sabato 10 febbraio 2018

Repubblica 10.2.18
“Meloni cancella l’antifascismo”. Pontedera nega la piazza
Fdi chiede il gazebo ma sbianchetta il divieto di ricostituire il partito mussoliniano. Lite anche col museo Egizio
di Ernesto Ferrara


Firenze A Pontedera i suoi dirigenti “sbianchettano” dal modulo del Comune per la richiesta di un gazebo la parte sull’antifascismo e l’odio razziale, beccandosi il diniego e poi una multa. A Torino invece è direttamente la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni a puntare la buccia di banana. Si presenta sotto il museo Egizio per attaccare la promozione destinata alle coppie di lingua araba ed è direttamente il direttore Christian Greco alla fine a scendere per spiegare: «Non è che discriminiamo gli italiani, così favoriamo l’inclusione. Stiamo per lanciare una promozione per gli studenti, forse direte che discriminiamo i quarantenni? » . È stato un venerdì di inciampi per Giorgia Meloni. A Pontedera i dirigenti locali di Fdi chiedono 10 giorni fa il suolo pubblico per un gazebo adottando una strategia “ creativa”. Il Comune del pisano chiede il cosiddetto “ patentino” di antifascismo, cioè la dichiarazione che nella manifestazione non si violeranno le leggi sull’apologia di fascismo e l’istigazione all’odio razziale. Fdi cancella l’ultima parte sostenendo che basta dire che la manifestazione « non risulta in violazione di leggi nazionali » . In Comune leggono il modulo e saltano sulla sedia: « È contraffatto, inaccettabile». Scatta il diniego. Fdi invia una nuova richiesta: «Aderiamo pienamente alla Costituzione e alla Repubblica, il nostro partito siede in Parlamento. Non potete vietare il diritto di espressione». Il Comune non cede: gazebo negato. Fratelli d’Italia ieri però lo mette lo stesso e il sindaco Pd Simone Millozzi manda i vigili: 169 euro di multa. « Siamo al regime, intervenga il Capo dello Stato. E anche Minniti e Grasso » chiede Meloni, minacciando una causa. Con lei si schiera Brunetta( Fi). Al sindaco solidarietà da Pd e Leu.
il manifesto 10.2.18
Oltre il mito della rivoluzione luterana
Percorsi. Un sentiero di letture per indagare meglio cosa significò l'atto fondativo della Controriforma, alla luce delle tradizioni precedenti del Medioevo
di Marina Montesano


Si è appena chiuso l’anno nel quale convegni e pubblicazioni hanno ricordato l’anniversario dell’affissione delle 95 tesi di Lutero sul portone della chiesa di Ognissanti del castello di Wittenberg, il 31 ottobre 1517. Senonché, come già ricordava Adriano Prosperi (Lutero. Gli anni della fede, Mondadori), in base a un dibattito sulla vicenda già acceso da tempo, è probabile che questo atto fondatore non sia nemmeno mai avvenuto.
Le tesi avrebbero avuto una circolazione inizialmente meno spettacolare, all’insegna della ricerca di un accordo, cosa peraltro in linea con la personalità di Martin Lutero. Una nuova, corposa biografia del riformatore tedesco, scritta da Silvana Nitti (Lutero, Salerno, pp. 528, euro 29), ripercorre la vicenda, affermando: «Non è da escludere la possibilità che le tesi siano state effettivamente affisse al portale della chiesa che era, in quanto chiesa della residenza ufficiale dell’Elettore, fondatore e patrono dell’università, normalmente usata per gli avvisi o per il materiale didattico; una specie di bacheca dell’ateneo, insomma. Ma è certo che la critica al mito del 31 ottobre 1517 (…) resta pienamente valida proprio in quanto si tratta di un gesto niente affatto sconvolgente».
È DA TEMPO, peraltro, che la rivoluzione del luteranesimo viene riconsiderata alla luce del contesto e del fatto che la cultura del fondatore fosse in realtà ancorata nella tradizione precedente, quella che siamo soliti chiamare «medievale». Ed è quanto fa anche Silvana Nitti ripercorrendo con ordine la vicenda del teologo agostiniano sassone. La causa immediata della rivolta fu la stanchezza per la riscossione delle tasse ecclesiastiche («decime»).
MARTIN LUTERO insorse contro la corrotta Chiesa di Roma nel nome della libertà di coscienza, dell’annullamento della separazione tra chierici e laici («sacerdozio universale»), del libero esame delle Scritture contro l’autorità gerarchica ecclesiale, del valore simbolico (e non reale) dell’eucarestia.
La «fede riformata» di Lutero si precisò nel 1530 alla dieta di Augusta, nella quale, su richiesta di Carlo V, che voleva aver chiari i limiti della Riforma, il teologo Filippo Melantone presentò un documento, la Confessio Augustana, in 28 punti. Il disaccordo tra l’imperatore e i principi che avevano aderito alla Riforma si precisò nella dieta di Smalcalda, nella quale essi presentarono una loro «protesta» formale contro il sovrano. Dopo un periodo di scontri militari e di trattative, si giunse alla pace di Augusta del 1555, nella quale si stabilì il principio cuius regio, eius religio: i territori avrebbero dovuto seguire la religione del loro rispettivo principe.
ALCUNI PRINCIPI TEDESCHI accettarono infatti la Riforma proposta da Lutero, almeno in parte per incamerare i beni della Chiesa. Ma repressero con durezza i movimenti religioso-popolari e contadini (come gli anabattisti di Thomas Müntzer) che avrebbero voluto «l’avvento del Regno dei Cieli sulla terra», cioè inaugurando un nuovo ordine evangelico ed egalitario.
Riformare la Chiesa in modo da ricondurla alla purezza dell’età apostolica era stato in effetti un vecchio sogno dei cristiani. L’adagio reformare reformata («conferire di nuovo la forma corretta a quanto si è deformato») era molto popolare nel medioevo almeno fin dall’XI secolo: e molte erano state le riforme tentate, sia dalla gerarchia sia dai fedeli, nel corso dei secoli XI-XV. Ma la situazione di mondanità della Chiesa nel Quattrocento era divenuta insostenibile. I movimenti popolari e anche dottrinali del Quattrocento, soprattutto quelli guidati da John Wycliff in Inghilterra e da Jan Hus in Boemia, erano stati determinati dal disagio dello spettacolo d’una Chiesa corrotta da parte di intellettuali e fedeli che l’avrebbero invece voluta vedere povera, lontana dall’esercizio del potere mondano e della ricchezza, aderente allo spirito del Vangelo. Ma l’Inquisizione li aveva sempre repressi. La differenza, nel XVI secolo, fu data dal fatto che le condizioni generali erano ormai cambiate.
LA RIFORMA di Martin Lutero si sviluppò dunque, rispetto ai tentativi del passato, appoggiandosi agli stati e ai poteri costituiti, ma essa inaugurava anche un periodo per l’Europa fatto di guerre e crisi profonde, come mostra la lettura di Mark Greengrass, La Cristianità in frantumi, Europa 1517-1648 (Laterza, pp. 820, euro 38). In Inghilterra, Enrico VIII aveva accettato la Riforma sotto il profilo disciplinare, che gli consentiva di staccare la Chiesa d’Inghilterra dall’obbedienza al papato romano e di porla sotto il suo diretto controllo: per il resto, però, teologia e liturgia restavano quelle cattoliche.
Sotto i suoi successori Giacomo I ed Elisabetta I, la Chiesa anglicana andò progressivamente accettando influenze protestanti. Il calvinismo, fondato da Giovanni Calvino, si andò affermando in parte della Svizzera, in Scozia (dove nel 1560 il parlamento abolì il cattolicesimo per abbracciare il «presbiterianesimo» di John Knox) e in Olanda.
In Svizzera, insieme a cantoni che restavano cattolici o luterani, Ginevra fu calvinista mentre altrove si affermarono le dottrine zwingliane e quelle di Guillaume Farel. Le comunità valdesi aderirono alla Riforma. Germania, Boemia, Moravia e Ungheria si divisero tra cattolici e luterani. I gruppi riformati in Italia e in Spagna furono duramente repressi e non incontrarono appoggio a livello popolare.
Tra la metà del XVI secolo e quella del XVII l’Europa fu dilaniata da vere e proprie «guerre di religione», che si sommarono a conflitti politici e sociali. In Francia, nel 1559 un sinodo nazionale calvinista definì quella confessione (gli aderenti alla quale assunsero il nome di «ugonotti»), ch’era forte soprattutto nell’aristocrazia ed era vicina anche alla corte. Dopo alterne vicende (famosa la «Notte di San Bartolomeo», 24 agosto 1572) una vera e propria guerra civile si concluse con l’ascesa al trono di Enrico di Borbone, capo degli ugonotti, che – col nome di Enrico IV – si convertì al cattolicesimo assicurando ai suoi ex-correligionari le libertà essenziali.
LA GUERRA «dei Trent’anni» (1618-1648), nata come conflitto religioso, ma complicata dall’alleanza tra la Francia e i protestanti tedeschi, si chiuse nel 1648 con le paci di Westfalia che modellarono la mappa religiosa europea definitiva. A parte Scozia e Irlanda, dove fra Sei e Settecento le persecuzioni protestanti si dettero a massacri indiscriminati contro i cattolici, eliminandoli o quasi dalla Scozia e dall’Irlanda settentrionale. In tempi come i nostri, nei quali si prova a ricucire il rapporto fra comunità, confessioni e Chiese che sono state separate anche nel sangue, ricostruire questa storia è più importante che celebrare anniversari.
Il Fatto 9.2.18
Inchieste, Bibi gioca la carta del perseguitato
Israele - La richiesta di incriminazione sarebbe vicina, Netanyahu se la prende con gli investigatori
Inchieste, Bibi gioca la carta del perseguitato
di Roberta Zunini


Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e la moglie Sarah questa volta tremano davvero. La prossima settimana potrebbe arrivare la notizia che da almeno un anno la coppia tenta di scongiurare facendo leva sul lungo rapporto di collaborazione e amicizia fra il premier e il procuratore generale Avichai Mandelblit.
Non appena la stampa ha diffuso la notizia secondo cui la polizia potrebbe chiedere tra qualche giorno ai giudici di incriminare ufficialmente per corruzione il primo ministro, Bibi Netanyahu ha attaccato gli investigatori e il loro capo Roni Alscheich dicendosi, in un post su Facebook, “scioccato” per le sue affermazioni che ha definito “ridicole” e che “gettano un’ombra” sulle indagini stesse. L’opposizione contrattacca, il centrista Yair Lapid ha detto che le critiche alla polizia da parte di Netanyahu sono “un atto disperato”; Avi Gabbay (capo dei laburisti) ha affermato che il primo ministro “agisce come un criminale comune. Invece di chiedere una inchiesta rapida attacca la polizia minando la fiducia della gente nel sistema giudiziario”.
Tensione alle stelle e anche per il fedele Mandelblit, a questo punto, non sarà facile trovare escamotage per posticipare nuovamente la caduta dal piedistallo di Bibi e della impopolare first lady, detestata da buona parte degli israeliani anche di destra, tra i quali molti elettori del Likud (il partito conservatore di cui Netanyahu è il leader da tempo, ndr) per lo stile di vita sfarzoso, le angherie nei confronti dei collaboratori domestici e l’ossessione di apparire accanto al marito nei vertici internazionali.
Il premier è al centro di tre diverse inchieste: “caso 1000”, “caso 2000” e “caso 3000”. I poliziotti dell’Unità anticorruzione due giorni fa hanno tenuto una riunione riservata decisiva con l’ispettore generale, il generale Rosi Alsheich, che presenterà le sue raccomandazioni ai giudici sui casi “1000” e “2000”. Nel “caso 1000” il premier è sotto accusa per aver ricevuto regali per migliaia di shekels dal noto produttore di Hollywood, l’ israeliano Arnon Milchan. L’uomo, con un passato di agente segreto, fu aiutato da Netanyahu a ottenere la cittadinanza americana.
Dalle ricostruzioni degli investigatori sarebbe emerso che Milchan da anni mandi a casa Netanyahu casse dei più costosi champagne e centinaia di scatole di sigari pregiatissimi. Il premier si è giustificato sostenendo che “erano regali fra amici”. A smentire Bibi però è emersa nei giorni scorsi una testimonianza considerata attendibile: Sarah avrebbe chiesto continuamente e con insistenza alla segretaria di Milchan di far consegnare gli omaggi in scatole chiuse ermeticamente per evitare che ne venisse individuato il contenuto. Il “caso 2000” riguarda il tentativo di Netanyahu di far cambiare linea editoriale, a proprio favore, al quotidiano Yediot Ahronot in cambio di una manovra, illegale, al fine di danneggiare il quotidiano rivale Israel Hayom, diventato il più letto dagli israeliani. In cauda venenum, ovvero, il veleno sta nella coda: è “3000” l’indagine che però tiene più sulle spine il premier e i suoi fidi collaboratori.
Si tratta della vendita di sottomarini tedeschi Dolphins a Israele dietro pagamento di vere e proprie tangenti. Nel settembre 2017 la polizia arrestò a questo proposito l’ex capo dello staff del premier, David Sharan. L’inchiesta però continua a procedere a rilento nonostante la polizia sia riuscita a convincere Sharan a diventare collaboratore di giustizia.
Il Fatto 9.2.18
Le elezioni valgono bene il teatro Ariston
Matteo Salvini - Il leader leghista invitato da Toti fa un tour in Liguria con i suoi temi: “Via i migranti”
Le elezioni valgono bene il teatro Ariston
di Ferruccio Sansa


Beppe Grillo nel 2014. Oggi Matteo Salvini. La politica torna in platea al Festival. Ma stavolta c’è un ‘dettaglio’ in più: le elezioni tra venti giorni. Non solo: ci ha pensato il governatore della Liguria, Giovanni Toti (Forza Italia, ma in perenne flirt con la Lega) a invitare il leader leghista.
Lo ha detto senza remore Elisa Isoardi, soubrette compagna di Salvini: “Siamo stati invitati da Toti. Sanremo è come la Santa Messa, bisogna seguirlo dal vivo”. E le elezioni valgono bene una messa. Toti ha corretto il tiro dando in pratica dell’imbucato al leghista: “Io ho invitato Isoardi e lei ha invitato il suo compagno”. Campagna elettorale? “Pensate davvero che un’inquadratura al Festival faccia guadagnare voti?”. Lui, Salvini, garantisce: “Vado solo per sentire tre ore di buona musica”.
Angelo Teodoli, direttore di Rai 1, giura e spergiura: “Non è consentito dalla par condicio inquadrare personaggi politici e quindi non sarà inquadrato. Per il resto Salvini è un privato cittadino e ha diritto ad assistere come Grasso, come chiunque” (stasera arriverà Luigi De Magistris, ma senza invito e si comprerà il biglietto). Niente inquadrature in sala, quindi. Ma prima di arrivare tra i velluti dell’Ariston la strada è stata lunga. Salvini ha scorrazzato per tutta la giornata in Liguria. Partendo da Sampierdarena, quartiere del Ponente genovese dove una volta la sinistra arrivava al 70%. Selfie, strette di mano, applausi. Sostenitrici focose (letteralmente) che urlano: “Matteo, usa ruspe e lanciafiamme”. Sui migranti, si presume. Salvini ripercorre il suo programma: “Stop alle aperture di luoghi di culto islamici in Italia”.
Nel Ponente genovese la Lega è tra i primi partiti. E non importa che alle elezioni il plotone dei candidati leghisti sia guidato da due imputati per spese pazze. Contestazioni? Soltanto uno striscione di Genova Antifascista: “La mano di Traini, la mente di Salvini”. Il leader leghista, in piedi in mezzo alla folla, non fa un plissè: “Raccogliamo la sfida, democratica e pacifica, lanciata da partiti e associazioni di sinistra che saranno in piazza a Roma il 24 febbraio. Noi saremo a Milano. Vedremo dove ci sarà più gente”. Poi tappe a Savona, Albenga e Ventimiglia, meta dei migranti che vanno in Francia. Salvini ribadisce la sua ricetta: “Controllare i confini, accogliere chi va accolto, ma espellere le centinaia di migliaia di persone che non hanno diritto a stare né a Ventimiglia, né in Italia”, ovazione nella sala, piccola, ma gremita. Salvini prima lancia messaggi agli avversari: “Se non c’è una maggioranza si rivota, sono contro ogni tipo di inciucio e minestrone” con Pd o grillini. Quindi tocca agli alleati: “Chi vota Lega sa cosa aspettarsi: il premier sarò io”.
Poi si tira a lucido: giacca e camicia bianca stile Renzi per lui. Vestito nero con trasparenze per lei. In passerella occhiate languide e un bacio.
Corriere 9.2.18
Nel Salento la sfida del collegio
Al caffè e in pescheria, missione (casa per casa) del compagno D’Alema: «Vi chiedo di aiutarmi»
Agli elettori dice: mi fido solo dell’affetto delle persone
di Monica Guerzoni


LECCE In piedi accanto al bancone (vuoto) del pesce, con i cartelli che propongono dentici e astici, vongole e cozze, Massimo D’Alema offre a clienti e amici stretti nel bar-pescheria di Martignano un’immagine antica quanto inedita. «Ho militato nel Pci, ho diretto l’Unità, mi è pesato lasciare il Pd e non rinnego nulla — riavvolge il nastro l’ex premier —. La prima volta che sono stato eletto in questo collegio era il 1987. E chiunque di voi mi abbia telefonato, sa che ho sempre risposto a tutti. Mi sono messo al servizio e adesso sono io che chiedo aiuto a voi».
Per un politico abituato a declinare la parola «io», chiedere aiuto non è un passaggio banale. Ma per dimostrare a colpi di voti che nel suo Salento (e non solo) è ancora il D’Alema di sempre, il fondatore di Liberi e uguali batte sul tasto dell’umiltà: «Da Lecce a Leuca sarò il vostro compagno di strada, senza paracadute in altre regioni. L’unica cosa di cui mi fido è l’affetto delle persone». A omaggiare il «presidente» sono venuti in tanti, per un incrocio di strade che conta duemila anime nella Grecìa salentina. «Tutti quelli che hanno il potere di muovere consensi con il passaparola», sottolinea il candidato e spiega la strategia di una campagna senza truppe: «Vado casa per casa ritrovando vecchi affetti, bevo caffè con due o tre persone, faccio qualche assemblea», racconta mostrando le foto di sale piene a Leuca e Uggiano La Chiesa. «Ho contro un esercito di persone e recuperare 32 punti è un’impresa impossibile. Ma il 5 marzo conterò i voti con la coscienza tranquilla».
C’è il maestro di scuola, il professore di matematica già primo cittadino ai tempi della Dc imperante, ci sono i sindaci di Caprarica e Calimera. E il signore col maglione rosso, felice di ritrovare «Massimo» in gran forma. «Faccio un sacco di chilometri, senza partito e senza struttura — spiega con un pizzico di vanità —. Ditelo a quelli che mi accusano di voler commissariare Pietro Grasso... Non ne avrei il tempo. Il presidente del Senato non è mediatico? Forse, ma ha la stima della gente».
Luigino Sergio lo presenta come «uno dei pochi statisti che abbiamo» e domanda se possa davvero essere lui, D’Alema, la causa di tutti i problemi del mondo. «Magari!», allarga le braccia il presidente di Italianieuropei. Ma quando il sindaco Luciano Aprile lo rimprovera di aver lasciato il Pd («La cucuzza si cuoce nell’acqua sua»), D’Alema graffia: «Dovevo aspettare perché Renzi si sarebbe sgonfiato? Non potevamo aspettare, ma Renzi si sgonfierà». Tra i presenti, che qualcuno chiama «nuclei di collegamento tra Leu e Pd», il dem in sofferenza che guarda ai discepoli di Grillo sfida l’ospite d’onore: «Posso darti del tu? Vorrei capire perché demonizzi i Cinquestelle». La risposta di D’Alema è lunga, ma in sostanza breve: «Non li demonizzo. Ma questo Paese non può affidarsi all’improvvisazione totale». Il congedo è un appello ai delusi del Pd: «Se volete cambiarlo, votate per noi. Nel segreto della cabina non c’è disciplina di partito».
Caffé, dolcetti e avanti, tra le piazze di Calimera e Sogliano e gli ulivi che muoiono di xylella. «Sono alberi monumentali, ma anche posti di lavoro — accusa D’Alema —. Fosse successo in Toscana, ne avrebbero fatto una questione nazionale». Colpa di Renzi? Non è lui a esserne ossessionato, assicura, ma il contrario: «Per capire chi sia veramente basta vedere come ha falcidiato le minoranze la notte dei lunghi coltelli». E ce n’è anche per Paolo Gentiloni. «Qualcuno di voi vede folle oceaniche pronte a votare per il governo?», dichiara entrando in visita alla Call&Call di Casarano, 600 lavoratori a tempo indeterminato «risparmiati dal Jobs Act».
Una signora bionda gli va incontro al baretto aziendale: «Non ero di turno, sono venuta per lei... Se daremo una mano? Ma sì, certo che parleremo con la gente». E quando gli girano l’ennesimo attacco di Renzi, che lo accusa di favorire Salvini, D’Alema quasi perde la pazienza: «È una cosa volgare e stupida. Stiamo rendendo un servizio a un gruppo dirigente inconsapevole, che sta conducendo il centrosinistra a una sconfitta storica». Il fondatore del call center Umberto Costamagna gli passa il cellulare, è l’ex moglie che vuole salutarlo: «In bocca al lupo!». «Viva il lupo compagna Mariangela — fa scongiuri l’aspirante senatore —. Quando si combatte, si combatte».
Corriere 9.2.18
La forbice Bonino-Lorenzin Quei numeri che Renzi teme
di Maria Teresa Meli


I (diversi) risultati attribuiti alle due liste penalizzerebbero il Pd
ROMA I sondaggi continuano a preoccupare il Pd perché non registrano (almeno finora) un’inversione di tendenza, anche se al Nazareno sono convinti che l’allargarsi dello scandalo dei rimborsi dei 5 stelle potrebbero «cambiare il mood» della campagna elettorale. Ma a impensierire lo stato maggiore del Partito democratico sono pure le rilevazioni che riguardano gli alleati. Infatti se i partner prendessero più dell’1 per cento, ma meno del 3, per i complicati meccanismi del Rosatellum i loro voti andrebbero a ingrossare le fila dei parlamentari del Pd sia alla Camera che al Senato. Sì, non finirebbero agli alleati, ma all’unico partito che, ovviamente, supererà la soglia del 3 per cento, ossia quello di Renzi.
Sondaggi alla mano, però, la situazione appare tutt’altro che confortante da questo punto di vista. Insieme, la lista di Giulio Santagata, Riccardo Nencini e Angelo Bonelli è inesorabilmente inchiodata sotto l’1 in tutte le rilevazioni. Le più generose le attribuiscono lo 0,8. Il che significa che, per il Rosatellum, quei voti andranno dispersi. Ma al Nazareno si aspettavano uno scenario del genere. Quello che è invece non avevano preventivato è che anche Civica popolare di Lorenzin e Casini rischia di non arrivare alla soglia dell’1 per cento. I sondaggi più magnanimi la danno all’1,3.
C’è quindi una forte percentuale di rischio. Per questa ragione è stato «mobilitato» anche Paolo Gentiloni. Il premier continua a godere della fiducia degli italiani (il 45 per cento degli elettori) benché da quando sia sceso in campo questo consenso sia diminuito. Perciò il presidente del Consiglio sarà domani alla manifestazione indetta a Roma dalla ministra della Sanità per presentare i candidati di Civica popolare. «Paolo si sta spendendo per la coalizione, poi nelle ultime due settimane si dedicherà al Pd», spiegano al Nazareno.
Del resto, il premier, la settimana scorsa, aveva fatto una comparsata analoga all’iniziativa di Emma Bonino e +Europa (proprio ieri il New York Times le ha dedicato un articolo dal titolo: «Ha conquistato i cuori degli italiani. Ma può conquistare i loro voti?»). Ma anche questa lista dà dei grattacapi al Partito democratico, benché tutti si rifiutino di dirlo ufficialmente. Infatti potrebbe superare il 3 per cento (attualmente è data intorno all 2,8). E in questo caso eleggerebbe parlamentari nel proporzionale senza «regalare» i propri voti al Partito democratico. E questo farebbe definitivamente tramontare il sogno renziano del Pd gruppo parlamentare più numeroso.
È un obiettivo, questo, che il segretario si è prefisso dal primo momento. Non perche accarezzi la stessa idea del ministro Carlo Calenda, che ieri, spiazzando tutti, ha dichiarato: «Se si facessero le larghe intese con un programma serio e un contratto alla tedesca, allora va benissimo anche Gianni Letta a Palazzo Chigi». No, Renzi vuole un gruppo (a lui fedele) numeroso per poter avviare da una posizione di forza le trattative del dopo voto per un eventuale nuovo governo. Vuole essere lui il protagonista di quella fase politica, scongiurando la prospettiva di un esecutivo tecnico e puntando a portare nuovamente un Pd a Palazzo Chigi, nel caso in cui il Quirinale ritenesse opportuno non sciogliere le Camere pur in assenza di una m aggioranza politica definita.
Il Fatto 10.2.18
Ma quale età dell’oro: qui si vendono il Colosseo
Emergenza cultura - Alla sala stampa estera archeologi, studiosi ed ex soprintendenti forniscono i dati del disastro
Ma quale età dell’oro: qui si vendono il Colosseo
di Vittorio Emiliani


Le “veline”? Per i più giovani sono soltanto delle bellezze che in tv fanno da porta-notizie. Sotto Mussolini erano le prescrizioni del Minculpop alla stampa per il “tutto va bene”. Anche ora servono allo stesso scopo (per chi ci sta). Per esempio nei beni culturali. A leggere il Corriere della Sera e a sentire la Rai “servizio pubblico” (d’antan) il Belpaese starebbe vivendo un’età dell’oro. Ma come si può accettare senza sganasciarsi il dato ministeriale del Pantheon con oltre 8 milioni di visitatori nel 2017, 22.000 al giorno, una curva e mezza dello Stadio Olimpico al dì? Giovedì “Emergenza Cultura” alla Stampa Estera ha smentito, cifre e dati alla mano, “veline” e “velinari”. Introiti aumentati? Certo rincarando i biglietti, con Venaria Reale che costa più di Versailles. Più spesa statale? No, meno che nel 2001.
Adriano La Regina (“La Regina chi?” sembra di sentir dire ai “velinari”), per 27 anni soprintendente all’archeologia di Roma con esiti straordinari, ha argomentato seccamente: la linea adottata da Franceschini ha attenuato progressivamente la capacità di intervento e di tutela delle Soprintendenze. Esse hanno perso autonomia scientifica. Sulla base di questi principi ispiratori: 1) Una concezione del patrimonio culturale fondata prevalentemente sulla sua mercificazione, a scapito dei principi che vedono nell’amministrazione dei beni culturali lo strumento per favorire l’educazione e l’elevazione culturale; 2) Una interpretazione riduttiva del turismo di massa, abbandonato senza indirizzi all’arbitrio dei privati; 3) La concentrazione di ingenti risorse su pochi musei e complessi monumentali a scapito del più vasto e diffuso patrimonio culturale, con riflessi negativi sulla sua conservazione; 4) Lo smembramento della Soprintendenza Archeologica di Roma frazionata in modo da impedire pure la creazione di nuovi musei (quello dei commerci al tempo di Roma nell’ex Arsenale Pontificio). Ultima, per ora, sbrigativa scemenza, il trasferimento della grande Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte da Palazzo Venezia (ove la volle Benedetto Croce) anziché potenziarla dov’è.
Un altro archeologo, docente a Firenze, Paolo Liverani: a Policoro (Matera) lo splendido Museo è stato talmente alimentato dagli scavi della Soprintendenza da venire raddoppiato. E ora? Non più, lo hanno separato dagli scavi. Lo stesso, ha rincarato Claudio Meloni, della Fp Cgil, a Tarquinia: museo e necropoli sono gestioni “separate”, “ma con lo stesso personale che va e viene”, un caos. Migliaia sono i posti vacanti. Come si va avanti? Con migliaia di contrattini. Di questo passo, nel 2020, gli alti gradi saranno spariti.
Certo, ha osservato Tomaso Montanari, docente a Napoli, in Bulgaria o in Lettonia, lo Stato spende per la cultura il 2% del Pil, la media Ue sta sull’1% e l’Italia era con Bondi-Galan sullo 0,8, ma con Franceschini è scesa allo 0,7. Siamo al 23° posto in Europa. Ecco perché tanti tesori di Norcia e dintorni, fotografati in queste ore, sono esposti al sole e alla pioggia. E gli archivi di Stato coi loro 1500 km di scaffali (Ferruccio Ferruzzi) abbandonati a se stessi? E la Biblioteca Universitaria di Pisa chiusa da otto anni? Si parla solo di alcuni musei ridotti a luna-park. Non del paesaggio aggredito, del consumo di suolo galoppante, degli appena 3 piani paesaggistici su 20 in un decennio (Paolo Berdini, Elio Garzillo). E intanto in piazza del Pantheon si addensa ogni giorno una curva e mezzo dell’Olimpico. Evitiamo almeno il ridicolo.
il manifesto 10.2.18
Un liceo per ragazzi scelti come si deve, senza inutili scarti
Licei e non solo. L’impegno a cancellare alla radice l’assetto della Buona scuola non è solo uno slogan efficace di campagna elettorale ma un obiettivo strategico irrinunciabile a sinistra
di Piero Bevilacqua


«Andare a scuola- diceva don Lorenzo Milani, profeta del nostro tempo- è un privilegio. Ma deve esserlo per tutti, anche per i ragazzi che nessuno vuole. L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati».
Una volontà che partiva dall’esigenza di restituire dignità a ognuna e ognuno, anche attraverso l’istruzione gratuita e per tutti, attuando il dettato Costituzionale. Rimuovere gli ostacoli per un’effettiva eguaglianza.
Certo qualcuno può pensare che basta, che non è più tempo di andar dietro a ubbìe sessantottine e poi che questo può valere per i primi gradi dell’istruzione, ma poi dopo no, certamente no, quando si va alle scuole che contano.
Ai licei per esempio.
Non sono più casi isolati le presentazioni che alcuni tra i più prestigiosi licei italiani, di Roma, di Milano, di Genova (anche altrove avviene, ma fa meno notizia) fanno delle loro caratteristiche e dei loro percorsi di studio, prima delle iscrizioni per il prossimo anno. In alcune di esse, senza alcun pudore, si tende a precisare che l’assenza di gruppi di ragazzi svantaggiati per etnia o per censo (che poi sarebbero i poveri e gli immigrati) e dei ragazzi disabili permette di accogliere e seguire negli studi, con esiti più favorevoli, tutti gli altri «omogenei» frequentanti. Perché in questo modo si rende la didattica più semplice, come dichiara una dirigente. E si favorisce l’apprendimento.
E lo si dice così, senza troppi giri di parole, in maniera esplicita, impensabile fino a qualche anno fa. Come se si parlasse di un interesse generale. E’ solo per rassicurare i genitori e promettere loro che in quella scuola si insegna e si impara meglio, senza quelle «remore» che ne impediscono la tranquilla navigazione?
Per assicurarsi soprattutto i contributi, ahimè non più solo volontari, delle famiglie che possono pagare, che ormai in assenza di altre entrate sono il principale sostegno delle scuole?
La cosa che però preoccupa e sconvolge è che si sta parlando della scuola pubblica come se si trattasse di un percorso privato da gestire e far funzionare, ma solo per alcuni. Mettendo sotto i piedi o semplicemente ignorando una tradizione democratica della nostra scuola, quel ‘diversi ma eguali’ nella scuola di tutti, che nella giornata di ieri ha difeso anche la Ministra Fedeli.
C’è da chiedersi cosa sia successo in questi ultimi anni. In che modo si siano incrociate la volontà di non ascoltare la voce e la democratica protesta del mondo della scuola rispetto alla legge 107, le ansie manageriali, gli egoismi proprietari di alcune famiglie, la volontà di rottura di quel patto tra cittadini e Stato, per cui ognuno decide per sé, dai vaccini alle mense. E ancora, la sempre più grave mancanza di investimenti. Siamo un Paese che è sotto la media europea nel rapporto investimento in istruzione e prodotto interno lordo. Che è in Italia solo il 4%.
E infine pesa l’assenza, ormai da molti anni, di un dibattito pubblico, non interno alla vita della scuola, su quale sia oggi non solo il sapere che serve, ma il sapere che fa crescere, che ti fa incontrare altre vite, altre culture, altri mondi. Che sappia educare alla convivenza e al rispetto dell’altro da sé. Un sapere che ha bisogno di tempi distesi e soprattutto di confronto continuo.
Di tutto questo non si parla più da tempo. Con la 107 si è pensato di lavarsi le mani rispetto a tanti problemi, inventandosi managerialità e autosufficienza delle singole scuola anche rispetto alla loro sopravvivenza. Dimenticando che oggi serve più scuola per tutte e tutti, gratuita e obbligatoria fino ai 18 anni. E che non possiamo sostituire un governo complessivo del sistema, che esige confronto e condivisione tra scuola e Paese con il governo della singola scuola.
Questa vicenda lancia un forte allarme, perché è il simbolo di una malattia più profonda. Un Paese ogni giorno più gretto, più miserabile, più incarognito, in dissidio profondo con se stesso. Per questo bisogna lanciare un allarme democratico. E fare senza tregua una campagna contro queste miserabili ‘innovazioni’, che rischiano di respingerci verso un orizzonte di illimitata barbarie.
Riflettano su questi dépliant pubblicitari i cantori della «buona scuola».
Dobbiamo anche a quella legge questa nuova torsione elitaria e discriminatoria del confronto tra scuole.
il manifesto 10.2.18
Scuola, scontro sugli aumenti: firmano solo i confederali
Superata la Buona Scuola . Il primo contratto dopo 9 anni di blocco segna un aumento lordo fra i gli 80 e i 110 euro. Ma Gilda, Snals e Cobas contestano la "mancia elettorale"
di Massimo Franchi


Nove anni di attesa per avere un nuovo contratto. Nove anni nei quali i tagli della Gelmini e poi la BuonaScuola renziana hanno ridotto gli insegnanti italiani in poveri lavoratori in balia dei dirigenti trascinando il loro ruolo e riconoscimento sociale sempre più in basso. Quello firmato ieri mattina alle 7 e 15 dopo una improvvisa accelerazione non è, né poteva essere risolutivo di tutti i problemi trascinatisi in un decennio. La mancata firma di Snals e Gilda e i molti mal di pancia all’interno dei confederali delineano però il concreto rischio di essere arrivati ad «un contratto elettorale».
IN REALTÀ POCHI MINUTI DOPO la firma con l’Aran dell’accordo che, oltre alla scuola, ridà un contratto a 1,2 milioni di lavoratori nelle università e nella ricerca Cgil, Cisl e Uil avevano fatto uscire una nota trionfale in cui si parlava di «svolta significativa sul terreno delle relazioni sindacali, riportando alla contrattazione materie importanti come la formazione e le risorse destinate alla valorizzazione professionale», con il segretario generale della Flc Cgil Francesco Sinopoli sottolineava «il depotenziamento dei dirigenti scolastici».
MA È SULL’ASPETTO RETRIBUTIVO che i toni erano già più bassi: «Gli aumenti sono in linea con quanto stabilito dalle confederazioni con l’accordo del 30 novembre 2016, per la scuola da un minimo di 80,40 a un massimo di 110,70 euro – scrivono i sindacalisti -. Pienamente salvaguardato per le fasce retributive più basse il bonus fiscale di 80 euro. Nessun aumento di carichi e orari di lavoro, nessun arretramento per quanto riguarda le tutele e i diritti nella parte normativa, nella quale, al contrario, si introducono nuove opportunità di accedere a permessi retribuiti per motivi personali e familiari o previsti da particolari disposizioni di legge».
LE PIÙ CONTENTE SONO le ministre – e candidate Pd -: Marianna Madia, che parla di contratto «giusto e doveroso» e la titolare di viale Trastevere Valeria Fedeli, che ricorda come «avevamo preso un impegno preciso, lo abbiamo mantenuto, riuscendo a garantire aumenti superiori a quelli previsti». Il riferimento è ai 200 milioni destinati alla valorizzazione del merito: 70 milioni sono stati destinati a questo scopo (diventeranno 40 a regime).
A DICEMBRE PERÒ le stesse Flc Cgil, Cisl Fsur e Uil Rua a dicembre avevano richiesto risorse aggiuntive in legge di bilancio per andare oltre all’accordo del novembre 2016. Proprio su questo tema battono i tanti sindacati che non hanno sottoscritto l’accordo. Gilda ritiene i miglioramenti retributivi ottenuti «irrisori» perché «lordi», mentre lo Snals (che fino a ieri era coi confederali) sottolinea anche altri aspetti negativi sulla scuola: «la scarsa considerazione degli organi collegiali, in particolare il collegio dei docenti che non delibera più il Piano di offerta formativa (Ptof); la permanenza obbligata nella stessa sede per un triennio che determina la possibilità di trasferimento solo triennale».
ANCOR PIÙ DURO Piero Bernocchi, storico portavoce dei Cobas che parla di «miserabile contratto elettorale» e «ignobile mancetta economica che dimostra l’assoluto disprezzo per docenti ed Ata (il personale tecnico amministrativo, ndr), ritenuti così sottomessi da dover ringraziare persino per un aumento medio netto mensile di 50 euro, dopo che in dieci anni di blocco contrattuale la categoria ha perso almeno il 20 per cento del salario». Bernocchi e l’Usb chiamano anche Snals e Gilda allo sciopero già fissato per venerdì 23 febbraio.
il manifesto 10.2.18
Foibe, la lunga marcia del revisionismo storico
di Angelo d’Orsi


Il revisionismo ha compiuto una lunga marcia, a partire dagli anni Sessanta, tra Francia, Germania, Italia, essenzialmente. In Italia ha riscosso notevole fortuna, e ha riguardato essenzialmente la vicenda del comunismo e del fascismo: alla squalificazione del primo, ha corrisposto, in contemporanea, il recupero del secondo.
Il processo ricevé una formidabile accelerazione con «la caduta del Muro», e l’immediata sentenza di morte autoinflittasi dal Partito comunista, quando si accettò non soltanto il terreno dell’avversario ma la sua tesi di fondo: la intima natura maligna, del comunismo.
Tale revisionismo estremistico toccò punte clamorose dopo l’avvento di Berlusconi, e lo «sdoganamento» della destra «postfascista» e il suo ingresso in area governativa.
Il giudizio riduttivo sulla Resistenza, la banalizzazione e la successiva demonizzazione del partigianato, in specie comunista, l’equiparazione tra repubblichini e combattenti per la libertà, la retorica della memoria condivisa, e così via, condussero alla celebrazione del «sangue dei vinti».
Il revisionismo giungeva così alla sua fase estrema, il «rovescismo». E qui si pone la «questione foibe», lanciata da un programma televisivo nei primi anni ‘90.
Una vicenda drammatica della storia dell’Europa che tentava di risollevarsi dalla catastrofe della guerra scatenata dal nazifascismo, finiva in show ma, nella disattenzione degli apparati culturali della democrazia, generava rilevanti esiti politici e persino giuridici.
Da capitolo della storia la foiba diventava un marchio propagandistico: il luogo, il simbolo, la bandiera da agitare in ogni situazione, come in passato si fece con l’Ungheria del 1956, o la Cecoslovacchia del 1968. La foiba fu il nome del martirio subìto da centinaia, migliaia, decine di migliaia (l’andamento delle cifre è grottesco) di italiani «colpevoli solo di essere italiani».
Non si vuole sottovalutare la questione dell’esodo forzoso dei connazionali dalle terre del Nord-Est, che comunque va tenuta distinta da quella delle foibe.
In passato, studiosi come Enzo Collotti e Giovanni Miccoli ci misero in guardia però dalla necessità di non sottovalutare il nesso tra foibe e risposta ai crimini del fascismo. Ma già da allora apparve difficile opporsi all’«operazione foibe». La foiba diventò un tabù: l’invito a riconsiderare scientificamente il problema veniva bollato con l’etichetta di «negazionismo».
E nelle foibe venivano affossate le colpe della nazione italiana, che anzi ne usciva con una sorta di lavacro che le restituiva l’innocenza. La foiba diventava, al contrario, il trionfale verdetto sulle irredimibili colpe del comunismo.
La storia, invece, che ci dice? Che il 1945, con le sue tragedie e le sue atrocità, fu la conseguenza di una politica italiana all’insegna di un razzismo antislavo (la «barbarie» di quella gente), fin dalla stessa origine del Regno dei serbocroati e degli sloveni, verso la fine della Grande guerra.
Nell’Italia dannunziana la «Vittoria mutilata», l’impresa fiumana, furono base culturale dell’ondata antislava, che giunto Mussolini al potere, sedimentò nella pretesa di sottoporre la Jugoslavia al «protettivo» controllo italiano, tanto meglio se si fosse potuto frammentare l’unità di quei popoli faticosamente raggiunta.
Il fascismo non arretrò davanti alla pulizia etnica, che nella Seconda guerra assunse le tinte fosche di una violenza inaudita, nella quale gli italiani fascisti non furono inferiori ai tedeschi nazisti. Noi fingiamo di dimenticarlo, o semplicemente lo ignoriamo; ma come si poteva pretendere che quei popoli dimenticassero?
Le foibe, di cui si è volutamente e grottescamente esagerato numero e portata, sono la risposta jugoslava: e i primi a servirsi di quelle cavità per i «nemici» peraltro furono gli italiani. E il più delle volte erano tombe naturali in cui in guerra si dava sepoltura ai morti, sia le vittime di combattimenti, sia persone giustiziate, accusate di crimini di guerra: in quella situazione vi furono probabilmente anche innocenti infoibati. Ma ridurre tutta la vicenda a questo è esempio di profonda disonestà intellettuale e di un pesante uso politico della storia, tanto meglio se i fatti vengono direttamente «adattati» all’obiettivo perseguito.
Che fu più chiaro, con l’istituzione, nel marzo 2004 (II governo Berlusconi), con voto condiviso dal centrosinistra, di una legge istitutiva del «Giorno del ricordo» («dell’esodo degli italiani dalle terre dalmato-giuliane dei “martiri delle foibe”»).
Sabato 10 febbraio ne discutiamo in un convegno a Torino.
In proposito mi limito qui a ricordare quanto scrisse un testimone d’eccezione, Boris Pahor, che giudicò che quella legge «monca, unilaterale, parla del ricordo italiano, tralascia il ricordo altrui», ossia della parte jugoslava, specificamente slovena, che ha subìto un’ampia gamma di crimini e nefandezze da parte italiana.
Repubblica 10.2.18
La sinistra dimentica la sua storia
di Ezio Mauro


Quando i partiti si riducono a semplici comitati elettorali, e non hanno più ideali politici a cui riferirsi perché vivono nell’estemporaneo, diventano subalterni al senso comune, suoi replicanti. Invece di orientare l’opinione pubblica la inseguono gregari, perché invece di testimoniare una storia affogano nella cronaca.
Con il risultato di far mancare al Paese l’interpretazione degli avvenimenti attraverso le grandi culture politiche di riferimento e la loro pedagogia.
Nell’Italia estrema di oggi, si scopre così quant’è difficile dirsi moderati, e dirsi riformisti. O meglio: dirlo è facile, testimoniarlo e viverlo, tradurlo in politica concreta e corrente è molto più complicato.
È evidente che in una normale campagna elettorale una forza di sinistra avrebbe già tenuto una riunione della sua direzione a Macerata, aperta alla cittadinanza e ai media nazionali, riconsegnando la città a se stessa dopo gli spari, restituendole sicurezza attraverso la politica dopo il razzismo terrorista.
Etrasformando quelle piazze magnifiche e quelle strade in una riconquista della convivenza civile e democratica, per tutti. Questo vale per qualsiasi sinistra, nata ieri o centenaria. Ma per una sinistra di governo, generata per di più da due culture popolari e costituzionali, diventa un obbligo. Non si può pensare di governare il Paese oggi se non si trasmette la sensazione di tutela dei cittadini, d’accordo: ma la scommessa della sinistra sta tutta nella capacità di legare insieme questa tutela con la solidarietà, la sicurezza con la democrazia. Per riuscirci, ed essere credibili, bisogna dimostrare prima di tutto di saper leggere i fenomeni per quel che sono, dando loro un nome e assumendosi la responsabilità di un giudizio.
Un fascioleghista che interpreta follemente la seminazione razzista e xenofoba di questi anni, decidendo di far da sé giustizia per tutti sparando sui neri, per poi coprire il suo sovranismo col tricolore e gli spari con il saluto romano, concentra su di sé un tale accumulo di significati — tutti convergenti — che non ha bisogno di interpretazioni. Sembra il precipitato storico di questi anni sciagurati, dove un fenomeno che investe tutta l’Europa diventa da noi uno tsunami politico e prima ancora culturale, travolgendo i dati della realtà in una dimensione fantasmatica della paura nutrita e coltivata a fini elettorali, ma soprattutto generando odio dalla paura e traducendo questo odio in una ripulsa fisica fatta di ruspe, fili spinati, muri, barriere, respingimenti, un bando conclamato per una fetta di umanità.
Poiché l’odio ha bisogno di nemici, il migrante viene trasformato in invasore dello spazio nazionale, usurpatore delle periferie in cui dorme, concorrente nel lavoro che si procura, parassita nei pochi servizi sociali di cui usufruisce. Fino a diventare inquietante con la sua sola presenza, intruso per la pura pretesa di sopravvivere, abusivo per definizione. Riassume in sé l’identità storicamente colpevole dello straniero, del povero, del migrante. Ridotto a pura quantità ostile, merce d’ingombro da scaricare, legittima ogni forma di ripulsa, dunque ogni gesto che segni la separazione, il rifiuto, il rigetto. La figura del nero riassume, potenzia e scarica a livello istintuale tutto questo insieme di egoismi aggressivi, armati di un nuovo guscio ideologico che li protegge, li giustifica, li recita a piene mani nei talk tra i sorrisi degli astanti, spargendoli ogni sera nella solitudine dispersa del grande tinello italiano.
È questa interpretazione dell’Italia che va contrastata. Non c’è nulla di esagerato e di esasperato, in questa lettura degli avvenimenti: cosa vuol dire il proposito di Renzi di « abbassare i toni » , dopo Macerata? Prima di tutto un tono bisogna averlo. Bisogna saper leggere la banalizzazione quotidiana del fascismo che si pratica nell’ignoranza della storia ma soprattutto nell’indifferenza generale, bisogna testimoniare a testa alta i valori dell’accoglienza nella responsabilità, bisogna separare la politica dalla xenofobia, bisogna pretendere che la violenza venga ripudiata senza ambiguità. Per queste ragioni di democrazia si può andare in piazza dopo Macerata e a Macerata, invece di inseguire impossibili elettori di destra col rischio di aprire altre falle a sinistra: per non saper cosa fare, per non saper cosa dire, per non sapere in realtà cos’è la sinistra oggi in un Paese come l’Italia.
Ma la questione chiama in causa anche la destra, perché la vicenda di Macerata cade nella sua metà del campo. Diventa dunque la prova del nove della presunta esistenza di un’anima moderata in quell’alleanza puramente elettorale che mette insieme il tardolepenismo salviniano, il sovranismo postfascista di Meloni, l’ecumenismo berlusconiano, alla ricerca della reincarnazione più conveniente secondo i sondaggi. Incalzato dall’estremismo dei suoi due soci, l’ex Cavaliere si è ritagliato un abito moderato che non ha mai saputo rivestire, preferendo per vent’anni ricoprire col doppiopetto il caimano, la sua vera natura. Oggi che pretende di intercettare le preoccupazioni europee per una deriva polacca dell’Italia, e si contrappone all’estremismo antipolitico dei grillini (cercando di far dimenticare il suo radicalismo e le sue pulsioni antipolitiche), ha l’occasione per provare il suo nuovo moderatismo di governo. Pretenda da se stesso, da Salvini e Meloni nei confronti dello sparatore con la bandiera una condanna con gli stessi toni che usano ogni giorno nei confronti degli immigrati, facendosi promotore di una moderna cultura conservatrice europea che da vent’anni manca in Italia: e che mancherà ancora a lungo, condannati come siamo al nazionalismo e al populismo, incapaci di uscire dall’eterno postfascismo che non riesce a finire.
il manifesto 10.2.18
Guerra alla Libia e deportazioni. Il programma di Casa Pound
FascistI. Il leader di neofascista alla Camera: «Avremo il 3%, disponibili ad appoggiare un governo Salvini»
di Leo Lancari


Tra sovranisti ci si intende. «Se dovesse uscire un governo di centro destra con Matteo Salvini premier potrebbe vedere il nostro appoggio esterno» dice il leader di Casa Pound Simone Di Stefano, sicuro che alle elezioni del 4 marzo i fascisti del terzo millenio riusciranno a superare la soglia del 3% necessaria a entrare in parlamento. Anzi di più: «Se avessimo lo spazio in tv di Salvini e Meloni oggi potremmo giocarci il 15-20% dell’elettorato» dice il capo di Casa Pound.
In realtà in parlamento i fascisti sono già tornati, anche se per poco, e non è una bella notizia. Ieri Di Stefano ha presentato il suo programma elettorale nella sala stampa di Montecitorio circondato da alcuni candidati alle elezioni della formazione di estrema destra. Una possibilità che ai camerati è stata offerta dal deputato Massimo Corsaro, uno passato dal Msi-An, al Pdl a Fratelli d’Italia per approdare infine a Direzione Italia di Raffaele Fitto. Cosa che non è piaciuta al segretario di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo che ha chiesto l’intervento della presidente della Camera Boldrini e del presidente Mattarella, e spinto l’ufficio stampa di Montecitorio a emettere una nota per spiegare come la presidenza non abbia voce in capitolo sull’uso della sala.
Polemiche che ovviamente neanche scalfiscono Di Stefano, troppo contento di presentare nel cuore delle istituzioni un programma che ha tra i suoi punti principali l’intenzione di scatenare una guerra «unilaterale» con la Libia, Paese nel quale regna «l’anarchia» e dove andrebbero riportati tutti i migranti. «Dobbiamo mandare il nostro esercito e rimettere in piedi uno stato sovrano dove impiantare le nostre aziende», proclama Di Stefano. Ma, soprattutto, avere un posto «dove rimpatriare tutte le persone che si trovano in Italia e che non hanno diritto di stare qui». Se per far questo ci fosse poi la necessità di fare dei lavori nessun problema, perché per Di Stefano non è certo la manodopera che manca: ci penseranno «quei ragazzoni che oggi sono parcheggiati nei centri di accoglienza. Gli mettiamo una pala in mano» assicura il leader di Casa Pound sommando proposte irrealizzabili e pericolose a banalità. Come quando afferma che un migrante senza permesso di soggiorno «la prima volta lo becchi che non paga il biglietto dell’autobus, la seconda volta lo becchi che spaccia, la terza volta lo becchi a squartare le ragazzine e metterle nelle valigie».
Per il resto i fascisti del terzo millennio vogliono le stesse cose dei sovranisti di ogni latitudine: uscita dall’euro e ritorno alla lira in 14 mesi, nazionalizzazione delle banche e dazi doganali. Anche gli imprenditori sono avvertiti: «Chi se ne va all’estero per fare la lavatrice col cambogiano al tornio deve sapere che in Italia non tornerà. Qui non vendi manco uno spillo». Per quanto riguarda il sociale è previsto invece un contributo di 500 euro a figlio fino al compimento dei 16 anni. E i 5 stelle non sono più considerati un interlocutore valido: ««Di Maio se ne va all’estero a garantire la vendita dei nostri imprenditori e delle nostre famiglie agli investitori stranieri. E’ un tradimento», sentenzia Di Stefano.
La possibilità che gli stessi discorsi si possano sentire presto anche in parlamento purtroppo è tutt’altro che remota. E’ bastato infatti un fine settimana ai fascisti del terzo millennio per accogliere le firme necessarie a presentare liste elettorali in tutti i collegi, senza parlare del 9% conquisto alle recenti elezioni di Ostia, l’8% a Lucca e quasi il 7% a Bolzano. Tutti segnali che il vento nero che da qualche tempo soffia lungo la penisola è ancora forte. Non a caso Matteo Salvini ieri si è guardato bene dal prendere le distanze dal sostegno ricevuto da Casa Pound, anche se ha evitato ogni commento per non alimentare polemiche tra chi, nel Carroccio, non condivide il nuovo corso sovranista imposto dal segretario.
Chi parla invece è invece il vicesegretario Pd Maurizio Martina, insieme a Graziano Del Rio uno dei pochi esponenti dem a denunciare i rischi di un ritorno del fascismo: «Dunque Casa Pound è pronta ad appoggiare Salvini. Capito cosa abbiamo davanti? – ha scritto su Twitter – Non lasciamo l’Italia agli estremisti».
Corriere 10.9.18
Morte di Pamela: ora i sospettati diventano cinque
Macerata, Minniti dice sì al corteo antifascista,
Salgono a cinque i sospettati per l’omicidio di Pamela. Due nigeriani, diretti in Svizzera, sono stati rintracciati a Milano. Il ministro dell’Interno Marco Minniti ha dato il via libera al corteo antifascista a Macerata
di Goffredo Buccini, Fabrizio Caccia, Fiorenza Sarzanini


Il passato è una saracinesca arrugginita per il disuso, assopita fino a ieri nella sua inutilità. Giuseppe Romano, il camiciaio di via Gramsci, la guarda con nostalgica tenerezza e scuote la testa: «Eh, ora che mi servirebbe, non viene giù, si capisce, inutile tirare! Mai abbassata in vent’anni, qui non ce n’era bisogno. Noi siamo come questa vecchia serranda, sa». Il figlio Edoardo gli ha appena mandato un sms dal liceo: «Prendi le tavole di compensato per proteggere la vetrina, in classe lo raccomandano». Lui gli ha risposto fiero: «Già fatto. Papi».
Il presente è questa sicurezza perduta, una vigilia che pare Miami prima di un ciclone, tutti a inchiodare assi, a ritirare vasi, a domandarsi «come sarà» quando passerà l’onda del corteo, che pure non dovrebbe attraversare il centro ma, si sa, bravo chi ci crede. Massimo, il salumiere del «Concorrente», si arrangia con pannelli di polistirolo. Dai portici di Galleria Scipione hanno tolto persino il biliardino.
Macerata si paralizza come un gatto minacciato, sperando di diventare invisibile: scuole chiuse, bus fermi, sospesi perfino catechismo e messa vespertina, è una specie di replica dell’altro terribile sabato, quando Traini ha cominciato a sparare e l’incubo è iniziato. Michele, alla cassa del parcheggio del Mercato, sbarrerà tutto poco dopo mezzogiorno ma assicura: «Mi arrampico sul tetto a guardare lo spettacolo, l’altra sera con Forza Nuova se le sono date proprio qui davanti!». Ha vent’anni, beato lui.
L’odio bussa alla porta
Romano Carancini, sindaco pd e avvocato, li vedeva alla tv i cortei degli Anni di piombo, e sgranava gli occhi: «Mio papà faceva lo spazzino ma era pieno di saggezza, mi ha insegnato il valore della vita, di ogni vita. Per noi erano immagini così lontane».
Ora è come aver sbagliato film. L’odio, vero odio politico, ha bussato alla porta con la faccia di un killer fascista. La rabbia, vera rabbia politica, sale dalle valli fino a queste colline, sui pullman che portano stamattina centri sociali da Treviso a Palermo, da Roma a Bologna, i duri di Napoli e Torino, cinque o seimila ragazzi attesi qui da centinaia di poliziotti e carabinieri, uno scenario inverosimile in questi vicoli rinascimentali dove bisogna nominare Francesca Baleani, sopravvissuta nel 2006 a un tentato femminicidio domestico, per citare l’ultimo atto di violenza paragonabile, prima che la ferocia di uno spacciatore nigeriano attraversasse la vita di Pamela Mastropietro, bella, debole, indifesa.
Terrorismo psicologico
Il pistolero Traini voleva vendicare Pamela, così ha detto, sparando a sei immigrati innocenti. Ognuno vuole vendicare qualcuno, adesso. Gridare qualcosa. Per le vittime del razzismo e del fascismo sfilano gli antagonisti di Sisma assieme alla sinistra-sinistra, Arci, Fiom, Libera, Gino Strada, Sabina Guzzanti, Pippo Civati, Nicola Fratoianni, una pattuglia di Liberi e uguali, un’altra dell’Anpi, una pagina intera di sigle. Il rischio di scontri è tanto nell’aria da legittimare una voce insidiosa, «treni in arrivo dal Nord Europa» che tradotto vorrebbe dire Blocco Nero, tafferugli assicurati: ma forse è terrorismo psicologico, terrore su terrore.
Giovanni, vecchio sindacalista in pensione, romanzo di Nabokov sottobraccio, ricorda l’ultima volta che ha visto inviati dei «giornaloni» da queste parti: «Primi anni Novanta, scoppiò il caso delle lavoratrici costrette a rinunciare alla maternità per tenersi i posti di lavoro, uno scandalo». Ridacchia: «Adesso la sinistra è da manicomio: un fascista spara e loro si spaccano». In effetti, bersaglio collaterale del corteo è Marco Minniti con la sua stretta sugli sbarchi. Si parte alle due di pomeriggio girando attorno alle Mura da piazza Diaz, da quei giardini che sono stati terra di conquista dei trafficanti d’eroina.
Una città sdoppiata
Il vescovo Nazzareno Marconi medita amaro: «Tra i motivi di tutta questa attenzione verso le vittime, da una parte e dall’altra, non penso ci sia la sensibilità umana o cristiana, le ragioni vere sono altre... ». Non ci sta, all’etichetta di una Macerata razzista: «Quel ragazzo, Traini, era imbevuto di idee non sue...».
Nemmeno il sindaco Carancini ci sta: è uscito avvelenato dalla riunione in prefettura dove la manifestazione è stata autorizzata, quelli di Sisma e delle reti antagoniste territoriali l’hanno accusato pesantemente di essere contrario. «Io invece condivido del tutto i contenuti del corteo. Dico solo che serviva un tempo di riflessione».
Un laboratorio di contraddizioni
Carancini vive una condizione schizofrenica, uno sdoppiamento comune a tutta la città. Sta preparando il discorso per la candidatura di Macerata a capitale italiana della cultura 2020, forte di 55 anni di stagione lirica, 500 eventi culturali l’anno... E ha questa modernità assassina sull’uscio del municipio. «Dopo il raid di Traini avevamo pensato quasi di non presentarci più, ci raccontavano come un concentrato di ferocia», sussurrano i suoi: «Ma noi non siamo così. Noi ci rialziamo. Abbiamo ricostruito due delle tre scuole colpite dal terremoto. Ricostruiremo la nostra immagine».
Macerata è alla fine un piccolo laboratorio delle nostre contraddizioni. E delle nostre speranze. Giulia, del bar «Centrale.Eat», dice che sì, un po’ di paura ce l’ha, specie con quel suo pancione da quinto mese. Ma dice anche che resteranno aperti, vivaddio, a meno che non si metta proprio male: «Magari qualche caffè serve...».

MACERATA Erano seduti al tavolino di un bar della stazione Centrale di Milano, nessuna consumazione, parlavano e basta. Lui con uno zaino pieno zeppo di vestiti e una buona liquidità di contanti. Lei in una borsa aveva dei pacchetti di crackers e due bottigliette d’acqua. Marito e moglie, nigeriani, forse pronti a fuggire insieme.
Ma è lui che cercavano, da giorni, i carabinieri di Macerata, insieme a un altro connazionale, richiedente asilo, che invece è stato rintracciato in città. Le loro case nel capoluogo sono state già perquisite alla ricerca di tracce utili. Sarebbe emerso, infatti, che i due uomini frequentavano la casa al terzo piano di via Spalato 124 dove Pamela Mastropietro è morta il 30 gennaio scorso, dopo esservi salita poco dopo le 11 del mattino con la dose di eroina e la siringa appena comprate.
E dunque dopo Innocent Oseghale, già in carcere, Lucky Desmond, tuttora a piede libero, entrambi indagati per omicidio, vilipendio e occultamento di cadavere della ragazza, adesso ci sono altri tre sospettati. Cinque nigeriani per un delitto. A poco a poco il quadro si va componendo: «Non sono stati effettuati dei fermi — dice in una nota il procuratore di Macerata, Giovanni Giorgio — audizioni e chiarimenti si protrarranno per l’intera giornata». In effetti ieri, oltre ai nuovi indagati, sono stati diversi i nigeriani interrogati a Macerata come persone informate sui fatti.
Ma è sul nigeriano rintracciato a Milano e sui suoi trascorsi lavorativi che si concentra l’attenzione degli inquirenti: potrebbe essere proprio lui, infatti, l’uomo in possesso delle capacità tecniche usate, purtroppo, per compiere lo strazio sul corpo di Pamela dopo la morte.
Ieri era arrivato a Milano dopo essere partito in tutta fretta da Macerata, la moglie invece risulta ospite di una casa d’accoglienza nel Cremonese. Non è ancora chiaro se l’abbia raggiunto via treno in Centrale o se siano partiti insieme dalle Marche. «Non abbiamo ancora fatto il biglietto, partiamo domani per Chiasso», ha detto subito lui, un po’ in italiano e un po’ in inglese, ai carabinieri della sezione catturandi di Milano, usciti in forze a cercarlo. La moglie invece parla solo nigeriano. Che abbia lavato via lei il sangue dall’appartamento coi dieci litri di candeggina comprati da Oseghale? Solo un’ipotesi, al momento. In tasca, il marito aveva anche un invito a comparire della Prefettura in relazione alla sua richiesta di asilo politico.
Sarebbe stata l’analisi delle celle telefoniche — affidata dal procuratore capo al consulente informatico Luca Russo, che ha esaminato quattro cellulari, un computer e un tablet in uso a Innocent Oseghale e a Lucky Desmond — a far risultare la presenza degli altri tre nella zona di via Spalato, dove c’è la casa al terzo piano presa in affitto un anno fa da M.P. la compagna italiana di Innocent Oseghale.
E sempre grazie al sofisticato sistema di rilevamento dei telefonini cellulari, ieri finalmente intorno a mezzogiorno è stato localizzato a Milano l’uomo che la Procura di Macerata cercava da giorni. Non è stato semplice individuarlo, vista la gran quantità di immigrati che stazionano in Centrale. È servito un discreto spiegamento di forze. «Con questo qui abbiamo chiuso il caso», avrebbe detto uno dei carabinieri marchigiani a un collega milanese della «catturandi» all’atto della consegna: forse scherzava o forse no.

ROMA Il compromesso che consente il via libera al corteo di oggi è il cambio di percorso. Dopo l’ultimatum del ministro dell’Interno Marco Minniti — che due giorni fa aveva annunciato il divieto della marcia contro il razzismo organizzata dall’Anpi — è il prefetto di Macerata Roberta Preziotti a sbloccare la situazione convincendo i promotori a evitare il centro e sfilare invece fuori dalle mura della città. «Abbiamo avuto garanzie da parte degli organizzatori che si tratterà di una manifestazione pacifica — commenta a tarda sera lo stesso titolare del Viminale —. Se dovesse accadere qualcosa ognuno si assumerà le proprie responsabilità».
Campagna elettorale
Dopo aver promosso la protesta, l’Associazione nazionale partigiani ha accolto l’appello del sindaco Romano Carancini a «fermare le manifestazioni» organizzate dopo l’omicidio di Pamela Mastropietro e il raid a sfondo xenofobo di Luca Traini, l’estremista di destra 28enne arrestato con l’accusa di strage aggravata da odio razziale per aver ferito sei stranieri sparando dall’auto in corsa. E dunque non parteciperà, rinviando l’appuntamento a Roma per il 22 febbraio. Confermano invece la presenza numerose forze politiche di sinistra e anche questo ha convinto Minniti che il divieto fosse inopportuno.
In campagna elettorale sarebbe stato infatti arduo impedire l’uso della piazza a chi voleva denunciare «l’appoggio» a Traini che dal carcere continua a inneggiare al fascismo rivendicando con orgoglio di essere «andato a sparare ai negri». E così nei colloqui di ieri che hanno preceduto la riunione del Comitato, Minniti ha chiesto al prefetto di incontrare i leader di ogni formazione che aveva dato la propria adesione «per ottenere un impegno a rispettare la città, in cambio della libertà di manifestare».
Il rischio provocazione
Una garanzia che tutti hanno concesso, compresi i rappresentanti dei gruppi dell’area antagonista che giungeranno da svariate zone d’Italia e forse anche dall’estero. Le stime di ieri sera parlavano di almeno 3 mila persone pronte a scendere in piazza. Ad alimentare i timori degli apparati di sicurezza è la possibilità che gli estremisti di destra di Forza Nuova, arrivati due sere fa per un sit-in che è stato invece impedito, possano decidere di infiltrarsi nel corteo. Ieri sera in uno scantinato del centro storico sono state trovate alcune mazze e questo ha ulteriormente alimentato i timori.
Il sindaco ha deciso la chiusura delle scuole e il blocco dei mezzi pubblici a partire dalle 11 proprio per limitare al massimo i problemi per i cittadini. Una misura precauzionale che dà il senso della paura che si respira in queste ore. Il capo della polizia Franco Gabrielli ha invece predisposto un dispositivo di massima sicurezza con reparti mobili in tenuta anti sommossa che — pur evitando di militarizzare Macerata — creeranno un cordone per tentare di prevenire incursioni e incidenti.
Lo spettro razzista
Di «paura della gente alimentata dai populisti», del rischio che «il razzismo prevalga se al governo non andranno persone capaci di governare il fenomeno dei flussi migratori», Minniti parla in serata intervenendo a un seminario. Il ministro sa bene che il corteo di oggi è un banco di prova importante in questa campagna elettorale avvelenata proprio dall’omicidio di Pamela e dalla furia di Traini, da chi «tenta di sfruttare una città martoriata».
Un clima denunciato anche dal ministro della Giustizia e candidato del Pd Andrea Orlando che, parlando a un comizio, torna a chiedere «la massima unità tra tutte le forze democratiche e antifasciste nel formulare una condanna, senza aggiungere nient’altro. Qualunque “ma”, qualunque disquisizione e distinguo finisce per incrinare un fronte che invece va costruito».
il manifesto 10.2.18
La scossa l’ha data il Sisma, travolto dalle adesioni
Il centro sociale. Dal 1997 a oggi, di terremoto in terremoto, l’impegno nel territorio
di Luca Pakarov


MACERATA Nel quartiere dominato dal grande complesso della Comunità Salesiana, c’è un edificio colorato da murales dove ha sede il centro sociale Sisma. All’interno, davanti al dipinto con Jack Nicholson al bancone in Shining, un andirivieni di compagni, altri sono inginocchiati intenti a disegnare gli striscioni che oggi sfileranno per le vie della città.
Da qui, nonostante il divieto della prefettura, sin da subito è partita la ratifica che la manifestazione si sarebbe svolta, dopo l’incredibile presa di posizione delle autorità che hanno posto sullo stesso piano Casa Pound, Forza Nuova e gli antifascisti. A quel punto sono piovute centinaia di adesioni anche dalle singole sedi delle associazioni che si erano defilate ufficialmente. Ciò è accaduto probabilmente anche per un’attenzione per niente scontata: il Sisma, comunicando fermamente di voler comunque scendere in strada, non ha rimproverato le segreterie nazionali di Anpi, Cgil, Libera e Arci che avevano deciso di chiamarsi fuori, ma ha affrontato frontalmente i diktat del sindaco Romano Carancini e del ministro Minniti.
Organizzare un grande corteo in una piccola città, dopo quanto è successo, significa avere senso di responsabilità. Un attributo che sorge da lontano, da più di vent’anni di storia, da quando nel ’97, dopo il terremoto, un’associazione si è riunita per richiedere l’uso di un ex asilo. L’asilo, dove fra l’altro alcuni del collettivo hanno mosso i primi passi da bambini, ora è frequentato da attivisti che vanno dai 20 ai 50 anni: ci sono disoccupati, precari, studenti, architetti o avvocati. Un forte senso di aggregazione evidenziato anche dal festival che ogni anno si svolge in memoria di David, un compagno scomparso.
Uno spazio sociale autofinanziato che si trova a pochi metri da una delle strade dove oggi passerà il corteo, e in cui si svolgono concerti, laboratori, presentazioni di libri, cene per raccolta fondi e festival sulla musica e l’editoria indipendente. Un attivismo politico e una vitalità che, malgrado la realtà di provincia, li ha visti sempre in prima linea. Due di loro, cresciuti politicamente nel Sisma, sono stati eletti in consiglio comunale con la lista civica «a sinistra per Macerata» che sosteneva il sindaco. Bene è specificare che nessuno ne ha fatto una carriera.
Se tanti centri sociali d’Italia hanno chiuso battente o non richiamano più l’attenzione di una volta, il Sisma è riuscito a rilanciarsi puntando sul principio che l’idea può diventare pratica, confidando sulla forza delle relazioni sociali in provincia: «La ricchezza del Sisma – ci dicono – è che non siamo slegati dalla città, conosciamo praticamente tutti e insieme possiamo toccare con mano tematiche ambientali, culturali o anche quelle meno politiche, portando e ricevendo esperienze e idee. L’importante è non evitare la complessità». Da un anno, con la rete Terre in Moto e insieme ad altre e diversificate realtà, i ragazzi del Sisma fanno raccolta fondi, creano eventi e monitorizzano i lavori per la ricostruzione dell’entroterra colpito dal terremoto dell’ottobre 2016. Ultimamente al Sisma ci sono stati diversi laboratori sulla narrazione dove hanno analizzato i condizionamenti della comunicazione e i passaggi con cui si ricostruisce una storia. Prima di salutare, qualcuno ci dice: «Il motore delle storie, ciò che fa partire un racconto, è il conflitto». Una rottura che a Macerata c’è stata e bisogna ripartire.
il manifesto 10.2.18
Oggi il manifesto in piazza a Macerata

Antifascismo. Il nostro striscione al fianco di associazioni, centri sociali, cittadini che rigettano qualsiasi rigurgito fascista e attentato xenofobo, in linea con la nostra storia e in solidarietà con le vittime dell'attacco di Traini
Oggi in piazza a Macerata, dalle 14.30 ai Giardini Diaz, ci saremo anche noi.
Lo striscione de il manifesto sarà presente al fianco delle associazioni, i centri sociali, le realtà della base, tutti i cittadini che non intendono accettare rigurgiti fascisti e terrorismo di matrice xenofoba e che respingono l’equiparazione di una marcia antifascista con quelle promosse dall’estrema destra.
Marceremo perché l’antifascismo non resti una mera dichiarazione di valore, ma un atto concreto, in linea con la nostra storia e in solidarietà con le vittime dell’attentato razzista di Luca Traini.
il manifesto 10.2.18
Macerata, partecipare è inevitabile
Dopo la retromarcia di mercoledì, l'Arci torna in piazza e anche l'Anpi è presente. La partigiana Lidia Menapace, candidata con Potere al Popolo: essere qui un dovere, io che la Resistenza l'ho fatta provo ribrezzo davanti a chi mette sullo stesso piano fascismo e antifascismo. Corteo nazionale il 24 a Roma, stavolta con l'adesione del Pd
di Andrea Fabozzi


La staffetta partigiana Lidia Menapace, 94 anni, è salita sul pullman a Bolzano questa mattina alla cinque. Destinazione Macerata. «Era inconcepibile pensare di impedire una manifestazione pacifica e antifascista, Minniti non ha scusanti. Che abbia messo fascisti e antifascisti sullo stesso piano a me, che la Resistenza l’ho fatta, fa semplicemente ribrezzo». Dunque al corteo. Malgrado le agitazioni del sindaco, che adesso impone un goffo coprifuoco, malgrado la retromarcia di mercoledì di Anpi, Arci, Cgil e Libera. Menapace è una dirigente dell’Anpi e spiega che non c’è «nessun bisogno di fare polemiche, oggi in piazza ci saranno moltissimi circoli partigiani, tra noi discutiamo e dissentiamo democraticamente». Ma il dissenso è stato tanto forte da imporre un sostanziale ripensamento rispetto alla decisione di disertare il corteo di Macerata. La presidente nazionale dell’Arci Francesca Chiavacci è già lì e oggi sarà in piazza.
Ieri mattina le organizzazioni promotrici dell’appello «Mai più fascismi» (oltre ad Anpi, Arci, Cgil e Libera ci sono gli altri sindacati confederali, l’Aned, le Acli, i comitati Dossetti…) si sono incontrate per segnare la prima correzione di rotta. Con un comunicato hanno chiesto al ministero dell’interno e alle autorità di polizia di non vietare il corteo di oggi – decisione che al ministero appariva già inevitabile, malgrado le prime minacce di Minniti («se non rinunciano ci penserà il Viminale»). Nella stessa riunione è stata confermata la data della manifestazione nazionale antifascista: il 24 febbraio a Roma; il Pd a questa manifestazione aderisce. Nel pomeriggio una riunione della presidenza nazionale dell’Arci determinava una svolta ancora più netta. Prima l’associazione avvertiva che «sono le forze neofasciste che devono essere condannate e fermate, non chi vi si oppone e vuole testimoniarlo pubblicamente». Poi la presidente Chiavacci decideva di partire per Macerata «per stare accanto ai circoli che hanno deciso di esserci. Ogni luogo in cui si pratica l’antifascismo è un luogo giusto e necessario».
Un successo della mobilitazione partita dal circolo «casa dei popoli Rinascita» di Pisa, che è andata avanti raccogliendo le firme di 190 circoli Arci decisi a partecipare alla manifestazione di oggi, malgrado l’iniziale dietrofront della dirigenza nazionale. Anche interi comitati provinciali che adesso sono una quindicina (tra gli ultimi Lecce, Catania e Bergamo). Quasi dello stesso livello la mobilitazione che ha spinto l’Anpi a un nuovo comunicato, nel quale si ricorda che la scelta di accogliere l’appello del sindaco di Macerata era stata «sofferta», per quanto «ponderata e libera» e adottata solo «per senso di responsabilità nei confronti della comunità cittadina». Diversi comitati (Roma, Pescara) hanno aggiunto la loro adesione a quelle arrivate giovedì, ha deciso di esserci anche il circolo di Macerata, che ieri ha ricevuto la visita della presidente nazionale Carla Nespolo. Che ha trovato così il modo di essere vicina alla città e ai feriti.
Anche la segretaria nazionale della Cgil Susanna Camusso ha sentito il bisogno di spiegare ai suoi iscritti la retromarcia di mercoledì. In una lettera interna ha attribuito la responsabilità principale ai rappresentanti regionali e cittadini: «Non può essere nostro costume proclamare una manifestazione senza il consenso delle strutture locali». La Fiom, tra le prime a rompere con la decisione di disertare, ha organizzato i pullman e oggi sfilerà a Macerata accanto ad Emergency. Anche don Ciotti ha spiegato che «Libera ci sarà, come sempre» (ma non lui in persona, che ieri sera era a Bari). Liberi e Uguali di fronte ai nuovi eventi ha deciso di ingrossare la sua delegazione, inizialmente limitata ai tre capi partito: ci saranno una decina di parlamentari. La lista +Europa ieri sera ha deciso di aderire e il segretario dei radicali italiani Riccardo Magi sarà a Macerata. E c’è dal primo momento Potere al Popolo, lista per la quale Lidia Menapace è candidata in Trentino. «Sono al senato, alla camera c’è Boschi che dice di voler imparare il tedesco. Siccome parla sempre di Renzi le ho detto “stai attenta, leader in tedesco si dice führer”».
il manifesto 10.2.18
Mai più fascismi
Appello a tutte le Istituzioni democratiche


Noi, cittadine e cittadini democratici, lanciamo questo appello alle Istituzioni repubblicane.
Attenzione: qui ed ora c’è una minaccia per la democrazia.
Si stanno moltiplicando nel nostro Paese sotto varie sigle organizzazioni neofasciste o neonaziste presenti in modo crescente nella realtà sociale e sul web. Esse diffondono i virus della violenza, della discriminazione, dell’odio verso chi bollano come diverso, del razzismo e della xenofobia, a ottant’anni da uno dei provvedimenti più odiosi del fascismo: la promulgazione delle leggi razziali.
Fenomeni analoghi stanno avvenendo nel mondo e in Europa, in particolare nell’est, e si manifestano specialmente attraverso risorgenti chiusure nazionalistiche e xenofobe, con cortei e iniziative di stampo oscurantista o nazista, come recentemente avvenuto a Varsavia, persino con atti di repressione e di persecuzione verso le opposizioni.
Per questo, uniti, vogliamo dare una risposta umana a tali idee disumane affermando un’altra visione delle realtà che metta al centro il valore della persona, della vita, della solidarietà, della democrazia come strumento di partecipazione e di riscatto sociale.
Per questo, uniti, sollecitiamo ogni potere pubblico e privato a promuovere una nuova stagione di giustizia sociale contrastando il degrado, l’abbandono e la povertà che sono oggi il brodo di coltura che alimenta tutti i neofascismi.
Per questo, uniti, invitiamo le Istituzioni a operare perché lo Stato manifesti pienamente la sua natura antifascista in ogni sua articolazione, impegnandosi in particolare sul terreno della formazione, della memoria, della conoscenza e dell’attuazione della Costituzione.
Per questo, uniti, lanciamo un allarme democratico richiamando alle proprie responsabilità tutti i livelli delle Istituzioni affinché si attui pienamente la XII Disposizione della Costituzione (“E` vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”) e si applichino integralmente le leggi Scelba e Mancino che puniscono ogni forma di fascismo e di razzismo.
Per questo, uniti, esortiamo le autorità competenti a vietare nelle competizioni elettorali la presentazione di liste direttamente o indirettamente legate a organizzazioni, associazioni o partiti che si richiamino al fascismo o al nazismo, come sostanzialmente previsto dagli attuali regolamenti, ma non sempre applicato, e a proibire nei Comuni e nelle Regioni iniziative promosse da tali organismi, comunque camuffati, prendendo esempio dalle buone pratiche di diverse Istituzioni locali.
Per questo, uniti, chiediamo che le organizzazioni neofasciste o neonaziste siano messe nella condizione di non nuocere sciogliendole per legge, come già avvenuto in alcuni casi negli anni 70 e come imposto dalla XII Disposizione della Costituzione.
Per questo, uniti, come primo impegno verso una più vasta mobilitazione popolare e nazionale invitiamo a sottoscrivere questo appello le cittadine e i cittadini, le associazioni democratiche sociali, civili, politiche e culturali. L’esperienza della Resistenza ci insegna che i fascismi si sconfiggono con la conoscenza, con l’unità democratica, con la fermezza delle Istituzioni.
Nel nostro Paese già un’altra volta la debolezza dello Stato rese possibile l’avventura fascista che portò sangue, guerra e rovina come mai si era visto nella storia dell’umanità. L’Italia, l’Europa e il mondo intero pagarono un prezzo altissimo.
Dicemmo “Mai più!”; oggi, ancora più forte, gridiamo “Mai più!”.
ACLI – ANED – ANPI – ANPPIA – ARCI – ARS – ARTICOLO 21 – CGIL – CISL – COMITATI DOSSETTI – COORDINAMENTO DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE – FIAP – FIVL – ISTITUTO ALCIDE CERVI – L’ALTRA EUROPA CON TSIPRAS – LIBERA – LIBERI E UGUALI – LIBERTA’ E GIUSTIZIA – PCI – PD – PRC – UIL – UISP
ADERISCONO:
AICVAS – ALLEANZA DELLE COOPERATIVE ITALIANE DI MODENA – ANEI – ASSOCIAZIONE NAZIONALE DI AMICIZIA ITALIA CUBA – ASSOCIAZIONE RADICALI SARDI – AUSER – CIRCOLO DI CULTURA OMOSESSUALE MARIO MIELI – DiEM25 ITALIA – FEDERAZIONE DEI CIRCOLI GIUSTIZIA E LIBERTÀ – GIOVANI DEMOCRATICI – I SENTINELLI DI MILANO – LA RETE PER LA COSTITUZIONE – LINK COORDINAMENTO UNIVERSITARIO – MEMORIA ANTIFASCISTA – MOVIMENTO FEDERALISTA EUROPEO TOSCANA – MOVIMENTO GIOVANILE DELLA SINISTRA – PMLI – RETE DEGLI STUDENTI MEDI – RETE DELLA CONOSCENZA – UGO NESPOLO – ALDO TORTORELLA – UNIONE DEGLI STUDENTI – UNIONE DEGLI UNIVERSITARI
La Stampa 10.2.18
Il fattore razzismo nel voto
di Lucia Annunziata


Macerata ha cambiato tutto, squadernando un panorama italiano rimasto finora sotto lo zerbino dell’ interesse nazionale.
Si capisce il perché di questa rimozione: l’Italia che esce strisciando da sotto questo zerbino non è per nulla tranquillizzante. Luca Traini, l’autore del raid, fan della Lega, e orgoglioso proprietario di una copia del Mein Kampf, sembra uscito da una memoria di altri tempi. Sulla sua tempia destra è tatuato un dente di lupo, il simbolo usato da «Das Reich», la panzer division delle Waffen SS di Hitler. Il dente di lupo è però anche il simbolo di Terza Posizione, movimento neofascista fondato nel 1978 tra gli altri da Roberto Fiore, il quale dal 1997 è diventato leader di Forza Nuova, partito di estrema destra la cui leadership ha definito alcune drammatiche azioni di questi nostri ultimi anni. Giusto per farci capire, Fn è un movimento politico per nulla nostalgico: si è intestato la rinascita di temi, innominabili fino a poco tempo fa, del fascismo estremo. Dalle teste di maiale inviate nel gennaio del 2014 all’ambasciata di Israele, al Museo della Memoria, e alla Sinagoga di Roma, firmando i pacchi con il nominativo Giovanni Preziosi, nome del ministro fascista che firmò il «Manifesto della razza»; allo striscione «Ricordati di non ricordare» esposto in una scuola contro la memoria della Shoah; al centinaio di aggressioni, in nome della superiorità della razza bianca, contro bengalesi, oppositori politici, gay. Molti dei nostri lettori ricorderanno anche recenti azioni contro la carta stampata, a Roma ed a Torino.
Sono questi alcuni fotogrammi del racconto di quel che si muove a destra in Italia, in un intreccio di gruppi la cui influenza arriva fino a dentro ai partiti più istituzionali. La Lega, Fratelli d’Italia, ma anche un’area che ha girato in passato intorno a Forza Italia.
E’ un ritratto dell’Italia, che è certo difficile raccontarci. Eppure sotto la spinta dell’immigrazione l’intero Occidente piega a destra ormai da anni, ma nel nostro discorso pubblico questo peso è valso sempre come un «altrove» - Europa dell’Est o Olanda, Germania o Usa. Ovunque insomma ma non da noi, Italia piena notoriamente di brava gente. Tutti impegnati nelle prime fasi di questa campagna elettorale più a discutere della ampiezza della grande coalizione futura che del vento che spira nel Paese.
Macerata ha rotto questo quadro, restituendoci il ritratto di una provincia una volta serena lacerata da razzismo, paure e fobie. Proprio quella Macerata che è stata considerate uno dei luoghi dove l’immigrazione è stata gestita nella maniera più virtuosa: sapete infatti quanti sono gli immigrati accolti? Solo 284. Come mai, allora, un paio di centinaia di immigrati ha fatto salire così in alto lo scontro sulla immigrazione?
La domanda è di quelle che ci fa ora guardare in maniera completamente diversa alle proiezioni elettorali: lì dove prima leggevamo solo la ingovernabilità del proporzionale, oggi leggiamo la spinta impetuosa a destra. Come abbiamo letto proprio dalle colonne di questo giornale, bastano ora solo 600 mila voti alla coalizione di destra per arrivare a governare da sola.
Ma quale destra sarà? Quella di una Lega con aggancio alla destra fascista? O quella di Silvio Berlusconi? E lo stesso Berlusconi sarà in versione moderata - quella che finora tutti hanno apprezzato - o la competizione con Salvini lo avrà trasformato in versione radicale ?
E la sinistra spiazzata dal mutato panorama politico, come risponderà: indurendo le proprie politiche sulla immigrazione, o ravvivando la fiamma dell’antifascismo? Un antifascismo che può oggi distinguersi, di fronte a un fascismo più estremo, dall’antifascismo dei centri sociali?
A poche settimane dal voto, la politica sta faticosamente rivedendo I propri posizionamenti, obbligata a farlo in corsa contro il tempo. Se finora non avevamo capito il risultato elettorale finale, ora siamo addirittura in alto mare.
La Stampa 10.2.18
L’eco degli spari ci accompagnerà fino al giorno delle elezioni
di Marcello Sorgi


Magari sarà stata pure eccessiva la cautela che aveva impedito al centrosinistra di recare solidarietà alle vittime della strage del neonazista Luca Traini, e ha portato il sindaco di Macerata a lanciare un appello per evitare ulteriori divisioni e per lasciare alla comunità cittadina il tempo di ricucire le proprie ferite. Era evidente, da parte del governo e di Renzi, il desiderio di far spegnere i riflettori sulla città che, con l’orribile assassinio di Pamela Mastropietro da parte di un nigeriano con il permesso di soggiorno scaduto e con la folle reazione del giovane maceratese che ha sparato sui migranti, è diventata il trampolino di lancio per la svolta dura nella campagna elettorale del centrodestra. Una durezza che, lo dicono i sondaggi, sta funzionando, portando consensi alle liste di Berlusconi, Salvini e Meloni, e sottraendoli a quelle di Renzi e dei suoi alleati, additati come responsabili della pretesa «invasione» di clandestini.
La decisione di Liberi e Uguali, Anpi e Arci di non accettare la linea della cautela e manifestare già da oggi contro le recrudescenze fasciste e naziste otterrà invece l’effetto opposto. Anche perché, a parte i rischi di tensioni e scontri che possono sempre avvenire in situazioni come queste, la giornata della sinistra radicale sarà seguita domenica prossima da una nuova manifestazione del centrosinistra e il 24 da una manifestazione nazionale. Quanto a dire che Macerata con i suoi lutti resterà al centro della campagna elettorale fin quasi alla vigilia del voto.
È difficile dire quanto potrà portare e quanto potrà togliere in termini di voti la legittima sollevazione delle coscienze antifasciste. Ma è sicuro che il percorso temporale delle tre manifestazioni non resterà senza repliche da parte del centrodestra. E la segreta speranza di Renzi, magari grazie a Sanremo e della riduzione degli spazi di propaganda tv, di vedere Macerata a poco a poco dimenticata e fuori dagli argomenti dello scontro preelettorale è così destinata a essere delusa.
Nella cittadina delle Marche oggi ci saranno Emergency con Gino Strada, Fratoianni e Civati, i centri sociali, le «Madri per Roma città aperta» (genitori di vittime della violenza di destra), che hanno accusato, soprattutto queste ultime, il sindaco di impedire di manifestare «l’antifascismo riconosciuto in Costituzione». Di qui la marcia indietro del primo cittadino, che ha blindato la città, fatto chiudere i negozi, sospeso i carri del Carnevale, e si accinge a vivere il periodo più lungo e più rischioso della sua amministrazione.
La Stampa 10.2.18
“In piazza contro l’odio anche le bandiere Anpi
Ma lo Stato è latitante”
La presidente dell’associazione partigiani “Salvini è il mandante morale degli spari”
di Gabriele Martini


«Fra poche ore a Macerata tanti antifascisti faranno sentire la loro voce. E credo che in piazza ci saranno anche bandiere dell’Anpi». Carla Nespolo è la prima donna presidente dell’Associazione nazionale partigiani. Spiega che la sua organizzazione formalmente non aderisce alla manifestazione di oggi, ma non nega che molti iscritti sfileranno nelle vie della città marchigiana: «Dopo tanto odio, spero che il corteo serva a dare una scossa democratica a questo territorio».
Prima avete indetto la manifestazione, poi vi siete tirati indietro, infine avete chiesto alle autorità di autorizzare il corteo. Come mai queste oscillazioni?
«Avevamo proposto un’iniziativa assieme a tutte le altre associazioni del coordinamento “Mai più fascismi”. Nel frattempo sono successe cose importanti, tra le quali l’appello a non manifestare lanciato dal sindaco. Un appello che non ho apprezzato».
Perché?
«Perché in questa orribile vicenda lo Stato è latitante. Io mi aspetto che le istituzioni scendano in campo a difesa della democrazia. Il sindaco avrebbe dovuto organizzare una grande manifestazione a Macerata per dire no al razzismo».
Invece ha chiesto di rinunciare a scendere in piazza per azzerare il rischio di violenze.
«E noi, pur considerando sbagliato l’appello del primo cittadino, abbiamo deciso di ascoltarlo. Ma in questa vicenda c’è un aspetto ancor più deprimente: nella richiesta di sospendere tutte le iniziative c’è stata un’equiparazione inaccettabile tra manifestazioni anti-fasciste e manifestazioni fasciste. È una cosa gravissima».
A Macerata la tensione è alta. Il sindaco ha chiuso le scuole e bloccato la circolazione degli autobus.
«È l’ennesimo errore. La città doveva essere accogliente è inclusiva. L’approccio istituzionale non è stato all’altezza».
L’agguato compiuto da Luca Traini è un atto di terrorismo?
«Assolutamente sì. È terrorismo razzista. Ed è vergognoso che alcune forze politiche abbiano difeso, sostenuto e supportato l’aggressore».
Salvini è il mandante morale di quegli spari?
«Io credo di sì. Questo continuo incitamento all’odio razziale da parte della Lega mette l’Italia fuori dalla storia e ci fa regredire come comunità».
Crede che i rigurgiti fascisti possano mettere in pericolo la democrazia italiana?
«La democrazia italiana è solida. Ma l’indifferenza e l’individualismo sono un campanello d’allarme. Bisogna ricostruire momenti di socialità e di rispetto per la vita umana. L’unico a farlo davvero è il Papa, e lo dico da laica».
È normale che alcune forze politiche dichiaratamente fasciste siano ammesse alle elezioni?
«No, non lo è. Noi chiediamo al ministro Minniti di sciogliere queste organizzazioni perché la Costituzione parla chiaro».
Vale anche per la Lega?
«Per chi fa proclami razzisti, ci sono i tribunali. Ma la verità è che il fascismo si batte solo attraverso la cultura».
La Stampa 10.2.18
Oggi la manifestazione antifascista, scuole chiuse e autobus fermi I negozianti abbassano le serrande. Il sindaco: spero sia una festa
di Francesco Grignetti


La manifestazione antifascista e antirazzista si farà. Il prefetto ha dato il permesso. «Garantiscono che sarà pacifica».
Il ministro Marco Minniti aveva appoggiato l’appello del sindaco a soprassedere, ma non è andata così. Ora Macerata si prepara a un sabato difficile. Chiuse scuole e università, uffici e negozi. Sbarrate persino le chiese; non si terrà la messa vespertina.
Al corteo, che resterà fuori dalle antiche mura, si attendono alcune migliaia di manifestanti: ci saranno la presidente dell’Arci Francesca Chiavacci e Sabina Guzzanti, Gino Strada di Emergency e diversi parlamentari di LeU, l’associazione Libera di don Ciotti e i circoli dell’Anpi, la segretaria della Fiom Francesca Re David, il mondo delle Ong, il presidente del Gus, Paolo Bernabucci, i radicali di Più Europa. In città, però, è bastato leggere l’elenco delle sigle che aderiscono, i centri sociali, i circoli anarchici, gli antagonisti, pure i pullman in arrivo dal Nord Europa, e poi gli slogan barricadieri del centro sociale di qui, il Sisma, ed ecco che a Macerata sembra d’essere alla vigilia di una giornata da guerriglia urbana.
Ci sono negozianti che stanno montando tavole di legno alle vetrine, manco fossero i sacchi di sabbia alle finestre che cantava Lucio Dalla. In via Gramsci, il signor Giuseppe Romano si preoccupa del suo negozio: «Sa - racconta - oggi abbiamo provato in tanti ad abbassare la serranda. Impossibile. È del tutto arrugginita perché queste è la nostra vita a Macerata: qui i negozianti non abbassano mai le serrande perché non abbiamo motivo di avere paura. Questa è una piccola città tranquilla dove non succede mai niente. Perciò ho dovuto chiamare un falegname. Non voglio rischiare». Il suo vicino ha fatto incetta di grosse lastre di polistirolo. In piazza della Libertà, il ristorante terrà aperto, ma per sicurezza il titolare ha detto alla moglie incinta di non uscire di casa. E così si spargono le voci più incontrollabili, anche grottesche, tipo i ragazzi cattivi che comprano le felpe nere all’outlet fuori città. Sorride imbarazzata la signora Giulia, del bar in centro: «Noi non siamo abituati. Questa non è mica una grande città».
Di grande c’è solo la paura. È quel che dice anche il vescovo, monsignor Nazzareno Marconi: «Se qualsiasi altra cittadina si trovasse tutte le tv e i giornali per una settimana a dire quello che dicono, alla fine si spaventerebbe. Io non voglio minimizzare né ciò che è successo a quella figliola, né la gravità dell’azione di quel ragazzo che vedo imbevuto di idee non sue... Mi dà l’idea di quelli che prendono tutto quello che c’è su Internet. Ma senza senso critico, sono capaci di credere anche che i marziani siano fra noi».
Figurarsi che fino alla settimana scorsa Macerata, città straordinaria nell’accoglienza, dove la qualità della vita è eccellente, il centro è un salotto senza macchine, e ottima è la stagione lirica allo Sferisterio (un teatro ottocentesco a cielo aperto, unico al mondo), era tutta proiettata per diventare la Capitale della Cultura del 2020. «Ma ora ci troviamo a essere diventati il simbolo della ferocia del mondo e non ce lo meritiamo».
Il sindaco dem, Romano Carancini, aveva fatto un appello a rinviare la manifestazione. Poi ha sperato in un divieto della prefettura. Alla fine non è andata così «e io spero tanto che tutto fili liscio. Però qualche preoccupazione ce l’ho». Per oggi il sindaco ha chiuso le scuole e sospeso gli autobus al pomeriggio. A ruota hanno seguito gli uffici pubblici, i negozi, i ristoranti, persino i parcheggi coperti. Chiusa anche l’università. E le chiese. Il sindaco s’arrabbia però a sentire che gli danno dell’antidemocratico o d’essere un antifascista troppo tiepido. «Io - dice - condivido i contenuti della manifestazione dalla A alla Zeta. Però sento anche le voci della città. E ripeto che Macerata aveva bisogno di rifiatare. Non ho mai detto che l’antifascismo non si debba esprimere. È falso. Io dicevo che se la manifestazione fosse stata spostata di qualche giorno, magari tanti che oggi non manifesteranno avrebbero capito l’importanza di esserci. A farla così, a caldo, si rischia di manifestare per autoreferenzialità». Lui, Carancini, per coerenza, non ci sarà. «Naturalmente mi auguro che sia una festa. È importante che la manifestazione sia antifascista, antirazzista, e a difesa del valore della vita, perché ci sono stati i feriti, ma anche quella povera ragazza morta».
Non è cerchiobottismo. È piuttosto il fastidio di essersi trovati al centro delle cronache nazionali e internazionali, ed epicentro della campagna elettorale. Sussurra anche il vescovo: «Io non prendo posizioni politiche, ci mancherebbe. Però tanta attenzione verso le vittime non mi sembra sia per vicinanza cristiana. Né da una parte, né dall’altra. Avranno i loro motivi...».
Il Fatto 10.2.18
Oggi è il giorno di Macerata, con i poliziotti in ogni angolo
Il corteo antifascista. Una città è blindata
di Sandra Amurri e Pierfrancesco Curzi


Quella che si prepara ad accogliere la manifestazione antifascista è una città sospesa fra sgomento e paura. Una città scombussolata, addolorata dalla violenza contro una povera ragazza e contro esseri umani colpevoli solo del colore della pelle. Una città, ancora, che non si rivede nei tanti messaggi di solidarietà all’autore della tentata strage fascista che continuano a pervenire al suo avvocato.
Macerata impaurita al punto che ieri molte signore sono scese da casa per portare da mangiare ai poliziotti che, in tenuta antisommossa, presidiano le strade, quasi in segno di ringraziamento e a volersi assicurare una sorta di protezione preferenziale. Macerata che, fino alla tragedia – come tutte le tragedie umane senza colore – a cui si è aggiunta la sparatoria razzista che ha seminato terrore era, rispetto agli altri capoluoghi di provincia della Regione Marche, forse, la città più assonnata. Poi d’un tratto si è ritrovata palcoscenico della crudeltà e della violenza fascista. Un salto troppo grande per poter essere digerito in così poco tempo.
“È innegabile che, quando a commettere delitti così efferati è un immigrato, appare immediato, più semplice da digerire perchè scatta una sorta di autoassoluzione come se, l’autore, fosse un corpo estraneo, ma non è giusto” spiega una elegante e colta signora che incontriamo dinanzi allo Sferisterio. “Lo confesso, io a volte rinuncio ad andare a comperare il pane dove stazionano gli immigrati per chiedere l’elemosina perché non riesco a incrociare il loro sguardo implorante ed entrare facendo finta di nulla, ma alla fine della settimana è un costo che pesa sulla mia povera pensione”, ci racconta un’arzilla signora, che aggiunge: “Ho 80 anni e vivo sola”. Chiedono l’elemosina, vendono calzini, fanno i tassisti abusivi e spacciano anche. È il mondo di chi, arrivato alla ricerca di un lavoro, quando il lavoro stava finendo anche qui, si è trasformato in vite umane a perdere che vagano da città a città, da paese a paese, da treno a treno, ogni giorno, con pesanti borsoni sulle spalle. Basti pensare che le province di Macerata e Fermo erano il distretto calzaturiero più grande d’Europa e uno fra i più grandi al mondo. Fabbriche che producevano scarpe di qualità per soddisfare un mercato che non sembrava mai sazio. E la forza lavoro era soprattutto rappresentata da immigrati perfettamente integrati nel tessuto sociale. Poi la crisi ha spazzato via le fabbriche, non passa giorno che non ne chiuda una, messo in ginocchio il terziario che viveva di riflesso e i primati di allora, il più alto numero di Ferrari Testarossa a Montegranaro, sono divenuti un lontano ricordo.
“È tutta colpa dei politici che, invece di trovare soluzioni ai problemi che affliggono noi cittadini, pensano alle loro poltrone”, è il commento che ci consegna un ragazzo che domani, dice parteciperà al corteo “perché è un dovere civico”. Il corteo della sinistra, più o meno unita, per ricordare i fatti della settimana scorsa, percorrerà il miglio rosso: partenza e arrivo ai giardini Diaz, la grande area verde, compiendo il giro ad anello attorno alle mura della città. Nessun passaggio, dunque, a meno di sforamenti alla regola, in via dei Velini, dove si è consumato un pezzo della sparatoria folle di Luca Traini, e davanti al Monumento ai Caduti, luogo dove il 28enne di Tolentino si è fatto arrestare, fasciato dal tricolore. Macerata è blindata per cercare di limitare i danni di un evento di questa portata. E solo oggi capiremo se la città, le sue istituzioni saranno in grado di affrontare una prova del genere. Non mancano gli interrogativi come la viabilità, i vigili urbani sarebbero in difficoltà, sia come pianta organica che come dotazione di mezzi e di segnaletica per rendere meno pesante l’impatto sulla circolazione. Mentre l’apparato di sicurezza, visti i precedenti di giovedì sera con Forza Nuova, dovrebbe essere calibrato. La concentrazione è stata fissata per le 14.30. “Fino a giovedì sera”, spiega un portavoce della sinistra antagonista “la partenza era da piazzale della stazione. Ma il pacchetto di partecipanti è più cospicuo e la vecchia soluzione non reggerebbe. Sarà un corteo di protesta non violento”. Le scuole, di ogni ordine e grado, resteranno chiuse. Dalle 13.30, inoltre, il trasporto pubblico subirà uno stop nel territorio comunale maceratese fino alle 20, orario in cui la manifestazione dovrebbe concludersi. Nessuna certezza sul numero dei partecipanti considerando che alcune associazioni e organismi vicini alla sinistra, Anpi, Arci, Cgil (d’accordo sull’ipotesi di una manifestazione generale a Roma il 24 febbraio) sono spaccate al loro interno sull’opportunità di essere presenti. La Fiom ci sarà e non mancherà neppure Karim Franceschi, il senigalliese che negli anni scorsi ha preso parte al conflitto armato nel territorio curdo-siriano del Rojava contro l’avanzata dello Stato islamico.