sabato 2 marzo 2013

l’Unità 2.3.13
Bersani tira dritto sul governo di scopo
«No a subordinate»
Il segretario prepara la Direzione di mercoledì e pensa di mettere ai voti un documento politico ad hoc
I dubbi di Veltroni: «Serve un esecutivo sostenuto da un’ampia maggioranza»
di Simone Collini


Nessuna correzione di rotta, nessuna subordinata. Chi le suggerisce cerca soltanto «rivincite congressuali». Per il Pd queste sono ore difficili, visto il risultato elettorale deludente ma che ora va comunque gestito con molta attenzione. Pier Luigi Bersani, nonostante le perplessità che emergono nel suo partito, gli insulti di Beppe Grillo e la consapevolezza di quanto sarà complicato ottenere dal Quirinale il via libera a presentarsi alle Camere per il voto di fiducia senza avere già sulla carta una maggioranza chiara, è intenzionato a tirare dritto sulla linea annunciata all’indomani del voto. Cioè la proposta di un governo di scopo che chieda la fiducia per approvare «a chi ci sta» un pacchetto di leggi su lotta alla corruzione, conflitto d’interessi, riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, sistema elettorale e misure per l’occupazione e la green economy.
Il leader del Pd che sta valutando l’ipotesi di far mettere ai voti alla Direzione di mercoledì non solo la sua relazione ma un documento politico ad hoc sa che la prima condizione per poter procedere su questa strada e tentare di dar vita a quello che definisce «un governo per il cambiamento» è avere dietro di sé un partito che lo segua compatto. E questo, al momento, non c’è.
Matteo Renzi, che pure smentisce di essere disponibile a fare il premier di una grande coalizione e che pure lancia una frecciata agli «sciacalli del giorno dopo» che si stanno avventando in queste ore contro Bersani, insiste sul fatto che il centrosinistra ha perso le elezioni e definisce un errore l’offerta della presidenza delle Camere a Pdl e Movimento 5 Stelle.
Martedì, alla vigilia della Direzione del Pd, il sindaco di Firenze riunisce i parlamentari a lui più vicini. Ufficialmente, per un confronto in vista dei prossimi impegni istituzionali, ma è chiaro che a quella riunione si dovrà anche decidere che tipo di posizione tenere all’incontro del giorno dopo. Un’idea su quella che potrà essere è però possibile farsela già ora, ascoltando Graziano Delrio: «Piuttosto che stare a guardare le frasi di Grillo e Casaleggio meglio che continui il governo di Monti, ci sono cose urgenti da fare, per qualche mese si può andare avanti così». Per il sindaco di Reggio Emilia «l’incarico a Bersani non è scontato»: «Mi sembra un tentativo già morto dopo la reazione di Grillo e Casaleggio. È una stagione diversa, Napolitano darà l'incarico a chi possa interpretare questa nuova stagione. Ma se bisogna fare pasticci è meglio un po’ di prorogatio fino alle prossime elezioni dell’attuale governo». E non sono soltanto i democratici più vicini a Renzi a puntare o a una prosecuzione di Monti o a un nuovo governo tecnico, con magari a capo un ministro che in questi mesi si sia particolarmente distinto (il nome di Fabrizio Barca è il più citato).
Anche Walter Veltroni è convinto che si debba dar vita a un governo del presidente, cioè un nuovo esecutivo che sia guidato da una personalità scelta dal Quirinale e che possa essere sostenuto da un’ampia maggioranza in Parlamento. E in una riunione a cui hanno partecipato Walter Verini, Ermete Realacci, Paolo Gentiloni, Enrico Morando e altri esponenti Pd vicini all’ex segretario è stato bocciato non solo il tentativo di far nascere un governo di minoranza con il contributo dei parlamentari del M5S (perché sia possibile il voto di fiducia a Palazzo Madama è necessario che i senatori grillini escano dall’aula), ma anche l’indisponibilità mostrata da Bersani a mettere sul piatto anche ipotesi secondarie.
Al Nazareno definiscono questi movimenti dei «tentativi di rivincite congressuali che non portano da nessuna parte». Il segretario del Pd non ci sta a farsi logorare prima ancora che la partita entri nel vivo, e aprendo i lavori della Direzione, mercoledì, dovrà convincere tutti che anche soltanto parlare adesso di ipotesi subordinate significa indebolire la possibilità che l’agognato «governo per il cambiamento» veda la luce, che non ci sono le condizioni di sostenere un esecutivo insieme a un Pdl ancora saldamente nelle mani di Silvio Berlusconi e che checché ne dicano Grillo e altri, questa operazione non prevede né un «mercato delle vacche» per garantirsi il sostegno di qualche senatore Cinquestelle né un voler inseguire il comico. È una sfida, proprio come dice anche Renzi, quella che Bersani vuole lanciare al M5S. Una sfida a confrontarsi «a viso aperto» per ottenere quel cambiamento tanto invocato dai Cinquestelle quando erano fuori dal Parlamento. E se Grillo ribadisse il niet e impedisse la nascita del governo? Per Bersani sarebbe a quel punto il comico che si assumerebbe la responsabilità di portare il Paese alle urne. Anche se l’uscita di ieri di Giorgio Napolitano («dubito che un nuovo presidente pensi soltanto a sciogliere le Camere») ha fatto suonare più di un campanello d’allarme al quartier generale del Pd.

l’Unità 2.3.13
LA CGIL
«No a governo tecnico o a grande coalizione Servono forti scelte di cambiamento»

No a un governo tecnico-istituzionale, né a una grande coalizione perché «il Paese necessita di un governo propositivo capace di produrre cambiamento, a cominciare da una nuova legge elettorale, dalla riduzione dei costi della politica e dalla riforma degli assetti istituzionali». Lo dice la segreteria nazionale della Cgil, riunitasi per valutare la situazione dopo le elezioni. Il prossimo governo, secondo il sindacato guidato da Susanna Camusso, dovrà soprattutto «affrontare le emergenze sociali e del lavoro e impostare, con giustizia redistributiva, una politica economica che già ponga le basi per lo sviluppo». Per la Cgil, «il voto espresso dagli italiani spiega una nota parla, prima di tutto, all’Europa con una chiara ed inequivocabile bocciatura delle politiche di rigore e austerità fin qui adottate e che hanno

l’Unità 2.3.13
Con i voti degli italiani all’estero il Pd è primo anche alla Camera
Il conteggio finale conferma il «sorpasso» nei confronti di Grillo per circa 150 mila voti
di Mario Castagna


ROMA I voti della circoscrizione estero sono ormai stati conteggiati tutti ed è solo grazie ad i nostri connazionali che risiedono fuori dai confini, che il Partito Democratico può dichiararsi il partito più votato. Con poco meno di 9 milioni di voti, 8.932.615 per la precisione, il Pd distanzia il movimento di Grillo di circa 150.000 voti e si aggiudica la maggioranza assoluta dei seggi anche tra i rappresentanti degli italiani residenti all’estero eletti con un sistema proporzionale e con il voto di preferenza. Cinque i deputati eletti (2 in Europa e 1 in ognuna delle altre tre ripartizioni territoriali) su dodici posti a disposizione e quattro i senatori eletti su sei. Probabilmente i dirigenti democratici avrebbero preferito che le percentuali dei risultati elettorali in Italia fossero quelle della circoscrizione estera. Il Pd è il primo partito, con un terzo dei voti, mentre il Movimento Cinque Stelle solo ultimo con il 10% ed un solo deputato eletto nella ripartizione Europa.
«Il risultato del Pd è un risultato molto positivo, aumentiamo il numero di eletti, che passa da 8 a 9, e grazie al nostro lavoro il Pd risulta il partito più votato ci racconta Laura Garavini, che con 37.000 preferenze è in testa nella circoscrizione estero sarebbe il caso ora di procedere ad una riforma del sistema di voto che si esercita per corrispondenza. Anche questa volta ci sono giunte voci di brogli che rischiano di sporcare un grande esercizio di democrazia».
Purtroppo il meccanismo di voto non permette di garantire perfettamente la regolarità delle operazioni elettorali. Troppe le schede inviate per posta che rimangono in giro e che spesso vengono vendute per essere votate. Fece molto scalpore in Italia il caso di Nicola Di Girolamo, l'ex senatore del Pdl eletto all’estero nel 2008, coinvolto in un losco affare di mafia, ma non stupì molto chi conosce bene il voto all’estero.
Scandali a parte, il voto all’estero ha visto anche un inaspettato successo della lista Monti, soprattutto in Europa. Due secondo Laura Garavini i motivi di questo risultato positivo: «Da una parte la stampa straniera, soprattutto in Europa, ha accreditato molto l’immagine positiva di Mario Monti. Dall’altra gli italiani all’estero hanno reagito in questo modo al discredito che il governo Berlusconi aveva causato all’immagine del nostro Paese, con le sue continue gaffe». A trainare il successo della lista centrista è stato infatti l’immagine dell’attuale Presidente del Consiglio e lo dimostra il fatto che molti elettori hanno addirittura scritto il nome di Mario Monti nello spazio dedicato alla preferenza.
Anche i dirigenti del Pdl devono aver avuto la consapevolezza che il nome di Berlusconi abbia rovinato l’immagine dell’Italia all’estero. Nel simbolo presentato alle elezioni non compare il nome del Cavaliere ma campeggia la scritta azzurra su sfondo bianco «Centrodestra nazionale». Anche loro devono aver avuto un sussulto di dignità nel presentarsi con il nome di Silvio Berlusconi al di fuori dei confini nazionali. Magro comunque il risultato del centrodestra che raccoglie un solo deputato e nessun senatore.
I voti alla lista Grillo sono stati alla fine 95.000 solo alla Camera. Molte le schede con una preferenza espressa, circa la metà, segno che il voto al M5S era un voto ponderato e scelto accuratamente e non solo espressione di un’opinione di protesta.
Alla fine non hanno votato gli studenti Erasmus per i quali tanti avevano fatto pressioni affinché potessero farlo per corrispondenza come tutti gli altri. Loro però non si sono dati per vinti. Tra mercoledì 20 e sabato 23 febbraio gli studenti hanno organizzato seggi autogestiti, dove hanno votato più di mille studenti, ad Amsterdam, Berlino, Bratislava, Bruxelles, Casablanca, Cork, Dublino e molte altre città. E lo scrutinio, anche questa volta, ha premiato il centrosinistra più di quanto sia avvenuto in Italia.

La Stampa 23,13
Nei Democratici è già partita la corsa per le nuove primarie
I “giovani turchi” pronti a scendere in campo, spunta il nome di Barca
di Carlo Bertini


Cosa succederà se si dovesse tornare a votare tra pochi mesi? È chiaro che dovremmo rifare le primarie per decidere il candidato». Messo di fronte all’eventualità di uno scenario nefasto di un ritorno alle urne in caso di impasse totale, uno dei leader dei «giovani turchi», fa capire con chiarezza quale potrebbe essere la posta in gioco nel Pd. «Certo, in quel caso è molto probabile che Renzi si candiderà per avere la premiership e noi a quel punto sosterremmo un altro candidato». Mentre Bersani si prepara a sfidare la fossa dei leoni della Direzione sull’opzione di un governo di minoranza, succede anche questo in un partito in preda alle convulsioni, in ore concitate dove tutti sono consapevoli che la linea di un esecutivo a guida Pd con i voti dei grillini potrebbe facilmente andare a sbattere contro un muro di no del leader dei 5 Stelle.
Insomma già si pensa a nuove primarie tre mesi esatti dopo che lo scontro nei gazebo ha lasciato sul terreno lacrime e sangue. Perché non si deve dar nulla per scontato, neanche una candidatura “uber alles” di quel Renzi che molti ritengono essere l’unico in grado di giocarsela con Grillo. Il nucleo più di sinistra del partito - quello che per mesi ha criticato le politiche del governo Monti e l’insensibilità al tema degli esodati, quello che rivendica le analisi degli economisti d’oltreoceano che puntano l’indice contro gli effetti nefasti di politiche di rigore senza adeguati impulsi alla crescita e ai consumi - ecco quel blocco di vecchi e giovani dirigenti di matrice ex diessina, non accetterebbe passivamente di tornare alle urne portando l’acqua al mulino di Renzi.
E quindi se ogni tentativo di dare un governo al paese dovesse franare, in primavera potrebbero venir riconvocate le primarie anzitempo rispetto a quelle già previste dal congresso d’autunno per la segreteria del Pd. E a quel punto potrebbe profilarsi una sfida tra il sindaco di Firenze e chi invece, con il placet di Bersani (il nome più gettonato è quello di Fabrizio Barca) sia in grado di interpretare una linea più di sinistra nel solco della socialdemocrazia europea. Una linea che la nuova guardia, quella degli Andrea Orlando, Stefano Fassina, Matteo Orfini, viene sintetizzata in «abbiamo perso perché costretti a difendere le politiche del governo Monti, perché da 20 anni non riusciamo a intercettare i ceti popolari»; e condivisa da tutti quelli che non accetterebbero di sottostare al profilo più liberal incarnato da Renzi contro cui si sono battuti gli eserciti corpo a corpo per tre mesi prima delle elezioni. Ma tra i pretoriani del leader, soprattutto tra gli emiliani, c’è anche chi in caso di elezioni vuole, o prevede, o dà per scontato, che sia lo stesso Bersani a ripresentarsi candidato premier. Anche se lo stesso leader a quel punto, nel caso non riuscisse a fare l’ultimo giro di giostra guidando un governo «di combattimento e del cambiamento» con i voti dei grillini, potrebbe farsi da parteavendo più volte detto che «la giostra deve girare».
Ma in vista della Direzione di mercoledì, nei conversari del Pd, è stato colto con nettezza il segnale lanciato ieri dal Capo dello Stato come uno stop a chi pensasse a nuove elezioni. «L’idea che sta prevalendo nel Pd di dire a Napolitano “o si fa un governo Bersani o si va a elezioni a giugno” non solo solleva forti malumori nel partito ma trova una barriera al Quirinale», ragiona uno dei dirigenti di fede opposta a quella bersaniana. E anche se tutte le varie anime che fanno capo a Letta, Franceschini, Veltroni, D’Alema, Fioroni, concordano sul passaggio di sfidare Grillo in ogni modo fino a fargli dire sì o no in Parlamento, in caso di flop sul passaggio successivo le truppe potrebbero dividersi davanti ad un bivio: dover scegliere tra il votare la fiducia ad un «governo del presidente», non a guida Bersani, ma di un tecnico super-partes, insieme al Pdl e lista Monti, magari sotto la spinta dei mercati e dei partner europei; o votare no, nel rispetto del principio chiarito da Orfini «non daremo mai la fiducia insieme a Berlusconi a un governo che non sia votato anche da Grillo». O dalla Moretti, «come possiamo fare un governo con il nostro principale avversario politico? ». E se questa spaccatura dovesse materializzarsi tra i banchi del Pd, al di là dell’esito di un voto delle
Camere esiziale per i destini del paese, rischierebbe di far implodere il partito. «Certo quella non sarebbe una scelta tattica, ma strategica e indicativa di visioni troppo diverse», ammette uno degli uomini di Franceschini.
Anche se nessuno lo dice apertamente, potrebbe tornare lo spettro della scissione. E quindi tutto questo tramestio, da qui alla Direzione potrebbe indurre il segretario a portare una linea meno tranchant sul dopo, lasciando aperto uno spiraglio ad altre soluzioni...

Repubblica 2.3.13
Pierluigi conta i suoi “Chi non ci sta lo dica”
Il redde rationem alla direzione di mercoledì
Il capo dei democratici sta tentando di incontrare Grillo
di Goffredo De Marchis


«CHI ha altre proposte le faccia apertamente. Agli elettori, ai militanti, alla direzione del partito. Vediamo quanti li seguono». La sfida a Beppe Grillo può aspettare. Adesso Pierluigi Bersani è impegnato in quella dentro al partito.

ALARGO del Nazareno c’è un clima d’assedio e di certo non aiutano le paroline che il comico dedica ogni giorno al Pd. Il tentativo con il comico sembra del tutto inutile, come dicono i dissidenti aspettando solo un passo indietro del segretario. Ma Bersani ha deciso di andare fino in fondo con i 5stelle. All’indomani della riunione del “parlamentino”, fissata per mercoledì, non aspetterà l’apertura delle Camere: chiederà prima un incontro con Grillo. In questi giorni è cominciato il lavoro delle “diplomazia” per contattare il leader del Movimento e organizzare un colloquio. Alla luce del sole, anche per allontanare i sospetti di un reclutamento sottobanco tra i senatori grillini. «Non li conosciamo nemmeno, non sapremmo dove cercarli», dicono gli uomini del segretario. Un’ammissione di impotenza che però serve a evitare nuovi insulti.
Ma a Largo del Nazareno ci si prepara a uno scontro duro con le varie anime del partito. Non si esclude affatto una conta, perché mercoledì si voterà e tutti dovranno uscire allo scoperto per misurare le forze. Come Bersani possa pensare all’aggancio dei 5stelle resta un mistero, a leggere le dichiarazioni di Grillo e Casaleggio. Eppure lui ripete che «non c’è fretta, ci sono ancora alcune tappe. Avevano insultato anche il presidente della Repubblica e l’altro giorno invece ne hanno riconosciuto il ruolo». Con le precisazioni
di Massimo D’Alema sull’ipotesi di un governo aperto a tutti (Pdl compreso), il segretario e i suoi fedelissimi sono convinti di aver recuperato la forza necessaria per un confronto interno. Dalla parte di Bersani, ci sono Letta, Franceschini, i giovani turchi di Fassina e Orfini, il gruppo di Tabacci, i socialisti di Riccardo Nencini, ovviamente Nichi Vendola con la sua pattuglia di parlamentari. Ma alcuni potrebbero cedere di fronte ai dubbi del Quirinale su un accordo Pd 5stelle, a oggi inesistente, e passare nell’area di chi propone un’apertura a ipotesi diverse respingendo la prospettiva concreta di nuove elezioni a
giugno. D’Alema, Letta e Franceschini stanno chiedendo al gruppo che circonda il leader di costruire il suo intervento in direzione senza strappi, soprattutto con Napolitano. Cioè, di lasciare aperta la porta ad altre soluzioni, per facilitare il lavoro difficilissimo del capo dello Stato.
Oggi la linea del segretario resta quella del «combattimento ». C’è un solo sbocco alla crisi politica ed è descritta nell’intervista a Repubblica di ieri. Dietro la resistenza, molti vedono una scelta suicida. È la posizione di Walter Veltroni, Paolo Gentiloni, Giorgio Tonini e dei 50 renziani che stanno per entrare in Parlamento. Bersani ha sbagliato, si deve fare da parte, la rincorsa a Grillo non serve e si può solo dare vita a un governo del presidente, tecnico, che duri poco. Sempre che vada in porto. L’idea di mettere Napolitano con le spalle al muro dicendo “o così o elezioni” sarebbe un regalo a Grillo più di un’alleanza con il Pdl. Oltre al comico, dunque, Bersani deve pensare, giocoforza, a una mediazione con queste opinioni. Perché il passaggio del dopo voto, nelle previsioni di molti, può rappresentare la fine del Pd, la sua esplosione definitiva. Recuperare un’unità di facciata significa allontanare il pericolo. Che invece non viene esorcizzato dalle minacce dei giovani turchi: «Abbiamo deciso di votare a maggioranza nei gruppi parlamentari. E io voterò sicuramente contro un governo con Berlusconi. Devono passare sul mio corpo», dice Matteo Orfini. In caso di elezioni a giugno, l’obiettivo di Orfini, Fassina e Gotor sarebbe quello di spostare più a sinistra il Pd e non più al centro. Per questo l’unica guida possibile rimarrebbe Bersani e non Matteo Renzi. È una partita non all’ordine del giorno ma che attraversa il Partito democratico. Punta davvero a questo il segretario? Sarebbe un’altra sfida. Ma anche D’Alema, il grande bersaglio del rottamatore, in queste ore avrebbe confidato ai suoi interlocutori: «Dopo Bersani c’è solo Renzi».

Repubblica 2.3.13
“Non pugnalo Pierluigi alle spalle ma è un errore inseguire i 5 Stelle”
Renzi: sbagliato offrire Camera e Senato. Non farò il premier
di Simona Poli


FIRENZE — Sbagliato inseguire Grillo, giusto invece sfidarlo. È semplice la ricetta proposta al Pd da Matteo Renzi per confrontarsi con il Movimento Cinque Stelle. Parla attraverso il web il sindaco di Firenze, riprendendo la sua vecchia abitudine di inviare una Enews settimanale. E rompe il silenzio che si era imposto all’indomani dei risultati delle politiche. «A forza di stare zitto», spiega, «mi attribuiscono di tutto. Intrighi, progetti, desideri. In attesa che qualcuno scriva della mia candidatura al prossimo conclave voglio dire ciò che penso davvero». E comincia dal risultato delle elezioni: «Niente giri di parole: il centrosinistra le ha perse. La vittoria numerica alla Camera non è sufficiente e lo sappiamo. E non si dica Ah, gli italiani si sono fatti abbindolare, non ci hanno capito come ha sentenziato in tv qualche solone dei nostri nelle ore della débâcle. Gli italiani capiscono benissimo i politici: casomai non sempre accade il contrario».
È la sola stoccata rivolta a Bersani e la prima vera, chiara, ufficiale ammissione di sconfitta da parte di un dirigente del Pd. Ma anche un modo per smarcarsi dal coro delle critiche che sta sommergendo Bersani in queste ore. «Io quello che avevo da dire l’ho detto alle primarie», ribadisce Renzi. «Quelli che sono stati zitti durante le primarie e che poi ci spiegano che loro avevano capito tutto sono insopportabili: passi saltare sul carro del vincitore ma adesso affollare quello del perdente mi suona ridicolo. Io ho combattuto Bersani a viso aperto quando non lo faceva nessuno, guardandolo negli occhi. Non lo pugnalo alle spalle oggi: chiaro? Nello zoo del Pd ci sono già troppi tacchini sui tetti e troppi giaguari da smacchiare per permettersi gli sciacalli del giorno dopo». Secondo affondo, diretto a D’Alema e Veltroni stavolta. Renzi al gioco del massacro non partecipa: «Sono pronto a fare una discussione vera su quello che serve al paese», annuncia. «Ma se devo andare ai caminetti di partito sulle indiscrezioni della stampa o a partecipare al festivalbar delle candidature, beh, scusate, ma da queste parti abbiamo da lavorare. Mentre a Roma si discute, nelle città si affrontano i problemi, dall’emergenza occupazione alle buche nelle strade».
Liquidati i conti con lo stato maggiore del partito che adesso lo invoca come la soluzione di tutti i mali, Renzi passa alle proposte operative. Le sue, ovviamente. «Durante le primarie chiedevamo di abolire il finanziamento pubblico ai partiti, di uscire dalla Rai, di non considerare appestati quelli che la volta prima avevano votato Lega o Pdl. Queste le cose le dicevamo dal camper ed era il nostro camper, non quello di Grillo. Mi piacerebbe che ora rilanciassimo noi questi temi, non per raccogliere il voto di qualche parlamentare grillino ma per recuperare un rapporto con gli italiani. La priorità infatti è rimettersi in sintonia con gli italiani, non giocare al “compro baratto e vendo” dei seggi grillini. Grillo non va rincorso, va sfidato. Sulle cose di cui parla, spesso senza conoscerle. O pensiamo forse di uscirne vivi offrendo a Grillo la Camera e a Berlusconi il Senato, secondo gli schemi che hanno già fallito in passato?».

Repubblica 2.3.13
“Il governissimo è un suicidio” nella base Pd scatta la rivolta
Pioggia di messaggi su Internet: “Con il Caimano mai”
di Giovanna Casadio


ROMA — L’artiglieria è pesante. «Segretario, tutto tranne che l’accordo con il caimano! Non ci si può accordare con chi ha portato l’Italia a questo punto. Senza se e senza ma!!». Moltiplicate per cento, per mille e per decine di migliaia. È davvero «l’arma atomica» - di cui aveva parlato Bersani alla vigilia del voto, quando la vittoria del centrosinistra sembrava in tasca - a scuotere ora i Democratici, mettendosi di traverso a qualsiasi abbraccio, confronto, inciucio, larga intesa. Da quei «militanti, volontari, popolo delle primarie», appunto definiti dal segretario «la nostra atomica», piovono mail, tweet, commenti su facebook. Mononota, per dire così: «con Berlusconi, mai»; «abbracci con il Pdl, mai»; «inciuci, no».
Prima del voto, il Pd aveva inviato al popolo delle primarie una mail di programma. Nessuno poteva prevedere che sarebbe diventata una corrispondenza e che, cliccando “rispondi al mittente”, i destinatari dopo il voto avrebbero invaso la posta del Pd per dare qualche consiglio a un centrosinistra stordito dalla vittoria- beffa. «Basta di essere presi per il c... Bersani che è persona perbene, come molti nel Pd, deve restare fermo nella sua posizione proponendo a Grillo di fare le cose più importanti... Sappiate comunque che noi non ne possiamo più di tatticismi e di inciuci». È una mail individuale. Ma tante sono di circoli del partito. Ci sono commenti cortesi nei toni o furenti. Sulla pagina Facebook del segretario succede di tutto, militanti esasperati, grillini che danno consigli per l’uso o linkano video che dovrebbero mostrare il carattere inciucista dei piddì. «Niente inciuci. Puoi dire a D’Alema di starsene fuori? tu fai le tue proposte vediamo se Grillo accetta» (Antonietta); «Io ho continuato a sostenere la sinistra sempre e comunque vorrei dire che un’alleanza con Berlusconi non la potrei accettare...» (Mara); «Mi raccomando non accordi con Berlusca, perderesti il
mio voto per sempre» (Nino).
L’ufficio stampa del Pd fa sapere che la valanga su web e social network è tutto ossigeno per Bersani. Sono sacchetti di sabbia a difesa della trincea del segretario e della sua linea di confronto in Parlamento e di dialogo con i 5Stelle. Stefano Bonaccini, segretario democratico dell’Emilia Romagna, bersaniano e con un certo polso della realtà, è convinto che, linea o non linea, la cosa stia così: «Abbracciamo la destra, e siamo finiti un minuto dopo. Alle prossime elezioni saremmo all’11%». Nella regione “rossa” , con una massiccia presenza di grillini («Ma ho fatto una mappa per mostrare che altrove ce ne sono molti di più»), si sono scatenati gli elettori, per non parlare dei militanti. Bonaccini legge alcuni degli sms che gli sono arrivati: si va dai più teneri - «no all’abbraccio con Berlusconi»; «guarda che così non reggiamo» fino a «è l’ultima volta che sto con il Pd, se...». È una rivolta che si allarga a macchia d’olio come sempre accade sulla rete, perché viene rilanciata, ritwittata, rimpalla attraverso i blog. Pippo Civati ha aperto il dibattito già da un paio di giorni su Ciwati, titolo dell’ultimo post “Da pippo a Beppe». Luca Sofri idem, sul blog Wittgestein, in cui apre il dibattito anche sul modo di fare informazione politica. L’ondata di protesta ha un punto di caduta, un meet up per usare il linguaggio grillino, anche se solo per “i quadri” del Pd: la direzione di mercoledì. Saranno i bersaniani soprannominati “giovani turchi” a portare avanti la battaglia. Stefano Fassina, il responsabile economia, è per la linea dura: «Se Bersani avrà la maggioranza in Parlamento bene, altrimenti si va a casa. Sulla base del risultato si governa o si torna a votare». Dal circolo Pd di Caprese Michelangelo: «Il messaggio che viene dalle urne richiede una forte discontinuità... ». E via all’elenco del programma ideale: conflitto d’interessi, una legge anti corruzione, l’abbattimento dei privilegi dei politici.

Repubblica 2.3.13
Andò, il regista di “Viva la libertà”, film-profezia sul Pd: “Mi hanno detto che Bersani lo ha visto a Piacenza, Veltroni ci si è ritrovato”
“Il mio leader senza passione è il dramma della sinistra”
di Silvia Fumarola


ROMA — «Mi hanno detto che domenica Bersani è andato a vedere il film a Piacenza» racconta il regista Roberto Andò. Chissà come si sarà sentito il leader del Pd vedendo “Viva la libertà”, film di cui tutti discutono, straordinariamente attuale alla luce del risultato elettorale anche se ispirato al libro del regista, Il trono vuoto, scritto tre anni fa. La storia di Enrico Oliveri, leader della sinistra al minimo storico nei sondaggi che decide di sparire (un eccezionale Toni Servillo in due ruoli), sostituito dal geniale fratello filosofo, malato di depressione bipolare, che fa risalire il partito dal 17 al 66%, scatena applausi e discussioni.
Andò, “Viva la libertà” ridà speranza e allo stesso tempo suscita un sentimento di rimpianto.
«Veltroni mi ha telefonato, ha detto che gli è piaciuto molto e ci si è ritrovato. La vita si è allontanata dalla politica, perché i politici non sono in grado di mettere insieme le due cose: hanno capito che la politica è una maschera e hanno disertato la realtà. I leader ci hanno raccontato l’angoscia del potere piuttosto che la voglia di far vincere il partito».
Oliveri, il leader del film, dice in un comizio: «La parola che mi è più cara su questo palco non c’è: passione...». E poi, citando la poesia “A chi esita” di Brecht: «Il nostro nemico ci ha rubato le parole e le ha stravolte fino a renderle irriconoscibili ».
«La passione c’entra con la politica e con le cose che facciamo.
Grillo — nel bene e nel male — ci ha messo tutto se stesso. Ma tu, leader della sinistra, non puoi borbottare, le cose che dici non arriveranno mai. Hai il dovere di trasmettere passione. Berlinguer anche senza tante parole la trasmetteva con un sguardo, infatti lo seguivano i giovani. Oggi la sinistra li ha persi: è la sconfitta più bruciante ».
Il Pd appare come un partito che ha paura di vincere.
«Bersani era convinto di farcela, qualcuno deve avergli detto che era fatta. Dopo le primarie, mentre gli altri invadevano le piazze e la tv, è sparito. È come se la sinistra sia davvero alla ricerca dell’“estraneo”: dove cercare questo gemello leader che ridà speranza, come nel film? In quale ospedale?».
Pensa che con Renzi sarebbe andata diversamente?
«Renzi avrebbe avuto il vantaggio dell’età e di un’estraneità all’apparato: non puoi essere rappresentato da Berlusconi né da Bersani. Però il film ha le caratteristiche della leggerezza, è ottimistico ».
Un’altra frase del protagonista che colpisce, vista la spietata guerra per le alleanze, è: «L’unica alleanza possibile è con la coscienza della gente».
«Il Pd si è chiesto solo: mi alleo con Vendola o con Monti? Alla fine perdi l’unica scommessa che la politica deve fare, quella con i giovani senza lavoro. Non avendo trovato un pazzo, oggi scommettono su Grillo».

La Stampa 2.3.13
Due ipotesi difficili per i vertici democratici
di Marcello Sorgi


Il doppio no arrivato ieri dal Movimento 5 Stelle sembra chiudere definitivamente ogni ipotesi di negoziato per un governo Pd-M5S. In realtà la trattativa non s’é mai aperta: dall’indomani del risultato che ha sancito la mancanza di una maggioranza al Senato, i tentativi dei bersaniani prima, di D’Alema, e infine dello stesso Bersani, per cercare di convincere Grillo ad aprire uno spiraglio, sono andati tutti a vuoto. Grillo ha risposto sgarbatamente, con il suo caratteristico linguaggio, ed anche se il leader del Pd ha rivelato grandi capacità da incassatore, la sprezzatura con cui dalle parti di M5S lo si é continuato a trattare non lascia speranze all’iniziativa dei Democrat. Ieri Grillo e Casaleggio, vale a dire numero uno e due del movimento, hanno ribadito che non hanno alcuna intenzione di partecipare al “mercato delle vacche” (leggi: presidenze delle Camere o posti di ministri), né di dare la fiducia a qualsiasi governo, e che l’unico terreno su cui valuteranno volta per volta in Parlamento sarà quello delle riforme. Inoltre, a scanso di equivoci, visto che nel Pd se ne continuava a parlare, hanno escluso l’ipotesi che qualcuno degli eletti grillini, anche a titolo personale, possa dare una mano per formare una maggioranza.
Fino a mercoledì, quando la direzione del partito valuterà il da farsi, nel Pd la consegna é di non drammatizzare. Ma é chiaro - lo si è visto anche dalle due successive interviste di D’Alema e Bersani - che al vertice si confrontano due linee. Quella del segretario che, forse consapevole che ogni altra ipotesi di governo lo vedrebbe escluso da Palazzo Chigi, insiste sul confronto con Grillo. E quella del presidente del Copasir che, proponendo un governo con Grillo ma anche con Berlusconi, di fronte all’impossibilità di coinvolgere il M5S, sarebbe anche disponibile a un accordo temporaneo con il centrodestra. Ipotesi ad alto rischio e ad altissimo prezzo politico per i due schieramenti che convivevano nella “strana” maggioranza di Monti, ma che dopo una campagna elettorale fatta uno contro l’altro senza esclusione di colpi, e nella prospettiva di dover tornare a votare, non si nascondono le difficoltà di un riavvicinamento. Berlusconi non a caso ieri ha ridimensionato le indiscrezioni che circolavano e lo descrivevano pronto a dare la fiducia a un governo Bersani, proponendo un accordo solo sulla legge elettorale per votare subito dopo. Si rafforza l’idea che alla fine possa toccare a Monti restare in carica fino a che non ci sarà una schiarita, o per condurre di nuovo il Paese alle urne in tempi brevi.

Corriere 2.3.13
«Niente governissimo e blandizie ai Cinquestelle»
Veltroni: il Pd deve ritrovare la sua vocazione originaria
intervista di Aldo Cazzullo


«Vedo che il mio nome viene chiamato in causa in questi giorni, attribuendomi di volta in volta posizioni diverse e comunque non corrispondenti al mio pensiero. Né mi fa piacere vedere il mio nome associato a quello di altri. Ho sempre coltivato le mie opinioni e, soprattutto in questi anni, l'ho fatto molto discretamente. Da D'Alema per esempio mi divide com'è noto una profonda differenza di opinioni politiche e culturali che c'era, c'è e ci sarà. Questo non mette in discussione il rispetto reciproco; ma è un dato di fatto».
Qual è allora il suo pensiero, Veltroni, a proposito delle elezioni?
«Questo voto precipita l'Italia in una situazione che negli ultimi cinquant'anni c'è stata solo due volte: il 16 marzo del '78, e nell'estate-autunno del '92».
Il rapimento Moro e la crisi valutaria.
«Come allora, l'Italia vive un vero e profondo rischio; ma non sento nella valutazione di quel che sta accadendo questa drammaticità che dovrebbe portare tutti a muoversi di conseguenza. Vorrei sottolineare alcuni dati. Primo: è stata la prima volta che gli italiani hanno votato in recessione. E la recessione non è una congiuntura economica negativa, è sistemica, travolge imprese e lavoro, radicalizza le posizioni. Secondo: l'affluenza è stata la più bassa dal '46 a oggi, nonostante ci fosse un voto su cui la protesta poteva scaricarsi. Terzo: il primo partito d'Italia è il Movimento 5 Stelle, con Berlusconi che è arrivato a un soffio dal primato. Quarto: le grandi regioni del Nord sono tutte in mano alla Lega, che può da lì coltivare propositi di esasperazione della divisione Nord-Sud. Quinto: il paese è stremato dalla crisi. Ultimo, ma non da ultimo: non c'è governabilità. Questo voto è stato la tempesta perfetta. Ci consegna un Paese in cui non c'è maggioranza possibile, e per chi ama la storia la crisi di Weimar nacque esattamente così».
Vede addirittura pericoli per la democrazia?
«Vedo ricorsi storici molto pericolosi. In 14 anni ci furono 9 elezioni, nel cuore di una recessione che scosse la Germania. Se non si capisce che questo è il tempo più difficile della storia italiana — nel '78 e nel '92 la recessione non c'era —, non si mette a fuoco il problema».
Come se ne esce?
«Vado per esclusione. Escludo un governo Pd-Pdl. Non solo perché porterebbe le 5 Stelle ad almeno 7, ma perché non vedo come ci si possa accordare con un uomo che ha infranto il silenzio elettorale per dire che la magistratura è peggio della mafia, dopo aver promesso il rimborso dell'Imu e il condono tombale».
L'Europa però ha già avuto grandi coalizioni.
«Sì, ma in Germania c'erano Schroeder e la Merkel, e in Belgio il mio amico Verhofstadt; non c'era Berlusconi, che si conferma la potente ma terribile anomalia della politica italiana».
E un accordo tra il Pd e il Movimento 5 Stelle?
«Non mi pare un'ipotesi facilmente praticabile. Alla proposta Grillo non ha risposto: "La esamineremo". Ha risposto al segretario Pd definendolo stalker e morto che parla. È giusto proporlo; ma vedo difficile che Grillo sostenga o anche solo faccia nascere un governo del Pd. E credo sarebbe sbagliato blandire parlamentari o offrire presidenze, si dimostrerebbe di non aver capito la natura di quel movimento. Se anche poi i senatori di Grillo uscissero dall'aula, lo farebbero pure quelli del Pdl».
Resta l'ipotesi di un accordo tra i tre poli.
«Tenderei a escluderlo. Forse l'unica strada è un governo nato dall'iniziativa del presidente della Repubblica, che senza una maggioranza precostituita vada in Parlamento a cercare il consenso su un programma di riforme. Ci sono le condizioni per un governo che non viva alla giornata, frutto di alchimie tra posizioni abbastanza incompatibili tra loro? Quale garanzia di stabilità darebbe all'Europa e ai mercati, e quali riforme potrebbe fare? Rischia di restare sul campo solo il ritorno al voto. Ma farlo con questa legge che reitererebbe l'ingovernabilità, significa Weimar. Ci vuole un atto del nuovo Parlamento. Una prova di responsabilità: una nuova legge elettorale e una riduzione del peso della politica».
Chi potrebbe guidare il "governo del presidente"?
«Non spetta a me dirlo. E' giusto che Bersani faccia il passo che ha proposto. Ed è giusto che sia il capo dello Stato a indicare la soluzione più giusta».
E se restasse Monti?
«In assenza di altre soluzioni, è un fatto che rimanga in carica il governo esistente. Non c'è la sede vacante come in Vaticano. Monti ha sbagliato la campagna elettorale; ma senza di lui Berlusconi avrebbe la maggioranza in Parlamento».
Chi sarà il prossimo capo dello Stato?
«Spero sia in continuità con Scalfaro, Ciampi e Napolitano, sulla linea della salvaguardia della democrazia italiana. Se poi fosse possibile convincere a un sacrificio Napolitano, che comprensibilmente ribadisce di non essere candidato, sarebbe un elemento importantissimo di tenuta democratica in un momento così difficile».
Se non riuscirà a formare un governo, Bersani dovrà lasciare la guida del Pd?
«Non sono tra quelli che gettano la croce addosso a chi conosce un insuccesso elettorale. L'ho subìto; ma non lo farò. Però non ci si può nascondere la portata drammatica di questo voto: abbiamo perso quasi 4 milioni di consensi, il 30% del nostro elettorato, siamo il partito meno votato dai giovani. Bisogna dirsi la verità. Il problema vero è portare il Paese fuori da questa situazione. Spero che il Pd non si chiuda, ma scelga di ritrovare la sua vocazione originaria».
Candiderete Renzi?
«Matteo è una risorsa importante ma la sinistra discute di nomi da anni. E' un'ossessione. Così ha finito con il sottovalutare il significato dell'ispirazione politica e la coscienza del dolore che attraversa il Paese tutto, impresa e lavoro, fratelli inseparabili. Il Pd deve rilanciare quello di cui l'Italia ha bisogno: una stagione di riforme radicali la può aprire solo un partito con le caratteristiche che il Pd aveva alla sua nascita. Vorrei si tornasse all'idea di fondo, quella del Lingotto, che fu premiata da 12 milioni di elettori. Un partito democratico non è semplicemente progressista, è qualcosa di molto più aperto e radicale: è un partito che assume su di sé elementi di rottura con il passato, che si batte per una politica lieve. Sono andato a rivedermi il decalogo che presentai nel 2008: abolizione delle Province, taglio del numero dei parlamentari e dei loro stipendi, riduzione dell'invadenza della politica...».
Nel 2008 però avete perso.
«Quelle elezioni venivano dopo la difficile esperienza di un governo che andava dall'Udeur a Rifondazione, sottoposto al bombardamento degli illegali e confessati ricatti berlusconiani, come si vede in questi giorni. Alle provinciali del 2007 il centrosinistra prese il 22%. In pochi mesi recuperammo oltre 11 punti. Se oggi avessimo quei voti, saremmo al governo da soli. E alle primarie di partito parteciparono 400 mila persone in più che alle primarie di coalizione del 2012: un dato che è stato sottovalutato».
Ma nel frattempo è esploso Grillo.
«Grillo esordisce proprio nel 2007, con il Vaffa-Day. Ma allora la novità rappresentata dal Pd e la sua radicalità non dico che riassorbì ma interloquì con quella gente. Dobbiamo recuperare l'idea di una forza che non è la prosecuzione dell'antica storia ma è anche culturalmente nuova, con un'identità non ritagliata sulla negazione delle identità del passato ma incentrata sull'innovazione».
Quali errori ha commesso Bersani?
«Abbiamo pagato l'antica paura "pas d'ennemis a gauche", l'ansia di non scoprirsi a sinistra; e si è visto quanto rappresenti la sinistra estrema. Su Grillo sono stati fatti clamorosi errori di valutazione, si è parlato di diciannovismo. Grillo ha agitato temi che non appartengono alla sinistra: no allo ius soli, sciogliere i sindacati, uscire dall'Europa. Ma per lui hanno votato molti che votavano Pd».
Come potreste riconquistarli?
«Queste persone bisogna ascoltarle e con loro dialogare, contrastando le posizioni sbagliate ma non rifiutandosi di capire il segnale che hanno mandato. La cosa peggiore sarebbe arroccarsi, chiudere, negare il senso di queste elezioni che chiedono più innovazione, più cambiamento, più apertura. Per molto tempo abbiamo avuto l'angoscia dire qualcosa di sinistra. La sinistra del 2000 non dice sempre no, è al mondo per cambiare non per conservare. Si riapra invece una speranza e un sogno. Il centrosinistra non può essere percepito solo come le persone ragionevoli, ma come le persone che sanno accendere la speranza e rispondere al disagio. Dalla recessione non si esce come si è entrati: o si generano grandi idee di cambiamento, come fu il New Deal, o si rischia di venirne travolti. Il centrosinistra deve rialzare lo sguardo e seguire il suggerimento di uno scrittore che amo molto, Saint-Exupéry: "Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti, impartire ordini; ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito"».

Corriere 2.3.13
Sempre più affannosa la marcia di Bersani verso Palazzo Chigi
di Massimo Franco


I passi postelettorali di Pier Luigi Bersani stanno incontrando un terreno sempre più scivoloso. Non c'è soltanto il linguaggio liquidatorio fino alla volgarità di Beppe Grillo, il potenziale alleato, attento a non concedere nulla al Pd. Lentamente, vengono a galla i distinguo e le scorie che la campagna elettorale e l'esigenza dell'unità avevano sommerso in omaggio alle primarie e all'illusione di una vittoria certa. La marcia del segretario verso l'incarico di presidente del Consiglio deve fare i conti con una fronda interna sempre più esplicita. Anche perché, a pochi giorni dal voto del 25 febbraio, la campagna elettorale non è finita ma ricominciata. La prospettiva di un voto ravvicinato, entro un anno o forse meno, porta tutti a restringere i propri orizzonti.
Ma alimenta le spinte centrifughe in una sinistra passata in poche ore dalla convinzione del trionfo alla realtà prosaica di un Parlamento senza maggioranza al Senato; e con un premio alla Camera ottenuto per il rotto della cuffia, sfiorando appena il 30 per cento dei voti. Il problema del leader del Pd è che la competizione riparte anche all'interno del suo partito. E viene ufficializzata dallo stesso Matteo Renzi che alla vigilia delle elezioni si era mostrato accanto a Bersani, quasi a simboleggiare il presente vittorioso e il futuro ancora più luminoso della sinistra. E invece, il sindaco di Firenze ieri ha invitato il segretario a riconoscere la sconfitta. «Il centrosinistra le elezioni le ha perse», scolpisce. Bocciando il progetto bersaniano di addomesticare il Movimento 5 stelle: «Non gioco al compro e vendo dei seggi grillini».
Per Renzi il populismo del comico che ha trionfato nelle urne va «sfidato, non inseguito». L'affondo finale, però, è anche un gesto di lealtà. «Ho combattuto Bersani a viso aperto quando non lo faceva nessuno, guardandolo negli occhi. Non lo pugnalo alle spalle oggi, chiaro?», fa sapere a quelli che definisce «sciacalli del giorno dopo». Il messaggio è rivolto a quanti, nel Pd, sembrano pronti a usare il sindaco per tentare di scalzare il segretario. Ma Renzi tende a raffigurarlo comunque come un leader delegittimato dalle elezioni; e dunque sempre più in affanno nella sua corsa verso palazzo Chigi. Massimo D'Alema cerca di tagliare le gambe all'idea del «governo di cambiamento» con i grillini proponendo un patto col Pdl: l'unica soluzione realistica, a suo avviso.
Sulla carta è così. Le resistenze a sinistra nei confronti di un qualunque dialogo con il partito di Silvio Berlusconi, però, sono enormi. E la decisione del Pdl di scendere in piazza per protestare contro i magistrati che si accanirebbero contro il Cavaliere, è un macigno sul dialogo. L'ex premier del centrodestra suggerisce la riforma elettorale e l'immediato ritorno alle urne. E invita a fare presto perché la situazione economica potrebbe peggiorare ulteriormente. Non si capisce come sarà possibile cambiare sistema di voto in presenza di un quarto di parlamentari grillini, dopo un anno di nulla di fatto. Non bastasse, il Movimento 5 stelle replica ad ogni offerta di alleanza con brutalità e disprezzo.
Probabilmente già guarda al prossimo appuntamento elettorale. E dunque frustra il tentativo di abbraccio del Pd. D'altronde, ieri il quotidiano Europa, organo del partito, ammoniva che senza maggioranza non c'è nemmeno incarico. Eppure, per il momento la traiettoria non cambia. Vasco Errani, presidente della regione Emilia Romagna, alter ego di Bersani, indicato come tessitore dei rapporti con Grillo, ribadisce che la proposta è quella di un governo di cambiamento: «Non proponiamo governissimi». E di fronte agli scarti del Movimento 5 stelle, afferma che sarà il Parlamento il luogo in cui si capirà se un'intesa è possibile o no. Ma la domanda è se sia possibile correre il rischio di una bocciatura che porterebbe l'Italia di nuovo a votare; e se qualcuno, e non solo Grillo, stia accarezzando questo esito.

Corriere 2.3.13
E i giovani «lasciano» il Pd: solo il 26% dei voti


MILANO — Il centrosinistra che regge bene in tutte le fasce d'età, un elettorato del centrodestra che invecchia e soprattutto un fortissimo successo del Movimento 5 Stelle tra le fasce più giovani degli elettori. Sono questi i dati principali forniti dall'analisi sociologica del voto elaborata dall'Istituto di ricerca Tecnè, che ha suddiviso il voto per classi di età e per condizione occupazionale degli elettori, mostrando quanto profonda sia la frattura generazionale emersa da queste elezioni. Una frattura che divide nettamente gli elettori con un futuro se non certo quantomeno stabile (lavoratori dipendenti, pensionati) dagli elettori a cui il futuro è stato sottratto (studenti, disoccupati): i primi hanno espresso la loro preferenza per i partiti classici (Pd e Pdl), mentre i secondi hanno votato in massa il Movimento 5 Stelle, come dimostra il 54,8% fatto registrare da Grillo tra gli studenti ed il 41,1% tra i disoccupati.
Secondo Carlo Buttaroni, direttore di Tecnè, le analisi e i sondaggi svolti prima del voto non sono stati in grado di prevedere questo risultato proprio a causa della sua unicità, a causa degli strumenti vecchi sui quali si basavano. Può comunque moderatamente sorridere il Partito democratico, il cui elettorato proviene da una fetta trasversale della popolazione, stabile attorno al 30% degli elettori con più di trent'anni e omogenea per occupazione. Un campanello d'allarme è il preoccupante cedimento nella fascia più giovane (solo un 26,3% tra chi ha meno di trent'anni, contro il 37,9% del M5S) e soprattutto tra gli studenti, dove un 22,1% non può essere considerato un risultato soddisfacente.
Chi invece trova nelle urne voti sempre più datati è il centrodestra, che raccoglie un misero 11,8% tra gli studenti contro un 37,4% tra i pensionati (e una percentuale praticamente uguale tra gli elettori ultra sessantenni), con percentuali che migliorano con l'aumentare dell'età degli elettori.

l’Unità 2.3.13
Caro Bersani, ecco 15 punti per i primi 100 giorni
di Diego Novelli


SULLA BASE DELLA MIA ESPERIENZA DI SINDACO, DI PARLAMENTARE A MONTECITORIO, DI DEPUTATO EUROPEO, DI MEMBRO DEL COMITATO CENTRALE DEL PCI, posso dire che non si è mai presentata una situazione come quella emersa dal recente voto.
È la prima volta nella storia della nostra Repubblica che sono presenti in Parlamento uomini e donne di chiara ispirazione progressista che possono veramente cambiare l’Italia al di là del folklore di Beppe Grillo. Se fossi in Bersani farei di tutto per non fare cadere questa grande opportunità. Come ha ben detto il segretario Pd, il confronto con il M5S deve avvenire subito su proposte concrete con disegni di
legge. Ecco le più importanti.
1) Legge Costituzionale che cambia solo due cifre e sancisce che i deputati devono essere 300 e 150 i senatori. Norma transitoria per fissare l’entrata in vigore dalla prossima legislatura. 2) La riforma elettorale deve essere subito iscritta all’ordine del giorno della prima Commissione Affari Costituzionali senza il contributo esterno di esperti, semmai una sottocommissione che entro 60 giorni presenti una proposta di legge da sottoporre all’aula. 3) Legge sul conflitto d’interesse semplicissima che stabilisca l’ineleggibilità di chi ha interessi personali che possano direttamente e anche indirettamente avere a che fare con la pubblica amministrazione. Idem per coloro che detengono aziende operanti nel settore della comunicazione. 4) Piano straordinario per opere pubbliche riguardanti la salvaguardia del territorio e la messa in sicurezza di tutti gli edifici pubblici con priorità delle scuole. Il finanziamento deve essere garantito dalla Cassa Depositi e Prestiti. 5) Istituzione dell’Anagrafe Tributaria per individuare l’evasione e l’elusione, affidando ai Comuni l’aggiornamento del catasto e gli accertamenti dei redditi sulla base delle schede anagrafiche dei singoli cittadini sulle quali devono confluire tutti i dati relativi a proprietà mobili e immobili, attività commerciali, ecc... Si tratta di dati pubblici che vanno semplicemente incrociati. 6) Eliminazione del patto di stabilità che ha bloccato le spese di investimento ai Comuni che hanno il pareggio di bilancio immettendo così una massa cospicua di denaro per realizzare opere di interesse pubblico ed incrementare il lavoro. 7) Eliminazione della Cassa Integrazione sostituendola con un salario minimo garantito (esempio Germania) per tutti i senza lavoro per la durata di almeno due anni. 8) Stabilire un tetto per le pensioni d’oro e gli stipendi d’oro nella pubblica amministrazione. Riduzione dei cosiddetti vitalizi del 20% (provvedimento che deve essere assunto non dal governo ma dalle singole Camere) degli emolumenti dei parlamentari (-30%). 9) Immediata legge urbanistica per regolare il regime dei suoli, la difesa dell’ambiente, il blocco del consumo del territorio incrementando con incentivi le ristrutturazioni, il restauro dei centri storici, il recupero di aree industriali abbandonate e la riorganizzazione urbanistica delle periferie. Combattere l’abusivismo eliminando per sempre ogni forma di condono. 10) Piano energetico per sviluppare realmente le fonti alternative. 11) Una tassa di scopo per i redditi superiori a 1 milione di euro per la durata di 5 anni per investimenti nel campo dell’istruzione e della ricerca. 12) Sospensione temporanea di tutte le grandi opere per dare la priorità alle opere pubbliche più urgenti. 13) Piano di smobilizzo di parte del patrimonio dello Stato inutilizzato (vedi demanio militare) per ridurre il debito. 14) Drastica riduzione delle spese militari. 15) Reintroduzione del falso in bilancio come reato penale e inasprimento della legge sulla corruzione.
Questi potrebbero essere, i punti di dialogo e di confronto per i primi cento giorni del nuovo governo. Diversamente si assumano i deputati e i senatori del Movimento Cinque Stelle la responsabilità di portare il Paese allo sbando.

il Fatto 2.3.13
Tommaso Giuntella, Errore abbandonare il web
“L’avevo detto, il giaguaro non basta”
di Chiara Paolin

  
Nelle foto che servivano a dimostrare la svolta giovane del nuovo Bersani, Tommaso Giuntella c’era sempre. Sorridente con il segretario, Alessandra Moretti e Roberto Speranza. Tre facce per il cambiamento.
Dovevamo lanciare le Primarie, coinvolgere la gente, far sentire la sfida, usare i social media.
Tre milioni di voti, un successo.
Infatti. Ma dal 2 dicembre è cambiato tutto. Alessandra e Roberto si sono candidati, è iniziata la campagna elettorale e non ho più avuto indicazioni precise.
Cioè?
Niente. Avevo messo su una rete di volontari per agire sul web, seguire i flussi, spingere le discussioni. Tutte cose fondamentali che Grillo conosce e domina: ci lavora dal 2004.
E il Pd?
Siamo partiti tardi, dovevamo continuare almeno il progetto impostato. Invece io e i miei volontari siamo andati avanti così, perché ci crediamo. Senza una guida dall’alto.
Come sarebbe?
Nessuno aveva ufficialmente il ruolo di coordinatore della comunicazione per la campagna elettorale del Pd.
Credevano ai sondaggi, alla vittoria?
Anche questo, sì. Invece io segnalavo: occhio che Berlusconi e Grillo sono al centro del flusso, il web offre tracce evidenti a chi sa leggere il dato.
E lei leggeva?
Certo. E contrastavo. Abbiamo fatto il possibile, però la gente era troppo arrabbiata, delusa. Volevano tutti dare un segno col loro voto. Cercavano un’indicazione, un contenuto chiaro.
Bersani troppo vago?
Sicuramente quel tono moderato ha avuto poca presa sulla gente.
Il leader doveva dire qualcosa, magari di sinistra.
Doveva essere più netto, proporre argomenti. Creare un sentimento collettivo, condividere un progetto. Grillo ha detto: sfasciamo tutto. E l’hanno capito benissimo. Noi che abbiamo detto?
Che avete detto?
Non abbastanza. E mi dispiace molto non aver ottenuto più attenzione dai vertici.
C’è rimasto male.
Sì, umanamente la cosa mi ha deluso.
Ma allora il giaguaro? I video autoironici? I giochini sul sito?
Non li ho fatti io, li ho solo fatti girare in rete. Erano anche simpatici, ma sono usciti tardi e con un taglio troppo scherzoso per fare davvero comunicazione nel web.
Antico guaio il rapporto tra la sinistra e i media. Bersani che si beve la birra triste e solitario fu un sano inizio?
Ah, lui è da birra chiara, io vado di Guinness quando suono col mio complesso folk irlandese.
Quando rivedrà Bersani?
Ho un piano pronto per il web, spero di incontrarlo presto, dare una mano.
Mica facile rispondere a un Grillo che ti dà del mercante di vacche.
Eh lo so, ma bisogna reagire, se stai fermo è peggio.
Nel frattempo Moretti e Speranza sono stati eletti. Lei?
Non ero mica candidato.

il Fatto 2.3.13
Stefano Rodotà
Consigli al governo
Ora si deve ricostruire Bersani ha il dovere di tentare l’impresa
di Silvia Truzzi


A un certo punto del suo editoriale (su Repubblica di venerdì), dice: “Non si tratta di dare un segnale, ma di stabilire le giuste priorità in una situazione che, data la tensione sociale, non può essere affrontata insistendo solo su misure istituzionali”. Stefano Rodotà ha ben chiaro che ci sono solo macerie dalle quali ricostruire. E nulla da salvare di quel sistema che abbiamo chiamato Seconda Repubblica.
Professore, perché non basta dare un segnale?
C’è un cambiamento strutturale, forte e urgente, cui bisogna rispondere con impegni politici. Al di là del berlusconismo, veniamo da un disastro durato vent’anni. La maggior parte delle questioni nel programma dei grillini sono proprio quelle irrisolte, lasciate marcire negli anni passati.
Quali sono i punti del programma 5 Stelle cui accennava?
Guardi, uno può non essere d’accordo su questioni estreme – come la proposta di radicale eliminazione di qualunque forma di finanziamento pubblico alla politica – però abbiamo assistito a un indecente accumularsi di risorse pubbliche in direzioni improprie. Una volta c’era lo stipendio da parlamentare e nessun altro beneficio aggiuntivo.
Grillo ha detto chiaramente: siamo più poveri, bisogna ricostruire vincoli di solidarietà.
Il tema dell’equità sociale è diventato capitale. Oggi c’è la consapevolezza individuale di un impoverimento radicale e drammatico. Ho usato spesso il paragone della Fiat: ai tempi di Valletta, lo scarto tra lo stipendio di un manager e di un operaio era 15 a uno, oggi 435 a uno. Ma quanti sono i grand commis, anche all’interno dell’amministrazione statale, che hanno questi stipendi? Le diseguaglianze devono smettere di essere il segno distintivo del tempo in cui viviamo. Non è più accettabile: se smantelliamo il principio di uguaglianza alimentiamo le tensioni sociali. Per forza.
Lei è uno dei pochi commentatori non terrorizzato dall'esito elettorale: i neoparlamentari del M5s fanno paura a tanti, ma non sono affatto dei mostri. Se ci guardiamo indietro, a quelli che sono stati deputati e senatori finora...
È meglio che non facciamo nomi (ride). Io non ne conosco molti di parlamentari grillini. Però ho frequentato molto il mondo della rete e degli informatici e può darsi che non abbia un campione rappresentativo: quelli che ho incrociato io erano persone di livello.
Sono stati presi in giro per le lezioni di diritto costituzionale.
C'è un profilo d'ingenuità. Ma è un gesto che vuol dire: ‘non sono nato imparato, voglio imparare’. È un mestiere complicato. Veniamo da tempi in cui molti deputati e senatori dicevano ‘qui perdo tempo, se fossi nel mio studio o nella mia azienda guadagnerei di più’. Mi pare si stia migliorando.
Quali sono i punti fondamentali della prossima legislatura?
L’abolizione del Porcellum. Un’efficace legge anti-corruzione. Poi il conflitto d'interessi, uno dei debiti non pagati dalle precedenti legislature. La riduzione del numero dei parlamentari è una riforma di sistema, che va fatta non in modo simbolico: significa ridurre le potenzialità di cui un parlamento si può servire e falcidierebbe soprattutto i gruppi minori.
Si riuscirà a fare il governo?
Bisogna cominciare a esplorare le vie istituzionali. Non per feticismo costituzionale, ma perché nelle situazioni complicate questa è la strada maestra. La legge elettorale prevede una sorta di investitura nei confronti di chi riceve, almeno alla Camera, la maggioranza.
I numeri sono un grosso problema però. Come si gestisce ora la situazione?
Non solo con accordi tra le forze politiche. E nemmeno con un governissimo, una formula che funziona solo laddove c’è omogeneità di fondo. Adesso bisogna investire Bersani dell’onere di fare la prima mossa. La cosa importante è costruire un’agenda nuova per l’Italia. E discuterla. Avrei apprezzato in questi giorni una maggiore sobrietà da parte di molti politici, impegnati più che altro in regolamenti di conti e in un ping pong quotidiano di dichiarazioni.
È pensabile un governo guidato da una personalità che garantisca questa “nuova agenda”?
Ora bisogna individuare il programma di ricostruzione del Paese. Su questo, come dicevo, c’è un onere preventivo del Pd, che deve lavorare e fare una proposta che non sia una scatola chiusa. Ma potrebbe anche venire fuori un consenso su questo programma di ricostruzione e su una figura di garanzia che può essere diversa.
Si fa anche il suo nome...
Lo dissi proprio al Fatto, diversi mesi fa a proposito della Presidenza della Repubblica. E non ho cambiato opinione: alla mia età il fatto che qualcuno si ricordi di me, è già una gratificazione maggiore di quanto uno non avrebbe potuto attendersi.

il Fatto 2.3.13
Etica e Internet, Stefano for president
di Antonello Caporale


Ha conosciuto la politica senza esserne mai sopraffatto e ha respirato l’aria del Potere senza venirne intossicato. Stefano Rodotà ha superato indenne questa prova da sforzo civile: entrare ed uscire dal Palazzo, conservando la medesima passione e riponendo fiducia nella sua condizione di perenne estraneità ai flussi magici del comando, alla trasmigrazione da poltrona a poltrona nella sua oramai lunga e densa vita nelle Istituzioni.
ORA CHE L’ITALIA conduce il grillismo al governo (o almeno nelle sue immediate vicinanze) e una intera classe parlamentare, in un modo caotico e per certi aspetti selvaggio, raggiunge Roma per possederla, dominarla e svuotarla dei vizi che la compongono e la fanno prosperare, spunta il profilo di questo professore di diritto civile per dare un volto possibile, plausibile - magari è solo una suggestione – a questo nuovo mondo. Smilzo, dal tratto severo, ha frequentato l’elite divenendone membro, ha conosciuto il Parlamento finanche rappresentandolo, ha conosciuto i partiti, il potere, le cariche pubbliche. Senza perdersi mai però. Rodotà è uomo dalle virtù civili, in gloria ai tempi dei cosiddetti “indipendenti” del Pci, classe sociale contigua ma non integrata nel comando di Botteghe oscure, e poi panchinaro della Repubblica durante il ventennio berlusconiano, quando invece una nuova antropologia politica ha preso il sopravvento e anche la sinistra si è adeguata promuovendo, nei passaggi che ne hanno scolorito identità e passione, figure nuove, a volte disastrose.
OGGI LA CRISI economica svuota le pance e le urne, e dunque il panchinaro si ritrova di nuovo in campo. Il nome di Rodotà magicamente de-borda dallo studio privato dove era rinchiuso. Presidente della Repubblica o premier, ovunque sia possibile nel modo che si vedrà. Non conosciamo le relazioni che ha con Grillo e nemmeno sono importanti. Conta di più la sua cifra, la personalità che esprime e questa sua improvvisa capacità di fare da collante tra il nuovo e il vecchio, tra le forme innovative della democrazia partecipata e le abitudini e i riti secolari dei partiti.
Rodotà è stato deputato più di una volta, vicepresidente della Camera, anche garante della Privacy. È stato il primo serio studioso di democrazia elettronica e sua è la proposta di allungare l'articolo 21 della Costituzione con una aggiunta: “Tutti hanno uguali diritti di accedere alla rete internet”. Rodotà esibisce, magari senza volerlo, stimmate grilline perchè coniuga nella sua persona due tratti espressivi di questo movimento, ora così caotico e insieme pervasivo. Lo studio dei nuovi fenomeni della conoscenza e della mobilità del pensiero e la teoria del diritto orizzontale, uno conta uno. Il diritto supremo che si ritrova nella formula: “Tutti hanno diritto di avere diritti”.
“Sono un moralista incallito”: così Rodotà apre le pagine del libro che segna meglio la cifra della sua personalità, quella che oggi diviene forza attrattiva. È l’Elogio del moralismo (Laterza, 2011) e anticipa (assai più compiutamente di Beppe Grillo bisogna dire) le cause del tracollo di questo sistema. Rodotà è moralista ma non moraleggia. “Il moralista è un ipocrita”, diceva Oscar Wilde. Lui: “No, per me la moralità è costante tensione ideale verso la lealtà”. Parla di tensione attiva e si capisce a cosa faccia riferimento. A chi ammonisca. A quel mondo, così vicino al suo, che col tempo ha mostrato acquiescenza verso qualsiasi comportamento pubblico. La politica è opaca per definizione. Il compromesso è necessario, l’ambizione un sentimento umano, la voglia di occupare, magare con qualche trucchetto, un corollario definito, immutabile del potere.
Rodotà si è ribellato a questa tesi quando il Movimento 5 Stelle non era neanche nato. Non ha atteso Grillo per spiegare cosa sia la dignità, cosa l’etica pubblica, quale danno abbia provocato il salvacondotto che legittima qualsiasi azione, quale sia stato il deturpamento della vita civile. Rodotà ha parlato prima delle piazze di Grillo, e scritto prima che lui scrivesse. In un’Italia dove ogni successo diviene spuntone di roccia dove esibirsi, è giusto ricordare che gli anni per Rodotà non sono passati invano.
Avrà i suoi difetti, e certo è un nome che ha robuste, solide relazioni nel potere nazionale. Ha avuto successo, hanno contato le amicizie. Ma, ci sembra di poter dire, non ne ha approfittato. È un ottantenne, e già fa sorridere che la pattuglia di giovanissimi che sta per entrare in Parlamento, possa avere le prime simpatie per questo nonno della Repubblica.

il Fatto 2.3.13
Caos e paura di Grillo, sono le primarie di Roma
Il Pd le ha fissate per il 7 aprile, ma è diviso su nomi e regole
Marchini: pronto a partecipare se aperte
di Luca De Carolis


Si fa presto a dire primarie. Ovvero, gli effetti sul Pd romano del ciclone Cinque Stelle: tale da spingere i Democratici a ridiscutere modi e (forse) nomi delle consultazioni per il Campidoglio, in vista delle Comunali del 26 maggio. Con una novità già certa: Alfio Marchini, discendente della dinastia di costruttori “rossi” e in campo da mesi con la sua lista civica, è pronto a partecipare. Purché siano primaria aperte, ossia non ristrette a iscritti al Pd o ad altri partiti.
LO HA ANNUNCIATO ieri lo stesso Marchini, con una nota: “Il punto è aprire le primarie a tutti coloro che non vogliono buttare via altri cinque anni di vita dei romani. Dovrà uscire una leadership e un fronte compatto, tenuto insieme da una nuova visione civica condivisa e da un programma con poche cose, chiare e realizzabili”. Traduzione probabile: partecipo per semplificare il quadro, e soprattutto perché contro i grillini un candidato dalla società civile ha più possibilità. Marchini sinora si è tenuto lontano da tutti i partiti, rispondendo con il silenzio all’elogio pubblico di Pierferdinando Casini.
Chi dovrà fare ordine in un quadro più che complicato è il Pd, che di candidati alle primarie ne ha già una pletora: dal giornalista David Sassoli, ora capogruppo Pd nel Parlamento europeo, al neo-deputato Paolo Gentiloni e al capogruppo in Campidoglio, Umberto Marroni. Per arrivare all’ex assessore provinciale Patrizia Prestipino e a un ex ministro del secondo governo Prodi, Alessandro Bianchi. Le primarie per il Comune sono previste per il 7 aprile, mentreil termine per la consegna delle firme era il 7 marzo. Era, perché in settimana il Pd dovrebbe spostarlo di una settimana, al 14. Se ne discuterà nelle segreteria romana di mercoledì prossimo, e nell’assemblea che si terrà giovedì e venerdì. I temi principali però saranno altri: se aprire o meno le consultazioni, certo. Ma anche se sia sensato tenere primarie con una folla di candidati, nel tempo della nave corsara dei Cinque Stelle. Tre giorni fa, il segretario del Pd La-zio, Enrico Gasbarra, ha ribadito la sua posizione, ripetuta da mesi: “Le primarie sono essenziali alla vita del partito ma non devono essere autoreferenziali”. Ovvero: va bene scegliere con i gazebo, ma con troppi nomi si rischia il caos. Il presidente del Pd Roma, Eugenio Patanè, neo-eletto in Consiglio regionale: “Nell’assemblea si discuterà del cambio delle regole delle primarie. E il segretario romano (Marco Miccoli, ndr) porrà il tema della sintesi sui nomi”. E Marchini? Patanè è chiaro: “Non sono per nulla spaventato dalla sua voglia di partecipare o dalla possibilità di aprire le primarie all’esterno. Ma per concorrere Marchini dovrà fare due cose: sottoscrivere la carta d’intenti del centrosinistra, e impegnarsi a un vincolo di coalizione: qualora perdesse, dovrà comunque lavorare per il vincitore”. Rimane il peso dei grillini, che con la lista per il Senato a Roma hanno toccato il 27%. Patanè assicura: “Vogliamo aprire un confronto con loro”. Nell’attesa, il totonomi impazza.
GOFFREDO Bettini, il regista delle vittorie in Comune di Rutelli e Veltroni, vuole a tutti i costi come candidato Ignazio Marino. In caso contrario, è pronto a di presentarsi in prima persona alle primarie. Un sondaggio apparso ieri sul Messaggero (e molto contestato nel Pd) lo dava vincente in un’ipotetica corsa. Nelle quotazioni, Marino pare alto. Mentre la candidatura della giornalista Bianca Berlinguer, di cui si è parlato nei giorni scorsi, non è solo un’ipotesi fantasiosa. I candidati già in campo però vogliono rimanerci: da Sassoli (“Abbiamo atteso ma saranno primarie con grandi idee”) a Gentiloni, che ha appena inaugurato il suo comitato. Sino a Marroni: “Il Pd convochi primarie aperte”. E poi c’è sempre Marchini, che di amici nel Pd ne ha più d’uno. Resta da capire quanto pesino: o vorranno pesare.

l’Unità 2.3.13
A che titolo parla il guru degli eletti senza voce?
di Francesco Cundari


Non sappiamo se e come sarebbe possibile tradurre in inglese, per i colleghi dell’autorevole Guardian, l’incipit del celebre sonetto del Belli: «C’era una vorta un re che dar palazzo/ mannò fora a li popoli st’editto: Io so’ io, e voi nun zete un...».
Non lo sappiamo ma confidiamo che il cuore di quell’antica satira contro l’arroganza del potere continui a pulsare, animando l’intelligenza critica di artisti, politici e giornalisti, al di qua e al di là della Manica. Perché sembra proprio che ce ne sarà bisogno, almeno a giudicare dai primi segnali che vengono da quel Movimento 5 Stelle che si dice fondato su trasparenza e partecipazione democratica.
A dare la misura dei rischi vagamente orwelliani presenti nel movimento basterebbe una riga del «Codice di comportamento eletti MoVimento 5 Stelle in Parlamento» che si può trovare sul loro sito, e che i candidati erano tenuti a sottoscrivere: «I parlamentari sono tenuti al rispetto dello Statuto, riferito come “Non Statuto”». I personaggi di Orwell dovevano dichiarare che due più due fa cinque, gli eletti cinquestelle sono tenuti a rispettare uno statuto e al tempo stesso a negarne l’esistenza ogni volta che lo nominano. I parlamentari, prosegue il codice, dovranno «evitare la partecipazione ai talk show televisivi». Inoltre, prosegue il testo, «la costituzione di due “gruppi di comunicazione”, uno per la Camera e uno per il Senato, sarà definita da Beppe Grillo in termini di organizzazione, strumenti e di scelta dei membri, al duplice fine di garantire una gestione professionale e coordinata di detta attività di comunicazione, nonché di evitare una dispersione delle risorse per ciò disponibili». Sembra dunque di capire che gli eletti dal popolo non abbiano il diritto di aprire bocca senza autorizzazione. Intanto però Gianroberto Casaleggio rilascia un’intervista al Guardian spiegando che cosa quegli stessi parlamentari dovranno votare e cosa no. A partire dal voto sulla fiducia a un eventuale governo Bersani: e la risposta è no.
Casaleggio ha naturalmente tutto il diritto di dire la sua opinione, ma la sua opinione rimbomba sinistramente nel silenzio degli eletti cinquestelle. Anche tralasciando l’aspetto costituzionale che riguarda la libertà e l’autonomia del parlamentare, resta una gigantesca questione politica: a che titolo parla Casaleggio? Non pare essere stato eletto da nessuno a nessuna carica. Parla dunque a titolo di comproprietario del marchio, di editore, di amico del Principe? In una lettera al Corriere della sera del 2012 si definisce «in sostanza cofondatore», ma cosa significa in concreto? Significa forse unico autorizzato a parlare a nome del movimento oltre a Beppe Grillo? E chi lo ha deciso? Qualche preoccupazione è legittima. Chi si propone di riformare la democrazia italiana dovrebbe prima di tutto dar prova di rispettarne i principi più elementari in casa sua.

l’Unità 2.3.13
Il caso di Grillo che va alle consultazioni al Quirinale
di Massimo Luciani


LA SITUAZIONE POLITICA È NEL SEGNO DELLA MASSIMA CONFUSIONE, LO SAPPIAMO. Non per questo, però, vengono meno le regole costituzionali che disciplinano le fasi di crisi e che fatalmente delimitano il campo delle alternative tattiche e strategiche fra le quali i singoli competitori possono optare. Già ora si stanno applicando le regole per la formazione delle Camere, e fra poco si applicheranno quelle che disciplinano il procedimento di formazione del governo.
Si sa che l’eventuale conferimento dell’incarico di formare il nuovo governo da parte del presidente della Repubblica è preceduto dalla fase delle consultazioni. La maggior parte dei costituzionalisti ritiene che anche questa fase non sia disciplinata soltanto da una semplice prassi (che si potrebbe cambiare a piacimento come e quando convenisse), ma da una vera e propria consuetudine costituzionale, che deriva i propri contenuti direttamente dalla Costituzione: il presidente deve scegliere qualcuno che sia in grado di ottenere la fiducia da parte delle Camere, e lo può fare solo dopo aver verificato gli equilibri politici attraverso consultazioni mirate.
La scelta di chi consultare, dunque, non è libera, perché la funzione delle consultazioni è scolpita dalla Costituzione e non le si può allargare e restringere a piacimento. Qui, però, sorge qualche problema interpretativo.
Tra i soggetti consultati ci sono, ormai da molti anni, i segretari dei partiti. La cosa sembra pacifica e non sembra sollecitare particolari interrogativi, ma non è proprio così. Clamoroso fu il caso della crisi aperta dalle dimissioni del IV governo Andreotti nel 1989. Il presidente Pertini avrebbe dovuto consultare anche il segretario del Partito radicale, ma rifiutò di farlo perché si trattava di un cittadino francese (Jean Fabre), in quanto tale non legittimato a determinare la «politica nazionale», riservata dall’articolo 49 della Costituzione ai cittadini italiani. Si dimostrava, in questo modo, che quella delle consultazioni è una fase che ha una natura decisamente politica, ma che non per questo si sottrae alla durezza del diritto.
Problemi del genere non si presenteranno stavolta, eppure qualche interrogativo è lecito porlo. Abbiamo visto che la consultazione riguarda i segretari dei partiti. Come ci si deve comportare, però, con movimenti debolmente istituzionalizzati per i quali non sembra esserci, formalmente, nemmeno la carica di segretario? La questione si fa delicata oggi, visto che l’interrogativo riguarda una formazione politica come il Movimento 5 Stelle, che è divenuta uno dei protagonisti della vita politica italiana. Delicata, certo, ma tutt’altro che insolubile. Tutti gli studiosi, infatti, concordano sul fatto che la scelta delle persone da consultare, sebbene non sia libera, è sicuramente discrezionale, nel senso che tutti i presidenti hanno sempre avuto un ambito abbastanza ampio di manovra. Nella crisi attuale, è evidente che non avrebbe senso non consultare il leader di 5 Stelle solo perché esiste un problema di qualificazione formale della sua carica.
La cosa è semplice, dunque. Eppure, sollecita una riflessione non banale. Tutti i movimenti rifiutano, in via di principio, l’istituzionalizzazione, perché non vogliono essere confusi con i partiti. Eppure, l’istituzionalizzazione è un approdo fatale. Il solo fatto di avere dei rappresentanti eletti in Parlamento la comporta, e la comporta anche la partecipazione alle consultazioni. Se è così, però, c’è da chiedersi se il passo non debba essere compiuto sino in fondo, anche sul piano dell’organizzazione interna e delle strategie politico-istituzionali. Perché nelle istituzioni o si sta o non si sta. Una posizione di mezzo non c’è.

l’Unità 2.3.13
5 Stelle, decide Casaleggio «No alla fiducia»
Il capo carismatico avverte i parlamentari: avete firmato un patto

E Grillo torna a insultare il Pd
di Andrea Carugati


ROMA I 5 stelle «non intendono prendere parte al processo di formazione del nuovo governo». E si limiteranno, se un governo dovesse nascere, a votare «tutto ciò che fa parte del nostro programma».
Parola di Roberto Casaleggio, il co-fondatore del movimento, il guru rimasto quasi sempre nell’ombra ma da sempre protagonista di tutte le decisioni fondamentali. In una intervista al britannico Guardian, Casaleggio ribadisce la linea già più volte espressa da Grillo. Senza insulti, ma con una certa fermezza. E ai 162 eletti ricorda i loro doveri: «Tutti i nostri candidati hanno firmato un codice di comportamento che prevede che i nuovi gruppi non devono allearsi con altri partiti o coalizioni, ma solo votare eventuali punti condivisi». «Tutti i candidati lo sapevano fin dall’inizio», insiste. E al quotidiano che gli ricorda come sul blog la linea isolazionista abbia incontrato parecchie critiche, ribatte: «I membri del movimento non sono solo quelli che commentano. E il fatto che poche persone commentino sul blog non significa che il popolo a 5 stelle non condivida la linea». Il guru poi ribadisce la preferenza per un governo di larghe intese con dentro Pd e Pdl, e i grillini all’opposizione, sulla scia dell’esperienza Monti (e il Guardian sottolinea che «la linea sua e di Grillo, così facendo, potrebbe riportare Berlusconi al governo»). E spiega che l’obiettivo dei 5 stelle è andare al potere da soli: «Se saremo coerenti coi nostri principi cresceremo certamente».
Infine, respinge le analisi che vedono nella crisi economica la ragione fondamentale del successo grillino. «Si tratta di un prodotto della Rete, della democrazia diretta che noi abbiamo praticato. Quello che sta accadendo in Italia è solo l’inizio di un cambiamento più radicale che riguarderà tutte le democrazie». Da ultimo, racconta la sua versione a proposito di un incontro con Prodi: «Quattro mesi fa lo incontrai a un pranzo organizzato dal World Economic Forum: mi riconobbe e mi salutò». «Ma nessun leader mi ha chiamato dopo il voto».
Mentre il guru racconta con toni anglosassoni la sua rivoluzione al Guardian, Grillo si dedica alla razione quotidiana di insulti al Pd: «Mercato delle vacche», «Volgari adescatori», «Facce come il culo». Stavolta non risponde direttamente a Bersani, ma ad alcuni retroscena che parlano di contatti tra i democratici e alcuni senatori a 5 stelle in vista del voto di fiducia. «Al M5S arrivano continue offerte di presidenze della Camera, di commissioni, persino di ministri. Il Pdmenoelle ha già identificato a tavolino le persone del M5S per le varie cariche dando loro la giusta evidenza mediatica sui suoi giornali e sulle sue televisioni. È il solito modo puttanesco di fare politica», attacca il comico dal suo blog. «Per attuarlo però ci devono essere persone disposte a vendersi. E il M5S, i suoi eletti, i suoi attivisti, i suoi elettori non sono in vendita. Bersani é fuori dalla storia e non se ne rende conto». Grillo stavolta se la prende anche con Renzi: «Come uniche credenziali ha quelle di aver fatto il politico di professione senza nessun risultato apprezzabile e ora si candida a premier, ma non aveva perso le primarie? Questi hanno la faccia come il culo». Con i nostri senatori, insiste, «i vertici del pdmenoelle si stanno comportando come dei volgari adescatori». Il comico ricorda il «Codice di comportamento degli eletti», che impone di non fare alleanze. «È stato firmato da tutti i candidati. Se il pdmenoelle vuole trasformare Camera e Senato in un Vietnam il M5S non starà certo a guardare».
Nonostante i toni perentori dei due leader, e il tentativo di applicare anche alla truppa parlamentare le durissime regole comunicative («No alla tv») che sono costate l’espulsione alla consigliera bolognese Federica Salsi, in queste pre attorno ai Cinque stelle la confusione regna sovrana. Tra commenti sul blog, appelli sul web a sostenere il Pd (che poi vengono bollati come opera di «infiltrati»), personalità come Dario Fo che si incaricano di rivelare le vere intenzioni di Grillo e Casaleggio, si rischia di perdere il filo. Il Nobel, in mattinata si offre come mediatore tra Bersani e i 5 stelle, poi racconta di avere parlato con Casaleggio e sintetizza: «Credo che i grillini non accetteranno mai Bersani. Ma il governo si può fare, magari con un volto nuovo del Pd».«Bisogna andarci con i piedi di piombo», avverte Fo. Intanto, mentre sulla web tv si parla di una proroga del governo Monti, nel meet up bolognese s’avanza l’ipotesi di una fiducia a tempo al nuovo eventuale governo: sei mesi per portare a casa un pacchetto di riforme col Pd, con tanto di notaio a fare da garante. «Si potrebbe fare un programma di governo con riforme M5s in cambio di riforme Pd (valide e non scandalose) da realizzare in sei mesispiega Stefano sul meet up di Bologna-. Esplicitando che la fiducia su proposte di legge extra programma causerebbe la caduta del governo».
La confusione regna sovrana. L’unica certezza è che lunedì i 162 neo eletti si incontreranno per la prima volta tutti insieme con i due leader, molto probabilmente a Roma. L’incontro si terrà a porte chiuse, ora e luogo sono avvolti nel mistero. L’obiettivo è quello di tenere alla larga i giornalisti, come già era accaduto per il comizio di piazza San Giovanni.

l’Unità 2.3.13
Ai grillini che vogliono il dialogo il capo risponde: «Siete infiltrati»
Tensioni sul web nell’area del Cinquestelle
«Ho votato Grillo, sono pentito» scrive Antonio
di Toni Jop


Situazione in stallo: il web medita, si arrotola, ribadisce, elabora, suggerisce, si inchioda, scartabella pagine di storia, cerca ragioni e motivi canta Conte di questa vita. E non ne esce: i fronti sono attestati sulle loro posizioni, una specie di Piave. Ogni tanto, drappelli escono dalle trincee grilline del no al compromesso con la sinistra e si incontrano con i «nemici», quelli che implorano Grillo di darsi da fare, di accettare il confronto, di non buttare al vento un’opportunità preziosa per il paese e anche per loro, il Movimento, chi lo ha votato. Ci giocano a carte nottetempo, protetti dall’anonimato, dai nickname, dalla luce azzurrina dei computer, scambiano parole, magari si divertono, poi si ritirano.
«Guerra» di posizione, quella che si combatte su Facebook, nel blog di Grillo, in quelli dei giornali, a cominciare in quello dell’Unità. Mentre i dispacci arrivano a volo d’angelo dalle retrovie, dove si discutono i piani di attacco, dai quartieri generali dove si muovono i capi, si decidono i destini. Piaccia o no, persino quelli dei fans del Movimento Cinque Stelle, quello dell’«uno vale uno», il motto fondativo. D’Alema ha detto che vuole il governissimo! Contrordine, ha detto che il Pdl non lo vuole nemmeno vedere, che è veleno! E Veltroni, dice che vuole il governo tecnico! E Bersani dice che sfiderà il movimento! E Renzi non vede l’ora di passare al comando! E dagli alti comandi del fronte stellato, que passa?
C’è il solito blog del Grande Imbuto, dove come da manuale di guerra le informazioni, le indicazioni, il dislocamento progressivo delle truppe viene appeso ai dispacci quotidiani, in genere firmati sempre da lui, quello che conta uno più di tutti gli altri. Con qualche variazione: oggi Casaleggio ha parlato al Guardian! Al Guardian? Ma non è un giornale britannico? Sì che lo è, ma è così, loro parlano o nei blog oppure sparano sui media di altri paesi e aspettano che le loro cose rimbalzino dalle nostre parti. Ineffabili marpioni: e così il modo della comunicazione rinforza e sottolinea le «armoniche» delle parole dure pronunciate di qui e di là, il «modo» è la musica della comunicazione, ed è un accordo molto romantico, sintonico, sinfonico.
Tutto corre nella stessa direzione. Alla notizia che un appello condito in area para-grillina da una ragazza, Viola Tesi, aveva raccolto 140mila firme a sostegno del dialogo costruttivo tra Cinque Stelle e sinistra, Grillo ha risposto duro: «sono infiltrati», non stateli a sentire. Così, in tempo reale, un altro appello ha preso le distanze da quello incriminato e veleggia da ore, tuttavia, in quantità decisamente meno poderose. Un muro contro pace e distensione, contro comprensione e dialogo, poiché nessuno, dalla sinistra, sta strisciando, come lasciano intendere i duri e puri, ai piedi di nessuno e neppure sta chiedendo la carità ad un taccagno. C’è un paese intero che aspetta: ha votato e ora pretende che chi ha di più voti e sintonie deponga le armi e si incroci. Ma non va così e il web se ne accorge, sconta l’impasse, osserva le rigidità, giudica, riprova a offrire una chance perché altrimenti si va al voto, di nuovo e non sarà un piacere.
Pare che Casaleggio abbia detto di no. E chi è Casaleggio? Già è difficile rispondere alla domanda «chi è Grillo» di fronte a un piccolo esercito di parlamentari cinque stelle eletti a furor di popolo, ma costa un’ernia cerebrale provare a rispondere alla questione: «Chi è Casaleggio» e perché parla al posto di quegli eletti? Intanto, Viola lamenta: contro di me la macchina del fango. Ha ragione: ha votato Grillo volendo fare gelati ma siccome ha implorato che i voti del Movimento non vadano sprecati in una campagna elettorale infinita, su di lei è piovuta una valanga di insulti. Del resto, se il Capo dice che è una infiltrata, cosa avrebbero dovuto dedicarle i pasdaran del web? Ma a chiedere che si apra un tavolo comune, che si pongano delle condizioni e ci si parli, che si mettano alla prova quelli della sinistra storica, del Pd in particolare, sono cittadini che hanno votato Cinque Stelle e Grillo, questo, in cuor suo lo sa, anche dando per scontato che qualche troll, in una nemesi non richiesta, si aggiri per le sue stanze. Fa sapere Antonio F. «Ho votato M5S e francamente sono pentito. Questo puntare a maggioranze plebiscitarie mi pare pericoloso, mi fa venire i brividi... » e gli risponde Giovanni Catenacci: «Avanti così, li spazzeremo via una volta per tutte». Un altro Antonio (Del Greco), sostiene di aver votato la lista stellata ma adesso si sente di chiedere: «Non ho ancora capito se sei peggio della Merkel o peggio di Hitler... esagerato, ndr – sei un irresponsabile». Il tenore è questo. Ma Grillo è davvero convinto che tutto ciò, nel caso si andasse disgraziatamente ad elezioni in tempi brevissimi, non avrebbe un costo per i suoi mirabili destini?
Vedremo cosa ci farà sapere Casaleggio, dal Guardian.

Corriere 2.3.13
«Infiltrata? Io voglio fare la gelataia»
Viola e le 150 mila firme per l'asse col Pd: ero con i Pirati, fanno democrazia liquida Ma adesso bisogna governare
di Alessandro Trocino


ROMA — «E non lo so cos'è successo, io sono solo una gelataia». Viola Tesi è una ragazza di 24 anni, molto posata e con un sorriso timido, ma è già una star per tg e talk show. È successo che la sua petizione su change.org, lanciata solo tre giorni fa, ha raggiunto vette difficilmente raggiunte. Ieri sera le firme erano 150 mila. Il titolo dell'appello dice tutto: «Caro @beppe_grillo, dai la fiducia al Governo per cambiare l'Italia». Iniziativa dal basso, di quelle che dovrebbero piacere ai sostenitori della rete e che invece ha scatenato un putiferio di accuse: «M'hanno dato della venduta, dell'infiltrata del Pd, della marionetta. Ma è assurdo». Macchina del fango, le fanno dire i giornalisti. E lei conferma, con parole meno mediatiche: «Sono i metodi che usa Grillo. Per questo non sono mai entrata nel Movimento, mi avrebbero espulso dopo un mese. Io dico sempre quello che penso, mi chiamano Martellina e Pigna, per dire della testa dura».
L'accusa principale è quella di essere un'infiltrata del movimento dei Pirati: «Non c'è niente di segreto, è un'esperienza che ho fatto a settembre. Mi è piaciuta molto la piattaforma di condivisione, liquid feedback. Un software che consente di confrontarsi davvero in modo orizzontale, per una democrazia liquida». Beh, ma è quello che dicono di fare nei meet-up i grillini: «No, perché non hanno questa piattaforma. E poi è evidente che sono Grillo e pochi altri a dettare la linea, non mi sembra che sia così orizzontale».
Ti accusano di voler il male del Movimento 5 Stelle: «Ma no, io l'ho votato e ci credo ancora. Mi piaceva l'idea di gente fresca, giovani e donne, che occupavano il Parlamento. Ma una volta dentro bisogna governare. Mi sembra che invece si sia sempre in campagna elettorale». C'è chi dice che i firmatari del tuo appello siano tutti democratici: «Non credo. Io l'appello l'ho fatto a nome mio e di nessun altro, ma tra i firmatari credo che siano in molti del movimento».
Gelataia, ma piuttosto a suo agio con i media: «Lo so, mi dicono che lo faccio per apparire. Ma se volevo apparire facevo l'attrice. Se vado in tv è perché credo in questa petizione. Credo che Grillo ora debba rispondere non più soltanto ai suoi militanti, ma a un gruppo più ampio: agli elettori. Che non sono tutti fanatici e non tutti lo considerano un guru: è gente che crede nella forza del Movimento, ma deve essere usata per cambiare e dialogare, non per i monologhi e gli insulti. Sennò torna indietro».
A sentirla parlare, così saggia e ponderata, uno pensa a un futuro in politica: «Ma no, ho studiato Scienze Politiche, però ho lasciato prima. Mio padre vorrebbe che me la dessero ora la laurea, honoris causa». Meglio studiare. «Io sento la responsabilità per tutti quelli che hanno firmato, ma sono solo una messaggera. Un Mercurio che porta i messaggi dagli uomini agli dei che ci governano. Detto questo, lo ripeto: voglio fare la gelataia da grande. È così strano?».

l’Unità 2.3.13
Il successo grillino come i referendum
Guai ad arroccarsi
di Marco Almagisti


DI FRONTE ALLE DICHIARAZIONI SPREZZANTI DI PEER STEINBRÜCK, IL PRESIDENTE NAPOLITANO HA FATTO BENE A RIVENDICARE IL DOVEROSO RISPETTO PER IL NOSTRO PAESE. Sono già sufficientemente allarmati gli sguardi rivolti all’Italia dagli osservatori stranieri per rischiare di incentivare quello che si annuncia come uno stillicidio. Soprattutto, è necessario valutare con la massima serietà gli ultimi risultati elettorali.
Le aspettative della vigilia sono state in parte disattese e il Pd, vincitore annunciato (con eccessivo anticipo), è costretto ora a dover gestire, oltre alla propria delusione, una situazione delicatissima. Non ci sono dubbi che il Pd abbia commesso gravi errori nel corso della campagna elettorale. Quel vantaggio così risicato alla Camera e il puzzle del Senato stanno lì a ricordarlo. Appare discutibile, invece, l’interpretazione proposta da più parti che fosse sbagliata la linea politica di Bersani (il richiamo ad un’Italia giusta, l’apertura a Vendola). Infatti, il Pd ha subito la maggiore erosione di voti durante l’ultima parte della campagna elettorale, a favore del Movimento Cinque Stelle, proprio mentre parte rilevante della stampa si interrogava sull’affidabilità di Vendola o se Bersani rassicurasse a sufficienza i moderati.
Se rifiutiamo la scorciatoia cognitiva consistente nel definire «antipolitica» tutto ciò che esula dall’offerta partitica tradizionale, possiamo capire meglio quelle proposte politiche che, fra contraddizioni e cedimenti populisti, il Movimento Cinque Stelle ha utilizzato negli ultimi mesi, contribuendo in modo sostanziale a togliere voti al centrosinistra. Le prime ricerche dedicate al Movimento Cinque Stelle mostrano una realtà vivace e sfaccettata: dietro a Beppe Grillo, figura che garantisce un collante nazionale e occasioni di visibilità mediatica, vi sono in molti contesti candidati scelti su base locale legati a profili e progetti specifici e in alcuni casi tali candidati riprendono temi che dovrebbero essere considerati con molta attenzione dai partiti di centrosinistra.
Sia in tema di tutela dagli eccessi del mercatismo, sia sul versante dell’impatto ambientale, i “pentastellati” riprendono questioni ritenute salienti da ampie porzioni dell’elettorato di centrosinistra, sebbene siano filtrate con grande fatica nella comunicazione politica dei partiti tradizionali. Così come le questioni della riduzione dei costi della politica, del contrasto alla corruzione e della trasparenza dei processi decisionali, la risoluzione del conflitto di interessi.
La crisi di consenso dell’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi era affiorata appieno nella primavera del 2011, prima con i risultati delle amministrative e poi con i referendum del 12-13 giugno. In quell’occasione i cittadini italiani si sono espressi su quattro referendum abrogativi: due relativi alla gestione dell’acqua pubblica, uno all’energia nucleare e uno al legittimo impedimento. Nonostante Berlusconi e Bossi avessero invitato ad astenersi, più del 54% degli italiani – ossia quasi 26 milioni – sono andati alle urne dando il consenso all’abrogazione di tutti e quattro i quesiti con percentuali superiori al 94%.
In quella occasione, per la prima volta dopo molti anni, era stato possibile riportare al centro del dibattito politico i «beni comuni» (gestione pubblica dell’acqua, tutela dell’ambiente, legge uguale per tutti). La mobilitazione del 2011 era avvenuta soprattutto attraverso il contatto diretto e internet, grazie all’impegno dei più giovani. Il successo referendario scaturiva dalla cumulatività della mobilitazione di movimenti e comitati, che avevano autonomamente avviato la raccolta firme, e dei partiti di centrosinistra che avevano sostenuto le ragioni del Sì. Infatti, un aspetto interessante, a suo tempo rilevato da Ilvo Diamanti, è stata la partecipazione aggiuntiva riscontrabile nella tornata referendaria rispetto al consenso tradizionalmente raccolto dai partiti di opposizione. L’irrompere inatteso di tali tematiche sulla ribalta politica, il successo di tali proposte anche in territori, come il Nordest, che sembravano garantire un consenso granitico a Berlusconi e alla Lega, ci aiuta a comprendere che non esistono forze politiche per antonomasia “padrone” dei territori, bensì che esistono delle giunture critiche nella storia politica delle nostre società in grado di ridefinire i rapporti di forza fra gli attori politici e sociali, ed evidenziano ampi segmenti di società in grado di mobilitarsi attorno a temi percepiti come prioritari, spesso in autonomia rispetto ai partiti.
Ebbene, il ridimensionamento di tali questioni nell’agenda politica del centrosinistra ha consentito a Grillo di appropriarsi di questi temi e di sfruttarne appieno il potenziale di mobilitazione. Alla fine è il Movimento Cinque Stelle a beneficiare del ridimensionamento dei consensi al centrodestra (sei milioni di voti in meno per il Pdl, il dimezzamento per la Lega). Solo per rimanere alla Regione in cui vivo, il Veneto (in cui tre anni fa la Lega otteneva il voto di un elettore su tre): la coalizione di destra è prima col 31,8%, davanti al Movimento Cinque Stelle (26,3) e al centrosinistra (23,3). Ma come singolo partito è il Movimento Cinque Stelle, che in questa regione è riuscito ad ottenere il suo primo sindaco, a primeggiare (26,3), davanti al Pd (21,3), al Pdl (18,7), con la Lega solo quarta (10,6). È un mondo che cambia. Il sovrapporsi degli effetti della crisi economica globale e della crisi politica italiana hanno impresso una brusca accelerazione alle domande di cambiamento che emergono dalla società.
Il giorno in cui il segretario del principale partito del centrodestra annuncia che è pronto alla mobilitazione di piazza contro i magistrati che indagano su Berlusconi, appare ancora più urgente che il Partito democratico interloquisca con quei soggetti fatti affiorare – e ora anche entrare in Parlamento – dalla marea montante del cambiamento sociale, evitando di avvitarsi in ipotesi di “governissimo” che rischierebbero di aggravare il male che si vuol curare (e di uccidere il partito). Ci vuole coraggio, perché nessuno scenario è scontato e nessun risultato è garantito. Ma, al netto di ogni altra considerazione, merita di essere coltivata la curiosità verso i soggetti nuovi sulla ribalta della politica.

l’Unità 2.3.13
Fausto Raciti
«Gli eletti del movimento devono rispondere a una semplice domanda: vogliono un governo per cambiare l’Italia o vogliono tornare alle elezioni?»
«Niente elemosine, i 5 Stelle scelgano: riforme o voto»
di Tullia Fabiani


ROMA «Noi non dobbiamo elemosinare niente dal M5S, loro devono dire dove vogliono portare il Paese e rispondere a una semplice domanda: vogliono un governo che porti avanti riforme o vogliono tornare al voto? Questo è il bivio, non ci sono altre strade, né alibi». Fausto Raciti tra pochi giorni entrerà in Parlamento per la prima volta, a 29 anni. Segretario nazionale dei Giovani Democratici e deputato Pd di quella che sarà la XVII legislatura.
Grillo però parla di «solito modo puttanesco di fare politica», di «mercato delle vacche». E Casaleggio dice al quotidiano britannico The Guardian che «M5S non appoggerà nessun governo». Non le sembrano risposte alla sua domanda?
«È evidente che così non c’è dialogo, che Grillo sta facendo muro. Ma gli interlocutori sono i parlamentari del Movimento 5 Stelle, sono loro che hanno avuto il mandato elettorale. Noi li dobbiamo sfidare su una proposta programmatica di riforme radicali. Poi ciascuno si assuma la propria responsabilità. Dovranno votare no, sì, o uscire dall’aula. Ripeto, sono loro a doversi esprimere in Parlamento, né Grillo, né Casaleggio».
Potreste appoggiare un governo M5S, come è stato proposto?
«Quella di un governo M5S è una boutade, prima di tutto perché l’incarico lo conferisce il Presidente della Repubblica, poi perché il Pd è il partito che ha ottenuto la maggioranza relativa. Questo genere di proposte sono scorciatoie per non rispondere alla domanda: si va avanti o si torna al voto?».
Secondo lei?
«Secondo me Bersani farà delle proposte a cui sarà molto difficile dire di no. Penso, tra le altre cose, alla legge sui partiti, alle norme anti corruzione, ai provvedimenti per contrastare il disagio economico e sociale, al lavoro rimesso al centro dell’agenda europea. Bisogna dare subito un segnale di cambiamento».
E se la risposta fosse no, comunque. Peggio per voi o per loro?
«Se dicessero no sarebbe peggio per l’Italia, si tornerebbe al voto. Ma sarebbe un’occasione persa».
Non ci sarebbe nessuna altra possibilità di accordo con le forze politiche presenti in Parlamento?
«Non deve esserci alcun alibi per un governo di larghe intese. Escludo qualsiasi alleanza con il Pdl e con Monti, non per calcolo tattico ma perché non consentirebbe di fare riforme nell’interesse dell’Italia, in particolare sul piano economico e sociale. Il rischio maggiore è pensare che da questa strada si possa uscire con l’ipotesi di un governissimo. Dobbiamo metterci in sintonia con il risultato uscito dalle urne».
Meglio guardare a M5S che a Monti?
«Dalle urne è uscita una fortissima richiesta di cambiamento, soprattutto sul piano economico e sociale, il nostro compito è dunque rispondere a questa domanda dei cittadini. Se oggi abbiamo questo Parlamento è perché noi ci siamo preoccupati soprattutto di rassicurare il Paese, però il Paese voleva essere tutt’altro che rassicurato, voleva un indirizzo di cambiamento».
Bersani ha sbagliato campagna elettorale?
«Il problema non è stata la campagna di Bersani, ma l’impostazione del Pd...» L'impostazione del Pd? Sarebbe? «Dobbiamo ripartire dalle cose. Più di un anno fa si era aperto il dibattito sul governo Monti, c’era chi diceva che doveva essere il paradigma di riferimento della sinistra riformista e chi sosteneva che l’agenda doveva essere un’altra. Il dibattito però è rimasto irrisolto, perché nel frattempo c’era la responsabilità del governo Monti. Noi adesso paghiamo anche questo».
Pensa sia stato un errore appoggiare il governo Monti?
«No, ma certo abbiamo pagato un prezzo alto. Non solo, abbiamo anche pensato di continuare a guardare in quella direzione. Invece il voto ha dimostrato che la linea di austerità, responsabilità e serietà non basta».
Cosa altro serviva?
«Era necessario prospettare un cambiamento più radicale. L’idea di un’Europa diversa, in cui prevalga la linea dello sviluppo su quella dell’austerità, l’impegno a chiudere la stagione del precariato nel lavoro, sono temi sui quali, evidentemente, non siamo riusciti a dimostrarci abbastanza determinati. E poi... la rabbia».
La rabbia?
«Sì, direi che non siamo riusciti a rappresentare la rabbia che c'è nel Paese». Se ci fosse stato Renzi?
«Con Renzi non penso sarebbe andata diversamente, perché il punto non è rassicurare i moderati, parlare a un centro che non esiste. Il punto è, in questa fase, un Paese che vuole cambiare e un ceto medio impoverito che chiede risposte. Questo ci dice il messaggio uscito dal voto. E anche per Renzi, in questo caso, non sarebbe stata una passeggiata».

Corriere 2.3.13
Goldman Sachs, «entusiasmo» per il M5S
La banca d'affari attaccata da Grillo: novità eccitante, serve un cambiamento
di E. Bu.


MILANO — Il giudizio che non ti aspetti, quello che ti sorprende. Il bacio del «nemico». Jim O'Neill, il guru di Goldman Sachs che ha coniato l'acronimo «Bric» (Brasile, Russia, India, Cina), sostiene (in un commento nello studio «Riforme non vuol dire austerity») di trovare «entusiasmante» l'esito delle Politiche. L'Italia, secondo l'economista, ha «bisogno di cambiare qualcosa di importante» e forse «il particolare fascino di massa del Movimento 5 Stelle potrebbe essere il segnale dell'inizio di qualcosa di nuovo». Insomma una promozione per Beppe Grillo a pieni voti, proprio da quella banca d'affari che il leader politico del movimento ha attaccato più volte. Anche con post dedicati, come «L'Europa di Goldman Sachs», del gennaio 2012, in cui venivano evidenziati i rapporti tra politici europei e l'istituto americano. Nell'occhio del ciclone (più volte) Mario Monti bollato come un «impiegato» (22 marzo 2012, ndr) della banca. Ancor più surreale il fatto che il giudizio di Goldman Sachs arrivi nel giorno in cui viene rilanciata sul web un'intervista di Grillo alla tv greca in cui il leader invita i «Pigs» (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) ad allearsi contro le banche. «Magari faremo una associazione di solidarietà tra noi. Stiamo vicini e facciamo le stesse battaglie — sostiene lo showman —. O creeremo una alleanza tra noi Pigs perché intanto ci abbandonano: appena si saranno ripresi i soldi, le banche tedesche e francesi ci mollano». E ancora: «Se trovate uno come me in Grecia, potete iniziare a fare movimento di rete e fare meet-up, riunirvi e iniziare ad impattare nella politica le idee che avete nelle piazze».
Sul blog, come editoriale de «La settimana», Grillo sceglie uno stralcio del «Manifesto per la soppressione dei partiti politici» di Simone Weil: «Il fine primo e, in ultima analisi, l'unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite. Per via di queste caratteristiche ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni». E proprio su Internet sorge un nuovo caso, con un parallelo diffuso sui social network in cui si accosta un discorso di Adolf Hitler ai comizi del capo politico del movimento. Ovviamente, il confronto ha causato la reazione sdegnata dei militanti grillini, impegnati anche ieri nella discussione su un eventuale appoggio a un governo di centrosinistra. A La Zanzara il neosenatore campano Bartolomeo Pepe dichiara: «Per me Chavez è un modello, non Bersani. Molto meglio Chavez, che non vuole smacchiare il Giaguaro». E mentre sul web si dibatte, i neodeputati (in vista del vertice romano in cui verranno decisi linea e incarichi) si affacciano a Montecitorio: cinque eletti si sono presentati ieri alla porta principale del palazzo. Ma da lì non sono stati fatti entrare: per registrarsi, viene spiegato a una di loro, l'entrata da usare è quella sul retro. «È stato come in primo giorno di scuola», hanno detto ai microfoni de Il fatto quotidiano. E in serata militanti e alcuni neoeletti si sono dati appuntamento sempre a Roma in un pub in piazza dell'Esquilino per festeggiare. Ieri ha commentato l'esito elettorale anche don Andrea Gallo: «I grillini hanno avuto consenso perché sono scesi in piazza tra la gente, sono entrati in politica dal basso — ha detto il sacerdote —. È la piazza che conta, l'agorà che conta. Si parte da lì. Per mesi Grillo ha riempito le piazze, e gli altri non capivano. Ecco la sua vittoria».

il Fatto 2.3.13
Grillonomics, dove nasce l’economia a 5 stelle
Il leader scomunica gli esperti: non parlino a nome di tutti
di Stefano Feltri


La vita non è lavorare 40 ore alla settimana in un ufficio per 45 anni. È disumano, stavano meglio gli irochesi e i boscimani che dovevano lavorare un’ora al giorno per nutrirsi”. Questa è l’essenza della Grillonomics, l’economia di Beppe Grillo, riassunta nel libro appena uscito Il Grillo canta sempre al tramonto, con Dario Fo e Gianroberto Casaleggio per Chiarelettere. Saperne di più, fare domande, chiedere precisazioni è impossibile. Ieri, dal blog, Grillo ha diffidato “presunti esperti” di parlare a nome del Movimento 5 stelle: sono “liberi di parlare” ma “soltanto a titolo personale”. Messaggio rivolto soprattutto all’economista Mauro Gallegati, citatissimo su giornali e tv dopo la sua intervista al Fatto Quotidiano in qualità di principale autore della parte economica del programma.
PERÒ SI PUÒ ricostruire almeno la rete di letture, o forse solo di suggestioni, che alimenta la Grillonomics. La premessa è la stessa dei movimenti per la de-crescita, evoluzione del pessimismo di Thomas Robert Malthus che già a fine Settecento vedeva i limiti dello sviluppo, l’impossibilità della crescita permanente e la povertà diffusa come destino (colpa dei poveri che si riproducono troppo e quindi devono ricevere un reddito minimo garantito, ma abbastanza basso da non permettere loro di sposarsi). Il fatto che Malthus si sia clamorosamente sbagliato non scoraggia i fan della decrescita, intesa come fine della tensione verso l’aumento del Pil attraverso i consumi (cosa diversa dalla recessione, che è l’assenza di crescita in una società ossessionata dalla crescita). Sul blog di Grillo e tra i suoi frequentatori sono popolari scrittori come il francese Serge Latouche e l’italiano Maurizio Pallante: come quasi tutti i sostenitori della decrescita non sono economisti, non applicano un approccio scientifico ma etico, vedono nella riduzione dei consumi e nel privilegiare la sussistenza allo sviluppo una forma di espiazione per gli eccessi del consumismo. Latouche è un autore best-seller di Bollati Boringhieri, per cui ha appena pubblicato il breve ma ambizioso Dove va il mondo?, dove azzarda: “La mia idea è che il sistema non abbia cinque anni di vita, e meno che mai venti”. Latouche, come Pallante nel suo Menoèmeglio (Bruno Mondadori) suggeriscono soluzioni autarchiche, riduzione di consumi e stili di vita, gruppi di acquisto solidali e orto dietro casa al posto del supermercato. Talvolta spingendosi fino a ipotizzare che soltanto se tutti vivessimo come in Africa la Terra potrebbe evitare il collasso. Nella sua enciclica Caritas in Veritate, nel 2009, Benedetto XVI scriveva: “Assolutizzare ideologicamente il progresso tecnico oppure vagheggiare l'utopia di un'umanità tornata all'originario stato di natura sono due modi opposti per separare il progresso dalla sua valutazione morale e, quindi, dalla nostra responsabilità”.
GRILLO NON SEMBRA condividere gli eccessi della decrescita. Dietro i vaffanculo e gli strilli, tra le righe dei suoi post – e nella scelta dei collaboratori, come Gallegati – si intravede la visione di John Maynard Keynes. Nel giugno del 1930, nel discorso Prospettive economiche dei nostri nipoti, il grande economista di Cambridge ipotizzava che “scartando l’eventualità di guerra e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo”. Cioè l’umanità avrebbe raggiunto la piena occupazione e, grazie alla tecnologia, avrebbe lavorato pochissimo, avendo enormi quantità di tempo libero. In un libro appena pubblicato da Mondadori, il biografo di Keynes, RobertSkidelsky (col figlio Edward, filosofo) si chiede Quantoèabbastanza e spiega perché la profezia di Keynes non si è avverata. Quando negli anni Sessanta nel mondo occidentale si è sfiorata la piena occupazione, la politica ha smesso di preoccuparsi di come migliorare la vita dei cittadini e si è spesa invece per aumentare l’efficienza della produzione. Ma produrre di più implica consumare di più. E l’economia è diventata soltanto la scienza della massimizzazione dei consumi.
Questa sembra anche la linea di Grillo che lui riassume così: “L’unica preoccupazione per tutti è stata quella di produrre più automobili possibili, intasare al massimo città e paesi finché, complice la crisi, il gioco è saltato e ora siamo tornati ai livelli di produzione degli anni Settanta”. L’ex comico integra questo approccio con le teorie sui beni comuni – evoluzione delle spinte ecologiste e anti-globalizzazione degli anni Novanta – in Italia approfondite da Ugo Mattei e Stefano Rodotà.
COME SI TRADUCE questo approccio in politica economica? Il programma di Grillo è una lista di principi e, per ammissione del leader del M5s, ancora incompleto: deve nascere una “piattaforma on line” in cui i simpatizzanti potranno riempire di contenuti i principi del programma. Sono anni che Grillo annuncia questa partecipazione dal basso, ma è ancora “in fase di sviluppo dopo il rallentamento dovuto all'anticipo delle elezioni”, ha scritto ieri. Solo che adesso la discussione non è più solo teorica, dovrà portare a breve i disegni di legge in Parlamento.

il Fatto 2.3.13
Lo storico John Foot
“Gli inglesi non capiscono perché votate un comico”
di Massimiliano Boschi


All’estero sono rimasti molto perplessi dalle elezioni italiane. Anche John Foot, docente di Storia contemporanea al dipartimento di italiano dela University college di Londra, collaboratore di Internazionale e del Guardian. Foot ha vissuto per decenni in Italia e al momento sta completando un lavoro di ricerca storica sulla legge Basaglia.
John Foot, come hanno reagito i suoi connazionali inglesi ai risultati elettorali italiani?
Con incredulità. Per vent'anni mi hanno chiesto come mai in Italia votassero per Berlusconi. Io provavo a contestualizzare, raccontavo del suo potere mediatico e che non tutti gli italiani lo votavano. Ora mi chiedono tutti di Grillo che è ancora più difficile da spiegare. Ovviamente qui avrebbero trovato più normale una vittoria di Monti.
I governi stranieri e i mercati chiedevano soprattutto stabilità e invece dalle urne non è uscita una maggioranza certa.
Purtroppo emerge l'immagine di un paese poco serio, io provo a combattere questa idea, ma è sempre più complicato. Prima i giornalisti inglesi mi chiamavano per commentare le numerose gaffes di Berlusconi poi ho smesso di rispondere, non ne potevo più.
E oggi?
Ora rischio di ricominciare da capo con Grillo. Berlusconi era già un colpo micidiale all'immagine italiana, Grillo può dare il colpo di grazia. Per i britannici è inconcepibile che un uomo di spettacolo vinca le elezioni. Il risultato elettorale viene visto come un segno di continuità con Berlusconi in un momento delicato e di profonda crisi. Temono il caos.
Ma Grillo non ha vinto grazie alle clientele o a un impero mediatico.
Inizialmente fu così anche per la Lega Nord, le clientele si formano col tempo. Grillo ha sfruttato un momento perfetto, corruzione, scandali, politiche di austerità, credo che una spinta fondamentale gli sia venuta anche dalla vicenda del Monte dei Paschi. Grillo fa credere che tutto il marcio potrà essere spazzato via rapidamente ma le proposte positive sono molto deboli, in questo non si differenzia molto da Berlusconi.
Quindi anche lei è stupito dal successo del Movimento cinque stelle?
Sono stupito dalle sue dimensioni. Capisco che sia montata una repulsione viscerale verso certe facce e certe persone. Dopo vent'anni il ‘voto utile’ è stato rifiutato. Capisco anche che Grillo sfrutti questo sentimento in maniera innovativa e divertente, ma la cura potrebbe essere peggio della malattia.
Non è troppo pessimista?
Se Grillo deluderà le aspettative, gli italiani si rifugeranno nell'astensione e il rifiuto potrebbe coinvolgere l'intero sistema democratico. Grillo, per fortuna, ha evitato che la protesta confluisse nei movimenti di estrema destra come altrove, ma non è detto che il suo successo sia duraturo.

il Fatto 2.3.13
A Grillo conviene aspettare il nuovo voto
di Massimo Fini


MISTERI gaudiosi. Monsignor Ernesto Galli della Loggia scopre che il populismo non è il Male Assoluto. O, quantomeno, che si è fatta molta confusione sul populismo e arriva a legittimarlo anche in certi aspetti del nazismo (Corriere, 27/2). I nostri fini dicitori, che dovrebbero essere gli interpreti della realtà, a furia di star chiusi nelle loro stanze di professori, han finito per non capirne nulla, sono stati sorpresi dall'exploit di Grillo e ora cercano disperatamente di riposizionarsi per far dimenticare che per decenni sono stati complici di quella partitocrazia che 5Stelle sta per spazzar via, offrendo i loro servigi al nuovo vincitore. Lo stesso è accaduto agli uomini politici che, saltabeccando da una Tv all'altra, parlando in teatrini compiacenti, confabulando in Transatlantico intenti a confezionare sofisticate strategie, non si sono resi conto, fino all'ultimo, che lo 'tsunami' non era una parola, ma un'onda che li avrebbe travolti. Eppure non era tanto difficile da capire, bastava scendere in strada, entrare in un bar, prendere un autobus, per capire che aria tirava. Adesso Bersani, dopo averlo coperto di insulti (“indegno”, “uno che porta la gente fuori dalla democrazia”) implora Grillo di concedergli almeno l’“appoggio esterno” e gli promette la presidenza della Camera. Ma Grillo ha già risposto con un regolamentare “vaffa”. Non penso nemmeno, nonostante il leader di 5Stelle si sia espresso in contrario, che Grillo accetterà di votare i singoli provvedimenti che rientrano anche nel suo programma. Perché non gli conviene contaminarsi , anche solo marginalmente, con una classe dirigente che ha dichiarato di voler spazzar via, tutta. Gli conviene aspettare, come ha fatto finora, che si finisca da sola. L'unica possibilità di formare un governo è una Grosse Koalition fra Pd e Pdl. Ma in tal caso i due ex maggiori partiti si sputtanerebbero definitivamente davanti a quel che resta dei loro elettori e un governo del genere, per le sue insanabili contraddizioni interne, cadrebbe nel giro di pochi mesi. L'altra ipotesi è che si vada alle urne subito, dopo aver cambiato la legge elettorale. In un caso o nell'altro, 5Stelle non prenderà più il 25,6%, ma il 40 o il 50. Il voto è stato solo il primo colpo. Il prossimo sarà quello del ko.
IL PROGETTO di Grillo va oltre quello di eliminare una classe dirigente degenerata. È molto più ambizioso. Intende rivedere da cima a fondo un modello di sviluppo, quello occidentale, che ci sta portando al tracollo economico dopo aver realizzato quello sociale, etico, umano. Non so se lo si è davvero capito, ma Grillo è un tradizionalista che utilizza strumenti modernissimi, il web, contro le storture della Modernità. Basta pensare al suo discorso sul lavoro: Il lavoro è importante, ma non può essere tutta la nostra vita, che è fatta di altro. Tradotto significa: meno lavoro, meno guadagni, meno produzione, meno consumi ma più tempo, che è il vero valore della vita, per noi. Una partita difficilissima, che avrà contro tutti gli attuali establishment e impegnerà le generazioni a venire. Ma almeno il 26 febbraio è stato dato, in Italia, paese storicamente laboratorio, il calcio d'inizio.

La Stampa 2.3.13
Le virtù del buon politico
di Massimo Gramellini


Anticipando il probabile duello finale dei prossimi mesi, Grillo ha attaccato Renzi dandogli della «faccia come il c. » (in comproprietà con Bersani) e del «politico di professione». Per lui e per una parte dei suoi elettori le due definizioni sono sinonimi. Tralascio ogni giudizio sull’uso del turpiloquio, uno dei tanti lasciti di questo ventennio che ancora prima delle tasche ci ha immiserito i cuori, portandoci a considerare normale e persino simpatico che un leader politico si esprima come un energumeno. Ma vorrei sommessamente segnalare che essere professionisti della politica non è una vergogna né una colpa. E’ colpevole, e vergognoso, essere dei professionisti della politica ladri e incapaci.
In questi ultimi decenni ne abbiamo avuti un’infinità e la stampa porta il merito ma anche la responsabilità di averli resi popolari, preferendo esibire i fenomeni acchiappa audience piuttosto che il lavoro serio ma noioso di tanti membri delle commissioni parlamentari. Dando agli elettori la percezione che tutti i politici fossero uguali a Fiorito o a Scilipoti e che chiunque potesse fare meglio di loro. Non è così. Il «chiunquismo» è una malattia anche peggiore del qualunquismo e porta le società all’autodistruzione. Questa idea che tutti possono fare politica, scrivere articoli di giornale, gestire un’azienda o allenare una squadra di calcio è una battuta da bar che purtroppo è uscita dai bar per invaderci la vita e devastarcela.
A furia di vedere buffoni e mediocri nelle foto di gruppo della classe dirigente, ma soprattutto di vedere ovunque umiliata la meritocrazia a vantaggio della raccomandazione, siamo sprofondati in un’abulia che ci ha indotti ad accettare senza battere ciglio ogni sopruso e ogni abuso antidemocratico (a cominciare dai partiti padronali e da una oscura rockstar del capitalismo come presidente del Consiglio). E ora che ci siamo svegliati, per reazione vorremmo buttare tutto all’aria, convinti che per fare politica bastino un ideale e una fedina penale intonsa. Non è vero. Gli ideali e l’onestà sono la base per distinguere i buoni leader dai cialtroni che ci hanno ridotto in questo stato. Ma la politica è anche un mestiere con regole precise: l’attitudine all’ascolto, la conoscenza della materia trattata e delle procedure legislative, la capacità di giungere a una sintesi che in democrazia è quasi sempre un compromesso tra diversi egoismi, come ben sa chiunque abbia frequentato un’assemblea di condominio. Era così ai tempi di Pericle e delle lavagnette di creta. Lo rimarrà nell’era di Grillo e del web, con buona pace di chi pensa che la democrazia diretta possa abolire il filtro della rappresentanza. I rimpianti Cavour e De Gasperi non erano dilettanti o improvvisatori. Erano politici di professione, come lo è oggi un Obama.
Il fatto che queste ovvietà suonino eretiche testimonia l’abisso di confusione in cui ci dibattiamo. La politica, se fatta bene, è una cosa dannatamente difficile e seria, specie in giorni come quelli che ci attendono, quando si tratterà di rimettere in piedi un Paese economicamente e moralmente allo stremo. Da cittadino di una democrazia malata sarei più sereno se a occuparsi dell’infermo fossero persone selezionate da un meccanismo che garantisse scelte autorevoli. E qui già vedo un ghigno profilarsi sul volto di Grillo: i partiti sono morti, incapaci di formare una classe dirigente. Ma allora bisogna immaginarne di nuovi, diversamente strutturati. Di certo il futuro non può essere affidato a miliardari e magistrati fai-da-te. Può anche darsi che la soluzione siano movimenti di persone perbene agglomerati dal web come i Cinque Stelle, ma dovranno risolvere l’intima contraddizione fra la trasparenza della base e l’oscurità della catena di comando. A cosa serve accendere una webcam in Parlamento se poi l’ufficio della Casaleggio & Associati, in cui si scrivono le regole e si decide la strategia, rimane ostinatamente al buio?

Corriere 2.3.13
Un taglio serio (ora o mai più)
di Sergio rizzo e Gian Antonio Stella


Ma come è venuto in mente a quelli della Conferenza delle Regioni di rimuovere dal sito la tabella con gli stipendi e le diarie dei governatori e dei consiglieri? Diranno: ora ci sono link delle leggi locali. Cliccate a caso: uno scroscio di commi, codicilli, subordinate…
Non è trasparenza: è una presa in giro dei cittadini. Prima potevano confrontare vicepresidente e vicepresidente, assessore e assessore... Ora no. Davano fastidio le tabelle insolitamente chiare? Le hanno tolte per toglier acqua ai pesci dell'«antipolitica»? È sbalorditivo che dei «professionisti» (presunti) non capiscano i danni che fanno alla politica con errori così madornali. Di questi tempi, poi…
Tutti lì a chiedersi sgomenti: e ora, cosa fare? Cambiate, è la risposta. Il risultato delle urne, oltre a un mucchio di problemi, offre a un sistema in crisi l'occasione di sterzare prima dell'abisso. Facendo finalmente cose indispensabili non per tirar su una diga contro l'ondata grilliana ma per recuperare un rapporto decente coi cittadini.
Proprio il trionfo di Grillo, senza manifesti, spot o camion-sandwich, smonta la tesi abusata che «i costi della politica» (esagerazioni e privilegi compresi) siano «i costi della democrazia». Non è così. Mentre il Pil precipitava sotto ai livelli del 2001, i costi del Palazzo hanno continuato a salire: del 65% in un decennio le spese correnti del Senato, del 43% il costo del consiglio regionale del Lazio solo dal 2007 in qua. Mentre imponevano agli italiani tagli drastici e immediati, «loro» contenevano o rimandavano i propri. Tanto che i consiglieri uscenti stanno facendo le pratiche per vitalizi regionali che qua e là si possono avere ancora a 50 anni.
Proprio l'obbligo di recuperare la fiducia dei cittadini nella politica impone misure urgentissime anti Casta. Intorno cui cercare intese. Certo, alcune richiedono modifiche costituzionali. Ma se c'è la volontà, si è visto sull'obbligo del pareggio di bilancio, si fanno in fretta.
Per rivendicare la propria centralità il Parlamento deve cambiare se stesso. Siamo gli unici al mondo a imporre a un governo di guadagnarsi due fiducie in due Camere. Non ce lo possiamo più permettere. I parlamentari devono far chiarezza sugli stipendi loro e dei collaboratori. Fanno un lavoro importante, hanno diritto a buste paga decorose. Ma basta con le ambiguità sui collaboratori. E basta con l'andazzo dei due mestieri insieme, magari usando il ruolo parlamentare a favore dei clienti privati. Nei Paesi seri chi fa il deputato fa quello e basta. Così magari s'attacca meno alla poltrona. Vale per Roma, vale per le Regioni.
Ancora: va spezzato quel rapporto anomalo costruito da una classe politica mediocre con la burocrazia. Più gli eletti sono scadenti, più devono affidarsi a burocrati (spesso strapagati) che diventano gli unici in grado di fare e poi interpretare gli atti. E dunque hanno interesse a rallentare ogni svolta vera che li renda meno indispensabili.
Ma il punto di partenza, insieme con atti di rottura quali l'abolizione delle Province visto che tranne la Lega si dicono tutti d'accordo, deve essere la trasparenza. Tutto online. Senza furbizie. Dai bilanci (leggibili però…) degli organi costituzionali a quelli delle municipalizzate, dai finanziamenti ai partiti fino ai patrimoni di ministri e parlamentari: gli italiani devono poter sapere come sono spesi i loro soldi e da chi. Non sarà semplice? Non lo sarà neanche per i cittadini recuperare la fiducia perduta.

l’Unità 2.3.13
Mohamed El Baradei
Premio Nobel per la pace, è uno dei leader dell’opposizione egiziana «Perché non vogliamo incontrare il segretario di Stato Usa»
«L’America scelga, Morsi non è democrazia»
di Umberto De Giovannangeli


Il messaggio lanciato al segretario di Stato Usa, John Kerry, che oggi sarà in missione al Cairo, è chiaro: «Invece di denunciare le violazioni sistematiche dei principi democratici da parte dei Fratelli Musulmani e di un presidente di parte, gli Stati Uniti chiedono a noi dell’opposizione di non boicottare le elezioni, nonostante sia sempre più evidente che esse si configurano come un atto di disonestà. Alla democrazia, Washington sembra privilegiare una falsa stabilità, come avveniva con Mubarak. Ma noi non staremo a questo gioco e per questo, con dispiacere ma determinati, abbiamo deciso di non incontrare il signor Kerry». A parlare è Mohamed El Baradei, ex direttore dell’Aiea (l’Agenzia per l’energia nucleare delle Nazioni Unite), premio Nobel per la pace, uno dei leader dell’opposizione laica e democratica egiziana. Decidere il boicottaggio delle prossime elezioni legislative non è un segno di debolezza da parte del Fronte di salvezza nazionale di cui lei è uno dei leader più rappresentativi?
«Un segno di debolezza? Direi proprio di no. Il nostro è un atto di responsabilità. Dobbiamo mandare un messaggio chiaro alla gente dentro e fuori l’Egitto, ovvero che questa non è una democratizzazione e che non abbiamo partecipato a una rivolta due anni fa per tornare a riciclare il regime di Mubarak. Il nostro è un atto di responsabilità verso il popolo egiziano e verso quelle istanze di libertà, di giustizia, di trasparenza che sono state alla base della “Primavera” egiziana. La nostra non è una resa, è l’esatto opposto: è una sfida al regime».
Lei ha annunciato il boicottaggio dopo che il presidente Morsi aveva annunciato la convocazione delle elezioni a fine aprile.
«Si tratta dell’ennesima forzatura di un presidente che invece di rappresentare l’interesse nazionale, si dimostra in ogni suo atto, un presidente di parte: quella islamista. La decisione di tenere le elezioni ad aprile finirà solo per infiammare ulteriormente il Paese, in un quadro di radicalizzazione della società».
Alla base di questa grave decisione c’è una valutazione estremamente negativa della transizione in Egitto. Siamo all’Inverno islamista?
«Questo sembra essere l’intenzione dei Fratelli Musulmani. Una linea perseguita con determinazione assoluta, nonostante la disponibilità al dialogo che le forze di opposizione hanno più volte manifestato. Il quadro è oggettivamente inquietante: una transizione assurda, segnata dalla mancanza di sicurezza, da un Parlamento e un presidente che non conoscono il loro mandato, da processi militari che continuano e a da una informazione ufficiale supina. A ciò va aggiunta la bancarotta sociale di un potere che aveva promesso giustizia, lavoro, un futuro per i giovani. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il fallimento è totale».
Domani (oggi per chi legge, ndr) sarà al Cairo il neo segretario di Stato Usa, John Kerry. Lei, come peraltro gli altri due leader del Fronte, Hamdin Sabahi e Amr Moussa, ha annunciato di non volerlo incontrare. Una decisione grave.
«Ne siamo consapevoli e, mi creda, non è stata presa alla leggera. Ma dovevamo lanciare un messaggio chiaro al presidente Obama».
E qual è questo messaggio?
«Gli Stati Uniti chiedono all’opposizione di partecipare alle prossime elezioni, senza prendere in considerazione che così come si configurano, queste elezioni sono una farsa. Il presidente Obama non può chiederci, in nome di una falsa stabilità, di avallare un atto di disonestà. Invece di chiedere all’opposizione di chiudere gli occhi di fronte alla realtà, gli Stati Uniti dovrebbero chiedere conto a Morsi delle continue forzature operate, a partire da una Costituzione che invece di unire la nazione l’ha divisa. Lo ripeto: non parteciperemo ad un inganno. Mi lasci aggiungere che, per quanto mi riguarda, si tratta di un atto di coerenza con il mio passato».
A cosa si riferisce?
«Alle elezioni parlamentari del 2010, quando al potere c’era ancora Hosni Mubarak, avevo rivolto un appello agli egiziani perché disertassero le urne al fine di smascherare una democrazia finta. Ora le cose si ripetono. Anche se con protagonisti diversi, l’obiettivo è lo stesso: usare il voto per costruire un regime. Il modo in cui i Fratelli Musulmani gestiscono il bene pubblico si scontra con i tentativi del popolo di trasformare l’Egitto in uno Stato di diritto». Qual è, in questa chiave, il vulnus più grave di questa tormentata transizione? «La Costituzione. Perché la Costituzione è la legge fondamentale, quella che dà l’impronta ad un Paese, e i suoi dettami non possono compromettere la libertà umana, la dignità e l’uguaglianza. In tempi non sospetti, nel vivo della rivolta di Piazza Tahrir lanciai un appello a tutte le forze dell’allora opposizione, e dunque anche ai Fratelli musulmani, perché si costruisse insieme un sistema di regole condivise, una “road map” democratica. Così non è stato. Ma non per questo mi arrendo. Diritti civili e giustizia sociale, restano i pilastri di una battaglia che ha come posta in gioco il futuro dell’Egitto. Un futuro di libertà».

La Stampa TuttoLibri 2.3.13
Dagli anni 50 alle Primavere
Maghreb, culla del male arabo
Cercando le radici dell’oggi: tra la promessa del paradiso islamista e il tradimento delle élites
di Domenico Quirico


Caterina Roggero «L’Algeria e il Maghreb» Mimesis pp.173 , € 16

Cinquant’anni fa come ora, nel Maghreb, appena dall’altra parte del mare: l’aria del mondo trasportava le molecole della rivolta, leggere come il polline e dure come il piombo, e quei semi cadevano nei solchi o sulle teste, davano alle cose aria di primavera o di battaglia, producevano egualmente, e santamente, fiori e proiettili. Rivoluzioni, sì, primavere. Il 2011 arabo continua, non è morto, come i suoi nemici si affannano a sbraitare: per convincersi che non ne hanno paura; si nutre del sangue dei settantamila martiri siriani, degli apostoli egiziani e tunisini che non si rassegnano al termidoro dei Fratelli e delle loro riverite clientele, scruta, e non è solo speranza, i palpiti dell’Algeria che liquidata una petro-dittatura decrepita, corrotta e sanguinaria, prestò verrà ad unirsi. Mezzo secolo fa, in Egitto, in Tunisia, in Algeria, in Libia fu l’Avvento, nascevano illusioni stupende e necessarie.
Era la stagione dei nazionalismi, che aveva tutti i difetti dell’epoca, la stagione dei Padri: Nasser che ammaliava le folle come un profeta, a cui si intitolavano i figli; Bourguiba, parvenu vivacissimo di una borghesia tinta di un po’ di cultura con le sue cavalcate scenografiche per chiedere, lui il primo, conto alla Francia colonizzatrice ed ipocrita; Ben Bella che scuoteva con il suo sorriso da star i sonni dei pied noir, in mezzo a un odio denso come una nebbia; il marocchino Ben Barka, il seminatore di zizzania, la bestia nera che faceva suonare nella casbah di Fez la Marsigliese per far rabbia alle pattuglie della Legione straniera.
Ai popoli arabi piace molto la parola speranza. In realtà questa speranza è qualcosa come il cielo promesso, una promessa di pagamento la cui esecuzione viene sempre rinviata. Per il prossimo anno o per il prossimo secolo. Quando si produssero le rivoluzioni nazionaliste milioni di arabi ebbero un brusco risveglio, non credevano alle proprie orecchie, questo non c’era nei libri di un mondo che è vissuto disperatamente pensando alla speranza e guardando poi in faccia miseria e umiliazione. Ed ecco ad un tratto Nasser, Buorguiba, Ben Bella, Ben Barka che prima nessuno conosceva, afferrano la speranza per i piedi e le impediscono di andar via, umiliando a loro volta gli onnipotenti colonialisti francesi e britannici. C’erano molto metallo falso
nell’oro di quella stagione, e tradimenti: gli eroi che facevano la rivoluzione come fosse un lavoro, divennero satrapi convertiti alle verità esclusive del partito unico, raiss e padroni, il mal arabo si diffuse nel Maghreb come una epidemia. Le rivolte della nuova Primavera hanno cercato di porvi rimedio.
A dispetto dell’aver sorpreso cancellerie e analisti, (o forse per questo, bisogna correr ai ripari) la Primavera araba ha riempito di libri gli scaffali: la maggior parte inutili, superficiali, mediocri: minutaglia da facebook, a cui si è sveltamente e erroneamente attribuito il ruolo di motore delle rivoluzioni. Ora è venuto il momento della riflessione, dell’approfondimento. Caterina Roggero, cui si deve già una densa storia del Nordafrica contemporaneo, ha appena pubblicato un testo di questa nuova provvidenziale stagione: L’Algeria e il Maghreb fitto di immersioni negli archivi, nei documenti, di paralleli e di confronti. Apparentemente parla di tempi lontani, gli anni cinquanta, e del progetto, per di più abortito, di una unione sahariana tra Tunisia e Marocco, già indipendenti e l’Algeria ancora nel pieno di una rivolta, a cui i vicini fornivano basi e sostegno logistico contro la Francia. Eppure in quelle vicende lontane sono le radici dell’oggi. I popoli del Maghreb sono rimasti stritolati nella tenaglia: da un lato la promessa di un paradiso imposto, avvolto in doverose nuvole di incenso, quello islamista, dall’altro il tradimento delle élites, socialiste o liberali, convertite alla mala pianta del politicantismo e della roba. Ragnatele più dure dei ferri delle macchine. Eppure c’è gente che crede in un cambiamento, che ha fiorito il cambiamento. La primavera è inesorabile.
"Un testo fatto di documenti che ricostruisce e indaga vecchie rivoluzioni e moderne derive"

Corriere 2.3.13
Eugenetica in Israele
Controllo delle nascite per le immigrate etiopi
di Davide Frattini


GERUSALEMME — I Bet Israel (Casa d'Israele) hanno sempre pregato di poter «rivedere le colline di Gerusalemme», anche quando vivevano sulle montagne della regione di Gondar. La promessa della Terra Promessa è stata realizzata dalle Operazioni Mosè (1984) e Salomone (1991), quando migliaia di ebrei etiopi vennero imbarcati sugli aerei, portati via dalla carestia e dalla dittatura di Menghistu.
L'immigrazione è continuata, meno massiccia, con un picco tra il 2000 e il 2004. Otto anni fa è arrivata Yityish Titi Aynaw — bambina, orfana — ed è diventata mercoledì la prima Miss Israele nata in Etiopia. Otto anni fa sono arrivate anche le donne che raccontano in un documentario di essere state costrette a lasciarsi iniettare dosi di Depo-Provera, un contraccettivo a lungo termine. Trentacinque di loro parlano davanti alla videocamera di Sebba Reuven e ricordano le pressioni esercitate dai medici nei campi di transito in Africa: «Ci ripetevano "non potete avere troppi bambini", dicevano che sarebbe stato difficile per noi mantenerli in Israele. Così abbiamo accettato la puntura, non avremmo voluto, abbiamo protestato». L'inchiesta trasmessa dal canale educativo israeliano calcola che nell'ultimo decennio la natalità nella comunità etiope sia crollata del 50 per cento.
Yaakov Litzman, viceministro della Sanità, prima ha smentito la pratica, adesso ha istituito una commissione per indagare le denunce, dopo le pressioni di Pnina Tamamu-Shata, avvocato e la prima donna etiope a entrare alla Knesset: è stata eletta a fine gennaio con il partito di Yair Lapid. «Un'intera comunità vuole sapere se i bambini etiopi non sono benvenuti in questo Paese — commenta la neoparlamentare — e se i funzionari hanno sfruttato sistematicamente la fragilità delle donne in attesa di immigrare». Da attivista Tamamu-Shata ha già guidato le proteste dei falasha, quando nel 2006 è stato rivelato che le sacche di sangue donato dagli africani venivano gettate via per paura che fossero contaminate con il virus dell'Hiv.
Le iniezioni del contraccettivo sarebbero andate avanti (vanno ripetute ogni novanta giorni) fino a un mese fa e sono state fermate dopo la messa in onda del documentario. Il direttore generale del ministero ha ordinato ai medici delle organizzazioni pubbliche di «non rinnovare le ricette senza prima essersi assicurati, anche con l'aiuto dei traduttori, che le donne comprendano le implicazioni e le controindicazioni del farmaco».

Corriere 2.3.13
La banda degli opposti estremismi
Il «comunista combattente» con il «nero»
di Fabrizio Caccia


ROMA — «Non conta più la provenienza ideologica, oggi è la capacità criminale che fa da aggregante, il cemento diventa la professionalità nell'illecito, l'esperienza conquistata sul campo...». Parole di Franco Ionta, procuratore aggiunto della Capitale, una vita a indagare sul terrorismo e poi gli ultimi tre anni passati al Dap, il Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria. Parole adesso utili a spiegare l'incredibile complicità e convivenza di Giorgio Frau e Claudio Corradetti, l'assurda «batteria» del Rosso e il Nero, ieri nella rapina di via Carlo Alberto. Il carcere che affratella la stella a cinque punte e il dente di lupo, l'Unione comunisti combattenti e i naziskin di via Domodossola del Movimento politico occidentale, due mondi lontanissimi, ormai sono preistoria, i «compagni che sbagliano» e gli «skin-head» dello stadio Olimpico con i giubbotti da aviatore, le mazze chiodate e i capelli tagliati a zero. Una vita fa.
«Mi sono svegliato da poco da un lungo letargo e sto cercando di fare pace con il mondo... ma forse non ci avevo nemmeno litigato», sono le frasi tratte dal diario di Giorgio Frau, 56 anni, diario zeppo di foto in bianco e nero e slogan antichi («Democrazia è il fucile in spalla agli operai», «È la lotta e non il voto che decide», «El mundo cambia con tu ejemplo no con tu opiniòn»...). Ex terrorista delle Br-Ucc, l'ala scissionista delle Br, cioè i responsabili dell'agguato mortale al generale Licio Giorgieri, il 20 marzo dell'87. Nell'88 Frau fu arrestato per la prima volta in Spagna dopo una rapina a Barcellona: rapina per l'autofinanziamento, probabilmente. «Quando l'interrogammo non volle collaborare né dissociarsi», ricordava ieri il giudice Rosario Priore. Ma quando poi finì la lotta armata, l'autofinanziamento divenne solo individuale.
C'è un libro, lo ha scritto per Derive Approdi il professor Emilio Quadrelli, ricercatore al Dipartimento di Scienze Antropologiche dell'Università di Genova, s'intitola: «Andare ai resti». Il sottotitolo è «Banditi, rapinatori, guerriglieri», perché molto spesso è successo in Italia che le strade si siano incontrate, incrociate. Anche oggi, anche ieri, in via Carlo Alberto, davanti al furgone portavalori dell'Esquilino. Nel gergo pokeristico, «andare ai resti» significa giocarsi tutto: è la via senza ritorno, la scelta finale, «quando la sconfitta politica — spiega Quadrelli — diventa soprattutto sconfitta esistenziale e l'ultimo richiamo possibile, per i non ortodossi, è quello alla Banda Bonnot...». Già, la banda Bonnot. Ma il riferimento in questo caso appare fin troppo sofisticato, erudito: cosa c'entrano mai Frau e Corradetti (detto «il Drago», un tempo ultrà romanista di «Opposta Fazione») con gli illegalisti-anarchici francesi che all'inizio del Novecento assaltavano le banche di Parigi? La risposta è niente.
L'ideologia non conta più, diceva all'inizio il pm Ionta. A far da collante ormai, per rossi e neri di un tempo, è il portafogli. «Ho agito per motivi personali, avevo bisogno di soldi. Non avevo intenzione di far male a nessuno, né in banca né fuori», così disse l'ex brigatista Cristoforo Piancone, il primo ottobre 2007, quando l'arrestarono gli agenti dopo la rapina andata male al Monte dei Paschi di via Banchi di Sopra, a Siena. Un mese prima dell'acquisto di Antonveneta...
«Cosa potevamo fare noi, oltre le rapine? Fuori dal carcere abbiamo trovato solo porte chiuse...», provò a giustificarsi il nappista Giorgio Panizzari, graziato nel 1998 dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, beccato due anni dopo di nuovo dentro a una banca. Anche Panizzari, come Frau, nel '94 creò una «batteria» con gente che durante gli anni di piombo aveva militato nel campo avverso, come Luigi Aronica, ex Nar, Nuclei di azione rivoluzionaria.
Corradetti, arrestato ieri insieme al terzo complice, Massimo Nicoletti, 34 anni, era in semilibertà e neanche lo sapeva: usufruiva già regolarmente di permessi premio per buona condotta dal 2011, ma al rientro in prigione a Sulmona, il 4 marzo, avrebbe trovato la definitiva scarcerazione grazie a un provvedimento del Tribunale di Sorveglianza dell'Aquila, che gli aveva concesso il via libera per poter lavorare in una cooperativa di giardinaggio, a Roma. Era in carcere dal 2009, il fine pena previsto tra cinque anni. Il Drago e la buona condotta, invece, sarebbero quasi un ossimoro: il suo battesimo criminale ci fu nel '93, a Rimini, dove si trovava in vacanza. Lui all'epoca aveva solo 21 anni e insieme a cinque suoi amici naziskin spaccò una gamba a un ragazzo di sinistra. Con Frau, invece, l'intesa doveva essere ottima. Così come con decine di ultrà laziali, insieme ai quali il Drago negli ultimi anni ha messo a segno una sfilza di rapine ai danni di banche, furgoni e gioiellerie. Sempre con lo stesso copione.
Dieci anni fa, in casa di Giorgio Frau, i carabinieri trovarono un vero e proprio arsenale: un mitra Ak 47, sette pistole, ricetrasmittenti, una paletta della polizia e due divise di postini. Tra le armi anche pistole calibro 9 corto: «Indagammo per vedere se avessero avuto un ruolo negli omicidi di D'Antona e Biagi ma l'esito fu negativo», ricorda Franco Ionta. Per questa vicenda il bandito ucciso ieri fu condannato a quattro anni e otto mesi. Una vita violenta finita nel sangue. Una storia amara per tutti. Il rosso e il nero affratellati dall'unico sogno ancora possibile: un bottino facile.

il Fatto 2.3.13
E anche il boss scoprì lo psicanalista
di el. am.


Se nella fiction di casa nostra gli eroi fanno a gara a tra chi è più buono, siapure con qualc e eccezione (la più clamorosa, che non ha mancato di suscitare polemiche è Romanzo criminale, tratta dal romanzo di Giancarlo De Cataldo), oggi sono soprattutto le serie televisive made in Usa a rendere ultrapopolari mafiosi e assassini: da Tony Soprano e la sua famiglia ai protagonisti di Romanzo Criminale fino a Dexter, dove il protagonista è un serial killer che uccide solo criminali sfuggiti alla giustizia. Ma anche il grande schermo ha sempre celebrato azioni, e ragioni, dei criminali, ad esempio nei film che raccontano come un’infanzia devastata renda la vendetta comprensibile e quasi legittima (partendo da Il giustiziere della notte fino a Sleepers). E poi naturalmente ci sono i romanzi: dai detenuti di Edward Bunker, lo scrittore amato da Quentin Tarantino (Come una bestia feroce, Little Boy Blue, Cane mangia cane), all’inquietante nazista che si confessa nelle Benevole di Jonathan Littel (Einaudi). Per non dimenticare fumetti e manga, da Lupin III a Diabolik. Tutti sotto il segno dell’archetipo: Robin Hood, ovviamente.

il Fatto 2.3.13
Mitologie
Zeitgeist, il complotto è servito
di Stefano Caselli


IL WEB DOCUMENTARIO CITATO SUL “CORRIERE” DA UN GIOVANE DEPUTATO DEL M5S: LA STORIA? UN’ETERNA COSPIRAZIONE DI POCHI AI DANNI DI TUTTI

Dovrò studiare bene la Costituzione. La politica l’ho scoperta con il documentario Zeitgeist. È il più visto della rete, parla di quello cui non si scrive mai”. Parola di Paolo Bernini (riportate dal Corriere della Sera), bolognese di 25 anni, una delle 163 facce pulite e inesperte prossime alla calata su Roma sotto l’egida delle Cinque Stelle di Beppe Grillo. Non è dato sapere quanti tra i colleghi del Bernini abbiano avuto la stessa scuola di formazione politica, tuttavia il lungometraggio Zeitgeist (“Il pensiero dominante di un’epoca”, film web prodotto nel 2007 dall’americano Peter Joseph, cui hanno fatto seguito Zeitgeist Addendum e Zeitgeist Moving Forward) è abbastanza indicativo di un certo approccio alla complessità del reale non certo estraneo a una parte della galassia grillina.
Il senso ultimo dell’intera filosofia Zeitgeist è piuttosto semplice: non ce l’hanno mai raccontata giusta, fin dall’alba dei tempi. E tutto quello che sappiamo è falso. L’intera storia del mondo, poi, è un gigantesco e perpetuo complotto ai danni di molti a opera di pochissimi. Il bello è che l’intera storia si può agevolmente condensare in 120 minuti su Youtube alla fine dei quali si viene ammoniti che “il pensiero dominante di un’epoca è stato diffuso in modo fraudolento e continuo attraverso religione, mass media e sistema educativo per tener[vi] in una bolla di distrazione. E ci stanno riuscendo maledettamente bene”.
Tutto l’inganno ha origine dalla “cima del sudiciume” rappresentata dalle “istituzioni religiose”, create ad arte dal potere a fini di controllo sociale. Così veniamo a sapere che Gesù (come molte altre divinità sparse per il mondo) altro non è che un maldestro plagio della divinità egizia Horus, anch’egli nato il 25 dicembre, concepito da una vergine, morto e risorto dopo tre giorni. Che tutta la Bibbia altro non è che un maldestro ricicciamento delle conoscenze astronomiche di antiche civiltà adoratrici del dio Sole.
Raccontato il “mito di Gesù” non è il caso di perder tempo: si va dritti all’11 settembre: l’attacco al World Trade Center e al Pentagono del 2001 è – ovviamente – una gigantesca bufala mediatica ordita dall’Amministrazione Bush per giustificare la guerra al terrorismo. Venti minuti di montaggio per dimostrare che le Torri Gemelle sono collassate perché qualcuno aveva prima collocato cariche di esplosivo sulle colonne portanti fatte poi esplodere contemporaneamente poco dopo l’impatto degli aerei. E c’è di più: sei dei sedicenti attentatori sarebbero ancora vivi.
PASSATO il capitolo 11 settembre, è l’ora dei veri cattivi: i “banchieri internazionali”, una ristrettissima masnada di perfide sanguisughe in grado di organizzare a tavolino le più gravi sciagure dell’umanità.
Tutto è stato organizzato da non più di dieci, massimo venti persone, i JP Morgan, i Rockefeller eccetera fino al nonno di George W Bush: l’istituzione della Federal Reserve (il cui obiettivo è “la schiavitù”), l’invenzione delle imposte sul reddito, la Prima guerra mondiale, la Grande crisi del 1929, l’ascesa del nazismo, la Seconda guerra mondiale, la guerra del Vietnam e così via fino all’11 settembre 2001. Tutto per ingrassare i soliti dieci, venti “banchieri internazionali”, persone “dietro ai governi” che “stanno guidando le vostre vite”.
La storia del mondo è presto fatta. Pazienza se il racconto sia infarcito di citazioni senza fonte, di errori storici, di ispiratori sconfessati da università di mezzo mondo, di particolari smontati da inchieste giornalistiche di prestigiose testate. L’impressione è che tutto possa sempre e comodamente essere liquidato alla voce “complotto” di non si sa chi ai danni di chi – sempre e comunque – non ci crede.

Repubblica 2.3.13
La storia siamo noi
Come l’umanità è arrivata a essere quello che è?
Ecco il contributo delle scienze per comprendere uno sviluppo troppo spesso lasciato al sapere umanistico
Perché cooperare fa bene alla specie
di Edward O. Wilson

Comprendere l’umanità è un compito troppo importante e gravoso per lasciarlo alle scienze umanistiche. Le molte discipline di questa grande corrente del sapere, dalla filosofia al diritto, alla storia e alle arti creative, hanno descritto le particolarità della natura umana con genialità e straordinaria minuziosità, avanti e indietro in trasmutazioni infinite. Ma non hanno spiegato perché abbiamo questa natura qui e non qualcun’altra fra una quantità sterminata di possibilità immaginabili. Sotto questo profilo, le scienze umanistiche non consentono una comprensione piena dell’esistenza della nostra specie.
Dunque, che cosa siamo noi? La risposta a questo grande enigma sta nelle circostanze e nel processo che hanno dato vita alla nostra specie. La condizione umana è un prodotto della storia, e non parlo non soltanto dei seimila anni di civilizzazione, ma di un arco molto più ampio, che risale a centinaia di migliaia di anni addietro. Per dare una risposta a questo mistero bisogna esplorare l’evoluzione nel suo insieme, come un tutto unico e inscindibile, tanto negli aspetti biologici quanto in quelli culturali. E in questo modo la storia umana, vista in tutte le sue sfaccettature, diventa a sua volta la chiave per capire come e perché la nostra specie è sopravvissuta.
Una maggioranza di persone preferisce interpretare la storia come il dispiegarsi di un disegno soprannaturale, al cui autore è dovuta ubbidienza. Ma questa interpretazione rassicurante diventa sempre meno sostenibile man mano che si espande la conoscenza del mondo reale. In particolare, la conoscenza scientifica (misurata in base al numero di scienziati e riviste scientifiche) da oltre un secolo raddoppia di dimensioni a intervalli di dieci vent’anni. Nelle spiegazioni tradizionali del passato, le storie religiose sulla creazione si mescolavano alle discipline umanistiche per attribuire significato all’esistenza della nostra specie. È tempo di ragionare su quello che possono offrirsi reciprocamente il campo scientifico e quello umanistico, nella ricerca comune di una risposta più fondata e convincente al grande enigma.
Per cominciare, i biologi hanno scoperto che l’origine biologica del comportamento sociale avanzato negli esseri umani è simile a quella riscontrata in altre parti del regno animale. Usando studi comparati condotti su migliaia di specie animali, dagli insetti ai mammiferi, sono giunti alla conclusione che le società più complesse sono emerse attraverso l’eusocialità (la «vera» condizione sociale, parlando in senso generale). I membri di un gruppo eusociale allevano collettivamente le giovani generazioni. Inoltre, applicano un sistema di divisione del lavoro tramite la rinuncia — quantomeno parziale — alla riproduzione personale da parte di alcuni membri, allo scopo di incrementare il «successo riproduttivo» (riproduzione nel corso della vita) di altri membri.
L’eusocialità è un fenomeno particolare sotto due punti di vista. Innanzitutto va rimarcata la sua estrema rarità: su centinaia di migliaia di linee evolutive di specie animali terrestri nel corso degli ultimi 400 milioni di anni, si è venuto a creare un sistema del genere, per quello che siamo in grado di appurare, solo in due dozzine di casi. A questo aggiungiamo che le specie eusociali conosciute si sono affermate molto tardi, nella storia della vita sulla Terra. Una volta diventato prassi, il comportamento sociale avanzato di livello eusociale si è rivelato uno straordinario successo ecologico. Soltanto due fra le due dozzine di linee evolutive indipendenti, cioè le formiche e le termiti, bastano a dominare il mondo degli invertebrati terrestri. Nonostante contino meno di ventimila specie (sul milione di specie di insetti viventi conosciuti), formiche e termiti rappresentano della metà del peso corporeo complessivo di tutti gli insetti del pianeta.
La storia dell’eusocialità solleva un interrogativo: dato l’enorme vantaggio che assicura, perché questa forma avanzata di comportamento sociale è così rara ed è comparsa così tardi? La risposta sembra data dalla sequenza specifica di cambiamenti evolutivi preliminari propedeutici al passaggio finale all’eusocialità. In tutte le specie eusociali analizzate fino a oggi, il passaggio finale è la costruzione di un nido protetto, da cui partono le spedizioni di foraggiamento e dove gli individui giovani vengono allevati fino al raggiungimento della maturità. A costruire originariamente il nido può essere una femmina solitaria, una coppia di individui o un gruppo piccolo e scarsamente organizzato. Una volta realizzato questo passaggio preliminare, per creare una colonia eusociale è sufficiente che i genitori e la prole rimangano nel nido e collaborino all’allevamento di altre generazioni di giovani. Questi assemblaggi primitivi poi si suddividono facilmente in «foraggeri», inclini al rischio, e in genitori e nutrici, avversi al rischio.
Che cos’è che ha consentito a un’unica linea evolutiva di primati di raggiungere il livello raro dell’eusocialità? Le circostanze sono state banali, stando alle scoperte dei paleontologi. In Africa, circa due milioni di anni fa, una specie del genere australopiteco, prevalentemente vegetariano, modificò la sua alimentazione incrementando il consumo di carne. Per procurarsi questa fonte di cibo altamente energetica e dispersa sul territorio, non era molto conveniente andarsene in giro in branchi poco organizzati di individui adulti e giovani. Era più efficiente occupare un accampamento (il nido, appunto) e da lì spedire in giro cacciatori in grado di riportare indietro (uccidendola o raccogliendola) carne da dividere con gli altri. In cambio, i cacciatori ricevevano la protezione dell’accampamento, dove la loro prole veniva tenuta al sicuro insieme agli altri.
Da studi condotti su esseri umani moderni, incluse popolazioni di cacciatori-raccoglitori, la cui vita ci dice molto sulle origini della razza umana, gli psicologi sociali hanno dedotto la crescita mentale innescata dalla caccia e dagli accampamenti. Le relazioni personali fra i membri del gruppo, calibrate al tempo stesso sulla competizione e la collaborazione, hanno acquisito un ruolo predominante. Il processo è stato incessantemente dinamico e difficoltoso, superando largamente in intensità qualunque esperienza analoga dei branchi itineranti e scarsamente organizzati prevalenti nella maggior parte delle società animali. Serviva una memoria efficiente per valutare le intenzioni degli altri membri del gruppo, prevedere le loro reazioni di volta in volta: e il risultato è stato la capacità di inventare e simulare internamente scenari conflittuali di interazioni future.
L’intelligenza sociale dei preumani ancorati all’accampamento si è evoluta come una sorta di partita a scacchi senza fine. Oggi, al capolinea di questo processo evolutivo, siamo in grado di attivare con scioltezza i nostri banchi di memoria su passato, presente e futuro. Questi banchi di memoria ci consentono valutare le prospettive e le conseguenze di alleanze, legami, contatti sessuali, rivalità, rapporti di predominio, raggiri, fedeltà e tradimenti. Traiamo un piacere istintivo dal racconto di innumerevoli storie sugli altri in quanto attori nel nostro palcoscenico interno. Tutto questo trova espressione nelle arti creative, nella teoria politica e in altre attività di alto livello che definiamo come scienze umanistiche.
Gli aspetti principali dell’origine biologica della nostra specie cominciano a essere messi a fuoco, e con essi le possibilità di un contatto più fruttuoso fra discipline scientifiche e umanistiche. La convergenza fra queste due grandi branche del sapere assumerà un’importanza enorme quando un numero sufficiente di persone ci avrà ragionato su. Dal versante scientifico, le neuroscienze, la biologia evolutiva e la paleontologia verranno viste in un’ottica differente. Agli studenti verrà insegnata anche la preistoria oltre che la storia convenzionale, il tutto presentato come la più grande epopea del mondo vivente.
E sono convinto che guarderemo con maggior serietà anche al nostro posto nella natura. Perché ci siamo esaltati, siamo assurti al ruolo di mente della biosfera, con lo spirito capace di sgomento e balzi di immaginazione sempre più sbalorditivi. Ma continuiamo a essere parte della fauna e flora terrestri: vi siamo legati dall’emozione, dalla psicologia e, non ultimo, da una storia radicata. È pericoloso pensare a questo pianeta come a una stazione intermedia verso un mondo migliore, o continuare a convertirlo in un’astronave programmata dall’uomo. Contrariamente all’opinione generale, non ci sono demoni e dei che si contendono la nostra devozione. Siamo frutto del nostro operato, siamo indipendenti, soli e fragili. Capire noi stessi è la chiave per sopravvivere nel lungo periodo, per gli individui e per le specie.
(Traduzione di Fabio Galimberti) © The New York Times

Uno dei più importanti biologi contemporanei. Professore emerito a Harvard, è un esperto di insetti ed è considerato il fondatore della sociobiologia. È appena uscito in Italia il suo libro La conquista sociale della terra, Raffaello Cortina, pagg. 356, euro 26

Repubblica 2.3.13
Quei topolini telepatici che ci insegneranno a leggere nel pensiero
Sperimentato il primo “ponte” tra cervelli
di Elena Dusi


PUÒ essere usato in amore o in guerra. Può raddoppiare la nostra forza o incatenarci come schiavi. Il primo ponte fra i cervelli di due esseri viventi è stato sperimentato con successo. Per il momento unisce una coppia di topolini: uno si trova in Brasile, l’altro negli Stati Uniti. Tra i due non esiste comunicazione, se non gli impulsi elettrici del cervello registrati e trasmessi via Internet. Quando la coppia riesce a muoversi all’unisono, entrambi ricevono un premio.
Anche se le applicazioni del “ponte fra i cervelli” non sono dietro l’angolo, il Pentagono ha puntato sull’esperimento della Duke University pubblicato da Nature finanziandolo con 26 milioni di dollari. La telepatia fra i topolini è stata realizzata grazie ai progressi nella nostra capacità di captare e decodificare il “linguaggio del cervello”. L’organo del pensiero funziona grazie a segnali elettrici fra i neuroni. Il movimento di un topolino che preme una leva con la zampa corrisponde a una serie precisa di scariche elettriche nella regione superficiale della corteccia motoria.
Degli elettrodi cento volte più sottili di un capello sono stati inseriti all’interno del cranio dei topolini (e già questo rende le applicazioni sull’uomo problematiche). Il primo dei roditori si trova in Brasile, nell’Istituto di Neuroscienze a Natal. Quando spinge la leva giusta, collegata a una piccola ricompensa, i suoi segnali cerebrali vengono registrati e spediti via Internet a Durham, nella Carolina del Nord, dove si trovano i ricercatori della Duke University. E dove, soprattutto, il partner del topolino brasiliano, con gli stessi elettrodi inseriti nel cervello, sta aspettando indicazioni sul da farsi.
Gli impulsi registrati nel cervello del topolino brasiliano in pochi secondi raggiungono il cervello del suo partner negli Usa. Il topolino americano li comprende e spinge la leva giusta, facendo sì che entrambi ricevano un premio. Per raggiungere un affiatamento soddisfacente (7 successi su 10 tentativi) sono serviti alcuni mesi di prove. A volte i segnali elettrici del topolino brasiliano erano troppo deboli, annegati tra chissà quali distrazioni murine. Se il partner negli Usa sbagliava leva, nessuno dei due veniva premiato e nel tentativo seguente il topolino distratto si concentrava di più. «Il segnale successivo era più pulito e facile da decodificare » conferma Miguel Nicolelis, lo scienziato della Duke che ha guidato l’esperimento.
«Quello che abbiamo realizzato - spiega il ricercatore - è una rete di cervelli che collaborano per raggiungere un obiettivo comune. In questo caso il compito è ab-
bastanza semplice. Ma potremmo in futuro allargare la rete a più individui e sfruttare la cooperazione di più cervelli per risolvere problemi molto più complicati». L’ennesima profezia di cinema e fantascienza, a partire da Star Trek, ha trovato compimento. La “lettura del pensiero” ha già le prime applicazioni nell’aiutare le persone paralizzate e muovere sedie a rotelle o arti robotici. Attualmente i ricercatori riescono a captare i segnali di circa 2mila neuroni insieme. Nei prossimi 5 anni contano di arrivare a 20-30mila. Che serva a un amato per confondersi col suo amante o a un generale per mettere in rete il suo esercito, le applicazioni resteranno comunque inquietanti.