sabato 21 marzo 2015

il Fatto 21.3.15
A chi si inchina la Madonna
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, ho appreso che a Oppido Mamertina – dove una processione della Madonna aveva fatto inchinare la statua davanti alla casa di un boss della ‘ndrangheta – le processioni, che erano state proibite, hanno di nuovo il permesso del vescovo, ma alla condizione che “i portatori delle statue siano scelti tra fedeli di provata testimonianza cristiana”. Garanzia sufficiente?
Milena

CAPISCO come è nata questa decisione, e perché probabilmente ogni resistenza del vescovo, che ha tenuto duro per un anno, ha dovuto cedere all'intensa pressione dei fedeli. Però, quali fedeli? Il vescovo specifica che i portatori della Madonna “devono essere scelti tra fedeli di provata testimonianza cristiana”. Questa frase copre due vuoti su fatti ben conosciuti da chiunque abbia prestato attenzione, anche solo sociologica o giornalistica, al fenomeno della Madonna che si inchina al mafioso. Il primo vuoto è non sapere che un buon frequentatore della ‘ndrangheta è sempre “un fedele di provata testimonianza cristiana”. In un suo modo particolare, si potrebbe dire. Però è sempre un fedele ben conosciuto a causa del modo vistoso, pubblico, notato e riconosciuto da tutti, al punto da rendere difficile un rifiuto per l'anello più debole della catena decisionale, il parroco. Se il vescovo di Oppido Mamertina-Palmi, è nella sua sede da più di due settimane, è per forza al corrente del rapporto tra fede ostentata e malavita. Del resto si tratta di un espediente ampiamente utilizzato anche per altre carriere, dalla politica al posto di primario in un buon ospedale. Ma il secondo vuoto è più clamoroso. Può il vescovo non sapere che i portatori di queste processioni non si scelgono perché sono membri a vita di confraternite che vengono considerate un grande privilegio, ma a cui non si accede per una vampata di fede, ma attraverso certi contatti e legami, prove e prestazioni? Tradizionalmente la forza di queste confraternite è grande, sostenuta dal “popolo” (si chiamano così quelli che scelgono non tanto di credere in Dio quanto di vivere in pace e di assecondare certi pii desideri), difficile da richiamare all'ordine per il vescovo, impossibile per il parroco, a meno che non sia don Puglisi in persona. Dunque la confraternita deciderà chi porta la Madonna. E chi porta la Madonna saprà con esattezza, o gli sarà comunicato con chiarezza (per esempio facendo trovare un disabile o un anziano in sedia a rotelle proprio davanti a un certo luogo) dove si inchinerà la Madonna. Nelle ultime occasioni, che hanno fatto il giro del mondo, solo i carabinieri, non i preti, hanno abbandonato la processione al momento di certi inchini. Se fossi direttore di Tg mentre non c’è ancora il capo unico che Renzi sta per installare in Rai a nome del popolo italiano (e dell’Europa che ce lo chiede), manderei operatore.

Corriere 21.3.15
Due pesi due misure un leader
di Antonio Polito


M aurizio Lupi, ministro della Repubblica, non indagato, dimesso. Vincenzo De Luca, candidato governatore della Campania, condannato in primo grado per abuso di ufficio, non dimesso. Francesca Barracciu, indagata, candidata governatore della Sardegna, dimessa; poi promossa sottosegretario (insieme ad altri tre sottosegretari indagati, sulla cui posizione pare che il premier stia ora riflettendo). Nunzia De Girolamo, ministro, all’epoca non indagata, dimessa.
Ce n’è abbastanza per chiedersi se esista un nuovo codice non scritto per il trattamento dei politici che finiscono negli scandali, e chi l’abbia scritto. Di certo quello vecchio è caduto in disuso. All’epoca di Tangentopoli bastava un avviso di garanzia per tagliare la testa a un membro del governo. Ma anche dopo, nella Seconda Repubblica, vigeva una prassi che potremmo definire sì «giustizialista», ma regolata. In sostanza consisteva nell’affidare ai pm e ai giudici la selezione della classe dirigente: a ogni provvedimento giurisdizionale seguiva una più o meno adeguata sanzione politica. Prassi poi codificata in legge con la Severino, che fissa nella prima condanna il limite oltre il quale scattano le punizioni, cominciando con la sospensione per finire con la decadenza in caso di sentenza definitiva.
Ma oggi, nell’era Renzi, la Severino è contestata per eccessiva rigidità, e infatti pur condannato De Luca si candida; mentre sembra essersi alzata la soglia di tolleranza per i non indagati.
La spiegazione potrebbe essere nello strapotere del premier: in realtà si dimette solo chi decide lui. E qualcuno perciò lo accusa di colpire di preferenza gli scandali degli altri, e di coprire quelli più vicini a lui; un classico caso di due pesi e due misure. Ma neanche questo sembra essere del tutto vero, perché fu Renzi a far dimettere il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, democratico, indagato, che non ne aveva alcuna voglia. Qual è allora il nuovo criterio?
Io credo che sia l’umore dell’opinione pubblica, di cui Renzi si considera un buon medium. Nel senso che il premier usa come metro morale il suo gradimento politico: se una condanna può essere perdonata dagli elettori (nel caso di De Luca, per esempio, parrebbe di sì, visto che ha vinto le primarie) lui lascia perdere, se capisce che può arrecargli un danno serio nel suo rapporto con l’opinione pubblica, come nel caso di Lupi, diventa inflessibile.
È un metodo a suo modo politico, certo più di quello giustizialista che non si può davvero rimpiangere; ma senza regole, e molto arbitrario. Soprattutto perché dipende da circostanze e dettagli casuali, spesso senza rilevanza penale, che possono molto influenzare l’opinione pubblica se sono mediaticamente efficaci. Un Rolex in regalo, per esempio, un abito di sartoria in offerta, un modo di parlare sgradevole o volgare al telefono, valgono mille condanne penali nel tribunale del popolo e dei media. E non è certo una novità. Berlusconi ha pagato molto di più in termini di consenso e di credibilità per il caso Ruby, nel quale è stato assolto, che nel processo per frode fiscale in cui è stato condannato.
È un processo tipico delle società di massa, ma pieno di incognite. Se infatti un’intercettazione è più importante di una sentenza, e diventa decisivo se farla conoscere o no, per riassunto o testuale, e il momento dell’inchiesta in cui la si rende pubblica, allora rischiamo che la lotta politica condizioni il corso della giustizia, invece che la giustizia influenzi la politica come avveniva vent’anni fa. Un giustizialismo alla rovescia, esercitato dalla piazza invece che dal tribunale. Non so se è meglio. Fu una piazza a salvare Barabba e a mandare a morte Gesù.

Repubblica 21.3.15
Il doppio binario del garantismo e le trappole di Palazzo Chigi
Sono almeno quattro gli interrogativi che investono i rapporti di forza nel governo e il futuro del premier
di Stefano Folli


CHIUSA la vicenda Lupi, restano sul tavolo una serie di interrogativi che investono i rapporti di forza nel governo e il futuro prossimo della legislatura. Sono almeno quattro.
Primo. Il discorso di addio in Parlamento del ministro delle Infrastrutture è stato reticente sulle vere ragioni delle dimissioni. Lupi lascia, sia pure «a testa alta», non tanto perché travolto da una «bolla mediatica», quanto per il mancato sostegno del suo partito e del presidente del Consiglio. Il foglio ostentato in favore di telecamere da Alfano («onesto, sincero, concreto») non convince. E i veri sentimenti di Renzi non sono un’invenzione dei «retroscenisti», come si è cercato di accreditare. Al dunque nessuno ha difeso Lupi, salvo rare eccezioni (Nunzia De Girolamo è una). Perché? Le ragioni sono varie, ma di certo Area Popolare (Ncd-Udc) pesava troppo nel governo rispetto alla sua forza elettorale. Voler salvaguardare a tutti i costi un ministero rilevante come le Infrastrutture era una missione quasi impossibile e rischiava di compromettere anche il dicastero dell’Interno di Alfano. Si è tagliato un grosso ramo per salvare l’albero, cioè la vocazione governativa del partito.
Secondo. Ora l’esecutivo rischia di apparire non più una mini-coalizione, bensì un monocolore del Partito Democratico allargato alla sua corrente esterna centrista. A Renzi questa immagine non conviene e infatti il vicesegretario Guerini si sforza di spiegare che nel dopo-Lupi l’Ncd-Udc è chiamato a offrire un importante contributo al programma. Ma è proprio così? In realtà, sul piano dei contenuti i centristi faticano a distinguersi dal renzismo. Inoltre tendono a divaricarsi fra loro. I posti nel governo e in Parlamento sono un mastice a medio termine, ma in prospettiva la nuova legge elettorale, l’Italicum, farà emergere le divisioni interne. Nessuno si stupirebbe se Lupi e altri rientrassero nel centrodestra, magari per rafforzare le correnti moderate che temono di essere schiacciate dalla rincorsa di Berlusconi a Salvini. Viceversa, c’è chi troverà accoglienza nella lista elettorale del Pd, forse con la formula della candidatura «indipendente». C’è il precedente di Scelta Civica che fa scuola e non è un caso. La legge elettorale con premio alla lista vincente trasforma il Pd in una potente calamita.
Terzo. In ogni caso, se parte di Ncd seguirà il destino del raggruppamento di Mario Monti, mescolandosi presto o tardi al «partito di Renzi», questo non accadrà subito ma più avanti nel corso della legislatura, quando le elezioni saranno alle porte. Fino ad allora il presidente del Consiglio pagherà un prezzo ai centristi — il più economico possibile — per tenerli nel governo con un’identità separata dal Pd. I posti offerti saranno proporzionati al ridimensionamento in atto. E le Infrastrutture? Come ormai è chiaro, saranno affidate a una persona di fiducia del premier, probabilmente Delrio. E anche questo sbocco indica una tendenza in atto, un’evoluzione del sistema intorno alla figura del presidente del Consiglio. Saltano le vecchie mediazioni, si afferma il «premierato» con crescente slancio. Sotto questo aspetto il governo è di sicuro più forte dopo l’uscita di Lupi; e lo è nonostante siano saltati i vecchi equilibri di maggioranza.
Quarto. Si fa notare che esiste un doppio binario: intransigenza per Lupi, comprensione per un altro ministro, Poletti, e soprattutto per De Luca, candidato in Campania e condannato in primo grado. La contraddizione esiste e Renzi non può nasconderla più di tanto. Ma non se ne cura troppo in base a un calcolo politico. Il «garantismo»è un principio più o meno accentuato a seconda dei personaggi coinvolti. De Luca ha dimostrato nelle primarie di essere forte e inamovibile; Lupi invece appartiene a un partito indebolito e la stessa «Comunione e Liberazione» oggi è meno potente — anche negli assetti della Chiesa — di quanto non fosse dieci o vent’anni fa. Facile trarre le conclusioni.

Corriere 21.3.15
Le tante norme, i troppi buchi che consentono di farla franca
di Luigi Ferrarella


Fermi tutti perché sono troppo severe, dice delle proposte di legge su corruzione, prescrizione e falso in bilancio chi vede una minaccia alle imprese in qualunque recupero di rigore. Fermi tutti perché quelle norme sono troppo poco severe, protesta al contrario chi mai è sazio di pene draconiane, prescrizioni eterne e intercettazioni indiscriminate. In realtà, se si guarda senza pregiudizio l’attuale versione dei testi al banco di prova dopo due anni di sonno in Parlamento e un anno di annunci a Palazzo Chigi, vi si trova un po’ di tutto. Misure promettenti, a cominciare dall’attenuante premiale per gli imputati che con le proprie informazioni spezzino l’asse corruttore-corrotto. Ma anche furbizie, e i «vorrei ma non posso» frutto di troppi compromessi. Si può alzare quanto si vuole per la corruzione la pena minima-massima da 1-5 anni (com’era fino al 2102) a 4-8 anni (com’è oggi dopo la legge Severino) o a 6-10 anni (come propone ora il governo), e ha senso obbligare chi vuole patteggiare a restituire prima il profitto della tangente: ma ormai tutti hanno compreso che a prosciugare le tangenti attorno ai grandi appalti ben più gioverebbe impedire almeno che i «general contractors» continuino a scegliersi il direttore dei lavori che in teoria dovrebbe controllarne tempi e costi d’esecuzione; o fare ordine in un codice degli appalti di 1.560 commi (più 1.392 del regolamento di attuazione), modificato in 560 punti in 8 anni.
Così come il predicato rispetto delle regole sarebbe più persuasivo se la politica tenesse ad esempio presente, specie dopo che tre giorni fa la Consulta glielo ha ricordato dichiarando incostituzionale un decreto del governo Monti e le successive proroghe dei governi Letta e Renzi, che senza concorso pubblico non si possono fare o sanare 1.200 nomine di dirigenti delle Agenzie fiscali, ora a rischio paralisi per quelle eccezioni su eccezioni.
Che la salvezza non possa arrivare soltanto dalle leggi in sé, del resto, lo testimoniano le aspettative riposte nella tenaglia normativa fra autoriciclaggio (condotta di chi cerca di occultare la provenienza illecita di ciò che ha guadagnato dalla commissione di un reato) e rimpatrio volontario dei capitali dall’estero entro settembre: grandi potenzialità ma controversi nodi interpretativi stanno producendo tanti convegni tra giudici-avvocati-commercialisti per capirci qualcosa, e sinora una sola contestazione di autoriciclaggio ad opera del pool romano di Nello Rossi.
Può accadere anche al nuovo falso in bilancio, benché sia lodevole l’inversione di tendenza di rinvigorire il reato depotenziato nel 2001 da Berlusconi, prevedendo (senza più soglie di punibilità) sino a 8 anni di carcere per gli amministratori sia delle società quotate, sia delle società non quotate ma controllanti (per esempio le casseforti familiari delle grandi dinastie imprenditoriali), sia dei gestori di risparmio pubblico e degli esercenti su un mercato regolamentato italiano o europeo.
Quando infatti la relazione che accompagna l’emendamento del governo spiega di aver ricopiato la condotta punibile (l’esposizione di «fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero») dall’attuale formulazione del reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle Autorità pubbliche di vigilanza, tace però che la sta amputando di quattro paroline non da poco: fatti materiali non rispondenti al vero, «ancorché oggetto di valutazioni».
A tenore letterale, dunque, resterebbe non punibile una importante fetta di falsi in bilancio: quelli per «valutazioni» (ad esempio tramite l’esagerazione o sottovalutazione della stima del magazzino o dell’ammortamento dei crediti o del valore di immobili e partecipazioni), che persino nella legge Berlusconi erano rimaste penalmente rilevanti seppure sopra la robusta soglia del 10% di scostamento dalla realtà.
È un’incertezza ben più significativa, a ben vedere, della diatriba sulla non possibilità di intercettazioni per il falso in bilancio nelle società non quotate, dove il massimo di pena è stato appositamente limato a 5 anni. E si aggiunge all’altra incertezza di come distinguere, sempre nelle non quotate, i falsi in bilancio di «tenue entità» (per i quali i magistrati potranno disporre la non punibilità) da quelli di «lieve entità» (che resteranno reato ma con pena ridotta fra 6 mesi e 3 anni).
La moda dell’inasprimento delle pene è poi selettiva nel lasciare ferma e bassa (1-3 anni, quindi niente intercettazioni e misure cautelari) il reato di «traffico di influenze illecite», nel 2012 richiesto (questo sì) dall’Europa per arginare «cricche», «reti gelatinose» o «sistemi» che le varie inchieste faticano a inquadrare: la norma non verrà migliorata, sebbene la Cassazione l’anno scorso abbia rilevato che il traffico di influenze illecite, nel 2012 «presentato all’insegna del rafforzamento della repressione, ha prodotto almeno in questo caso l’esito contrario», di fatto derubricando condotte prima inquadrate almeno nel reato di millantato credito (1-5 anni).
Il potere di interdizione delle mutevoli alleanze politiche frena infine le scelte di fondo sulla prescrizione, flagello da 1 milione e 552.000 di procedimenti estinti in 10 anni, il 73% in fase preliminare. La proposta legislativa sul tavolo preferisce continuare ad alimentare la patologica soluzione da un lato di alzare ancora le pene solo di alcuni reati, allo scopo di allungarne surrettiziamente la prescrizione (che per la corruzione giungerebbe a 20 anni); e dall’altro di congelare la prescrizione per tutti i reati dopo la sentenza di primo grado, ma facendola ripartire se l’Appello non si celebra entro due anni e la Cassazione in un anno.
È un ibrido che sottovaluta come ad affossare i processi siano soprattutto i tempi morti tra una fase di giudizio e l’altra, dovuti a carenze organizzative e farraginosità procedurali che verrebbero lenìte, molto più che qualunque faccia feroce sulle pene, già dalla rivisitazione di impugnazioni-nullità-notifiche, e dalla copertura degli 8.000 cancellieri mancanti (1.000 dei quali ora attesi in esodo dalle Province e dalla Difesa).
Ma soprattutto è un ibrido che non metterà al riparo né i processi dalla marea di impugnazioni strumentali ad approdare all’agognato e solo dilazionato tempo scaduto, né gli imputati da un supplemento di graticola: esigenze che invece forse sarebbero entrambe più tutelate da un termine di prescrizione magari relativamente breve (6/7 anni per arrivare a una sentenza definitiva) ma calcolato a partire non dalla data di commissione del reato, bensì da quella di iscrizione nel registro degli indagati.

Repubblica 21.3.15
I legami tra politica e burocrazia
di Massimo L. Salvadori


LA BAGARRE scoppiata intorno all’asse di potere Lupi-Incalza ha portato in primo piano nel dibattito pubblico la questione dei rapporti inquinati tra politica e burocrazia. Nel nostro Paese essa ha una storia senza fine e rappresenta un capitolo centrale nelle vicende legate alla corruzione. Non ci si può dunque meravigliare che in Italia la parola “burocrazia” equivalga a una parolaccia, sia sinonimo di un’arroganza che fa dei cittadini delle persone perennemente frustrate a causa dei bastoni messi tra le ruote di chiunque voglia combinare qualcosa di buono, di una inefficienza pianificata per consentire manovre a beneficio di corruttori e corrotti.
Là dove la burocrazia è stata tradizionalmente sentita come un potere opprimente posto al servizio delle classi dominanti, si è progettato di sopprimerla e di liberarsene una volta per tutte sostituendola con l’autogoverno. Fu questo l’obiettivo di Marx, di Lenin — il quale, guardando alla pessima burocrazia zarista, nella Russia del 1917 teorizzò che il proletariato vittorioso avrebbe distrutto alle radici l’apparato burocratico così che “nessuno possa diventare un burocrate” — e anche di Mao Zedong in Cina che durante la rivoluzione culturale scagliò le sue guardie rosse contro i “burocrati rossi”. L’ambizione di distruggere la burocrazia si rivelò un sogno, come mostrato dal fatto che è toccato proprio ai regimi comunisti di elevare la burocrazia a una posizione di potere senza precedenti. Eppure in altri Paesi la burocrazia, come nel passato, anche nel presente non è oggetto di discredito; anzi in alcuni quali ad esempio oggi la Germania, l’Austria e anche la Francia è rispettata e i burocrati non sono considerati nemici dei cittadini.
La verità — come ha spiegato in maniera insuperata, classica, Max Weber in Economia e società — è che senza la burocrazia la gestione delle moderne società complesse non sarebbe letteralmente possibile. Essa ricopre, infatti, un ruolo insostituibile nell’organizzazione degli apparati dello Stato, nell’amministrazione delle imprese, delle forze armate, dei partiti e dei sindacati, senza il quale si piomberebbe in un ingovernabile disordine. Naturalmente questo ruolo ha carattere positivo unicamente ad alcune condizioni: che operi secondo criteri di razionalità, un sistema di regole che non spetta ad essa darsi ma deve ricevere dal potere politico; che non ambisca, travalicando le sue funzioni tecniche, ad impadronirsi di un potere autonomo e autogestito, di cui è leva fondamentale «la trasformazione del sapere d’ufficio in un sapere segreto », che «costituisce il più importante strumento di potenza della burocrazia ed è in definitiva unicamente un mezzo per garantire l’amministrazione contro i controlli ».
Dopo avere chiarito l’indispensabilità e l’importanza della burocrazia, Weber ha messo d’altro canto in luce la sua pericolosità, che emerge allorché essa esula dai limiti che dovrebbero restare suoi propri. Superati quei limiti, allora inizia la degenerazione, che è enormemente favorita quando i leader dei partiti, i parlamentari e gli uomini di governo si rivelino impari ai loro compiti vuoi per la pochezza delle loro qualità vuoi per l’incapacità di esercitare nei confronti della burocrazia quel che detterebbe la loro responsabilità in quanto guide. Allora coloro cui spetta di essere al servizio dello Stato e della politica, ne diventano i padroni, assumendo impropriamente di fatto la parte di legislatori, di guide del processo politico, di tutori degli stessi parlamentari e governanti. È a questo punto che il rapporto politica-burocrazia si rovescia e la corruzione trova spianata la strada.
A chi tenga presente quanto sopra, non riesce difficile capire dove si collochi in tutta la sua portata la stortura della relazione tra il ministro Lupi e il grande burocrate Incalza. Peccato di Lupi sarà pure anche di essersi dato da fare, giovandosi della sua influenza, per agevolare la carriera del figlio. Ma il suo peccato non perdonabile è di natura interamente politica: essere giunto a minacciare — come inequivocabilmente rivelato dalle intercettazioni telefoniche — di far cadere un governo se si fosse toccato un burocrate che ha costruito la propria personale potenza accumulata in decenni, mettendosi al riparo del fatto che i governi passano e la burocrazia resta. Lupi legga Weber, e non farà fatica a capire quanto sia stato inutile spostare l’attenzione dal sodalizio tra lui, Incalza e compagni ai favori che dice di non aver chiesto per il figlio e all’orologio che personalmente non avrebbe accettato.

La Stampa 21.3.15
Una lunga scia di veleni
di Marcello Sorgi


L’addio di Lupi al governo si lascia dietro una discreta scia di veleni che scorrono dentro Ncd e in qualche modo anche dentro il centrodestra. Benché assistito fino all’ultimo dal segretario del suo partito, Alfano, Lupi non lo ha ringraziato nel discorso parlamentare con cui ha ufficializzato le dimissioni, annunciate a Porta a porta. Paradossalmente, ha espresso gratitudine a Bruno Vespa, ma non ai suoi colleghi di Ncd, dato che nelle ultime ore era evidente che non aspettassero altro che lui si facesse da parte. A dar voce alle tensioni che percorrono il partito sono stati, da posizioni opposte, la capogruppo Nunzia De Girolamo e Fabrizio Cicchitto. La Di Girolamo, ministra dimissionaria, anche lei, ma del governo Letta, e a rischio di dover lasciare il posto, come premio di consolazione, a Lupi, chiede un chiarimento con Renzi, in mancanza del quale, sostiene, i centristi dovrebbero tornare ad allearsi con Berlusconi. E anche Cicchitto insiste per fare i conti con il premier, al quale ricorda che non ha la maggioranza senza Ncd, ma per rinsaldare i termini dell’alleanza.
Più in generale, lo stato di impasse in cui versa il centrodestra si ripercuote anche sulla piccola pattuglia di scissionisti che un anno e mezzo fa non condivise la decisione dell’ex-Cavaliere di passare all’opposizione. Alfano e Quagliariello puntano a salvare anche a caro prezzo la presenza al governo, sebbene non sia sicuro che, uscito Lupi, un altro dello stesso partito possa andare al posto suo, e Renzi ha preso l’interim delle Infrastrutture per consultarsi con il presidente della Repubblica Mattarella e decidere con lui se non sia meglio provvedere con un tecnico (Cantone?), visto che si tratta di assicurare la partenza dell’Expo e poi dedicarsi a una riforma del sistema degli appalti che intervenga sui meccanismi di corruzione. D’altra parte non si intravede alcuna credibile alternativa né una ricollocazione possibile al fianco di Berlusconi. Con il quale languono da settimane anche le trattative per le regionali, mentre Salvini continua a insistere nella pregiudiziale anti-Ncd per siglare l’intesa sul Veneto.
Insomma c’è una ragione evidente se un personaggio che ha attraversato la storia del centrodestra negli ultimi oltre vent’anni come Pieferdinando Casini, a chi gli chiede se quel che è accaduto provocherà una scossa in grado di ricostruire un’alternativa credibile a Renzi, al centrosinistra e al cosiddetto «partito unico renziano», risponde che «è più facile trovare un accordo tra le diverse fazioni della Libia, che non tra quelle del centrodestra».

il Fatto 21.3.15
Ecco gli altri da cacciare, cominciando da Nencini
Renzi fa il garantista mentre silura Lupi
di Wanda Marra


Lupi si dimette, ma subito si scopre il favore fatto al suo viceministro dalla nuova cricca: l’assunzione di un suo uomo da parte del supermanager Burchi. Poi resta la truppa dei tanti indagati ancora in sella: Barracciu, Castiglione, Del Basso, De Filippo, De Luca, Soru...

ORA LE INFRASTRUTTURE POTREBBERO FINIRE A DELRIO. IL PRIMO MINISTRO DEVE PERÒ EVITARE DI SCONTENTARE LOTTI. QUAGLIARIELLO VERSO L’UNIVERSITÀ
Quello di Maurizio Lupi è un gesto di grande dignità e sensibilità”. Si mette in posa, dopo il Consiglio Europeo di Bruxelles, Matteo Renzi, per parlare davanti alle telecamere. Sceglie con cura le prime parole ufficiali sulla vicenda che ha portato alle dimissioni del ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture: “È stato mosso da motivazioni di opportunità politica”. La frase clou: “Noi siamo davvero garantisti: non può bastare l’avviso di garanzia per chiedere le dimissioni di qualcuno. E qui non c’era neanche l’avviso di garanzia”. Non si fa mancare una battuta sulle ricostruzioni “davvero stravaganti” dei giornali. Tiene i toni bassi, minimizza, arrotonda gli angoli, il premier. Ma in realtà, ha vinto l’ennesima prova di forza: Lupi se n’è andato, apparentemente di sua sponte, dopo un pressing durato giorni da parte di Renzi e dei suoi, che è passato per colloqui a due e minacce sui giornali (“O te ne vai o ti faccio sfiduciare”). Dopo lo sfaldamento progressivo dell’Ncd.
IL PRESIDENTE del Consiglio s’è trovato in mano una grana non facile da gestire, a livello d’immagine. Ma ha fiutato la possibilità di volgerla a suo vantaggio: con le dimissioni del ministro di Cl gli riesce un’operazione che avrebbe voluto compiere dall’inizio. Smontare la struttura di quel dicastero, gestire magari attraverso qualche fedelissimo i soldi e il potere derivanti dalle grandi opere. L’inchiesta gli ha dato una mano. E lui lo sa. Come sa che tra gli uomini di governo e nella sua cerchia stretta c’è più di un indagato. E allora, ecco la frase sul garantismo. E quella definizione, “opportunità politica”, che permette di valutare politicamente prima di tutto al premier caso per caso le posizioni giudiziarie dei suoi uomini. Data la premessa, ha scelto di difendere Vasco Errani, dopo la condanna in appello per falso ideologico. Lui allora si dimise, ma Renzi non ha mai smesso di considerarlo un interlocutore. Quel sistema di potere pesa. Data la premessa, può non chiedere a Vincenzo De Luca un passo indietro dalla corsa in Campania. Anche quello è un sistema di potere difficile da smontare. A proposito di sistema di potere, è iniziato il dopo Lupi: “Appena rientro in Italia assumerò l’interim per qualche giorno. Lunedì era già concordato un incontro con Mattarella”, chiarisce Renzi. L’interim non dovrebbe arrivare dunque fino all’Expo o addirittura fino alle Regionali. Il premier la soluzione non ce l’ha (anche perché in ballo di fatto c’è un rimpasto di governo) ma vuole fare presto. Al solito viene tirato fuori l’asso nella manica, l’uomo della Provvidenza. Il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, magistrato in aspettativa, che venne agitato tipo minaccia pure per la presidenza della Repubblica. “Cantone? Le valutazioni sui nomi dei ministri si fanno al Quirinale”, risponde Renzi in conferenza stampa. Quella soluzione gli risolverebbe una serie di problemi: sarebbe un colpo ad effetto nei confronti dell’opinione pubblica. E gli permetterebbe di lasciare il ministero unito, con tanto di struttura di missione: un modo per non alterare gli equilibri di potere attuali tra i renziani. Cantone non dispiace al Colle. Ma lui stesso è perplesso all’idea di passare da controllore a controllato.
In questo momento il candidato naturale al ministero delle Infrastrutture (che a quel punto verrebbe scorporato dai Trasporti) è Graziano Delrio. Il Sottosegretario a Palazzo Chigi è stato tra i più convinti oppositori della banda di Incalza ed è un politico di peso e di esperienza. Con lui sarebbe uno dei più stretti collaboratori del premier a controllare quella struttura. Ai Trasporti in questo schema dovrebbe andare un altro del Pd. Su questa strada c’è un ostacolo: le Infrastrutture le vuole dall’inizio Luca Lotti, braccio armato di Renzi anche e soprattutto per la gestione dei dossier inconfessabili. La rivalità tra i due Sottosegretari non è un mistero. Lotti per sua natura non può essere un frontman: e allora lo schema sarebbe un altro ancora. Spacchettamento del ministero e struttura di missione (quella che effettivamente fa le cose) a Palazzo Chigi, sotto il fiorentino. Da notare, ancora, che per le Infrastrutture Delrio dovrebbe lasciare Palazzo Chigi. In favore di chi? La candidata più probabile è la Boschi. E le riforme? Cercherebbe di tenersele. Non è detto sia possibile.
POI, ci sono gli altri incastri. Per Ncd dovrebbe entrare Quagliariello, che sogna il ministero dell’Istruzione. Non può averlo, visto che la Giannini rappresenta un gruppo di deputati appena entrati nel Pd. Anche qui, potrebbe intervenire uno spacchettamento, per dare al centrista l’Università. Ancora in corsa per un ministero anche Anna Finocchiaro. Serve agli equilibri del Pd. Si tratterebbe degli Affari Regionali, rafforzato con le deleghe per la gestione dei fondi europei per il Sud. Ora li ha Del-rio, che se resta a Palazzo Chigi non li molla. Un bel risiko.

il Fatto 21.3.15
Poltronificio infrastrutture
Anche Nencini piazza i suoi
Appena insediato il viceministro ha sistemato un ex parlamentare del Psi in una società attraverso il suo capo gabinetto “Ti ringrazio a nome suo”
di Antonio Massari e Davide Vecchi


La specialità del ministero delle Infrastrutture era la corsa alle poltrone. Leggendo gli atti allegati all’inchiesta Sistema, emerge che anche il viceministro Riccardo Nencini si era prodigato per far avere un’assunzione a un caro e vecchio amico: Enzo Collio, ex parlamentare socialista devoto al verbo craxiano. Per ottenere il risultato, Nencini attiva il capo della sua segreteria che si rivolge a Giulio Burchi, super-manager indagato per corruzione nell’inchiesta fiorentina.
SINTETIZZANO gli inquirenti: “Giulio Burchi, dopo aver incontrato Fabrizio Magnani, capo della segreteria del viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini, fa emergere che quest'ultimo gli ha richiesto di trovare una sistemazione, possibilmente come revisore dei conti, a Enzo Collio, ex esponente del Partito socialista italiano”. Detto fatto. Collio riceve un incarico alla Mobilità Serenissima Srl. “Ti ringrazio anche a nome di Riccardo”, dice Magnani a operazione avvenuta. È il maggio 2014, Nencini è fresco di nomina: è diventato viceministro a fine febbraio. Il 28 Lupi telefona a Ercole Incalza per informarlo dell’incarico affidato a Nencini. “Dopo che tu hai dato la sponsorizzazione per Nencini l’abbiamo fatto viceministro”, confida Lupi a Incalza. “Hai messo la faccia quindi adesso sono cazzi tuoi, ora digli che non rompa i coglioni”. Una telefonata dai contenuti imbarazzanti. Nencini ha smentito di essere stato nominato su consiglio di Incalza sottolineando – nel corso della trasmissione Piazza Pulita – che è “Renzi a nominare i viceministri”, sostenendo che i suoi rapporti con Incalza sono minimi e invitando Lupi a fare chiarezza. Cosa che ha fatto in un’intervista a Repubblica. “Io conoscevo poco Nencini e Del Basso De Caro, due persone peraltro bravissime. Sapendo che erano socialisti come Incalza, lo prendevo in giro”. A sua volta Nencini chiudeva con un tweet: “Ringrazio il ministro Lupi per aver chiarito il senso della telefonata con Incalza. Il chiarimento sgombra il campo da ogni malevola interpretazione”.
Come Nencini anche Umberto Del Basso De Caro, oltre a essere socialista, è arrivato alle Infrastrutture.
Al ministero tutti chiedono o distribuiscono incarichi. Lo dicono le indagini. Nencini è viceministro da meno di tre mesi quando il Ros annota: “Bisogna approfondire i rapporti tra il senatore Nencini e Burchi”. Già il 4 aprile, Mauro Del Bue viene intercettato mentre chiede a Burchi, “a nome del senatore Nencini”, come “cortesia” e “contributo”, di poter “sistemare due o tre persone con incarichi retribuiti”. “Ti volevo chiedere una cosa tu potresti dargli qualche contributo di questo tipo anche a Nencini... ci sono delle nomine da fare in giro... ”. Le pretese non sono neanche elevate: “Non ci interessano presidenze, vicepresidenze, ci interessa sistemare due o tre persone in qualche ente dove ci sia anche il compenso perché poi la gente non lavora gratis. Cosa c'è in giro? Trenitalia? Cioè nei consigli di amministrazione, non gli apicali”. Anche Burchi – continua il Ros – ha bisogno di qualcosa: “Essere sostenuto per ottenere un incarico in Terna”. Un mese dopo arriva la telefonata di Fabrizio Magnani, capo della segreteria di Nencini, che “chiede, a nome di quest'ultimo, se ha ‘un minimo di spazio’ in qualche collegio sindacale”. “Fabrizio Magnani della segreteria del viceministro Riccardo Nencini”, scrive il Ros, “chiede insistentemente a Burchi di trovare per conto del viceministro incarichi da conferire a persone non identificate nelle società direttamente riferibili a Burchi. E Burchi pretende per sé, da parte di Nencini, una qualche nomina in aziende a partecipazione statale”. Così funzionava il ministero. “Ma io inventavo... ” ha provato a dire Giulio Burchi durante il suo interrogatorio, prima di ritrovarsi ad ammettere ciò che non poteva negare: che il “sistema” del duo Incalza-Perotti, lui, lo conoscesse a fondo, non è una congettura degli investigatori. È lo stesso Burchi, in più di un'occasione, a raccontarlo per telefono. Era pronto a rivelare tutto al sottosegretario di Matteo Renzi, Graziano Del-rio, oggi tra i candidati a sostituire l'ex ministro Lupi. Voleva scomodare anche il deputato Pd Pippo Civati affinché intervenisse con un'interrogazione parlamentare.
AD ANIMARE le sue parole, c'è l'aspirazione a rovesciare il sistema Incalza-Perotti per scavalcarlo, creando una sponda con il Pd, partito in cui contava parecchie conoscenze. Tra queste, sostiene Burchi, anche la governatrice del Friuli Venezia Giulia: “Qualcosa dovrebbe uscirmi perché adesso mi vuole nominare anche presidente della vecchia Padova - Venezia che si chiama Serenissima, che non ha più autostrade ma possiede 1'8 per cento. Allora Serracchiani vuole che io vada a fare il presidente che ci vuole mettere il suo vice amministratore”.
Burchi oscilla tra due poli: la necessità di raccogliere le briciole che cadono dal tavolo del sistema Incalza e il desiderio di combatterlo. L'astio di Burchi raggiunge il suo apice il 19 febbraio 2014, quando Incalza è confermato nel suo ruolo. Parlando con Giovanni Gaspari Burchi s'infervora: “Dobbiamo tenerci Incalza fino al 2018 cazzo! Finché non muore! ” Gaspari ribatte che Incalza “può contare su importanti sostegni sia politici che imprenditoriali: “Ma è veramente una schifezza tale che non ne posso più, mi viene anche a me da vomitare... si sono scatenati tutti alla difesa di Incalza oggi, sono passati da Alfano a Schifani ai general contractor... ma è possibile che a 'sti stronzi non gli viene in mente che se queste lobby di affaristi lo sostengono... ”. Burchi non sopporta la situazione: Incalza “favorisce sempre questo Perotti”, che viene nominato direttore generale dei lavori da molte imprese, fino a gestire 25 miliardi di appalti. E quindi – annota il Ros dei carabinieri – prende una decisione: “C'ho due o tre episodi circostanziati... prendo Pippo Civati che mi rompe sempre i coglioni così gli faccio fare una cosa utile”. L'intenzione è di far presentare a Civati un'interrogazione parlamentare. “Non me ne ha mai parlato”, dice Civati al Fatto. Nella sua personale guerra a Incalza, il 3 aprile 2014, Burchi chiede all'ex parlamentare socialista Mauro Lo Bue di fissargli un appuntamento con Nencini per “metterlo in guardia su quello che avviene al ministero da trent'anni sotto il controllo di Incalza”. Dice: “Non vorrei che si facesse far su anche lui da Incalza, cioè io gli racconto delle storie vere che gli possono essere utili”.

il Fatto 21.3.15
E questi altri, quando li caccia?
Va bene allontanare chi sbaglia, ma il premier usa il suo metro: quello dei due pesi e due misure
di Emiliano Liuzzi


Lui, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, appena può, ripete la frase da talk show: “Sono garantista”. E ha anche un buon motivo: nel suo governo di indagati ce ne sono in abbondanza. Un ministro, Stefania Giannini, è stata citata a giudizio dalla Corte dei conti per un danno erariale stimato in 420 mila euro, relativo ai tempi in cui ricopriva la carica di rettore dell’Università per stranieri di Perugia. C’è poi un caso conclamato: Francesca Barracciu, sottosegretario del ministero dei Beni Culturali, era la candidata del Pd alle elezioni regionali in Sardegna, un anno fa. Aveva vinto le primarie, ma il giorno stesso l’avvisarono anche dell’indagine per peculato che aveva avviato la Procura di Cagliari nei suoi confronti. Secondo l’accusa, Barracciu avrebbe speso 80 mila euro senza nessuna giustificazione. Tutti soldi, dice lei, finiti in benzina. I magistrati non le hanno creduto ed è ancora indagata. Per evitare che corresse come presidente della giunta sarda, Matteo Renzi se l’è portata a Roma. Indagato in corsa, invece, una delle new entry di Palazzo Chigi ai tempi di Matteo: lui si chiama Davide Faraone, responsabile del Welfare del Pd e, soprattutto, sottosegretario all’Istruzione: è indagato per peculato sulle spese pazze in Sicilia.
A Renzi piace assai anche Vasco Errani, ex presidente della Regione Emilia Romagna, carica dalla quale si è dimesso per una condanna in secondo grado per falso. Renzi, garantista fino in fondo, lo vuole a Roma con un incarico importante. Per adesso è stato lo stesso Errani a declinare l’invito in attesa del terzo grado di giudizio. La lista prosegue con Ernesto Carbone, un procedimento civile e uno penale, e Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, candidato Pd alle prossime elezioni regionali in Campania. Tra i governatori non se la passa bene neppure Enrico Rossi della Toscana: è indagato per un buco da 300 milioni di euro dell'Asl di Massa e Carrara.
La Lista nera
BARRACCIU
Sottosegretario rimborsato
PECULATO. Classe 1966, renziana della prima ora, Francesca Barracciu era candidata per la presidenza della Regione in Sardegna quando è stata chiamata a giustificare rimborsi per oltre 80 mila euro. La segreteria di Renzi le chiese di fare un passo indietro e, in cambio, è diventata sottosegretario al ministero per le Attività culturali.
DE FILIPPO
Un problema di spese di rappresentanza
CONDANNATO.
Vito De Filippo del Pd è uno dei potenti sottosegretari al ministero della Salute guidato da Beatrice Lorenzin. Finì sotto inchiesta per irregolarità “in relazione a rimborsi per spese elettorali” ed è stato condannato dalla Corte dei conti a risarcire, con altri 21 indagati, 196 mila euro di danni prodotti dalle spese di rappresentanza gonfiate.
CASTIGLIONE
Con le mani nel Cara di Mineo
ABUSO D’UFFICIO. Giusto per rimanere nell’ambito del Nuovo centrodestra guidato da Angelino Alfano, troviamo Giuseppe Castiglione, sottosegretario all’Agricoltura in quota Ncd, ovviamente: è indagato per abuso d’ufficio e turbativa d’asta per gli appalti per la struttura di accoglienza a Mineo, in Sicilia, anche se lui dice di non aver ricevuto “avvisi di garanzia”.
DEL BASSO DE CARO
Rimborsi ai gruppi, c’è anche lui
VERSO L’ARCHIVIAZIONE. Un altro illustre esponente del Pd nei guai con la giustizia è Umberto Del Basso De Caro, sottosegretario alle Infrastrutture indagato dalla Procura di Napoli per rimborsi non rendicontati del consiglio regionale della Campania. Sempre difeso dal premier, a fine novembre è stata chiesta l’archiviazione da parte dei pm.
FARAONE
Per lui peculato da deputato all’Ars
SPESE PAZZE. Perito chimico, già nei Ds, Davide Faraone è sottosegretario all’Istruzione. Considerato uno dei più influenti del cerchio magico di Renzi, anche lui è indagato per peculato nell’inchiesta sulle spese pazze ai tempi in cui era consigliere regionale in Sicilia per oltre 3 mila euro. Faraone è anche il responsabile del Welfare del partito.
GIUNTA CALABRIA
Quanti inquisiti divenuti assessori
TRIS D’ASSI. A due mesi dalle elezioni regionali, il governatore della Calabria Mario Oliverio ha composto la nuova giunta in cui ha trovato spazio Nino De Gaetano, Pd, uomo che qualche anno fa stava per essere arrestato e indagato dalla Procura antimafia di Reggio Calabria per scambio di voti. Indagati per i rimborsi altri due assessori: Carlo Guccione e Vincenzo Ciconte.
DE LUCA
Condanna, Severino e corsa in Campania
ASPIRANTE GOVERNATORE.
Il Tribunale di Salerno lo ha condannato: il sindaco Vincenzo De Luca deve scontare un anno di reclusione per abuso d’ufficio per la realizzazione del termovalorizzatore ed è interdetto dai pubblici uffici, sempre per un anno. È il candidato renziano alle Regionali in Campania dopo aver vinto le primarie.
ROSSI
Inciampato nella Asl di Massa
FALSO. Dal 2012 è indagato per falso ideologico nell’ambito dell’inchiesta sul buco da 300 milioni di euro alla Asl 1 di Massa Carrara: Enrico Rossi attualmente ricopre la carica di governatore della Toscana. Si è sempre dichiarato estraneo ai fatti, ma il buco dell’Asl di Massa Carrara è una delle inchieste più delicate in tema di sanità toscana.
SPACCA
Spese pazze nelle Marche
TUTTI INDAGATI. Fresco di iscrizione al registro degli indagati è il governatore della Regione Marche Gian Mario Spacca. L’accusa è sempre legata alle spese disinvolte. Con lui 40 consiglieri regionali e i capigruppo dei partiti come il segretario del Partito democratico marchigiano Francesco Comi. L’inchiesta è iniziata due settimane fa.
CARBONE
In segreteria Pd (già denunciato)
CIVILE E PENALE.
Ernesto Carbone come manager del Sin, la società controllata da Agea, è accusato dagli attuali manager di uso disinvolto della carta di credito. È stato indagato in un altro controverso procedimento per accesso abusivo al sistema informatico e falsa testimonianza, ma poi è stato assolto per non aver commesso il fatto.
SORU
In Europa inseguito dai processi
EVASIONE FISCALE. Abuso d’ufficio, turbativa d’asta, evasione e frode fiscale: molti i procedimenti che hanno coinvolto e coinvolgono Renato Soru, segretario del Pd in Sardegna, europarlamentare e uno degli uomini più fidati di Renzi: attualmente è a giudizio per un’evasione fiscale stimata in 10 milioni di euro su un’operazione tra Italia e Inghilterra.
GIANNINI
Il ministro è accusato di danno erariale
CITATA A GIUDIZIO. La Corte dei conti ha citato in giudizio nelle settimane scorse anche il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini: la contestazione è quella di un danno erariale per 420 mila euro ai tempi in cui era rettore dell’Università per stranieri di Perugia che, da mesi, è ormai ridotta sul lastrico proprio per la gestione non sempre oculata.

il Fatto 21.3.15
Fatti chiari
Il partito degli indagati fa la legge anti-corrotti
di Peter Gomez


PER CAPIRE come mai la legge anti-corruzione proposta da Piero Grasso ci abbia messo 734 giorni prima di uscire, tra molti peggioramenti, dalla commissione Giustizia del Senato, conviene partire dai numeri. Non però da quelli contenuti nelle nuove norme. Le cifre che chiariscono bene il perché di buona parte dell’insopportabile ritardo sono altre. Sono quelle che fotografano lo stato dell’arte (criminale, verrebbe da dire) all’interno del Nuovo centrodestra. A Palazzo Madama, 12 su 36 senatori del partito di Maurizio Lupi e Angelino Alfano risultano avere o aver avuto a che fare, come imputati o indagati, con i tribunali. E una situazione analoga si verifica a Montecitorio dove, forse in nome del bicameralismo perfetto, 11 su 33 deputati Ncd sono coinvolti, o lo sono stati, in procedimenti penali.  Si tratta di una percentuale record – il 33% – impossibile da trovare persino tra gli inquilini dei palazzi più malfamati delle periferie metropolitane, ma presente nelle riunioni parlamentari infragruppi di un partito che, va detto con franchezza, dimostra coi fatti di essere la vera bad company del defunto Pdl (in Forza Italia il tasso di presunta devianza è più basso).  Queste cifre hanno ovviamente delle importanti conseguenze. Da una parte è difficile ritenere che i rappresentanti Ncd, al di là dell’esito processuale delle varie vicende, possano guardare di buon occhio al controllo di legalità operato dalla magistratura. Dall’altra, la maggioranza, già condizionata da larghi settori del Pd inquinati da clientelismo e malaffare (si pensi ai casi di Mafia Capitale, Expo e Mose), deve fare pure i conti con decine di parlamentari, decisivi per la tenuta del governo, che rispetto alla giustizia si trovano in posizione di perenne conflitto di interessi. Gente che, in base all’esperienza personale, sa tutto di leggi e pandette e che, se colpevole, ha un unico obbiettivo: mettere i bastoni tra le ruote a procure e tribunali.  Anche per questo non è irragionevole presumere che al termine della discussione delle Camere le nuove norme su tangenti, falso in bilancio e prescrizione, peggioreranno ancora. Del resto non è necessario aver letto La legge di Murphy di Arthur Bloch per sapere che “un esperto è una persona che evitando tutti i piccoli errori punta dritto alla catastrofe”. Basta aver dato una scorsa alle cronache giudiziarie che riguardano gli uomini di Alfano.  OLTRETUTTO, seguendo rigorosi principi di logica cartesiana, la maggioranza ha scelto come relatore dell’articolato sulle mazzette un altro esperto che, ovviamente, è un esponente dell’Ncd. Si chiama Nico D’Ascola. Anche lui alterna le puntate in Parlamento a quelle in tribunale. Ma a differenza di molti colleghi centristi non perché imputato. D’Ascola fa l’avvocato e spesso assiste presunti ‘ndranghetisti. In passato ha difeso l’uomo delle escort, Gianpi Tarantini e, prima che gli facessero notare l’ineleganza della cosa, pure l’ex ministro Claudio Scajola.  “Non vedo il conflitto di interessi” ha detto. Poi ha gettato la spugna e mollato Scajola. Forse ora è venuto il momento che D’Ascola molli pure la legge. Un relatore non part time, e soprattutto non costretto a partecipare ai summit di un partito che la satira ribattezza Nuovo Centro Detenuti, per gli italiani sarebbe un bel segnale di fiducia.

il Fatto 21.3.15
Riforme
La prescrizione “salva” il maltolto
di Antonio Esposito

Presidente II sezione della Corte di Cassazione

Il presidente della Corte di Cassazione, nel discorso inaugurale dell’anno giudiziario, ha quantificato in oltre 1.500.000 il numero dei processi per i quali, nell’ultimo decennio, è stata dichiarata la prescrizione, così confermando i dati forniti dal Csm che, già nel 2011, stimava in 150.000 i processi che, ogni anno, si estinguono per prescrizione.
Questa “mattanza” giudiziaria – che trova la causa prima nella emanazione della legge “ex Cirielli” (2005), la quale ha ridotto per un gran numero di reati il termine massimo prescrizionale (abbassandolo da 15 a 7 anni e mezzo) – ha interessato, e in misura rilevante, anche i reati di corruzione e di truffa aggravata ai danni dello Stato e, segnatamente, le truffe comunitarie, in ordine ai quali, oltre al breve termine prescrizionale, influisce anche la circostanza che l’accertamento del reato avviene a distanza di anni dalla commissione del fatto, data dalla quale inizia, comunque, a decorrere il termine di prescrizione.
A nulla è valsa, ai fini di rimuovere l’inerzia della classe politica, la ratifica, con legge n° 116/2009, della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la Corruzione che, all’art. 29 stabilisce: “... ciascuno Stato parte fissa, nell’ambito del proprio diritto interno, un lungo termine di prescrizione entro il quale i procedimenti possono essere avviati per uno dei reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione”.
Così come a nulla è valso il rapporto del 2-7-2009 del “Gruppo di Stati” contro la corruzione che agisce nell’ambito del Consiglio europeo (“GRECO”) che – nel valutare le politiche anticorruzione poste in essere dall’Italia – ha sottolineato in termini negativi il fatto che “in Italia i processi per corruzione sovente non arrivano a una decisione di merito, in considerazione del maturare del termine di prescrizione del reato prima di una pronuncia definitiva”.
NONOSTANTE l’“ecatombe” dei processi, vero “scandalo” della giustizia italiana, Parlamento e governo sono rimasti inerti per dieci anni. Solo il 29-8-2014 il governo ha approvato un ddl riguardante anche la prescrizione, al quale non è stata data alcuna corsia preferenziale e che, comunque, risolve solo in minima parte il problema, limitandosi a far valere brevi periodi di sospensione (due anni per l’appello, uno per il ricorso in Cassazione) anziché stabilire che l’ulteriore corso della prescrizione del reato deve ritenersi precluso dal concreto esercizio dell’azione penale mediante l’instaurazione del giudizio.
Ma il problema più grave è che la prescrizione, non solo elimina applicazione della pena, quanto impedisce allo Stato di riottenere la restituzione del denaro “frutto” della truffa ai suoi danni, di confiscare i beni dei corrotti, ovvero “il denaro, i beni e le altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza” (art. 12 quinquies L. 552/92). Invero le Sezioni Unite (S. U.), con sentenza n. 38834/08, hanno affermato che non è possibile procedere alla confisca obbligatoria dei beni che costituiscono il “prezzo” del reato di corruzione, e, cioè, delle cose date o promesse per indurre il p. u. a commettere il reato, di fronte a una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, essendo sempre necessaria una sentenza di condanna. Va precisato che le S. U. – nel risolvere un forte contrasto insorto tra le varie sezioni e tra le stesse S. U. – hanno, comunque, invitato il legislatore a “riflettere” per evitare l’arricchimento “antigiuridico e immorale” degli imputati che ottengono la restituzione del prezzo della corruzione. Tale invito è rimasto disatteso, così come sono state disattesi gli appelli di varie associazioni che avevano invitato il Parlamento e il ministro della Giustizia ad adottare provvedimenti atti a consentire la confisca dei beni dei corrotti anche in caso di estinzione del reato per prescrizione.
Tale interpretazione delle S. U. – del tutto inconciliabile con le esigenze di lotta al crimine organizzato – è stata, comunque, incisivamente contrastata dalla sezione II della Cassazione (sentenza n. 32273/10), la quale ha affermato che – oltre che nel caso di sentenza di condanna, in cui va sempre disposta la confisca del “profitto” del reato di cui all'art. 240 secondo comma n. 1 c. p. ovvero “del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza” di cui agli articoli 12 quinquies e sexies L. 552/92 – anche nella ipotesi di proscioglimento per estinzione del reato per prescrizione, il giudice può disporre la confisca delle cose suddette; in tal caso, il provvedimento ablatorio è subordinato all'accertamento (incidentale) da parte del giudice del fatto costituente reato.
Si è affermato in tale decisione che la confisca obbligatoria risponde a una duplice finalità, ossia quella di colpire il soggetto che ha acquisito i beni illecitamente e quella di eliminare in maniera definitiva dal mondo giuridico e dai traffici commerciali valori patrimoniali, la cui origine risale all'attività criminale posta in essere, essendo il provvedimento ablativo correlato a una precisa connotazione obiettiva di illiceità che investe la res determinandone la pericolosità in sé.
TALE interpretazione è stata confermata sempre dalla II Sez. della Corte con sentenza n. 39756/11 nel procedimento penale a carico di Massimo Ciancimino ed altri, ove, pur nella declaratoria di estinzione per prescrizione del reato, si è confermata la confisca del patrimonio del Ciancimino disposta con la sentenza di condanna di II grado.
A fronte dell’invito rivolto dalle S. U. e del contrasto giurisprudenziale in atto, ci si aspettava un pronto intervento del legislatore che – partendo dal dato incontestabile che l’obiettivo della confisca obbligatoria, è quello di privare l’autore del reato degli illeciti vantaggi economici che da esso derivano e di contrastare i più diffusi fenomeni di criminalità – riconosca, in caso di estinzione del reato, al giudice poteri di accertamento del reato stesso ai fini dell’applicazione della confisca (anche per equivalente) allo stesso modo in cui è normativamente riconosciuto al giudice di appello e di legittimità il potere di accertamento (incidentale) del reato ai fini delle statuizioni civili. L’appello dei magistrati della Corte non è stato finora accolto dal legislatore consentendosi, così, che il pubblico ufficiale corrotto, non punibile per il mero decorso del tempo, continui a “godersi” il denaro che egli ebbe a ricevere per commettere il fatto delittuoso.

il Fatto 21.3.15
Grandi bluff
Non ci sono più dubbi: quei progetti producono solo mazzette
Ecco le opere da bloccare 3° Valico, Orte-Mestre, Tav...
Infinite e costose, ecco le opere inutili a spese dei cittadini
di Giorgio Meletti


Non perché in questi ricchissimi appalti si annida il malaffare, ma perché - come svelano i pm - è stato proprio il malaffare ad averle decise e sponsorizzate. Cemento che soddisfa i politici di destra e di sinistra e dissangua lo Stato Meletti pag. 6  
L’arma retorica è sempre la stessa, il “partito del no” come male assoluto. Meno di un mese fa Raffaella Paita, candidata Pd alla Regione Liguria, l’ha sfoderata per difendere il Terzo Valico, una ferrovia inutile che da 35 anni fa sognare il partito del cemento. “Quando una forza di sinistra dice no al Terzo Valico fa una cosa di destra”. Errore blu. Nessuno a destra dice no al Terzo valico. A meno che non si sostenga che la Procura di Firenze abbia fatto una cosa di destra arrestando il capo del “partito del sì”, Ercole Incalza.
In attesa del vaglio giudiziario sulla sua presunta corruzione, sotto processo insieme alle persone fisiche ci sono proprio le grandi opere. Non perché in esse si può essere annidato il malaffare, ma proprio perché è il malaffare – stando ai primi risultati dell’inchiesta fiorentina
– a farle decidere e progettare. E soprattutto a farle piacere ai politici, di destra, centro e sinistra: quando c’è da far colare cemento dissanguando le casse dello Stato vanno sempre d’accordo. I pm di Firenze indicano gli scempi con nomi e cifre. Dei progetti indagati ce ne sono quattro fondamentali.
I LAVORI PER L’EXPO di Milano, un paio di miliardi già spesi, rappresentano plasticamente il primo cancro dei lavori pubblici all’italiana: i tempi infiniti. Ormai è tardi per dare lo stop, ma è tardi anche per l’Expo: inizia a maggio e i padiglioni dell’esposizione non saranno pronti. La disperata accelerazione finale dei cantieri fa impennare i costi, ed è il secondo cancro. Terminare i lavori per l’Expo dopo l’Expo sarà l’apoteosi dell’inutilità, il terzo cancro.
IL TERZO VALICO è affetto da tutti e tre i cancri. Tempi biblici: l’opera fu annunciata come necessaria e urgente nel 1982 dai presidenti di Lombardia e Liguria, Giuseppe Guzzetti e Alberto Teardo. Il primo è oggi padre-padrone delle Fondazioni bancarie. Il secondo, antesignano del craxismo disinvolto, fu arrestato poco dopo il fatidico annuncio. Infatti il Terzo Valico porta male. Dopo Teardo sono finiti in galera quasi tutti i principali tifosi della grande opera inutile, da Luigi Grillo (democristiano, poi berlusconiano, infine alfaniano, per anni presidente della commissione Lavori pubblici del Senato) a Claudio Scajola. L’opera piace anche a sinistra: prima di Paita l’ha sostenuta per vent’anni il governatore uscente della Liguria, Claudio Burlando. La grande opera non cammina senza accordi trasversali: tutti si danno ragione e rispondono con le supercazzole a chi osi chiedere perché si butti tanto denaro per niente.
Adesso tocca a Matteo Renzi metterci la faccia e dire se ha senso spendere 6,2 miliardi per una ferrovia di una sessantina di chilometri che collegherà il porto di Genova con la ridente Tortona. Dicono che servirà a far defluire meglio i container dal porto di Genova, ma non spiegano perché spendono 60 milioni a chilometro per una ferrovia ad alta velocità: vogliono mandare i container a 300 all’ora? Ecco il quarto cancro: progetti vaghi, approssimativi.
IL TUNNEL SOTTO FIRENZE dell’alta velocità ferroviaria ha un costo previsto di 1,5 miliardi ed è simbolo della progettazione alla speraindio. Tanto che l’inchiesta da cui scaturisce l’arresto di Incalza parte dalla Italferr, società di progettazione di Fs. Nel settembre 2013 hanno arrestato la presidente Maria Rita Lorenzetti, politica ammanigliatissima che si vanta nelle intercettazioni di poter mettere tutto a posto grazie ai rapporti con Incalza. E da mettere a posto c’era un progetto che fa acqua da tutte le parti per un’opera voluta a tutti i costi dopo decenni di dubbi sulla sua fattibilità. L’hanno fermata i magistrati un anno e mezzo fa.
LA ORTE-MESTRE è affetta da tutti i quattro cancri già detti più un quinto, il peggiore: il project-financing, la finzione del finanziamento privato che serve solo a rinviare alle prossime generazioni la presentazione del conto. Come dimostra il caso Brebemi, se si consente ai privati di farsi prestare i soldi da banche che pretendono e ottengono la garanzia dello Stato, è chiaro che il rischio dell’operazione pesa sul contribuente. Se, come nel caso della Brebemi, l’affare va male, lo Stato viene chiamato a pagare tutto. La Orte-Mestre - figlia del centro-destra veneta e della sinistra emiliana guidata da Pier Luigi Bersani - costerà 10 miliardi, due dei quali pubblici. Sugli otto miliardi privati c’è garanzia dello stato? Il promotore Vito Bonsignore (uomo Ncd con amicizie trasversali) giura di no. Ma i documenti che potrebbero rassicurare i contribuenti sono segretati, perché così vogliono le sacre regole del project-financing. Scritte dal loro profeta, Incalza.

il Fatto 21.3.15
Non solo Tav Le vere colpe del ministero
Sprecare miliardi è anche peggio che rubare
di Marco Ponti

professore di Economia dei Trasporti al Politecnico di Milano

Forse non hanno rubato niente. Ma hanno fatto danni economici molto più gravi al Paese, ai contribuenti e agli utenti delle infrastrutture. Consideriamo la “madre di tutti gli sprechi”, l’alta velocità ferroviaria (AV). Le stime variano, ma i sovracosti rispetto ai preventivi sono stati dell’ordine del 100%. C’è da credere che un manager privato che sfori il preventivo di un investimento del 30% sia rapidamente accompagnato alla porta dal padrone furioso, ma non succede lo stesso nel settore pubblico, sembra.
PARTE DI TALI SOVRACOSTI sono frutto di una nobile iniziativa ambientalista: richiedere alle linee AV pendenze e curvature che consentano il transito anche dei treni merci, ha comportato un sovracosto almeno del 30%, così il progetto accanto alla sigla AV ci ha potuto mettere anche AC (per Alta Capacità), a futura memoria. Peccato che treni merci in grado di viaggiare ad alta velocità non esistono. E se ci fossero sfascerebbero i binari. Poi la Regione Toscana, con uno sforzo di fantasia veramente incredibile, ha chiesto ed ottenuto che le gallerie tra Firenze e Bologna consentissero anche il transito di treni merci super-voluminosi (sagoma C++), dilatando ulteriormente, e di molto, i costi per quella tratta.
Se qualcuno però avesse dubbi sull’ordine di grandezza di tali extracosti, esiste la famosa analisi comparativa del Sole 24 Ore tra la linea Milano-Torino, e una analoga linea AV di pianura in Francia (non in Bangladesh): i costi sono risultati quadrupli. Basta vedere gli infiniti sovrappassi stradali, che collegano risaie con altre risaie. Ogni tanto vi transita qualche veicolo. Ma purtroppo la linea ferroviaria è rimasta quasi deserta: vi passa poco più del 10% del traffico che potrebbe sostenere (40 treni al giorno su 330 circa di capacità). E questo con tariffe che coprono probabilmente appena i costi di esercizio della linea, ma nemmeno un euro degli 8 miliardi circa che l’investimento è costato ai contribuenti. Se le tariffe, come per le autostrade, dovessero coprire una quota di qualche consistenza dell’investimento, e quindi essere molto più alte delle attuali, non vi passerebbe nessun treno, a riprova di quanto poco i viaggiatori siano in realtà disposti a pagare per quel servizio.
Ma nessuno ha risposto per questo folle spreco dei nostri soldi. Anche le autostrade deserte sono uno spreco, ma nei peggiore dei casi gli utenti ne pagano il 60%, che è diverso dallo 0% per la linea di AV presa ad esempio. Però adesso anche nelle autostrade, meno micidiali per i contribuenti, provano a spremere gli utenti rendendo a pedaggio strade che prima non lo erano, come la Tirrenica, e che hanno un traffico modesto.
NEL CASO DI TUTTE LE INFRASTRUTTURE, occorre fare sempre congetture, rischiando di prendere cantonate: le ferrovie non hanno obblighi di fare analisi trasparenti ex-ante, né economiche e neppure finanziarie (toccherebbero al ministero dei Trasporti, che però non le fa). Ma non fa neppure analisi ex-post, per analizzare come i soldi dei contribuenti sono stati spesi. E i piani finanziari delle concessioni autostradali sono addirittura secretati per legge. Queste sono responsabilità gravissime del ministero dei Trasporti. Da sempre: la situazione non è cambiata da quando vi lavora l’ingegner Ercole Incalza, che, si ripete, forse non ha rubato nemmeno un euro.
Guardiamo ancora i numeri: solo per la linea AV Milano-Torino sono stati sprecati 6 miliardi (probabilmente di più: dato il traffico, bastava velocizzare la linea esistente). La letteratura sulle tangenti parla di un massimo del 10% (a chi scrive, ex-consulente delle ferrovie, era stato detto in via confidenziale un più modesto 6%, ma era la sola quota per i politici). Sarebbero 800 milioni di tangenti. Molto meglio allora le tangenti che le progettazioni sovradimensionate al di là di ogni logica. Se poi va male, i corrotti a volte li prendono.
Chi decide, pianifica, finanzia e approva grandi opere inutili non dovrà rispondere mai, farà anzi probabilmente carriera, e si farà legittimamente molti amici, tra i costruttori e nella sfera politica, che serve ai tecnici per passi successivi di carriera. Ma il consenso e le amicizie si estendono anche alla sfera sindacale, che ha sempre appoggiato grandi spese, si spera solo per motivi occupazionali.
BUTTAR VIA soldi dei contribuenti per comprarsi il consenso è storia antica: in America ha persino dei nomi tecnici: “pork-barrel policy”, “revolving doors”, “log-rolling”. Ma buttarli via quando son scarsi, e servono a bisogni sociali essenziali, è un po’ più difficile da accettare. L’ex ministro Maurizio Lupi, sicuramente in buona fede, ha dichiarato: “Per le grandi opere non serve che ci sia traffico, si fanno e poi il traffico arriverà”. Era un convegno del Pd sulle ferrovie. Applausi scroscianti.

Corriere 21.3.15
La lettera di Perotti a Lotti su carta intestata del ministro
Le pressioni per i fondi. Burchi a Sposetti: a quella nomina ci penso io
di Fiorenza Sarzanini


FIRENZE Una lettera su carta intestata del ministro Maurizio Lupi indirizzata al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti. I carabinieri del Ros l’hanno trovata nel trolley di Stefano Perotti nella perquisizione dopo l’arresto dell’imprenditore, in una cartellina della Struttura tecnica di missione. È una sollecitazione affinché Palazzo Chigi chieda al Cipe lo sblocco dei finanziamenti per la costruzione di numerose opere. In tutto 9 miliardi di euro per l’apertura di diversi cantieri, indicati in un elenco allegato alla missiva. «Caro Luca», si legge all’inizio della lettera e poi si elencano i motivi che rendono indispensabile un intervento per ottenere i soldi necessari all’avvio dei lavori. Quanto basta, secondo l’accusa, per confermare che erano proprio Perotti e Incalza a gestire tutti gli affari del titolare delle Infrastrutture, occupandosi di preparare anche le comunicazioni ufficiali con il vertice del governo.
Del resto sono le stesse telefonate intercettate a dimostrare il ruolo chiave di Incalza all’interno del ministero anche diverse settimane dopo essere andato in pensione. Facendo riemergere personaggi che erano stati coinvolti in passato in inchieste sull’Alta velocità come il faccendiere Pierfrancesco Pacini Battaglia e l’ex ministro dei Trasporti Claudio Signorile.
«Che devo fare?»
Il 22 dicembre scorso Lupi «chiede a Incalza che cosa deve fare una volta che è stato approvato nella Legge di stabilità l’emendamento che conferma i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa: “Cioè operativamente cosa devo fare? Ma devo spostarla? Devo metterla? Ma voglio dire, come facciamo a dire che pro tempore il responsabile ...?”». Un aiuto per i rapporti con il Cipe Lupi lo sollecita anche il 24 gennaio, quando Incalza è ormai fuori dal ministero.
Lupi : non è che puoi stare in vacanza tu... Senti una cosa ma per il Cipe del 27 pare che ci sia... Noi abbiamo tutto dentro? La 106,tutto?
Incalza : no, abbiamo soltanto le cose che erano andate al pre Cipe il 10 dicembre... un mese fa...
I due continuano ad esaminare tutte le pratiche. Lupi chiede chiarimenti, suggerimenti. Lo stesso accade qualche giorno dopo quando «Marco Lezzi della segreteria del ministro chiede a Incalza, per conto dei ministro, di confermargli i nomi dei commissari di 14 Grandi Opere». E incalza risponde: «Se me li leggi tutti io confermo uno per uno, dai!»
Le nomine di Sposetti
A leggere le intercettazioni si comprende come il ministero sia terra di conquista. Il 14 febbraio 2014 l’ex presidente Italferr Giulio Burchi dice all’ex tesoriere ds Ugo Sposetti: «Senti magari cercati un posto in un ministero che ci andiamo a riposare». Annotano i carabinieri: «Parlano di “nomine che dobbiamo fare” e si riservano di esaminare una lista che deve essere consegnata a Burchi da un avvocato. Burchi rappresenta al senatore Sposetti i problemi per il conferimento dell’incarico a Massimo Marchignoli specificando di non poterlo inserire in un collegio sindacale in mancanza della laurea ed aggiunge: “boh, adesso gli trovo un’altra roba”. Il giorno dopo Sposetti dice a Burchi “ lì dove ci vuole la laurea perché non ci mettiamo Luciano”. E Burchi: “No, ma a Luciano gli voglio trovare un’altra roba, ma a Marchignoli comunque qualcosa gli trovo”».
Gli amici socialisti
Quanto potere abbia Incalza si comprende anche dalla rete di relazioni che continua a gestire. Scrivono i carabinieri del Ros: «Dall’attività di indagine è emerso che l’ex ministro Claudio Signorile e il figlio Jacopo Benedetto, sono tuttora in rapporti, per vicende riguardanti appalti pubblici, sia con Incalza e Pacella (ora ai domiciliari) che con Perotti. In particolare sono state rilevate comunicazioni, circa l’interesse di Jacopo Benedetto Signorile di entrare, insieme a Perotti, nella direzione lavori per la realizzazione dell’autostrada Roma Latina (opera da 2,8 miliardi di euro, di cui 970 di contributo pubblico, progetto preliminare approvato dal Cipe nel 2004) su cui l’Anac presieduta dal dottor Raffaele Cantone, nel novembre 2014, ha accolto i rilievi segnalati da Ance Lazio e Acer (costruttori di Roma) in quanto limitativa per la concorrenza delle piccole imprese». Non solo. Annotano ancora gli investigatori: «Il 26 gennaio 2015 Pacini Battaglia contatta Perotti. Dal tenore della conversazione si trae che fra i due interlocutori vi è un rapporto di pregressa conoscenza se non di amicizia».
Le ville di Perotti
Per i pm il «sistema» prevede che Incalza individui le gare da «pilotare» assegnandole a quelle aziende che accettano una maggiorazione almeno dell’1% e la nomina di Perotti come direttore dei lavori. Incarichi che avrebbero fruttato al manager milioni di euro. È la moglie ad elencare in una telefonata con il figlio l’entità dei beni di famiglia. Annotano i carabinieri: «Christine Mor riferisce al figlio che la loro casa fiorentina non ha prezzo, “casa nostra non ha prezzo amore, non ha prezzo veramente. È una cosa fuori da (ride). Anche casetta tua, sai però aspetta, Firenze sente di più la crisi delle altre città quindi casa di Corinne a Roma con la crisi adesso che c’è puoi chiedere 2, senza crisi si può arrivare a 3 , 2 e mezzo, la tua oggi a Firenze sta a uno e mezzo, c’è un milione di differenza secondo me”». Al figlio dice poi che «l’altra casa fiorentina a lui intestata è stata comprata per un milione e 100mila euro cui sono stati aggiunti 200mila euro di lavori, mentre la casa romana dell’altra figlia Corinne è stata acquistata per un milione e 300 mila euro e che la tenuta di Montepulciano è costata 2 milioni e 600 mila».

Corriere 21.3.15
Intercettazioni, dubbi di Bersani
Dopo il caso politico a sinistra si apre il caso di coscienza, perché l’addio di Lupi costringe il Pd ad affrontare il nodo intercettazioni.
di Francesco Verderami


Tormenti a sinistra sulle intercettazioni Bersani: così si può impallinare chiunque
SEGUE DALLA PRIMA Da più di vent’anni l’orecchio che serve per sgominare criminalità e malaffare è diventato (anche) un micidiale strumento mediatico che s’insinua nella vita degli altri, cioè degli incolpevoli. E sarà pur vero che per ragioni di «opportunità politica» un ministro condannato senza essere indagato ha preferito rimettere il mandato, «ma con questo sistema si impallina chiunque» dice Bersani, che invita il governo a «risolvere la questione. Serve presto la riforma, perché così non va». È evidente come le intercettazioni siano un’arma a doppio taglio, capaci persino di minare il gioco democratico e i diritti individuali dei cittadini.
«Sia chiaro non vanno inibite, figurarsi», l’ex leader del Pd tiene a sottolinearlo: «Ma se non hanno rilevanza penale, se riguardano persone che non sono indagate?». Ecco la domanda posta indirettamente a quei compagni di partito che ieri sui giornali si ergevano a comminare sentenze, impegnati nella selezione della razza. Bersani, senza citarli, li esorta ad abbandonare luoghi comuni e pelose ipocrisie, «perché il problema non è solo il caso di Lupi: in fondo i politici possono difendersi, in Parlamento come sui media. Ma la gente normale che ogni giorno finisce in pasto all’opinione pubblica nelle gazzette locali? Chi ne difende il buon nome?».
La vita degli altri è la vita di tutti, solo così si comprende la dimensione del problema, gli effetti irreversibili che può provocare nella vita quotidiana e il caso di coscienza che ieri ha aperto nel Pd. Certo Speranza, che da capogruppo democrat è intervenuto al dibattito della Camera sulle comunicazioni di Lupi, difende la linea del governo: «Non c’è una visione giustizialista, basti pensare alle norme appena varate sulla responsabilità civile dei magistrati. Però è evidente e oggettivo l’abuso mediatico delle intercettazioni, a cui bisogna porre rimedio accelerando la riforma. Non si può più assistere impotenti a questo gioco al massacro».
Si vedrà se sono solo lacrime di coccodrillo, se il problema verrà presto accantonato in attesa del prossimo caso. È certo che il Parlamento, in passato, è stata la fiera delle occasioni perse: dai tempi dell’ultimo governo Prodi, quando la riforma del guardasigilli Mastella non vide la luce dopo essere stata approvata a larga maggioranza alla Camera, fino ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, che stracciò il compromesso stipulato nel centrodestra dal ministro della Giustizia Alfano. Nessuno insomma può scagliare pietre, tutti sono responsabili di inadempienze.
Resta da vedere se l’andazzo proseguirà con il governo Renzi. Il responsabile giustizia del Pd, Ermini — fedelissimo del premier — sostiene che il provvedimento in cui è inserito il nodo della «riservatezza» nell’ambito delle intercettazioni «sarà all’esame dell’Aula di Montecitorio tra la fine di maggio e i primi di giugno». Senza contare che il disegno di legge dovrebbe poi passare al Senato, la previsione è considerata «molto ottimistica» anche nel governo, a fronte di un problema che il dirigente democrat riconosce essere «di non facile soluzione».
E mentre tutto si aggroviglia in dibattiti dove i fronti contrapposti si scontrano impugnando norme diverse della Costituzione, le inchieste continuano a essere inzeppate di intercettazioni che — per citare il Foglio — sono «usate dai magistrati per descrivere il “contesto”», sono cioè «un modo per sputtanare gli estranei alle indagini senza pagar pegno». Come se la vita degli altri non fosse la vita di tutti, come se l’ultimo Muro non dovesse cadere mai. Come se non si capisse cosa vuol dire Bersani: «Con questo sistema si impallina chiunque». Non solo nel Palazzo.

Corriere 21.3.15
Polemiche sul sito che aiuta chi vuole l’eutanasia


L’associazione Luca Coscioni sceglie la via dell’illegalità contro la stasi del Parlamento che non ha approvato una legge sul fine vita. Dibattiti infuocati quando ci sono casi come quelli di Piergiorgio Welby o di Eluana Englaro, poi silenzio tombale. Fino a nuovi casi di eutanasia non tornano ad infiammare il dibattito. Per questo l’associazione, a due anni dalla presentazione di una legge di iniziativa popolare che non è mai stata discussa, si è mobilitata in un’azione di disobbedienza civile. Protagonisti il radicale Marco Cappato, Mina Welby e Gustavo Fraticelli, con l’apertura del sito www.soseutanasia.it che offre informazioni e supporto logistico a chi vuole recarsi in Svizzera per l’eutanasia. Per la legge italiana è un reato: concorso in omicidio del consenziente. E questo è il motivo per cui c’è chi si sta già muovendo per far chiudere il sito dalla magistratura.

Corriere 21.3.15
I bambini abbandonati
L’occasione mancata delle adozioni ai single
di Susanna Tamaro


Fa una certa impressione vedere come ormai una singola battuta o un’affermazione — peraltro pienamente condivisibile dalla maggior parte dell’umanità — come quella di Domenico Dolce possa scatenare una furia mediatica capace di annientare ogni tipo di resistenza e di rendere timoroso chiunque abbia in mente di affrontare l’argomento da un punto di vista diverso. Si tratta di un incendio che divampa e si diffonde come quelli che si scatenano nelle aride terre di fine estate, quando il vento spinge le fiamme a divorare ogni cosa.
Bene ha fatto dunque Aldo Busi, su queste pagine, a denunciare quella che è una vera e propria dittatura mediatica, affrontando con coraggio e lucidità il tabù degli uteri in affitto. Personalmente, come essere umano e come donna, sono sempre stata inorridita da questo termine. Un utero in affitto, come un bungalow o una macchina in affitto. Peccato che non tutti ricordino, come ha ben detto Busi, che intorno all’utero c’è un essere umano, vale a dire una donna. Una donna che, nella stragrande maggior parte dei casi, si trova in condizioni di difficoltà e che è costretta a vendere la parte più intima e sacra della sua vita per poter sopravvivere. Naturalmente, chi usufruisce di questo «servizio» si trincera dietro l’animo nobile del benefattore. Quei soldi, in fondo, toglieranno una famiglia dalla fame, si sostiene.
Personalmente credo che lo sfruttamento del corpo di un altro essere umano per i propri fini non rientri propriamente in questa categoria ma, piuttosto, in quella dello schiavismo. Se ci fosse davvero la volontà di aiutare queste donne, ci si potrebbe impegnare in un piano di istruzione o di microcredito per permettere una reale modifica delle loro condizioni di vita, piuttosto che comprare il loro utero. In realtà, il ruolo fisiologico in cui questo ormai sempre più diffuso movimento d’opinione vuole relegare la donna non è molto diverso da quello di certi pesci abissali dove — in questo caso specifico il maschio — anziché avere un’identità propria, si trasforma in una minuscola escrescenza sul corpo della femmina per poter fornire i suoi spermatozoi.
Dunque la discussione non è tanto tra ciò che è progressista e ciò che retrogrado e oscurantista, ma piuttosto su ciò che è umano e ciò che rischia di non esserlo. In questo contendere, inoltre, si assiste a un curioso fenomeno. Tutto ciò che la scienza ci ha spiegato negli ultimi decenni, infatti, — il profondo dialogo che avviene nei nove mesi tra madre e figlio e tra il nascituro e l’ambiente circostante, dialogo che è fondante per lo sviluppo e l’equilibrio dell’essere umano — viene cancellato in nome di un sentimentalismo onnipotente convinto di poter annullare, in virtù della sua stessa forza, tutti gli ostacoli. Selezionando le caratteristiche della donatrice, si pensa di aver fatto il passo più importante, ignorando così la millenaria memoria del Dna e i fattori ereditari che si porta dietro.
Certo, i bambini quando nascono sono tutti deliziosi, ma quei bambini un giorno cresceranno e, a differenza dei cuccioli di altre specie, avranno un piccolo problema, quello di interrogarsi sulla loro origine. A chi appartiene questo naso, e questi occhi? Da dove vengono queste inclinazioni che mi rendono diverso da tutti quelli che mi circondano? In questo universo dominato dalle tecnoscienze, non si prende mai in considerazione che l’essere umano è tale in quanto vive nella dimensione della memoria. E memoria vuol dire conoscere la propria genealogia. Privare volontariamente un essere umano della sua genealogia è un atto di grave azzardo sul quale forse non si è riflettuto abbastanza. Un giorno quella persona saprà di essere venuta al mondo in seguito a un contratto commerciale. Per il principio di non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te stesso, penso che scoprire questa realtà possa essere piuttosto traumatizzante. Io non vorrei venire a sapere, da adulta, che una brillante studentessa ha venduto il suo ovulo, dunque metà di me stessa, in cambio di denaro, e che una povera donna, in qualche slum del terzo mondo, sempre per denaro mi ha portato in grembo per nove mesi.
Questo scontro epocale — in cui per stare dalla parte di ciò che è davvero umano ci vuole sempre più coraggio — ha finito per creare delle barriere di ottusità mentale da entrambe le parti che forse è ora di cominciare ad affrontare e a divellere. La battaglia non è, come si vuol far credere, tra progressisti e integralisti reazionari, ma piuttosto tra chi è consapevole della profondità e della complessità dell’essere umano — e crede quindi che alcuni principi vadano tutelati — e chi invece pensa che il sentimento e il desiderio individuali siano la via maestra per abbattere qualsiasi ostacolo.
Questa inesausta schermaglia ha fatto già delle vittime sul campo, tra cui la più grave è stata, a mio avviso, quella recentemente avallata dal governo di confermare il divieto di adozione per le persone singole. Scelta fatta soprattutto per evitare lo spettro dell’adozione da parte di persone eventualmente omosessuali, come se le coppie dello stesso sesso fossero formate, per principio, da esseri depravati, disturbati e incapaci di offrire amore. Il che naturalmente non è. Anzi, credo proprio che — grazie al percorso di sofferenza che spesso porta con sé questa condizione nella nostra società — gli omossessuali abbiano sviluppato una disponibilità e una ricchezza affettiva a volte più profonde di chi queste asperità non ha mai dovuto affrontare. Non bisogna dimenticare che, prima delle inclinazioni sessuali, c’è sempre la persona. E la persona, o è etica o non lo è, o sa donarsi o vive di proiezioni narcisitiche.
Aprire l’adozione ai single avrebbe dato la possibiltà a tanti uomini e a tante donne di arricchire la loro esperienza umana con la dimensione del dono genitoriale, prendendosi cura di bambini che sono già nati e che languono in qualche tetro orfanotrofio. Attualmente ci sono al mondo 162 milioni di bambini abbandonati, mentre in Italia ne sono disponibili, da subito, 300. Credo che ognuno di loro sarebbe molto più felice di crescere con una madre sola, con un padre e uno zio, o con due zie, con dei nonni e dei cugini piuttosto che nella più efficiente e linda delle case famiglia. Certo, sarebbe ottimale avere un padre e una madre, che magari si vogliano anche bene, ma la cronaca ci dice che questa, purtroppo, non è più la regola, così come l’eterosessualità non è più di per sé garanzia di stabilità ed equilibrio educativo, considerando la quantità sempre crescente di crimini compiuti in famiglia.
È vero che il discorso della mancanza di genealogia si può applicare anche ai bambini adottati, ma — differentemente dai figli concepiti con le tecniche più moderne — loro sono già su questa terra, hanno già bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro, offrendo loro casa e amore.
Un mondo e una politica che avessero davvero a cuore l’umano si batterebbero dunque per estendere — e soprattutto facilitare nei tempi, nei modi e nei costi — le pratiche per poter permettere le adozioni anche ai single. Pratiche che ormai, grazie alla crisi, alle difficoltà burocratiche, ai costi proibitivi e all’introduzione dell’eterologa, hanno subito in Italia un crollo verticale. Certo in questo caso, il bambino non nascerebbe in casa e magari arriverebbe grandicello, con un bello zainetto di problematiche sulle spalle, ma non è proprio questa l’idea della maternità e della paternità? Poter accogliere ciò che è piccolo e fragile, cercando di aiutarlo, attraverso il dono di sé, a diventare grande e forte?

Il Sole 21.3.15
Istruzione. La relazione tecnica del Ddl: in totale 100.701 assunti
Scuola, saranno 49mila gli insegnanti «aggiuntivi»
di Claudio Tucci


ROMA L’organico dell’autonomia, quei docenti “aggiuntivi” che serviranno a potenziare le attività didattiche, partirà con circa 50mila posti (48.812, per l’esattezza). Altre 42mila “cattedre” copriranno il turnover e i posti vacanti e disponibili oggi assegnati ai supplenti. Si arriverà alle 100.701 stabilizzazioni annunciate dal Governo anche con l’immissione in ruolo della terza e ultima tranche di 8.895 insegnanti di sostegno prevista dal decreto Carrozza.
È la relazione tecnica al Ddl «Buona Scuola», messa a punto dal ministero dell’Istruzione (ma non ancora bollinata dal Mef), a svelare tutti i numeri del maxi-piano assunzionale, che costerà all’Erario 544,18 milioni nel 2015, 1,8 miliardi nel 2016, per salire poi gradualmente fino a 2,2 miliardi nel 2025 (somme coperte dal fondo da 1 miliardo quest’anno, e 3 miliardi a regime istituito dalla legge di Stabilità 2015). La mega-infornata di precari, il decollo dell’organico dell’autonomia e il completamento della stabilizzazione dei professori per gli studenti con disabilità farà salire il personale docente di ruolo della scuola italiana a quota 762.274 unità (quest’anno il solo organico di diritto conta 600.839 posti).
Una fetta piuttosto ampia dei circa 49mila insegnanti “aggiuntivi” viene collocata alle superiori (22.889 cattedre). Il complessivo organico dell’autonomia servirà a rafforzare le esigenze curriculari, extracurriculari e organizzative che le scuole esprimeranno con i piani triennali dell’offerta formativa. I presidi potranno utilizzare questi professori in più, per esempio, per coprire supplenze temporanee fino a 10 giorni.
La relazione tecnica evidenzia poi come la Carta per l’aggiornamento e la formazione del docente (il voucher da 500 euro annui) costerà 381,1 milioni (ma la produzione e diffusione delle carte non avrà spese, sostiene il Miur, perché il servizio sarà affidato in concessione a un gestore mediante stipula di un contratto di sponsorizzazione gratuita).
Per la formazione in servizio dei professori (resa obbligatoria) si mettono sul piatto 40 milioni (per ciascun docente quindi è previsto un costo di formazione pari a 52,20 euro). Per innovazione digitale e didattica laboratoriale sono stanziati 90 milioni, coperti pure dagli «ingenti risparmi di spesa per i servizi di pulizia» (a seguito del passaggio alle convenzioni Consip). La relazione tecnica conferma, poi, lo stop ai contratti a termine oltre i 36 mesi, anche non consecutivi (per prevenire nuove condanne giudiziarie).
Novità invece sulle misure “fiscali”. Per lo “school bonus” (l’agevolazione sulle erogazioni dei privati alle scuole) vengono previsti 7,5 milioni di crediti d’imposta per il 2016, per poi salire a 15 milioni nel 2017. Per la detraibilità, invece, del 19% delle spese sostenute per le scuole paritarie (fino alle medie e nei limiti di 400 euro annui) si stima un ammontare totale di detrazione di circa 66,4 milioni (il calcolo si basa sui dati Miur dei frequentanti 2013/2014: 622mila alunni all’infanzia, 186mila alla primaria e 66mila alle medie).

La Stampa 21.3.15
Duemila soldati, aerei e otto navi
Ecco lo scudo italiano anti-jihad
Parte “Mare Sicuro”: in prima linea fucilieri del San Marco, caccia e Predator
Grazia Longo


In prima linea nella lotta al terrorismo islamista, l’Italia si sta attrezzando per monitorare il Mediterraneo, prevenire attentati, intervenire in situazioni d’emergenza. Un lavoro capillare e ad ampio raggio, in sintonia con l’invito dell’Unione Europea ad arginare l’allarme attentati.
Incursori della Marina militare, compagnie di fucilieri del San Marco, navi (alcune delle quali dotate di attrezzature sanitarie ed elicotteri), aerei senza pilota Predator dell’Aeronautica per la sorveglianza dal cielo. Ecco le risorse che il nostro Paese intende mettere in campo, con l’operazione «Mare sicuro», trasformazione di «Mare Aperto 2015» già in corso di fronte alla polveriera delle coste libiche.
Vie di comunicazione
I numeri, argomento sempre delicato nelle stanze degli Stati maggiori, sono ancora in via di definizione. Esistono comunque già dei punti certi. Tanto per intenderci: ai 700 uomini già impegnati nel Mediterraneo se ne aggiungeranno altri 1000, altre 4 navi, poi, affiancheranno l’attività delle 4 attualmente utilizzate. E ancora: sul territorio nazionale sono pronti tra i 5 e 7 dispositivi aerei in grado di intercettare velivoli nemici. 
Con molta probabilità il rafforzamento navale comprenderà una nave da sbarco della classe San Marco o San Giusto, una o più fregate e cacciatorpedinieri. Del resto, il «potenziamento del dispositivo aeronavale dispiegato nel Mediterraneo centrale» era stato annunciato l’altro ieri in Parlamento dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, dopo l’attentato in Tunisia. 
Il ministro aveva sottolineato l’esigenza di «ulteriori unità navali, team di protezione marittima, aeromobili ad ala fissa e rotante, velivoli a pilotaggio remoto e da ricognizione elettronica» in aggiunta a quanto ordinariamente fatto, «tanto per la protezione delle linee di comunicazione, dei natanti commerciali e delle piattaforme off-shore nazionali, quanto per la sorveglianza delle formazioni jihadiste». Aveva quindi precisato che all’operazione «è stato dato il nome di «Mare sicuro», anche per analogia semantica con quella nazionale «Strade Sicure». 
Reazione rapida
Le nostre «sentinelle» di fronte alle coste del Nord Africa hanno l’obiettivo di favorire un intervento tempestivo in caso di necessità per la tutela di connazionali in pericolo e per la sicurezza di infrastrutture di interesse nazionale come aziende e piattaforme petrolifere italiane presenti nelle aree a rischio.
Il piano strategico di «Mare sicuro» sarà delineato nel «Libro bianco» che verrà sottoposto ai primi di aprile al Consiglio superiore della Difesa (presieduto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella) per poi essere presentato in Parlamento. Nel frattempo prosegue l’azione della diplomazia e della politica italiana, in collaborazione con gli altri Paesi europei e l’Onu, per monitorare quello che succede in Libia. Quanto mai prezioso è infatti l’accordo tra le opposte fazioni di Tripoli e Tobruk. Ma l’attentato al museo Bardo di Tunisi ha complicato la situazione, di qui la necessità di organizzarsi al più presto da un punto di vista militare. E l’Italia non si tira indietro.

il manifesto 21.3.15
Altro schiaffo di Netanyahu a Barack Obama
di Michele Giorgio

qui

Corriere 21.3.15
Bruxelles avverte: emergenza a Gerusalemme


Il dossier è stato scritto e inviato a Bruxelles prima della rielezione di Benjamin Netanyahu. Eppure i suoi contenuti — e la decisione di passarli proprio in questi giorni al quotidiano Guardian — rappresentano un avvertimento al primo ministro uscente e rientrante. Stilato dai capi delle missioni diplomatiche europee a Gerusalemme, descrive uno stato di emergenza nella città, dove «il ciclo di violenze — mai a questo livello dalla fine della seconda intifada nel 2005 — rende sempre più impraticabile la soluzione dei due Stati». Il documento ricorda gli scontri tra la polizia e i giovani arabi delle zone Est, gli attentati dei cosiddetti «lupi solitari» palestinesi. Considera le decisioni del governo israeliano la causa principale della «polarizzazione» di Gerusalemme: dalla «costruzione sistematica di nuove abitazioni nelle aree più sensibili», alle «tensioni causate» dai tentativi degli estremisti ebrei di pregare sulla Spianata delle Moschee (foto) . Israele considera i quartieri arabi, conquistati nella guerra del 1967, come parte della «capitale indivisibile» e respinge la definizione di «illegali» per gli insediamenti. Il rapporto suggerisce sanzioni contro «i coloni violenti» e limiti ai prodotti provenienti dalle colonie. In campagna elettorale Netanyahu ha ritrattato il discorso all’università Bar-Ilan nel 2009, quando aveva appoggiato la soluzione dei due Stati: «Se sarò rieletto non permetterò mai la nascita di uno Stato palestinese». Le giravolte non sono finite. In un’intervista dopo il voto all’emittente Msnbc è ritornato al 2009, con una precisazione: «Adesso in Medio Oriente non ci sono le condizioni». Ad americani ed europei non basta. Obama ha chiamato il leader israeliano per complimentarsi e il portavoce della Casa Bianca ha detto che la telefonata non è servita a chiarire la posizione di Netanyahu. Un giornalista lo ha incalzato: «Perché non prenderlo semplicemente in parola?». Risposta: «Quale?».

La Stampa 21.3.15
In piazza l’orgoglio della Tunisia
“Batteremo l’Isis come i colonialisti”
Manifestazione oceanica. Il presidente Essebsi: uniti come i nostri padri
di Francesca Paci


«Non vinceremo se non unendoci contro il terrorismo come i nostri progenitori contro i colonizzatori». Il discorso del presidente tunisino Beji Caid Essebsi risuona nel Paese mentre le famiglie affluiscono in avenue Bourghiba per il 59° anniversario dell’indipendenza dalla Francia, la data in cui si celebra l’abrogazione di quel trattato del Bardo firmato nel 1881 proprio nell’edificio colpito mercoledì dai terroristi consacrati allo Stato Islamico.

A tre giorni da quello che i politici hanno definito l’11 settembre della Tunisia la fanfara della banda infiocchettata di bianco e rosso non riesce a coprire l’eco dei kalashnikov. I feriti cominciano a rimettersi, ma le 23 bare e la raffica di arresti «legati alla cellula del Bardo» ricordano quanto minata sia la strada della più resistente tra le primavere arabe che, pur con il suo 16% di disoccupazione, si batte per impedire la saldatura tra il malcontento economico e le proprie conflittuali rivendicazioni identitarie.
Sì perché oggi, nella piazza stracolma di forze di sicurezza, i tunisini sono tutti contro il terrorismo e tutti chiedono una legge dura contro gli jihadisti. Ma la piazza non è omogenea: le due anime del Paese, chi ha votato per il partito laico Nidaa Tounes nonostante le connessioni col vecchio regime e chi per i Fratelli Musulmani di Ennahda, marciano distanti quanto distanti sono il look occidentale dei primi dall’orgoglio religioso degli altri.
Le due anime in piazza
«Je Suis Bardo» ripetono gli studenti Marwan, Yassin, Chai, Walid, il più vecchio ha 20 anni, tutti hanno partecipato alla rivoluzione del 2011. Lo slogan diventato famoso all’indomani dell’attentato al settimanale francese «Charlie Hebdo» è per questi giovani in jeans il modo di connotarsi attraverso cosa denunciano. Come la 30enne Neila Khatteche, che impugna il foglio «Il terrorismo è prodotto in Tunisia, loro vogliono la morte quanto noi vogliamo la vita», o il coetaneo Chais, convinto che contrariamente a quanto pensano «loro» l’identità tunisina risalga «alla Cartagine pre-islamica». Il «loro» a cui allude questa parte di piazza fiera dell’eredità culturale di Bourghiba (ma non di Ben Ali) non è però riferito solo a Yassine Laabidi e Hatem Khachnaoui, i killer del Bardo. A precisarlo, fendendo la folla che gli stringe la mano, è Abdelmajid Belaid, fratello del leader dell’opposizione del Fronte Popolare ucciso nel 2013: «Diciamo no al terrorismo ma diciamo anche che Ennahda ha dato la copertura ideologica alla radicalizzazione».
Noi versus loro. Nella sorvegliatissima sede di Ennahda il leader politico e spirituale Rachid Ghannouchi, di ritorno dall’incontro del presidente della Repubblica con i partiti politici, scuote la testa tenendo lo sguardo sulla scrivania: «Il Paese diviso? È un fenomeno che esiste da tanto ma noi abbiamo cercato di evitare la paralisi focalizzandoci sull’unità nazionale. In realtà c’è un piccolo gruppo di estrema sinistra, il Fronte Popolare, che noi avremmo voluto nel governo ma che vuole invece Ennahda fuori da qualsiasi atto nazionale. L’islam è la religione del popolo e non di un singolo partito».
Gli avversari accusano Ennahda di aver flirtato con l’estremismo al punto che è spuntata una foto dell’alto dirigente del partito Abdelfattah Mourou accanto a Khachnaoui, uno dei due killer del Bardo con presunte passate frequentazioni con Ennahda. «Non siamo stati tolleranti con l’estremismo tanto da dichiarare Ansar al Sharia gruppo terroristico e quella foto poi, è un falso» – taglia corto Ghannouchi. Ma, chiosa, «anche se da giovane avesse simpatizzato per il movimento il fatto che abbia poi lasciato significa che ha trovato un’altra strategia».
La primavera
La strada della Tunisia è in salita, lo sa bene l’intelligence che scopre come dalle falle nella sicurezza apertesi dopo il 2011 filtri un vento gelido. Prima in piazza per l’indipendenza, oggi di nuovo contro il terrorismo. Ma sia pur sentendosi diversi, i tunisini, quelli che bevono vino Magon al ristorante Andalus e quelli che s’inginocchiano alla moschea della Medina Hammouda Pacha, spartitraffico tra il suq turistico oggi deserto e quello locale affollatissimo, sono d’accordo sul domani: chi attenta alla rivoluzione del 2011, «loro» no pasaran.

Repubblica 21.3.15
Tra i ragazzi della Primavera
“Non siamo dei fanatici per noi l’Islam vuol dire libertà”
di Paolo Griseri


TUNISI LE MAJIORETTES suonano la loro marcetta indossando i pantaloni, simbolica immagine di compromesso tra le due sponde del Mediterraneo. Al corteo che celebra i 59 anni dall’indipendenza lo slogan è scritto in francese: «Né la Tunisia né l’Islam sono il terrorismo». Marwan, Rued, Walid, Chaima e Maroua sperano che quello slogan sia vero. Sono i ragazzi della primavera di Tunisi, studiano all’università, posano in gruppo per i fotografi occidentali e in gruppo gridano la loro speranza: «Una Tunisia libera, libera dall’ideologia».
Quello che nei paesi della sponda nord del grande mare si chiama estremismo islamico, islam radicale, per Marwan e i suoi amici è «l’ideologia». Voi studiate giurisprudenza all’università. Conoscete persone che aderiscono all’ideologia? Qual è la loro forza? «Sono disperati, sono una piccola minoranza», dice Chaima. E aggiunge «gente frustrata». L’ideologia però si fa forte della componente religiosa. «La vedi quella chiesa in fondo alla strada? È la cattedrale cristiana di questa città, fatta costruire dai francesi durante il protettorato. Tutte le religioni possono essere utilizzate per giustificare degli atti di ferocia. Io sono musulmano, noi siamo un gruppo di amici musulmani. E noi tutti speriamo che questo paese possa essere un luogo di incontro delle religioni. Questo è il nostro sogno di indipendenza».
La manifestazione di avenue Bourghiba, il cuore pulsante di Tunisi, la via dedicata a chi ha saputo guidare la rivolta per la libertà e per la fine del colonialismo, è uno stridente contrasto tra la festa per famiglie, la protesta contro il precipizio del jihadismo, l’orgogliosa rivendicazione della propria autodeterminazione. Ci sono i palloncini rossi e bianchi, i colori della bandiera nazionale, i blindati con i poliziotti in passamontagna e il mitra imbracciato, gli anziani che hanno rispolverato il vestito della festa per ricordare l’eroica rivolta che rispedì a casa i francesi.
Per Mohamed Dhifi, 62 anni, abito marrone, cravatta a pois e giornale sotto il braccio, «la festa di oggi ricorda che da quasi sessant’anni siamo autonomi». Per lui la parola chiave è autonomia «perché vuol dire che i problemi nostri abbiamo il privilegio e il dovere di risolverli da soli ». Anche quello del terrorismo? «Il terrorismo è una piaga che non riguarda solo la Tunisia. È un problema di tutti, ed è anche un problema nostro». Come si risolve secondo lei? «Semplice, con una guerra. C’è solo la guerra che può annientare dei fanatici che pensano di conquistarsi il paradiso ammazzando la gente».
Il cartello di Amina ricorda che la storia della Tunisia è lunga 3.000 anni e che va difesa. È arrivata in piazza con il marito, Khalil, che tiene sulle spalle Medhie, la figlia di tre anni. Come si difende la Tunisia? La ricetta di Khalil è molto diversa da quella dell’anziano Mohamed. «La guerra ai fanatici? Ma quale guerra? Questi disperati sono diventati così perché arrivano dalle città del sud. La loro miseria è la conseguenza delle scelte della dittatura di Ben Alì che ha lasciato l’entroterra nella povertà privilegiando solo le città della costa».
Ma basta questo a spiegare perché un ragazzo come Yassine Laabidi, 21 anni, uno che aveva la stessa età di Marwan, Roued, Walid, Chaima e Maroua, decide un mercoledì mattina di imbracciare un mitra, caricarsi un sacco di munizioni e andare a cercare il paradiso di Allah al museo del Bardo? Khalid, direttore marketing di una società con sede a Tunisi, sbotta: «Io ero in questa piazza nei giorni della rivolta del 2011, nella primavera che ha cacciato la dittatura. Siamo stati in strada giorni e giorni e non ricordo un solo slogan religioso. Pensavamo che anche il nostro Paese potesse diventare un luogo di giustizia sociale e di libertà».
Khalid è un tipico esponente della borghesia cittadina. Quella che teme più di altri settori sociali il precipitare della Tunisia nel vortice del Califfato. «Ci sono tanti interessi economici legati al petrolio libico che lavorano per consegnarci ai fanatici dell’ideologia», dicono i ragazzi dell’università. Quella vittoria sarebbe un colpo durissimo per l’economia di un paese turistico. Khaled, ex poliziotto, si appende al collo la bandiera nazionale come fosse un mantello e scrive sul suo cartello: «Benvenuti a tutti gli stranieri». Avete paura che scappino? «Il modo più facile per far cadere la nostra nuova democrazia è provocare una crisi economica. Il modo più semplice per mettere in ginocchio l’economia tunisina è quello di far scappare i turisti ». Poi però il cartello aggiunge un secondo invito ai tunisini a «unirsi tutti insieme contro il terrorismo». C’è il rischio che anche su questo ci si divida? «C’è il rischio che i politici, anche in buonafede, non trovino un accordo tra di loro. In questi giorni, dopo l’attentato, la gente ha manifestato spontaneamente ma non è stato facile trovare un appuntamento che andasse bene a tutti i partiti».
Non è nemmeno semplice governare un paese dove comunque l’influenza del fanatismo religioso si fa sentire. Ancora ieri la polizia sconsigliava di visitare quartieri come quello di Ibn Khaldoun, le strade a forte presenza salafita dove abitano i familiari di uno dei due attentatori del museo. Posti oltre il lago di Tunisi, dove le strade non hanno nomi ma numeri. Sobborghi dove il disagio sociale fa da esca al radicalismo. L’anziano Mohamed non è d’accordo: «Ma davvero pensate che ci sia una relazione tra la povertà e il fanatismo? E allora mi risponda a questa domanda: come lo spiega che il terrorismo c’è anche in Svezia?». Sarebbe troppo facile cavarsela con la Svezia però. Walid, lo studente di giurisprudenza, ammette: «Siamo in un momento difficile, siamo in bilico, lo sappiamo. Ma è per questo che vale la pena lottare, cercare di far nascere una Tunisia giusta e tollerante». Se vinceranno loro, quelli dell’ideologia? «Allora saremo costretti a emigrare lontano. Ma non ci voglio nemmeno pensare».

Corriere 21.3.15
Ma questa non è la primavera jihadista
Se è vero che le rivolte arabe iniziate nel 2011 sono fallite, la vittoria dell’Isis non è però ineluttabile
Dalla Tunisia alla Libia si moltiplicano fatti che lo testimoniano. E anche la Ue comincia a muoversi
di Giuseppe Sarcina


D’accordo, prendiamo per buona la tesi che la primavera araba cominciata nel 2011 in Tunisia sia fallita perché ha portato al disastro della Siria e alla nascita dello Stato islamico. Ma questo non significa affatto che sia cominciata una «primavera jihadista» destinata a conquistare il Medio Oriente e a destabilizzare l’Europa.
Va bene, diciamo che si è rivelata una catastrofica illusione l’idea di poter esportare la democrazia con le armi dei marines. Ma ciò non vuol dire che, invece, sarà più semplice imporre la sharia con i kalashnikov dei terroristi. La cadenza spaventosa degli attacchi, mercoledì al museo del Bardo a Tunisi, ieri alle moschee di Sana’a nello Yemen, sta alimentando una pericolosa deriva fatalistica. Come se fosse solo questione di tempo: prima o poi gran parte dell’Africa e dell’Asia saranno sommerse dalle bandiere nere dell’Isis. Dopodiché toccherà a noi europei.
Eppure ci sono diversi fatti importanti che dimostrano quanto tutto ciò non sia per nulla ineluttabile.
Due esempi di questi giorni. Primo: la Tunisia ha reagito all’attentato da Paese seriamente incamminato sulla strada della democrazia. È vero, i partiti non sono riusciti, almeno finora, a organizzare una manifestazione corale, senza veti reciproci. Tuttavia una larga parte dell’opinione pubblica, delle organizzazioni sociali, del ceto politico si è riversata nelle strade, ancora ieri, ispirandosi a quella mobilitazione di popolo che tutto il mondo ha ammirato a Parigi. Il museo del Bardo come la redazione di Charlie Hebdo . Non ci sono state spinte autoritarie, i militanti della formazione islamica Ennahda sono scesi in piazza per primi, poche ore dopo la strage.
Secondo: ieri a Rabat, in Marocco, sono ripresi i colloqui tra le due fazioni che si contendono il controllo della Libia. Le delegazioni sono scorbutiche, cavillose. È come se negoziassero con i fucili sul tavolo. Però hanno comunque trovato il modo di parlarsi, grazie al raccordo dell’inviato Onu, Bernardino León. Non è escluso che domani si possa arrivare a un’intesa sulla formazione di un governo unitario: premessa fondamentale per pianificare un’offensiva contro gli jihadisti infiltrati in Libia.
L’Unione Europea sembra aver colto questi segnali, almeno a giudicare dalle conclusioni raggiunte ieri a Bruxelles dal Consiglio dei capi di Stato e di governo. Nelle discussioni è stato utilizzato un verbo chiave: «coinvolgere». Perché «coinvolgere» significa richiamare gli interlocutori, che siano Tunisia, Egitto o la nuova Libia in costruzione, alle proprie responsabilità nella lotta contro le cellule terroristiche e il traffico d’armi. Se le cose andranno così, diventerà possibile raccontare che la terrificante «primavera jihadista» cominciò a sfiorire nel marzo 2015, a Tunisi.

Repubblica 21.3.15
I veri crociati
I nazijihadisti del Califfato hanno ordinato a qualunque frustrato o esaltato di fare strage di inermi, regalando agli assassini la gloria dei cieli
di Adriano Sofri


A FEBBRAIO era toccato al ministro Gentiloni, evocato da radio-califfato come “il ministro dell’Italia crociata”.
DUE giorni fa l’ufficio propaganda del-l’Is ha profuso di croci il suo gaudio per gli inermi trucidati a Tunisi. Ne ha tracciata una rossa sulla cordiale fisionomia del pensionato novarese ammazzato mentre sedeva su un pullman, l’ha chiamato “crociato”, l’ha dichiarato schiacciato “dai leoni del monoteismo”: i due vigliacchi invasati. Anche gli altri bersagli, visitatori da mezzo mondo, li ha chiamati “cittadini di paesi crociati”. Prima di prendere sul serio la genealogia dei loro epiteti, occorre dire che “crociato” è per loro sinonimo, nemmeno di cristiano, ma di nemico, e di un nemico il cui stato di servizio combattente coincide con la mera esistenza in vita: quella che gli permette di lavorare al municipio di Torino, di imbarcarsi in una gita sociale, di fare il giardiniere a Tokyo o il vigile a Parigi. Loro possono e vogliono ammazzare chiunque, disegnargli una croce sopra e chiamarlo crociato. La seconda avvertenza preliminare riguarda la nostra premura per la memoria, che ci fa curare e visitare i musei e ci sconsiglia di derivare i nostri diritti e le nostre pretese d’oggi dalle pietre variamente sacre dell’altroieri.
La nostra Gerusalemme è di tutti, sempre rinviata e liberata una volta per tutte, da quando abbiamo sottoscritto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e della donna. Noi commemoriamo la Prima Guerra Mondiale mescolati, a Redipuglia, italiani e austriaci. (Loro non lo sanno, ma stanno facendosi la loro lunga guerra civile, analoga alla nostra tra il 1914 e il 1945, e ne potranno uscire, ne potremo, solo con qualcosa che somigli nel Vicino Oriente all’utopia della federazione europea). Noi siamo seri e ironici, abbiamo fatto la prima crociata e anche la terza — e abbiamo smesso. Non abbiamo territori che ci siano stati assegnati in eterno da Dio, e se finalmente andremo a fermare i loro coltelli da macelleria sarà perché una legge uguale per tutti vieta i genocidi, oltre a renderli umanamente insopportabili. Questi siamo, o dovremmo essere, “noi”. Dopo di che siamo stupidi. Disputiamo perfino se il bersaglio degli assassini fosse il parlamento tunisino, o i turisti stranieri, o specialmente gli italiani. A Tunisi, lo scorso 8 marzo, in un teatro pubblico una colorata compagnia di donne tunisine, artiste, parlamentari, militanti dei diritti, la signora ministro della cultura, hanno messo in scena con Emma Bonino e Serena Dandini “Ferite a morte”. Basterebbe a dire perché tenere alla Tunisia.
Crociati? Dalla Siria, dall’Iraq, dalla Libia, dalla Nigeria, dal Pakistan… si muovono appelli estenuati di cristiani — “assiri”, “caldei”, “copti”, cattolici, evangelisti… — massacrati, cacciati, schiavizzati, le chiese profanate e distrutte. Si vuole nascondere la persecuzione dei cristiani, si è sfogato Francesco. Il genocidio infierisce su minoranze (ma di centinaia di migliaia) come gli yazidi, e la carneficina ininterrotta decima la popolazione musulmana, con o senza pretesti settari di sunna e shia. Divincolandosi dalle proprie prudenze la Chiesa cattolica chiede che una forza legittima fermi le stragi: lo chiede in nome dell’unico Dio, non del proprio, aborre dalla crociata. Oriana Fallaci, di spirito profetico invasa, se la prese con Giovanni Paolo II: «È vero che tempo fa Lei chiese ai figli di Allah di perdonare le Crociate fatte dai Suoi predecessori per riprendersi il Santo Sepolcro? Boh! Ma loro Le hanno mai chiesto scusa per il fatto di esserselo ripreso?» (Credo che il papa avesse chiesto perdono ai confratelli ortodossi per le violenze dei crociati dirottati nel 1204 su Costantinopoli).
Alla forza legittima Francesco fa appello sempre più angosciosamente — e smettendo, forse, quella postilla, “Ma non con le bombe, eh!”: senza le bombe dei raid americani e francesi, yazidi e cristiani assiri sarebbero finiti tutti nella rete del Califfato l’estate scorsa; e oggi i giovani cristiani superstiti vanno a battersi con armi irrisorie. È messo a prova, il papa: è durissimo porgere la seconda guancia altrui. Noi abbiamo in orrore le guerre sante, quelle che “Dio lo vuole”, e però telefoniamo a Radio 3, e consideriamo la polizia internazionale un pleonasmo ipocrita per dire guerra. La polizia internazionale non ha a che fare con Dio. C’è una sfasatura di parecchi secoli fra le crociate e la jihad del nuovo califfato. Noi alle crociate abbiamo tolto il nervo e le abbiamo ridotte all’accezione domestica, la crociata contro il fumo, contro il traffico. I fanatici della jihad sono rimasti là, e là vorrebbero riportarci: loro il califfato, noi i crociati. L’occidente usa la parola, ogni tanto, distrattamente. All’indomani dell’11 settembre a George W. Bush scappò detto (quante cose scapparono a Bush) che «questa crociata, questa guerra al terrorismo è a una svolta». Bin Laden replicò incitando da Al Jazeera alla guerra «contro i crociati americani » e chiamò Bush «il primo crociato sotto la bandiera della Croce».
L’“invenzione delle crociate” è avvenuta più volte. I musulmani di allora descrissero i crociati come i crociati descrissero loro: dei barbari sanguinari. Alla fine, la classica Storia delle crociate di Steven Runciman le dichiarò «un lungo atto di intolleranza compiuto nel nome di Dio», «le ultime invasioni barbariche». C’era dell’ottimismo.
I nazijihadisti del Califfato tradiscono ignobilmente quei musulmani per i quali jihad vuol dire solo una lotta per migliorare se stessi, qualcosa di intimo come una conversione permanente. La loro è la più infame delle crociate — se si può rovesciar loro addosso il nome, visto il piacere col quale si dedicano alle pubbliche crocifissioni. Hanno ordinato a qualunque frustrato o esaltato di fare strage di inermi, cioè di crociati, regalando agli assassini la gloria dei cieli. Gli inermi subiscono, pensionati di Novara, impiegate di Torino, giardinieri giapponesi, donne delle pulizie tunisine, si accucciano sotto i mosaici, scappano spaventati e affannati lungo le scale, ripresi e rimandati impudicamente un milione di volte sugli schermi del mondo. Cambieranno rotta alle vacanze, poi non andranno più in vacanza, poi… Fino a quando? Gli inermi, cristiani o no, hanno usato, in Italia e nel resto d’Europa (non in Bosnia e nella ex-Jugoslavia, non nel Caucaso, non in Ucraina…) un lungo dopoguerra per addestrarsi ad aborrire la guerra e persuadersi di poterne star lontani. Erano in una crociera, non in una crociata. Si stancheranno degli agguati vigliacchi. Chiederanno il numero di telefono della polizia.

Repubblica 21.3.15
La Nobel Karman: “Violenza infinita ma l’Occidente non fa niente”
di Francesca Caferri


LA DISPERAZIONE di Tawakkol Karman è quella di un paese intero: «Due moschee colpite, oltre 120 morti, centinaia di feriti. Cosa altro devo aggiungere? Cosa altro c’è da dire? Siamo qui, ostaggi di due estremismi che si combattono. E quelli come me sono in mezzo, impotenti, pieni di dolore e di rabbia». E’ la voce di un sogno spezzato quella che risponde al telefono, la voce della figlia più famosa dello Yemen, colei che con il suo Nobel per la Pace 2011 incarnava la speranza di cambiamento di un paese e di una regione intera: oggi che i giorni della Primavera araba non sono che un ricordo amaro, Karman suona devastata. Ma non ancora rassegnata.
Una strage senza precedenti: ora che succederà?
«Questo non posso dirlo, posso dire però che la situazione è molto pericolosa. I fanatici sunniti di Al Qaeda contro quelli sciiti rappresentati dagli Houthi appoggiati da Teheran: il futuro non può che essere violento, ancora. Promette altra guerra, altri morti: persone normali, quelle prese nel mezzo di questo vortice».
Lo Yemen è diventato uno dei luoghi più violenti sulla Terra: Che fine ha fatto la rivoluzione che ha fatto sognare il mondo?
«E’ viva, anche se voi non la vedete. E’ fatta di gente che manifesta tutti i giorni e che viene per questo uccisa, minacciata, torturata, incarcerata. Le loro case, le loro scuole, i loro giornali sono distrutti. L’ex presidente Saleh e i suoi alleati Houthi stanno facendo di tutto per uccidere il sogno di uno Yemen diverso, ma tutti i giorni nelle principali città del paese c’è chi grida “no” a costo della vita».
Le sue parole suonano come il grido di chi è rimasto solo.
«No, affatto. Siamo stati abbandonati: ho fatto appelli su appelli al mondo. Non dovrebbe servire a questo un Nobel per la Pace? A parlare, a testimoniare? Ma a me nessuno ha dato ascolto. Nessuno ha fermato Saleh, nessuno ha imposto sanzioni sulla sua gente. L’ho chiesto a tutti i governi: mentre io parlavo, Iran e Arabia Saudita finanziavano gli opposti estremisti che hanno scelto questo paese come il palcoscenico per combattersi. Perché l’Occidente non ha fatto di più? Perché non ci sono sanzioni contro Saleh e contro gli Houthi?».
Lo Yemen è in una guerra più grande del paese stesso?
«Lo vedono tutti che qui si combatte una guerra per conto di terzi. Certe persone a Teheran lo hanno detto pubblicamente che Sana’a è la prima capitale straniera che l’Iran controlla direttamente: ma forse dimenticavano Damasco e Bagdad. Siamo al centro di una partita molto sporca e molto più grande di noi, siamo la porta del Mar Rosso e l’Iran vuole controllare questa porta, come vuole essere in una posizione di forza quando dovrà stringere l’accordo sul nucleare. Quelli come me sono una voce scomoda, vogliono che stiamo zitti, ma qui non si può tacere di fronte a tanta morte».

Repubblica 21.3.15
È la distruzione della civiltà araba la vera strategia del falso Califfo
L’attacco di mercoledì al Museo del Bardo rivela la dimensione della tragedia del mondo islamico
Gli uomini di Al Baghdadi puntano ad annientare i paesi moderati dell’area ma la mobilitazione della coalizione internazionale è ancora insufficiente
La Tunisia nel mirino soprattutto da quando ha varato la nuova Costituzione
È necessario indagare a fondo sui mezzi e sui soldi dell’Is: troppe le zone oscure
Vogliono bloccare i progressi del paese verso la democrazia e la laicità
di Tahar Ben Jelloun


LA TUNISIA è nota per i suoi gelsomini, le sue terrazze affacciate sul mare, la sua ospitalità e la volontà di essere l’elemento femminile nel Maghreb — se, come dice il proverbio, l’Algeria è un leone e il Marocco un uomo. Di fatto, per chi viene dall’Algeria, ove la vita è piuttosto dura, soprattutto dopo la terribile guerra condotta per strappare la sua indipendenza, la Tunisia appare come un porto di pace, dolcezza e vita serena. Per questo molti turisti hanno apprezzano questo Paese, fino all’attentato del 2002 contro la Sinagoga di Djerba, città nota per le sue attrattive turistiche e la sua buona cucina. In quel periodo il Paese era sotto il pugno di ferro di Ben Ali e della sua onnipresente polizia. La quale però non impedì il massacro di 14 tedeschi, 2 francesi e 5 tunisini periti in quell’attacco, che già allora voleva essere un avvertimento, destinato a tener lontani i turisti.
Il Paese rimase sotto shock, incapace di comprendere il perché di quest’azione tesa a rovinarlo: senza turismo la Tunisia si sarebbe trovata in una situazione economica molto grave.
C’è stata poi la scintilla che ha fatto divampare la cosiddetta “primavera araba”. Sembra che la Tunisia fosse il solo Paese a trarre vantaggio da quella rivoluzione, altrove degenerata in barbarie, o in ordine militare. L’attentato di mercoledì 18 è un palese attacco contro i progressi che la Tunisia sta compiendo sulla via della democrazia e di un certo grado di laicità, o quanto meno del rifiuto di un islamismo volto al ritorno ai tempi del profeta Maometto, con evidente anacronismo.
La Tunisia è un piccolo Paese affacciato sul Mediterraneo, aperto all’Europa; un Paese di métissage ben riusciti, ove la condizione delle donne è più protetta che in qualsiasi altro Paese arabo e musulmano.
È anche il Paese che vanta il maggior poeta della letteratura araba del XX° secolo, Abu Kachen Chebbi (1909 — 1934) autore di una poesia celebre, divenuta l’inno di vari movimenti rivoluzionari: «Ai tiranni del mondo». Ecco come descrive la figura del despota-presidente o assassino: «O tiranno oppressore /Amico della notte / nemico della vita / ti sei fatto beffe di un popolo debole / e la tua mano è macchiata di sangue. / Tu guasti la magia dell’universo — e nei suoi luoghi più alti — semini spine di sventura …» Molte spine di sventura e selvaggia ferocia sono state seminate in Tunisia in questi ultimi anni; soprattutto da quando il Paese è riuscito a trovare un accordo per una Costituzione eccezionale, unica nel mondo arabo e musulmano, dato che garantisce “libertà di coscienza” e parità di diritti tra uomini e donne.
Già prima dell’attacco al Museo Bardo, la Tunisia si sapeva minacciata, consapevole che gruppi finanziati e armati da nemici della libertà e della democrazia volevano punirla. Vi sono stati attacchi contro mostre di pittura, omicidi di personalità politiche democratiche come Chokri Belaïd (il 5 febbraio 2013) e il deputato Mohamen Brahmi (il 25 luglio dello stesso anno). In precedenza c’era stato l’attacco dei salafisti contro l’Ambasciata degli Stati Uniti (quattro morti). Si scoprì allora che la polizia era disorganizzata e mal preparata a questo genere di guerriglia. Se ne è avuta conferma ora al Museo Bardo. Tutti si chiedono come mai due individui armati di kalashnikov abbiano potuto penetrare in un museo e sparare sulla folla dei visitatori, tanto più che quel museo è adiacente alla sede dell’Assemblea nazionale. Certo, in materia di sicurezza, come ha detto un ministro, il Paese «è nel caos». La polizia avrebbe bisogno di essere gestita meglio, anche perché gli assassini che si richiamano all’autoproclamato “Califfo” non si fermeranno qui. Il progetto di questo “Califfo” è di regnare ovunque, e destabilizzare tutti i Paesi musulmani che non si piegheranno al suo dominio. Il capo di uno “Stato islamico” illegittimo, che nessuna istanza legale ha mai riconosciuto, persegue il suo sogno e il suo progetto; e gli eserciti dei molti Paesi che lo combattono non ottengono alcun risultato.
Va detto che la situazione caotica della Libia gli è particolarmente favorevole. È in questa terra — non uno Stato ma un’accozzaglia di tribù in guerra tra loro — che i massacratori del Bardo sono stati addestrati. Si sono dati il nome di “Falangi Okba Ibn Nafaa”, un generale che fu alla testa delle armate musulmane inviate dal califfo omayyade di Damasco, Mu’awiya, per diffondere l’islam subito dopo la morte di Maometto. In questo tipo di riferimenti si ravvisa la logica dell’Is, volta a far tornare l’islam di oggi ai suoi albori, quando il Profeta dovette fare la guerra per difendersi contro le armate di politeisti e non credenti.
Di fatto, le forze di Al Baghdadi dispongono di un sostegno e di mezzi poco noti alle grandi potenze che asseriscono di voler combattere il terrorismo internazionale. Non sarebbe il caso di incominciare a indagare sull’origine di quei fondi, armamenti, filiere di reclutamento in ogni parte del mondo? L’Occidente non è meno minacciato dei Paesi musulmani che respingono i discorsi e gli atti di quella barbarie.
Oggi sappiamo che cellule terroristiche si sono insediate nel Sinai, e che altre, a Gaza, si sono avvicinate a Hamas. Sappiamo di alcuni elementi, ex ufficiali di Saddam e di Gheddafi, che hanno aderito alle forze di Al Baghdadi e combattono per un nuovo ordine mirante non solo ad annientare i Paesi arabi moderati, impegnati in uno sviluppo verso la modalità come quelli del Maghreb, ma ad abbattere la stessa civiltà araba e islamica, con la distruzione delle sue opere d’arte, patrimonio universale dell’umanità.
Tutto il mondo civile è oggi coinvolto in questa tragedia. Contro quel nemico invisibile e impunito la mobilitazione dovrebbe andare molto al di là di quanto i Paesi impegnati nella lotta all’Is stanno facendo in questi giorni.
(traduzione di Elisabetta Horvat)

il manifesto 21.3.15
L’ex generale Khalif Haftar avverte: «L’Isis potrebbe distruggere l’Europa»
Libia. Il Consiglio europeo di Bruxelles auspica «incentivi» ai negoziati
di Giuseppe Acconcia

qui


Repubblica 21.3.15
L’amaca
di Michele Serra


POTESSIMO riavvolgere il filo del nostro lavoro, rimediare agli errori, riparare almeno qualche ferita, tornerei volentieri agli anni Novanta in Algeria. Lo ricordava l’altro giorno Gad Lerner commentando la strage di Tunisi. Centomila algerini massacrati dal jihadismo. Entravano nei villaggi considerati “ostili”, macellavano uomini, donne e bambini, era già in pieno atto la guerra genocida che poi prese il nome di Al Qaeda, Isis, Boko Haram e apparentati. Da qualche parte conservo una mia poesia (retorica, ma sentita) sulle ragazze di Algeri sgozzate dai maschi islamisti perché indossavano i jeans. La pubblicai su Cuore, che era un giornale di satira e dunque felicemente marginale; difficilmente avrebbe trovato spazio altrove. I media “normali” davano poco spazio alla guerra civile algerina, la consideravano un fatto truculento e periferico. Eppure la distanza di quel sangue dall’Italia era tal quale quella dell’ex Jugoslavia, la cui tragedia ebbe ben altra visibilità mediatica. Non capimmo, allora, che in quella guerra ferale, poi vinta, per loro e nostra fortuna, dall’Algeria civile, era riassunto il nostro futuro. Non lo capimmo perché (lo dico brutalmente, scusate) siamo razzisti. Un morto occidentale vale, per noi, quanto mille morti “del terzo mondo”. Abbiamo cominciato a contare i morti di questa guerra quando è toccato a noi. Quando toccava a loro, alla povera gente magrebina che difendeva la propria libertà e la propria integrità fisica, non abbiamo nemmeno fatto partire il conteggio.

Repubblica 21.3.15
La Francia sconfitta dalla rabbia della banlieu
di Anais Ginori


Clichy-sous-Bois.
È in questo ghetto alla periferia di Parigi che nel 2005 la morte di due ragazzi scatenò l’inizio della rivolta. Dieci anni dopo l’enclave è un cimitero di promesse
due terzi dei residenti continuano a vivere di sussidi pubblici. Domani alle locali si misurerà il tracollo dei socialisti. E il Front National incasserà un’altra vittoria
Nella banlieue dimenticata alla vigilia delle elezioni “Qui non è cambiato nulla non siamo una priorità”


Quattro moschee, una sola chiesa. Il 75% della popolazione è di origini straniere. Statistiche che il Paese si ostina a non vedere, anche dopo gli attentati del gennaio scorso
Un corteo di protesta in una banlieue francese: troppe le promesse non mantenute, altissime le percentuali di disoccupati, cresce il numero degli indigenti

PARIGI «QUI il fuoco è sempre acceso, qui non è Parigi». Mohammed Mechmache ha fondato l’associazione ACLefeu, che significa proprio “basta fuoco”. Insieme ad altri abitanti di banlieue milita per un cambiamento nei quartieri popolari, i ghetti della République, dove nel 2005 scoppiò la più violenta ed estesa rivolta urbana del paese. Ventuno notti di assalti alle forze dell’ordine in diverse città, 10mila auto incendiate, 3mila fermati, finché è calato il coprifuoco come ai tempi della guerra d’Algeria. Dieci anni passati invano. «Non è successo niente semplicemente perché non siamo una priorità», racconta Mechmache.
Da Clichy a Charlie. Ora che alcuni dei figli delle banlieue francesi si sono trasformati in nemici interni, con gli attentati parigini di gennaio, la Francia fatica a prendere atto della sconfitta. Il 27 ottobre 2005 tre ragazzi di Clichy si erano nascosti nella centrale elettrica Edf per sfuggire a un controllo di polizia. Bouna e Zyed sono morti fulminati sul colpo, Muhittin si è miracolosamente salvato. Solo questa settimana si è svolto il processo ai due poliziotti coinvolti nell’incidente che scatenò gli scontri. «Non è il processo alla polizia, né quello sulle rivolte delle banlieue, né quello sulla politica», ha avvertito in apertura il presidente del tribunale di Rennes, dove si è svolto per cinque giorni il dibattimento.
La sentenza è attesa il 18 maggio, una decisione che potrebbe infiammare di nuovo le banlieue. Dieci anni dopo, Clichy-sous-Bois è un cimitero di promesse e speranze. Il coraggioso sindaco socialista, Claude Dilain, che nel 2005 vegliò giorno e notte per pacificare la sua città, è morto qualche settimana fa. Domani i francesi votano per rinnovare i departements , l’equivalente delle nostre province. Il Front National potrebbe incassare l’ennesima vittoria simbolica, anche se il voto dovrebbe premiare molti candidati l’Ump che in questa tornata si è alleato con i centristi. Marine Le Pen forse riuscirà a strappare uno o due dipartimenti, ma soprattutto potrebbe ritrovarsi di nuovo al primo posto delle preferenze in termini assoluti.
È nel famigerato dipartimento ‘93, quello di Seine-Saint-Denis, dove c’è anche Clichy, che si misurerà non tanto il successo del Front National, quando il tracollo della sinistra francese. La provincia a Nord di Parigi è stata governata per quarant’anni dal partito comunista e dal 2008 è in mano ai socialisti. Questa volta l’esito è incerto, il voto potrebbe consegnare la maggioranza all’Ump e ai centristi. Nelle banlieue ci sarà un picco di astensione: quasi il 70% dei giovani non è andato alle urne nelle scorse elezioni. Le distese di torri e palazzi, con piazze immense che sembrano spuntare da un quadro di De Chirico, sono le terre in cui la politica francese sembra aver abdicato. L’unico cambiamento davvero evidente per chi torna dopo anni è lo skyline: tanti palazzi nuovi, costruiti al posto di grattacieli fatiscenti. A Clichy i ministri sono venuti solo per tagliare nastri: nel 2012 c’è stata l’inaugurazione del nuovo commissariato e l’anno scorso sono state aperte un’agenzia di collocamento e una nuova scuola media. Ma il quartiere di Chêne- Pointu, dove cominciarono gli scontri, è rimasto tale e quale.
Clichy rimane un’enclave perfettamente isolata. Dista solo quindici chilometri dal centro di Parigi ma per andare nella capitale si impiegano oltre due ore di trasporti pubblici. Un nuovo tram è in costruzione: sarà pronto, forse, nel 2018. Due terzi dei 30mila residenti hanno origini straniere, il 75% della popolazione è considerata indigente e vive di sussidi pubblici. S’incontrano donne velate, la sera le strade sono deserte. Quattro moschee, una sola chiesa. In questi dieci anni i vari indicatori statistici, dalla disoccupazione al livello di diplomati, al tasso di criminalità, sono rimasti invariati.
Didier Leschi, uno dei due prefetti del dipartimento più “caldo” di Francia, cerca di moderare il pessimismo: «Gli investimenti pubblici ci sono stati, ma un piano di rinnovamento urbano necessita di tempo». È nel ‘93 che la polizia ha subito cercato i fratelli Kouachi dopo l’attacco a Charlie Hebdo. Qui vicino, a Aulnay-sous-Bois, c’è l’uomo che ha accompagnato Hayat Boumedienne, la moglie di Amédy Coulibaly, in Siria. Si chiama Mehdi Belhoucine e prima di fuggire aveva un regolare contratto con il comune come bidello nelle scuole. Uno dei poliziotti uccisi dai Kouachi, Ahmed Merabet, è sepolto nel cimitero musulmano del dipartimento a Bobigny.
Dieci anni fa la Francia guardava questa banlieue con preoccupazione. Ora la banlieue osserva il Paese con immutata rabbia, mista a nuova indifferenza. Tanti giovani, troppi, si sono tenuti alla larga dalla manifestazione contro il terrore dell’11 gennaio. “Je ne suis pas Charlie” è diventato il modo pacifico di esprimere l’ennesima rivolta contro lo Stato. Gli attentati non hanno provocato un elettroshock tra i ragazzi della periferia, una presa di coscienza su cosa significa il terrorismo islamico. Anzi, le partenze di foreign fighters per la Siria sono aumentate. «Non c’è inversione di tendenza», osserva il prefetto Leschi.
Clichy è uno specchio che rimanda un’immagine che il paese si ostina a non vedere. Anche dopo gli attentati parigini il dibattito sulle cause sociali del terrorismo è stato liquidato con una parola a effetto, “apartheid”, usata da Manuel Valls. Il premier ha criticato il silenzio de l mondo culturale: «Dove sono gli intellettuali?», si è chiesto a proposito della scalata del Front National. Rapidamente però è calato una sorta di “coprifuoco mentale”, come ha scritto Le Monde , in nome di un simulacro di pace sociale. Fino al prossimo incendio.

Repubblica 21.3.15
L’impotenza della sinistra incapace di parlare alla rabbia della République
Mentre torna la retorica dell’“anti-francese” la destra nazionalista si rivolge ad un passato illusorio e i “globalisti” scrutano un futuro senza volto
di Christian Salmon


L’ASCESA di Marine Le Pen è la storia di un’impotenza: quella della sinistra e dei suoi intellettuali che, tranne qualche eccezione, si sono dimostrati capaci di opporle solo l’indignazione morale. Gli intellettuali di sinistra si sono trincerati nella difesa dei valori repubblicani, diventando così i paladini dello status quo e lasciando al Front National il terreno dell’insolenza e della trasgressione. Qualche giorno fa, ad esempio, Jean-Marie Le Pen ha contestato l’identità francese del primo ministro.
«IL SIGNOR Valls è diventato francese all’età di vent’anni! Un po’ poco perché io, bretone di antico ceppo, debba prendere lezioni da un personaggio del genere». Alcuni mesi fa lo stesso Le Pen aveva dato dell’“antifrancese” alla ministra Christiane Taubira; mentre sua figlia Marine, abituata a far ricorso agli eufemismi, si è espressa in termini sociologici definendola «un’indipendentista della Guyana».
Rieccoci dunque alla retorica dell’anti-francese, utilizzata dalla destra e dall’estrema destra fin dai tempi del caso Dreyfus. Di nuovo in auge in questi ultimi dieci anni, domina i talkshow e risuona fin nei corridoi dell’Académie Française: dalla legge del febbraio 2005, che nella sua prima versione citava gli «aspetti positivi» della colonizzazione, alla creazione del ministero dell’immigrazione, dell’integrazione e dell’identità nazionale.
Oggi espressioni quali français de souche (souche = ceppo, stirpe), invasion o grand remplacement sono usate senza riserva da intellettuali, scrittori ed editorialisti, come testimoniano tre recenti bestseller: Il suicidio francese di Eric Zemmour, L’Identità infelice di Alain Finkielkraut e Sottomissione di Michel Houellebecq. Grazie a garanti come questi, imitati da innumerevoli comprimari, quella che dobbiamo ormai chiamare la “causa identitaria” ha potuto incidere sull’opinione pubblica in forme sempre più violente.
«Perché Christiane Toubira cristallizza l’odio », titolava a tutta pagina Le Monde l’ 8 novembre 2013. Una candidata del FN non aveva forse dichiarato sul suo sito Internet che avrebbe preferito vedere la ministra della giustizia guyanese «tra i rami del suo albero in compagnia dei suoi simili» anziché al governo? E una bimba di 11 anni aveva sventolato una banana al suo passaggio gridando: «Per chi è questa banana?» Scivoloni, casi isolati? Purtroppo no.
È un regime di segni che determina un certo linguaggio, un tipo di sfottò che stigmatizza, infantilizza, animalizza gli altri, siano essi neri, rom o stranieri, un “razzismo biologico”, con banali riferimenti agli animali e all’epoca coloniale, appartenenti a un registro che sembrava scomparso dopo la seconda guerra mondiale e la decolonizzazione. Tutt’altro che svaniti dall’inconscio collettivo, lo spirito razzista e “l’animalizzazione dell’altro” sono componenti indissociabili di qualunque politica identitaria. Sono congruenti con la tendenza a un “riarmo nazionale”, cioè a una ridefinizione dell’identità nazionale vissuta con inquietudine e ansia, come fosse un’identità minacciata.
Come ha ricordato Christiane Toubira, il linguaggio razzista esclude dalla «specie umana» l’uomo o la donna descritti come animali. Non è uno scherzo, è uno scalpello che fin dagli albori della colonizzazione ha tracciato il confine tra gli umani e gli schiavi, i coloni e i colonizzati, i civilizzati e i selvaggi. E quando l’insulto è messo in scena attraverso esposizioni coloniali e zoo umani, il razzismo diventa performance collettiva. È una cerimonia, un rituale. Che punta a ridefinire i contorni della comunità nazionale.
Il campo ideologico francese è attraversato da tre ordini di fenomeni, indipendenti gli uni dagli altri: l’immaginario coloniale ( l’impensé colonial ) della Francia, la politica neoliberista repressiva verso gli stranieri e la non sovranità, o asovranità, dello Stato.
Rinunciando al potere di battere moneta e al controllo dei propri confini, lo Stato non ha solo acconsentito a cessioni di sovranità, ma ha disseccato il terreno simbolico sul quale si edifica la sua credibilità. La sovranità si disperde in ogni direzione: verso l’alto, a vantaggio della Commissione europea e dei mercati; verso il basso, a beneficio delle Regioni, che oggi si sollevano contro lo Stato, come la Bretagna. Effetto boomerang dell’asovranità… Come stupirsi allora se l’autorità dello Stato appare ormai solo come un inganno, una finzione che ci si sforza di rendere credibile con atteggiamenti d’imperio e politiche repressive nei confronti dei rom, degli stranieri e degli esclusi.
L’asovranità genera una pericolosa spirale, dove il razzismo represso della storia coloniale si intreccia con la xenofobia attizzata dalla competizione sul mercato del lavoro, al cospetto di una sinistra incapace di proporre una narrazione alternativa. Il razzismo e la xenofobia non sono solo l’espressione di una deriva populista, ma costituiscono un prisma che porta a riconfigurare la società tracciando una linea di confine tra gli onesti contribuenti e i profittatori del modello sociale francese, tra gli insider votati a integrarsi e gli outsider la cui unica vocazione è quella di andarsene. Sono al tempo stesso un sintomo e uno strumento: il sintomo di un immaginario coloniale, e lo strumento di una decomposizione/ ricomposizione del campo politico, a lungo strutturato attorno al bipolarismo destra/sinistra, oramai soppiantato dallo scontro tra un nazionalismo teso alla fissità, e un globalismo che disperde o smarrisce… Da un lato, i nazionalisti d’ogni risma, nostalgici dello Stato, che chiedono di riterritorializzare i poteri e vogliono l’uscita dall’euro, la resurrezione dei confini. In breve, il ritorno a casa. Dall’altro i globalisti, i nomadi, pronti ad abbandonare ogni attributo della Nazione, compreso il sistema democratico, per affidare la politica agli esperti, ai mercati finanziari, ai capitali. Ognuno di questi due schieramenti ha il suo pathos. Chi sgarra anche solo di un passo dovrà cantare a squarciagola l’inno nazionale o avvolgersi nella bandiera: perché sia la regressione che la fuga in avanti non conoscono limiti. Chi voleva difendere i valori nazionali si ritrova a fare il patriota di circoscrizione. Chi propende per la globalizzazione deve accettare di dissolversi nell’etere dei mercati, abbandonando ogni singolarità per tuffarsi in un nuovo mondo.
Ogni schieramento ha la sua narrazione. Da un lato il ritorno a casa. Dall’altro la conquista del mondo. Per gli uni l’Esagono come unico orizzonte, per gli altri un orizzonte illimitato. Di qua un discorso bellicista regressivo, di là un’ingenua epopea senza frontiere… La chimera nazionalista contro l’utopia globalista.
Oramai è questo bipolarismo a strutturare il dibattito politico. Da una parte i sedentari zemmouriani (da Eric Zemmour), dall’altra i nomadi attaliani (da Jacques Attali). Dopo l’esplosione della crisi, nel 2008, gli attaliani hanno perso terreno, mentre gli zemmouriani capitalizzano sulle difficoltà economiche: la paura del domani aizza folle di orfani. Tra gli zemmouriani favorevoli al ritorno a casa con armi e bagagli, confini e vecchi franchi, e gli attaliani che insistono per un «allargamento» (delle nazioni, dell’Europa, addirittura del mondo) nessun compromesso è possibile. I primi si rivolgono a un passato illusorio, i secondi scrutano un futuro senza volto, e gli uni e gli altri si accusano a vicenda di essere causa di tutti i mali. I nostalgici dell’identità, estrattori della quintessenza nazionale e allergici alla diversità insorgono al grido di «anti-francesi! », mentre gli altri, sinceri antirazzisti e usi al sollevamento pesi, rispondono indignati: «Non è la Francia!». In breve, una Francia fantasticata contro una Francia idealizzata. Due mitologie: la fonte e il crogiolo, l’identità e l’alterità, la Francia dei villaggi e dei campanili contro l’Europa dei mercati. A noi la scelta: pietrificarci o dissolverci. Due fronti che si guardano in cagnesco. Un funebre dualismo, in cui il politico consuma il proprio fallimento. (Traduzione di Elisabetta Horvat)

Il Sole 21.3.15
Atene punta tutto sulla lotta all’evasione
di V. D. R.


«È responsabilità sovrana del governo greco decidere le riforme necessarie e il loro contenuto è affare del governo greco». Così il premier greco Alexis Tsipras, affermando che nel mini summit di giovedì sera «non abbiamo discusso del contenuto delle riforme e non è stata esercitata nessuna pressione».
«La Grecia presenterà le sue riforme strutturali, di cui è incaricata e che poi attuerà» ed «è assolutamente chiaro che non dovrà implementare misure di austerità», ha sottolineato Tsipras. «Possiamo essere soddisfatti dal risultato di questo vertice e possiamo essere ottimisti» oltre che «sicuri che c’è spazio per la comprensione tra i partner Ue». Il premier greco ha quindi ricordato che il confronto politico sulle riforme avverrà a Bruxelles nell’ambito del ’Brussels Group’, mentre quello tecnico, finalizzato a raccogliere dati e informazioni, ad Atene.
Anche il cancelliere tedesco Angela Merkel ha precisato che non interessa il policy mix, cioè se si aumentano le imposte o si riducono le spese, l’importante è che i saldi siano positivi. E Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, ha chiarito che in cambio dei prestiti ci vogliono riforme a garanzia che i soldi prestati verranno restituiti.
Ma finora Atene ha deluso le aspettative. Nella lettera di undici pagine su sette riforme, inviata a Bruxelles il 6 marzo scorso, il governo Tsipras ha fatto melina proponendo un piano per emettere licenze alle aziende di gioco d’azzardo online, con cui Atene crede di potere raccogliere 500 milioni di euro l’anno. Poi c’era la proposta di ricorrere a «studenti, casalinghe e persino turisti»: verrebbero usati come agenti sotto copertura contro l’evasione fiscale e pagati all’ora per un massimo di due mesi senza la possibilità di riassunzione. Proposte giudicata dalla ex troika «dilettantesche». Le misure - che includevano l’introduzione di un nuovo “consiglio fiscale” per monitorare le spese del governo e un nuovo piano per recuperare contributi non versati con un condono fiscale sugli interessi e sanzioni per chi avesse deciso di pagare entro fine marzo i tributi ancora in sospeso - hanno profondamente deluso l’Euroruppo e la ex troika oggi diventata “Brussels Group”.
Cosa potrebbe tirare fuori dal cappello Tsipras, stretto tra due fuochi? L’Fmi che vuole una nuova riforma delle pensioni che riduca ulteriormente le uscite per le casse dello Stato, mentre la frangia di sinistra di Syriza minaccia di non votare le misure di austerità in Parlamento e quindi aprire la crisi di governo. L’unica chanche è quella di usare parte del surplus di bilancio primario per alleviare le fasce più deboli e in cambio spingere su lotta all’evasione fiscale e recupero dei vecchi crediti fiscali che ammontano a 70 miliardi di euro. Uno “scudo fiscale” sul modello italiano per far tornare parte dei 60 miliardi di euro di cittadini greci che oggi li hanno depositati nei forzieri svizzeri, è una delle idee allo studio al ministero delle Finanze greco in queste ore. Il tempo stringe e Tsipras deve trovare una soluzione politica a breve.

il manifesto 21.3.15
La vendetta del Buddha
Integralismo buddista e nazionalismo in forte crescita nel Myanmar dopo le recenti aperture politiche
di Ilaria Benini

qui

il Fatto 21.3.15
Pirelli, addio all’Italia, la gomma diventa cinese
di Marco Franchi


IRELLI, ADDIO ALL’ITALIA LA GOMMA DIVENTA CINESE
LA CHINESE CHEMICAL CORPORATION PRONTA A INVESTIRE NELLA SOCIETÀ OGGI NELL’ORBITA DELLA RUSSIA ROSNEFT. MA TRONCHETTI RESTA LEADER FINO AL 2018
Pirelli conferma, arrivano i cinesi. La società guidata da Marco Tronchetti Provera ha infatti comunicato ufficialmente ieri che sono in corso trattative con un partner industriale internazionale per un’operazione relativa alla partecipazione detenuta dalla cassaforte Camfin in Pirelli.
I riflettori sono puntati su China National Chemical Corporation, il probabile socio in entrata, un ruolo potrebbe essere giocato anche da Bank of China.
DA QUALCHE GIORNO in ambienti finanziari era cominciata a circolare l’ipotesi di un possibile disimpegno – o quantomeno una diluizione – della russa Rosneft, entrata nel capitale l’anno scorso, alle prese con il blocco dei finanziamenti dall’Occidente imposto a Putin dopo la crisi Ucraina.
Ma ecco la soluzione: Camfin e i suoi azionisti hanno studiato il riassetto di Pirelli imbarcando i cinesi. In sostanza, il 26,1% detenuto da Camfin in Pirelli verrebbe trasferito a una società italiana di nuova costituzione, controllata dal partner estero. Per poi arrivare al lancio di un’offerta pubblica di acquisto sulla totalità delle azioni di Pirelli, con l’obiettivo di portare via la Bicocca da Piazza Affari.
Infine, partirebbe un’operazione di scorporo della divisione Truck, quella legata agli pneumatici per i camion, che dovrebbe finire in mano sempre a una società cinese.
Ciò consentirebbe sia a Rosneft sia agli altri soci della holding di incassare complessivamente quasi 2 miliardi che gli azionisti italiani (tra cui lo stesso Tronchetti che si garantisce anche la leadership fino al 2021, Intesa San-paolo, Unicredit) potrebbero reinvestire nella nuova società mentre i russi monetizzerebbero subito una parte delle loro quote.
L’ennesimo riassetto della galassia tronchettiana è stato anticipato mercoledì scorso dal Corriere della Sera - di cui per altro Pirelli è azionista - con un articolo che rilanciava indiscrezioni sull’arrivo del nuovo partner orientale.
Uno scoop che aveva messo le ali al titolo già nella seduta di giovedì facendolo tornare su livelli che non vedeva dal giugno del 1990. Ovvero allineandosi al prezzo della possibile Opa fissato a 15 euro e indicato ieri da Camfin, in una nota diffusa nel pomeriggio su richiesta della Consob.
LA COMUNICAZIONE è arrivata prima dell’inizio dei Cda della holding, di Unicredit e di Coinv (il veicolo partecipato da Nuove partecipazioni, da UniCredit e Intesa San-paolo cui fa capo il 50% di Camfin) che sono stati convocati in serata per deliberare il nuovo passaggio di controllo della Bicocca e discutere i nuovi patti parasociali, oltreché valutare la possibilità di riquotare Pirelli fra tre-quattro anni.
La Consob ha intanto fatto sapere di aver “attivato i poteri” per verificare eventuali anomalie sulla performance borsistica ma il faro di Vegas riuscirà a fare luce su eventuali speculazioni? Chissà.
Di certo, fino a inizio gennaio il titolo Pirelli valeva poco più di 11 euro a Piazza Affari, poi ha cominciato a prendere rapidamente quota e ieri ha chiuso a 15,23 euro con un altro balzo del 2,2% e il 4,4% del capitale scambiato.

il Fatto 21.3.15
“Typhoyd” Mary, spesso il male è inconsapevole
Una malattia senza sintomi e un’epidemia
Storia di una cuoca e di chi le dà la caccia
di Caterina Soffici


Il magazine di Ophrah Winfrey l’ha messo nella lista dei dieci “romanzi storici che ogni donna intelligente dovrebbe leggere”. Non è vero. Lo possono leggere tranquillamente anche gli uomini. Purché dotati di un certo acume e di quella certa inclinazione a entrare nel dettaglio dei caratteri. Che – bisogna ammettere – è una caratteristica prettamente femminile, ma non in questo caso. Qui in verità ci sono due personaggi, una donna e un uomo, e a seconda di come si vuol leggere questo libro, prevale la figura maschile o quella femminile.
L’autrice è praticamente sconosciuta in Italia, ma figura nella lista delle 5 migliori scrittrici “under 35” della National Book Foundation. Come ogni buon romanzo storico è anche un’analisi sociale e una riflessione sul concetto di bene e di male, che troppo sbrigativamente tendiamo ad affibbiare alle cose. In questo libro, la ragione sta dalla parte dei cattivi, tanto perché lo sappiate. Superstizione, ignoranza, ipocrisia, mischiati ai temi dell’immigrazione, dell’esilio, della solitudine e dell’esclusione sociale, sono gli altri elementi. E adesso capirete perché.
“FEBBRE” racconta la storia di Mary Mallon, una ragazza irlandese che sbarca a New York nel 1883 con un unico sogno: vuole fare la cuoca. Lavora come cuoca presso un certo numero di famiglie benestanti. Alcune delle persone per cui Mary ha cucinato si ammalano di tifo. Molti in quelle case signorili muoiono. Muoiono anche i bambini. Come mai? Cosa succede? E qui arriva il nostro eroe cattivo, George Soper, una specie di medico detective, che indagando sulla scia di morti risale a Mary: è lei la causa del contagio. Mary Mallon è il primo caso di febbre tifoidea asintomatica nella storia della medicina. Il libro è la sua vera storia, non è mai stata raccontata prima. Negli annali medici perde addirittura il cognome e diventa “Typhoyd Mary Mary”, solo un caso clinico. Mary viene messa in isolamento su un’isola dell’East River. È il 1907. Ci rimane tre anni. Poi la rilasciano, a patto che non faccia più la cuoca e si lavi le mani spesso. Ma lei non capisce, pensa sia una persecuzione perché è irlandese. Torna a fare la cuoca. Riecco le morti e Soper si rimette in azione, ma Mary riesce a scappare e far perdere le tracce. Sotto falso nome trova lavoro nella cucina di una Maternità. Quando lei è ai fornelli anche le neo madri e i neonati iniziano a morire. So-per la scova e la rispediscono nel suo lazzaretto dell’East River, dove trascorrerà gli ultimi 23 anni della sua vita.
Per chi si parteggia? Io per So-per, perché è il lato razionale della vicenda. Infaticabile segugio, una sorta di Csi ante litteram. Però la vera eroina è lei, vittima della sua stessa condizione proletaria, paladina delle vite degli immigrati irlandesi. E vittima soprattutto dell’ignoranza.

Corriere 21.3.15
Il caso non esiste Enigma risolto
Da Borges a Hawking fino all’ultima copertina  di New Scientist
L’evoluzione non imprevedibile e i percorsi sempre meno fortuiti
di Matteo Persivale


Jorge Luis Borges, in una delle sue storie più magiche, immaginò la biblioteca di Babele che conteneva soltanto libri con combinazioni infinite — e casuali — degli stessi caratteri. Libri e libri e libri, tanti da contenere «tutto ciò che è dato esprimere, in tutte le lingue». Conteneva libri per la maggior parte incomprensibili, ma in quell’infinito pagliaio di carta c’era anche il Libro della Verità. E il suo contrario. Distinguerli? Impossibile. Anche se Borges era un narratore di storie, il problema del caso è antico quanto la filosofia, e antichissimo il tentativo di rintracciare delle leggi nel comportamento della natura (Stephen Hawking ripete spesso che la prima scienza fu l’astronomia per l’evidente motivo che era semplice rendersi conto della regolarità di certi accadimenti naturali, come il moto dei corpi celesti). Ma la «musica del caso», come la chiama lo scrittore Paul Auster, continua a ipnotizzarci, millenni dopo le prime scoperte astronomiche, anche nell’era della meccanica quantistica e della biologia evolutiva: l’ultimo numero della rivista New Scientist ha dedicato al caso una copertina: raccontando come «il caso domina il nostro mondo», e come in ultima analisi appaia sempre meno casuale.
Andreas Wagner, biologo dell’Università di Zurigo e del Santa Fe Institute, ha da un decennio messo al centro della sua indagine scientifica il tema darwiniano secondo il quale miliardi di anni di mutazioni casuali abbiano finito per dare origine al mondo che ci circonda — «le ali, gli occhi, le ginocchia, la fotosintesi, e il resto delle meraviglie creative della natura». Più che di «sopravvivenza del più adatto» Wagner nel suo libro Arrival of the Fittest: Solving Evolution’s Greatest Puzzle (Current) parla di «arrivo del più adatto». Un arrivo che non può essere considerato semplicemente come frutto della casualità, di un numero enorme di tentativi. È divertente che il professor Wagner utilizzi come metafora centrale del suo nuovo libro proprio la biblioteca di Babele. Tra quegli infiniti scaffali ci sono soprattutto libri senza senso ma anche l’ Amleto shakespeariano, e L’origine della specie. Nello stesso modo, anche se da 100 aminoacidi derivano 10.130 proteine diverse, le probabilità che la natura trovi proprio l’enzima necessario non sono prossime allo zero. In questa biblioteca di proteine, spiega Wagner, ci sono dei «percorsi» meno casuali: libri simili posti uno accanto all’altro che hanno pressoché lo stesso significato anche se con parole diverse — cioè, proteine diverse possono svolgere funzioni molto simili. Wagner li chiama «percorsi» attraverso i quali l’evoluzione trova l’innovazione in modo più efficiente, e sempre più lontano dalla casualità che lo stesso Darwin ammetteva essere difficile da accettare.
Certo la notizia della morte del caso è ancora prematura — basta chiederlo a un meteorologo (come dice ancora Hawking, è vero che il battito d’ali di una farfalla può provocare un acquazzone dall’altra parte del mondo, ma bastano cambiamenti minimi a una miriade di condizioni circostanti perché l’acquazzone non avvenga). O a chi lavora ai vaccini anti influenzali: le evoluzioni dei virus sono prevedibili fino a un certo punto. New Scientist cita Trevor Bedford dell’Hutchinson Research Center di Seattle che spiega come un certo virus influenzale muterà — eludendo così il nostro sistema immunitario — in uno tra sette punti del suo codice genetico. E, in questo senso, la mutazione è prevedibile. Ma in quale di queste sette punti avverrà, e come? Ecco perché non tutti i vaccini anti influenzali sono efficaci allo stesso modo: la loro evoluzione resta molto difficile da prevedere.
Succede anche al casinò, o tra gli scommettitori: il sogno di chi vorrebbe sbancare Las Vegas è la scoperta di un algoritmo per vincere sempre — prevedere numeri e risultati. In questo campo, il caso è un business miliardario. Le probabilità di una scala reale a poker, bisogna ricordare sempre prima di sedersi al tavolo da gioco, sono 1 su 649.739. Ma chi frequenta i casinò può consolarsi pensando che l’uscita del nero alla roulette 26 volte di fila ha sì una probabilità su 136 milioni di accadere, ma è accaduta (a Monte Carlo, nel 1913). Il matematico David Hand, professor emeritus all’Imperial College di Londra, lo spiega così: «Scavando in profondità si vede come ciò che parrebbe estremamente improbabile, si verifica abbastanza spesso».

Repubblica 21.3.15
Allarme degli scienziati “Basta modifiche del Dna o sarà troppo tardi”
L’appello dei biologi su “Science”: le nuove tecniche di manipolazione rischiano di sfociare nell’eugenetica
di Nicholas Wade


JENNIFER A. Doudna, dell’università della California a Berkeley, ha inventato un nuovo editing genetico, ma è lei stessa ad aver firmato per prima l’appello che caldeggia la moratoria internazionale sull’uso della nuova tecnica: gli scienziati e l’opinione pubblica, sostengono Doudna e i suoi colleghi, devono avere il tempo necessario ad approfondire tutte le implicazioni di questa tecnica rivoluzionaria, che potrebbe cambiare il Dna umano in modo tale da rendere ereditaria la manipolazione.
I biologi temono che la nuova tecnica sia a tal punto efficace e facile da indurre alcuni medici a farvi ricorso prima che se ne possa valutare con affidabilità la sicurezza. E vogliono che l’opinione pubblica capisca fino in fondo le questioni etiche connesse a tale tecnica, che potrebbe sì servire a curare malattie genetiche, ma anche ad accrescere la bellezza o l’intelligenza. «Con questa tecnica si potrebbe esercitare una forma di controllo sul patrimonio genetico umano» ha detto David Baltimore, ex presidente del California Institute of Technology e membro di un gruppo il cui studio in materia è stato pubblicato da Science.
Da decenni gli esperti di etica si preoccupano per i pericoli connessi alla manipolazione della linea germinale umana. Fino al 2012 tali preoccupazioni erano solo teoriche, ma da quell’anno una nuova tecnica rende possibile manipolare il genoma umano con precisione e con una facilità notevolmente superiore. La tecnica è già stata utilizzata per modificare il genoma di topi, ratti e scimmie e lo stesso potrebbe accadere anche per l’uomo. I biologi dell’appello su Science sono favorevoli a proseguire le ricerche, ma pochi credono che la tecnica sia pronta per l’uso clinico. Se infatti questo utilizzo è soggetto a una rigidissima regolamentazione negli Stati Uniti e in Europa, che cosa potrebbe accadere in quei Paesi che non regolamentano la scienza con pari rigidità? Una moratoria come quella richiesta dai biologi ha un precedente: nel 1975 fu chiesto agli scienziati di tutto il mondo di astenersi dal ricorrere a un metodo di manipolazione genetica, la tecnica del Dna ricombinante, fino a quando non fossero state fissate regole in merito. «Chiedemmo che nessuno effettuasse determinati esperimenti e, da quanto mi risulta, nessuno li fece» dice Baltimore. La tecnica del Dna ricombinante fu la prima di una serie di piccoli ma significativi progressi sulla manipolazione del materiale genetico. Due metodi messi a punto di recente, e noti come “Dita di zinco” ed “Effettori Tal”, sono arrivati assai vicini all’obbiettivo di manipolare il genoma con precisione, ma sono risultati entrambi di difficile utilizzazione. La nuova tecnica di editing del genoma è stata inventata da Jennifer A. Doudna di Berkeley e da Emmanuelle Charpentier dell’università svedese di Umea. Il loro metodo, noto con l’acronimo Crispr-Cas9, coopta il sistema immunitario naturale col quale i batteri ricordano il Dna dei virus che li attaccano così da essere pronti a reagire nel caso in cui si presentino quegli stessi aggressori. I ricercatori possono semplicemente “istruire” il sistema difensivo fornendo una sequenza- guida di loro scelta, e quindi distruggere la corrispondente sequenza del Dna in qualsiasi genoma al quale il sistema è esposto. Pur essendosi rivelata molto efficace, questa tecnica in alcuni casi taglia il genoma in punti non voluti. Ma c’è dell’altro: secondo gli scienziati, sostituire un gene difettoso con uno normale potrebbe sembrare un’operazione del tutto innocua, ma probabilmente non è così. «Temiamo che si possano indurre mutazioni senza che le persone interessate siano consapevoli di quello che tali modificazioni implicano per il patrimonio genetico nel suo complesso» osserva il dottor Baltimore.
Esistono due grandi scuole di pensiero in relazione all’intervento sulla linea germinale umana, spiega R. Alta Charo, specialista di bioetica presso l’università del Wisconsin e membro del gruppo della dottoressa Doudna. La prima è pragmatica e cerca di bilanciare benefici e rischi. L’altra «fissa limiti intrinseci a come e quanto il genere umano debba alterare la natura». Alta Charo si definisce pragmatica, e dice che è meglio «regolamentare queste cose, invece di arrestare del tutto una tecnologia agli esordi». «È evidente che ci sarà chi effettuerà l’editing genetico negli esseri umani» dice Rudolph Jaenisch, biologo esperto di cellule staminali che lavora al Whitehead Institute di Cambridge in Massachusetts, «questo documento chiede che sia fissata una moratoria su qualsiasi applicazione clinica, e credo che sia la cosa giusta da fare».
La settimana scorsa, sulle pagine di Nature anche Edward Lanphier e altri studiosi che lavorano alla messa a punto della tecnica concorrente “Dita di zinco” per l’editing genetico hanno chiesto la moratoria. E giovedì anche l’Associazione internazionale per la ricerca sulle cellule staminali ha detto di essere favorevole alla proposta.
(Traduzione di Anna Bissanti. © 2-015, The New York Times)

Corriere 21.3.15
Biografia della statua «maledetta»
Il progetto di un monumento a Giordano Bruno divise per anni l’Italia tra clericali e laici
di Corrado Stajano


Dopo quattro secoli (e 15 anni) si parla ancora, come se fosse accaduto appena ieri, dell’«abbruciamento dell’eretico impenitente» e della statua che con fatica e coraggio fu posta e dedicata a Giordano Bruno nel luogo del rogo al quale fu condannato dai cardinali dell’Inquisizione. A quell’evento di follia che seguita a suscitare angoscia e incredulità e al monumento in onore del frate, Massimo Bucciantini, professore di Storia della scienza all’Università di Siena, ha dedicato un rigoroso saggio: Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto (Einaudi). (Quel «maledetto» fu l’aggettivo usato dai clericali; il bronzo ha voluto rappresentare piuttosto la volontà dei posteri di rendere onore alla libertà di pensiero: che almeno la memoria sia segno di giustizia).
Purtroppo la storia non insegna mai nulla, il tragico Novecento ne è un atroce esempio di massa, con milioni di morti bruciati nei lager nazisti, colpevoli soltanto di essere ebrei o di avere un differente credo politico.
Ma il rogo fiammeggiante di Campo dei Fiori, il mostruoso sonno della ragione di quei carnefici assolutisti della fede resta un indimenticato modello per gli spiriti creativi: anche un giovane musicista pisano che vive a Parigi, stimato in tutta Europa, Francesco Filidei, sta lavorando proprio ora a un’Opera sul frate nero che sarà rappresentata al Piccolo Teatro di Milano.
Le ultime parole del frate domenicano ai suoi persecutori — «Forse voi giudici pronunciate la sentenza contro di me con più paura di quanto io ne abbia nell’ascoltarla» — sembra che seguitino a risuonare in quella piazza allegra, tra le bancarelle del mercato, con il pesce madreperlaceo che sembra appena uscito dalle reti, la frutta colorata che sembra invece appena uscita da un dipinto cinquecentesco, in un gran vociare. Mentre il droghiere, il fornaio, il salumiere sull’angolo di via de’ Balestrari, dove fu effettivamente bruciato Giordano Bruno, invitano i turisti nelle loro botteghe: il frate nero dal suo piedistallo di marmo osserva severo. Una spina nel cuore e nelle coscienze, la vita e la morte.
Durò 13 anni — dal 1876 al 1889 — la furibonda lotta tra i fautori e gli oppositori del monumento. Massimo Bucciantini, con cura meticolosa, tra storia e narrazione, ha ricostruito, attraverso la biografia della statua, un agitato pezzetto della vita politica postrisorgimentale. Senza tralasciare nel racconto l’apologetica cattolica che difese l’indifendibile con il negazionismo e la retorica anticlericale che rammenta spesso le reboanti orazioni di certi avvocati di provincia e degli urlanti politici ottocenteschi.
L’idea del monumento a Giordano Bruno non nacque dall’alto, non fu l’espressione di un sottile disegno politico antivaticanesco. A provocar la polemica e la faticata posa del monumento fu il discorrere di un gruppo di studenti universitari che si incontravano all’Osteria del Melone, vicino alla Sapienza, e facevano notte bighellonando nelle vie della città. Adriano Colucci, di Jesi, e Alfredo Comandini, di Faenza, entrambi studenti di giurisprudenza, furono a capo del movimento nascente. Poi presero ognuno, col passare degli anni, la sua strada, professore, deputato al Parlamento, scrittore, poeta, Colucci; deputato anch’egli, direttore di diversi giornali, anche del «Corriere della Sera», dal settembre 1891 al novembre 1892, Comandini. Furono i due giovani a guidare il primo comitato, a raccogliere fondi, a propagandare il progetto che tanto inquietava al di là del Tevere. Ma in effetti la vera mente fu un ebreo francese, Armando Levy, profugo della Comune di Parigi, filosofo, patriota, filantropo, «rivoluzionario romantico», più tardi massone, a innamorarsi del monumento e a farne una ragione di vita.
Il movimento della statua a Giordano Bruno si diffuse con rapidità in Italia e al di là delle Alpi. Non fu la massoneria, come si disse, la sua nutrice, anche se poi molti massoni furono ardenti sostenitori dell’idea. Ma con loro mazziniani, ex garibaldini, repubblicani, radicali, anarchici, liberali che si ribellavano al Sillabo papale, anticlericali senza etichette e, nell’altra fazione, i seguaci del Papa Re, i gesuiti di «Civiltà Cattolica», le figlie di Maria, la destra politica timorosa di un nuovo corso moderato, infuriata con la sinistra, i cattolici più intolleranti al riparo da ogni tentazione di autocritica, del tutto privi dell’arma del dubbio, senza un pizzico di vergogna o, almeno, di rammarico, indignati soltanto dall’oltraggio che quel monumento recava al Papa e al Vaticano.
L’idea dei due giovani studenti — fu poi un loro coetaneo bolognese, Giuseppe Vernazzi, a prendere la guida del movimento — ebbe consensi autorevoli e di gran nome, Victor Hugo, Ernest Renan, Rudolf von Jhering, Antonio Labriola, Andrea Costa, Cesare Lombroso, Giustino Fortunato, ma anche Garibaldi e gli eredi del «Risorgimento tradito».
Il saggio di Bucciantini è anche un trattato di scienza della politica italiana dopo la breccia di Porta Pia. Appaiono ben documentate le meschinità della classe dirigente dell’epoca, non troppo diversa da quella di oggi, le compromissioni, le prudenze, i timori di turbare la curia vaticana e anche il coraggio ribelle, la testardaggine di portare a compimento la statua scolpita da Ettore Ferrari. Due mondi, due Italie inconciliabili.
Il conflitto coinvolse segretari di Stato vaticani, presidenti del Consiglio, sindaci della capitale, Gran maestri della massoneria, cardinali, predicatori, studiosi di Giordano Bruno filosofo, allora quasi del tutto sconosciuto, e cittadini senza nome che parteciparono con fervore a manifestazioni, raccolte di denaro, pubblicazioni di libri e di pamphlet, polemiche pubbliche, cortei che i giornali dell’epoca documentarono.
La svolta liberatoria arrivò con Francesco Crispi presidente del Consiglio che rimosse ogni ostacolo. Vinse con lui la laicità «provvisoria» dello Stato. Fu un gran giorno di festa il 9 giugno 1889. Ne scrisse Émile Zola nel suo Diario .

Corriere 21.3.15
Henri Matisse l’anti Picasso
L’uomo mite che faceva parlare i quadri amico e rivale dell’artista-mattatore


Era il capobranco dei Fauves (delle belve) secondo la definizione del critico Louis Vauxcelles, che nel 1905 battezzò così gli artisti riuniti nella settima sala del Salon des Indépendants: i loro colori violenti, stesi in campiture piatte, senza ombre, apparivano infatti esercizi selvaggi rispetto alle regole accademiche. Eppure a Henri Matisse nulla era più estraneo di una personalità da leone.
Era nato a Cateau-Cambrésis nel 1869 e, dopo gli studi giuridici, aveva cominciato il praticantato. Solo in seguito a una lunga convalescenza cominciò a dipingere finendo per ritrovarsi a capo di un movimento d’avanguardia che precedette di due anni il Cubismo. Ma, a differenza di Picasso, lui sì un vero capobranco selvaggio, non diverrà mai un personaggio da rotocalco. Saranno i quadri a parlare per lui.
Nelle foto che Brassaï gli scattò nel 1939 nello studio di Nizza, Matisse sembra un «primario d’ospedale»: capelli e barba bianchi, occhiali dalla spessa montatura nera, camicia, gilet e cravatta coperti da un lungo camice bianco. A Matisse quelle foto piacquero, ma si sentì in dovere di spiegare: «Brassaï, io sono un uomo allegro, gioioso. E invece mi trattano come un severo professore e sembro un vecchio noioso». Del resto fu lo stesso fotografo a raccontare nelle sue memorie che all’entrata dello studio di Nizza c’era un semplice biglietto con scritto «Matisse, suonare due volte»; mentre in rue des Grands-Augustins, a Parigi, l’atelier di Picasso era segnalato sul campanello con un ipertrofico «ICI».
Picasso era esibizionista, mondano, egoista, sciupafemmine e comunista. Matisse condusse una vita defilata, notarile, priva di pettegolezzi, e attraversò due guerre mondiali senza che la felicità colorata della sua pittura ne risentisse.
Il loro primo incontro avvenne a casa di Gertrude Stein, intellettuale americana lesbo chic che aiutava Picasso e altri artisti in bolletta. Da allora i due campioni dell’avanguardia parigina non smisero mai di studiarsi da lontano. Se uno faceva un’odalisca, l’altro una demoiselle ; lo stesso per la colomba, rubata a Matisse per diventare un’icona picassiana, per i libri, le vetrate e molti altri spunti, come messo mirabilmente in luce da una mostra del 2002 a Londra. I due si ammiravano reciprocamente, ma facevano in modo di non farsi complimenti. «Nessuno ha mai guardato i quadri di Matisse più attentamente di me e nessuno ha guardato i miei più attentamente di lui» ammise Picasso.
Chissà, forse per questo rimasero entrambi creativi fino alla fine dei loro giorni e Matisse arrivò a una delle sue creazioni più felici, i papiers découpés , proprio negli anni estremi.
Entrambi sono autori di due fra le icone più conosciute dell’intera storia dell’arte: Guernica , manifesto mondiale contro le guerre; e La Danse , simbolo per eccellenza della gioia. Proprio in queste due icone è sintetizzata la loro differenza. Mentre Picasso provocava il pubblico affermando «Cosa credete che sia un quadro? Un oggetto da salotto? No, è un’arma da combattimento»; Matisse sognava «un’arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, senza soggetti inquietanti o preoccupanti […] Un lenitivo, un calmante cerebrale, qualcosa di analogo a una buona poltrona dove riposarsi».
E infatti, se per l’interpretazione delle figure dipinte in Guernica sono state scritte migliaia di pagine, per descrivere La Danse bastano tre parole, «joie de vivre», e tre colori: rosso, blu e verde, quello dei pini che si stagliano contro il cielo della Costa Azzurra, spiegò Matisse. Non c’è alcun dubbio che la popolarità della grande tela dell’Ermitage di San Pietroburgo dipenda proprio dalla sua semplicità, dal suo linguaggio immediato, istintivo, come è il segno libero e divagante dell’arabesco che nulla ha a che fare con la razionalità geometrica.
Fu Matisse stesso a descrivere le sue opere «di carattere eminentemente decorativo». E a Joséphin Péladan che sulla «Revue Hebdomadaire» rimproverava i Fauves di farsi chiamare «belve» ma di vestirsi come tutti gli altri tanto che la «loro prestanza non emerge più di quella di un caporeparto di grandi magazzini», Matisse rispose tranquillamente: «Il genio dipende da così poco?»

Corriere 21.3.15
Un alfabeto libero e sereno che parte dal lontano Oriente
Le influenze esotiche in oli, disegni, grafiche e costumi
di Edoardo Sassi


A rmonia, calma, riposo e perfino, volendo parafrasare il titolo di un suo celebre quadro, «lusso e voluttà»: tutte sensazioni che puntualmente il visitatore prova osservando, anche a distanza di decenni dalla loro creazione, i coloratissimi capolavori di Henri Matisse, con Picasso e pochi altri uno dei Grandi Nomi della pittura del XX secolo, protagonista della mostra allestita fino al 21 giugno alle Scuderie del Quirinale.
«Arabesque», il titolo scelto per questa rassegna curata da Ester Coen con l’intento di raccontare la lunga fascinazione che il tema «Oriente» ebbe sull’ispirazione del maestro francese. Non uno, in realtà, ma dieci, cento, mille Orienti diversi, in una geografia anche molto ideale e di pensiero che spazia dal Giappone alle terre dell’ex impero ottomano, dalla Russia all’Africa del Nord, dall’Italia del Sud all’Andalusia. Grandissimo viaggiatore ai quattro angoli del pianeta (nel 1930, per tre mesi, fu a Tahiti) e uomo nato in un secolo, l’Ottocento, in cui il termine esotismo aveva ancora un suo precipuo significato, Matisse tuttavia dipinse arabeschi e odalische sempre rifuggendo dal pittoresco : «Faccio delle odalische — amava dire — per fare del nudo, ma come fare del nudo, senza risultare artificioso? E poi le faccio perché so che esistono. Quand’ero in Marocco ne ho viste».
Un Oriente dunque che semmai si piega al suo alfabeto, nuovissimo per l’epoca, silenzioso e rivoluzionario; Oriente che, spiegano gli organizzatori, gli suggerisce «uno spazio più vasto, un vero spazio plastico e offre un nuovo respiro alle sue composizioni, liberandolo dalle costrizioni formali, dalla necessità della prospettiva e della somiglianza per aprire a uno spazio fatto di colori vibranti, a una nuova idea di arte decorativa fondata sull’idea di superficie pura». Ottantanove i lavori di Matisse selezionati per questa antologica tra oli, disegni, grafiche e costumi (realizzati con tessuti dipinti a mano per Le Chant du rossignol , celebre balletto del 1920 coreografato da Léonide Massine su note di Stravinskij).
E a questi si aggiungono, in chiave evocativa, altri materiali tipo le due grandi pareti formate da maioliche di Iznik, di tradizione turco‐ottomana del XV e XVI secolo (come è noto, oltre ai vasi islamici, alle preziose stoffe orientali e alle gabbie con tortore bianche, Matisse possedeva tessuti di tutto il mondo con cui usava tappezzare le pareti dei suoi atelier, nello stile delle abitazioni dei nomadi). Ma a colpire, in generale, è il buon livello dei prestiti internazionali per questo autore peraltro scarsamente presente nelle collezioni pubbliche italiane. Aprono e chiudono il percorso due tele del Museo Puškin di Mosca: Gigli, Iris e Mimose , (1913) e il famosissimo I pesci rossi (1911). In mezzo, almeno una ventina di strepitose invenzioni tra cui le Pervinche (o «Giardino marocchino») giunto dal MoMa di New York (1912), il picassiano Ritratto di Yvonne Landsberg (1914, Philadelphia Museum of Art), L’Italiana prestata dal Guggenheim di New York (1916), Zohra sulla terrazza (1912, ancora dal Puškin, per la prima volta in Italia), Marocchino in verde concesso dall’Ermitage di San Pietroburgo (1912), le Tre sorelle conservate al Musée de l’Orangerie di Parigi (1916-17), Interno con fonografo (1934) — una delle tre tele della collezione privata di Gianni e Marella Agnelli ora esposte nella Pinacoteca di Torino che porta il loro nome — e altri capolavori dalla Tate di Londra, Nation Gallery di Washington o Centre Pompidou , in grado di attirare ben 40 mila visitatori solo nelle prime due settimane di apertura.

Corriere 21.3.15
Io e Pablo, incantati da una testina africana
di Henri Matisse


Proponiamo qui lo stralcio di una intervista che Henri Matisse concesse nel 1952 a Tériade, pseudonimo di Stratis Eleftheriades (1889-1983), critico d’arte e giornalista
greco trapiantato a Parigi, il quale ebbe
numerosi contatti con gli artisti dell’epoca. Questa dichiarazione è riportata in mostra
e nel catalogo pubblicato da Skira editore. Andavo spesso da Gertrude Stein in
rue de Fleurus, e nel tragitto passavo ogni volta davanti a un negozietto d’antichità. Un giorno notai in vetrina una piccola
testa africana, scolpita
in legno, che mi ricordò le gigantesche teste di porfido rosso delle collezioni egizie al Louvre. Sentivo che
i metodi di scrittura delle forme erano gli stessi nelle due civiltà, per quanto estranee l’una all’altra per altri aspetti. Acquistata dunque per pochi franchi quella testina, l’ho portata a casa di Gertrude Stein.
Là ho trovato Picasso che
ne fu molto impressionato.
Ne discutemmo a lungo: fu l’inizio dell’interesse di noi tutti per l’arte africana — interesse testimoniato,
da chi poco e da chi molto, nei nostri quadri. Quello
era un tempo di nuove conquiste. Non conoscendo ancora molto bene neppure noi stessi, non sentivamo
il bisogno di proteggerci dalle influenze straniere, perché queste non potevano che arricchirci e renderci più esigenti in rapporto ai nostri individuali mezzi d’espressione. Fauvisme, esaltazione del colore; precisione del disegno dovuta al Cubismo; visite
al Louvre e influenze esotiche filtrate attraverso il museo etnografico del
vecchio Trocadéro: tutte cose che hanno modellato il paesaggio in cui vivevamo (...). Era un’epoca di cosmogonia artistica.
Foto: Maschera Wan-nyaka Mossi (XX sec.)

Corriere 21.5.15
Resta il più popolare, anche con le striscioline di carta
La Tate fa il record con una sua mostra di ritagli. Ma anche la moda e l’hi-tech si ispirano a lui
di Roberta Scorranese


Più di mezzo milione di persone ha visitato la mostra Henri Matisse: The Cut-Outs , ospitata alla Tate Modern di Londra fino al settembre scorso — poi la rassegna è stata ospitata al MoMa di New York fino all’8 febbraio. Per la precisione: 562.622 visitatori per un’esposizione che non prevedeva La Danse né altri lavori celebri del francese, ma, come dice il titolo, erano ritagli, papiers collés , le striscioline di carta dipinta che tennero in vita Henri negli ultimi anni. Stava male ma, dal letto, non rinunciò a lavorare e a dar vita a quell’universo parallelo che gli batteva dentro. Che gli suggeriva limpidezza.
Eppure, come spiega Nicholas Serota, direttore della Tate, il fatto che questa sia stata la mostra in assoluto più di successo alla galleria londinese, dimostra che «i lavori di Matisse hanno grande forza e capacità di penetrare l’immaginario delle persone di ogni età».
In fondo, la fortuna pittorica di Matisse è stata sempre legata a questa potenza che ha qualcosa di infantile, la stessa veemenza informale delle cose da bambini. Nei Pesci rossi , per esempio (1911), circonda il piccolo acquario di una vegetazione lussureggiante ma, sulla sinistra, inserisce l’angolo di una sedia di giunchi. Come a ricordare che quello scenario è realmente esistente, che potrebbe averlo creato nel suo studio («Credimi» dicono i bambini).
Molte delle opere matissiane, anche quelle influenzate da sensibilità esotiche che ci propone la mostra di Roma, hanno questa irresistibile dualità, in bilico tra realtà e immaginario. E in fondo lo diceva anche lui: «L’artista deve vedere tutte le cose come se le vedesse per la prima volta: bisogna vedere tutta la vita come quando si era bambini». Questo sguardo puro (per tutta la vita Matisse ha cercato la purezza, la levigatezza e stava in questo il motivo principale della sua ricca produzione seriale) gli ha portato, da un lato una certa iniziale diffidenza da parte dei critici ma anche, dall’altro, un consenso diffuso tra gli artisti.
Come ricorda Giuseppe Di Natale, che ha curato la recente mostra Matisse. La figura a Ferrara , «in Italia la sua influenza fu colta da persone come Gino Severini o Ardengo Soffici». Poi negli anni Cinquanta ecco che la pittura astratta lo «adotta» e molta avanguardia rielabora l’uso del colore. Matisse viene considerato come un maestro nell’utilizzo delle sfumature. Il catalogo della mostra, a questo proposito, annota una sua riflessione: «Il colore esiste in se stesso, possiede una sua speciale bellezza. Sono i crespi giapponesi che compravamo per pochi soldi in rue de Seine ad avercelo rivelato». Infine, la fortuna di Matisse nei contemporanei, a partire da Roy Lichtenstein: il suo Still life with Goldfish è ovviamente un omaggio all’artista di Le Cateau-Cambrésis.
Ma non solo l’arte ha saputo cogliere la limpidezza di Matisse. Uno come Giorgio Armani (Armani, uno dei meno inclini al colore), negli anni Novanta, ha disegnato una collezione esplicitamente ispirata ai pesci matissiani. E qualche mese fa John Casado, che creò il marchio del primo Mac (una mela, un pc schiacciato e un mouse), ha rivelato che, contrariamente a quanto è stato scritto finora, quell’idea non gli venne «da Picasso ma da Matisse». Una rivincita non da poco in una lunga storia di semirivalità.

Corriere 21.3.15
Cento capolavori da tutto il mondo (alcuni inediti in Italia)


Fino al 21 giugno, alle Scuderie del Quirinale (Roma) la mostra Matisse Arabesque . Proposta dalle Scuderie del Quirinale, promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, da Roma Capitale - Assessorato alla Cultura e Turismo, la rassegna è organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in coproduzione con MondoMostre. Il patrocinio è dell’Ambasciata di Francia. Catalogo: Skira . Curata da Ester Coen, con un comitato scientifico composto da John Elderfield, Remi Labrusse e Olivier Berggruen, «Matisse Arabesque», vuole restituire un’idea delle suggestioni che l’Oriente ebbe nella pittura di Matisse. In esposizione oltre cento opere dell’artista con alcuni capolavori (alcuni per la prima volta in Italia) dai maggiori musei del mondo dalla Tate al MET, MoMa, Puškin o Ermitage, Orari: domenica – giovedì 10-20; venerdì e sabato 10-22.30. Biglietti: € 12-9.50; info e prenotazioni: tel. +39.06.39967500; www.scuderiequirinale.it

Repubblica 21.3.15
Fumaroli ricostruisce la “République des Lettres”. Una storia da Petrarca a Voltaire
Un’Europa fondata sulla cultura
di Benedetta Craveri



In un continente insanguinato dalle guerre, poeti e filosofi non smisero mai di dialogare fra loro
Questa “società nella società”, poi adottata nelle diverse corti, “darà luogo a una comune civiltà”
Il poeta di Laura auspicava una solidarietà amichevole oltre le tensioni polemiche
Oggi è necessario insegnare il contrario di quel che si vede su uno schermo

PARIGI A PARTIRE dall’età dell’Umanesimo fino alla fine dell’Antico Regime, nell’Europa insanguinata dalle ambizioni dinastiche, dalle guerre di religione e dalle rivalità tra le grandi potenze, letterati — oggi diremmo intellettuali — di nazionalità e di fedi diverse non smisero mai di dialogare tra di loro in piena libertà di pensiero, uniti nella ricerca comune del bello, del buono e del vero. Una società nella società, per la quale il veneziano Francesco Barbaro coniò, nel 1417, il nome di Respublica litteraria.
Essa si servì come lingua di comunicazione internazionale del latino, e per quanto invisibile, fu di grande importanza per la storia della cultura europea. A questa esperienza Marc Fumaroli dedica La République des Lettres (Gallimard), una raccolta di saggi che testimoniano di una lunga, dotta e appassionata frequentazione.
Quando è iniziato il suo interesse per la Repubblica delle lettere?
«Quando ho letto l’epistolario di Petrarca e ho capito che mi trovavo davanti all’invenzione di una forma di relazione del tutto nuova, che connoterà la corrispondenza di Erasmo come quella di Voltaire. Nelle sue lettere Petrarca forniva agli uomini di alta cultura l’esempio di una solidarietà amichevole, di una socievolezza all’insegna della delicatezza e della fiducia, capace di trascendere le tensioni polemiche e i conflitti passionali in nome di un livello di civiltà superiore. Una forma di saper vivere che darà luogo a quello che chiamiamo civiltà europea».
A quando risale questa lettura?
«Agli anni della mia formazione. È stato il Petrarca filologo, innamorato dei testi antichi, a farmi capire come l’educazione umanista abbia il vantaggio di introdurci in un universo del tutto diverso da quello in cui viviamo. È questa distanza fra il mondo dei libri e il mondo reale che permette di acquisire un atteggiamento critico e che consente di vivere su due diversi registri, di giudicare l’uno attraverso l’altro, di non limitarsi a quello dell’attualità».
Lei stabilisce una linea di continuità che, da Erasmo a Voltaire, connota i cittadini della Repubblica delle lettere. Ma nella sua corrispondenza, Voltaire si appella anche all’opinione pubblica e denuncia l’impostura della rivelazione cristiana.
«Ma Voltaire è un erede della “disputa degli antichi e dei moderni”» .
Una disputa a cui lei ha consacrato un libro: Le api e i ragni.
«Sì, mi è sembrato necessario mostrarne tutta l’importanza. Nell’ultimo ventennio del Seicento, all’apice della gloria, Luigi XIV, i suoi collaboratori Colbert, Perrault, e gli scrittori cosi detti “moderni”, come Fontenelle, hanno voluto convincere l’Europa che la cultura francese, al punto di eccellenza in cui era arrivata grazie all’”operazione Petrarca”, non aveva più bisogno degli antichi. Ci si era serviti di loro per arrivare in cima alla vetta e raggiungere uno stadio di sapere superiore e ora si poteva vivere su delle basi esclusivamente moderne. Questa è l’epoca che ha ceduto il passo alla nuova scienza e alla filosofia dei Lumi. Luigi XIV si assicurò, attraverso una costellazione di accademie, la collaborazione della Repubblica delle lettere. Voltaire vi vedeva una rivoluzione pacifica che faceva dello Stato illuminato il rivale vittorioso della Chiesa. Si può ugualmente sostenere che allora prende inizio una separazione eccessiva tra educazione umanistica, odiata come cristiana, ed istruzione pubblica razionalista, scientifica e laica».
Non sempre, però, le relazioni tra membri della Repubblica delle lettere erano così ecumeniche e amichevoli. Basta pensare alla guerra fra Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla a proposito del De rerum natura di Lucrezio.
«Ma anche le liti più aspre si svolgevano in un’atmosfera che era di considerazione reciproca. Quando Bayle affermava che “la Repubblica delle lettere era una guerra permanente, dove il padre non esitava a condannare il figlio”, intendeva dire che l’onestà intellettuale imponeva tanto l’autocritica che la critica, a garanzia contro i ciarlatani e le idee false».
Nell’ Età dell’eloquenza lei rinnova gli studi di retorica e ne riafferma l’importanza. Perché, come sosteneva anche Ezio Raimondi, è essenziale per lo studio delle lettere? «La retorica è una griglia interpretativa ma, in primo luogo, è un educazione delle forme. Essa insegna a non considerare la parola come l’espressione egoista del proprio io ma come il desiderio di rivolgersi all’altro. Non è un sistema di dogmi, è il risultato di un’esperienza profonda del linguaggio, è il ricorso a una tradizione, a dei modelli che ci permettono di adattare il nostro discorso alle circostanze. E con essa le relazioni sociali sono più feconde. La retorica è una vittoria sulla violenza».
Se la retorica è l’arte di adattarsi al pubblico cui ci si rivolge, essa non risponde anche agli obbiettivi della produzione culturale contemporanea?
«La retorica non si riduce a un adattamento servile della parola all’opinione pubblica e al politically correct anonimo. Se così fosse il suo ideale sarebbe la pubblicità di massa o, peggio, la propaganda populista. Essa ha imparato da Socrate che per persuadere bisogna screditare gli errori correnti. La letteratura e la poesia attuali, quando sfuggono alla tirannide della pubblicità commerciale e ideologica, si rivolgono a individui che cercano di sottrarsi al condizionamento sociale, e non già alla folla che chiede di essere condizionata ».
Lei dichiara di vivere in due temperie culturali diverse. Ma quando smette di colloquiare con gli autori del passato e si confronta con il mondo contemporaneo, il suo approccio — Lo Stato culturale insegna — è fortemente polemico.
«Quello che mi ha consentito di passare dalla dimensione di studioso del passato a quella dell’attualità è innanzitutto il problema dell’educazione dei giovani. Un problema fondamentale, che è al cuore della tradizione classica e umanistica, e di cui abbiamo sottovalutato troppo l’importanza. Oggi, in Francia come in Italia, l’educazione si pone come obbiettivo di acclimatare i giovani al mondo in cui sono nati, là dove sarebbe necessario insegnare loro il contrario di quanto si vede dalla mattina alla sera sui loro schermi. Il che non significa un rifiuto del mondo attuale, ma l’invito a guardarlo in una prospettiva critica».
Cosa pensa delle discussioni seguite alla tragedia di Charlie Hebdo su libertà d’espressione e diritto o meno alla blasfemia?
«La libertà d’espressione è una delle grandi conquiste moderne della civiltà europea, perseguita fin dall’inizio dalla Repubblica delle lettere. Ma la libertà d’espressione non può voler dire una libertà “espressionista”, senza legge, senza regola, senza tatto. La libertà d’espressione, come la libertà toutcourt, implica padronanza di sé e considerazione per l’altro. Anche la satira ha i suoi limiti. E la blasfemia non è il metodo più sottile ed efficace per rendere odiosi il fanatismo e la barbarie».

LO STUDIOSO Marc Fumaroli ha insegnato al College de France. È storico della cultura e si è occupato di retorica. Fra i suoi libri, Lo Stato culturale e Le api e i ragni ( Adelphi)

Repubblica 21.3.15
Tarantismo la riscossa delle donne ragno
A 50 anni dalla morte di Ernesto de Martino l’antica cultura salentina protagonista delle sue ricerche è più viva che mai
di Marino Niola


IL tarantismo è finito. Anzi no. Le tarantole pizzicano ancora alla grande. Ma questa volta non mordono più le raccoglitrici di tabacco salentine, stremate dalla fatica, cresciute a fave e cicoria e rimaste impigliate negli ingranaggi di una storia inceppata, di una mobilità sociale negata. Quelle che danzavano la loro ribellione sul ritmo sfrenato della pizzica, cercando di schiacciare con il piede quel ragno immaginario che era il simbolo del loro mal di vivere. Oggi ad essere morse dall’aracne mediterranea sono le nuove generazioni che hanno fatto della taranta un emblema identitario trasversale.
Una nuova patria culturale, come avrebbe detto Ernesto de Martino, fondatore dell’antropologia italiana, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della scomparsa. Ed è proprio de Martino, all’origine di questo revival. Perché con il suo capolavoro La terra del rimorso (1961) fece del tarantismo l’emblema di un Meridione dell’anima, di un Sud stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione. Il reperto di una perturbante archeologia sociale impressa nei gesti e nei corpi, nelle ossessioni e nelle devozioni di un mondo solo apparentemente arcaico e lontano dalle grandi direttrici dello sviluppo che, in quegli anni, rivoltava il paese come un guanto. Mentre in realtà quella scheggia dionisiaca era l’altra faccia del miracolo economico. Perché Rocco e i suoi fratelli, che erano andati ad avvitare bulloni nelle fabbriche del Nord, avevano lasciato al paese le sorelle. Che continuavano a ballare in trance, come menadi disoccupate.
Come accade ai grandi classici, il libro di de Martino da allora ha continuato a scriversi, dando origine a una nuova stagione culturale e politica che dalla metà degli anni Novanta ha rovesciato in positivo l’ombra nera del ragno. Da zavorra del passato a risorsa per il futuro, da relitto folklorico a prodotto tipico, bene culturale. Lo racconta Giovanni Pizza, antropologo dell’università di Perugia, in un bel libro in uscita da Carocci. Titolo, Il tarantismo oggi . Una sorta di making of di quella fabbrica collettiva che in questi anni ha rispolverato la tradizione della taranta ballerina facendone un’icona glocal, un brand ad alta definizione da vendere sul mercato globale delle differenze culturali. E perfino un mito politico. Non a caso il ragno è diventato il leitmotif di una produzione artistica, letteraria, cinematografica, musicale, teatrale. Nel 1994 un regista come Edoardo Winspeare gira Pizzicata, un film liberamente ispirato a La terra del rimorso . Che proprio allora viene ristampata, dopo diciotto anni di assenza in libreria, e sull’onda travolgente del neo-tarantismo diventa, per la prima volta, un bestseller. La Bibbia del tarantismo. L’editoria locale comincia a sfornare a ripetizione libri con storie di tarantolati, veri o presunti, che si vendono perfino nelle tabaccherie di paese.
Ovviamente in questo revival la musica fa la parte del leone, con gruppi come Il Canzoniere Grecanico-Salentino e i Sud Sound System, che traducono il mood della pizzica in world music. Anche perché sin dai tempi antichi la cura del morso, l’antidotum tarantulae, è fatta di ritmo e di danza. Sono secoli che il frenetico ballo delle donne possedute dal ragno — quello che Paracelso, il grande medico e filosofo rinascimentale, chiamava Lasciva Chorea, cioè ballo licenzioso — è un topos dell’immaginario colto di tutta Europa. Tanto che un personaggio come Giovanbattista Marino, simbolo della letteratura barocca, dedica sonetti da antropologo ante litteram alle crisi frenetiche dei tarantolati. E un altro grande secentista, il funambolico Giacomo Lubrano, nel poemetto Stravaganza velenosa della tarantola descrive con precisione da etnografo il doppio pizzico del ragno, che è il vero algoritmo del tarantismo. Il primo morso, che provoca la crisi iniziatica e poi il rimorso, che arriva puntuale ogni anno il 29 giugno, giorno di san Paolo, che delle tarantole è considerato il signore e padrone, il mandante e il guaritore.
Ma il primo in assoluto a fare dell’aracnide il logo della Puglia è il grande Cesare Ripa, a fine Cinquecento, quando nella sua Iconologia — uno dei libri più venduti e influenti del tempo — raffigura il tacco d’Italia come una bella donna che danza, vestita di «un sottil velo» costellato di tarantole e ha ai suoi piedi un tamburello, insieme ad altri strumenti che oggi chiameremmo musicoterapici. In fondo questo grande costruttore di immagini e di immaginari inaugura quella “tarantolizzazione” dell’identità pugliese che oggi i politici e gli amministratori locali trasformano in uno strumento di marketing territoriale. Simbolo del riscatto di un Sud che non vuole diventare la brutta copia del Nord e che sceglie di guardare dentro di sé per cercare nuovi cammini. E la Notte della taranta, il festival musicale che ogni anno richiama centinaia di migliaia di appassionati a Melpignano e in altri paesi salentini, è la sintesi esemplare di questa fitta rete di strategie economiche, di narrazioni identitarie, di processi di patrimonializzazione che nascono ancora una volta da quel morso.
Un’inversione della tradizione, che sta facendo del Salento una delle aree più interessanti e innovative d’Italia. A riprova del fatto che il cantiere d’idee aperto da de Martino, ed esplorato ora da Giovanni Pizza, continua a essere un laboratorio culturale anche visto da fuori. Come dire che siamo tutti tarantolati.

IL SAGGIO Il tarantismo oggi, di Giovanni Pizza (Carocci pagg. 176 euro 26) In libreria dal 26 marzo

Repubblica 21.3.15
Potere e pathos
Così l’arte greca regalò le emozioni alla scultura
A Firenze nelle sale di Palazzo Strozzi sono in scena i bronzi ellenistici in arrivo dai grandi musei del mondo
di Paolo Russo


LE PIÙ belle, e meglio conservate, son quelle riemerse dal Mediterraneo e dal Mar Nero. E ora in Palazzo Strozzi sfilano per Potere e pathos. Bronzi del mondo ellenistico ( fino al 21 giugno). A chi li ha trovati, devon’esser apparsi come magiche epifanie avvolte nel liquido silenzio d’un verde-blu senza tempo. Ed ecco dal II secolo a.C. la Testa Ritratto d’uomo con la kausia, il tipico cappello macedone, preziosa pure per gli occhi in alabastro (le statue ellenistiche li avevano di norma ed erano policrome con inserti di rame, oro e argento), tolta all’Egeo nel ‘97. O la Figura maschile ripescata nel ‘92 da alcuni sub vicino Brindisi a soli 16 metri. Ancora, un probabile discobolo del IV-II secolo rimasto nelle reti d’un peschereccio, era il 2004, vicino l’isola greca di Climno, oggi splendido anche dei suoi bagliori verdi e rossastri di bronzo ossidato.
FIRENZE
Fino alla magnetica, imponente Testa d’Apollo , che al Museo di Salerno commosse Ungaretti al punto di fargliela paragonare, in una immaginaria cronaca di quel fatto, agli occhi del pescatore di alici che la tirò su nel 1930, al Battista. La terra nei millenni non è stata lieve al bronzo. Meno ancora gli uomini, che i capolavori ellenistici in quella lega di rame e stagno allora più pregiata dell’argento e al pari dell’oro, li han rifusi senza pietà per farne armi e danari. Bellezza, morte e “sterco del diavolo” stretti in un sinistro paradosso. Accanto al quale, la fine della committenza (chi nel pio Medioevo pagava per statue nude o poco vestite?), cancellò la memoria visibile di quei tesori e l’insuperata maestria tecnico- espressiva che li aveva generati durante l’Ellenismo, fra IV e II secolo a.C. Per riconquistarla, insieme alle stupefacenti conoscenze anatomico-dinamiche di Fidia, Lisippo, Dedalo e gli altri maestri del periodo, ci vorrà il ‘400 di Ghiberti e Donatello. Fu l’Ellenismo un periodo lungo e fausto, che Alessandro lanciò sulle ali del suo sogno di unire le culture d’oriente con quella greca, alla quale fu educato da Aristotele. Un’utopia cosmopolita iniziata nel 336 a.C. con la conquista delle polis e terminata ai confini dell’India nel 323 a.C. con la morte a 33 anni di quel formidabile condottiero e visionario statista. Di quell’epoca irripetibile, cincoli quanta bronzi, per lo più divinità ed atleti, prestati da alcuni dei maggiori musei del mondo, raccontano ora una creatività fra le più alte della storia.
Benissimo curata da Jens Daehner e Kenneth Lapatin del Getty Museum di Los Angeles, la mostra si segnala inoltre per sintesi, eleganza d’allestimento, cura delle luci, i testi esaurienti e parchi delle sette sezioni. Avviate da un vuoto basamento firmato Lisippo, a suggerire l’assenza dei capolavori inghiottiti dai millenni, mentre il loro invece permanere è incarnato dall’ Arringatore, celebre pezzo di fine II secolo già di Cosimo I e conservato all’Archeologico di Firenze, che dal 20 marzo ospita una mostra su tre secoli della nota passione mediceo-lorenese per l’antichità. Un legame di profetica modernità quello fra ellenismo e i se- a venire. Che la mostra allarga dagli specialisti a chiunque. Si veda la superba Testa di cavallo “ Medici- Riccardi”, già di Lorenzo e restaurata per l’occasione, palesemente analoga sia alla Protome Carafa che a quella del monumento a Gattamelata, entrambe fusioni di Donatello, che i Medici vollero curatore delle loro raccolte antiche. Colpisce anche lo splendido Eros dormiente , archetipo del figlio di Afrodite ed Ares qui reso in un ideale di dolce innocenza già tal quale putti e cherubini rinascimentali. Quell’immenso, febbrile laboratorio politico, amministrativo e culturale che partorì la Biblioteca di Alessandria, Archimede e Aristarco di Samo, la nascita della filologia, fu tanto importante da sopravvivere al suo artefice. L’arte, anche decorativa, svettò, dando profondità emotiva e dinamica mai viste, credibilità anatomica, alla relativa fissità della pur già sofisticata statuaria arcaica e classica, ne ampliò gesti e posture, conferendo a quei tesori una relazione novissima col mondo esterno. E cancellando l’idealizzazione della classicità, per accogliere realismo e quotidiano, limiti e difetti, lo straniero e il deforme fin lì banditi dal sacro recinto dell’arte. È il caso della Statuetta di un artigiano del Met, un vecchio brutto, calvo e zoppo dalla povera veste, il cui taccuino nella cinta depone però più a favore di un artista. Lo splendore dell’Ellenismo trionferà anche nella Roma imperiale che conquistò la Grecia, dopo aver sedotto quella repubblicana e gli etruschi. Nel miracoloso sincretismo di quel futuribile cantiere dalle mille etnie e culture, l’arte greca resta centrale ma convive con altri centri di produzione – Egitto e Turchia – in uno scambio costante. Nello sconfinato impero che Alessandro conquistò con tale fulminea potenza da avviare, lui ancora in vita, la propria divinizzazione, parrebbe profilarsi una sorta di globalizzazione. Ma più che retrodatare un concetto a torto ritenuto nuovo e nostro, è più proficuo riconoscervi la storia che torna: come con l’impero romano, quello di Gengis Khan, il colonialismo eurocentrico che prese le mosse dalla cultura del Rinascimento.
A corredo della rivoluzione estetica e produttiva, l’ellenismo va annunciando anche un mercato dell’arte affatto diverso dal nostro. La committenza si sposta dalla polis alla corte ed ai privati, celebrando il primato della ritrattistica e, vero status symbol, le glorie di entrambi, anche in quanto collezionisti, mai prima d’allora così numerosi. L’arte vola ai confini dell’impero e oltre: un diffuso canone di bello è ulteriore koinè d’un’élite che ai temi civili della classicità preferisce realismo e intimismo. E a quella bulimia estetica gli originali non bastan più: i maestri, non più soli nelle loro botteghe- aziende, assemblano col mastice parti di corpi di cui hanno grandi riserve, secondo le caratteristiche del soggetto. Come, mutatis mutandis , accadrà coi Della Robbia, Perugino, i multipli anni Sessanta. Duemila anni prima di Benjamin, grazie al bronzo e all’esattezza delle repliche da fusione indiretta a cera persa (utilissima la saletta sulla complessa tecnica), l’opera è già riproducibile, legalmente e non, perché pure i falsari son già all’opera. La copia, come nel Rinascimento “malato” di classicità, assurge ad un’importanza inedita. Meglio se d’autore, ovvero gli eccelsi artigiani greci che nella Roma imperiale, benché ancora artigiani (lo status d’artista arriva, come si sa, intorno al 1200), firmavano fieri le proprie creazioni per le case dei potenti, che gareggiavano coi generali i quali, fino a tutto il II secolo a.C., riporteranno come trofei i bronzi razziati in guerra.

Repubblica 21.3.15
Alessandro Magno abita ancora qui e detta le mode
I sovrani vollero nella propria biblioteca i libri di tutti i popoli
Dal tempo del sovrano la nostra epoca ha ripreso la rappresentazione della politica e il senso del collezionare
di Maurizio Bettini


NEL 1821, sotto l’emozione dei primi scontri fra Turchi e patrioti greci, Percy Bysshe Shelley scriveva a Pisa una tragedia dal sintomatico titolo di Hellas: «Tutti noi siamo Greci» affermava perentoriamente nell’introduzione «le nostre leggi, la nostra letteratura, arti, tutto ha le proprie radici in Grecia». Ammettiamo che Shelley avesse ragione (e ne dubito), ma “quali” Greci dovremmo poi essere? Forse quelli di Omero, che si scontravano nella piana di Troia per brama di gloria? O quelli che si contendevano il potere nella democratica Atene e in questo (disgraziatamente) sembrano proprio come noi? I Greci che invasero il mondo conosciuto al seguito di Alessandro, per poi creare grandi regni attorno ai suoi generali? O quelli che, sotto l’impero di Roma, imposero la propria lingua e la propria cultura anche ai conquistatori? Di Greci ce ne sono stati tanti. Non credo che Shelley approverebbe, ma proviamo a immaginare che la sua frase dovesse suonare piuttosto così: tutti noi siamo Greci, cioè, ellenistici.
Lo saremmo, in primo luogo, per i palazzi del potere di cui la l’Europa è tuttora disseminata: ma la cui invenzione si data a partire dal IV secolo a.C. Erano edifici maestosi, splendidamente decorati, di cui le antiche poleis greche non avevano bisogno, quando non ne avevano disdegno. Ne fiorirono a Pergamo, Antiochia, Alessandria, vasti complessi che fungevano tanto da residenze regali quanto da locali di rappresentanza. Agli inizi del III secolo Tolomeo IV d’Egitto si fece costruire perfino un palazzo in versione galleggiante, da utilizzarsi sul Nilo. Ma ellenistici noi saremmo non solo per quanto riguarda gli edifici del potere, bensì, in generale, per la sua rappresentazione: del potere infatti l’ellenismo inventò la messa in scena, e ne fissò i tratti per tutti i regni e i potentati a venire. Gli artisti che lavorarono attorno ad Alessandro si impegnarono in primo luogo a divulgare l’iconografia del sovrano attraverso tutti i media a loro disposizione, ma insieme ne circondarono la figura di cacce, battaglie, rituali, matrimoni, scene di famiglia – insomma tutto quell’armamentario figurativo che a noi, moderni visitatori di regge o palazzi “ancien régime” appare, come dire, scontato, quasi fosse connaturato all’esistenza stessa del potere; ma che invece ha un’origine precisa. Ellenistici noi saremmo poi per il fasto non solo iconografico, ma anche di piazza. Nell’Egitto tolemaico esso dette vita a spettacoli variopinti e smisurati, in cui antichi rituali religiosi si mischiavano a parate militari e invenzioni allegoriche. Nel 279 a.C. Tolomeo II Filadelfo, inaugurando la festa dedicata ai propri genitori, deificati, fece sfilare centinaia di giovani vestiti da satiri che versavano vino e latte alla folla, mentre un Dioniso colossale – un automa – si esibiva assieme a Nysa, la sua nutrice. Nella processione spiccava perfino un fallo alto cento ottanta piedi. Si deve ancora ai Tolomei il gusto di esibire, davanti agli occhi stupiti dei sudditi, sfilate di animali esotici, quadrupedi ed uccelli, in rappresentanza delle meraviglie del mondo: forse non è un caso se i re che vollero rappresentati, nella propria Biblioteca, i libri di tutti i popoli, ad Alessandria vollero raccogliere anche una sorta di vivente enciclopedia, o collezione, animale. Perché non dimentichiamo che ellenistici noi saremmo anche per il gusto del collezionismo, la cui origine si data in quel periodo. Plutarco racconta che Arato di Sicione (III a.C.) collezionò dipinti e disegni di “antichi maestri” della sua città; mentre l’abitudine di collezionare sculture preziose si diffuse rapidamente, fino a raggiungere proporzioni straordinarie nelle ricche abitazioni della Delos tardo ellenistica. In questo senso i visitatori della mostra fiorentina, ammirando una “collezione” di tesori ellenistici, parteciperanno a un evento che ellenistico lo è doppiamente.

Il Sole 21.3.15
A Pompei riapre la Villa dei Misteri
di Francesco Prisco


Tormento ed estasi su sfondo rosso. Se c’è un posto che più di ogni altro racchiude l’essenza di Pompei, area archeologica di incomparabile bellezza e storia tormentata quanto nessun altro nell’Occidente civilizzato, questo posto è Villa dei Misteri. Non è un caso se ieri mattina, alla cerimonia di riapertura al pubblico dopo due anni di restauri del complesso suburbano celebre per gli affreschi dionisiaci, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini ha preteso di intervenire in prima persona, “mettendoci la faccia” come aveva fatto un anno fa, quando, all’indomani del suo insediamento, nel sito si erano verificati tre crolli in una settimana.
«Oggi è un giorno davvero importante per Pompei, – ha detto l'inquilino del Collegio Romano – l'Italia restituisce al mondo altre meraviglie. Abbiamo alle spalle un anno di lavoro straordinario».
Villa dei Misteri, da oggi di nuovo fruibile dopo un intervento da 900mila euro a cura della ditta Atramentum, ci mette poco a diventare il pretesto per parlare del Grande progetto da 105 milioni che, dopo un avvio complicato, ha finalmente ingranato la marcia, grazie all'Action plan imposto da Bruxelles a luglio scorso. «Abbiamo chiuso tre cantieri, – dice Franceschini - altri tredici sono aperti, nove gare sono già avviate e quest'anno a vario titolo abbiamo assunto 85 persone. I visitatori - prosegue il ministro - nel 2014 sono aumentati di 200mila unità. Abbiamo in programma moltissime iniziative anche in occasione dell'Expo. Sappiamo che il mondo guarda con puntigliosa attenzione quel che avviene a Pompei. Oggi l'Italia è orgogliosa di dire al mondo: a Pompei abbiamo voltato pagina». Nonostante il recupero e l'affidamento diretto delle gare dell'ultima tranche del Piano delle opere a una shortlist di aziende individuate da Invitalia, non c'è alcuna certezza che le risorse del Grande progetto verranno completamente spese entro il termine del 2015. Eppure ai piedi del Vesuvio già si guarda alla programmazione 2014-2020. «Ritengo – dichiara il ministro – che dopo aver dato alla Comunità europea prova di aver lavorato e speso bene le risorse che ci hanno dato, faremo nuove richieste all'Ue, che credo verranno gestite sempre dal Grande progetto». Si guarda anche in direzione dei privati: «ci sono molte attenzioni da sponsor», grazie anche all'introduzione dell'Art Bonus. «Ma siccome – precisa Franceschini - non sono ancora definitivi gli accordi, non mi sembra il caso di parlarne». Risorse private che, secondo il ministro, «potranno integrare quelle pubbliche, ma ovviamente non sostituirle». Il lavoro di tutela e restauro a Pompei sarà «perenne, ma stiamo ragionando anche sui servizi e sulle strutture di accoglienza, viabilità, trasporti e alberghi» che nell'hinterland vesuviano non sono mai stati all'altezza degli straordinari attrattori ospitati. Quanto all'ordine pubblico e al problema dei furti di opere d'arte, «stiamo lavorando per rafforzare il personale di sorveglianza e introdurre nuove tecnologie». Con le risorse straordinarie di Bruxelles il “brand” Pompei si promuove anche meglio: in arrivo due mostre in concomitanza con Expo, una al Museo archeologico di Napoli dedicata all'influenza degli scavi sulla cultura europea, l'altra con i calchi del sito restaurati ed esposti nell'Anfiteatro. Quasi un paradosso perché, da Edward Bulwer-Lytton a Paul W. S. Anderson, nessun sito archeologico ha esercitato una tale fascinazione sui moderni. Nelle sue precedenti tappe pompeiane Franceschini non era mai apparso così ottimista. Più che il recupero del Grande progetto – che a qualcuno appare ancora «virtuale», dal momento che i cantieri chiusi continuano a essere soltanto tre – ha dalla sua l'ultimo report Unesco che, nonostante qualche critica (in particolare sul piano di gestione, ancora lacunoso) e un dubbio (che succede dopo il Grande progetto?) ha sostanzialmente promosso l'Italia parlando di «miglioramenti tangibili e significativi nello stato di conservazione» e scongiurando il rischio che la città di Lucrezio finisca nella lista dei siti patrimonio dell'umanità in pericolo. Come i monumenti del Medio Oriente, a protezione dei quali, ieri, lo stesso ministro dei Beni culturali invocava l'intervento dei caschi blu. I “caschi blu” di Pompei sono gli addetti alla manutenzione ordinaria. Nessuno, complice il blocco del turnover nella pubblica amministrazione, ha ancora pensato a come reclutarli.