sabato 4 gennaio 2014

l’Unità 4.1.14
Il medico, i pazienti e il caso Stamina
di Carlo Flamigni


l’Unità 4.1.14
Fiat-Chrysler
Intervista a Luciano Gallino «Ma per l’Italia non c’è lavoro»
di Massimo Franchi


il Fatto 4.1.14
Caso Chrysler. Il segretario della Fiom vuole incontrare Marchionne
Fiat, Landini non brinda: “Renzi e Letta svegliatevi”
di Salvatore Cannavò


“Solo gli sciocchi stappano bottiglie”. Maurizio Landini, segretario della Fiom, probabilmente l’avversario numero uno di Sergio Marchionne, fedele al proprio ruolo non si accoda agli entusiasmi per l’operazione Chrysler. Ma non si limita a criticare. Anzi. Alla Fiat manda a dire che “si è chiusa una fase” e che è ora di riprendere una trattativa con tutti i sindacati dicendosi disposto a incontrare Marchionne in qualsiasi momento. Poi chiama in causa il grande assente, il governo Letta: “Deve convocare la Fiat immediatamente, a gennaio”.
La Fiom, quindi, non festeggia?
Dal punto di vista degli operai, se la Fiat non fa gli investimenti, se la famiglia non ricapitalizza, se non si portano nuovi modelli in Italia non c’è un grande cambiamento. Solo la conferma che il centro strategico del nuovo gruppo non è più in Italia. Il punto è sapere quali investimenti si faranno. A partire dal marchio Alfa Romeo .
Marchionne ha però ottenuto un successo pieno.
Marchionne ha garantito i dividendi degli azionisti. Prima è riuscito a farsi pagare da General Motors (nel 2004, ndr) per non essere comprato. Ora è riuscito ad avere il controllo della Chrysler senza tirare fuori molti soldi. Emerge una capacità finanziaria del dottor Marchionne, ma la domanda che si deve porre un lavoratore, e il governo italiano, è semplice: dove verranno presi i soldi per fare investimenti in Italia. E quali investimenti?
La richiesta principale della Fiom?
Questa vicenda mette in risalto il ruolo dell’Amministrazione Obama senza la quale non si sarebbe salvata l’attività produttiva. La nostra richiesta esplicita al presidente del Consiglio è che è giunto il momento di avere una sede coordinata dal governo in cui fare una discussione su investimenti e produzione per difendere l’occupazione e continuare a produrre auto nel nostro Paese.
Qual è invece la richiesta alla Fiat?
Che finalmente tiri fuori un po’ di soldi. Finora la famiglia proprietaria ha incamerato i dividendi senza impegno di capitale o di aumento delle produzioni. Per fare investimenti a Cassino o Mirafiori servono almeno 18-24 mesi. Quindi il governo deve immediatamente intervenire e la famiglia deve impegnarsi a fare nuovi modelli nel nostro paese.
Sembra di sentire l’adagio renziano del “non c’è più tempo”.
Infatti non c’è più tempo e io mi rivolgo al governo, ma anche a Renzi e a tutti gli altri. Parlare di piano del lavoro senza parlare di politica industriale non basta. Per creare lavoro ci vogliono anche nuove regole, ma in primo luogo serve una politica industriale e un piano straordinario di investimenti pubblici e privati. È singolare che si punti a far investire le imprese estere nel nostro paese e intanto le italiane vanno all’estero.
Cesare Romiti invita Marchionne a presentare i nuovi piani prima di aprile.
Io penso che debba farlo a gennaio e Letta deve subito convocare la Fiat per fare esplicitamente questa discussione.
Pensa che con la Fiat si sia chiusa una fase?
Sì, anche dopo la sentenza della Corte costituzionale la Fiom è tornata in fabbrica e abbiamo il diritto di fare assemblee. È arrivato il tempo di avere un tavolo unitario e gli altri sindacati sbagliano a opporsi.
È pronto a incontrare Marchionne?
Assolutamente sì. L’ho visto solo due volte: in un incontro ufficiale con il governo e poi alla presenza dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. Un sindacalista non rifiuta mai un incontro e sarebbe utile poterne fare uno vero. Anche perché, finora, in Italia non c’è spazio per particolari festeggiamenti. Solo gli sciocchi stappano bottiglie.

il Fatto 4.1.14
Prospettive
Se Chrysler ride, gli operai italiani piangono
di Sal. Can.


Passata l’euforia del primo momento per il successo di Marchionne, la vicenda Fiat-Chrysler lascia spazio alla riflessione. Sui principali giornali si leggono ancora cronache entusiastiche, ma i giudizi più interessanti provengono da ex manager Fiat come Paolo Fresco, intervistato da Repubblica e Cesare Romiti, sentito da Dagospia. L’ex presidente della Fiat non lesina i complimenti a Sergio Marchionne. La sua intervista al quotidiano di Ezio Mauro, però, permette di ricordare un capitolo dell’avventura americana del Lingotto, quella dell’accordo con la General Motors. “Per la Fiat – ricorda Paolo Fresco – fu molto proficuo. Incassammo in tutto quasi 5 miliardi di dollari”. Una parte, 2,4 miliardi, fu il prezzo pagato da General Motors per il 20% della Fiat ma in seguito, la Fiat utilizzò la clausola put per sciogliere l’intesa costringe GM a un accordo che costò a quest’ultima 2 miliardi. Quell’accordo fu negoziato da Fresco ma concluso, nel 2004, da Marchionne. Con quei soldi si spiega il primo periodo della gestione del manager italo-canadese, generalmente molto apprezzata.
DI ALTRO TENORE LE PAROLE di Cesare Romiti, amministratore delegato nel 1980, l’uomo della “marcia dei 40 mila” e uno dei dirigenti di maggior esperienza in Fiat dopo l’era di Valletta. Anche Romiti fa i complimenti a Marchionne ma sembra più freddo. “Sarà meglio che presenti il piano industriale prima di aprile”, dice a Dagospia mostrando comprensione per “le preoccupazioni sugli stabilimenti in Italia”. Una stoccata, poi, anche per Enrico Letta: “Quando noi trattammo con Lee Iacocca (il presidente Chrysler negli anni 90) fummo convocati dal governo”. Ieri il titolo Fiat ha avuto una fase di assestamento lasciando circa il 2% in una borsa molto positiva. Ma per Agnelli e soci sono giunti i positivi dati delle vendite Chrysler negli Usa, aumentate in dicembre del 6% a 161 mila unità. “Si tratta del miglior dicembre dal 2007” specifica l’azienda e “il quarantacinquesimo mese consecutivo di crescita”.
A spiccare, il nuovo Jeep Cherokee e il Ram pickup, eletto “Truck of the Year” dalla rivista Motor Trend. Positive anche le vendite del marchio Fiat che hanno registrato un incremento dell’1% rispetto a dicembre 2012.
Se negli Usa si ride, però, in Italia si piange ancora. Sul fronte delle autovetture, infatti, la Fiat si è fermata sotto le 400 mila unità, arrivando a 600 mila solo grazie ai veicoli commerciali. Il “piano quinquennale” 2014-2018 sarà presentato ad aprile e lì si capiranno le prossime scelte. Intanto, su un totale di 30.700 occupati in Fiat auto (compresi i 3000 dipendenti della Ferrari e i 700 della Maserati), circa un terzo, 11 mila, sono in cassa integrazione più o meno parziale. Tra questi, anche i 1800 operai di Termini Imerese, lo stabilimento siciliano chiuso nel 2011 e sul quale non si sa nulla.
LE COSE NON VANNO MEGLIO per quanto riguarda gli investimenti. Quando lanciò “Fabbrica Italia”, Marchionne promise 20 miliardi di nuovi investimenti. Ad oggi è ferma a 4,5 miliardi.
Entrando nel dettaglio, lo stabilimento di Mirafiori, esclusa la direzione e il reparto Motori, impiega 5.300 dipendenti per i quali l’azienda ha chiesto un altro anno di cassa integrazione. Le linee sono in corso di ristrutturazione per permettere la produzione di nuovi modelli al momento sconosciuti per i quali è stato impegnato un miliardo. Stessa cifra è stata messa a disposizione della della ex Bertone di Grugliasco, dove è iniziata la produzione di due modelli Maserati, la Quattroporte e la Ghibli e in cui lavorano a pieno regime circa 1200 i dipendenti. Grugliasco e Mirafiori dovranno rappresentare l’emblema del “polo del lusso” che rappresenta la strategia per il futuro.
Lavorano a pieno ritmo anche i 6200 dipendenti dello stabilimento Sevel di Atessa dove, in joint-venture con Peugeot-Citroën, si fabbrica il Ducato, furgone di successo europeo e sul quale Marchionne ha puntato altri 700 milioni. I 3800 operai di Cassino, invece, sono in cassa integrazione per quindici giorni al mese e non sanno cosa li attenderà domani. Dei 4800 operai di Pomigliano, stabilimento ristrutturato con 800 milioni di investimento, circa 1800-2000, secondo la Fiom, sono in cassa integrazione. E a casa per il prossimo anno starà anche la metà dei 5500 operai di Melfi in attesa che le linee di montaggio vengano ristrutturate per produrre due nuovi Suv: uno Jeep e l’altro 500. Anche qui, investimento da un miliardo.

Repubblica 4.1.14
L’intervista
“Marchionne ottimo negoziatore ma bisogna vedere chi ha salvato chi”
Romiti: nel 1990 ci tirammo indietro per i troppi debiti di Iacocca
di Ettore Livini


MILANO — «Fiat-Chrysler? Faccio i miei auguri al Lingotto. Quando trattammo l’avvocato Agnelli e io per comprare Detroit da Lee Iacocca nel 1990 ci tirammo indietro perché i debiti della società Usa rischiavano di trascinare a fondo noi. Mi auguro che oggi i conti di Chrysler siano diversi... Ma, è ovvio, spero che tutto vada bene». Cesare Romiti è rimasto al volante della Fiat per 22 anni, dal 1976 fino al 1998. Il blitz americano di Marchionne – per lui che trent’anni fa fu a un passo dalla stessa acquisizione a stelle e strisce – è un deja-vu senza troppi rimpianti. E soprattutto – assicura – è un’operazione vitale per il gruppo torinese colpevole negli ultimi anni di «mancanza di coraggio sugli investimenti».
Come giudica l’operazione Dottor Romiti?
«È indubbio che Marchionne sia stato un ottimo negoziatore. Ma non saprei dire chi ha salvato chi tra le due società. L’avvocato Agnelli e io siamo stati accusati anche negli ultimi giorni di esserci lasciati sfuggire la Chrysler negli anni ’90. Non è vero. Rinunciammo noi ad acquistarla, dopo molte riunioni e con dispiacere. Ma allora i conti non tornavano. Noi eravamo perplessi e Umberto Agnelli era addirittura profondamente contrario: i guai di Detroit rischiavano di affondare la Fiat. Spero ora abbiano fatto bene i conti e che i numeri siano cambiati. Se non fosse così, faccio i miei auguri...».
Non crede che oggi come oggi la Fiat senza Chrysler avrebbe rischiato di andare a fondo lo stesso?
«Non lo so. Di sicuro io imputo al Lingotto la mancanza di coraggio sugli investimenti degli ultimi anni. Da molto tempo non si vedono nuovi modelli e gli investimenti sulla produzione e nei paesi emergenti sono fatti con il contagocce. Facendo così si sono persi molti treni».
Non rischiavano di essere soldi buttati dalla finestra?
«No, è stato un errore. Noi nei periodi di crisi ne approfittavamo per investire di più. Buttavamo sul mercato nuove autovetture all’avanguardia, puntavamo sulla progettazione. Nel 1974 dopo la crisi petrolifera di soldi ce n’erano pochi. Ma abbiamo avuto il coraggio di costruire lo stabilimento di Belo Horizonte in Brasile che – me lo lasci dire con soddisfazione oggi – ha tenuto in piedi per tanti anni i conti della Fiat».
Il sindacato teme che ora Fiat trasferisca la produzione verso gli Usa a danno degli stabilimenti italiani. C’è davvero questo rischio?
«Non voglio entrare in campi che non mi competono. Qualche dubbio ce l’ho, ma preferisco tenerlo per me...».
Come giudica il ruolo della politica nella partita Fiat e più in generale della difesa del sistema manifatturiero tricolore?
«La politica non è intervenuta né ha chiesto garanzie al Lingotto. Ormai scende in campo solo a cose fatte, quando c’è da sistemare le questioni sindacali. Per carità, anche quello è necessario. Ma i risultati di questalatitanza si vedono. Qualche anno fa l’Italia aveva cinque o sei grandi aziende di respiro mondiale. Oggi non ce ne sono più. Colpa di tutti, maggioranze e opposizioni. E ora rischiamo pure di perdere Telecom Italia».
Colpa solo della politica o c’è anche lo zampino di un’imprenditoria inadeguata alla sfida della globalizzazione?
«Di tutte e due. Di sicuro l’imprenditoria di casa nostra si è seduta sugli allori e non si è rinnovata in tempo. Ha fatto la scelta provinciale di non scommettere sull’estero preferendo la sicurezza del mercato domestico. E oggi paghiamo il conto».
Nostalgia della sua Mediobanca? Molti dicono che proprio il sistema un po’ asfittico dei salotti buoni e dei patti di sindacato sia una della cause principali del declino dell’Italia Spa...
«Mediobanca ha fatto un lavoro eccezionale. Ha rimesso in piedi il sistema nel dopoguerra e creato gruppi di dimensioni globali. Ma i tempi cambiano. Oggi non ci sono più un Raffaele Mattioli, una Banca Commerciale e un Enrico Cuccia, artefici di questo processo. E l’addio ai patti sindacato e al capitalismo di relazioni, in un mondo del tutto differente, è un fatto del tutto fisiologico».

Repubblica 4.1.14
Landini: “Ancora troppe incertezze Letta convochi azienda e sindacati”
Il leader Fiom: bisogna far assumere a Torino responsabilità precise
intervista di P. G.


TORINO — Non c’è più tempo da perdere: «Entro gennaio Letta deve convocare allo stesso tavolo Fiat e sindacati. Nelle prossime settimane il Lingotto deciderà dove mettere la sede, la quotazione, i centri di ricerca e le produzioni del gruppo. L’Italia non può stare a guardare». Maurizio Landini è preoccupato: «L’accordo sul 100% di Chrysler ha accelerato lo scenario».
Landini, non vede aspetti positivi nell’intesa?
«Certo. Marchionne può dire con orgoglio “missione compiuta”. Lui è riuscito a creare un grande gruppo globale e gli Agnelli sono riusciti a diventare gli azionisti di quel gruppo senza spendere molto. Ma ai lavoratori italiani che cosa resta?».
Non crede che sarebbe stato peggio per i lavoratori italiani se quell’accordo non fosse stato fatto?
«Sarebbe stato peggio. Ma non era una ipotesi plausibile. Avevo parlato anche recentemente con Bob King, il leader del sindacato Chrysler. E lui mi aveva garantito che non era intenzione del fondo Veba rimanere azionista a Detroit. Il loro obiettivo era massimizzare il valore della quota e questo sono riusciti a fare. Volevano 5 miliardi di dollari, ne hanno portati a casa 4,3. Mi sembra un ottimo risultato per loro».
Ora che si arriva alla fusione, ci saranno i soldi per gli investimenti in Italia, non crede?
«Ora che si arriva alla fusione si aprirà una fase di ristrutturazione complessiva del gruppo. Si dovrà decidere dove mettere le produzioni, con quali centri di progettazione, con quali centri direzionali, con quali sedi legali e anche dove quotare la nuova società. Nella trattativa con il sindacato americano, così com’era accaduto all’epoca del fallimento pilotato con i governi di Usa e Canada, Marchionne ha dovuto prendere impegni. In Italia in questi anni nessuno ha mai saputo, o voluto, mettere Marchionne nella condizione di prendere impegni precisi. Ora si apre l’ultima possibilità. Ma non basta che un ministro apra un tavolo. È necessario che sia EnricoLetta in persona a prendere l’iniziativa».
I sindacati che hanno firmato in questi anni gli accordi con la Fiat dicono che senza le loro firme oggi l’azienda sarebbe già fuori dall’Italia. Che cosa risponde?
«Non rispondo io. Ha risposto la Corte Costituzionale spiegando che quegli accordi, nella parte in cui tendevano a escludere dalla fabbrica i sindacati non graditi all’azienda, erano illegittimi. Sarebbe ora di voltare davvero pagina. Anche la Fiat dovrebbe ammettere tutti i sindacati alla stessa trattativa e non continuare con la pratica, illegittima dei tavoli divisi».
Che cosa significa voltare pagina?
«Significa ottenere impegni precisi dall’azienda. Noi abbiamo sempre preso sul serio quel che dice Marchionne».
Ha annunciato un nuovo piano modelli per aprile.
«Vedremo il piano e vedremo quali impegni si assumerà Marchionne per l’Italia. Dopo il precedente di Fabbrica Italia, ogni sindacalista dovrebbe essere prudente di fronte agli annunci del Lingotto. Con i sindacati americani Marchionne ha preso impegni precisi sulle produzioni. Ci aspettiamo che lo faccia anche in Italia».
Perché dice che il tempo stringe? Perché secondo lei gennaio è decisivo? Anche lei, come Renzi, tira la giacca a Letta perché acceleri le decisioni?
«Il mondo va veloce. Nei giorni scorsi parlavo con il sindacato dei metalmeccanici tedeschi, che è nel consiglio di amministrazione di Volkswagen. Stanno discutendo il varo di un piano di investimenti da 50-60 miliardi di euro. Queste sono le dimensioni con cui la Fiat deve confrontarsi».
Con Marchionne vi siete sentiti a fine anno?
«No. In quelle ore era troppo impegnato con Bob King».
Una scenata di gelosia?
«No di certo. Bob King sarà ospite in aprile al nostro congresso. E con la Fiat ci incontreremo il 9 gennaio».

l’Unità 4.1.14
Renzi: sui diritti civili andiamo avanti con o senza Alfano
di Vladimiro Frulletti


Corriere 4.1.14
Tensioni tra Alfano e Renzi sulle unioni civili
Lo stop del vicepremier: prima famiglie e sicurezza. Il Pd: lui che ha fatto dal 2008? Letta: credo che su tutti i temi ci saranno le condizioni per l’intesa nella maggioranza
di Lorenzo Fuccaro


ROMA — Enrico Letta rientra dopo la pausa festiva e rassicura sulla tenuta della maggioranza. In un’intervista al Tg1, rispondendo alla domanda su quali argomenti — riforme, legge elettorale, modifiche alla Bossi-Fini, coppie di fatto — entreranno nel patto di coalizione che l’esecutivo è intenzionato a siglare entro gennaio, il premier si mostra ottimista: «Su tutti questi temi sono convinto che le soluzioni si troveranno e metteranno d’accordo la maggioranza».
Già, la maggioranza. In questa fase sembra scossa da una serie di fibrillazioni, come testimonia lo scontro polemico proprio sui diritti civili, dopo il movimentismo impresso dalla nuova leadership del Pd. «Non si può pensare alle unioni civili senza pensare prima alle famiglie», ricorda il vicepremier Angelino Alfano, commentando uno dei punti cardine dell’accordo proposto da Matteo Renzi. Alfano non si limita a rintuzzare il pressing del sindaco di Firenze su questo tema. Anche sulla proposta di abolire la legge Bossi-Fini marca una netta contrarietà. «Tra quelli che si sono cuciti la bocca nel Cie di Roma — afferma — alcuni avevano già conti in sospeso con la giustizia. Con la sicurezza degli italiani non si scherza».
Sulla legge elettorale, invece, il vicepremier concorda con Renzi sull’accelerazione dei tempi perché, sostiene, la riforma aiuta l’esecutivo e non lo indebolisce: «Va bene se a febbraio passa il primo sì alla Camera. Ci fidiamo che non sia per anticipare il voto». Alfano esclude, inoltre, che il varo di un nuovo sistema elettorale possa indebolire il governo. Anzi. «Lo rafforza — dice — perché se a maggio abbiamo la riforma elettorale e abbiamo avviato il superamento del bicameralismo ci presentiamo con risultati importanti».
In ogni caso, equiparare unioni di fatto e famiglia offre un motivo di scontro nella maggioranza. Gabriele Toccafondi (Ncd) sottolinea una contraddizione nella quale sarebbe caduto il leader del Pd: «Dal Family Day alle nozze gay, il tutto in sei anni. È l’inversione di Renzi che da semplice presidente della Provincia difendeva la famiglia e il Family Day e da segretario nazionale del Pd vuole le nozze gay e forse adozioni per le coppie dello stesso sesso». Le ragioni di tale contrarietà le spiega bene il capogruppo del Ncd in Senato, l’ex ministro Maurizio Sacconi, che lancia un chiaro avvertimento. «Non firmeremo mai un patto che contenga le unioni gay — scandisce — se queste significano diritti di coppia. Il Nuovo centrodestra è nato anche perché i valori non negoziabili li ritiene davvero tali, non li mercanteggia». Riassume Sacconi: «Il simil-matrimonio per qualcuno è forse una clava per scassare la legislatura». Puntualizzazioni che suscitano l’ironia della forzista Daniela Santanché che rivolge un appello ad Alfano: «Siccome sei solo uscito di casa, molla l’amante che ti sta tradendo, torna con la tua famiglia e insieme difendiamo i nostri valori di riferimento. Sei ancora in tempo».
Dal partito guidato dal sindaco di Firenze reagiscono con altrettanta fermezza. Sulle unioni civili, il vicecapogruppo al Senato, Stefano Lepri, argomenta: «Accettiamo la sfida di Alfano, ma per favore basta con le frasi fatte». È vero che servono politiche per la famiglia, tuttavia, si chiede Lepri, «una domanda sorge spontanea: cosa ha fatto di concreto il centrodestra a questo scopo visto che ha governato per ben nove degli ultimi dodici anni?». C’è anche una nota di alcuni senatori di osservanza renziana, Andrea Marcucci e Isabella De Monte, che hanno presentato assieme ad altri (Cantini, Di Giorgi e Lanzillotta) un progetto di legge che riconosce le unioni civili per le coppie omosessuali. Queste unioni, scrivono rivolgendosi direttamente al leader del Nuovo centrodestra, «non sono certo alternative a interventi per le famiglie. Alfano è vicepremier, nel ddl Stabilità poteva inserire più provvedimenti economici a sostegno e meno prebende. Comunque, gli ricordiamo che nel 1970 la legge Baslini-Fortuna che istituì il divorzio passò nonostante l’opposizione della Dc, che pure aveva un peso maggiore del suo partito». Ben più tagliente verso Alfano è Davide Faraone, responsabile Welfare del Pd: «Noi ci occuperemo di famiglie e unioni civili. Lui in Parlamento dal 2008 su questi temi non è stato proprio un fulmine».

Corriere 4.1.14
Pd-azzurri: asse sui diritti (senza Ncd)
di Paola Di Caro


Ad Alfano no, non piacciono proprio. E nemmeno alla gran parte degli ex forzisti confluiti nel Nuovo centrodestra: Giovanardi, Formigoni, Sacconi, Quagliariello, Roccella. Ma la proposta lanciata da Matteo Renzi perché nel patto di coalizione sia inserita anche una legge sul riconoscimento e la regolamentazione delle unioni civili, siano esse etero o omosessuali, potrebbe piacere proprio al partito che si autodefinisce portabandiera dei valori e delle parole d’ordine del centrodestra. E che della maggioranza non fa più parte: Forza Italia.
Paradossalmente, ma fino a un certo punto, è la componente che si è staccata da Berlusconi per rimanere nel governo di larghe intese, accusando gli ex colleghi forzisti di aver imboccato una deriva «estremista» nei toni come nei contenuti, quella che sui temi cosiddetti etici ha le posizioni più vicine alle destre europee tradizionaliste. Poco conciliabili, insomma, con quelle dei partiti del Ppe di grandi Paesi come la Germania, quel Ppe del quale il Nuovo Centrodestra si considera il più legittimo interprete in Italia.
Al contrario, in una Forza Italia che ambisce a tornare ai valori d’origine del ‘94 - tra i quali il liberalismo, la radice socialista, perfino la componente radicale avevano cittadinanza - l’idea della libertà di coscienza su temi «etici» era e resta una bandiera da sventolare. Ma sulle unioni civili in particolare si va molto oltre, perché è stato lo stesso Berlusconi a dirsi favorevole ad una legge sul tema (ma non alle adozioni da parte di coppie omosessuali), e Sandro Bondi ha attaccato gli ex amici del Nuovo centrodestra proprio per il «vetero clericalismo» mostrato con la loro chiusura a riccio. Così da Galan (che scavalca a sinistra non solo i suoi colleghi proponendo matrimonio e diritto di adozione per le coppie gay) alla Carfagna, da Romani a Brunetta, dalla Prestigiacomo a Bonaiuti, dalla Bernini alla Brambilla, il fronte di chi voterebbe in Parlamento una legge sulle unioni civili assieme al Pd è molto ampio. Solo che tra il dire e il fare c’è di mezzo una possibile crisi di governo. Il che rende questa maggioranza trasversale quello che è: una possibilità, più che una realtà. E forse remota.

il Fatto 4.1.14
Coppie di fatto
Unioni civili, il niet di Alfano a Renzi
“Prima viene la famiglia”. Critiche dal Pd, ma il leader Ncxd incassa l’aiuto della Cei
di Carlo Di Foggia


Non c'è solo la legge elettorale ad agitare la maggioranza dopo le uscite di Matteo Renzi. Il confronto a distanza passa anche dai temi etici, e qui il Nuovo centro destra ha alzato un muro. La sfida l'aveva lanciata il sindaco di Firenze con il suo patto di coalizione, riportato ieri da tutti i giornali: realizzare finalmente le unioni civili, anche le per persone dello stesso sesso. Il niet è arrivato a stretto giro, per bocca proprio di Angelino Alfano: “Non si può pensare alle unioni civili senza pensare prima alle famiglie”. E per Maurizio Sacconi, capogruppo Ncd al Senato, insistere su questo punto “sarebbe solo sabotaggio del governo". Una questione di priorità, quindi, che però non convince i democratici vicini al segretario. Per tutta la giornata di ieri, infatti, si sono susseguite le repliche al leader Ncd. Per il responsabile Welfare, Davide Faraone, le due cose non sono in antitesi: “Ci occuperemo di entrambe”. Mentre per i senatori renziani Andrea Marcucci ed Isabella De Monte - che con le colleghe Laura Cantini, Rosa Maria Di Giorgi e Linda Lanzillotta di Scelta Civica hanno depositato un apposito disegno di legge - “le unioni civili non sono certo alternative ad interventi per le famiglie. Ricordiamo ad Alfano che nel 1970 la legge sul divorzio passò nonostante l’opposizione della Dc, che pure aveva un peso ben maggiore del suo partitino”. Tradotto, i rapporti di forza sono cambiati, senza accordi si va avanti lo stesso, con o senza Alfano. Che intanto però, sempre ieri, ha incassato il tempestivo appoggio della Conferenza episcopale italiana. Stesso concetto: prima viene la famiglia. Fuori da questo, ovvero fuori dal matrimonio, “è possibile tutelare i diritti delle persone attraverso il Codice civile”, ha spiegato il vescovo di Parma, monsignor Enrico Solmi, presidente della Commissione Cei per la Famiglia. Diritti che comprendono “l’assistenza sanitaria, i beni e l’eredità”. Tutto attraverso gli istituti già esistenti: “È chiarissima la deriva. Il favorire progressivamente, attraverso sentenze, soluzioni di fatto, un riconoscimento delle unioni di fatto, anche tra persone omosessuali. Parlare di famiglia significa avere una relazione uomo-donna che si palesa”. Che il tema sia sentito, lo conferma anche Daniela Santanche (Forza Italia): “Caro Alfano tu una famiglia ce l’hai e sta nel centrodestra. Siccome sei solo uscito di casa, molla l’amante che ti sta tradendo, torna con la tua famiglia e insieme difendiamo i nostri valori”. E per Carlo Giovanardi (Ncd): “La proposta di Renzi, aprirebbe la porta all'utero in affitto”.

Corriere 4.1.14
Angelino, Matteo e il patto «possibile»
di Francesco Verderami


Non è una sfida, perché se così fosse sarebbero i protagonisti di un fallimento,e nessuno potrebbe dichiararsi vincitore sulle macerie del Paese. Perciò Alfano è convinto che si arriverà all’intesa con Renzi, confidando che il segretario del Pd sappia tener distinti il piano della competizione tra leader di opposti schieramenti e quello del compromesso tra alleati pro tempore di governo. È un punto su cui il vicepremier intende esser chiaro prima che la trattativa inizi, «perché non vorrei che Renzi mettesse in conto una nostra arrendevolezza».

Il vicepremier non si piega: ma una «convergenza» è possibile E avvia una «campagna di ascolto» sul mondo economico SEGUE DALLA PRIMA Più che un avvertimento, è una questione metodologica quella che Alfano pone a Renzi in vista del rendez vous: «Non vorrei pensasse che fossimo pronti ad accettare tutto. Se fosse così, se fosse una gara a chi stacca prima il piede dall’acceleratore, allora va detto per tempo che noi non freneremmo. L’idea che il Nuovo centrodestra tema il voto anticipato parte infatti da un presupposto sbagliato, dato che a maggio saremo chiamati alla sfida decisiva delle Europee. E siccome dovremo esser pronti per quell’appuntamento, lo saremmo anche per altre prove», cioè le Politiche.
È un modo per sgombrare il campo da «interpretazioni mediatiche fallaci» e soprattutto per sottolineare qual è la vera posta in gioco: «L’Italia, la sua economia e le sue istituzioni. Quindi Renzi deve fare attenzione. Maneggia materia esplosiva. Sa di non potersi assumere la responsabilità diretta o indiretta di far cadere il governo. Già in passato altri segretari del Pd l’hanno fatto e non ha portato bene». E giusto per confutare un’altra «falsa rappresentazione», l’idea cioè che ci sia una bella differenza tra l’esecutivo di Prodi e l’esecutivo di Letta, Alfano si rivolge così al neo capo dei democrat: «Spiegasse al presidente del Consiglio che il suo è un governo di n.n. Perché è da vice segretario del Pd che Letta è stato chiamato a guidare il Paese da un presidente della Repubblica non proprio di centrodestra».
Perciò ritiene che nei riguardi di palazzo Chigi non abbiano senso le ripetute scaramucce alla linea di frontiera, «visto che — pur tra mille difficoltà — il governo in questi mesi ha centrato dei risultati: dall’abbassamento del carico fiscale sulle famiglie al calo dello spread sotto la fatidica “quota 200”, che consentirà di liberare risorse finora destinate al pagamento del debito pubblico. Costa a Renzi doverlo riconoscere? E non è forse grazie a tutto ciò che ora può lanciare l’idea di sforare il 3%? Un’idea non nuova, sostenuta per anni dal presidente Berlusconi e da tutti noi del Pdl, e che mi porta a dire: “Benvenuto Matteo”. Adesso però lo spieghi ai suoi compagni del Pd».
Non c’è dubbio che, per affrontare una trattativa, gli interlocutori debbano prima conoscersi. E «Angelino» vuole presentarsi al leader democrat, precisando di non essere un Ghino di Tacco, panni che ieri Carlo Fusi ha provato a fargli indossare sul Messaggero: «Non ho quella taglia», sorride. Anzi, «visto il clima di reciproci sospetti che si era creato con Renzi, ho preferito muovermi per primo e correre il rischio. Mi fido. Anche perché non sono un conservatore timoroso ma un innovatore che non ha paura». E allora — sostiene — basta capirsi: se sulle riforme istituzionali come sulla riforma del Porcellum «faremo a gara con lui ad essere riformisti», sul contratto di governo invece «saremo pronti a difendere i nostri valori»: «Che non ci vengano a parlare di frontiere libere e aperte o di matrimoni gay».
Il leader di Ncd si mostra ottimista. Sulla legge elettorale ritiene che l’intesa sia «nelle cose», che dalla «rosa» di modelli proposta da Renzi risalti il petalo del «sindaco d’Italia», su cui c’è «un’ampia convergenza» nella maggioranza, «ma non solo». Anche su questo punto Alfano invita il segretario del Pd a evitare tatticismi, «anche perché se immagina di giocare su due tavoli, deve sapere che con Berlusconi parliamo anche noi... I punti di contatto con Forza Italia sono costanti. D’altronde, in prospettiva ci candidiamo ad allearci con quanti rappresentano la nostra comune storia. Ma per farlo il Nuovo centrodestra dovrà essere forte».
E la forza secondo Alfano verrà proprio dal modo in cui Ncd gestirà la trattativa sul «contratto» di maggioranza. Una sorta di prova del fuoco dalla quale, nelle intenzioni del vice premier, dovrebbe emergere «il profilo del partito»: «Noi siamo la voce del centrodestra in questo governo, vogliamo dar voce ai progetti di centrodestra in questo governo e saremo lo scudo di centrodestra a certi eccessi della sinistra». E dinnanzi all’obiezione sui rapporti di forza con il Pd, replica che «non saremo prevalenti ma siamo determinanti».
Per prepararsi al confronto con Renzi, Alfano avvierà dall’otto al dieci gennaio una «campagna di ascolto» del mondo produttivo e delle associazioni: dai vertici di Confindustria a Confcommercio e Confartigianato — con cui il centrodestra era entrato in una crisi di relazioni — fino alle organizzazioni delle famiglie. «Vogliamo illustrare i punti programmatici che presenteremo per il contratto di governo e raccogliere i loro contributi che serviranno a irrobustire le nostre proposte». Subito dopo Ncd terrà a Bari una convention sul Mezzogiorno e nei week end successivi riunirà prima i giovani e poi gli amministratori, fino al battesimo dei circoli, in programma per febbraio. Se la sfida sarà vinta, governo e territorio saranno gli strumenti «per porre il tema — quando verrà il momento — delle primarie di coalizione nel centrodestra. E noi, allora, saremo in campo» .

il Fatto 4.1.14
Da Rutelli a Renzi: Sensi capo ufficio stampa Pd


UN ABBRACCIO a @nomfup (nickname di Sensi per il suo blog, ndr) che ha accettato la mia proposta di occuparsi del @pdnetwork. Inizia con la segreteria di domani, benvenuto!”. Così Matteo Renzi ieri su Twitter dava l’annuncio della scelta del nuovo capo ufficio stampa del Nazareno, che subentra a Roberto Seghetti, voluto in quella posizione da Pier Luigi Bersani.
Ex portavoce di Francesco Rutelli, attualmente vicedirettore di Europa, Sensi per gli utenti di Twitter è soprattutto Nomfup, ovvero il seguitissimo e informatissimo blog di comunicazione politica. Non a caso lui ha ufficializzato la sua accettazione dell’incarico in un Tweet: “Grazie @matteorenzi e @pdnetwork, grazie @smenichini e @weuropa, io speriamo che me la cavo”

il Fatto 4.1.14
Re Giorgio e i dubbi su Letta, sugli scudi ora c’è Matteo
La Boschi al Colle: segretario e Presidente si avvicinano
di Wanda Marra


“Napolitano è stato molto carino”. Così Maria Elena Boschi, la neo responsabile Riforme del Pd, la bionda di punta di Matteo Renzi, commentava lo scorso 19 dicembre la sua visita al Colle, dove era stata convocata per parlare di legge elettorale e, appunto, di riforme costituzionali. Di contro al Quirinale lei ha avuto successo: seria, preparata, gentile, al Presidente è piaciuta. Il verso si cambia anche così. E dunque nei rapporti tra il neo segretario del Pd e il Capo dello Stato si respira un vento nuovo. Dopo la cerimonia degli auguri alle istituzioni alla quale il Sindaco s’era presentato vestito di grigio e se n’era andato via prima, c’è stata una marcia d’avvicinamento piuttosto tangibile. La Boschi è salita al Colle. Poi i renziani hanno cercato di convincere il governo a ritirare il Salva Roma. Loro non ci sono riusciti, ma è stato Re Giorgio alla vigilia di Natale a convocare Enrico Letta e a farglielo rinnegare a fiducia ottenuta. Una figuraccia per l’esecutivo, una bella sberla come regalo di Natale al premier. Plauso da Renzi e dai suoi. Che si sono subito intestati la battaglia e - anzi - sono andati oltre. Napolitano monitava sui decreti omnibus? Dario Nardella, uno di quelli che dall’inizio tesse rapporti con il Capo dello Stato, sul Fatto quotidiano lo invitava a occuparsi non solo di quelli, ma anche di provvedimenti come il milleproroghe. Con questo spirito si arriva al messaggio di fine anno. Con il Presidente che sottolinea come le riforme non si siano ancora fatte (pessima prova dell’esecutivo, evidentemente), parla di una sua non lunga permanenza al Quirinale ma non evoca dimissioni “ricattatorie” per evitare il voto come aveva fatto in altri casi. Il segretario lo chiama, si complimenta, dirama immediatamente una nota ufficiale. Che cosa sta succedendo? Renzi ha sedotto Napolitano? Di certo il Presidente è meno diffidente. E di certo i due sono entrambi pragmatici, sanno che devono collaborare. I renziani la spiegano così: il capo dello Stato ha capito che Renzi è l’unico in grado di avviare le riforme visto che l’esecutivo non c’è riuscito. E soprattutto pensa che l’unico che può fare la legge elettorale sia lui. Ancora: lo schema sarebbe cambiato. Per il Colle a questo punto andrebbe bene una riforma fatta anche fuori dalla maggioranza. Persino le elezioni non sarebbero più un tabù.
IERI in ambienti renziani si faceva circolare un riferimento legislativo ad hoc. L’articolo 7 della legge n. 164 del 2011. Al comma 1 è scritto: “A decorrere dal 2012 le consultazioni elettorali per le elezioni dei sindaci, dei presidenti delle province e delle regioni, dei consigli comunali, provinciali e regionali, del Senato e della Camera si svolgono, compatibilmente con quanto previsto dai i rispettivi ordinamenti, in un'unica data nell'arco dell'anno”. E al comma 2: “Qualora nel medesimo anno si svolgano le elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia le consultazioni di cui al comma 1 si effettuano nella data stabilita per le elezioni del Parlamento europeo”. Il che significa che, con uno scioglimento a inizio aprile, è possibile votare il 25 maggio per politiche e europee. Il dossier sarebbe giunto pure sui tavoli di Palazzo Chigi. Il premier, ovvero l’altro lato di quello che ora più che un asse sembra un triangolo Napolitano-Letta-Renzi, che dice? Letta ieri è andato al Tg 1 a ostentare sicurezza sullo spread e a esprimere soddisfazione per l’iniziativa di Renzi sulla riforma elettorale. E i suoi consiglieri, da Francesco Russo a Francesco Sanna, sostengono che il governo ha solo da guadagnare da rapporti migliori tra il segretario del Pd e il presidente della Repubblica. Di più: il premier avrebbe fatto addirittura da pontiere tra i due, forte di un rapporto indistruttibile con Re Giorgio. La legge elettorale? Si farà entro il 25 maggio, perché una cosa è individuare uno schema, una cosa applicarlo, dicono. “Sia a Renzi che a Letta conviene marcare il 2014 come l’anno delle riforme”, dice con nettezza Sanna. I ben informati raccontano, però, che il presidente del Consiglio, starebbe già studiando la carta di riserva: la presidenza della Commissione europea dal primo luglio. Intanto Beppe Grillo ribadisce il no al fu Rottamatore: “Napolitano, dopo la pubblicazione delle motivazioni della Consulta, deve sciogliere le Camere. Un Parlamento abusivo non può fare una nuova legge elettorale”.

Corriere 4.1.14
Legge elettorale

In dieci giorni le motivazioni della Consulta
È lì la chiave di volta su modelli e trattativa
di Tommaso Labate


ROMA — Adesso c’è anche una data. Il 13 gennaio prossimo, lunedì. È la data che nelle agendine dei giudici della Corte Costituzionale sarebbe già stata cerchiata con la penna rossa. Perché proprio in quella data la Consulta dovrebbe rendere note le motivazioni che stanno alla base della sentenza con cui, all’inizio del mese scorso, i giudici costituzionali hanno cancellato il Porcellum. Partendo dall’incostituzionalità dei due aspetti principali della legge elettorale confezionata nel 2005 da Roberto Calderoli. E cioè il premio di maggioranza e le liste bloccate.
Tempi abbastanza stretti, insomma. Forse persino più stringenti di quanto non si pensasse. Col timer azionato dalla Consulta, sulla base di un conto alla rovescia di soli nove giorni a cominciare da oggi, che potrebbe rivoluzionare il dialogo sulla legge elettorale avviato da Matteo Renzi con la lettera inviata l’altro giorno ai leader degli altri partiti.
Ha indicato tre strade, il segretario del Pd. Il sistema spagnolo, che piace a un pezzo significativo di Forza Italia, a cominciare da Denis Verdini. Poi il Mattarellum corretto con un premio di maggioranza. E infine il modello del sindaco d’Italia, quel doppio turno di coalizione su cui s’è registrata anche l’apertura «tattica» di Angelino Alfano. Ma i tavoli di confronto bilaterali, su cui Renzi ha già incassato il disco verde di Silvio Berlusconi, possono essere rovesciati già dalle motivazioni che la Consulta renderà note il 13 gennaio.
Perché è vero, come sottolinea Cesare Mirabelli, che della Consulta è stato anche presidente, «che nella scelta di una nuova legge elettorale il Parlamento è sovrano». Ma è altrettanto vero, aggiunge, «che le Camere non potranno non tenere conto dei principi che la Corte Costituzionale fisserà nelle motivazioni della sentenza. Sia per quanto riguarda il premio di maggioranza, sia per quanto riguarda le liste bloccate». D’altronde, scandisce l’ex giudice costituzionale, «saranno principi che non ha inventato la Corte. Ma che sono contenuti nella Costituzione, da cui la Corte li deduce».
Non è una questione accademica. Al contrario, il dispositivo della Corte può scombinare il quadro dei rapporti tra i partiti sulle diverse bozze di riforma e, soprattutto, rafforzare il sistema dei veti incrociati che mette a rischio il «tavolone». Basti pensare al modello spagnolo, che piace a berlusconiani della vecchia guardia e non dispiace al Cavaliere. «La Corte ha bocciato il Porcellum anche sulla base delle liste bloccate. Ma non sappiamo se ha bocciato le lunghissime liste previste dal Porcellum oppure se l’idea di lista bloccata in sé», è la premessa di Stefano Ceccanti. «Ma se nella sentenza ci fosse una bocciatura totale dell’idea di lista bloccata», aggiunge il costituzionalista ed ex senatore del Pd, «la strada del modello spagnolo, che prevede delle piccole liste chiuse, diverrebbe a quel punto impraticabile». Con delle probabili ricadute sul fronte del dialogo tra Pd e Forza Italia. Una tesi che, però, non convince del tutto Mirabelli. Secondo cui «c’è una differenza evidente tra le lunghissime liste del Porcellum, che automaticamente portavano in Parlamento degli eletti secondo un ordine fissato dai partiti, e quelle dei collegi spagnoli».
Più semplice, invece, il rebus che riguarda l’aspetto del premio di maggioranza. «Già dall’annuncio della sentenza», spiega Ceccanti, «la Consulta ha lasciato intendere che non va bene un premio di maggioranza indeterminato, spropositato rispetto ai voti che, per esempio, le principali forze politiche hanno preso alle ultime elezioni. Le tre proposte di Renzi, invece, ne prevedono uno determinato. Compreso il sistema del sindaco d’Italia, che assegna il 55 per cento dei seggi solo a chi avrà superato il 50 per cento più uno dei voti». Ed è forse l’unico tassello a posto di un puzzle ancora da costruire. E che la data del 13 gennaio potrebbe complicare ulteriormente.

Corriere 4.1.14
Quelle tre proposte e l’antidoto che non c’è
di Michele Ainis


Sulla legge elettorale siamo ai titoli di testa. È già qualcosa, dato che fin qui non c’era nemmeno la testa, benché i partiti si prendessero a testate. Ma che fatica capirci un accidenti. Come giudicare un film senza averlo visto in sala, conoscendone per l’appunto unicamente il titolo, o al massimo il nome del regista. Eppure è questa la Mission Impossible cui siamo destinati.
Ci è toccato spendere un profluvio di parole su una sentenza costituzionale di cui non abbiamo letto neanche una parola, dal momento che verrà pubblicata fra una decina di giorni. Ora tocca alla trilogia di Renzi, benché il copione sia di poche righe. Basterà per esprimere un giudizio? Facciamolo bastare, tanto c’è sempre un giudice d’appello.
Il metodo, anzitutto. È giusto partire lancia in resta inforcando non una bensì tre proposte divergenti? Ed è giusto offrirle in pasto all’intera platea del Parlamento, anziché ai soli soci di governo? È giusto, di più: è doveroso.
Se in tutti questi anni la riforma non ha mai preso forma, è perché ciascun partito si è impiccato sul proprio modello di legge elettorale, senza mai dividere la corda con gli altri partiti. Però quando l’alternativa è «prendere o lasciare», la risposta è sempre una: lascio. Serve flessibilità, al contrario. E serve rispetto per i tuoi interlocutori, altrimenti nessuno ti rispetta. Quali interlocutori? Chiunque abbia un posto al sole in Pa r l a m e n to. In primo luogo perché le regole del gioco coinvolgono tutti i giocatori, quindi andrebbero scritte d’accordo con l’opposizione.
In secondo luogo perché se ti rinchiudi nel recinto della tua maggioranza, cadrai più facilmente sotto il fuoco dei veti incrociati.
E a proposito del metodo: non sarebbe stato meglio partire dalla riforma della Costituzione, anziché dalla legge elettorale? No, sarebbe stato peggio. E probabilmte non saremmo mai partiti: experientia docet. La revisione costituzionale reclama procedure più lunghe, più incerte, più cmplesse; non è un caso se finora non siamo mai riusciti a cavarne un ragno dal buco. D’altra parte la nostra Carta è sopravvissuta (sia pure con qualche ammaccatura) a 45 anni di proporzionale e a 20 di maggioritario. Significa che la legge elettorale è autonoma dalla forma di governo, anche se — ovviamente — ne condiziona la resa, il funzionamento pratico.
Qualche avvertenza, però, sarà bene leggerla, prima d’usare i medicinali confezionati dal farmacista Renzi. Se l’obiettivo è di ottenere una maggioranza certa il minuto dopo le elezioni, allora nessun congegno elettorale può riuscirvi. Non tanto perché l’elettorato italiano sia ormai diviso in tre tronconi; dopotutto, succedeva già negli anni ruggenti della prima Repubblica (con la Dc, il Pci, il polo laico-socialista). Quanto piuttosto perché vi si frappone la sintassi usata dai costituenti. In primo luogo, abbiamo in s e l l a d u e Camere entrambe armate del potere di vita o di morte sui governi, però formate da corpi elettorali eterogenei. Al Senato votano i signori, non i signorini; e i giovani possono ben determinare un’altra maggioranza nell’Aula di Montecitorio.
In secondo luogo, la Costituzione (art. 57) impone che il Senato venga eletto «a base regionale»; ulteriore elemento di differenziazione, del quale tuttavia bisogna tener conto, pena l’incostituzionalità della nuova legge elettorale. In terzo luogo, resta pur sempre in circolo una forma di governo parlamentare, non presidenziale. Quest’ultima assicura governi duraturi, sia pure a scapito delle minoranze; la prima no, è sempre esposta ai venti e ai tormenti dei partiti.
Dalla premessa alla promessa: un sistema bipolare. È questo che si legge in controluce nei tre modelli avanzati da Matteo Renzi, ed è una buona luce, perché soltanto i gamberi camminano all’indietro. Al punto in cui siamo, c’è bisogno di rafforzare la coesione degli esecutivi, l’autorevolezza, la stabilità. Dunque un maggioritario, ma senza esagerare. Altrimenti scatterà di nuovo la mannaia della Consulta. Però al contempo c’è bisogno di rafforzare l’elettore, oltre che l’eletto. Permettendogli di decidere, di contare nella scelta dei governi. Non sempre i sistemi maggioritari vi riescono. O perché trasformano la minoranza in maggioranza (il caso del Porcellum). O perché ti privano della libertà di scelta, costringendoti a optare fra Caligola e Nerone.
Da questa angolatura, il sistema preferibile è forse il doppio turno, in uso per i sindaci dal 1993. In prima battuta voti il candidato che ti fa palpitare il cuore; dopo di che, se nessuno supera la maggioranza assoluta, al ballottaggio voti il meno peggio. E ciò rende accettabile, sul piano democratico, la sovrarappresentazione (60%) del vincente. A scapito dell’afflusso elettorale? Non è detto. Alle ultime Comunali di Roma, fra un turno e l’altro Marino è cresciuto di 150 mila voti, sicché lo hanno scelto anche elettori che si riconoscevano in altri candidati. Tuttavia nei comuni la stabilità viene presidiata da un antico brocardo: «Simul stabunt simul cadent». Si torna alle urne sia quando viene meno il sindaco (per morte, dimissioni, malattia grave), sia quando il Consiglio comunale lo sfiducia. Un bel deterrente, ma per procurarcelo avremmo bisogno di un’iniezione ri-costituente.
Gli altri due modelli sono il vecchio Mattarellum (rivisitato) e il sistema spagnolo (ritoccato). Nel primo caso eleggeremmo un candidato per collegio, nel secondo 4 o 5. Con una soglia di sbarramento (implicita o esplicita) e con un premio di maggioranza (il 15%). Svantaggi: il Mattarellum era un maggioritario, con il premio si trasformerebbe in ipermaggioritario. E allora cerchiamo di non procurare troppo lavoro alla Consulta, ne ha avuto già abbastanza. Quanto allo spagnolo, favorisce i partiti maggiori, però anche quelli insediati in un’area territoriale circoscritta. Dopo la Lega Nord, potrebbe essere la volta d’una Lega Sud, una Lega Centro, una Lega sarda o siciliana. Finendo per slegare quel poco che ancora ci collega.
Insomma fate un po’ come vi pare, però tenete in caldo il valore dell’unità: degli italiani, così come delle coalizioni di governo. Ma qui c’è una pagina bianca sotto i titoli di Renzi, perché manca un antidoto contro le grandi ammucchiate, contro il potere di ricatto dei piccoli partiti. Nel Mattarellum, per esempio, non c’è una soglia minima; negli altri casi può venire aggirata dai partiti dividendosi i collegi. Come uscirne? Obbligando ogni lista a presentare candidati in almeno l’80% del territorio nazionale. Dopotutto anche i regolamenti delle Camere permettono la costituzione di gruppi parlamentari minori, purché rappresentino «un partito organizzato nel Paese». Ecco, è di questo che infine c’è bisogno. Ci serve un’organizzazione, e ci serve anche un Paese.

Corriere 4.1.14
Portaborse assunti col contratto per le colf


Il collaboratore del parlamentare regionale? In Sicilia ha il contratto da colf. «Prestatori di lavoro domestico», così si legge nella lettera di assunzione. Peccato che si tratti di lavorare a fianco di un deputato dell’Assemblea regionale per 40 ore settimanali guadagnando 4,8 euro lorde all’ora, pari a 33,6 euro per una giornata di lavoro di sette ore, compreso il sabato (ma a 24 euro lorde per 5 ore). «Lo trovo di cattivo gusto», così il presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta commenta la notizia. Il presidente dell’Assemblea, Giovanni Ardizzone, è invece categorico: «Escludo che si possano stipulare contratti per colf all’Ars. Anche perché, oltre che eccessivo, sarebbe ridicolo». A rendere possibile lo stratagemma sarebbe una legge approvata dall’Ars due settimane fa. La norma ha ridotto i budget per i collaboratori amministrativi ma ha previsto un regime transitorio, fino al 2017, per i contratti vigenti al 31 dicembre 2013. Così per evitare di perdere 3.180 euro, alcuni deputati hanno assunto prima del 31 dicembre nuovi collaboratori, garantendosi in questo modo il contributo per altri tre anni. Non è ancora certo quanti siano i collaboratori assunti in questo modo, ma ci sono dei parlamentari già finiti nel vortice delle indiscrezioni. Nel mirino la deputata udc Alice Anselmo, che ieri ha chiarito: «Nessuno di noi, singoli parlamentari, può procedere ad alcuna assunzione, se non nei termini di legge che sono, appunto, quelli che in queste ore qualcuno si diverte a fare apparire anomali: un contratto di servizi alla persona, che comprende varie categorie e varie mansioni. Si tratta di un contratto che, tra contributi e tfr, garantisce il lavoratore sotto ogni punto di vista, rispettando i ccnl». «Ecco dunque svelato l’arcano — aggiunge la parlamentare — le due persone che ho posto sotto contratto hanno la qualifica rispettivamente di addetto alla segreteria e di assistente personale amministrativo».

Corriere 4.1.14
Denaro per i partiti, meglio privato che pubblico
risponde Sergio Romano


Quando entrerà in vigore la nuova legge sul finanziamento dei partiti gli italiani constateranno che vi saranno partiti ricchi e partiti poveri. Infatti i partiti che hanno la loro base elettorale nel ceto più povero e disagiato riceveranno ben poco (i loro sostenitori hanno un’Irpef molto bassa o nulla), i partiti sostenuti dal ceto più agiato invece godranno di un ricco 2%. Più giusto sarebbe che i contribuenti segnalassero solo con un sì o un no se vogliono che il loro 2 per mille sia attribuito al sistema dei partiti e che poi la ripartizione del «monte premi» venisse effettuata in proporzione dei voti ottenuti da ciascun partito (come si è fatto fino ad ora). Si salvaguarderebbero così due principi costituzionali: quello dell’uguaglianza di tutti i cittadini e quello della riservatezza dell’orientamento politico degli stessi (non costretti a rivelare nella denuncia delle tasse dove andrà il proprio voto). Solo una soluzione di questo tipo costituirebbe, a mio avviso, una innovazione che rende veramente liberi i cittadini di scegliere e quindi capace di ridurre drasticamente il finanziamento pubblico ai partiti.
Carlo Rinaldini

Caro Rinaldini,
Credo che lei abbia messo in evidenza, indirettamente, uno degli aspetti più discutibili del finanziamento pubblico. Le intenzioni a prima vista sono comprensibili. Mentre il finanziamento privato giova soprattutto ai partiti che rappresentano i ceti sociali più abbienti e i loro interessi, quello pubblico garantisce a tutti qualcosa. Ma questo «qualcosa», come lei ricorda, viene generalmente fissato sulla base dei voti raccolti nelle elezioni precedenti e tende quindi a congelare i rapporti di forza. I grandi partiti raccolgono parecchio denaro, rafforzano le loro strutture, acquistano un maggior numero d’inserzioni pubblicitarie, stampano un maggior numero di opuscoli e manifesti, commissionano un maggior numero di sondaggi; mentre i piccoli incassano somme più modeste e soffrono, nella gara elettorale, di un handicap iniziale che non è facile sormontare. Bisognerebbe individuare un sistema che garantisca a tutti una sorta di par condicio in alcuni settori cruciali, come quello dell’accesso ai mezzi d’informazione, ma i partiti preferiscono denaro in contanti; e il mezzo adottato in Italia per indennizzare i piccoli è stato quello d’ingrossare la torta per tutti, con gli scandalosi risultati di cui siamo stati testimoni negli ultimi anni. (Il Movimento 5 Stelle è un caso a sé. Sappiamo che rifiuta il finanziamento pubblico, ma non sappiamo quanto denaro abbia e quanto ne spenda).
Sono queste le ragioni per cui il finanziamento privato, purché pubblicamente dichiarato, mi sembra tutto sommato preferibile. Il partito politico è un’associazione privata composta da membri che hanno grosso modo gli stessi orientamenti politico-economici. Se è giusto che venga finanziato da chi crede nell’utilità dei suoi programmi, non mi sembra altrettanto giusto che venga finanziato, sia pure indirettamente, anche da chi pensa che i suoi programmi siano inutili o addirittura dannosi per il Paese.
Aggiungo un’ultima considerazione, caro Rinaldini. Il finanziamento realizzato con il prelievo del 2 per mille è solo apparentemente privato. Se la percentuale viene dedotta da una somma destinata alle casse dello Stato, quel denaro è in realtà pubblico e il ministero delle Finanze compenserà il mancato introito con qualche altro balzello.

l’Unità 4.1.14
Dante Franceschini addio al partigiano che scortava Berlinguer

È morto Dante Franceschini, partigiano impegnato nella liberazione di Firenze, poi chiamato, finita la guerra, a lavorare nella Cgil. Nella scorta di Enrico Berlinguer dal 1974, Franceschini seguì da allora il leader del Pci in tutti i suoi spostamenti e nella sua vita personale e politica. Si racconta che un giorno Sandro Pertini incrociandolo gli disse: «Ora che sono diventato presidente non mi saluti più?».

il Fatto 4.1.14
Azionista dell’Unità
Mian, vita da cani bugie e miliardi
Il rampollo fa parlare tardi di sè, poi è una corsa: dai radicali ai giornali, sempre con i fedeli Gunther
di Emiliano Liuzzi


Burle americane. Dopo la villa di Stallone e i soldi scudati, entra nel calcio con Pontedera e Pisa
Il presidente era il pastore tedesco, in Cda pornostar e un rapper

La mamma, finché ci riuscì, lo tenne lontano dagli affari di famiglia, pagandogli gli studi in tutto il mondo. Quando entrò nella vita pubblica – e mai nella casa farmaceutica, vero tesoro di casa – aveva ormai sorpassato i 40 anni, stanco dalla vita del miliardario mantenuto purché tacesse, lo fece a gamba tesa. Maurizio Mian, classe 1956, azionista dell’Unità, compare a metà anni Novanta sulle pagine del Miami Herald con una storiella annoiata almeno quanto lo è lui: il suo cane, Gunther, che ha ereditato una fortuna stimata in 200 milioni di dollari da una nobile tedesca, la fantomatica Charlotte Libenstein, vuole comprarsi la villa di Sylvester Stallone a Miami. Perché, proprio quella villa? “A Gunther è piaciuta subito. È molto elegante”, dice Mian al cronista dell’Herald. Già sull’eleganza di Stallone potevano cadere i primi tabù. Ma ai giornali la storia del cane piace assai e non hanno intenzione di smascherarla, gli americani ci vanno a nozze. La villa non passò mai di proprietà e la storia del cane la smentì lo stesso Mian qualche anno dopo: era inventata.
UNA BURLA, più o meno la risposta alle teste di Modigliani false, visto che il cane e il suo padrone sono pisani. In realtà un modo per scudare i soldi all’estero e tenerli in cassaforte alle Bahamas. Un gioco al quale Mian crede ormai così fortemente che, dopo il rientro in Italia, arriva a comprarsi due squadre di calcio, il Pisa e il Pontedera. Alla guida nomina Gunther, membri del consiglio di amministrazione due pornostar e un rapper. Ma Mian, che non è stupido, sa bene che può raccontare qualsiasi frottola. Al tifoso di calcio non frega niente da dove vengano i soldi, se sono di un cane è anche meglio. Purché arrivino giocatori e promozioni.
Mian firma il passaggio di proprietà dalle Bahamas. Il gruppo Gentili, la casa farmaceutica che arricchisce le tasche del ragazzo, smentisce attraverso un comunicato il 24 aprile del 2002 con una lettera al Tirreno: “La famiglia Gentili non compra nessuna squadra di calcio”, scrive il signor Augusto Gentili attraverso il suo legale , il professor Claudio Cecchella. Vero, perché Mian è Mian, casomai è sua madre che lo affianca in questa operazione di marketing, Maria Gabriella Gentili, che di lì a breve diventerà “mamma ultras” per i pisani. Un cane, un figlio un po’ sopra le righe, una madre anziana che non ce la fa più a tenere a bada il rampollo. E tanti, tanti miliardi di lire. Eccolo il trucco. Vaglielo a spiegare ai giornali che la Gentili è una delle case farmaceutiche più importanti del mondo, che è stata fondata nei primi del Novecento grazie a un giornalista poeta, Alfredo Gentili, detto Voltolino, ha i brevetti dei maggiori medicinali in circolazione, campa a suon di miliardi grazie ai brevetti. Vaglielo a spiegare che il cane non è intestatario di un bel niente. Ci cascano tutti. Perché il ragazzo annoiato nel frattempo, si è comprato anche Penthouse e con le ballerine ha una dimestichezza che Silvio Berlusconi al cospetto pare un dilettante. L’unico a non prenderlo sul serio è il geniale direttore del Vernacoliere, Mario Cardinali, che invece di massacrare il riccone e il suo cane, più o meno li ignora. Arrivano insuccessi, poche vittorie, “mamme ultras”. E Maurizio, che sotto ai riflettori ci sa stare, dopo il corteggiamento di un altro ragazzaccio che porta il nome di Marco Pannella si candida alle elezioni per la Rosa nel Pugno. Vuole che diventi legale la pillola abortiva. Di chi è il brevetto del farmaco non è facile scoprirlo: la Gentili, casa farmaceutica che Mian non controlla, ma che gli fa lievitare i conti in banca ogni mese. Perché nonostante sia passata di mano, alcuni brevetti continua a controllarli. Comunque nessun problema: Mian non viene eletto.
NEL GRANDE GIOCO Maurizio si compra anche, questa volta per davvero e con 15 miliardi, la casa che fu di Madonna a Miami. Intestatario? Sempre il cane. In realtà la Gunther Group, che col cane ha in comune il nome e il proprietario. Dopo Pannella è Veltroni ad attirare il giovane Maurizio. L’Unità, come al solito, perde soldi. E gli chiede un’iniezione di fiducia. La mamma ultras dice sì, purché il ragazzo si svaghi. Compra il 20 per cento, ma non entra mai nella gestione diretta. Nel 2007 l’ex calciatore, Cristiano Lucarelli, cerca di coinvolgerlo nell'acquisto di un quotidiano, il Corriere di Livorno. L'affare sfuma. Ma Mian e Lucarelli resteranno amici e, insieme a Buffon, tre anni fa rilevano la Carrarese calcio. Operazione naufragata subito. Come lo fu col Pisa e il Pontedera. Non bastano i soldi. Neppure se ne hai molti.

il Fatto 4.1.14
Esercitazioni
Di Salvo, chi può e il network con la Nutella
di M. Trav.


Un certo Michele Di Salvo, che abbiamo conosciuto nel backstage di Servizio Pubblico durante le primarie del Pd nella prestigiosa veste di assistente di Gianni Cuperlo, si esercita sull’Unità nella sua materia preferita: la fantascienza. Una volta che aveva mangiato pesante, il Di Salvo scrisse che il Fatto ha costruito un “network ambientale” con Grillo e Casaleggio editori occulti e s’è molto meravigliato che l’Antitrust non fosse ancora intervenuta a disperderlo con gli idranti. Ieri è tornato sul luogo del delirio con un pezzo dal titolo “Marco e Beppe: patto quotidiano”. E, anziché occuparsi dei nuovi mirabolanti azionisti del suo giornale, s’è inerpicato sul terreno per lui impervio del nostro bilancio deducendone “un calo strutturale delle vendite”: siamo spiacenti di deluderlo, ma è in ritardo di un anno: nel 2013 il nostro è un raro giornale in utile che, unico in Italia, ha aumentato le vendite rispetto al 2012 (per non parlare dei contatti unici del fattoquotidiano.it , terzo sito di giornale d’Italia) senza prendere un euro di denaro pubblico e senza rivolgersi agli amici di Lavitola. Nelle carte contabili il buontempone ha pure trovato la prova provata del “network ambientale” Travaglio-Grillo: diversi lettori del Fatto han votato 5Stelle. Come dire che, siccome diversi lettori del Fatto mangiano Nutella, il Fatto ha un network ambientale con la Ferrero. Già che era in vena di balle, il Di Salvo ha poi aggiunto che il Fatto chiede “la chiusura di altre testate” come l’Unità. Naturalmente non abbiamo mai chiesto nulla del genere: ci si limita a battersi perché i giornali si reggano sui propri lettori e non vengano pagati con le tasse dei cittadini che non li comprano. È stato Oscar Farinetti, l’imprenditore preferito da Renzi, a dire che “l'Unità ormai vende meno della Gazzetta di Alba. La puoi trasformare in settimanale o mensile e inviarla agli abbonati, che poi sono gli iscritti”. Si attende un puntuto commento dell’acuto Di Salvo contro il network ambientale Pd-Eataly. E naturalmente ci saluti molto l’amica di Lavitola e il cane Gunther.

il Fatto 4.1.14
Sel, sondaggi da paura e congresso al buio
La riunione del partito a Riccione: Che fare con Renzi e le Europee?
Consensi fermi, aumentano solo le tessere
di Luca De Carolis


Il congresso semi-clandestino vale come uno snodo. Perché il partito della sinistra ancora rossa deve liberarsi delle scorie di un lunghissimo 2013, capire come parlare al Pd dell’era Renzi e come giocarsela alle Europee in primavera, con quello sbarramento del 4 per cento alto come una montagna. Sel si avvicina al congresso nazionale, previsto a Riccione tra il 24 e il 26 gennaio, con tanti dubbi da risolvere e il peso dei congressi locali, svolti tra novembre e dicembre. Non facilissimi, tra polemiche sulle regole e qualche caso. Il più rilevante a Roma, roccaforte del partito con i quasi 7000 iscritti in città e provincia, a fronte degli oltre 31 mila a livello nazionale. Proprio il lievitare dei tesserati (erano 3800 nel 2012) è stato la miccia, con la consigliera comunale Gemma Azuni, parlamentari e dirigenti vari a invocare il rinvio del congresso romano dello scorso dicembre, causa sospetti “sul tesseramento anomalo”, la “scarsa informazione” e la “confusione” su seggi e sedi dove votare. La commissione nazionale sul congresso però “non ha rilevato irregolarità” nella Capitale e ha garantito che tutti gli iscritti “avevano fornito un indirizzo fisico” (non erano fantasmi, insomma). Tensioni diffuse anche nella Puglia di Nichi Vendola, dove l’epopea dell’Ilva ha avuto i suoi ricaschi: ovviamente a Taranto, ma anche a Lecce e cittadine varie.
ORA È TEMPO di congressi regionali, con cui si completerà la platea dei 900 delegati per Riccione. Un “esercito” che confermerà Vendola come presidente. Ma c’è tanto di cui discutere. Uno dei problemi è di queste settimane: dell’assise nazionale di Sel non parla quasi nessuno. E in diversi si sono lamentati (preoccupati) per il congresso “clandestino”. Intervistato dal Manifesto, Vendola ha replicato: “Clandestino? Perché è meno attento alla ribalta mediatica”. Per poi ammettere che per Sel “il 2013 è stato duro, perché è fallita l’ipotesi di rimettere in pista una sinistra di governo”. Quindi “c’è l’esigenza di una discussione interna”. Primo punto, le Europee. Arrivare al 4 per cento per Sel, soglia che vale l’approdo a Bruxelles, è complicato. Alle scorse Politiche il partito ha preso il 3,2 alla Camera e il 3 in Senato. Ed è sempre il 3 per cento la quota raccontata dagli ultimi sondaggi. Bisogna migliorare e chiarire la rotta. Va deciso se collegarsi o meno al Partito socialista europeo, sostenendo l’elezione a commissario europeo di Martin Schulz (Spd), attuale presidente del Parlamento Ue. Sul punto le varie anime del partito (dagli ex di Rifondazione agli ambientalisti, fino ai più “movimentisti”) sono piuttosto divise. Decisamente pro Schulz è Gennaro Migliore, capogruppo alla Camera, ex Rifondazione: “Sarebbe il giusto antidoto alle politiche della Merkel”. Migliore è ottimista sulle urne prossime: “Raggiungeremo il 4 per cento, a patto di definire con chiarezza chi siamo e cosa proponiamo. Nell’Italia dove dilagano le diseguaglianze e imperano queste disastrose larghe intese, ci sono le condizioni per farcela”. Ma per guadagnare voti pensate a liste con altri partiti? “Per ora non vedo questa possibilità”. L’altro tema forte a Riccione sarà il rapporto con il Pd. Migliore: “L’impianto di Renzi è utile, finalmente si è tornati a discutere di politica e non di concetti astratti. Con lui si può avviare un buon confronto”. Un altro ex Rifondazione è Massimiliano Smeriglio, vicepresidente della Regione Lazio: “Dobbiamo cambiare atteggiamento verso il Pd, non può più essere il fratello maggiore. Per ora il partito di Renzi è un oggetto misterioso: dobbiamo sfidarlo sui contenuti”. E le Europee? “Fare sommatorie per inseguire voti non servirebbe: piuttosto, dobbiamo sfruttare il nostro patrimonio di sindaci e amministratori. E cambiare qualcosa: per esempio, penso a una segreteria più ristretta”. Paolo Cento, ex Verdi, è uno degli Ecologisti: “Al partito serve una svolta ambientalista, certi temi non sono trattabili. Se qualcuno pensa a un partitino, magari satellite del Pd, sbaglia di grosso. Qualcuno ha la tentazione di andare in questa direzione”. Cento dice no al matrimonio con il Pse: “Sarebbe contrario alla nostra natura, Sel è una miscela di culture diverse. E poi va ridefinito tutto il concetto di Europa”.

Corriere 4.1.14
Quelle parole di Bergoglio per dare una scossa alla Chiesa
E Bergoglio scosse (con parole forti) i religiosi smarriti
di Vittorio Messori


Il ciclone Bergoglio si è abbattuto stavolta sui frati, monaci e consacrati in genere che partecipavano alla periodica assemblea della Unione dei Superiori Generali degli Istituti religiosi maschili.
Il programma del Convegno prevedeva solo una breve esortazione del Papa ma,
in realtà, l’incontro è durato tre ore, in un susseguirsi di domande e di  lunghe risposte
Offerte, queste, con una tale foga da concedere diritto di cittadinanza — di certo per la prima volta sotto le volte di una sala vaticana — a un termine che qualche dizionario registra ancora facendolo precedere da un cauto volg. , «volgare». In effetti, Francesco ha insistito sul ruolo profetico dei religiosi , avvertendo però, testualmente, che «la profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice casino».
Papa Francesco era particolarmente a suo agio: è infatti il primo pontefice, dopo 183 anni, a provenire non dal clero secolare ma da quello religioso. Parlava dunque per esperienza personale di conventi, comunità, regole, statuti. Grandezze e miserie, speranze e difficoltà degli «istituti di perfezione», come vengono chiamati, sono stati per lui vita quotidiana, non astrazioni da biblioteca teologica.
La Civiltà Cattolica , sul cui sito è apparsa ieri la trascrizione dei punti salienti del dialogo, lo ha riassunto con l’esortazione papale : «Svegliate il mondo!». A chi conosce la situazione di molti istituti verrebbe da pensare — con un pizzico di amara ironia — che l’ esortazione adeguata potrebbe essere uno «Svegliate il frate!». In effetti, la vita religiosa è stata tra le più colpite dal travaglio postconciliare, anche come fervore di vita. A livello di numeri, a cominciare proprio dalla Compagnia ignaziana, è stata severamente falcidiata da uscite di professi e da mancate nuove entrate di novizi. Provinciale dei Gesuiti per l’Argentina, padre Bergoglio stesso ha vissuto il dramma — cui ha accennato nell’incontro con i Superiori — dell’abbandono di case e di funzioni per mancanza di personale.
Giusto a proposito di vocazioni mancanti — alludendo agli istituti femminili — Francesco ha denunciato quella che i vescovi del Terzo Mondo definiscono «la tratta delle novizie». Religiose europee, cioè, che si sono dedicate — in Africa, in Asia, nella stessa America Latina — alla «caccia» a presunte vocazioni, al reclutamento di ragazze da trasformare in suore che riempiano almeno in parte i vuoti tra le loro fila. Un comportamento condannabile che riguarda peraltro anche certi ordini e congregazioni maschili.
Il problema numerico esiste ed è grave — sia per gli uomini che per le donne — tanto che molti istituti registrano oggi meno della metà dei membri che contavano alla fine del Vaticano II e i superstiti sono quasi tutti in età avanzata. I grandi collegi costruiti negli anni Cinquanta per accogliere e formare i novizi, se non sono stati venduti sono stati trasformati in ricoveri per religiosi e religiose anziani e malati. Le varie famiglie religiose stringono patti per unire i loro invalidi e le loro invalide, non avendo più né personale né mezzi per fare da sole. Molte istituzioni hanno più case e opere che consacrati in grado di occuparle e gestirle. Sul mercato delle vendite immobiliari di Roma stanno riversandosi le sedi, spesso imponenti e circondate di grandi parchi, di Case generalizie ormai sovradimensionate. Certo, la creatività evangelica continua a operare e dal vecchio albero nascono rami nuovi ma ciò non toglie che inesorabili proiezioni statistiche mostrino come (almeno a viste umane) sia inesorabile il declino, sino forse all’estinzione, di Istituti che furono per secoli abbondanti di frutti.
Tuttavia, fedele al suo stile di ottimismo, pur realistico, papa Francesco non si è soffermato sulla quantità ma sulla qualità dei consacrati. Non ha parlato di crisi numerica, bensì della formazione spirituale e della vita concreta dei religiosi, tanti o pochi che siano. Ha ricordato che la fede non si propaga per proselitismo ma per testimonianza personale; non tanto per predicazione quanto per attrazione. Ha ribadito che la vita religiosa ha un aspetto profetico: testimoniare cioè, sin da ora, il Regno futuro che attende ciascun uomo e il mondo intero. Senza giri di parole ha ricordato — qui pure per esperienza personale — le difficoltà, talvolta la durezza della vita comunitaria, tanto che, stando persino alla parola dei santi, proprio quel tipo di vita costituisce il primo motivo di penitenza. Ma ha ammonito che «la vita senza conflitti, anche con i fratelli, non è vita».
I noviziati, lo dicevamo, sono spesso semivuoti, almeno in Occidente. Ma a chi ancora presiede a quegli ambienti ha rivolto parole severe: «La formazione è opera artigianale, non poliziesca. Dobbiamo formare il cuore. Altrimenti formiamo piccoli mostri. E poi questi piccoli mostri formano il popolo di Dio. Questo mi fa venire davvero la pelle d’oca». Per aggiungere: «Non dobbiamo formare amministratori o gestori ma padri, fratelli, compagni di cammino per l’uomo concreto». Parole durissime, poi, alludendo ai casi di abusi sessuali: «Tutti siamo peccatori ma non tutti siamo corrotti . Nella Chiesa si accettano i peccatori, non i corruttori».
Che dire, in complesso? Per chi conosce questi temi, la reazione alle esternazioni di papa Bergoglio può essere di sollievo. La grande débacle della vita religiosa fu determinata anche, se non soprattutto, dall’alluvione di sociologismi e psicologismi e dal manifestarsi di una malattia preoccupante: la «documentite». Un susseguirsi continuo, cioè, di incontri, dibattiti, convegni, confronti che partorivano inesorabilmente un «documento», tanto dotto e complesso quanto sterile. Mentre gli esperti discettavano sulla sua essenza, la vita religiosa svaniva. Ora, Francesco sembra indicare la via di una possibile ripresa. Una via di semplice buon senso e come tale spregiata da una certa intellighenzia clericale: essere frati e monaci è pensabile solo in una dimensione di fede vera e profonda, solo nell’accettazione di una esistenza talmente permeata dal Vangelo da divenire essa stessa segno e motivo di stupore, dunque di attrazione. Nella sua terribile semplicità, è la imitatio Christi — pur mettendo in conto la condizione umana , dunque l’inevitabile peccato — non è la relazione dello «specialista» che può ancora indicare a chi ne sia chiamato la via di conventi e monasteri.

Corriere 4.1.14
Il Papa chiede alla Chiesa di formare il cuore per non creare mostri
di M. Antonietta Calabrò


«La Chiesa deve essere attrattiva. Svegliate il mondo». Così ha detto il Papa agli Ordini religiosi maschili riuniti a Roma il 29 novembre in un discorso diffuso dalla rivista Civiltà cattolica . E ieri ai gesuiti: «Il Vangelo va annunciato con dolcezza, non a bastonate». Francesco chiede di «formare il cuore» nei seminari per non creare «piccoli mostri». Gli educatori, sostiene, «devono essere all’altezza della generazione che cambia», e non ci possono essere religiosi «con cuore acido come aceto». Il Papa ha anche elogiato l’impegno di Benedetto XVI contro la pedofilia. E ha chiesto di vigilare sulla «tratta delle novizie», il reclutamento di giovani suore da parte di congregazioni per portarle in Europa.
Il richiamo del Papa «Gli ordini fermino la tratta delle novizie» «Il pericolo di creare mostri nei seminari» ROMA — «La Chiesa deve essere attrattiva. Svegliate il mondo». Un «colloquio vivo e spontaneo» durato tre ore: niente discorso scritto, niente relazioni già preparate. Papa Francesco parla a braccio ai Superiori degli Ordini religiosi maschili riuniti a Roma per la loro Assemblea nell’Aula nuova del Sinodo in Vaticano il 29 novembre. Gli avevano chiesto un breve saluto, lui ha voluto dedicare un’intera mattinata a un «colloquio franco e libero, fatto di domande e risposte». Seduto in mezzo ai responsabili di benedettini, camaldolesi, cistercensi, domenicani, francescani, agostiniani, carmelitani, gesuiti, camilliani, scolopi — proprio embedded , potremmo dire — il direttore della Civiltà cattolica , padre Antonio Spadaro, ha preso appunti, e ne ha fatto un resoconto di quindici pagine pubblicato dalla rivista dei gesuiti.
La preoccupazione di Francesco è «formare il cuore» nei seminari per non creare dei «piccoli mostri», e «questi piccoli mostri» poi «formano il popolo di Dio. Questo mi fa venire davvero la pelle d’oca». Per questo gli educatori «devono essere all’altezza della generazione che cambia», e non ci possono essere religiosi «con cuore acido come aceto, non sono fatti per il popolo». Così come «la vita senza conflitti, non è vita», ma si deve «vivere la fraternità accarezzando i conflitti».
I religiosi invece «devono essere uomini e donne capaci di svegliare il mondo». Ma il Papa ha anche ricordato che «la vita è complessa, è fatta di grazia e di peccato. Se uno non pecca, non è un uomo. Tutti sbagliamo e dobbiamo riconoscere la nostra debolezza. Un religioso che si riconosce debole e peccatore non contraddice la testimonianza che è chiamato a dare, ma anzi la rafforza, e questo fa bene a tutti. Ciò che mi aspetto è dunque la testimonianza», questa «testimonianza speciale». Per questo motivo Francesco ha detto che nei seminari vanno accettati i peccatori ma non i corrotti: «Non sto parlando di persone che si riconoscono peccatori: tutti siamo peccatori, ma non tutti siamo corrotti. Si accettino i peccatori ma non i corrotti». E la parola corruzione non è nel senso del manipulitismo, ma è nella speciale accezione che ne ha dato più volte Francesco, quella collegata all’«ipocrisia e al clericalismo».
Il Papa ha anche elogiato l’impegno di Benedetto XVI contro la pedofilia ( «Ci deve servire da esempio per avere il coraggio di assumere la formazione personale come sfida seria avendo in mente sempre il popolo di Dio»). E ha chiesto di vigilare sul fenomeno della cosiddetta «tratta delle novizie», cioè il massiccio reclutamento di giovani suore nei Paesi extraeuropei da parte di alcune congregazioni per trapiantarle in Europa. Le vocazioni sono infatti in crescita nelle Chiese giovani e il rischio è che gli Ordini facciano un vero e proprio «reclutamento vocazionale», ribattezzato già nel 1994 dai vescovi filippini con la stessa immagine («tratta delle novizie») usata ieri da Francesco. Il Papa ha poi ricordato, a proposito dei fondatori degli ordini religiosi, che «il carisma non è una bottiglia di acqua distillata», che esso va reinterpretato, magari rischiando l’errore.
Nella Messa di ringraziamento per la proclamazione della santità del primo discepolo di Sant’Ignazio, Pierre Favre, ieri il Papa ha parlato della tentazione di proclamare il Vangelo con «bastonate inquisitorie: no, il Vangelo è predicato gentilmente, fraternamente, con amore».

Corriere 4.1.14
«Francesco è come un rompighiaccio. Vedo la sua forza ma anche dei rischi»
Novak: ritorno al passato? Il Concilio Vaticano II uscì un po’ di strada
di Ennio Caretto


WASHINGTON — L’intervista di Francesco a Civiltà Cattolica suggerisce al filosofo americano Michael Novak la metafora del Papa rompighiaccio, il Papa che libera la Chiesa dalle sue rigide chiusure e le apre la strada del dialogo con le altre chiese e della missione pastorale nel mondo. «Come il Concilio Vaticano II, che seguii da giornalista nel ’63, così Francesco vuole riportare il cattolicesimo allo spirito delle origini» dichiara Novak al cellulare. «Questo Papa è pieno di sorprese. Il ritorno a quello che fu anche lo spirito di 40 anni fa è benvenuto, sebbene rischioso. A mio parere, il Concilio Vaticano II uscì un poco di strada. Ma non credo che Francesco farà altrettanto».
Novak, un ex consigliere del presidente repubblicano Ronald Reagan alla Casa bianca, è ritenuto un maestro del pensiero cattolico americano. Tra i suoi libri, il più famoso è forse uno del ’63, Open Church , Chiesa aperta, pubblicato negli Stati Uniti dall’editrice McMillan. Il libro, ricorda il filosofo conservatore, anticipò in qualche modo il messaggio di Francesco a Civiltà Cattolica . Dice Novak: «Nel mio Paese contribuì all’incontro la conversazione tra le varie chiese, incontro e conservazione che hanno generato un grande rispetto per quella cattolica in quasi tutte le protestanti, nonostante gli scandali finanziari e sessuali degli ultimi anni. E contribuì anche al senso di missione che ha animato i sacerdoti miei connazionali, a cominciare da mio fratello».
Su questo punto lei non potrebbe essere più in sintonia con Francesco.
«Io penso che il Pontefice sfondi una porta aperta con la stragrande maggioranza dei fedeli, e che il ghiaccio che rompe sia quello del Vaticano e di altre istituzioni ecclesiastiche. Quando afferma che il primo compito della Chiesa non è il proselitismo, quando parla di scambio di idee con altre fedi, Francesco traduce in dottrina i suoi inviti alla carità e alla forza nella tenerezza».
Il suo riferimento al Concilio Vaticano II implica un paragone tra questo Papa e Giovanni XIII?
«Sì, non solo perché Giovanni XXIII auspicò il dialogo tra le religioni, ma anche perché aprì le finestre della Chiesa alla intera umanità. Giovanni XXIII spiegò che la Chiesa deve essere al servizio della gente. La vita contemplativa è importante, ma in prevalenza i diversi ordini nascono per operare nelle strade, nelle scuole, negli ospedali e così via. Non a caso l’attuale Santo Padre s’ispira a San Francesco d’Assisi».
Che frutti possono dare l’incontro, la conversazione tra le chiese?
«Frutti copiosi. Lo vedo qui negli Stati Uniti. Il secolo XX ha portato una meravigliosa esplosione di idee, figure straordinarie come Santa Teresa di Calcutta. I metodisti americani, per esempio, non sono stai mai molto sensibili alla filosofia umanistica, ma adesso studiano San Tommaso e Sant’Agostino con enorme interesse. L’ex capo dei Southern methodist, Richard Land, che si è ritirato di poco, si professava antipapista, ma ebbe ammirazione e affetto per Giovanni Paolo II».
E che frutti può dare una maggiore partecipazione della Chiesa Cattolica alla vita quotidiana dell’umanità?
«Frutti ancora più decisivi. Francesco è il Papa dei poveri, degli ammalati, di coloro che hanno bisogno. La Chiesa può risollevarli non solo spiritualmente ma anche materialmente, sebbene in piccola misura, perché il Papa invoca anche maggiori giustizia e ridistribuzione della ricchezza».
Si può parlare di una rinascita del cattolicesimo? E se sì, è dovuta a Francesco?
«Francesco si è dimostrato un fedele interprete dell’insegnamento di Cristo. Ma il XX secolo è stato forse il secolo che ci ha dato il massimo numero di martiri cattolici dai tempi dell’Impero Romano. Cattolici che hanno portato il Vangelo là dove rischiavano la vita, come mio fratello Richard, un sacerdote ucciso 50 anni or sono in quello che oggi è il Bangladesh. Cattolici che si identificherebbero in lui».

Corriere 4.1.14
La carità di fra Cristoforo e le sirene di Ulisse
di Luigi Accattoli


Quando diffida i religiosi dal nutrire un «cuore acido» il riferimento potrebbe essere alla Monaca di Monza del Manzoni che viveva «nell’astio» la vita monacale alla quale era stata costretta. Il richiamo ad attrarre con la carità e a mostrare al mondo che si può «vivere diversamente» ha dietro la figura di fra Cristoforo. Ma nelle direttive del Papa ai «Superiori Generali» ci sono sottotraccia anche richiami meno specifici e di scuola: l’Odissea e l’Eneide, Dante e il Martin Fierro di José Hernández (1834-1886), che è il poema nazionale argentino.
Un riferimento al Martin Fierro lo trovo nell’invito ai religiosi a recuperare la «tenerezza materna» verso le persone affidate alla loro cura. In un saggio sul poema di Hernandez pubblicato nel 2002 il cardinale Bergoglio riportava questi versi come monito ad apprendere il dovere della tenerezza verso i più deboli: «La cicogna quando è vecchia / perde la vista, e si affannano / a curarla nell’età matura / tutte le sue figlie piccole. / Imparate dalle cicogne / questo esempio di tenerezza».
Un rimando all’Ulisse dell’Odissea possiamo vederlo nel richiamo rivolto ai religiosi perché siano «uomini e donne capaci di svegliare il mondo», cioè di scuoterli dall’incantamento «mondano». Era a questo scopo che nell’intervista del settembre scorso alle riviste dei Gesuiti aveva paragonato i «valori avariati» dell’umanità di oggi al «pensiero ingannato» di Ulisse «davanti al canto delle sirene».
L’Enea dell’Eneide fa capolino tra le righe dell’invito a esplorare e «illuminare il futuro», posto come esemplificazione del compito «profetico» dei religiosi. Più volte nei testi del cardinale Bergoglio ricorre l’immagine di Enea che dopo l’incendio di Troia «si carica la sua storia sulle spalle e si mette in cammino, alla ricerca del futuro» (così per esempio nel volume «Il nuovo Papa si racconta», Corriere della Sera 2013, p. 67).
Quando dice «non negoziabile» la predicazione evangelica e afferma rudemente che si tratta di «essere profeti e non di giocare a esserlo», viene alla mente un discorso ai vescovi spagnoli (gennaio 2006) nel quale a quello stesso scopo da cardinale aveva citato il canto XXIX del Paradiso di Dante: «Non disse Cristo al suo primo convento [gruppo di discepoli]: / andate e predicate al mondo ciance».
Per il capitolo della «inculturazione» del cristianesimo nelle diverse civiltà Francesco cita i gesuiti che in tale impresa sono stati più creativi, da Matteo Ricci (1552-1610) a Segundo Llorente (1906-1989), che scrissero diversi volumi di memorie che sicuramente Papa Bergoglio conosce nei testi originali. Ma più interessante, per il lettore non specialista dell’interessante «colloquio» del Papa gesuita con i confratelli religiosi, è l’allusione implicita a testi profani, che è — come sempre nei suoi testi — abbondante.
Nell’invito a concepire la formazione dei religiosi come «opera artigianale e non poliziesca», mirata a far crescere persone capaci di gioia e di tenerezza, si può vedere in trasparenza l’apprezzamento ben noto del cardinale Bergoglio per il film «Il pranzo di Babette» che — disse una volta — mostra come una comunità puritana possa arrivare a ignorare «che cosa sia la felicità». O anche vi si potrebbe scorgere la sua ammirazione per la Crocifissione bianca di Chagall, che «non è crudele ma ricca di speranza».

Corriere 4.1.14
La visita ai frati in lotta tra di loro
di E. D.


GENOVA — Sono duecento in tutta Italia e portano il saio turchino in onore alla Madonna cui sono devoti. I frati francescani dell’Immacolata, fondati nel 1998 da Stefano Manelli, stanno attraversando un periodo di burrasca. L’Ordine è stato commissariato dal presidente della Congregazione dei religiosi, Joao Braz de Aviz, incaricato dal Papa di seguire la vicenda. Il commissario Fidenzio Volpi ha contestato all’Ordine un eccessivo tradizionalismo nell’applicazione del Vetus Ordo (la messa in latino), uno stile di governo personalistico del fondatore e una gestione dei beni mobili e immobili giudicata passibile di «rilevanza civile e penale». In questi giorni il commissario ha chiuso in Liguria un piccolo convento a San Bartolomeo al Mare mentre un appartamento in cui visse San Leonardo da Porto Maurizio e la cui gestione era affidata ai frati turchini è stato restituito ai frati minori di Genova. I frati turchini se ne sono andati da Imperia: erano due filippini, un sudafricano e un francese. «Troppo pochi per poter far fronte alla nostra regola di vita comunitaria e agli impegni pastorali» spiegano i frati da Roma. Ma non negano che all’interno dell’Ordine è in corso una guerra fra una minoranza che sta «apertamente sabotando» l’operato del commissario Volpi «perché non vuole cedere il potere» e gli altri che vogliono «portare l’ordine fuori da problemi che non potevamo affrontare da soli» e si dicono pronti a collaborare con Volpi. Papa Francesco segue da vicino il travaglio del giovane ordine francescano tanto che in modo privato il 1° gennaio è andato, accompagnato da una guardia e dal suo autista, nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma dove ha incontrato i frati dell’Immacolata: «Il Papa c’è molto vicino e gli siamo grati» dicono loro. L’Ordine insomma non è a rischio: «La scelta di mandare un commissario significa che la Santa Sede riconosce all’Ordine il carisma» commentano i frati.

Corriere 4.1.14
Usa al lavoro sul supercomputer in grado di decifrare ogni cosa
Nuova rivelazione di Snowden sulle attività della Nsa
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Nella Seconda guerra mondiale gli alleati riuscirono a scoprire i segreti di Enigma, l’apparato che trasmetteva messaggi in codice delle forze naziste. E sempre in quel conflitto gli americani impiegarono un sistema molto semplice per proteggere le comunicazioni radio nel Pacifico: gli operatori erano degli indiani Navajo e usavano nei contatti la loro lingua. Storie di macchine e uomini impegnati in una lotta nell’ombra. Storie che si ripetono oggi nel mondo digitale.
Le ultime rivelazioni uscite dalla «miniera» di Edward Snowden riguardano un progetto — ovviamente riservatissimo — della sua ex ditta, l’Nsa. L’intelligence elettronica americana ha stanziato 79,6 milioni di dollari per un progetto ambizioso: la messa a punto di un computer quantistico in grado di sgretolare, violare, svelare i codici protetti. Gli agenti vogliono essere in grado non solo di monitorare quello che ci diciamo, ma intendono penetrare qualsiasi banca dati criptata. A svelare i dettagli dell’operazione ancora il Washington Post il quale ha avuto accesso ai file del funzionario statunitense scappato in Russia con il suo gigantesco e inesauribile tesoro d’informazioni.
Gli scienziati ingaggiati dall’Nsa sono al lavoro in speciali stanze — resistenti alle onde elettromagnetiche — create in un centro di ricerca dell’agenzia a College Park, nel Maryland, a nord della capitale. Altri laboratori sarebbero sempre nell’area di Fort Meade, la base dalla quale viene coordinata ogni azione elettronica. Detta così e visti i mezzi a disposizione potrebbe sembrare solo una questione di tempo. In realtà la marcia è molto lunga. Sul mercato esistono già alcuni computer quantistici, acquisiti da Google, Nasa e un’università ma si tratta di prodotti «ridotti» ben lontani dalle caratteristiche richieste dallo spionaggio.
I documenti fatti uscire da Snowden e rilanciati dal quotidiano indicano che l’Nsa sarebbe ancora indietro. Però si tratta di una rivelazione parziale. Magari i tecnici hanno fatto progressi che sono rimasti top secret vista la delicatezza del progetto. Comunque c’è da sudare per arrivare alla meta. Lo sanno bene anche i concorrenti degli Usa. Sempre secondo il Washington Post , gli americani, nella corsa al computer quantistico, hanno fatto a gara con i laboratori svizzeri e dell’Unione Europea, tutti alle prese con problemi non da poco. In base ad alcune stime i tempi per arrivare a questo genere di computer possono variare dai 5 ai 10 anni. Altre valutazioni hanno dilatato l’arco della ricerca sottolineando la complessità del lavoro.
L’Nsa però vuole quest’arma — così come i suoi avversari, dai cinesi ai russi — per rompere l’ultima barriera di riservatezza. L’intelligence, in questo modo, potrebbe allargare la rete di controllo. Dopo aver «succhiato» telefonate e scambi di email, tenuto d’occhio i social network, monitorato i cavi sottomarini, piazzato antenne sensibili in 80 città, ricostruito le nostre relazioni (famiglia, amicizie, lavoro), s’infilerà in quelle «memorie» protette che dovrebbero essere al riparo da sguardi indiscreti. Un grimaldello formidabile da usare nei confronti di quelle istituzioni che non hanno alcuna intenzione di svelare i dati personali.
L’altro aspetto è di natura più strategica con ripercussioni sul fronte militare. E con una proiezione esterna nei riguardi di nemici e amici. L’Nsa potrà lanciare «incursioni» in terra straniera per aggirare i muri di protezione eretti da governi ed entità militari.

Corriere 4.1.14
Un sogno lontano non ancora realtà
di Stefano Gattei


Nel 1982 Richard Feynman osservò come alcuni fenomeni governati dalla meccanica quantistica non avrebbero potuto essere efficacemente simulati per mezzo di un computer classico. Se poi gli sviluppi della tecnologia avessero seguito il ritmo previsto nel 1965 da uno dei cofondatori di Intel, Gordon Moore, la miniaturizzazione dei circuiti avrebbe presto fatto sì che ogni componente si sarebbe ridotta alle dimensioni di pochi atomi. Su scala atomica, i fenomeni sono governati da leggi che non seguono la fisica classica, ma quella quantistica: nacque così l’idea di concepire un computer basato sui principi della fisica quantistica. Feynman propose di sostituire la «macchina di Turing», introdotta nel 1936, con la sua versione quantistica, che a differenza della precedente era in grado di simulare i fenomeni previsti dalla fisica dei quanti senza subire un calo esponenziale di velocità. Nel 1985 David Deutsch sviluppò il «computer quantistico universale», il primo elaboratore in grado di sfruttare fenomeni fisici privi di un analogo classico, quali il cosiddetto «entanglement», per cui ogni stato quantico di un insieme di due o più sistemi fisici dipende dallo stato di ciascun sistema, anche se questi sono spazialmente separati. Per i computer tradizionali, basati sui transistor, il costituente di base dell’informazione è il bit, mentre per i computer quantistici è il qubit (o quantum bit). Se un bit può assumere uno solo di due stati differenti (sì o no, vero o falso, 0 o 1), un bit quantistico può essere codificato come combinazione di due stati, tipo gli stati di spin 1/2 o i differenti stati elettronici di un atomo. In questo modo i computer quantistici hanno la possibilità di essere in più di uno stato simultaneamente, con vantaggi enormi dal punto di vista della velocità di elaborazione delle informazioni. Sebbene alcuni primi esperimenti siano già stati realizzati, i computer quantistici sono ancora lontani dall’essere una realtà. Sono in molti, tuttavia, a lavorarci. Come ha osservato Feynman, «la natura non è classica, dannazione, e se si vuole farne una simulazione, si dovrebbe farne una che si accordi con la meccanica quantistica. È un problema bellissimo, per la miseria, proprio perché non sembra affatto facile».

Corriere 4.1.14
Comitato sugli immigrati, Merkel accontenta la Spd


BERLINO — Sollecitata da alleati di governo e opposizione, la cancelliera tedesca Angela Merkel interviene nel dibattito sull’immigrazione dopo la fine delle restrizioni imposte ai cittadini di Romania e Bulgaria che si trasferiscono negli altri Paesi dell’Unione Europea per lavoro. In seguito a una telefonata con il suo numero due al governo, il leader della Spd Sigmar Gabriel, la cancelliera ha acconsentito alla creazione di un comitato composto dai sottosegretari competenti per trattare il tema dell’immigrazione.
«Il comitato — ha spiegato il vice portavoce del governo, Georg Streiter, annunciando che l’organismo vedrà la luce mercoledì — si occuperà di vedere quali misure operative possono essere prese per evitare un possibile abuso dei benefici del welfare».
L’annuncio della Merkel arriva dopo che il dibattito si è ulteriormente infiammato in Germania a seguito delle dichiarazioni rilasciate da Elmar Brok, esponente della Cdu (l’Unione cristiano-democratica guidata dalla cancelliera) e presidente della commissione Esteri del Parlamento europeo. In un’intervista apparsa ieri sul quotidiano Bild , Brok ha dichiarato: «Gli immigrati che vengono in Germania solo per ottenere i sussidi di disoccupazione per i figli e le assicurazioni sanitarie devono essere rispediti velocemente nei loro Paesi. Per impedire ingressi di massa dovremmo pensare di prendere le impronte digitali». Critiche alle sue parole sono arrivate dai suoi stessi compagni di partito, tra i quali Armin Laschet, vice presidente della Cdu: l’idea proposta da Brok «non corrisponde a quella di un’Europa aperta».

Corriere 4.1.14
Quell’idea della Thatcher: i militari contro i minatori
di Fabio Cavalera


Contro i picchetti. Contro gli scioperi. Contro la paralisi. Pronta a tutto. Pronta a chiamare l’esercito, anche a costo di rischiare la guerra civile. Disposta a sperimentare le tattiche dei regimi militari sudamericani (anni Settanta) pur di piegare la resistenza dei minatori. È una Thatcher in versione totalitaria quella che esce dai documenti ai quali è stato tolto il sigillo della segretezza. Una Lady di Ferro che sfiorò l’idea di dichiarare «lo stato di emergenza» con l’intervento dei soldati per superare il caos e per non cadere «negli abissi». Che il lontano 1984 rappresenti nella storia politica contemporanea britannica un anno di svolta importante è risaputo. Fu l’atto finale della resa dei conti fra il governo di Margaret Thatcher e minatori che bloccavano il Paese chiedendo l’aumento del salario minimo garantito e la bocciatura delle strategie industriali miranti a ridimensionare e chiudere le attività estrattive. Non si trattò di una vertenza di settore, corporativa e senza significato, quanto piuttosto di una battaglia campale il cui oggetto erano, in generale, il potere del sindacato e la sua capacità di condizionare le strategie economiche. Dieci anni prima, nel 1974, i minatori avevano vinto e umiliato il conservatore Edward Heath. Questa volta a inginocchiarsi furono i lavoratori. E da allora il baricentro delle relazioni industriali è cambiato per sempre. Anche per tale ragione la signora Thatcher, al secondo mandato a Downing Street (1983), è diventata più che mai la Lady di Ferro. Tutti, a destra e a sinistra, tory e laburisti, hanno sempre riconosciuto a «Maggie» una forza decisionale straordinaria, virtù sconosciuta ai leader e ai partiti abituati ai piccoli compromessi. È l’immagine pubblica di una donna che è stata fra i grandi protagonisti del Ventesimo secolo: convinta delle sue idee, mai incline a piegare la testa. Le carte, con i resoconti sulle attività a Downing Street di trent’anni fa, consolidano l’iconografia classica su Margaret Thatcher che ribaltò le convenzioni della politica e dei suoi molli protagonisti del tempo. Ma aggiungono anche dettagli su certi vizi gravi e taciuti della signora che ha dominato la scena per tre legislature. Aveva già ammesso, quando ormai era fuori dai giochi, un debole per il dittatore cileno Pinochet. Qualcuno aveva sostenuto che era stato uno sbandamento dell’età. Nella testa di Maggie era covato invece, nel periodo della sua indimenticabile leadership, qualcosa di più serio: la suggestione di un peccato, per fortuna soffocato dalla sua intelligenza.

Corriere 4.1.14
Cambogia, stroncata nel sangue la rivolta degli operai della moda
Chiedevano il raddoppio dei salari. La polizia apre il fuoco
di Danilo Taino


Tragedie degli anni di Pol Pot a parte, la Cambogia è un Paese ai margini del circuito della grande informazione. La globalizzazione, però, è arrivata anche lì e, ieri, è diventata questione politica. Drammaticamente politica. Durante scontri di piazza in occasione di una manifestazione di lavoratori che chiedevano il raddoppio del salario, la polizia ha aperto il fuoco e ha ucciso almeno tre persone, probabilmente quattro. Altre, più di venti, sono state ferite. Lo scontro è avvenuto in un parco industriale di Canadia, a Sud della capitale Phnom Penh: un agglomerato di fabbriche di capi d’abbigliamento destinati all’esportazione e alla fornitura di gruppi occidentali come lo svedese H&M e l’americano Pvh (proprietario dei marchi Calvin Klein, Tommy Hilfiger, Speedo).
Secondo i resoconti delle agenzie di stampa, la manifestazione è iniziata giovedì notte. Si trattava di una protesta rivolta contro il ministero del Lavoro con il quale è in corso una trattativa sul salario minimo. I lavoratori e le forze che li sostengono, in testa l’opposizione politica al presidente Hun Sun, chiedono il raddoppio a 160 dollari al mese: il ministero ha proposto prima 95 dollari, poi cento. Quando la polizia ha cercato di sciogliere la manifestazione — dicono le fonti d’informazione locali — alcuni manifestanti avrebbero reagito con lanci di sassi e con sfoggio di bastoni e machete. Successivamente la polizia sarebbe tornata alla carica e avrebbe fatto uso di Kalashnikov per sparare sulla folla. La Confederazione dei Sindacati e l’opposizione del Partito di Salvataggio nazionale hanno accusato il governo per la violenza contro i lavoratori e i monaci che manifestavano con loro.
L’industria dell’abbigliamento cambogiana impiega 500 mila persone in 500 fabbriche di abiti e scarpe, parecchie di queste di proprietà estera. L’anno scorso, ha esportato abbigliamento e tessile per più di quattro miliardi di dollari: si tratta della maggiore fonte di entrate del Paese. L’importanza del settore, dunque, è elevata. Succedono però due cose. La prima è che anche in Cambogia è arrivato il vento di quella che può essere considerata la fase due della globalizzazione, nella quale i lavoratori dei Paesi poveri non si accontentano più di bassi salari e di condizioni di lavoro pessime e pericolose. Le manifestazioni seguite all’incendio di una fabbrica di abbigliamento in Bangladesh nel novembre 2012, dove morirono almeno 117 persone, sono state un punto di svolta, a livello globale, per quel che riguarda i diritti sul lavoro.
In secondo luogo, la questione ha assunto negli ultimi tempi un rilievo politico di estrema importanza. Il presidente Hun Sun governa da oltre due decenni e nel tempo si è legato strettamente ai proprietari delle fabbriche di abbigliamento, ben oltre — dicono le opposizioni — a quanto sarebbe giustificato per chi vuole difendere l’interesse economico nazionale. Proprio questo intreccio ha portato a un avvicinamento tra il movimento dei lavoratori e il partito di opposizione. Un momento cruciale nella vicenda politica cambogiana si è avuto lo scorso luglio, quando le elezioni sono state vinte di nuovo da Hun Sun ma l’opposizione ha denunciato brogli. Da allora, la situazione politica e sociale si è radicalizzata fino agli scontri di ieri.
Alcuni analisti sostengono che il raddoppio del salario minimo provocherebbe problemi all’economia, che ha come unico punto di forza il costo basso della manodopera. D’altra parte, aggiungono, un aumento delle remunerazioni è inevitabile, come lo è stato in alti Paesi emergenti, a cominciare dalla Cina. È che la globalizzazione è entrata in una nuova fase: anche i lavoratori dei Paesi più poveri hanno iniziato a lottare per i loro diritti.

Corriere 4.1.14
Il mito del socialismo cubano sul “manifesto”
E il dittatore Fidel divenne un tenero romantico
di Pierluigi Battista


È l’alba del 2014, ma sulle colonne del Manifesto sembra di rivedere una logora pellicola del passato. È crollato il muro di Berlino 25 anni fa. Sul Cremlino la bandiera rossa non sventola più da decenni. La Corea del Nord è così lugubre che bisogna nasconderla alla vista. La Cina capital-comunista tiene l’antico vessillo del partito unico e della galera per i dissidenti ma apre al mercato. Resta il mito del socialismo al sole tropicale, la dittatura al ritmo delle danze sudamericane. C’è ancora il tiranno Fidel Castro da incensare e venerare. E all’inizio del gennaio 2014 Ignacio Ramonet, direttore dell’edizione spagnola di Le Monde diplomatique , deve ancora sentirsi in dovere di genuflettersi davanti al dittatore con un’intervista che emula i panegirici una volta dovuti a Stalin, Mao o Mussolini.
Peccato. Proprio sul Manifesto , gruppo eretico che nacque con il titolo «Praga è sola» dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Proprio sul Manifesto su cui K.S. Karol ha scritto su Cuba parole severissime, molto diverse dall’incanto sciocco che ha ipnotizzato per tanti anni tanti intellettuali alla ricerca del nuovo paradiso socialista dalle parti dell’Avana. E invece, malgrado tutto, il mito di Fidel Castro resiste. Cuba non viene descritta per quella che è, una prigione a cielo aperto circondata da un mare incantevole, ma per un episodio di eroico antimperialismo. Non una parola, nell’intervista inginocchiata di Ramonet a Castro, a Orlando Zapata, il dissidente morto dopo 85 giorni di sciopero della fame. Non una parola sulle galere piene di cubani accusati dei reati più cervellotici solo per aver manifestato in pubblico qualche dubbio sulle bellezze radiose della rivoluzione cubana.
Non una parola sui cubani costretti a scappare su imbarcazioni disperate per fuggire dal dispotismo castrista. Sui campi di concentramento per i «maricones» allestiti a suo tempo nientemeno che da Ernesto «Che» Guevara. Sui processi farsa. Sull’apartheid che impedisce ai cubani l’ingresso nei paradisi turistici se non come cuochi e sguatteri. Sui libri che non escono, i giornali inesistenti, la tv dell’Avana che sembra una parodia di quella del «dittatore dello Stato libero di Bananas» di Woody Allen. Non una parola sulla prostituzione di massa come unica forma possibile per racimolare qualche dollaro. Niente, solo l’idillio di «un giorno pieno della luce e dell’aria cristallina del magico dicembre cubano», «le palme verdi che ondeggiano a un vento lieve» e Lui, Fidel, «sorridente», i «suoi occhi capaci di scrutare fin nell’animo dell’interlocutore» e che «sta meravigliosamente bene» malgrado i bollettini nefasti della propaganda imperialista.
E allora elogi al povero Chávez, descritto come la personificazione della «cultura, dell’acume, l’intelligenza politica, la visione bolivariana, la gentilezza, il senso dell’umorismo». Il «senso dell’umorismo» dell’uomo che straziava i venezuelani con discorsi televisivi di ore e ore per autoglorificarsi? Sì, il «senso dell’umorismo». E poi «l’Iran che ha diritto al nucleare civile», il Comandante che coltiva «semi di gelso» e che aspetta uno specialista di botanica, e le raccomandazioni di Raúl contro quelle che ancora sul Manifesto vengono bollate come «le forze interne che tentano la sovversione»: un linguaggio truce da regime, come avviene in tutte le feroci dittature in cui il dissidente è un «sovversivo», chi si oppone un «criminale» al servizio dei nemici della Patria e del socialismo. Un mito che ancora resiste, nonostante i richiami della realtà, nonostante tutti i dissidenti e gli esuli che dopo aver appoggiato la rivoluzione di Fidel, ne sono stati perseguitati e che, come Carlos Franqui fino all’ultimo dei suoi giorni, sono stati denigrati dagli stessi giornalisti e intellettuali che oggi non smettono di manifestare il loro servilismo nei confronti di un dittatore capriccioso descritto come un tenero romantico che a tempo perso si prende cura di vasetti con i semi di gelso. La grande mistificazione che ancora spande le sue nebbie. Il socialismo tropicale che è un inferno per chi ci vive. E un paradiso caldo e fascinoso per i pellegrini che vanno ad omaggiare il despota fino alla fine dei suoi giorni.

Corriere 4.1.14
Divorzio alla francese: niente più giudice, basta una firma
di Elisabetta Rosaspina


GRENOBLE — Divorzio sprint, senza nemmeno passare davanti a un giudice: il ministro della Giustizia francese, Christiane Taubira, sta caldeggiando una proposta di modifica del diritto di famiglia che permetterebbe ai coniugi, in caso d’accordo nell’insanabile disaccordo, di dirsi addio davanti a un cancelliere. Senza ulteriori attese, udienze né formalità.
L’idea, come prevedibile, ha scatenato feroci discussioni tra il sindacato dei cancellieri, favorevole alla novità, da una parte, e i rappresentanti di giudici e avvocati, vivacemente contrari, dall’altra. Oltre a provocare la reazione della comunità cattolica, secondo la quale banalizzare lo scioglimento di un matrimonio non fa altro che renderlo ancora più fragile.
Un’analisi delle statistiche ha permesso agli esperti del ministero, in cerca di una soluzione all’ingorgo di fascicoli che sta soffocando i tribunali civili francesi, di stabilire che il 54% delle 128.371 cause di divorzio presentate ogni anno, segue un decorso poco conflittuale. I quasi ex consorti hanno spesso già concordato, a volte fin nei minimi dettagli, le condizioni della loro separazione e hanno soltanto fretta di sancirla su carta bollata.
Perché dunque perdere tempo per far omologare le clausole da un giudice? Il progetto di riforma, finalizzato a semplificare e accelerare la procedura, è contenuto in un rapporto pilotato da un consigliere della Corte di Cassazione, Pierre Delmas-Goyon, e sarà presentato la settimana prossima alla guardasigilli, durante una conferenza all’Unesco sulla giustizia del XXI secolo. Ma gli avvocati matrimonialisti, che già si erano opposti nel 2007 all’idea di trasferire ai notai le pratiche di divorzio, e i magistrati hanno un lungo elenco di motivi per contestare il nuovo ruolo che sarebbe così attribuito ai cancellieri.
«C’è sempre un rapporto di forza in un divorzio e soltanto il giudice può tutelare la parte più debole», ha obiettato per esempio l’avvocato matrimonialista Elodie Mulon.
E non solo: «Un giudice può accertare, con la sua esperienza, che il divorzio sia davvero consensuale — ha osservato Pierre-Olivier Sur, dell’Ordine degli avvocati di Parigi — e che gli interessi dei figli siano stati pienamente tutelati». Secondo il presidente dell’Unione Sindacale dei Magistrati, Christophe Régnard, il divorzio suggellato dai cancellieri «è una falsa buona idea» per alleggerire il lavoro dei tribunali: «Si finirà per aumentare i contenziosi che, non di rado, si ripropongono ai giudici anche dopo il divorzio». Di fronte alle carenze di organico nella magistratura, «invece di assumere nuovo personale — rincara Régnard — si preferisce trasferire le nostre competenze ai cancellieri».
I quali, d’altra parte, si sentono all’altezza del compito: «Abbiamo una formazione specifica — assicura, tra l’altro, l’esponente del sindacato dei cancellieri, Marylène Sonnefraud — ed effettivamente si potrebbero così dimezzare i tempi d’attesa. In pratica i cancellieri già intervengono fin dall’inizio della procedura, esaminando la regolarità dei documenti presentati dalle parti».

Il Sole 24 Ore 4.1.14
Effetto domino. Il «Partito di Dio» sta trasferendo dalla Siria al Libano missili in grado di colpire quasi ogni angolo dello Stato ebraico
Rischio escalation tra Israele ed Hezbollah
di Roberto Bongiorni


Nel conflitto siriano c'è un'altra linea rossa che rischia di essere violata. È meno plateale eppure più insidiosa. È una sottile linea rossa che, se superata, potrebbe aprire una nuova fase della guerra civile, fino a innescare nel turbolento Levante un conflitto regionale in cui Israele sarebbe inevitabilmente risucchiata.
Questa volta i due contendenti non sono il presidente americano Barack Obama e il suo omologo siriano, Bashar al-Assad. Sono due nemici che hanno già combattuto una guerra sette anni fa: Israele ed Hezbollah. L'argomento del contendere non è l'uso di armi chimiche, bensì il trasferimento nelle mani del movimento sciita libanese, alleato di Iran e Siria, di moderni sistemi missilistici. Armi capaci di ridimensionare l'enorme superiorità tecnologica militare - soprattutto quella aerea - di Israele, che ha spesso funzionato da deterrente nei confronti dei suoi bellicosi vicini.
Da quando la primavera araba siriana è degenerata in una guerra civile Israele non ha usato mezzi termini: impedirà con ogni mezzo il trasferimento di armi siriane in Libano e, qualora il Partito di Dio riuscisse a ottenerle, reagirà in modo adeguato. La minaccia israeliana rischia di concretizzarsi. Perché lentamente, pezzo dopo pezzo, dopo averli accuratamente smantellati, gli Hezbollah stanno trasferendo sistemi missilistici avanzati dalla Siria al Libano, inclusi batterie di Scud D, missili a medio raggio capaci di colpire Israele in profondità. Non solo. Secondo fonti di intelligence citate dal New York Times, Washington avrebbe le prove di un traffico dalla Siria al Libano anche di componenti di un sistema russo anti-nave, gestito sempre da Hezbollah. Che avrebbe già in mano diversi componenti di 12 batterie pur non possedendo ancora tutte le parti necessarie alla loro attivazione. Parte di queste armi sarebbero nascoste in territorio siriano. Finora l'esercito israeliano ha lanciato cinque attacchi in Siria contro convogli di armi diretti in Libano. L'ultimo, in luglio, ha colpito un deposito dove erano custoditi missili Yakhont.
Il Partito di Dio sta percorrendo una pericolosa china. Forse si sta preparando a un nuovo conflitto con Israele. O forse punterebbe ad avere a sua volta in mano un deterrente che gli permetta di evitare di aprire un altro fronte esterno in un momento in cui sembra più vulnerabile in casa propria. Dallo scorso giugno l'apporto degli esperti miliziani di Hezbollah a fianco del regime si è rivelato decisivo nell'alterare gli equilibri della guerra civile in favore di Damasco. Ma, oltre alle ingenti perdite di miliziani, il risultato è stato un inasprimento dei gruppi estremisti islamici sunniti, tra cui organizzazioni legate ad al-Qaeda, accorsi in massa nelle regioni settentrionali della Siria.
Da luglio ha preso così il via una nuova stagione delle autobombe. Un conflitto tra gruppi alleati e gruppi nemici di Damasco, che a colpi di ordigni rispecchia quello che sta avvenendo a colpi di artiglieria pesante e raid aerei nelle martoriate città siriane. Ciò che più sorprende è che da luglio Hezbollah è stato preso di mira con almeno quattro grandi attentati nel cuore dei suoi "quartieri roccaforte". È difficile immaginare come all'onnipresente sistema di sicurezza di Hezbollah sia sfuggita giovedì un'auto sospetta, con la stessa targa e colore di quando era stata rubata un anno fa, attraversare indisturbata Haret Hreik, uno dei suoi quartier generali.
Lentamente, la guerra civile siriana sta inghiottendo il piccolo Libano, dove è già in corso un duro confronto tra Arabia Saudita e Iran attraverso i loro alleati locali: il movimento dell'14 e quello dell'8 marzo. Il quadro politico non potrebbe essere più confuso. Da 9 mesi il Libano è orfano di un governo rappresentativo, capace di andare al di là degli atti di ordinaria amministrazione. Un lascito della crisi scoppiata lo scorso marzo, quando Najib Mikati ha dato le dimissioni. La motivazione - una disputa sulla proroga del mandato del capo delle forze di sicurezza interne, il generale Ashraf Rifi - è apparsa subito come un pretesto. Il tentativo del premier designato, Tammam Salam, di creare un governo di unità è andato a vuoto. Finora hanno prevalso le divisioni politiche e interconfessionali di un Paese in cui la Costituzione prevede una spartizione del potere (il presidente del consiglio deve essere sunnita, quello del parlamento sciita, il capo dello Stato cristiano). Un clima rovente in cui, il prossimo maggio, dovrebbe svolgersi la votazione per il presidente della Repubblica, una figura centrale in Libano. L'ultima cosa di cui ha bisogno il Libano è un vuoto politico presidenziale.

il Fatto 4.1.14
A Firenze
Moda in biblioteca Anche no, grazie
di Maurizio Viroli


Lo storico edificio della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze ha urgente necessità di restauri; le infiltrazioni d’acqua minacciano di danneggiare i libri; i servizi igienici sono in uno stato penoso; alcune sale, come la Sala Musica, sono chiuse da tempo mentre la consultazione di riviste e quotidiani in Sala Periodici è ormai impresa improba; la distribuzione e la catalogazione sono ridotte al minimo; i validi studiosi e studiose che militano nella Sala Consultazione hanno messo mano al portafoglio per pagare il restauro delle sedie, ma se il termometro scende il freddo è tale che soltanto i più vigorosi, con cappotti e sciarpe possono resistere; l’età media del personale, ammirevole, in generale, per dedizione e competenza, è vicina alla pensione e di assunzioni non se ne parla; la mostra su Machiavelli che propone materiali di inestimabile valore e bellezza è stata collocata in sale talmente gelide che la visita dovrebbe essere fortemente sconsigliata a chi ha problemi cardiaci.
Niente paura, la soluzione c’è. Basta organizzare “eventi” nelle sale della Biblioteca: esibizioni di tango, la disco Anni 80 tornei di golf. E si può fare di meglio, una bella sfilata di moda: “Si comunica che giovedì 9 gennaio 2014 la Sala Lettura E. Casa-massima sarà chiusa in concomitanza dell’evento organizzato con la Società Pitti Immagine. In alternativa i Sigg.ri utenti potranno utilizzare la Sala Periodici, la Sala Cataloghi e l’Ufficio Informazioni. Ci scusiamo per il disagio arrecato”.
No, le scuse non bastano. Per la semplice ragione che le istituzioni, e i luoghi che le ospitano, hanno una missione e finalità precise che non possono essere tradite piegandole ad attività estranee e incompatibili. E la ragion d’essere di una Biblioteca Nazionale Centrale è raccogliere e conservare il patrimonio librario e di manoscritti per metterlo a disposizione delle studiose e degli studiosi. La moda, il golf, la musica disco non c’entrano nulla con la Biblioteca, e la loro presenza nelle sue sale offende.
La Biblioteca è il luogo degli studi rigorosi, del raccoglimento, della riflessione, del rispetto per i testi. La moda è il mondo dell’apparenza, della vanità, del superfluo. Sottomettere anche solo per un’ora la Biblioteca a Palazzo Pitti vuol dire incoraggiare quella maniera sbagliata di pensare e di vivere che ormai inquina tutti gli aspetti della vita italiana, vale a dire che lo sfavillio delle immagini e l’esteriorità valgono più della cultura seria e della vita interiore. La causa vera del degrado civile dell’Italia è proprio l’aver dimenticato il giusto ordine delle cose, e il piccolo episodio di Firenze è un segno eloquente.
Mi si potrebbe obiettare che l’evento di moda porta soldi da usare per le finalità proprie della Biblioteca. Dimostratelo, e dimostrate che non c’è altra strada per assicurare alla Biblioteca una vita dignitosa.
A Cesena lo scorso dicembre il sindaco Paolo Lucchi ha inaugurato la nuova Grande Biblioteca Malatestiana: un’opera splendida grazie alla quale le antiche sale e gli antichi luoghi sono tornati a nuova vita e a essi si sono aggiunti nuovi spazi luminosi e attrezzati con le più recenti tecnologie per permettere gli studi e promuovere vita culturale per la città.
NON MI RISULTA che abbiano mai affittato la Malatestiana per serate dedicate al valzer. Perché quello che è stato possibile in una piccola città di provincia dovrebbe essere impossibile per la grande Firenze e per la sua Biblioteca, soprattutto ora che il suo Sindaco è anche segretario del più importante partito italiano? E il ministro Bray non ha forse quale suo primo dovere tutelare “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, come spiega a chiare lettere l’art. 9 della Costituzione repubblicana. Orbene tutelare la Biblioteca Centrale vuole appunto dire difenderla dalle intrusioni che ne minacciano la funzione propria. Ben vengano attività di promozione della Biblioteca Nazionale Centrale che portino soldi, come mostre e savie forme di accesso a pagamento compatibili con la natura pubblica dell’istituzione. Ma sostenere la Biblioteca Nazionale Centrale è dovere preciso della Repubblica.
I fautori dell’“evento” del 9 gennaio s’impegnino per pochi secondi in un semplice esperimento mentale. Provino a immaginare che un solerte ideatore di eventi si presenti al British Museum o alla Library of Congress e proponga serate di moda, disco e simili. Verrebbe cacciato a pedate. La differenza fra i paesi civili che sanno rinascere e l’Italia, che vuole a tutti i costi morire di banalità e di volgarità, sta tutta qui.

Corriere 4.1.14
«Facebook spia i messaggi»
Class action degli utenti Usa «Vende i dati alla pubblicità»
di Massimo Sideri


L’anima nera di Facebook, «Spybook», è finita in un tribunale civile. E questa volta la vexata quaestio che riguarda un po’ tutti noi dovrebbe avere una risposta: il social network più diffuso al mondo spia o no le comunicazioni private tra gli utenti? E dopo averle sottratte alla nostra privacy vende le informazioni alle società che ci bombardano poi con pubblicità sempre più profilate ogni volta che siamo online? Fino a oggi il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, ha sempre glissato sulla questione. Anche quando l’ex giornalista del Wall Street Journal , Walter Mossberg, lo fece sudare freddo in diretta dal palco di AllThingsDigital . Ne uscì ammaccato facendo la figura della scimmietta che non vede, non sente e non parla.
Ma questa volta davanti al giudice sarà più difficile essere evasivi. L’irresistibile leggerezza delle spiate è diventata una class action civile presentata alla corte distrettuale del nord della California da due utenti, Matthew Campbell dell’Arkansas e Michael Hurley dell’Oregon, già in odore di santità tra le 166 milioni di persone che negli Stati Uniti sono iscritti al social network (circa metà della popolazione Usa). Facebook ha respinto le accuse in modo secco: «Sono senza merito e ci difenderemo vigorosamente». Ma ormai il dado è tratto: i segreti del software di Zuckerberg che in Borsa valgono 139 miliardi di dollari finiranno nelle mani degli avvocati e saranno liofilizzati e analizzati come in un legal thriller di John Grisham.
Gli indizi di colpevolezza già sono stati svelati: non si tratta solo di quella spiacevole sensazione che si prova ogni volta che si accede a uno smartphone, tablet o pc, come se qualcuno ci stesse spiando dalla toppa delle chiavi di Internet. I due utenti hanno già fatto notare che è un po’ bizzarro che Facebook permetta agli sviluppatori del web di accrescere i propri «like» anche per i link che vengono postati sui messaggi privati fra utenti. Se nessuno lì può guardare com’è possibile?
L’accusa ne fa anche una questione di concorrenza, nervo molto sensibile per gli americani: gli utenti tendono a scrivere sui messaggi privati cose più specifiche e personali e, dunque, la conoscenza di queste informazioni dà a Facebook un vantaggio competitivo sugli altri concorrenti.
Un’accusa simile nel 2004 era stata mossa contro Google per i servizi di «monitoraggio» sugli indirizzi di posta elettronica Gmail. La società in quel caso si era difesa dicendo che i controlli vengono fatti da macchine e non da esseri umani. L’«I Robot» di Asimov, forse , non è più fantascienza.
È più o meno la pratica che poi ha alimentato il grande scandalo della National Security Agency svelato da Edward Snowden: l’agenzia è infatti accusata di guardare con un potente occhio digitale i metadati delle nostre comunicazioni.
Peraltro solo da poche settimane Facebook insieme agli altri Over the top come Google aveva preso le distanze dalle pratiche del governo americano in tema di spiate. L’azione punta a ottenere al massimo 100 dollari per ogni giorno di presunta violazione o 10.000 per ogni utente che ritiene di essere stato colpito dall’occhio bionico di Zuckerberg. Ma nella class action sono ammessi solo gli utenti con passaporto Usa. La pratica, si legge nei documenti legali, mette a rischio la promessa di Facebook di opzioni di sicurezza «senza precedenti» per la messaggistica. Alla fine sarà Facebook o Spybook: ne resterà solo una, speriamo.

Corriere 4.1.14
Il giudizio dell’«Economist» sul capitalismo all’italiana
di S. Bo.


Con il titolo significativo in italiano «Capitalismo all’italiana», l’ Economist nell’ultimo numero ha preso in esame con una breve inchiesta i cambiamenti che attraversano oggi il nostro sistema proprietario e di governance. L’articolo parte da Mediobanca e dalla svolta perseguita dall’amministratore delegato Alberto Nagel con l’uscita dai patti di sindacato, passo preliminare per la vendita delle azioni e la conseguente «liberazione» di capitale. Cita dunque alcuni passaggi: in settembre la stessa Mediobanca scende in Telco dall’11,6% al 7,3%; in ottobre l’istituto «invita» Generali a lasciare il proprio accordo parasociale; altri patti, come quello che ha controllato Rcs Mediagroup, editore del Corriere della Sera , vengono sciolti e in dicembre il Leone esce da Pirelli. Il settimanale inglese cita poi alcuni protagonisti e dossier del nostro capitalismo come Matteo Arpe e le operazioni tentate con Sator (implicitamente fa riferimento a Bpm e Fonsai); Andrea Bonomi e la «campagna» sulla Popolare di Milano conclusa con il suo ritiro dalla governance; le vicende relative al Montepaschi e il ruolo della Fondazione azionista. Conclusione: secondo l’ Economist in sostanza è vero che cambiamenti nel nostro capitalismo sono in atto, ma anzitutto sono spinti dal fatto che oggi mancano le risorse per mantenere in piedi il vecchio sistema, e in secondo luogo possono essere considerati timidi, tardivi e lenti. La severità del settimanale di fronte all’effettivo tramonto del network di patti che ha retto per decenni il nostro sistema, svanisce però di fronte al dinamismo sui mercati dimostrati da casi di «italian brands» come Moncler, Ferragamo o Cucinelli, presi in esame in un articolo successivo. Anche in questo caso il titolo è significativo: «Italian business-Brave old world». E sarà forse per un riconosciuto «coraggio» imprenditoriale di aziende riconducibili al lusso e al made in Italy e particolarmente focalizzate sull’export, oggi analisti e banche internazionali consigliano gli investitori di guardare con un occhio di riguardo alle società italiane. Come sottolinea lo stesso Economist, citando Credit suisse e Hsbc.

Corriere 4.1.14
Che cosa determina il valore di una mucca?
La domanda che mette in crisi gli economisti
di Danilo Taino


Il problema apparentemente poco hi-tech è: che cosa determina il valore di una mucca? Il dibattito è stato aperto il 27 dicembre sul Financial Times dal decano degli economisti britannici Samuel Brittan: dice che le vacche vengono bene sui biglietti d’auguri ma non sono investimenti attraenti.
Ieri, sullo stesso quotidiano, l’economista Ira Sohn, della Montclair State University del New Jersey, ricordava che una volta il primo presidente di Israele, Chaim Weizmann, per pura cortesia accettò in dono un cavallo ma poi lo dette via perché «un regalo che mangia non è un regalo». Questo per quel che riguarda gli auguri.
Sul tema bovino, invece, il professor Sohn raccontava che le vacche gli vengono utili per rendere immediatamente chiaro (ai suoi studenti confusi) che il loro valore dipende dal cash-flow che producono — latte, letame e vitelli — così come quello dell’Empire State Building dipende dagli affitti che comanda.
Il dibattito, molto british, diventa ancora più intricato se si considera quel che succede in questi giorni in India. Il candidato dell’opposizione nazionalista hindu alle prossime elezioni politiche di maggio, Narendra Modi, ha promesso che se diventerà primo ministro costruirà un riparo sacro capace di contenere diecimila vacche. Intende così opporsi a quella che ha definito un’inaccettabile «rivoluzione rosa», cioè al boom della macellazione e dell’esportazione di carne di vacca, attività vietate in quasi tutti gli Stati indiani per motivi religiosi ma in realtà condotte in nero facendole passare per commercio di parti di bufalo mentre si è in India e per export di carne di bovino quando si è fuori dai confini.
Se alle analisi sui rendimenti del cavallo, della mucca, dell’Empire State Building si aggiunge quello della vacca sacra, si ha la conferma che l’economia non sarà mai una scienza esatta.

l’Unità 4.1.14
Il «sarto» del Dna
Feng Zhang, bioingegnere del Mit, cura le malattie mentali studiando i geni
di Cristiana Pulcinelli


Repubblica 4.1.14
1914-2014, il banco di prova della Sinistra
di Gad Lerner


Il 4 agosto 1914 fu una data nefasta per la sinistra europea. Su richiesta del kaiser Guglielmo II e per “senso di responsabilità nazionale”, i socialdemocratici della Spd, cioè la frazione parlamentare maggioritaria del Reichstag, votarono a favore dei crediti di guerra per finanziare le operazioni militari contro Francia e Russia. Lo stesso giorno, a Parigi, i loro confratelli deputati della Sfio aderirono all’Union sacrée, cioè la grande coalizione antitedesca invocata dal presidente Raymond Poincaré. Quel 4 agosto, dunque, vennero ridotti in cenere i principi fondativi della Seconda Internazionale (“nostra patria è il mondo intero”). Gli stessi popoli che l’ideale socialista aveva riuniti in un solo movimento operaio, si accingevano a massacrarsi nelle trincee della Grande Guerra. Per giustificare la cosiddetta “tregua interna” e la rinuncia alle precedenti deliberazioni pacifiste, Friedrich Ebert, Albert Sudekum e gli altri dirigenti socialdemocratici finsero di credere che la Germania conducesse una “guerra difensiva”. Solo negli anni successivi una minoranza di sinistra si oppose alla linea socialpatriottica, ma venne accusata di “disfattismo” e duramente repressa. Stessa sorte toccò agli oppositori in Francia e in quasi tutti gli altri paesi impegnati nello sforzo bellico.
La recente scelta della Spd di imbarcarsi in una Grosse koalition per attraversare sotto la guida di Angela Merkel l’attuale bufera europea, sta suscitando nella sinistra dell’Unione un malcelato imbarazzo e riecheggia queste reminiscenze storiche. Non voglio sostenere che l’accordo stipulato con la cancelliera democristiana sia paragonabile ai crediti di guerra del 1914. E però anch’esso si fonda su uno scambio asimmetrico: vengono garantiti significativi miglioramenti ai lavoratori tedeschi; ma viene nettamente bocciata l’idea socialdemocratica di un fondo europeo per la condivisione del debito. La Spd, dunque, delega per intero la politica europea al rigorismo della Merkel. La Germania resterà inflessibile nei confronti dei partner più poveri dell’Unione. Neppure la leader della sinistra interna, Andrea Nahles, si è opposta a questo dietrofront strategico, intrapreso già prima delle elezioni di settembre quando ormai la Merkel appariva imbattibile. Non una svolta repentina, ma piuttosto una capitolazione rispetto alla severità con cui inizialmente il candidato socialdemocratico alla cancelleria, Peter Steinbrueck, definiva egoista e grezza la politica europea della Merkel.
Per questo è bene ricordare il 1914, e la votazione dei crediti di guerra (che produsse una frattura insanabile nella sinistra europea): aiuta a riconoscere quanto rapidamente possa consumarsi la dissolvenza dell’internazionalismo. Che oggi preferiamo chiamare col nome di europeismo, ma che ovunque deve pur sempre fronteggiare il medesimo spettro del nazionalismo sciovinista.
Ciò spiega a mio parere il fascino suggestivo assunto dalla candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, leader della sinistra di Syriza che si oppone al Memorandum della Troika e al governo di larghe intese chiamato ad applicarlo in Grecia. Tsipras non ha alcuna chance di successo. Ma suscita tanta voglia di parteggiare generosamente per il greco contro il tedesco: ovvero contro la candidatura ben più solida di Martin Schulz, l’attuale presidente del parlamento europeo, esponente di quella Spd che sembra appiattirsi nei luoghi comuni dell’ostilità tedesca ai popoli spendaccioni e fannulloni.
Il disagio viene accresciuto dalla ovvia imprescindibilità della Spd: ancora oggi, come già nel 1914, la socialdemocrazia tedesca rimane la forza principale della sinistra europea (e quando, per reazione, fu la Russia di Stalin a tentare “il socialismo in un paese solo”, mal ce ne incolse). Per questo l’egoismo tedesco inscritto nel patto di governo Merkel-Gabriel, così distanti dalla visione europeista dei loro predecessori, risulta tanto più lacerante se visto da sinistra.
Per tornare al dilemma europeo simboleggiato alle prossime elezioni dal greco Tsipras contro il tedesco Schulz, quali argomenti si potranno spendere di fronte a un giovane disoccupato italiano per sconsigliargli una scelta puramente romantica, dalla parte del più debole? Se le forze progressiste dell’Ue non sono state capaci di elevare Atene a capitale di un europeismo solidale, e anzi in Grecia il socialismo del Pasok si è autodistrutto per sottomissione alle ricette calate dall’alto, c’è forse qualcuno a sinistra che immagini di ricominciare da Berlino?
Qui davvero il Partito Democratico italiano potrebbe svolgere una funzione rilevante, sforzandosi di riavvicinare il greco e il tedesco. Promuovendo una critica aperta alla Spd rinchiusa nel socialpatriottismo, finora lesinata perfino da uomini come D’Alema che non perdono occasione di vantarsi della propria familiarità col socialismo europeo.
L’Italia vive direttamente il dramma della nuova figura sociale dell’uomo indebitato; ma è al tempo stesso nazione cofondatrice dell’Unione europea. Il Fiscal compact sembra condannarci a pagare per vent’anni interessi elevatissimi su un debito pubblico destinato a restare comunque inestinguibile; ma un nostro eventuale collasso finanziario trascinerebbe nei guai anche i paesi più solidi dell’Ue. E a ben pensarci ci soccorre anche la memoria di quel fatidico 1914: quando la Spd votava i crediti di guerra e quasi tutti gli altri partiti socialisti europei tradivano la reciproca fratellanza in nome di un malinteso sentimento di lealtà nazionale, fu proprio il Partito socialista italiano l’unico a mantenersi sulla linea non interventista e neutralista deliberata dal congresso di Stoccarda della Seconda Internazionale. Non bastò per impedire la catastrofe di due guerre mondiali in meno di trent’anni. Ma questa è una ragione in più per riprovarci oggi.

Corriere 4.1.14
Il saggio di V. Alberti mette a confronto fede e ragione
di Franco Manzoni


Alle origini di una nuova laicità È possibile oggi trovare un dialogo, un luogo d’incontro tra fede e ragione, tra religione e politica? Non è forse dal periodo illuminista che la cultura occidentale ha voltato le spalle al cristianesimo? Tuttavia i grandi totalitarismi novecenteschi sono crollati. Pier Paolo Pasolini in un articolo del 1975 sul «Corriere della Sera» indicò l’inizio dell’epoca della scomparsa delle lucciole e dei valori tradizionali, per cui osservava «il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione». Ora, dopo quarant’anni, la globalizzazione capitalista sembra in una fase d’implosione e l’uomo, travolto da eventi inaspettati, si spaventa per la crisi, la mancanza di lavoro, il vuoto di pensiero.
Nasce nell’ultimo decennio la necessità di un ritorno al sacro, a Dio, alla metafisica. Così, per tracciare una rotta che a ogni persona senza alcuna discriminazione offra speranze concrete di democrazia, libertà, giustizia, solidarietà, il filosofo Vittorio V. Alberti ha ideato il saggio Nuovo umanesimo, nuova laicità (Lateran University Press, pp. 346, € 30) sotto forma di un manuale antologico e critico che assemblea passi di numerosi maestri del pensiero: da Habermas a Ratzinger, da Nietzsche a De Gasperi.
Una delle analisi più interessanti e insolite è quella su Antigone , la tragedia sofoclea che Alberti utilizza per studiare i differenti modelli di comportamento relativi a fede e ragione. Creonte vive la tragedia dell’uomo che vorrebbe farsi dio, ostinato assertore delle norme dettate dalla politica che possono portare all’abuso di potere e alla tirannia. Ma anche l’eroina Antigone è colpevole, pur subendo il martirio, di arroganza e di cieco furore nel difendere le leggi della tradizione familiare e quelle divine. Non si è dunque attuata la mediazione fra le due forze. Evento che l’autore, nato nel 1978 e docente di Filosofia alla Pontificia università lateranense, auspica avvenga per generare la nuova laicità. Dove la fede non va intesa come coercizione, semmai quale dono e percorso di liberazione.

Corriere 4.1.14
Quant’è dura a sparire la leggenda del complotto ebraico
di Stefano Jesurum


Anni fa, proprio su queste pagine, Ranieri Polese, recensendo Cospirazioni. Trame, complotti, depistaggi e altre inquietanti verità nascoste di Kate Tuckett (Castelvecchi), lamentava il silenzio di quello scritto sul massimo esempio di costruzione di un complotto mondiale, i Protocolli dei savi anziani di Sion . Gli faceva poi eco (scusate la cacofonia) Umberto Eco, che sollecitava una ristampa einaudiana di Licenza per un genocidio di Norman Cohn, «che sulla storia dello pseudo-complotto ebraico aveva scritto nel 1967 cose definitive». Lacuna adesso meritevolmente colmata da Castelvecchi con la riedizione del lavoro di Cohn, definito da Isaiah Berlin «uno dei più grandi tra gli storici moderni». E ben venga in questa stagione dove le costruzioni mitologico-complottarde sono all’ordine del giorno e riempiono la bocca nonché, ahinoi, la testa di troppi soggetti: dai grillini più ignoranti agli anti-israeliani patologici, per finire con molteplici frange della galassia neonazista.
In Licenza per un genocidio si racconta scientificamente, ma al tempo stesso in maniera godibilissima, il lungo viaggio del mito del complotto ebraico, che dalle origini protocristiane, tra il II e il IV secolo, si trasforma 7-8 secoli più tardi nell’Europa occidentale in terrificante demonologia, sempre cristiana, fino all’età moderna, quando conquista la destra ottocentesca abitata da spie e occultisti, diventando così definitivamente strumento di azione politica. Ed ecco apparire i veri e propri Protocolli . Costruiti a Parigi a fine Ottocento da agenti segreti zaristi, successivamente diffusi e usati dal nazismo, dal fascismo e dallo stalinismo, dilagati quindi da un continente all’altro, dall’Urss all’America Latina, dall’Europa ai Paesi arabi. Sempre dimostrando la medesima stupefacente capacità, scrive Cohn, «di trasformare certi individui in ciechi fanatici, inaccessibili e sordi all’evidenza, e di turbare e confondere in varia misura molta gente in altri casi assai assennata».
Licenza per un genocidio si occupa dunque, sì, soprattutto di storia, però anche di psicopatologia. Proprio in questo senso la lettura del libro di Cohn aiuta a comprendere alcuni atteggiamenti e slogan e «analisi» di chi nel conflitto israelo-palestinese fa rivivere, forse perché è il suo inconscio ad averne un bisogno profondo, una sorta di lotta all’ultimo respiro tra il Male e il Bene. A scanso di equivoci dirò che non mi riferisco affatto alle differenti, contrapposte e legittime visioni politiche sul Medio Oriente, quanto invece, appunto, ad approcci che a mio avviso hanno sovente più la natura dell’ossessione patologica, a volte delirante.
Il supposto avvelenamento di Yasser Arafat a opera degli israeliani? «I Protocolli parlano non soltanto di servirsi di alcolici e donne dissipate per indebolire il fisico dei gentili, ma anche di inoculare loro direttamente le malattie». L’11 settembre 2001 e la quasi totalità degli orrori contemporanei ispirati e/o attuati dal Grande Satana sionista? Come i «Misteri quando insegnavano al popolo che l’Anticristo sarebbe stato un ebreo e che i suoi più devoti seguaci sarebbero stati ebrei»...
Si potrebbe andare avanti per pagine e pagine. Perché — sempre parafrasando Norman Cohn (Londra 1915 - Cambridge 2007) — esiste un universo sotterraneo dove fantasie patologiche, camuffate da idee, vengono rimuginate da imbroglioni e fanatici poco acculturati. «Ci sono momenti in cui questo universo sotterraneo emerge dalle profondità e di colpo stordisce, affascina e cattura una moltitudine di persone generalmente sane di mente e coscienziose, fino a spingerle ad abbandonare ogni ragione e ogni senso di responsabilità. Di tanto in tanto, può capitare che questo mondo sotterraneo irrompa sulla scena politica e intervenga ad alterare il corso della storia».
Un auspicio: che la lettura di Cohn possa servire da antidoto universale, dal momento che le aberrazioni protocolliane e le loro implicazioni hanno portato e possono purtroppo portare a conseguenze che, tragicamente, vanno assai al di là dell’antisemitismo e della sorte degli ebrei.

Ieri Reale accusava i "marxisti" (qui di seguito)
«È capitato anche a me che alcuni miei progetti fossero bocciati da commissioni esaminatrici, ma non per questo ho pensato di bandire crociate contro gli autori cattolici o heideggeriani. Ho preso atto che i colleghi addetti alla valutazione non la pensavano come me»
Corriere 4.1.14
«Critico il Platone di Reale il marxismo non c’entra»
Vegetti: è essenziale l’autonomia dei dialoghi
di Antonio Carioti


Mario Vegetti non è soltanto autore di importanti studi sul pensiero classico, tra cui L’etica degli antichi (Laterza, 1989) e Quindici lezioni su Platone (Einaudi, 2003). Ha pubblicato anche nel 2004, per la collana «Autentici falsi d’autore» dell’editore Guida, un libretto in cui immaginava l’ipotetico dialogo tra Socrate e uno straniero giunto da Treviri (leggi Karl Marx), contenuto in un inesistente XI libro della Repubblica di Platone. Se a ciò si aggiunge che è stato anche curatore del volume Marxismo e società antica (Feltrinelli, 1977), Vegetti rientra perfettamente nella categoria dei cattedratici orientati ideologicamente a sinistra che Giovanni Reale, nell’intervista apparsa ieri sul «Corriere», ha accusato di aver avversato in ogni modo il suo nuovo paradigma interpretativo del pensiero platonico.
Che cosa pensa della denuncia di Reale?
«È normale che la comunità scientifica sia divisa su temi di estrema complessità. Reale ha elaborato una sua particolare interpretazione di Platone, del tutto rispettabile, che ha sostenuto con vigore e con vasti lavori di ricerca, ma non è condivisa dalla maggioranza degli studiosi, né in Italia né all’estero. Il fatto che abbia trovato ostacoli e difficoltà non ha nulla a che fare con il presunto boicottaggio di professori marxisti intolleranti verso i colleghi cattolici come Reale, ma dipende dall’esistenza di forti dissensi riguardo alle sue teorie».
Però fa specie che un programma di ricerca presentato da uno studioso di spicco come Reale non abbia a suo tempo ottenuto i finanziamenti pubblici che chiedeva.
«È capitato anche a me che alcuni miei progetti fossero bocciati da commissioni esaminatrici, ma non per questo ho pensato di bandire crociate contro gli autori cattolici o heideggeriani. Ho preso atto che i colleghi addetti alla valutazione non la pensavano come me».
Perché sono così controverse le tesi di Reale sulla «dottrina non scritta» di Platone?
«Esistono alcune testimonianze di Aristotele secondo cui Platone avrebbe insegnato una dottrina che non è contenuta nei suoi dialoghi giunti fino a noi in forma scritta. Tale dottrina ha un carattere fortemente metafisico: in sostanza consiste nel far derivare l’intera realtà da due princìpi supremi, l’Uno e il Molteplice, che poi, per dirla in modo schematico, corrispondono rispettivamente al bene e al male. Secondo me è plausibile che Platone si sia espresso in questo senso discutendo con i suoi allievi. Ma dire che i dialoghi nel loro complesso sono semplicemente un preambolo rispetto alla dottrina metafisica è assolutamente riduttivo. E impoverisce in modo inaccettabile la comprensione del pensiero platonico».
Quindi l’oggetto del contendere è il rilievo da attribuire ai dialoghi.
«Il problema di fondo è la loro autonomia, il loro pieno valore filosofico. Essi contengono a mio avviso una ricchezza enorme di pensiero, che merita di essere studiata di per se stessa: non possono essere concepiti come una sorta d’introduzione alla dottrina non scritta».
Reale però, nell’intervista al «Corriere», ha sostenuto che «tenendo fermo il principio dell’autonomia dei dialoghi, si può dimostrare tutto e il contrario di tutto».
«Mi sembra francamente un modo di esprimersi un po’ rozzo. I dialoghi sono messe in scena di discussioni su temi filosofici. Quindi rappresentano per loro natura una pluralità di prospettive. Ma il punto è che non è necessario attribuire a Platone (e del resto a nessun altro pensatore) un sistema metafisico chiuso e compatto. Il suo è un insegnamento molto articolato. Colgo invece nell’atteggiamento di Reale un’ansia di riduzione metafisica del pensiero platonico a un’ultima verità che non si può più discutere. Ma, come lei vede, in tutto questo il marxismo non c’entra niente».
I principali studiosi italiani di Platone non seguivano un tempo quell’indirizzo?
«Non è vero, ce n’erano parecchi di matrice idealista. Margherita Isnardi Parente (scomparsa nel 2008) si opponeva tenacemente a Reale, ma era di formazione crociana e aborriva il marxismo. Oggi d’altronde è dall’estero, specie dall’area anglosassone, che giungono le maggiori critiche all’opera di Reale: da studiosi come l’inglese Christopher Rowe, il francese Luc Brisson, il tedesco Michael Erler. Tutti autori completamente estranei al marxismo».

Repubblica 4.1.14
La poesia del mondo
Viaggio lungo un anno insieme alle nude parole
di Walter Siti


Da domani su “Repubblica” ogni domenica Walter Siti rileggerà un classico da Petrarca a Neruda, da Shakespeare a Pessoa e Trakl Per raccontare una lotta, tra anima, rime e metrica, ancora cruciale

LA POESIA oggi, tutti gli editori lo confermano, è un’area depressa: spariscono le collane ad essa dedicate, sono pochi i poeti giovani che restino nella memoria, molti anziani si sono lasciati attrarre dalle sirene del romanzo, tutto sembra limitato a un circuito di editori minori o minimi dove i poeti se la cantano e se la suonano, litigando e leggendosi a vicenda. (Poche eccezioni fatte, naturalmente). Non è solo il risultato di politiche culturali ostili: da molto tempo il rapporto della poesia con la metrica è diventato problematico, i metri tradizionali sono respinti o citati parodicamente, la lingua speciale della poesia sembra aver perso necessità, la prosa ci ha ormai abituato a tali accensioni metaforiche e a tali oltraggi alla norma che non si vede perché andare a capo. Eppure il pop e il rap hanno raccolto il bisogno inesauribile di musica verbale, di rimare e ritmare le emozioni.
Hanno raccolto il bisogno di parole che significhino non soltanto per il senso attestato dai vocabolari ma anche per il loro suono. Di molti cantautori si dice che sono poeti, anche se i più consapevoli tra loro l’hanno sempre negato; paradossalmente, la dote che più spesso manca ai testi di cantautori e rapper è proprio la musica intrinseca alle parole, visto che la musica gli viene da fuori; il segreto più profondo della poesia, che è quello di suggerire significati ignoti al poeta stesso prima che il testo abbia preso forma (in maniera che il poeta sisente dettato più ancora che essere lui a dettare), questo segreto si rivela a pieno se la parola è lasciata sola, nuda, a lottare con le convenzioni e gli appiattimenti del linguaggio.
Gli unici libri di poesie che danno buoni esiti editoriali sono i classici, soprattutto i classici del Novecento e soprattutto i più glamour: Neruda, Hikmet, Prevért, Garcia Lorca, e Whitman dell’Attimo fuggente e la Szymborska trainata da Saviano, e magari Catullo. Nel mercato della lettura hanno un po’ la funzione di beni-rifugio, buoni del tesoro pluriennali che non perdono valore; l’interpretazione che i lettori ne danno è spesso stereotipa, tra ricordi scolastici e suggestioni estremamente private (in riferimento a un amore, a un viaggio, a una perdita). Una lettura cantautorale dei classici.
A partire da questo quadro è nata l’idea, tra me e la redazione del giornale, di rileggere un classico la settimana, di domenica, per un anno; 52 poesie di tutti i paesi, col testo accompagnato da un mio commento. Testi in lingua originale con traduzione a fronte per lingue mediamente accessibili (inglese, francese, spagnolo, tedesco, portoghese) mentre ci accontenteremo della sola traduzione per i testi russi, o turchi, o arabi, o giapponesi. Testi brevi, necessariamente, e di pura lirica. Tratteremo la poesia lirica come un super-genere che ha attraversato le epoche, escludendo la poesia epica, o didascalica, o la ballata romantica; escludendo quindi grandi poeti come Ariosto o Milton o Virgilio (ma non Dante né Tasso né Shakespeare, che sono stati anche straordinari poeti lirici).
Comincerò con l’incontestabile regolatore della lirica moderna in Europa, cioè con Petrarca, fondatore di un canone che ha resistito per alcuni secoli; e proseguirò coi due grandi che durante l’Ottocento hanno infranto quelle regole con più violenza, cioè con la Dickinson e con Rimbaud. Andando avanti nell’anno, cercherò di mostrare per così dire le sponde, il recinto della poesia lirica, quel che la lirica ha saputo e può fare: canzonette che sembrano fatte di nulla e gridi laceranti, meditazioni quasi filosofiche e sciocchezzuole, invettive engagées,preghiere e bestemmie. Ci saranno Di Giacomo e John Donne, il Pessoa ortonimo eTrakl, Mandel’stam e Pascoli, Brecht e Saffo, e Noventa e Basho e Ronsard. Forse il corpus di testi sarà un po’ italocentrico, per comodità e per miei limiti culturali; il commento sarà alla buona, parlando come viene, anche dei classici senza timori reverenziali o accademici, senza troppe pretese di accuratezza storica o filologica. Cercando di trovare in ogni testo qualcosa che sia emozionante qui e ora, modernizzando con qualche sfacciataggine e precisando le caratteristiche tecniche solo quando sarà indispensabile per far sentire la musica.
La scelta ovviamente sarà parziale, tendenziosa, umorale: le poesie che piacciono a me, anzi che piacciono a me adesso. Sono un anziano, il massimo dell’up-to-date per me sono i miei coetanei o quasi, Milo De Angelis o Patrizia Cavalli. (Se arrivasse un ventenne che mi incanta, ah magari!). Quello che spero, anzi che speriamo, è che l’inevitabile criticabilissimo soggettivismo non scateni soltanto le ire degli addetti ai lavori, ma che il lettore non specializzato vi trovi qualcosa che parla anche a lui, perché in fondo parla di lui. Che ciascuno riesca a rintracciarvi una poesia che non conosceva e che ha voglia di imparare a memoria, o che da una poesia letta sul giornale sia portato a risalire al poeta per leggere qualcos’altro. Il bisogno di dare musica ai sentimenti è universale, come è universale il bisogno di scoprire una sfumatura inedita di sentimenti ben noti, per dare più profondità a quelli che ci portiamo dentro. La poesia è maestra di ambiguità, e senza farci carico delle nostre ambiguità non sapremmo distinguere tra verità e menzogna, né sapremmo accettare quel che siamo. Non esistono solo i cantautori e i rapper; le musiche sono tante e ognuno può scegliere la sua.