proprio a Fossano, a pochi passi dall´abitazione della famiglia De Marchi. L´operazione si svolge in maniera estremamente incauta, nella concitazione del momento. Ed perciò facile per i carabinieri arrestare Gino e trasferirlo nel carcere di Mondovì, dopo un breve sopralluogo che ha coinvolto sua madre Maria, anche lei fervida comunista. È il 26 aprile del 1921.
L´interrogatorio del giovane è breve e bruciante: di fronte alla minaccia di un coinvolgimento di sua madre nel reato, Gino ammette alcune circostanze e fa il nome di un complice, subito a sua volta incarcerato. È la debolezza o l´errore di chi, giovanissimo, deve misurarsi con un evento cruciale. A lui tocca ora il ruolo del capro espiatorio per una leggerezza collettiva. La qualifica di traditore gli resterà sulla pelle per sempre. Rilasciato dal carcere, verrà sottoposto a un processo ancor più lacerante. Rinchiuso per lunghe ore in un deposito dell´Ordine nuovo - il quotidiano comunista torinese al quale collabora - subisce pesanti umiliazioni ad opera dei compagni di partito, che lo considerano una spia fascista infiltrata nei loro ranghi. Ormai Gino è una presenza ingombrante. Il partito trova una scappatoia per dirimere il caso: il reprobo dovrà recarsi in Russia, dove subirà (ma egli non può prevederlo) una sorta di pratica "lustrale". Gli spetta - come affermerà Dante Corneli, un altro comunista italiano sprofondato nel terrore stalinista e autore di una memoria dal titolo Il redivivo tiburtino - un malinconico primato: quello di essere «il primo italiano in Russia fatto arrestare dai suoi compagni». Il peccato originale commesso in Piemonte troverà, nella patria del comunismo, il suo epilogo.
Giunto nella Russia di Lenin come emigrato politico nel giugno del ´21, finisce in carcere: le comunicazioni dall´Italia sono state sollecite. Poi lo rinchiudono in un campo di concentramento, a Vladykino, dove viene tormentato da attacchi di tubercolosi. A liberarlo (temporaneamente) interviene nel luglio del ´22, Antonio Gramsci, che ne ha pubblicato gli scritti nell´Ordine nuovo e lo considera «un fratello minore» contro il quale non è giusto «infierire». Quando De Marchi viene trasferito a Taskent, in «un luogo isolato dal mondo», Gramsci si adopera ancora a suo favore, ottenendo per lui un ulteriore spostamento a Mosca: lì potrà trovare un´occupazione non frustrante. (Gli interventi di Gramsci in soccorso del giovane piemontese sono stati diffusamente raccontati su questo giornale il 27 aprile scorso da Simonetta Fiori in un´anticipazione dell´opera di Nissim).
Uscito dal carcere e dal lager, Gino non riottiene la tessera del partito. Il «marchio del sospetto» non gli si cancella. E la sua odissea prosegue. Da Mosca, dove ha lavorato come contabile, viene spostato a Sergiev, settanta chilometri dalla capitale, in una comune agricola. Benché il lavoro dei campi non gli si addica, riesce a farsi apprezzare. Tornato a Mosca per intercessione di un autorevole compagno italiano, Francesco Misiano, nel '28 il giovane piemontese viene chiamato a collaborare all´attività della nascente industria cinematografica sovietica. Lo assumono alla Mosfilm, dove s´impegna nella produzione di documentari - i primi dell´epoca sovietica - dedicati alla scienza e alla tecnica in un´ovvia ottica di propaganda. Quest´attività gli piace. Per qualche anno lo sorregge l´illusione di aver superato la fase più critica del suo destino.
Ma il sospetto di essere in trappola gli torna quando, mentre appaiono sulla stampa sovietica gli echi dei grandi e catastrofici processi politici staliniani - intestati a uno Zinoviev, a un Kamenev - la richiesta di De Marchi di recarsi in Spagna per prendere parte, sul fronte della Repubblica, alla guerra civile incontra un netto rifiuto. S´inviano dall´Urss in Spagna soltanto uomini politicamente fidati. Nel suo caso un eventuale assenso dovrebbe tra l´altro giovarsi della firma di un dirigente italiano, un Palmiro Togliatti o un Antonio Roasio. Eventualità impensabile.
Sono passati più di quindici anni dall´arrivo del giovane in Unione Sovietica. Ma a dispetto di ogni apparenza il suo titolo di "nemico del popolo" non è mutato. Nel clima di repressione dei tardi anni Trenta si consumano, anzi, i sospetti arretrati. La svolta finale nel destino di Gino De Marchi porta una data - 2 ottobre 1937 - nella quale egli viene arrestato. In precedenza, una richiesta di chiarimenti sulla personalità del "sospettato", inoltrata alla sezione italiana dell´Internazionale comunista, aveva avuto una risposta secca: di lui abbiamo «una cattiva opinione». Gli interrogatori "celebrati" a suo carico nel palazzone della Lubianka non si discostano d´un pollice da quelli che stanno portando, in Urss, alla dissoluzione di un´intera generazione di bolscevichi illustri. In quella rete, lui è davvero un pesce minuscolo. Tre inquirenti - a nome Sedov, Lunevskij e Leonov - si adoperano per dimostrare che Gino ha continuato, in Unione Sovietica, a fungere da spia fascista, dedicandosi a ordire complotti trotzkisti. Queste ed altre menzogne vengono ripetute nelle deposizioni rilasciate dai suoi compagni di lavoro alla Mosfilm: anche da coloro che sembravano suoi amici. Uno degli accusatori decisivi, il comunista italiano Renato Cerquetti, è a sua volta imputato e sotto tortura ha confessato colpe inesistenti. È insomma un «corpo inerme» nelle mani della polizia e verrà fucilato nel febbraio del ´38. Il 2 giugno dello stesso anno, sarà la volta del trentaseienne De Marchi.
Se ho detto all´inizio che questa di Nissim è una doppia biografia, è perché ogni traversia del protagonista è filtrato attraverso la memoria e la passione documentaria di sua figlia Luciana. Gli episodi che la riguardano - e quelli che concernono, più di scorcio, gli altri familiari di Gino: sua madre, una donna coraggiosa, sua moglie, che non trova la forza di difenderlo e lo abbandona - sono altrettanti capitoli d´una favola crudele. Una bambina che ha oggi ottant´anni (o qualcuno di più) ci invita ad ascoltarla con religioso pudore.

l’Unità 9.6.07 Roma
Auditorium, una nuova orchestra «popolare»
Affidata ad Ambrogio Sparagna, gran cerimoniere della notte della Taranta, la formazione che debutterà il 6 luglio
di Federico Fiume


Dopo la Parco della Musica Jazz Orchestra, la Fondazione Musica per Roma vara una nuova formazione «residente», l’Orchestra Popolare Italiana, presentata ieri all’Auditorium. L’ensemble, sarà diretto da Ambrogio Sparagna, reduce da un’analoga e felice esperienza triennale con l’Orchestra Popolare della Notte della Taranta, e si baserà su di un vasto repertorio incentrato sulle tradizioni regionali italiane. Proprio l’esperienza salentina, nella quale Sparagna ha creato per la prima volta un’orchestra di strumenti popolari («un’eccezione in un ambito dove tradizionalmente non esiste il concetto di musica orchestrata») e la partnership della Fondazione Musica per Roma con La Notte della Taranta, sono alla base di questo progetto. «Questa orchestra - afferma Sparagna - può rappresentare un formidabile veicolo di promozione culturale. Ne va dato atto alla Fondazione che l’ha varata in un momento in cui nel resto d’Italia le orchestre chiudono».
L’organico prevede un nucleo di dieci elementi fissi che collaborerà con musicisti e gruppi provenienti da tutte le regioni d’Italia, arrivando a costituire un’orchestra di oltre trenta elementi tra cantanti e strumentisti, scelti nel panorama della musica popolare italiana. Il debutto dell’Orchestra Popolare Italiana è previsto nell’ambito del Festival di Villa Adriana il 6 luglio con lo spettacolo «Bella fatte chiamà - Canti d’amore dalla Campagna Romana». Ma la si rivedrà anche il 10 agosto a Carpineto Romano, in occasione della notte di San Lorenzo all’interno del festival «I cavalieri cantati». A settembre sarà protagonista della Notte bianca di Roma con una nuova produzione dal titolo «Le stelle di Giufà» che saluterà l’alba nel Parco della Caffarella. In quell’occasione l’Orchestra sarà integrata da diversi artisti ospiti provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo. A partire dall’autunno è prevista una serie di nuove produzioni nell’ambito della programmazione dell’Auditorium con in particolare un evento speciale dedicato ai canti popolari del Natale.

(A entrambi gli eventi partecipa Giuliana De Donno - cfr "spazi"ndr)

venerdì 8 giugno 2007

l’Unità 8.6.07
Così i servizi segreti eliminarono i Rosselli
di Nicola Tranfaglia


Anniversari. A 70 anni dall’assassinio di Carlo e Nello nuovi studi e documenti rivelano chi furono mandanti ed esecutori: il fascismo e i fascisti francesi, con un ruolo chiave del Sim. E la «copertura» nel dopoguerra di Mitterrand

Nella storia dell’Italia fascista, che sembra ormai lontana ma che costituisce ancora un luogo assai importante delle nostre vicende novecentesche, spicca, per la sua particolare ferocia, il delitto del 9 giugno 1937 a Bagnoles de l’Orne in cui vennero uccisi con il coltello e la pistola i fratelli Carlo e Nello Rosselli, il primo leader di Giustizia e Libertà, il secondo storico del risorgimento.
Commisero quell’omicidio politico i Cagoulard, membri di un’organizzazione francese di estrema destra (Osaran) che, in cambio di duecento fucili, forniti dal Servizio di informazioni militari fascista (Sim), eseguirono l’ordine del ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, comunicato agli esecutori dal capo del controspionaggio Santo Emanuele e dal segretario del ministro Filippo Anfuso. Si trattava, secondo la volontà più volte espressa da Benito Mussolini, di eliminare gli antifascisti giudicati pericolosi e irriducibili nella loro opposizione al regime.
Mimmo Franzinelli, autore di una ricerca che completa in maniera esauriente le ricerche fatte in tanti anni sul delitto, a cominciare dal saggio illuminante di Gaetano Salvemini, utilizzando molte preziose carte inedite tra cui quelle del segretario di Ciano, Anfuso (Il delitto Rosselli 9 giugno 1937 Anatomia di un omicidio politico, Mondadori, pp. 290, euro 18.50) sottolinea a ragione una significativa comunicazione riservata del 17 novembre 1936 della Direzione di polizia al gabinetto del ministro degli esteri. In essa si dice «che il noto Rosselli pare assurto a personalità più spiccata dell’antifascismo italiano nella guerra civile spagnuola: il predetto comanda una colonna sul Fronte aragonese e partecipa ai principali comitati esecutivi. Gode di grande popolarità tra i militi antifascisti facoltosi che recentemente giunsero a designarlo «unico possibile successore di Mussolini». Così, in una sola frase, si indicano due elementi fatali di condanna per Carlo Rosselli giacché la sua lotta insidia direttamente il dittatore e si contende, per così dire, la successione a Ciano genero del duce e successore designato per volontà di Mussolini. Di qui - e Franzinelli lo dimostra senza più ombra di dubbio - la concorrente volontà del dittatore e del ministro degli Esteri di ordinare la sua eliminazione
Lo strumento operativo del delitto è il Sim il cui capo Emanuele, con l’aiuto del maggiore Navale, si mette in comunicazione - come le carte archivistiche italiane tratte da fondi pubblici e privati rivelano, senza possibilità di dubbio, con l’organizzazione francese perché esegua il delitto approfittatndo delle cure termali cui deve sottoporsi Carlo Rosselli raggiunto ai primi di giugno a Bagnoles prima dalla moglie Marion Cave e poi dai fratello Nello giunto dall’Italia.
Perché anche Nello, di sicuro convinto antifascista (aveva subito il confino ed era sorvegliato dalla polizia politica) ma dedito alle ricerche storiche piuttosto che alla lotta politica attiva viene ucciso dai cagoulard insieme con Carlo?
Una risposta precisa a questo interrogativo non c’è nelle carte italiane e neppure nelle esplicite memorie degli organizzatori francesi del crimine, in particolare di Aristide Alphonse Corre che ci ha lasciato il suo interessante diario del 1937, prima di esser fucilato dai nazisti nel 1942. Ma si può pensare che Nello sia stato ucciso perché era diventato urgente eseguire l’ordine dei fascisti e non si poteva aspettare che lo storico ritornasse in Italia per compiere il delitto.
Per sciogliere questi e altri dubbi occorrerebbe poter vedele i fascicoli custoditi negli archivi nazionali di Parigi che sono inaccessibili agli storici dai tempi di De Gaulle: ricordo che io tentai di consultarli alla fine degli anni sessanta senza successo e lo stesso è accaduto a Franzinelli successivamente e fino ad oggi. La ragione è ormai chiara anche grazie alle nuove ricerche: sia de Gaulle che Mitterrand hanno avuto, in momenti diversi della loro vita, rapporti assai stretti con la Cagoule e hanno posto il veto per evitare che gli studiosi potessero ricostruire questa parte della loro vita politica almeno discutibile. Né il primo presidente della Francia postbellica né l’uomo politico che avrebbe unificato la sinistra potevano aver piacere che si conoscessero i loro rapporti di condivisione politica con un’organizzazione della destra nazionalista francese autrice di più di un delitto tra cui quello contro i Rosselli. Dopo l’ascesa alla Presidenza della repubblica francese di Sarkozy c’è da sperare che il veto possa cadere e che si possa aver accesso a questa pagina ancora oscura della storia repubblicana negli anni difficili che precedettero la seconda guerra mondiale. Almeno questo è il mio augurio e, crediamo, quello di tutti i democratici italiani e francesi.
Ritornando al delitto Rosselli, il bel libro di Franzinelli ricostruisce in maniera analitica una costante che caratterizza i processi che si sono svolti prima in Francia poi in Italia. Malgrado il successo delle prime indagini svolte dopo il delitto e l’individuazione degli esecutori materiali come dei mandanti, ci vogliono undici anni, fino al 1948, perché il processo si svolga e si concluda con 27 condanne e 11 assoluzioni. Jacubiez, reo confesso dell’assassinio di Nello Rosselli, viene condannato ai lavori forzati a vita. I latitanti Bouvyer, Fauran, Filliol sono condannati a morte. Si condannano in pratica i gregari esecutori e si lasciano fuori i veri organizzatori del crimine. In Italia va ancora peggio: dopo il primo processo dell’Alta Corte di Giustizia, che tra il 1944 e la fine della guerra commina condanne destinate a non essere eseguite e che saranno successivamente annullate, è il successivo processo presso la corte di Appello di Perugia il 24 ottobre 1949 che, nota l’autore, mette una pietra tombale sull’individuazione dei mandanti col proscioglimento di Anfuso per non aver commesso il fatto e l’assoluzione per insufficienza di prove nei confronti di Emanuele e Navale.
I processi italiani sono una prova eloquente della forte continuità dello Stato fascista dopo la Liberazione, soprattutto nelle istituzioni vitali della giustizia e delle forze armate che ostacolarono in maniera decisiva il far giustizia e il segnalare i delitti di un regime che disponeva ancora di forza non piccola, pur dopo la sconfitta politica e militare seguita al conflitto mondiale.

l’Unità 8.6.07
La sinistra si organizza: «Dobbiamo essere uniti e concreti»
Prima assemblea dei centocinquanta parlamentari di Sd, Verdi, Pdci e Rc. Mussi: dobbiamo intervenire sulla politica del governo
di Wanda Marra


Roma, cinema Capranica, ore 14. Ci sono un po’ tutti, da Francesco Martone a Giorgio Mele, passando per Silvana Pisa e Umberto Guidoni. E anche “vecchi nemici” come Armando Cossutta e Achille Occhetto. Per la prima volta sono tutti insieme i 150 parlamentari della sinistra-sinistra (tra deputati, senatori e europarlamentari) a sancire un’unità che è ancora alla ricerca delle sue forme e dei suoi contenuti, ma che è già un dato di fatto. Dopo le dichiarazioni di intenti, il vertice dei segretari, la decisione del coordinamento tra gruppi parlamentari, ieri Prc, Pdci, Sd e Verdi si sono riuniti per la prima volta tutti insieme. Un altro passo verso l’unità della sinistra. Che sembra aver già incassato dal governo l’assenso sulla collegialità nelle decisioni. Ora c’è voglia di stringere, di andare verso una vera aggregazione. Ma anche la consapevolezza che non è il caso di bruciare le tappe. «Il governo di cui facciamo parte - scandisce Diliberto - è più in difficoltà di quanto abbia consapevolezza». E spiega: «A noi spetta il compito di colmare un vuoto che non è quello politico lasciato dal Pd ma è dare una rappresentanza al mondo del lavoro». Non manca un invito pubblico a “dimenticare” il passato: «I dissapori e i rancori accumulati, per quanto ci riguarda li abbiamo alle spalle». Di «passaggio drammatico» nella storia della Repubblica, per cui «c'è quello che è palese e quello che è occulto. Ci sono persino elementi spionistico-sovversivi», parla anche Fabio Mussi. Che di nuovo dichiara a proposito del governo: «Il nostro compito deve essere quello di accumulare forza per intervenire sulla politica del governo». I temi sono quelli già sul piatto anche ufficialmente dall’ultimo vertice dell’Unione: lavoro, pensioni, salari e precarietà. A cominciare dall’extragettito e dal Dpef (Mussi ricorda con soddisfazione l’incontro fissato nell’Unione il 14 per discuterlo). Non un partitino, ma una grande aggregazione, è quella che rilancia Mussi: «Bisogna procedere passo passo. Il processo di unità di sinistra al quale il novimento cui abbiamo dato vita mira è un processo che deve costruirsi. Non possiamo fare il reciproco del Partito democratico con l'unificazione». Gli fa eco il segretario di Rc, Giordano: «La sinistra non deve essere elitaria o tecnocratica altrimenti saremo travolti. Il processo di unità è irreversibile e non deve essere legato solo alle forze parlamentari: propongo che assemblee come questa si tengano in 10 città italiane insieme con associazioni e movimenti». Sulle “differenze” necessarie con il costituendo Pd insiste anche Pecoraro Scanio: «Ds e Dl hanno litigato continuamente e Prodi doveva risolvere i problemi del Pd. Il nostro stile deve essere attento alle cose concrete». E intanto, arriva forte e chiara anche la posizione della sinistra sulle ultime questioni di politica estera: «D'Alema ha detto che l'Italia in linea di principio non è contraria ai sistemi di difesa antimissile. Noi invece siamo contrari ai missili al confine con la Russia», dice Mussi. Che rincara: le scelte sul riarmo di Bush «fanno il paio con quelle sul clima».

Corriere della Sera 8.6.07
A sinistra. Epifani: basta con questo ritornello E scatta il patto con Mussi e i 150
di Enrico Marro


ROMA — Le sinistre estreme non scavalcheranno a sinistra il sindacato sulle pensioni. È questa la rassicurazione che hanno ricevuto ieri mattina i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil nell'incontro con i leader di Rifondazione, Pdci, Verdi e Sinistra democratica. Un vertice che si è tenuto non a caso prima dell'assemblea dei 150 parlamentari che fanno capo alle quattro sigle, ieri pomeriggio al cinema Capranica. Nelle parole dei leader che si sono avvicendati al microfono c'è stata così da un lato la riaffermazione della necessità di attenersi al programma elettorale, che prevede l'abolizione dello «scalone Maroni», e dall'altro la garanzia che le sinistre staranno comunque dalla parte del sindacato: sia nel caso di scontro col governo sia — ed è questa la cosa più importante — nel caso di accordo.
Il messaggio politico è questo: un'eventuale intesa tra Cgil, Cisl, Uil ed esecutivo non verrebbe attaccata da sinistra. Il gioco di sponda conviene a entrambi. Al sindacato, in particolare alla Cgil, che teme contestazioni da sinistra (la Fiom già vuole fare lo sciopero generale a difesa delle pensioni). Alle sinistre perché un eventuale cedimento rispetto alla richiesta di abolizione pura e semplice dello scalone potrebbe essere giustificato addossandone la responsabilità ai sindacati. Di qui il patto di non belligeranza.
Il confronto tra sindacati e sinistre è propedeutico al vertice di maggioranza di giovedì prossimo, dove, come dicono da un lato Fabio Mussi (Sinistra democratica) e dall'altro Paolo Ferrero (Rifondazione), lo schieramento a sinistra del nascente Partito democratico intende presentarsi forte del peso dei suoi 150 parlamentari per condizionare la fattura del Dpef, il documento di programmazione nel quale il governo dovrebbe indicare, tra l'altro, le sue intenzioni in materia di pensioni e Welfare. E tutti hanno commentato positivamente la mancata firma del governo al rapporto Ocse sulle pensioni. Ma l'appuntamento di ieri è stato propedeutico anche all'incontro che i sindacati avranno a Palazzo Chigi con Romano Prodi e mezzo governo, venerdì prossimo. Da lì dovrebbe partire una trattativa serrata per arrivare in un paio di settimane all'accordo.
Epifani ha subito voluto rassicurare gli interlocutori delle sinistre estreme che la Cgil non ha affatto aperto sugli «scalini», cioè sul piano del ministro del Lavoro, Cesare Damiano, di attenuare anziché abolire lo scalone, prevedendo un aumento graduale dell'età pensionabile (da 57 a 58 anni nel 2008 invece dei 60 previsti dalla Maroni). E ha invece insistito sulla necessità di garantire che i 57 anni verranno mantenuti per tutti i lavori usuranti. Ma il segretario di Rifondazione, Franco Giordano, si è mostrato scettico sulla possibilità di individuare quest'area (non ci si è riusciti dal '95 a oggi) e, come Oliviero Diliberto (Pdci), ha insistito sulla strada dell'aumento volontario e incentivato dell'età pensionabile. Tutti hanno concordato sulla necessità di portare a casa l'aumento delle pensioni basse e il blocco del taglio dei coefficienti. Priorità per il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, che ha ripetuto: se per ottenere la rimozione dello scalone — una cosa che sta più a cuore alle sinistre e che comunque andrebbe a beneficio di un numero limitato di lavoratori — bisogna trovare le risorse tagliando le pensioni di tutti, allora è meglio tenersi lo scalone.
Considerando che il leader dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio, ha detto che la cosa più importante è come gestire la comunicazione nella trattativa e che Diliberto ha manifestato allarme per la sconfitta subita dalla maggioranza nelle amministrative, si capisce meglio che, a questo punto, il pallino della trattativa con il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa- Schioppa, sta più in mano a Epifani, Bonanni e Angeletti che a Mussi, Ferrero e Giordano.

Corriere della Sera 6.6.07
L'ultima provocazione di Pannella «In piazza per George W. Bush. Anche da solo»
di Gianna Fregonara


ROMA — «Io ho lanciato un'idea, vediamo se qualcuno la raccoglie. Altrimenti ci sarò solo io». Non sarebbe la prima volta che Marco Pannella fa l'uomo-sandwich con un drappello di sostenitori della causa radicale. Questa volta per dare il benvenuto a George W. Bush, «presidente, democraticamente eletto, di un Paese amico».
Ancora immerso con il suo partito nella protesta per la moratoria sulla pena di morte con tanto di occupazione della Rai e sfinito da sei giorni e mezzo di sciopero della sete (per il medesimo scopo), il leader radicale non ha avuto gran tempo di occuparsi della manifestazione Welcome Bush a cui gli piacerebbe partecipare sabato. L'ha proposta in una diretta a Radio Radicale
l'altro ieri, ha persino già coniato gli slogan che vorrebbe sui cartelli «magari scritti a penna»: «W gli Stati Uniti d'America», «W il nostro fratello, il popolo americano», «W la democrazia americana». Insomma una manifestazione pro Usa più che pro Bush. Anche perché è lo stesso Pannella a chiarire che «noi vogliamo dare il benvenuto al presidente degli Stati Uniti chiunque egli sia, il suo nome non importa». Anzi, per il leader radicale ci sono diverse personalità americane che meritano una citazione e tra queste non c'è l'attuale presidente: «Abramo Lincoln, Martin Luther King e Ike Eisenhower».
Ma per ora in casa radicale non si è mobilitato nessuno per organizzare: se non fosse per il Foglio che ne ha dato notizia con evidenza in prima pagina ieri, e per Benedetto Della Vedova (ha lasciato i radicali per fondare i riformatori liberali, alleati del Polo), che approva «la piattaforma indicata da Pannella» e che forse andrà in piazza, per ora la mobilitazione degli amici di Bush si avvia lentamente. Il ministro delle politiche Ue Emma Bonino per esempio ha già fatto sapere che sabato lei non ci sarà: «E' un'ottima idea, ma io ho un impegno con la Federlegno».
Eppure l'idea di Pannella ha, come sempre, tutti i presupposti per diventare ben di più di una provocazione. E' stato lui a dare appuntamento, «convocando» gli amici dell'America, in piazza del Popolo. Peccato che la medesima piazza sia stata chiesta anche dagli organizzatori del presidio anti-Bush (Rifondazione, Pdci e Verdi) che immaginano di radunare trentamila persone ai piedi del Pincio. Per la Questura di Roma, un numero sufficiente per non avere nella piazza un altro presidio con cartelli di benvenuto al presidente americano. Pannella nega di voler creare un caso, di volersi scontrare con i suoi alleati di governo: «Se è così non voglio fare polemiche, troviamo un'altra piazza». Sarà così?

Corriere della Sera 8.6.07
Ferrero non sfila, i giovani Prc sì (...)


ROMA — La situazione è questa: a piazza del Popolo, dove Rifondazione (senza però il ministro Paolo Ferrero), Comunisti italiani e Verdi (senza il sottosegretario all'Economia Paolo Cento) si sono dati appuntamento domani per protestare contro George W. Bush, potremmo assistere ad un sit-in modesto. Nei numeri, e pure nei toni. Gli osservatori della sinistra più radicale non paiono sorpresi dalle rassicurazioni di Franco Giordano: «Manifesteremo pacificamente». C'è da scommettere che sarà un sit-in tranquillissimo, dicono, ironici. «Esporranno striscioni di lotta e di governo. Faranno ben attenzione a non mettere in difficoltà Palazzo Chigi». Così, non casualmente, i Giovani comunisti, l'organizzazione giovanile del Prc, aderiscono anche al corteo, ben più tosto con il presidente degli Stati Uniti, che da piazza Esedra sfilerà fino a piazza Navona. Come tutti sanno — al Viminale, ieri, facce cupe, e preoccupato pure il prefetto Achille Serra, abilissimo a fiutare l'aria — come tutti sanno non c'è però purtroppo nessuno in grado di garantire le sorti pacifiche di questa manifestazione, cui parteciperanno decine di sigle, comprese quelle dei centri sociali più duri d'Italia. Al corteo mancherà soprattutto la spina dorsale di Rifondazione che, per anni, aveva tenuto tutte le situazioni più a rischio. Va bene: Paolo Cento sta facendo le telefonate che può (non sfilerà, in omaggio a Prodi, ma conosce capi e capetti del movimento). Però poi sentite cosa dice il deputato no global Francesco Caruso, da Rostock, in Germania, dove sta manifestando contro il G8: «Rifondazione sbaglia gravemente». Una riflessione. O una minaccia?

l’Unità 8.6.07
Pedofilia
Abusi in parrocchia«Quando la Curia di Firenze ci disse: non parlate»
di Osvaldo Sabato e Silvia Gigli


«I vertici della Chiesa sapevano tutto. Lui ormai era diventato molto potente e lo ripeteva spesso anche a noi»

Già nel 1992 la Curia di Firenze sapeva che nella parrocchia «Regina della Pace» accadevano fatti che niente avevano a che fare con il culto religioso. Fu un giovane parrocchiano a parlarne per primo all’ex vescovo Silvano Piovanelli. «Lui rimase molto scioccato da tutto ciò» ricorda ora a distanza di anni Alessandro.
In quell’occasione a Piovanelli fu anche raccontato della famosa visione della perpetua di don Cantini, Rosanna Saveri, che nel 1972 aveva predetto l’episcopato dell’attuale vescovo ausiliario di Firenze, Claudio Maniago, fatto entrare in seminario proprio dal priore della parrocchia «Regina della Pace».
Don Claudio Maniago era uno dei prediletti di don Lelio. Quando fu nominato Provicario Generale, l’ex parrocchiano tornò a trovare Piovanelli. L’attuale vescovo ausiliario della Curia fiorentina, Claudio Maniago, sapeva dunque del disegno di don Cantini di creare una Chiesa parallela a quella ufficiale mettendo nei posti che contano persone a lui vicine?
Parlano i testimoni. Stupri, palpeggiamenti e ricatti per tacere. Incontro nella redazione di Firenze con le vittime di don Cantini. Roberto: «La Curia sapeva già dal ’92. Sbagliai ad affidarmi al cardinale, dovevo andare direttamente in procura». Le denunce all’attuale vescovo ausiliario Maniago: «Ma disse solo: state zitti»
«Maniago non sapeva forse degli abusi, ma il resto sì e ne abbiamo avuto riprova in tante occasioni perché prima di prendere qualunque decisione che riguardasse la Diocesi o altro, chiedeva sempre consigli a don Cantini o a Rosanna Saveri». Era prassi, spiega un’altra ex parrocchiana: «Per qualsiasi decisione noi prendevamo ordini dal priore e dalla sua perpetua». Fu proprio nel 1992 che Alessandro seppe anche degli abusi sessuali che commetteva don Cantini nel chiuso della sua parrocchia. Tre anni dopo Alessandro va di nuovo da Piovanelli. «Sì, sapevamo di don Lelio Cantini - ammise il cardinale - era chiaro che aveva approfittato di una ragazza». E ancora: «Sì, ci era stato chiaro da allora». E come reagiste? «Fu fatta una severa reprensione al sacerdote». Dunque nulla più che un rimprovero. «Pensavamo che fosse un caso isolato e ci siamo limitati a fare una reprimenda» spiegò Piovanelli intervistato dall’Unità il 10 aprile scorso.
Questa triste vicenda era apparsa per la prima volta da poco tempo sulla stampa. Per anni le violenze e i soprusi, nella parrocchia «Regina della Pace», trasformata in casa dell’orrore, sono rimasti avvolti nel silenzio. Oggi le vittime - dopo anni di vergogna e silenzio - hanno rialzato la testa e raccontato tutto «perché vogliamo giustizia» dicono. Ma sono urla nel silenzio.
«La Curia sapeva, ma ormai don Cantini era diventato un personaggio intoccabile», aggiunge chi racconta tutto al nostro giornale. L’ex parroco, infatti, veniva considerato molto nei piani alti della Curia di piazza San Giovanni. «Uno che riesce a far diventare preti otto giovani e con Maniago che diventa sempre più potente, si sentiva intoccabile. Sulla nostra pelle lui si è fatto una bella impunità», commenta Giovanni. «Siamo una potenza che fa paura...» ripeteva, non a caso, don Cantini ai suoi ragazzi. Un modo per contare sempre di più e condizionare la stessa vita dei suoi parrocchiani. Famiglie intere convinte di far parte di un progetto di fondazione di una «vera chiesa dello Spirito, per adempiere la volontà di Gesù Cristo». Ma il sommerso era fatto anche di violenze e abusi: don Cantini che aveva rapporti sessuali con bambine, ma lo faceva per loro, per una «adesione totale a Dio». Facendo credere ai minori di essere i prescelti e intimava il segreto assoluto, pena il «castigo divino». Anni di buio e immobilismo della Curia. Fu poi nel 2004 che della vicenda di don Cantini si iniziò a parlare più apertamente «ma con molto timore», spiegano gli ex parrocchiani.
Nel gennaio di quell’anno Mariangela Accordi, che all’età di 11 anni aveva subito le attenzioni del priore, incontra alcune sue amiche. Inizia a squarciarsi quel velo di piombo, lentamente emerge la cruda realtà fatta di abusi sessuali, che neanche loro potevano immaginare. «Abbiamo cercato di ricordare chi ci andava spesso nello studio di don Cantini, altre ragazze hanno incominciato a parlare ed hanno detto “sì è successo anche a noi”», raccontano oggi.
Lentamente emerge il quadro dell’orrore. Un vero e proprio olocausto bianco con il prete pedofilo che distrugge l’innocenza di queste bambine e bambini. Ma fu nell’ottobre del 2004 che «due di loro che avevano subito abusi decisero di andare a raccontare tutto a Maniago. Ma la sua risposta fu emblematica. Ad una disse addirittura: “pregherò per te e non ne parlare con nessuno”». Quelli che vanno avanti fra Maniago e le ex parrocchiane di don Cantini dall’ottobre al gennaio del 2004, sono dei colloqui e non delle confessioni. Non è un particolare di poco conto. «Quando sono andata io da Maniago mi disse che lo aveva già detto ad Antonelli e che non c’era bisogno di fare tutto quel putiferio di memoriali» dice Mariangela. Siamo nel maggio-giugno del 2005. «Claudio (Maniago n.d.r.), non fa niente ed ha una reazione molto formale su quanto veniva raccontato, anche se a parlargli erano delle sue amiche, gente che era stata insieme a lui in parrocchia. Lui invita a guardare avanti: ormai sono fatti passati e secondo lui non è opportuno parlarne. E ci dice: mi raccomando, non ne parlare con le altre ragazze. Questo ci fa pensare che lui sapesse che c’erano altre ragazze coinvolte?» È un dubbio che in molti si portano dentro. A questo punto Maniago ha un quadro abbastanza ampio, per lo meno sa di tre o quattro persone che da giovani hanno subito violenze sessuali da don Cantini «qualcuno chiede almeno di spostare don Cantini e lui dice “lo escludo, non se ne parla nemmeno”». La sua risposta fu categorica. «Ci fu un disorientamento generale perché ci aspettavamo un atteggiamento diverso».
Sempre nei primi mesi del 2005 molte famiglie lasciarono la parrocchia. «Noi non potevamo divulgare tutto» spiegano e alcuni non riuscivano a capire i motivi dell’abbandono in massa della parrocchia di don Cantini. L’insistenza per un incontro con il cardinale Ennio Antonelli cade sempre nel vuoto: telefonate, lettere, ma niente, dalla Curia non arriva nessun segnale di disponibilità. A settembre del 2005 sul settimanale della Diocesi “Toscana Oggi” appare uno scarno comunicato : don Cantini lascia per motivi di salute. Inizia per l’ex parroco il suo “esilio” nella canonica di Mucciano nel Mugello, rimessa «con una quantità spaventosa di soldi dei parrocchiani».
Evidentemente il cardinale Ennio Antonelli pensava di risolvere questo caso spinoso solo con lo spostamento di don Cantini. «Noi avevamo denunciato degli abusi di pedofilia e questi spostano don Cantini in una casa periferica nella quale continua a celebrare la messa a porte chiuse e a contatto con i minori. Nelle nostre lettere alla Curia abbiamo contestato il fatto che lui continuasse ad avere fra le mani dei minori». Anche quest’ultimo appello degli ex fedeli di don Cantini cade nel vuoto. «Anzi Claudio Maniago si è fatto fare una bella festa a Mucciano per il suo biennio episcopale», aggiunge Dora. Ancora una lettera al cardinale Ennio Antonelli, ancora richieste di udienza a Maniago, chi preme sulla Curia non si arrende. Finalmente il braccio destro di Antonelli vede un suo ex compagno di parrocchia. «Se viene fuori un polverone le persone coinvolte ne avranno soltanto del danno» gli dice. L’immobilismo della Curia è ferreo. Per romperlo nel gennaio del 2006 queste persone, che avevano scritto i memoriali di denuncia, inviano un appello con 17 firme ad Antonelli. Il mese dopo, finalmente il primo faccia a faccia. Della questione viene investito anche il Vaticano. Ma anche da Roma si tenta di minimizzare, don Lelio Cantini e Rosanna Saveri, intanto, nel marzo 2006, lasciano Mucciano per trasferirsi sulla costa versiliana. Nell’ottobre dello scorso anno due sacerdoti fiorentini sono al fianco degli ex fedeli della parrocchia «Regina della Pace». Anche i vicari chiedono chiarimenti al vescovo Antonelli e il 14 aprile questi pubblica una nota per dire che don Cantini era stato processato dalla Curia e che per il clamore mediatico aveva scelto di tacere: «Don Cantini è stato obbligato a ritirarsi e gli sono state inflitte privazione della facoltà di confessare, proibizione di celebrare la Santa Messa in pubblico, proibizione di celebrare altri sacramenti, proibizione di assumere incarichi ecclesiastici».
Questa la condanna della Chiesa. Ma si muove anche la procura e apre un’inchiesta su don Cantini, oggi 84enne, riconosciuto dai vertici ecclesiastici, colpevole di crimini pedofili. L’ex parroco fiorentino, ora ha trovato rifugio in un convento laziale. A pochi chilometri da Roma.

l’Unità 8.6.07
La testimonianza. Mariangela racconta gli abusi del parroco
«Avevo 11 anni, mi costringeva ai rapporti orali»

«Prima le coccole, poi provò a penetrarmi»
Mariangela Accordi ha 45 anni. Don Cantini ha abusato di lei da quando ne aveva 11. Il suo racconto è terribile.

«La mia era una famiglia molto cattolica. A 6 anni ho iniziato il catechismo. Ero una bambina molto attiva e lui fin dall’inizio mi ha fatto sentire la prediletta. Dopo la comunione cominciò a farsi più pressante. Mi rimproverò per essere stata via tutta l’estate, me lo ritrovavo sempre intorno. Scoprì quale era la mia classe a scuola e venne ad insegnare religione lì. Aveva sempre un occhio di riguardo nei miei confronti e lo faceva anche vedere. Quando è iniziato il catechismo della cresima la cosa è precipitata. Mi mandava a chiamare perché voleva farmi lezione lui. Quando mi chiamava nello studio chiudeva la porta a chiave o ci metteva una sedia a contrasto, si siedeva sopra e mi prendeva in collo. Aveva un mantello nero col quale mi copriva. Mi diceva che la Madonna aveva sempre detto sì, lei era serva, anzi “schiava per amore”. “La Madonna a 12 anni è diventata madre di Gesù, aveva la tua età, era una donna forte, vuoi diventare forte come lei? Certo che lo vuoi“ diceva. Giocava con il mio nome, sosteneva che ero predestinata, ero come Maria. Poi cominciava a palpeggiarmi e io mi irrigidivo perché non capivo. Allora lui mi diceva: perché fai questo? Io sono il ministro di Dio, non ti fidi di me? Non ti fidi di don Cantini? Ti ho insegnato il catechismo, io ti ho insegnato a pregare e te non ti fidi di me?”. Così cominciava e lo faceva piano piano perché sapeva di avere tutto il tempo. La cosa più tremenda che mi ricordo è il bacio. Lui cominciò a dirmi: mi vuoi bene? mi vuoi dare un bacio? Io gli diedi un bacio sulla guancia, lui mi prese il viso tra le mani e mi dette un bacio con la lingua e mi prese in giro perché non sapevo baciare. Lui faceva tutto piano: una volta c’era il bacio, una volta c’era il palpeggiamento a quelli che non erano ancora neanche seni, ci poteva essere l’alzare della gonna fino a che si faceva fare le cose, si spogliava completamente, si faceva toccare, mi imponeva sesso orale. Ha provato anche a fare la penetrazione quando ero piccolina, mi metteva su le gambe e provava e io a quel punto ero terrorizzata, sentivo male, allora mi buttava giù e mi faceva fare il rapporto orale ed era sempre più lungo, lo dovevo fare in modo completo. Era tremendo. Questo è andato avanti per tantissimi anni. A volte mi ha lasciato in pace perché intorno ai 16 anni mi venivano delle strane febbri e lui quando sapeva che una persona era malata la teneva lontana perché la malattia era il segno che il signore non era più con te. Non ho mai raccontato nulla a mia madre anche perché lei l’ha sempre ritenuto un santo sacerdote e l’apparenza era questa. Lui appariva come una persona di grande carisma, era sessuofobo, voleva che ci vestissimo in maniera casta e si arrabbiava se portavamo i jeans perché erano troppo seducenti. Sembravamo tutte suore e la realtà era ben diversa. Siccome gli atti sessuali avvenivano sempre nello studio e non di notte nel suo letto, una volta gli venne in mente di darmi delle pasticche di Tavor per far addormentare i miei. Lui voleva a tutti i costi che la notte scappassi di casa, prendessi il motorino e andassi a dormire da lui. Io l’ho fatto ma per fortuna dimenticai le chiavi di casa in cantina e dovetti tornare a casa.
Un momento terribile era quello della confessione. Non potevo dire “io ho fatto un peccato con lei” e allora non sapevo cosa dirgli. Gli dicevo “ho paura, ho paura a buttarmi”, ad impegnarmi in questa cosa. Allora per disinibirmi, mi faceva dire “io sono una puttana, io sono una maiala”. Alla fine era contento e mi dava l’assoluzione. Una volta mi diede la sua Bibbia per farmi meditare sul Cantico dei Cantici. Diceva: “lo vedi, sono io il diletto, tu sei la diletta, è la riprova che quello che facciamo è scritto nella Bibbia”. Come mai non scappavo? Perché ero completamente plagiata. Il fatto è che noi ci sentivamo diversi. Avevi gli amici solo in parrocchia, eri portato a tornare lì perché lì non ti sentivi diverso. Io avevo paura di tutto e lui era come una droga, diceva: “Non aver paura degli altri, io sono il tuo dono speciale”. Tutte le volte che cercavo di allontanarmi era come se un elastico tremendo ti riportasse indietro. Quando mi sono fidanzata lui all’inizio non era d’accordo. Io sono andata a diritto, non ne potevo più di quella vita. Volevo avere una famiglia e dei figli. Dopo il matrimonio lui ha smesso. Perché allora non ho parlato? È come un sequestrato quando viene liberato, quando mai si sogna di ripensare al sequestro? È felice perché è stato liberato. Io ero contenta perché era finito. Ho avuto dei figli, sono andata via da Firenze e ho concentrato tutto su loro. Quando i figli crescono ti devi rimettere in discussione. Quando mia figlia è cresciuta ed ha sviluppato il problema è riemerso. Rivedere lei è stato come rivedermi bambina e per la prima volta ho visto Mariangela così come la vedeva il priore e mi chiedevo “perché gliel’hai permesso?”. Da allora è stato un lungo percorso. Quando ho avuto il numero del centro Artemisia ho aspettato 8 mesi perché mi chiedevo e se mi chiedono di denunciarlo? Avevo paura, il plagio è stato talmente forte che pensare che quell’uomo era pedofilo per me era peccato. Cosa proverei a reincontrarlo? Ora sono nella condizione di poterlo incontrare ma nel 2004, quando si cominciò a parlarne, ero ancora terrorizzata. La cosa bella è stata per me che lui sia stato messo sul giornale e che io ne abbia potuto parlare in tv per raccontare tutto a tanta gente».

l’Unità 8.6.07
Esami di maturità, c’è un voto di troppo. Quello di religione
di Marina Boscaino


«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Articolo 3 della Costituzione: oggi un’opzione di inguaribile romanticismo o di insanabile vetero-ottimismo? Già: in quell’idea di società che è la scuola italiana, due punti di un’ordinanza ministeriale emanata il 15 marzo 2007 dal ministro Giuseppe Fioroni in merito all’Esame di Stato sollevano dubbi sull’inconfutabilità di quell’affermazione.
«Il voto in religione contribuisce alla determinazione del credito scolastico» con cui gli studenti accedono all'Esame di Stato.
Esame di Stato, appunto. Di uno Stato che - fino a prova contraria - non è confessionale. Il 23 maggio il Tar del Lazio - cui una serie di associazioni, tra cui il Cidi, erano ricorse per chiedere la sospensiva dell'ordinanza - aveva accolto la richiesta, affermando che «l’insegnamento della religione non può contribuire in alcun modo alla formazione del credito scolastico, perché determinerebbe in via presunta una disparità di trattamento con gli studenti che non seguono l'insegnamento religioso e non usufruiscono di un'attività sostitutiva». Ricordiamo a questo proposito le sentenze della Corte Costituzionale (203/1989 e 13/1991) che hanno stabilito che gli allievi che non scelgono l'Irc non hanno alcun obbligo, né di frequentare un altro insegnamento né di essere presenti a scuola, e che solo la piena facoltatività dell'Irc permette di non considerare questo insegnamento incostituzionale.
Il Consiglio di Stato ha accolto in via provvisoria il ricorso del ministro Fioroni dopo il pronunciamento del Tar, bloccando la sospensiva dei punti dell’ordinanza ministeriale, che è quindi tornata in vigore, come è stato ribadito da una circolare del ministero del 31 maggio a tutte le scuole italiane. Un braccio di ferro davvero pericoloso, che promette di non concludersi qui. Infatti l'udienza per il pronunciamento definitivo del Tar è fissata per il 12 giugno, 8 giorni prima dell'inizio dell'Esame di Stato e a scrutini completati. Qualora la sentenza definitiva annullasse l'ordinanza ministeriale, si metterebbe in dubbio il regolare svolgimento e l'esito dell'esame, determinando una grave situazione di incertezza giuridica, con eventuale fiume di ricorsi sull'esito finale.
Il ministro Fioroni - la cui incontenibile vocazione confessionale riesce a riscuotere consensi unanimi nel centrodestra e silenzi complici (o imbarazzati) nel centrosinistra - è però certamente persona in grado di comprendere che esistono alcuni temi che, per quanto apparentemente limitati, rappresentano paradigmi di un modo di essere e di pensare per il quale non io, ma - meglio e ben più autorevolmente di me - i costituenti e generazioni di donne e uomini hanno speso energie e vita. E sui quali non c'è possibilità alcuna di negoziazione. Uno di questi è la laicità della scuola pubblica: una tutela comune - né di sinistra né di destra -, un patto di civiltà e di difesa del diritto di cittadinanza delle culture - di tutte le culture - nella scuola. E di quel principio di uguaglianza dal quale siamo partiti.
Non è la prima volta che si tenta ad aprire una breccia nella direzione contraria a questi presupposti, nonostante le sentenze della Corte Costituzionale, che afferma che «l'insegnamento della religione cattolica non deve essere in alcun modo discriminante», anche in seguito a quanto stabilito dal Nuovo Concordato dell'84. Ma ora fa più male; ed è più pericoloso. Perché - nei tristi e disorientanti rituali di quest'anno contraddittorio e deludente, tra un Family Day e un arretramento progressivo sui Pacs-Dico - l'ingerenza delle gerarchie ecclesiastiche, il peso che gli viene concesso, gli spazi che gli vengono riservati nella gestione della politica italiana hanno portato a consentire l'ingresso di parole minacciose e inquietanti per la coscienza di tutti i cittadini laici e democratici. Sono parole del passato, di un modo di intendere la scuola che abbiamo combattuto per cinque anni. Parole pericolose nella scuola, il luogo della formazione della coscienza critica e della cittadinanza; e fuori della scuola, dove i bambini e i ragazzi italiani sono sottoposti a martellanti sollecitazioni che dicono altro e che portano altrove. E dove un mondo adulto poco consapevole e molto consumatore abbocca volentieri alla lusinga di una presunta «eticità» in pillole - che è solo basso moralismo - individuata da quelle parole; e così si salva l'anima; o, almeno, si illude di farlo.
Una parola chiave - che rispunta periodicamente - è, ad esempio, «identità»: ricordiamo la netta opposizione in Europa alla richiesta di Giovanni Paolo II di far inserire il concetto di «identità cristiana» nella Costituzione europea. L'allentamento della vigilanza su un terreno fertile come quello della scuola pubblica, combinandosi con l'alleanza cattolica trasversale ai partiti politici, potrebbe avere come esito l'allargamento di maglie nell'impianto neutrale e relativista che la Costituzione ha affidato alla pubblica istruzione. Disorienta poi l'enfasi che - in tanti documenti e dichiarazioni sulla scuola - si pone sulla «centralità della persona». Un'espressione che ha perso il proprio positivo significato letterale, assecondando la tendenza a valutare la persona come individualità predeterminata in senso cristiano. Sulla quale, dunque, qualunque intenzionalità educativa della scuola perderebbe la propria efficacia, immobilizzando la persona in una stasi impermeabile che configura quel percorso di scuola a domanda individuale in cui i bravi - che normalmente sono ricchi - diventano più bravi; e i non bravi - la cui inadeguatezza è molto spesso la concretizzazione delle condizioni socio-economico-culturali di partenza - rimangono tenacemente ancorati a quel destino marchiato a lettere di fuoco nel loro Dna.
La scuola, invece, dovrebbe essere terreno di crescita, di emancipazione, di miglioramento. Facciamo attenzione, dunque. L'attenzione, catapultata sulle macro-questioni - famiglia regolar-tradizionale - Dico - non può distrarsi da episodi più mimetizzati, ma ugualmente gravi e inquietanti.
Su questo terreno minato e per affrontare questa gimkana semantica - che configurano un accerchiamento lento e sapiente in termini ideologici - cautela e vigilanza sono d'obbligo. Per questo ci auguriamo che il presidente Prodi ascolti l'appello che la Consulta per la Laicità gli ha rivolto chiedendo di rimuovere le «contestate e discriminatorie innovazioni apportate all'O.M. 26/2007». Concedere le tutele agli «infedeli» che disertano l'ora di religione cattolica è un dovere; siamo ancora in tempo per bloccare una pericolosa deriva che minaccia di spaccare il Paese.

Repubblica 8.6.07
Il fenomeno dei "Kryptoy" spartani
I black bloc dell’antichità
di Marino Niola


Anarchici. Vestiti di nero, rasati a zero, si contrapponevano a ogni forma di organizzazione politica della comunità
Punkabbestia. Giovanissimi, vivevano fuori dalla città, condividendo tane e giacigli con gli animali: un po' come i nostri "punkabbestia"

«Viene organizzata una manifestazione di giovani vestiti di nero e col capo rasato». Sembra l´attacco dell´ennesima cronaca delle malefatte dei Black Bloc che tornano a far parlare di sé in occasione del G8 di Heiligendamm. E invece no. Il cronista è Senofonte, il grande storico greco che, con un anticipo di duemilacinquecento anni sui no-global, parla dei Black Bloc dell´antichità. A Sparta li chiamavano Kryptoi, gli oscuri, gli invisibili, i mascherati.
Erano giovanissimi, vivevano ai margini della città, mangiavano quel che capitava, condividendo tane e giacigli con gli animali: un po´ come i nostri "punkabbestia". Ragazzi-contro in tutti i sensi, resistenti ad ogni forma di organizzazione, di gerarchia, di inquadramento stabili, si muovevano isolati o in piccoli gruppi. Agivano prevalentemente nelle tenebre, sotto la protezione delle divinità della notte. E, soprattutto, erano violentemente e simbolicamente antagonisti rispetto all´organizzazione sociale e politica della città. La loro tana erano le alture, le boscaglie, le terre di nessuno. Insomma tutti gli spazi che rappresentavano il contrario dell´urbanitas, la negazione della città e delle sue regole.
Il nume tutelare dei Kryptoi era Melanthos il nero, una personificazione di Dioniso, il dio del caos, della trasgressione, degli stati alterati di coscienza. Questo idolo generazionale, chiamato semplicemente l´Adolescente, era per i giovani greci quello che per molti giovani antagonisti di oggi è il subcomandante Marcos, la primula nera del Chiapas che abita le alture più impenetrabili del Messico, da cui di tanto in tanto esce inatteso, come un Dioniso guerrigliero, per irrompere a sorpresa sulla scena politica. Il suo volto coperto, la sua identità criptata, ne fanno un significante zero, il simbolo di un rifiuto radicale. Un No fatto persona. Il modello di ogni margine inquieto: geografico, sociale o generazionale.
Persino nel modo di esercitare la violenza i Kryptoi greci sembrano gli antenati dei Black Bloc. Questi "cattivi ragazzi" dell´antichità si avvicinavano ai bersagli da colpire armati solo dello stretto necessario, spesso addirittura disarmati per non farsi individuare. Le armi se le fabbricavano sul posto a seconda della situazione e dell´avversario. Il loro asso nella manica erano le reti da caccia con le quali tendevano agguati ai nemici impedendo loro di reagire con lucidità. Un´arma assolutamente generazionale visto che nel mondo mediterraneo la caccia con la rete veniva considerata una cosa da ragazzi, non da veri uomini che hanno famiglia e che combattono per la patria in campo aperto.
Non a caso il mito greco attribuisce l´invenzione delle reti ad Ippolito, figlio di Teseo, il prototipo del giovane che rifiutando matrimonio e famiglia, di fatto si ribella alla società e alle sue istituzioni.
Detto con le parole di oggi, la rete dei Kryptoi era il simbolo di una violenza impolitica, dell´istinto quasi animale di chi ha meno forza del nemico e quindi gioca d´astuzia.
Anche i commando antiglobal usano la rete, ma quella virtuale, che oltre ad essere strumento di lotta, è il simbolo stesso della loro aggregazione senza capi e della loro connessione senza organizzazione, senza un centro politico.
Le analogie però finiscono qui. Perché la violenza dei Kryptoi aveva un termine, durava due anni. Poi la città degli adulti li ammetteva fra gli uomini. Quel periodo senza tetto né legge era dunque una iniziazione alla violenza nel corso del quale questi Brothers in arms sperimentavano la morte della propria innocenza infantile. Il nero che li avvolgeva era anche il simbolo del lutto per quella perdita di sé che rende così impenetrabili il dolore e il furore che a tratti compaiono sul volto degli adolescenti di ogni tempo e di ogni luogo.
Con quella vita di branco ai margini della società, i giovani greci imparavano a conoscere il male - a farsi amico l´orrore, avrebbe detto Conrad - e al tempo stesso mettevano in scena l´ultimo sussulto dell´adolescenza che sta per essere abbandonata.
Il loro viaggio nella tenebra era dunque un rito di passaggio che trasformava i ragazzi selvaggi in cittadini pronti ad occupare il loro spazio nella politica degli adulti.
Nel caso dei Black Bloc invece non c´è nessuna iniziazione. Il nostro mondo infatti non fissa più riti di passaggio, non stabilisce premi e castighi, meriti e responsabilità, tappe che diano ritmo e senso al cammino della vita. Quello di oggi è un mondo che non fa spazio ai giovani, condannandoli a restare "ragazzi" a tempo indeterminato, a vivere una marginalità che è sociale prima ancora che generazionale.
Quando il timer che comanda l´avvicendamento fra le generazioni si inceppa la macchina sociale gira a vuoto. E gli adulti rimangono fermi sulle loro posizioni mentre i giovani sono costretti a fare i giovani. Senza futuro. Allora la rabbia diventa furore distruttivo e rituale autodistruttivo. In questo senso più che una contestazione politica, quella del Blocco Nero è una dissipazione antagonistica di sé. L´affermazione violenta di una "estraneità criptica" gettata in faccia alla politica degli adulti.

Repubblica 8.6.07
La sofferenza di Eliot
A proposito di un verso da "The Wast Land" del grande poeta inglese
di Adriano Sofri


È il participio "foresuffered" significa "presofferto" e ricorre nella neolingua carceraria
Nella "Terra desolata" una delle opere più importanti del ´900 compare un verbo che fa sobbalzare
La stessa parola si ritrova in Seamus Heaney che traduce l´Eneide di Virgilio
"Ho un presofferto di nove anni", mi disse un compagno di cella. Ora quel termine è riscattato

L'opera poetica più importante del Novecento The Waste Land pretende i superlativi, e l´irriverente Christopher Hitchens (che obietta: quando mai si può pensare all´aprile come il mese più crudele?...) deve dichiararla «il poema più sopravvalutato del canone angloamericano». T. S. Eliot lo scrisse a Losanna, dove curava un esaurimento nervoso, nell´inverno 1921-22. Una versione italiana, curata da Angiolo Bandinelli, sostituisce alla consolidata traduzione del titolo - La terra desolata - la citazione dantesca Il paese guasto. (Inferno XIV, 94: In mezzo mar siede un paese guasto). L´ipotesi (compresa la corrispondenza e l´assonanza waste-guasto) è seducente, benché vada contro una nota di T. S. Eliot, che dichiara di aver tolto il titolo dall´opera di Jessie L. Weston sulla leggenda del Graal, From Ritual to Romance (1920). La trafila del rimando dantesco è ricostruita da Carlo Ossola, Dante nel Novecento europeo (2005): dalla Terra guasta di Giorgio Caproni (1960) al Paese guasto di Giovanni Giudici (1982), e analogamente per la versione francese La terre gaste, che era già nel Perceval di Chrétien de Troyes, antecedente dello stesso Dante. Già Renato Poggioli aveva segnalato nel 1955 il parallelo fra il Waste Land e il paese guasto, ma per concludere che, data la testimonianza di Eliot, doveva trattarsi di una mera coincidenza. Più sospettamente, una poesia intitolata Waste Land, di Madison Cawein, era uscita nel 1913 su una rivista che Eliot doveva aver visto.
Insomma, sono andato dietro alla vicenda del titolo, e poi finalmente mi sono messo a rileggere il poemetto. Fino al verso 243, dove un participio passato mi ha fatto sobbalzare. Sono i celebri versi in cui parla Tiresia, cieco e veggente, vecchio che è stato uomo e donna: «la figura più importante del poemetto - annota Eliot - colui che salda in unità il tutto...». I vv. 243-246 dicono dunque: «And I Tiresias have foresuffered all / Enacted on this same divan or bed; / I who have sat by Thebes below the wall / And walked among the lowest of the dead».
È il foresuffered che mi ha fatto sobbalzare. Qualche verso prima Tiresia ha detto: «I... perceived the scene, and foretold the rest». Osservai la scena, e predissi il resto. Foresuffered è dunque calcato su Foretold. Ma mentre foretell è un normale composto, esattamente come predire, foresuffer non lo è, esattamente come presoffrire. Se non sbaglio, non troverete in un vocabolario inglese foresuffer, così come non trovate in un vocabolario italiano presoffrire. Più singolare è che non troviate nei vocabolari italiani (ancora) neanche il lemma presofferto, nonostante la sua vasta ricorrenza nella neolingua giudiziaria e penitenziaria. È questo il movente della mia curiosità: ci torno fra poco. Sta di fatto, intanto, che le traduzioni italiane di Eliot impiegavano già quel participio di nuovo conio: «E io, Tiresia, ho presofferto tutto, / quanto accaduto su questo letto - o divano; / io, che sedetti sotto le mura, a Tebe, / e camminai tra i più miseri dei morti».
Fuori dalla neolingua penale, il paio di usi di presofferto che ho incontrato grazie a Google sono citazioni di Eliot, dirette («se tutto, come per il Tiresia eliotiano, era già stato presofferto», Luca Guerneri) o indirette (Rimbaud «aveva precompreso tutto questo. Aveva presofferto questa loro, e nostra, condizione», Davide Rondoni).
La sequenza foretold-foresuffered è molto bella. Fissa, benché il lessico non l´abbia finora riconosciuta, l´associazione fra predire e presoffrire - veder prima e soffrire prima. Antivedere il futuro è soffrire - non solo per Cassandra. Ancora, il beniamino (o il dannato) degli dèi capace di prevedere il futuro proprio e altrui è destinato a essere solo fra i suoi simili, e dunque a soffrire in anticipo e solitudine. Solo come Gesù nell´orto dei Getsemani. Preveggenza, sofferenza e solitudine si saldano insieme. Condizione che non appartiene solo al profeta, ma anche all´eroe che avverta il proprio destino, o che ne abbia avuto la rivelazione.
Cercando altre occorrenze di foresuffered ho trovato un breve saggio di Dorothea Martens sui problemi della traduzione (Transverse, Toronto 2007) imperniato su alcuni versi dell´Eneide tradotti dal poeta irlandese, e Nobel per la letteratura 1995, Seamus Heaney. Sono i vv. 103-5 del libro VI, è Enea che parla, e risponde alla Sibilla cumana, che gli ha predetto le pene e gli spaventevoli enigmi prima dell´arrivo fatale al Lazio: «Non ulla laborum, / o virgo, nova mi facies inopinave surgit; / omnia praecepi atque animo mecum ante peregi». Userò la traduzione, odorosa di stampa, di Vittorio Sermonti (Rizzoli): «Non c´è pena al mondo, / vergine, che mi si profili nuova o imprevedibile: / a tutto mi vedi disposto, e nel pensiero ho visto già tutto». (Però voglio citare anche l´antica versione di Annibal Caro, non solo per fedeltà di scolaro: «Vergine, a me nulla si mostra omai / faccia né di fatica né d´affanno, / che mi sia nuova, o non pensata in prima. / Tutto ho previsto, tutto ho presentito, / che da te m´è predetto; e tutto io sono a soffrir preparato». Il manierismo del Caro non si perita di triplicare il tutto, né di quadruplicare il prae: previsto... presentito... predetto... preparato. Tuttavia l´endecasillabo Tutto ho previsto, tutto ho presentito ha una bella forza, e l´ultimo verso, abusivo, introduce comunque la parola soffrire, che qui ci interessa).
Che cosa fa, in una raccolta uscita nel 1991, Seamus Heaney? Un vero colpo di teatro: «Heroic Aeneas began: "No ordeal, O Priestess, / That you can imagine would ever surprise me / For already I have foreseen and foresuffered all"».
Heaney dunque estrae l´invenzione che Eliot ha messo in bocca a Tiresia, e la presta all´eroico Enea. Così facendo conia un verso bellissimo, riproduce - nella f - l´allitterazione della p nell´originale virgiliano, e condensa in una stessa riga i due verbi affini, che in Eliot erano staccati di alcuni versi: foresee (in Eliot era foretell) e foresuffer. La Martens (con altri) indica un´ulteriore affinità fra Tiresia ed Enea: nel libro XI dell´Odissea Ulisse incontra agli inferi Tiresia, che gli profetizza le sciagure che ancora lo attendono prima del ritorno a Itaca e la vendetta sui pretendenti. La discesa agli inferi di Enea corrisponde a quella di Ulisse. Dunque Heaney annoda con un unico filo i tre episodi, il Tiresia di Omero, l´Enea virgiliano, e il Tiresia di Eliot. Così il modernissimo foresuffered viene retrodatato fino al secolo di Virgilio, che pure non disponeva di un composto, e aveva staccato ante e peregi.
Vedo che alcuni studiosi autorevoli hanno ragionevolmente evitato di prendere alla lettera le note esplicative di Eliot (aggiunte nell´edizione in volume 1922: la prima pubblicazione era venuta su due riviste) e hanno per esempio insistito sulla parentela fra il Tiresia eliotiano ed Enea, e in generale sull´influenza dell´Eneide, oltre che del Virgilio dantesco, sul poemetto. (Eliot aveva dichiarato fin da studente di sentirsi «con Virgilio più a suo agio che con Omero»). Non ho letto questi studi, e dunque non so se vi si sia osservato un altro forte legame fra Eliot e Virgilio, che mette assieme l´appendice esplicativa di Eliot con la deduzione degli studiosi. Eliot scrive infatti: «Un debito di carattere generale ho anche nei confronti di un´altra opera di antropologia, un´opera che ha profondamente influenzato la nostra generazione, voglio dire The Golden Bough...».
Il ramo d´oro di J. G. Frazer (1890), di cui uscì nel 1922 l´edizione abbreviata (tradotta in italiano da Lauro De Bosis, Boringhieri, in tre volumi), si ispira proprio all´Eneide. Più esattamente, a un commento di Servio all´Eneide che assimila il ramo d´oro al vischio: e proprio nel libro VI avviene il ritrovamento profetizzato del ramo d´oro, che varrà a Enea l´accompagnamento della Sibilla all´Averno. Dunque Eliot ha incontrato l´eroe Enea in quel libro VI, e l´ha reincontrato nella colossale opera di Frazer. Si può immaginare che il verso del suo Tiresia, And I Tiresias have foresuffered all, abbia già adattato l´Enea del omnia praecepi atque animo mecum ante peregi, come potrebbe confermare la prima persona e la corrispondenza omnia-all. Naturalmente, rendere ante peregi con foresuffered è un´iniziativa risoluta, ma non impensabile, come mostra la traduzione di Heaney. Traduzione di ritorno? Cioè: Eliot sarebbe andato da Virgilio a Tiresia per fare di Tiresia l´eterno Enea e il proprio alter ego del 1921, e Seamus Heaney sarebbe tornato nel 1991 da Eliot all´eterno Enea e a Virgilio?
Filippo Maria Pontani mi spiega che l´idea del foresuffering ha un precedente in greco, la famiglia che ruota attorno al verbo propaxein, «soffrire prima», o in senso meramente materiale temporale (così per es. in Paolo, epist. Thess., propathontes, che la vulgata stacca in ante passi), o in senso di «sintomi» (anche di malattia), di «anticipazioni», di «sofferenza preventiva» (per es. in Tucidide). C´è anche una «pregioia», bella in particolare nella definizione della speranza di Filone Alessandrino (I sec.): elpis esti propatheia tis, xara pro xaras, agathon ousa prosdokia, «la speranza è una forma di pre-patia, gioia prima della gioia, in quanto è attesa di bene». Quanto a me, so che questo foresuffered, ignorato dai vocabolari ma diventato frequente nel discorso letterario anglosassone (nei poeti e nei critici ma anche nelle canzoni: She has foresuffered it all, Pruf/rock progressive metal aus Aachen...), esatto corrispondente del nostro presofferto, vale a riscattarne lo squallore. Anni fa avevo ironizzato sulla neolingua: «C´è un´altra espressione di conio riformatore così pazzesca che quando la sento la prima volta non credo alle mie orecchie: poi scopro che è lessico ministeriale e legale. La pronuncia un mio compagno di passeggiata, illustrandomi la sua storia carceraria: "Ho un presofferto di nove anni...". Scusa...? Che cos´è un presofferto? È la pena già scontata. Il presofferto; come il pregresso, o il precotto. Anche la sofferenza - nove anni di sofferenza, 365 giorni all´anno - è diventata impronunciabile. Potrebbe essere un tempo del verbo; l´imperfetto, il passato prossimo, il presofferto, il trapassato». Ecco: ora la parola è riscattata, e con lei tutto il tempo passato.

Corriere della Sera 8.6.07
Ezra Pound. Sei pagine per l'Fbi con il sigillo «secret»


Il 7 maggio 1945 Ezra Pound, arrestato dai partigiani a Rapallo e affidato al comando Usa di Genova, è sottoposto a interrogatorio. Su di lui pende l'accusa di tradimento, per aver trasmesso da Radio Roma propaganda antiamericana: imputazione che aveva tentato di confutare già nel '43, con una lettera all'avvocato generale degli Stati Uniti, Francis Biddle. Ora, davanti a Frank Amprim, agente Fbi, e a Ramon Arrizabalaga, del controspionaggio militare, condensa in sei pagine la propria autodifesa. Un testo sepolto per mezzo secolo negli archivi di Washington con il sigillo «secret». Una deposizione — inedita in Italia, di cui pubblichiamo ampi stralci — nella quale Pound riassume ciò che pensa della guerra, illustra i suoi rapporti con il fascismo, rinnova le critiche a Roosevelt. Un documento importante perché il poeta non avrà la possibilità di spiegarsi davvero in un processo. Dichiarato «spiritualmente confuso e incompetente a difendersi», sarà di fatto condannato alla follia e segregato 13 anni in un manicomio criminale.
Il tono della ricostruzione che l'autore dei Cantos verbalizza è quello di chi non si sente colpevole di nulla e nulla nasconde. Così elenca date, luoghi, persone che pure potrebbero comprometterlo. Per sgombrare il «reato connesso» di aver aiutato il regime finanziandolo, dice d'aver investito i risparmi in Buoni del Littorio, quale «contributo al buon lavoro di Mussolini». Racconta d'averlo incontrato nel '29, per illustrargli un suo saggio su Cavalcanti, e se pure lo affascinavano le personalità forti, giudicò sempre necessario «elevarlo» («I tried to educate him», ripeteva).
Aggiunge di avergli fatto arrivare, nel biennio di Salò, un «piano per il finanziamento del governo»: piano che il segretario del dittatore definirà in un appunto «strampalato, concepito da una mente nebbiosa, sprovvista di ogni senso della realtà». Il progetto delle trasmissioni rivolte a Usa e Gran Bretagna è suo, fondato sulla «libertà di parola» assicuratagli dal ministro della Cultura Popolare, che agli inizi lo ha però censurato. Rivendica ciò che è andato in onda a proprio nome o con pseudonimi vari, da lui stesso indicati. Non ha «mai preso la tessera» del partito né firmato contratti, mentre ha accettato compensi quasi a titolo di rimborso, e indica cifre e banche. Non lo sfiora il sospetto di aver tradito l'America. Ritiene di aver esercitato un «diritto alla protesta» garantito dalla Costituzione Usa, battendosi per cambiare «un sistema che genera una guerra dopo l'altra», e di aver creato un utile «precedente» (lo sostiene anche Piero Sanavio, che lo ha emancipato «da sinistra» dall'elenco degli autori proibiti). La sua dottrina economico-politica? Ne accenna citando le utopie del nonno, che era stato governatore del Wisconsin: una versione radicale delle teorie della «moneta prescrittibile» di Silvio Gesell e di quella del «social credit» di C. H. Douglas, un no global ante-litteram. È il crogiuolo in cui ribolle la sua collera contro l'usura, «il denaro che produce denaro», per la quale aveva scagliato anatemi contro «i circuiti finanziari dominati dagli ebrei». Temi che si ritrovano, tutti, nella babelica struttura dei Cantos.

Corriere della Sera 8.6.07
Ezra Pound le mie verità
«Ho finanziato il duce e criticato gli Usa, ma non sono traditore»

Il mio nome completo è Ezra Loomis Pound. Sono cittadino americano. Non ho mai rinunciato alla cittadinanza americana. Sono nato a Hailey, Idaho, Usa, il 30 ottobre 1885. Ho vissuto negli Stati Uniti fino al 1908, quando mi sono trasferito a Londra, dove ho vissuto fino al 1920, lavorando come scrittore. Dal 1920 al 1924 ho vissuto a Parigi, dove ho composto l'opera Villon, e ho scritto recensioni di arte e musica. Nel 1924 mi sono trasferito a Rapallo, dove ho vissuto fino al maggio del 1944. Mi sono quindi trasferito a Sant'Ambrogio di Rapallo 60, mio attuale indirizzo.
Durante il mio soggiorno in Europa sono stato spesso in Italia e, dopo l'ultima guerra, ho notato il rinnovamento del Paese attuato dal fascismo. Mia moglie ed io abbiamo comprato 25.000 lire a testa di Buoni del Littorio... Il mio scopo era dare a Mussolini un «giusto contributo», sostenendo il suo buon lavoro. Verso il 1929 ho avuto un'udienza con Mussolini, che conosceva il mio libro Cavalcanti, che gli avevo donato l'anno precedente. Voleva che gli parlassi del libro. Nel 1929 circa ho rilasciato un'intervista a Francesco Monotti del giornale «Lavoro Fascista». In quest'intervista ho detto che l'Inghilterra era morta e lasciava i cadaveri in strada; che la Francia era morta ma aveva avuto la decenza di seppellire i morti; che l'Italia era l'unico fra questi tre Paesi dove vi fosse qualche vitalità.
Nel 1935 è stato pubblicato il mio libro Jefferson e Mussolini, in cui affermavo che il fascismo era il New Deal di Mussolini per l'Italia e contrapponevo il suo metodo a quello di Jefferson. Nel 1939 ho preso contatto con il ministero della Cultura Popolare, durante un viaggio a Roma. In quell'occasione ho incontrato il ministro Pavolini. Gli ho consegnato cinque proposte... Il punto che più lo interessava era il quinto, in cui suggerivo di parlare dalla radio agli americani, per illustrare il buon lavoro che Mussolini aveva fatto in Italia. Nella primavera del 1940 sono stato invitato dal signor Interlandi, e poi dal signor Paresce, ad andare a Roma per discutere la mia proposta e ho chiesto se potevo parlare agli americani e agli inglesi... Mi sono state concesse due trasmissioni alla settimana destinate agli Stati Uniti e una alla settimana all'Inghilterra... Ho cominciato a parlare alla radio verso l'estate del 1940. Ho sempre cercato di avere più tempo per poter trasmettere le mie idee... All'inizio, per un periodo molto breve, ho parlato alla radio in diretta, ma una volta, nel 1940, alla fine del mio discorso ho fatto considerazioni che non erano state scritte... Dopo quell'incidente mi è stato ordinato di registrare gli interventi su un disco, ed era poi questo disco ad essere trasmesso...
Alcune delle trasmissioni di cui ho parlato erano fatte a mio nome. Iniziavo dicendo «Europe calling - Ezra Pound speaking», qui l'Europa, parla Ezra Pound. Nel 1942 ho inventato un personaggio chiamato «Imperialista americano»... Smisi di lavorare all'Eiar perché Badoglio mi cacciò. Tuttavia tra luglio e settembre 1943 ho mandato al principe Ranieri di San Faustino, del ministero della Cultura Popolare, quattro o cinque testi sotto il nome di «Piero Mazda». Lui li ha fatti trasmettere. (...) Nell'autunno '43 alcuni fascisti formarono un nuovo partito nell'Italia settentrionale, Alessandro Pavolini assunse la carica di segretario del nuovo partito, che divenne poi il governo fascista repubblicano. Più tardi scrissi a Pavolini e lui mi invitò ad andare al Nord, se ci riuscivo, e io accettai. A Salò non ho potuto vedere Pavolini, ma ho visto Fernando Mezzasoma, che era diventato ministro della Cultura Popolare... Mezzasoma mi ha lasciato andare a Milano, poiché gli ho detto che anche se l'Italia cadeva io dovevo continuare la mia personale propaganda economica, sul rispetto cioè della clausola sulla moneta della Costituzione degli Stati Uniti, per la quale mio nonno aveva combattuto nel 1878, dicendo le stesse cose che dicevo io. Sono andato a Milano... e ho trovato che la radio fascista repubblicana funzionava male, con pochi uomini onesti che volevano una stazione radio e altri arroganti che la sabotavano, nessuno libero dal controllo tedesco... A Roma avevo incontrato un certo Carl Goedel, della sezione inglese dell'Eiar nel 1942 e '43. Ho incontrato Goedel di nuovo a Milano... Ho rifiutato di trasmettere rivolgendomi alle truppe americane e non mi è stata fatta nessuna pressione...
Da maggio a settembre del 1944 ho mandato dei pezzi alla radio fascista repubblicana... Quando volevo che il mio nome risultasse o fosse usato, scrivevo i pezzi in forma di interviste con me stesso... Verso il settembre 1944 ho cominciato a inviare dei pezzi brevi a Goedel. I pezzi mandati a Goedel e quelli inviati a Milano... seguivano le stesse linee dei miei discorsi radio del 1942 e 1943... Ho mandato il mio ultimo pezzo tre settimane fa... Non ho mai sentito i pezzi che ho inviato a Goedel.
L'ultima cosa che mi è stata detta è stata: «Goedel usa la tua roba a modo suo»... Credo di aver avuto buone ragioni nel continuare a criticare il presidente Roosevelt dopo che gli Stati Uniti, nel dicembre 1941, sono entrati in guerra. Ammetto che nelle mie trasmissioni del 1942 e '43 all'Eiar ho accusato i finanzieri internazionali di New York e di altre parti del mondo di aver complottato per trascinare gli Stati Uniti nella guerra attuale... L'impero britannico era un vero schifo. Non sono mai stato membro del partito fascista, ma ho fatto, a volte, il saluto fascista. Dopo che il governo fascista italiano ha dichiarato guerra contro gli Stati Uniti, ho detto nei miei discorsi che gli Usa si stavano mettendo in un mare di debiti e che dovevano subito uscire dalla guerra. Stavo creando un precedente a favore della libertà di parola. Penso che i miei discorsi facessero male ai peggiori nemici degli Usa... Ammetto di aver detto, nei miei discorsi radiofonici dopo l'8 dicembre 1941, che il presidente Roosevelt doveva essere visitato da uno psichiatra perché sembrava lottare contro influssi di tipo ipnotico.
Nell'autunno 1943 (...) ho preso contatti con Pellegrini, che era ministro delle Finanze, e gli ho presentato il mio piano per il finanziamento del nuovo governo. Ho suggerito a Mezzasoma di presentare agli italiani libri come «Banker's Conspiracy» di Kitson o «L'imperialismo» di Lenin... Gli accordi in base ai quali parlavo alla radio erano che non mi fosse chiesto di dire nulla di contrario alla mia coscienza o ai miei doveri di cittadino americano.
Lo si disse più di una volta in trasmissione, dando anche una definizione piuttosto forzata di fascismo, in cui si sosteneva che la cosa era in accordo con i princìpi fascisti secondo i quali doveva esservi libera espressione per le opinioni di chi era qualificato ad avere un'opinione. Mi sono sempre opposto a certe «zone grigie» dell'opportunismo fascista, definendo il fascismo in modo da adattarlo alle mie opinioni. Questo atteggiamento è chiamato «linguaggio esopico» da un politico eminente come Lenin... Sono disposto a ritornare negli Stati Uniti e a subire un processo per l'accusa di tradimento nei confronti degli Stati Uniti...
(Traduzione di Maria Sepa)



Corriere della Sera 8.6.07
Addio al «pillolo» per uomini Le aziende : non c'è mercato
Sospesa la sperimentazione. Continuerà l'Oms da sola
di Margherita De Bac


ROMA — È una storia infinita, dall'epilogo finora rinviato di anno in anno. Ma continua a piacere per la suggestione esercitata da un rimedio nato ad uso e consumo della donna, che in teoria poteva essere passato all'altro sesso. Così si spiega il risalto con cui ieri un giornale tedesco ha annunciato la decisione dell'azienda Bayer di interrompere il progetto di ricerca sul pillolo per uomo. Bloccati gli studi preliminari, ha confermato l'industria. Ulteriori particolari, viene chiarito sul sito, il 19 giugno.
SEGRETO — La portavoce mantiene il segreto: «Solo allora spiegheremo il perché di questa svolta. Non c'è da contare sull'introduzione del prodotto nel mercato per i prossimi anni». L'arrivo dell'anticoncezionale era stato dato per probabile per il 2005 e poi rinviato al 2009. Resta sorpresa Cristina Meriggiola, ricercatrice della clinica ostetrica e centro di salute sessuale del Sant'Orsola, a Bologna. È appena tornata da Toronto, sede del congresso della società internazionale di endocrinologia: «I colleghi di Bayer non hanno accennato alla novità. Ma per noi non cambia nulla. Andiamo avanti, crediamo di poter mettere a punto un farmaco». Che succede allora? «Suppongo che l'industria non abbia ritenuto comunque redditizio il prodotto sul piano commerciale, perché avrebbe occupato una piccola nicchia di mercato. Ma ciò non significa che la sperimentazione non debba procedere». Una decina di centri europei e asiatici continueranno a provare gli stessi composti, ma sotto l'egida dell'Organizzazione mondiale della Sanità. Si tratta di due ormoni, il progestinico noretisterone enantato e il testosterone undecanoato.
Dire pillolo è improprio. In realtà il tipo di somministrazione non è orale, ma per inoculazione. Una puntura ogni due mesi sul gluteo. La prima fase dei test su un centinaio di candidati è finita positivamente.
COPPIE — Nel 98% dei casi si è ottenuto l'azzeramento degli spermatozoi. Ora si passa alle coppie. Il sistema di valutazione? Si conteranno le gravidanze. Per l'avvio della nuova fase non ci sono date più sicure. Il comitato di bioetica del centro bolognese deve dare il via libera. Altre formule di pillolo non avevano trovato fortuna. Organon aveva già rinunciato alla verifica dell'efficacia di un cerino subcutaneo da infilare nel braccio.
PREGIUDIZI — La comunità scientifica si chiede se un contraccettivo per lui pur funzionando bene troverebbe una buona accoglienza in una società tradizionalmente abituata a demandare alla donna i problemi della vita riproduttiva.
L'andrologo Ermanno Greco, European Hospital di Roma, non crede che il pillolo troverebbe un ambiente favorevole: «Per molti maschi l'infertilità significa impotenza. Per non parlare delle difficoltà determinate dal dover intervenire su un processo continuo, la spermatogenesi, e non ciclico come l'ovulazione della donna».

tre lettere a il manifesto dell'8 giugno 2007
della seconda - che è stata tagliata dalla redazione del "quotidiano comunista" - pubblichiamo anche la versione originale, precedente quei tagli

l'articolo sull'evento apparso su il manifesto del 1 giugno e firmato da Ida Dominijanni e il box contiguo -sullo stesso quotidiano- a proposito di left invece sono disponibili da qui
lettere@ilmanifesto.it

Piccole e grandi inesattezze
Scrivo in risposta all'articolo di Ida Dominijanni, e al box che l'accompagnava, sulla nuova rivista di Bertinotti e l'Analisi collettiva di Massimo Fagioli (il manifesto 1° giugno). Perché tante malevole inesattezze? Piccole e grandi. Le piccole e maliziose sono tutte nel box: Left verso lo sciopero? Siete meglio informati di me, come evidenzia il fatto che il comunicato sindacale l'avete ricevuto prima della sua pubblicazione. Alla faccia di chi, in redazione, sostiene di lavorare per un clima costruttivo. L'altra è che per Bertinotti la presenza dello psichiatra Fagioli sia una «sgradevole sorpresa». Ma come? Se accoglie l'invito dell'Analisi collettiva perché sarebbe una sgradita sorpresa? L'unica cosa sgradita, ma non sorpresa certo, sarà il modo in cui trattate l'evento. L'altra bugia (o inesattezza?) è che Fagioli sia l'inventore della testata Left. Left è un acronimo, una trovata, azzeccata o meno, del sottoscritto. Raccontata e spiegata nel primo numero dell'anno scorso. Per quanto riguarda me, avete dimenticato un sacco di cose: è vero che faccio il direttore editoriale, e scrivo pure (ma non lo fa pure il vostro direttore editoriale?). Non un vezzo o un'imposizione, ma una necessità in una cooperativa piccola come la nostra. Avete dimenticato comunque che oltre a scrivere porto i caffè, i panini per il pranzo se serve, e che distribuisco Left alle manifestazioni importanti (Vicenza, quella a piazza Farnese per i Dico, quella contro la precarietà, quella sulla laicità a piazza Navona). Se vi interessa quello che faccio, almeno raccontatelo bene! Rispetto all'articolo di Ida mi preme ribadire due cose: 1. che descrivere l'Analisi collettiva come esperienza della sinistra extra-parlamentare degli anni '70 è vecchio, vecchissimo e, soprattutto, errato. Se Ida fosse venuta all'Auditorium avrebbe visto che la metà dei partecipanti non era neanche nata negli anni '70. Sono giovani e giovanissimi; 2. questa attenzione della sinistra per la ricerca sull'inconscio è benvenuta da Ida. Va bene. Basta che non coinvolga l'Analisi collettiva. Ma vi pare una cosa di sinistra? Come si fa a descrivere «militanti senza identità» migliaia di uomini e donne che fanno quel tipo di ricerca? Possibile che l'identità la dobbiate decidere voi e che questa debba essere per forza legata alla psicanalisi? Ma noi di sinistra non ci battevamo per l'inclusione e il dialogo tra le culture? E poi, a parte il razzismo verso i compagni dell'Analisi collettiva, si legge nel pezzo il terrore che questo lavoro addirittura «attecchisca» sui militanti della sinistra senza identità di oggi. Una versione educata dei «coglioni» di sinistra di Berlusconi? L'identità, cara Ida, ognuno se la sceglie e costruisce come vuole. Diversa non vuol dire inesistente o sbagliata. Questo lo pensa solo Ratzinger.
Luca Bonaccorsi, direttore editoriale Left-avvenimenti

Identità ritrovata
Vorrei cercare di rispondere alla domanda con cui Ida Dominijanni chiude il suo articolo sull'incontro tra L'Analisi collettiva e Fausto Bertinotti, al quale ho partecipato. Ho 30 anni e vivo tra Roma e Parigi, dove mi occupo di fotografia e cimena. Sono andato la prima volta ai seminari del prof. Fagioli nel 2001 e non è stato facile, proprio perché per partecipare e riuscire a seguire quella ricerca c'era e c'è bisogno di avere una certa identità, direi umana, sana, cosa che io non avevo. Oggi posso dire che ero malato e sono andato lì per curarmi. Dopo una psicoterapia individuale fagioliana in cui mi sono curato sono riuscito a trovare la forza per tornarci, e oggi non senza difficoltà riesco a seguire il filo della ricerca, che va avanti, e che cerco di legare alla mia ricerca personale sulle immagini, nel cinema e nella fotografia. Ora vorrei raccontare tre fatti personali: sono riuscito a lavorare come attore protagonista in un film diretto da E. Olmi, A. Kiarostami e K. Loach che abbiamo presentato al festival di Berlino nel 2005, su quell'esperienza ho appena pubblicato il mio primo libro e forse oggi, per la prima volta, sto riuscendo a vivere una bella storia d'amore con una donna, tutte cose che sono riuscito a fare grazie alla teoria della nascita di Fagioli, e che lego alla mia identità più profonda, quell'identità che anni fa non avevo, perché avevo perduto, e che poi ho recuperato. E' vero che molti di noi erano senza identità e che molti altri la stanno cercando, ma dal '75 le cose sono cambiate. Vorrei allora chiudere ricordando a Ida Dominijanni che Massimo Fagioli è uno psichiatra, che lavora per curare la malattia mentale, e le farei così una domanda, partendo da tutti gli articoli apparsi sabato sui giornali e dalle dichiarazioni del presidente della camera: davvero è possibile pensare e dire che Bertinotti stia portando avanti da tre anni un confronto sulla non violenza, sul socialismo, sulla storia, sulla psichiatria e l'identità umana con duemila persone senza identità?!
Filippo Trojano

Inghippo mediatico
Gentile Ida Dominijanni, grazie per essere andata dritta al nodo del problema con il suo articolo sull'incontro tra Bertinotti e Analisi collettiva. Grazie perché c'è bisogno di andare a vedere cosa c'è dietro questo inghippo mediatico (il terzo della serie) messo in opera da Bertinotti e Fagioli, con i buoni uffici di Left. In effetti, quel migliaio di persone composte e plaudenti sono in grado di suscitare le brame di più di un intellettuale o di un politico in cerca di masse ormai latitanti o poco disciplinate. Sono la vera notizia, ossia la mercanzia in offerta (le anime morte di Gogol?). Dei contenuti, però, neanche l'ombra, a essere buoni. A essere cattivi, fa un po' scalpore che Bertinotti al suo terzo incontro, dunque ormai bene edotto dei retroscena di tutta la faccenda, tiri affettuosamente le orecchie alla platea e al suo mentore dichiarando che la politica ha una sua autonomia, che non può derivare da una teoria o filosofia pena il rischio di fondamentalismo, che non si fanno le pulci alla storia, che la non violenza implica un profondo rispetto per le opinioni diverse dalle proprie. Ma allora perché andare da Fagioli che da anni sostiene, nella pratica, tutto il contrario? Perché andare dai «fagiolini», ancora sotto tutela dopo più di 30 anni, che possono stare a sentire e applaudire certi discorsi giusto se a farli è «la terza carica dello stato», ma mai e poi mai ospiterebbero opinioni del genere nate al loro interno e spontaneamente espresse senza stigmatizzarle come malattia grave? Appena Bertinotti non sarà più utile si beccherà anche lui una diagnosi, come tutti (e sottolineo tutti) i malcapitati in cerca di una platea che nel corso del tempo si sono avvicendati sul palco dell'analisi collettiva, gruppo che un solo cenno del leader può spostare a suo piacimento. Che c'entrano la democrazia, il pluralismo, la cultura socialista con tutto questo?
Valerio Martini

Speriamo che questi chiarimenti possano essere utili a Luca Bonaccorsi nella sua carriera di editore: 1. quando una redazione dichiara lo stato di agitazione vuol dire che «non esclude» lo sciopero. La notizia l'abbiamo appresa dalle agenzie di stampa, non da infedeli annidati tra i suoi giornalisti. Si rilassi. 2. La «sgradevole sorpresa» cui fa riferimento il box (20 righe in tutto) è chiaramente il fatto che il lancio della nuova rivista sia coinciso con una protesta sindacale. 3. Che sia Fagioli l'artefice della testata Left l'abbiamo letto su Left, il 23 febbraio 2006, secondo numero della nuova serie, pagine 74 e 75. A firma Massimo Fagioli. 4. Bonaccorsi lasci stare il manifesto che è una vera cooperativa di giornalisti. Può bastare l'esempio di un settimanale o un quotidiano qualsiasi. Dove l'amministratore delegato, cioè l'editore, nemmeno entra in redazione. Ma è questione di gusti. Magari Bonaccorsi non vede l'ora che Carlo De Benedetti intervisti Prodi sull''Espresso o Paolo Berlusconi Silvio sul Giornale. Nessun problema invece per i panini e i caffé.
andrea fabozzi

Caro Bonaccorsi, caro Trojano, bersaglio sbagliato: i «militanti senza identità» del mio articolo erano, con ogni evidenza, quelli della sinistra in crisi di oggi, non i fruitori dell'Analisi collettiva che a me non verrebbe mai in mente di definire «militanti» come - prendo atto - fate voi. Che la terapia individuale e collettiva del prof. Fagioli ottenga risultati eccellenti - ancorché assai controversi, com'è chiaro dalla lettera di Martini - non può che rallegrarmi. Sul piano terapeutico non sta a me giudicarla e infatti, pur pensandone male, mi sono sempre astenuta dal farlo, ben sapendo che è solo dall'interno che una psicoterapia può essere valutata. Quando però una pratica psicoterapeutica si salda con una pratica politica, le cose cambiano: entrambe si espongono al giudizio pubblico e il giudizio è non solo lecito ma dovuto. Com'è non solo lecito ma dovuto il paragone con i precedenti degli anni Settanta: ci sono casi in cui repetita non juvant, e questo è uno.
ida dominijanni

segue la versione originale integrale della lettera inviata a il manifesto da Filippo Trojano e che la redazione ha pubblicato dopo averla tagliata:
Cara redazione, scrivo questa lettera per tentare di rispondere alla domanda con cui Ida Dominijanni concludeva il suo articolo di venerdì 1 giugno sull'incontro all'auditorium di Roma tra il presidente della camera Bertinotti e L'Analisi Collettiva al quale ho partecipato.
Confesso che non è semplice rispondere, perchè il quesito riguarda una questione delicata, come quella della propria identità, ma essendo una tra le molte persone che partecipano all'Analisi Collettiva, sento di dovere e di voler tentare. Ho 30 anni e vivo a Roma dove mi occupo di fotografia e cinema. Sono andato la prima volta ai seminari del prof. Fagioli nel 2001 e non è stato facile, proprio perchè per partecipare e riuscire a seguire quella ricerca c'era e c'è bisogno di avere una certa identità... direi umana, sana, cosa che io in quel momento non avevo. Posso dire con certezza che non stavo bene e che sono andato lì proprio per curarmi. Dopo una psicoterapia individuale e di piccolo gruppo sono riuscito a trovare la forza per tornarci, e oggi non senza difficoltà riesco a seguire il filo della ricerca, che va avanti, e che cerco anche di portare fuori, per legarla al mio lavoro sulle immagini, nel cinema e in fotografia. Ora vorrei raccontare tre fatti personali per me importanti: ho lavorato come attore protagonista in un film diretto da E. Olmi A. Kiarostami e K. Loach che abbiamo presentato al festival di Berlino nel 2005, su quell'esperienza ho appena pubblicato il mio primo libro e forse oggi, per la prima volta, stò riuscendo a vivere una bella storia d'amore con una donna, tutte cose che ho potuto fare grazie alla "Teoria della nascita" e che lego alla mia identità piu' profonda, quell'identità che anni fa non avevo, perchè l'avevo perduta e che poi ho recuperato. Quindi è vero, confermo che molti di noi erano senza identità e che molti altri curandosi la stanno cercando, perchè questo è e dovrebbe essere il senso di ogni psicoterapia, ma mi sembra un po' ingiusto sminuire e negare così il rapporto e la storia di decine di persone che con il professor Fagioli si sono curate, riuscendo proprio a superare anche una certa idea di identità, solo legata ad un'appartenenza politica di gruppo, nella quale però gli affetti erano totalmente annullati. Dal 1975 a oggi le cose sono davvero molto cambiate! Nella speranza di essere in parte riuscito a rispondere, vorrei concludere ricordando ancora una volta che M. Fagioli è un uno psichiatra e che lavora per curare la malattia mentale, e partendo da tutti gli articoli apparsi sabato sui giornali e dalle dichiarazioni del presidente della camera, farei io una domanda: Se è indubbio che Fausto Bertinotti sia un uomo con una certa identità, umana e politica, è possibile pensare e dire che stia portando avanti da tre anni un confronto sulla non violenza, sul socialismo, sulla storia, sulla psichiatria e l'identità umana con più di duemila persone tutte senza identità?!
Filippo Trojano

Left 07 24 febbraio 2006
Libera ricerca o ricerca libera?
di Massimo Fagioli


Guardo il primo numero di Left; mi soffermo alla pagina 62. Il titolo è bello, i caratteri sono fatti bene; libera ricerca è più marcato; giusto, è il soggetto. Poi però le righe dell'articolo che ho scritto sono troppo poco distanziate le une dalle altre e i caratteri sono molto piccoli. Chissà perché è stato composto su una sola pagina con una piccola fotografia; qualche riga è stata tolta. Normale tecnica giornalistica.
So che non devo cercare realtà latenti, so che il dovere di scoprire realtà latenti è chiuso nello spazio e nel tempo del setting analitico. Ma sarebbe autolesionismo se mi vietassi la sensibilità che mi permette di intuire messaggi subliminari. Allora mi permetto di sostituire il termine composto con il termine rinchiuso, ovvero: e se ci fosse un'intenzione non palese di chiudere... o peggio imprigionare la ricerca? Non potevano comporre l'articolo su due pagine? È necessaria un'immediata autocritica per non cadere nel delirio. Ritorniamo al titolo: libera ricerca, è scritto in rosso.
La ricerca dell'Analisi collettiva non è stata mai chiusa nel setting delle sedute di psicoterapia fin dal suo inizio nel 1974-75; poi si poterono osservare allusioni o insulti di alcuni giornali che dicevano che il fenomeno Analisi collettiva aveva turbato le coscienze dei benpensanti... ma anche a sinistra le coscienze non rimasero tranquille. Poi molti anni passarono, e il 5 novembre 2004 ci fu il grande incontro con Bertinotti e Ingrao, poi un altro il 26 luglio 2005.
Oppure, forse, l'Analisi collettiva era rimasta chiusa nel setting delle sedute di psicoterapia; e così compare l'angoscia che rivela il peccato e il senso di colpa. E comparsa l'idea maledetta: e se fosse stata imprigionata la teoria? Per una crisi dopo la realizzazione dell'identità mi sono lasciato andare all'amore di origine cristiana, «ama il prossimo tuo come te stesso»? Ed ho tenuto un rigoroso setting, per decenni, nonostante le violente aggressioni di certa stampa perché l'intenzione era la cura per la guarigione.
Poi, recentemente, comparvero su Liberazione articoli e lettere che non erano stupidamente offensive, al contrario chiedevano, domandavano, facevano osservazioni acute e originali e, spesso, usavano i termini realtà umana, rapporto uomo donna. Chissà cosa proponevano, cosa cercavano. Notai che, spesso, facevo difficoltà a pettinare i capelli, diventati lunghi, sembrava che volessero restare dritti. Era un segnale d'allarme? Liberazione è un giornale comunista. La parola che spaventa è "politica"? Esco dal setting della psicoterapia di gruppo ed entro (o cado?) nella politica? La parola è chiara e conosciuta, l'idea qual è?
Non conosco bene l'economia politica, ho bei stampate in mente, fin da piccolo, le parole che ora sono state scritte su Liberazione: realtà umana, rapporto uomo donna.
Politica: mi sembra che questa parola sia legata all'idea di fare le cose, legata al comportamento. Io non ho fatto mai nulla, ho avuto sempre un comportamento normale e corretto: mi sono dedicato a pensare. L'ho detto nel 1999 a Napoli e nel primo numero di Left. Ho sempre cercato di non credere mai. Ora che accade? Dovrei portare il pensare in politica? Sembra di sì. La teoria esce dal setting di psicoterapia e si propone... a sinistra. Allora la politica propone le parole, oltre la soddisfazione dei bisogni, che suonano come liberazione, emancipazione. Ma queste due splendide parole hanno le idee?
Su Liberazione ho letto, più di una volta, la confessione di un vuoto teorico (ma anche pratico) nella sinistra a proposito delle due frasi dette prima: realtà umana, rapporto uomo donna. Allora mi viene in mente di dire subito, a sinistra, che non ci sarà mai liberazione ed emancipazione se queste parole non si congiungono alle altre: realtà umana, rapporto uomo donna.
La realtà umana è, da tempo, conosciuta; l'anatomia e la fisiologia del corpo, ormai, non hanno più segreti per biologi e medici. Rapporto uomo donna? Anche questo è noto come rapporto che ha come meta il matrimonio e come scopo la procreazione. Oggi, 18 febbraio, leggo su La Repubblica una dichiarazione di Ivan Gardini, editore, «l'idea di fare un'informazione diversa, ad occhi aperti, mi piace. A questo si aggiunge la forza di alcune idee nelle quali mi riconosco e che sono alla base della nuova testata».
Ma già articoli e lettere stampati su Liberazione accennavano ad idee che apparivano come nuove. Dicevano di una realtà umana che non era stata mai pensata. Non erano scoperte che riguardavano l'anatomia e la fisiologia del corpo, dicevano di una realtà mentale che non era soltanto funzionamento neurologico dell'organo cervello ma basata sul rapporto interumano. Poi venne novembre, un articolo di Sansonetti e la mia lettera...
Chiedo scusa... sono stato interrotto da una telefonata di una ragazza che gridava: «leggi l'editoriale del primo numero di Left. Libertà, Eguaglianza, Fraternità. Dice le stesse cose della tua lettera del 26 novembre 2005, quasi con le stesse parole; rendere le parole, idee».
Leggo la prima pagina di Left. Ci sono anche altre cose: distinzione tra bisogni ed esigenze, distinzione che non c'è stata mai a sinistra. Rifiuto della violenza, laicità dello Stato, libertà delle donne di determinare ogni aspetto della propria vita.
Distinzione tra bisogni ed esigenze: mi tornano in mente le prime pagine che scrissi quaranta anni fa. Che la sinistra sia caduta su questa assenza di distinzione tra i due termini e sia rimasta ad un pensiero di realtà umana come soddisfazione dei bisogni? E l'emancipazione e la liberazione sarebbero venuti magicamente dal benessere del corpo. Sarebbe, e forse è, una tragedia teorica. Allora è chiaro: si riparte dal Settecento e dalla rivoluzione francese. Così Left, così Sansonetti.
Poi Sansonetti scrisse che avrebbe fatto un numero speciale su quelle tre parole. Non l'ho ancora visto.
Allora leggo le ultime tre righe dell'editoriale: «fateci notare i nostri errori e rimproverateci quando perdiamo la rotta». Parole? Come si possono trasformare in idee? Scavando, scavando in quelle parole che sono diverse da come sono state sempre usate anche se sembra che abbiano lo stesso suono di prima: in verità è diverso nella misura in cui sono idee: realtà umana, rapporto uomo donna.
Pertanto credo di poter pensare che non vanno scavate quelle dette da Left nel suo editoriale anche se apprezzo la fantasia di aver usato quel termine inglese che riassume nelle lettere le quattro parole. Ma... pensandoci, le parole storiche della rivoluzione francese sono tre, la quarta si trova soltanto in Marx. Ma se riprendiamo la ricerca dalla rivoluzione francese, Marx non c'è; e non c'è stato mai nelle parole realtà umana, rapporto uomo donna.
Allora la domanda che potrebbe essere un rimprovero: come si fa a trasformare le parole in idee se non c'è una ricerca e una teoria? Se non esiste una ricerca sulla realtà umana e sul rapporto uomo donna? Se non si demolisce il castello di carta straccia fatto dalle parole: la realtà umana è istinto di sopravvivenza e il rapporto uomo donna è il matrimonio religioso e la procreazione? Left ha la ricerca e la teoria?
Sinistra: nella storia della sinistra non c'è stata mai la parola esigenze. La parola trasformazione è "trasformare il mondo". Nessuno ha mai pensato di trasformare la realtà mentale umana.
Domani scriverò a Sansonetti, direttore di un quotidiano comunista. Gli chiederò perdono per non aver continuato il dibattito sul suo giornale dopo ii 24 dicembre; l'ho tradito per aver scritto su Left due volte.
Ma non mi sento tanto in colpa; ieri 17 febbraio, in prima pagina su Liberazione un articolo tenta di parlare di realtà umana. Non so se posso dire "non condivido quell'opinione" come si fa in politica, oppure posso dire che ho visto l'assenza totale di ogni pensiero sulla realtà umana: sembra che dica che la sessualità umana è uguale a quella degli echinodermi e dei molluschi. Come faccio a far pubblicare che simili discorsi (non ci sono idee) sempre gli stessi dai tempi di Platone, non hanno mai pensato che la parola sessualità sta soltanto nella realtà umana e non è fecondazione artificiale per la procreazione, come per gli animali? Come faccio a denunciare che simili discorsi sull'impossibilità del rapporto uomo donna non sono di sinistra, nella misura in cui a sinistra ci dovrebbe essere una ricerca sulla realtà umana oltre la soddisfazione dei bisogni? E penso che questa ricerca ci potrà essere soltanto nella sinistra. E ancor di più: che l'identità umana non è soltanto ragione, che la realtà mentale non conosciuta e detta irrazionale non è uno strano mostro animale. Posso aver fiducia in Left e Liberazione? E un credere? Sono caduto in una fede o è una pensata?

Riceviamo e con piacere pubblichiamo l'intervento di un amico e lettore di Left, il professor Massimo Fagioli, psichiatra e psicoterapeuta. Vogliamo raccogliere il suo invito a proseguire la ricerca sul significato delle parole chiave della Rivoluzione francese. E perché acquistino un significato vero per la sinistra gli abbiamo chiesto di scrivere per noi un approfondimento settimanale.

Liberazione 8.6.07
Hobsbawm, la sua storia dal basso senza le tentazioni del blairismo
di Derek Boothman


Lo storico e intellettuale di spicco della sinistra britannica compie domani novant'anni. Una vita intensa che copre l'arco del '900,
"Il secolo breve", per parafrasare il titolo della sua opera più famosa. Ha studiato le vicende degli imperi e del capitalismo

La storia è tra i discorsi che caratterizzano la lotta egemonica in Gran Bretagna. E il decano degli storici britannici, nonché il più grande storico marxista vivente, come alcuni lo hanno definito, è Eric Hobsbawm - tra l'altro, anche presidente onorario di "Terra Gramsci", il network della International Gramsci Society-Sardegna. Domani compierà 90 anni.
Hobsbawm fa parte di un gruppo, per motivi anagrafici ormai molto esiguo, di storici e di altri intellettuali marxisti di altissima levatura, tra cui il critico culturale Raymond Williams tanto per citarne uno, che si iscrissero al Partito Comunista britannico verso la fine degli anni ‘30 e che tanto hanno fatto per rinnovare la cultura nazionale. Nel caso degli storici marxisti, esempio emblematico fu la fondazione, in piena guerra fredda, della rivista Past and Present . Sebbene si trattasse di una pubblicazione non esclusivamente marxista, inizialmente fu snobbata dai fautori della storia "ortodossa", ma ben presto conquistò una posizione autorevole anche tra gli storici di stampo conservatore, tanto che i redattori talvolta dovettero far osservare, molto garbatamente, che alcuni articoli che tali storici sottoponevano al loro vaglio non erano congrui alla linea editoriale di una rivista progressista.
Past and Present aveva solo pochi anni di vita quando entrò in crisi l'ormai leggendario Historians' Group del Pc, che aveva contribuito a farla nascere. In un suo saggio, Hobsbawm nota che il lavoro unitario dei suoi membri, come storici e come comunisti, entrò in crisi intellettuale e morale, di fronte al discorso di Khrushchev e ai fatti di Ungheria, anche se essi furono i primi a criticare la chiusura del partito a seguito di tali eventi. Il gruppo si divise: Christopher Hill, grande storico della rivoluzione seicentesca inglese, ed E.P. Thompson, conosciuto a livello internazionale come storico della formazione della prima classe operaia dell'era industriale, lasciarono il partito; Hobsbawm, insieme a Victor Kiernan, massimo storico dell'imperialismo, come lui fieramente anti-stalinista, decise di rimanere. Tuttavia questa separazione riguardò solo la tattica da adottare, non la politica, e quindi non influì che marginalmente sui rapporti professionali e personali tra i componenti del gruppo.
La caratteristica del lavoro degli storici marxisti in Gran Bretagna è la storia from below ("dal basso"), che vede protagonista la gente: in termini gramsciani, è la storia delle classi subalterne. Hobsbawm, ad esempio, in un saggio pubblicato nel 1959 fu tra i primi storici non-italiani ad occuparsi di Davide Lazzaretti, e fu anche tra i primi marxisti britannici ad occuparsi degli scritti di Gramsci, anche se inizialmente non era a conoscenza dei paragrafi dedicati nei Quaderni del Carcere al "profeta dell'Amiata". E' stato Hobsbawm ad aver fatto nel 1958 l'unico intervento "inglese" al primo dei convegni decennali dedicati a Gramsci dall'Istituto Gramsci. E grande merito di Hobsbawm è di aver saputo, più di altri, coniugare la storia "dal basso" con i grandi temi nazionali ed internazionali - l'influsso di Gramsci è evidente, come ha testimoniato egli stesso di recente in video nelle celebrazioni del settantesimo anniversario della morte indette da International Gramsci Society e Fondazione Istituto Gramsci.
Nel periodo a cavallo degli anni ‘50 e ‘60, sotto lo pseudonimo Francis Newton, Hobsbawm curò la rubrica sul jazz per il laburista New Statesman, settimanale caro alla coscienza critica dei ceti medi laburisti. E sotto tale nome, preso in prestito dal trombettista comunista nero (il molto sottovalutato Frankie Newton, che suonava accanto alla grande Billie Holliday), pubblicò alla fine degli anni ‘50 The Jazz Scene, una delle più interessanti storie sociologiche del jazz. Originariamente espressione di gruppi subalterni, il jazz è diventato uno dei principali contributi degli Usa, anzi di una parte sociale di quel paese, alla cultura mondiale: una cultura subalterna diventata egemone.
Nella biografia di Hobsbawm c'è anche il rapporto con l'Italia. Dalle sue prime critiche allo stalinismo fino al suo scioglimento, il Pci fu per molti comunisti anti-dogmatici dell'Occidente un punto di riferimento privilegiato: i tentennamenti di Togliatti avevano meno importanza delle sue posizioni critiche e della sua autonomia di giudizio. La reputazione del Pci non poté che crescere dopo le prime traduzioni attendibili di Gramsci che, con la sua finezza di analisi, ebbe un ruolo di primo piano nel rinnovamento della cultura della sinistra. E quando i comunisti italiani fecero il loro grande balzo in avanti alla metà degli anni 70, troviamo Hobsbawm come interlocutore di Giorgio Napolitano nel libro Intervista sul Pci (The italian road to socialism nella versione anglo-americana), volume tradotto in ben dieci lingue.
Sul piano storiografico, Hobsbawm si distingue per la sua conoscenza enciclopedica e per l'ampiezza della sua visione. La sua produzione spazia dai ribelli primitivi, argomento di uno dei suoi primi libri, passando per il nazionalismo, allo studio in tre volumi del capitale e dell'impero. Infatti, dalla metà degli anni Settanta egli scrive, uno dopo l'altro, Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, Il trionfo della borghesia 1848-1875, e L'età degli imperi 1875-1914, a cui va aggiunto Il secolo breve 1914-1991 (in inglese i titoli danno il senso della visione unitaria del progetto che purtroppo manca in italiano). Nel suo insieme la trilogia, con postilla sul "secolo breve", è un lavoro strordinario di sintesi storico-culturale e, al contempo, una critica dell'esistente nelle migliori tradizioni del marxismo.
A partire dai tardi anni ‘70 Hobsbawm diventa intellettuale "pubblico" di punta, senza però una posizione formale dentro o fuori del Pc britannico. Il suo nome, assieme a quello di Stuart Hall e di Martin Jacques, direttore del mensile comunista Marxism Today, compare spesso come protagonista nel dibattito degli anni ‘80 sullo scacco subìto dal movimento operaio. Dalla prospettiva acquisita da storico, Hobsbawm, diversamente da alcuni dirigenti sindacali e politici di sinistra, intravvide e capì che la politica reaganiana e quella thatcheriana rappresentavano una svolta storica. Purtroppo i "rinnovatori" raggruppati intorno ai nomi di Jacques, Hall e Hobsbawm devono fare i conti con il fatto che alcuni giovani intellettuali dell'ultima leva, tra cui militanti seppure per poco tra le fila del Partito comunista, hanno fornito le giustificazioni per la politica blairista.
Va da sé che Hobsbawm e gli altri storici ed intellettuali britannici di altre discipline (Hill, Thompson, Kiernan, Williams e via dicendo) sono stati sempre, e non poteva che essere così, politicamente minoritari nel proprio paese. Hobsbawm in particolare è stato oggetto di non pochi attacchi dalla destra, che non gli ha mai perdonato la sua ininterrotta adesione al movimento operaio, progressista ed anti-imperialista. E' stata sempre ed è questa, lo si può affermare senza temere smentite, l'area politica di appartenenza di questo grande intellettuale, che ha rappresentato in molti casi un anello di congiunzione tra vecchia e nuova sinistra, riuscendo a incidere profondamente sulla cultura nazionale, risultato pregevole in un paese anglo-sassone.

Repubblica 7.6.07
E in curia pronte 36 domande di "sbattezzo"


GENOVA - Un plico con le copie di trentasei domande di «sbattezzo», inviate per raccomandata al parroco della chiesa in cui si era celebrato ogni battesimo, accompagnate da una lettera su carta intestata dell´Uaar, l´Unione degli atei, agnostici e razionalisti, e indirizzata a monsignor Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. Lo ha consegnato ieri mattina negli uffici della Curia genovese una delegazione di «sbattezzandi» guidata da Silvano Vergoli, coordinatore ligure dell´Uaar. Otto righe sulla lettera, prima dei saluti: «Vi informiamo di aver inviato alle parrocchie competenti le istanze... di cui alleghiamo per conoscenza i moduli relativi, compilati e sottoscritti da 36 cittadini residenti o domiciliati nel territorio che fa capo alla Curia di Genova, con le quali si chiede di non essere più considerati aderenti alla confessione religiosa denominata "Chiesa cattolica apostolica romana"». Trentasei domande di «sbattezzo» presentate nella curia guidata da monsignor Bagnasco, capo dei vescovi italiani, non certo come un contro-rito folkloristico, ma per dare valore politico ad un dissenso crescente verso una Chiesa troppo pressante sulle scelte dello stato laico, dicono i promotori.

Repubblica Genova 7.6.07
Spedizione in piazza Matteotti con tanto di documento su carta intestata dell'Unione atei e agnostici razionalisti
Gli "sbattezzati" bussano alla Curia
Trentasei richieste a Bagnasco: "Cancellateci dai cattolici"
di Donatella Alfonso

La pratica deve prima essere svolta alla parrocchia di appartenenza
A gennaio era nato il movimento: "Già oltre 42mila contatti e 5.900 moduli scaricati"

Appuntamento davanti alla Curia arcivescovile, per inoltrare all´Ufficio Sacramenti la documentazione dell´avvenuta richiesta di sbattezzo. La carta intestata è quella dell´Uaar, l´unione degli Atei e degli Agnostici razionalisti. Il destinatario è l´arcivescovo Angelo Bagnasco, al quale trentasei cittadini chiedono di essere cancellati dal registro dei battezzati. Si è concretizzata così la protesta anticipata tre mesi fa a Repubblica: «Vogliamo dare una testimonianza di laicità nei confronti di una Chiesa che si fa sempre più aggressiva su ogni aspetto della vita quotidiana e sulle scelte etiche in particolare». Ed essendo l´arcivescovo di Genova il presidente della Cei, portargli a casa le ricevute delle richieste di sbattezzo assume un significato politico.
La carta intestata è quella dell´Uaar, l´unione degli Atei e degli Agnostici razionalisti. Il destinatario? «All´arcivescovo di Genova Mons. Angelo Bagnasco, Curia Arcivescovile, piazza Matteotti 4». Otto righe: «Vi informiamo di aver inviato alle parrocchie competenti le istanze... di cui alleghiamo per conoscenza i moduli relativi, compilati e sottoscritti da 36 cittadini residenti o domiciliati nel territorio che fa capo alla Curia di Genova, con le quali si chiede di non essere più considerati aderenti alla confessione religiosa denominata "Chiesa cattolica apostolica romana"». «Un´ora di coda alla posta, per poter fare tutte le raccomandate», sorride Silvano Vergoli, coordinatore ligure dell´Uaar. Tre mesi fa, sull´onda di un boom di contatti sul sito www. uaar. it e di richieste di informazione sullo sbattezzo come segnale di dissenso, l´avevano anticipato a Repubblica: «Vogliamo dare una testimonianza di laicità nei confronti di una Chiesa che si fa sempre più aggressiva su ogni aspetto della vita quotidiana e sulle scelte etiche in particolare». Ed essendo l´arcivescovo di Genova il presidente della Cei, portargli a casa le ricevute delle richieste di sbattezzo assume un significato politico, dice ancora Vergoli. «Questi documenti interessano trentasei tra soci dell´Uaar o anche persone singole che hanno scaricato il modulo dal nostro sito: oltre 42 mila consultazioni dal primo gennaio e 5900 moduli scaricati. Ma ogni giorno ne arriva uno nuovo; vorrà dire che faremo un altro evento di sbattezzo pubblico in autunno. E comunque in tanti vanno avanti per proprio conto».
Appuntamento in tarda mattinata davanti alla Curia arcivescovile, per consegnare fisicamente all´Ufficio Sacramenti («me l´hanno detto al centralino della Curia») la documentazione dell´avvenuta richiesta di sbattezzo. Insieme a Vergoli, una mini-delegazione di sbattezzandi: il docente emerito di Genetica umana Franco Ajmar, il traduttore Attilio Santi, l´impiegato Carlo Guastalla («io sono già sbattezzato, mi è arrivata la conferma della ricezione della mia richiesta»), l´editrice Carla Clivio Costa, lo psicologo Bruno La Piccirella. «Alla Chiesa dovrebbe interessare sapere se i suoi fedeli sono persone fasulle o veri credenti - dice Franco Ajmar - sarebbe utile avere una statistica di chi crede davvero: in Germania pagano una quota aggiuntiva per la propria fede sulla dichiarazione dei redditi. Altro che l´otto per mille da dividere tra tutte le confessioni. E poi, lo dico da genetista: ho letto che, secondo un vescovo, avremmo nel Dna l´essere cattolici. Non è possibile, sarebbe un carattere ereditario e non mi risulta... » e sorride. «Io ero un cattolico convinto che faceva anche vita di parrocchia - racconta Attilio Santi - poi, per vicende personali, ora sono ateo. Ma soprattutto è la laicità dello Stato che è il discorso fondamentale; e non solo negli ultimi tempi anche se è indubbio che l´ingerenza della Chiesa è aumentata». Carla Clivio arriva trafelata: «Sono sempre stata laica, ma se oggi sono qui è per dimostrare il coraggio di esporsi, e dire che le nostre idee vanno rispettate così come noi rispettiamo quelle degli altri. Che non si decida in nome nostro, insomma. Il battesimo è solo un dettaglio». «Per me, vale quanto il primo bagnetto», aggiunge caustico Vergoli. E via, verso l´Ufficio dei Sacramenti.
Don Picollo, vedendo entrare la delegazione, resta perplesso: cosa vorreste? Un sussulto quando vede la richiesta collettiva di sbattezzo. «No no, andate su in cancelleria!». «Vogliono mandarci in paradiso» ironizza Ajmar. Primo piano, il bancone della cancelleria, tra quadri antichi e la felpata bellezza del palazzo curiale. L´impiegata resta a sua volta perplessa, si assenta per chiedere lumi. «La pratica è completa, vorremmo che la lettera fosse consegnata all´arcivescovo» spiega paziente il coordinatore dell´Uaar. Arriva un sacerdote, don Corrado. «Avete avvertito le vostre parrocchie? Ne arrivano altre, non è certo la prima... va bene, lasciate lì». «Vorremmo una ricevuta» insiste Vergoli. Grazie, arrivederci. Commenti? «Monsignor Bagnasco è fuori Genova per un convegno», è la risposta. E finora non risulta che chi decide di cancellarsi dagli elenchi dei battezzati venga invitato a ripensarci.