sabato 29 settembre 2018

Corriere 29.9.18
Il dito sulle labbra e altri segni
Piccolo vocabolario esoterico
di Francesca Bonazzoli


Numerosi i simboli dell’occulto nell’arte. Dal Medio Evo a Duchamp
Nelle loro botteghe, a contatto con pietre esotiche da macinare per trarne polvere colorata come il prezioso blu di lapislazzuli, oppure chini sui vapori velenosi delle «acque forti» per trasformare i graffi su una lastra di rame in immagini, gli artisti hanno sempre frequentato la mitologia dell’oscuro dove le fantasie prendevano forme simboliche ed esoteriche. Chi le creava, le sapeva interpretare o le collezionava, possedeva i più importanti strumenti di conoscenza all’interno del sistema del sapere. Gli artisti erano dunque fra gli iniziati e ai migliori di loro, filosofi, teologi e scienziati affidavano formule e schemi da riportare in mappe, disegni, grandi cicli di affreschi come nel Palazzo della Ragione, a Padova, o nel Salone dei Mesi del ferrarese Palazzo Schifanoia.
Anche dopo il Medio Evo, con l’Umanesimo, la creazione artistica continuò a produrre una grande quantità di immagini di matrice ermetica, alchemica e cabalistica. Basti pensare a Botticelli, Piero di Cosimo, Leonardo, Dürer, Michelangelo, Parmigianino e Beccafumi, in un elenco che arriva al Manierismo, stile per eccellenza degli enigmi. Nei secoli successivi il fascino dell’iconografia esoterica riemerge continuamente nelle vanitas fiamminghe; nei sabba di Callot, Magnasco o Goya; nelle opere visionarie di pittori come Füssli e Blake; in correnti artistiche come il Surrealismo, il Simbolismo o l’Astrattismo. Si può dunque affermare che il sapere esoterico si sia tramandato proprio grazie all’arte e pochi artisti hanno saputo sfuggire all’orgogliosa consapevolezza di far parte di una casta custode di un antico repertorio iconografico.
Nemmeno il dissacratore dadaista Marcel Duchamp, autore, nel 1915, di una delle opere più misteriose del Novecento, il «Grande vetro (La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche)» di cui in mostra è esposta la versione ad acquaforte. La sua interpretazione è un rebus che porta a pensare si tratti di un’illustrazione delle «Nozze chimiche», motivo allegorico che esprime l’unione armonica dei principi all’origine dell’equilibrio del cosmo, ossia la riconciliazione tra la parte maschile e femminile della nostra psiche.
Un’altra delle immagini più antiche è quella del dito sulle labbra, il «signum arpocraticum», dal nome di Horus, o Arpocrate, il piccolo figlio di Iside: è contemporaneamente gesto del silenzio e dell’ascolto che allude all’Altro per ottenere, come lo spiegò Dumézil, «la concentrazione di un’efficacia magica che la parola pronunciata non possiede». Ma ogni risveglio esoterico ha trovato le sue iconografie più congeniali: fra quelle amate dal Simbolismo c’è senz’altro l’erotismo illustrato da una galleria di donne fatali, da Giuditta, Salomé, a Meduse, Sfingi, Sirene, Chimere: tutti esseri che trasmettono il mal d’amore, o morte magica, paragonabile all’estasi mistica e al raptus che discende dal contatto con la divinità, pericoloso fino alla morte.
Il paesaggio, invece, è un tema limitato soprattutto alla foresta misteriosa;al contrario, fra gli animali si trova una grande ricchezza che spazia dal caprone che presiede ai rituali sabbatici come simbolo del diavolo associato alla lussuria, alla civetta, simbolo della Sapienza, personificazione della Notte e attributo del Regno del Sonno, fratello di Tanato, la Morte. Altra immagine molto frequentata è la scala per indicare la conquista dell’elevazione filosofica, mistica ed esoterica, anello di congiunzione fra la vita quotidiana e la Grande Opera.
Allo stesso modo la comparsa di monti, rocce e città turrite, luoghi iniziatici cui solo il sapiente ha accesso, allude all’ascesi spirituale verso i mondi superiori del cosmo e al viaggio iniziatico per conquistare la sapienza e purificare la materia dell’essere umano con lo scopo di far emergere la sua parte divina. Anche le lampade, richiamo al fuoco alchemico insieme generatore e distruttore, sono l’agente che accelera il processo verso la perfezione.
I simboli sono dunque numerosi e diversi, ma il filo rosso che unisce la mano di tutti gli artisti-alchimisti è l’idea che lo spirito prevale sulla materia, l’invisibile sul visibile. Un percorso dello «spirituale nell’arte» attraverso cui Kandinsky giunse a inventare un’ulteriore nuova forma artistica: quella dell’astrazione.
Corriere 29.9.18
L’appuntamento
L’invisibile rivelato
Una mostra a Rovigo illustra la (sottile) influenza che le pratiche arcane hanno avuto su molti pittori e scultori tra Otto e Novecento. Aprendo la strada all’astratto
di Melisa Garzonio


Streghe, formule e segreti l’arte sedotta dalla magia
Silenzio. Voce all’occulto. La ragazza bruna fasciata di blu di Giorgio Kienerk (pannello centrale di L’enigma umano , 1900) le mani strette sulla bocca, mette sull’avviso, non dite parola, lasciate che siano i demoni, i vampiri e i fantasmi a parlare per voi, guidandovi nel percorso della mostra ad alta suggestione misterica, che apre a Rovigo, a Palazzo Roverella: «Arte e magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa».
«Osare, volere, sapere, tacere. Per accedere al segreto iniziatico», non scherza il curatore Francesco Parisi, che per mesi ha dovuto affrontare un’impressionante folla di creature notturne partorite dal lato oscuro di artisti, qualcuno insospettabile, presi dal desiderio di indagare l’occulto, il sogno, l’inconscio. «Tra il 1880 e il 1925 in Europa l’interesse per l’occulto e le dottrine esoteriche s’impenna con prepotenza. Nasce la psicoanalisi, e nuove correnti artistiche che elaborano in linguaggio figurativo il concetto di inconscio, come il Simbolismo» spiega Parisi. La mostra parte da qui, dall’invito al silenzio imposto con grazia da Odilon Redon e Carlos Schwabe, pittori di donne angelicate e contornate di fiori, fino alla sfinge severa in marmo di Leonardo Bistolfi, al busto di donna in gres di Jean Dampt che intimorisce il visitatore col ditino alzato.
L’apparato iconografico è inquietante. Demoni e streghe in un percorso di fuoco e sguardi saettanti. La strega nuda e il gatto di Paul–Elie Ranson guata chi le passa a tiro sdraiata tra fuochi e rospi; se vi spostate a rimirare impietositi la Donna dannata di Georges De Feure, spalmata su gouache, rischiate di trovarvi nel cul de sac del Vicolo delle streghe di Paul Bürck, vis-à-vis con il drammatico Streghe nella burrasca di James Ensor. Il viaggio negli orrori – ma attenti, alcune streghe sono bellissime, come la rossa roteante verso il cielo sulla scopa magica di Luis Ricardo Faléro — propone vampiri e animali mostruosi. C’è anche Satana, ma è poco credibile, pur se dotato di maschera nera e cornini, come nella versione pettoruta e con la pelle color brace che ne dà George Frederick Watts. Vuoi mettere l’ansia che trasmettono Gli occhi degli angeli dipinti in azzurro e oro da Raoul Dal Molin Ferenzona, uno degli artisti più coinvolti dalla simbologia dei significati arcani degli anni Venti? Dopo i «mostri» il percorso conduce nei luoghi deputati al mistero, i templi sacri dei segreti iniziatici. Benvenuto Benvenuti ci accoglie nella sua Casa delle armonie celesti o Palazzo per musica, Hermann Obrist è rappresentato da due sculture in gesso: Movimento e Progetto per un monumento. Ma non è facile staccare gli occhi dal dipinto del pittore nabis Paul Sérusier L’incantesimo o il Bosco sacro dove si rappresenta un rito iniziatico all’aperto, perché «la natura è un tempio» come diceva Baudelaire, guru dei simbolisti. Le sezioni sono dodici, gli artisti più di 30, tutti sedotti dalle correnti esoteriche in voga tra il 1880 e gli anni successivi alla prima guerra mondiale, e non ci si ferma all’area simbolista. A partire dalla Francia e dal Belgio la cultura riservata ai discepoli, o agli iniziati, fece proseliti coinvolgendo arti figurative, letteratura e architettura del Vecchio Continente, convertendo alla moda dello spiritismo — nato in Usa con le sorelle Fox e confermato in Francia con i Salon de la Rose+Croix — un po’ tutti, dai protagonisti del simbolismo internazionale alle prime avanguardie del Novecento e poi Futurismo e Astrattismo.
Piet Mondrian, per esempio, che prima della svolta astratta ci regala una sfilata di undici pioppi in rosso, giallo, verde e blu; Vassily Kandinsky che invita all’astrazione spirituale con uno sgargiante Rosso in forma appuntita, e il delicatissimo Primaveriris firmato FuturBalla, alias Giacomo Balla. E poi Klee, Itten e tanti altri appassionati dell’invisibile.
Il Fatto 29.9.18
“Così ho inventato Internet e la porterò su altri pianeti”
Il vicepresidente di Google racconta come nel 1973 ebbe l’intuizione alla base di una rete di reti. Oggi lavora a progetti per la connessione nello spazio
Fin dal 1969. Negli anni Sessanta Internet era un progetto del governo per la Difesa
di Piergiorgio Odifreddi


Dopo una conversazione Vint Cerf, sempre impeccabile in un completo a tre pezzi, con il fazzoletto nel taschino e la spilla sulla cravatta, porge al suo interlocutore il proprio biglietto da visita: “Vicepresidente di Google e Sommo Evangelista di Internet”.
La comunità informatica definisce Cerf il “padre di Internet”, l’ha premiato con il premio Turing nel 2004 e gli ha conferito una trentina di lauree honoris causa in tutto il mondo. Al meeting dei premi Turing di Heildelberg, da dove Cerf si trasferirà direttamente al Wired Festival di Firenze, ci siamo fatti raccontare il passato e il futuro della sua creatura.
Com’è diventato il “padre di Internet”?
Dietro alle cose complesse non c’è mai solo una persona. Nel 1969 era già stata costruita la rete di computer del Dipartimento della Difesa americano chiamata Arpanet. Nel 1972 Bob Kahn entrò nel loro gruppo e notò che per essere usata militarmente, la rete avrebbe dovuto collegare non soltanto le comunicazioni via cavo dei computer, ma anche quelle via radio delle navi e via satellite degli aerei.
Alle origini c’era dunque un problema tecnico?
Esattamente. Esistevano tre diversi protocolli di comunicazione, ciascuno con le proprie caratteristiche, la propria velocità di trasmissione e la propria frequenza di errori. E sorse il problema di farli parlare tutti fra loro, in maniera intercambiabile, mantenendo le varie reti di comunicazione intatte. La soluzione fu di scrivere un programma che dicesse ai computer quando e come collegarsi all’uno o all’altro sistema, e permettesse di passare in maniera indolore dall’una all’altra rete.
E qui lei entrò in scena?
Sì. Nel 1973 Kahn e io decidemmo di usare una specie di sistema postale, in cui le lettere contenevano le comunicazioni dei vari sistemi, e sulle buste stavano gli indirizzi delle varie reti a cui esse erano destinate. Nessuna di queste reti sapeva di essere stata connessa a una rete globale interconnessa, che divenne appunto Internet.
In che anno il sistema iniziò a funzionare?
Il nostro Protocollo per il Controllo delle Trasmissioni (tcp/ip) fu pubblicato nel 1974 e standardizzato nel 1978. Il 1º gennaio 1983 nacque ufficialmente Internet. Agli inizi connetteva solo gli Stati Uniti e alcuni Stati europei (Inghilterra, Germania, Italia), ed era limitato all’uso governativo.
Poco dopo iniziammo a usarlo in università.
La National Science Foundation capì subito che si potevano collegare fra loro migliaia di istituzioni accademiche. Poi entrarono in gioco altre istituzioni, dal Dipartimento per l’Energia alla Nasa. Agli inizi il governo non permetteva di trasmettere comunicazioni commerciali, ma nel 1989 io riuscii a ottenere il permesso di connettere a Internet il primo sistema privato di posta elettronica. E la rete si aprì al mercato e al mondo.
Ma l’email non era ancora il World Wide Web.
No, quello lo fece Tim Berners-Lee nel 1991, quando lavorava al Cern in Svizzera. Ma agli inizi nessuno se ne accorse, a parte due persone al Centro nazionale per le applicazioni dei supercomputer di Urbana-Champaign, che costruirono il primo browser: si chiamava Mosaic, mutò Internet in un rotocalco, e stimolò la diffusione della rete. Poi, quando la quantità di informazioni divenne difficile da gestire, arrivarono i motori di ricerca. Insomma, Internet non ha avuto un solo padre…
Ma grazie agli smart phone ha molti figli degeneri, che spesso sembrano solo dumb phonies.
Però gli smart phone sono stati un’idea geniale! È stato Steve Jobs a pensare di integrare i cellulari con le macchine fotografiche e con la rete. Il tutto è diventato maggiore della somma delle parti. Sono passati solo undici anni dall’arrivo degli smart phone nel 2007, ma sembra un’era geologica.
Ma l’integrazione delle funzioni era già stata prevista nel 1995 da Bill Gates, nel libro La strada che porta al domani. E risaliva comunque ad Alan Turing, più di mezzo secolo prima.
Ma c’è una bella differenza tra il dire e il fare. E Jobs non solo l’ha fatto, ma ha prodotto qualcosa che nessuno sapeva di volere. La Nokia aveva già ampliato il concetto di cellulare, ma Jobs ne ha prodotto una versione integrata e facile da usare, con schermi tattili e le icone.
Dove sta andando Internet?
Verso l’“Internet delle cose”: cioè, la connessione non solo fra i computer, ma fra gli oggetti più disparati, dagli elettrodomestici alle auto. E verso un “Internet planetario”: l’estensione delle connessioni dalla Terra ai pianeti del sistema solare.
Si tratta soltanto di dire, per ora, o già di fare?
Molto è già stato fatto. A partire dal 2004 abbiamo messo i prototipi dei protocolli interplanetari sui Rover che esplorano Marte. Nel 2005 abbiamo connesso la sonda Deep Impact che ha visitato la cometa Tempel 1. E nel 2010 abbiamo installato l’ultima versione sulla Stazione spaziale internazionale, addestrando gli astronauti a usarla.
Quali sono gli ostacoli tecnici da superare?
Uno è il ritardo nelle comunicazioni, che diventa significativo a distanze cosmiche. Stiamo sperimentando trasmissioni laser ad alta velocità, e abbiamo fatto test consonde che orbitano attorno alla Luna e a Marte. Purtroppo non possiamo usare i Voyager, arrivati a una ventina di ore luce dalla Terra, perché la loro tecnologia è obsoleta per queste cose. Un altro problema è il fatto che i pianeti si muovono attorno al Sole, e le loro distanze relative cambiano continuamente. Il ritardo nelle comunicazioni è dunque variabile: tra la Terra e Marte va da tre minuti e mezzo alla minima distanza a venti minuti alla massima. I pianeti ruotano attorno a sé stessi, e questo provoca problemi se si trasmettono segnali da postazioni poste sulla loro superficie.
Succedeva anche nelle prime missioni lunari, quando la navicella passava dietro alla Luna.
Esatto. Sulla Terra abbiamo tre grandi ricevitori, in Spagna, in California e in Australia. Su Marte abbiamo invece riprogrammato i due satelliti in orbita, che in origine mappavano il terreno, per ricevere le comunicazioni dai Rover e ritrasmetterle al momento opportuno. Faremo lo stesso anche su altri pianeti.
Vedo che lei non è solo un evangelista di Internet, ma anche il suo profeta. Ha mai sentito parlare del gesuita Teilhard de Chardin, e della sua nozione di “noosfera”?
No. Ma il prefisso mi suona pericolosamente simile a quello della “noetica”, pseudoscienza propagandata da Edgar Mitchell, uno degli astronauti che misero piede sulla Luna. Io però preferisco rimanere con i piedi ben saldi nella scienza.
La Stampa TuttoLibri 29.9.18
“C’è un vento che spaventa nella mia Svezia della libertà”
La scrittrice nata in Iran racconta la storia dell’esule Nahid, gravemente malata Rabbia e voglia di lottare la riportano alle manifestazioni giovanili contro lo scià
di Elena Masuelli


Quando gli studenti scendevano in piazza contro l’ultimo scià di Persia, Golnaz Hashemzadeh Bonde non era ancora nata. Ma è in quella voglia di libertà e contestazione, nella determinazione a mettere la propria vita in gioco per un ideale, senza mai pentirsi di averlo fatto, che affonda (e ricerca) le radici Un popolo di roccia e vento, primo romanzo pubblicato in Italia dell’autrice iraniana arrivata in Svezia bambina, nel 1986, insieme ai genitori esuli: la scrittura è diventata il filo che la tiene legata alle sue origini. Così racconta di Nahid, cinquantenne nata a Teheran e rifugiata nel Paese scandinavo, cui viene diagnosticata una malattia senza speranza. L’ostinazione la spinge a riguardare alla se stessa diciottenne, talentuosa e volitiva, e a Masood, affascinante rivoltoso conosciuto alla facoltà di Medicina e seguito nelle manifestazioni del 1977 piene di speranze finite nel sangue. Alle notti rubate allo studio passate a discutere di democrazia, con quel senso di immortalità di chi si sente dalla parte della ragione, all’ultimo corteo costato la vita alla minore delle sue sei sorelle. Dopo il matrimonio e la nascita di una bambina, la fuga e il divorzio, la solitudine: «Non avremmo dovuto vivere così a lungo. Avremmo dovuto morire durante la rivoluzione- pensa-. O sotto le sue macerie».
In Svezia crescono gli estremismi e un pericoloso vento razzista. Cosa è cambiato?
«Quando ero piccola c’era poca dimestichezza con lo straniero, ho provato sulla pelle la diffidenza. Ma adesso i flussi migratori senza un piano, spaventano le persone. La Svezia deve ripensare la sua politica umanitaria, renderla più sostenibile. Libertà, tolleranza e uguaglianza restano per me i valori fondanti del popolo svedese. Le derive cui stiamo assistendo sono ostinate e preoccupanti, fanno paura, ma ho scelto di considerarle come qualcosa di temporaneo».
Quanta vita vissuta in questo romanzo?
«È ispirato alla generazione dei miei genitori, scomparsi entrambi giovani, non avevano ancora 50 anni. La mia sensazione è che il loro destino sia stato determinato dal trauma della rivoluzione, dalla fatica spesa nel ricostruirsi esistenza e identità in un paese straniero. Di questo volevo raccontare».
Scrive che la fuga «contamina il sangue». Cosa significa scappare?
«La prima frase che ho scritto di questo libro è: “Uno non se ne va perché ha rinunciato. Parte per costruire qualcosa di nuovo”. È stato molto importante nella mia esperienza di figlia di rifugiati: te ne vai perché vuoi sopravvivere, ma anche perché hai un forte desiderio di lottare. Un cambio di pelle agrodolce, fondamentale ma anche molto doloroso».
È una storia di relazioni ed eredità femminili, di solidarietà e orgoglio. Cosa lega donne così diverse?
«Le unisce è l’inevitabilità del patrimonio sociale. Credo sia un concetto interessante, perché non ha bisogno di essere lineare. Quando la protagonista scopre di essere malata, sta per nascere una nipote che sarà libera grazie alle sue lotte, ma erediterà anche la sofferenza di sua madre, che rimane orfana. Nel 2014, in pochi mesi, ho avuto la mia prima figlia e sono morte prima mia nonna e poi mia madre. Mi sono ritrovato a tenere il futuro tra le braccia, ma allo stesso tempo a salutare le mie origini. Quel senso di perdita così lacerante mi ha fatto pensare a come il dolore e i sacrifici di chi ci ha preceduto ci abbiano permesso di essere chi siamo».
Perché la protagonista è una donna profondamente arrabbiata?
«Sente che la vita l’ha maltrattata nonostante abbia lavorato duramente. In cambio di grandi sogni e grandi speranze ha avuto enormi perdite. E invece di essere triste, è in collera. È un aspetto importante di questo romanzo: la rabbia di un personaggio femminile è spesso vista come qualcosa di negativo. Ma Nahid è cruda e onesta, può non essere simpatica, ma si finisce con amarla, perché condividendo la sua storia, si capisce e si apprezza persino la sua rabbia».
Questo stato d’animo le rende difficile essere madre?
«Si porta dentro un vuoto da riempire: vuole qualcuno che la ami, che la accudisca. Ma ciò non accade, mentre lei si sente in dovere di dare affetto incondizionato a sua figlia e fare sacrifici per lei . Non riesce a venire a patti con questo. Il suo bisogno è troppo profondo».
Una donna «di sabbia», è così che si sente dopo avere lasciato la sua terra. Ma sa che la nipote sarà una «creatura di radici», è questa la sua salvezza?
« È stata costretta ad abbandonare la sua storia e ricercherà per sempre quello a cui ha dovuto rinunciare, non si rassegna. La piccola che sta per nascere le regala un senso di vittoria e riscatto, perché sa che è grazie a lei se potrà vivere in libertà nello stesso luogo in cui è nata».
Come guarda oggi al Paese dei suoi genitori, alla condizione femminile?
«Ammiro le donne iraniane. Seguo la loro lotta per una maggiore indipendenza e spero che la raggiungeranno molto presto».
Dall’Iran Nahid e suo marito arrivano in Svezia portando con loro solo con un tappeto. Molto più che un semplice oggetto.
«Ha un ruolo centrale nella quotidianità iraniana. La maggior parte delle persone trascorre il tempo dedicato alle relazioni sociali lì seduta, mangiando insieme, dormendoci sopra. Molto oltre un semplice esempio di bell’artigianato, in qualche caso una vera opere d’arte: il tappeto regala senso di sicurezza, è un simbolo di appartenenza, significa casa».
Il rapporto fra le protagoniste è segnato dalla musica della cantante Googoosh, iraniana ed esule. Cosa rappresenta, anche per lei?
«È la chiave per accedere a ciò che hai di più intimo. Ricordi, emozioni, persino la sensazione di essere nel posto cui appartieni. Io la sento ancora fortemente, anche se sono passati trentadue anni da quando la mia famiglia è fuggita dall’Iran e io avevo solo tre anni. La musica è il mio legame con la cultura persiana. Io non parlo il farsi con i miei figli, ma canto loro queste vecchie canzoni e loro ne imparano il profondo significato. E ogni volta che canto in farsi, mia figlia mi guarda e mi chiede: “Ti mancano la mamma e il papà?”».
La Stampa TttoLibri 29.8.18
Se Stalin telefona di notte Pasternak rinnega l’amico
La vita da romanzo (non sempre eroico) dell’autore del “Dottor Zivago” dai poeti che non osò salvare, al dramma di Olga che per amore finisce ai lavori forzati
di Mattia Feltri


Nella Mosca di Stalin un grande pianista sta suonando Chopin. Si blocca, scoppia in lacrime, sbatte il coperchio della tastiera e lascia il palco fra la meraviglia e il clamore del pubblico. Il pianista si chiama Genrikh Neigaus. Sua moglie, Zinajda, lo ha appena lasciato per mettersi col suo migliore amico, il sommo poeta Boris Pasternak. Potrebbe essere la trama classica di una commedia di Hollywood, è invece la superficie dello sprofondo. Pasternak, per avere la donna, ha ingoiato un tubetto di medicinali. Lei lo salva e si strazia. Lui lascia la prima moglie e il figlio e va a vivere con lei. Finché non incontrerà la giovane Olga, le darà appuntamento sotto una statua di Puškin, le parlerà a lungo, la congederà per poi raggiungerla a casa: Olga, mi sono scordato la cosa più importante, io ti amo.
Le cose belle costano care. L’amore di Pasternak costerà a Olga la fortuna inestimabile. Pasternak è l’intoccabile – lasciatemi stare questo abitante delle nuvole, diceva Stalin agli aguzzini con gli artigli affilati. Pasternak sa incatenare le parole, le sa far suonare, e ha paura, controlla che non una sillaba stoni con le aspettative di regime. Attorno a lui camminano uomini morenti, poeti che temono la tirannia, e la affrontano. Marina Cvetaeva gli scrive lettere crepitanti – quanto saremmo stati felici insieme, avremmo cantato in questo e quell’altro mondo. Lui abbandona la lirica – quanto ti amo! Sono separati da chilometri, da storie in cui sono entrati a capofitto, dal disastro dei tempi, e dall’indole imbelle di Pasternak. Lei, sempre in disgrazia, senza lavoro, senza soldi, senza una mano tesa («sono sola, sono un deserto umano»), troverà un chiodo a cui impiccarsi. Anna Achmatova per la polizia culturale non è una poetessa, è metà suora e metà sgualdrina. Suo marito, il poeta Nikolaj Gumilev, era stato arrestato e fucilato per cospirazione monarchica, e Anna imparò a memoria le sue poesie perché non lasciassero traccia ma avessero un futuro. Sarà arrestato anche il secondo marito, e pure Lev, il figlio di Anna; lei trascorre l’esistenza dentro una tana di terrore e di irriducibile resistenza, coltivando ammirazione e affetto per Pasternak, il maestro che non ha mai un problema. E poi Osip Mandelstam, forse il più grande, schiena drittissima, convoca gli amici e recita un epigramma in cui Stalin è il montanaro del Cremlino, ha dita grasse come larve, baffi di scarafaggio, un antropofago per cui ogni omicidio è un banchetto. Non può durare tanta sfrontatezza. Lo arrestano, lo condannano al gulag, muore durante il trasferimento. Stalin chiama Pasternak nel cuore della notte, gli chiede di Mandelstam, Pasternak balbetta, si scansa di lato, cerca di cambiare discorso, Stalin prova ribrezzo – non hai nemmeno saputo difendere un compagno, io per un amico mi sarei fatto in quattro.
Questo non è un libro, è uno strepitoso, desolante ed esaltante balletto di fantasmi che volteggiano nella più allucinata e inafferrabile dittatura del Novecento. Esaltante perché poi la soluzione è nel titolo – Il senso di colpa del dottor Zivago. Pierluigi Battista ci porta dritti verso l’unica cosa che conta delle nostre vite: non possiamo essere migliori degli altri, possiamo soltanto cercare di essere migliori di noi stessi. E dunque si deve tornare a Olga, la giovane Olga che si innamora di Pasternak sotto la statua di Puškin, e che di notte viene presa, portata alla Lubjanka, condannata ai lavori forzati. Ogni cedimento, ogni piccolo sbandamento del poeta non può che dipendere da quest’anima nera di donna. Anche Olga diventa un fantasma che danza attorno a Pasternak. Non ha saputo proteggerla, come non ha saputo proteggere la prima e la seconda moglie, ha allungato giusto qualche rublo a Mandelstam e a Cvetaeva, ha dimenticato Achmatova, ha assistito al loro tracollo e quello di tanti altri col dolore attutito dal muro di protezione che si era costruito attorno. E lì che mette mano alla sua unica opera in prosa, il romanzo progettato per decenni – Il dottor Zivago. Olga è Lara, lui è Jurij, i loro indici sono puntati dritti contro il male sovietico, e il domani non avrà pace, ma Pasternak saluterà finalmente la folla dei fantasmi guardandoli negli occhi.
La Stampa TuttoLibri 29.9.18
Il terrorista mette in scena i cattivi pensieri della democrazia
di Angelo Guglielmi


La Terra esiste da quando l’uomo (comunque la presenza di una «coscienza») l’ha riconosciuta. Dunque la Terra già esisteva prima di esistere. Il terrorista nasce con la modernità. Nell’Odissea Ulisse che stermina l’intera genia dei Proci non è un terrorista ma un combattente che compie una azione giusta. Sono costretto a una assoluta semplificazione perché un articolo di giornale (stretto in spazi contenuti) mi costringe di andare per le spicce (oltre il ripetere - l’ho fatto altre volte – che Daniele Giglioli, autore di All’ordine del giorno è il terrore, è un straordinario analista).
Perché nasce con la modernità? Perché (devo correre, che disgrazia!) scaduta la classicità (testimone Benjamin) dove gli uomini vivevano coralmente (che non significa senza inimicizie) all’interno di un ordine universale è intervenuto il tempo in cui l’uomo si è ritrovato individuo scoprendosi solo e separato dal suo vicino senza modelli cui ispirarsi e una tradizione cui appoggiarsi. Questa rottura avvenne tra ‘700 e ‘800 con l’illuminismo e la rivoluzione francese accadimenti in cui si fece chiaro il fondamento di ingiustizia di cui si nutriva il governo del popolo di Parigi (come di tutti quelli retti da monarchie assolute) spingendolo alla rivolta (anzi alla rivoluzione).
La rivoluzione (si direbbe oggi) è la forma asimmetrica della rivolta in cui è difficile (anzi impossibile) distinguere tra combattenti e terroristi e in quale delle due figure collocare Robespierre. È in questo brodo che cresce il terrorista moderno, in cui la nobiltà denunciata del fine della sua azione di morte, ha la verità di un losco opportunismo di comodo. Ma la violenza caratteristica di ogni parto lo è anche di quello (del parto) della democrazia (la quale garantisce la sua crescita con l’ingordigia del «capitale» e la varietà delle sue performance). Dimenticata la sua origine non gli è (alla democrazia) difficile scoprirsi virtuosa e vestire di verità la bugia iniziale. Non sa che quanto più lungo (in tempo e distanza) è quell’oblio più rapido(e ineluttabile) è il momento del rendiconto. Più distesamente Giglioli annota che «la democrazia.. ha con la morte un debito d’origine che non si riduce alla sua genesi violenta. La democrazia non è cura d’ anime. Si rivolge a dei corpi che si sanno finiti, non può fare ricorso al trascendente, promettendo premi e castighi oltremondani. Ci si gioca tutto qui e ora».
Così da oltre due secoli il terrorista è la sciagura dell’Europa e del mondo intero. Il fatto, insiste Giglioli, «è che il terrorista ci rappresenta perché mette in scena la delusione delle nostre speranze. Poca importa che in realtà è un utile idiota al servizio del contrario di ciò che rivendica: leggi di polizia, abolizione della primacy..Ciò che crede di fare è l’esplosione nell’assurdo di ciò che tutti noi abbiamo pensato di fare». Divenuto protagonista il terrorista sente l’aria del tempo e si adatta alle modalità con cui la cultura( creativa e del pensiero ) affronta le difficoltà cui è chiamata. Si affermano le avanguardie con simbolismo surrealismo e ermetismo Mallarmé celebra la pagina bianca e Marinetti adora la guerra e i terroristi ne approfittano adattandosi a quelle modalità senza rendersi conto che a quelle modalità la cultura(l’immaginario artistico) ha fatto ricorso per salvare l’arte la realtà e la vita. Loro (i terroristi) solo per ucciderle.
Conclude Giglioli: «A differenza di ciò che corrivamente si crede, il terrorismo non è il contrario della democrazia ma il suo rovescio. È la sua disperazione, il suo lato oscuro, lo spettro incombente del suo fallimento». Che (il fallimento) la democrazia non sa e non vuole (quasi fosse la condizione della sua sopravvivenza) contrastare ( con l’energia necessaria ) come oggi vediamo con l’affermazione - e non solo in Italia certo in buona parte del mondo - di nazionalismi populismi e sovranismi.
La Stampa TuttoLibri 29.9.18
Egiziani smettiamo di ribellarci, non siamo fatti per la rivoluzione
Il fallimento della primavera araba visto da un palazzo affacciato su piazza Tahrir: tra amori contrastati, manifestanti torturati e uccisi, donne che rifiutano il velo
di Gabriele Romagnoli


Quando la censura impedisce il racconto della realtà attraverso i mezzi di comunicazione, tradizionali o da poco creati, non resta che la letteratura. Esistono sistemi di potere prossimi all’analfabetismo di ritorno, brutali nell’espressione quanto nel controllo. La forma del romanzo ne elude la sorveglianza. D’altronde, penseranno, che male può fare se riguarda un Paese come l’Egitto dove un terzo dei maschi e oltre la metà delle donne non sa leggere? Eppure gli egiziani leggono, secondo un rapporto del 2013 due ore a settimana più degli italiani. Ma a farlo è una minoranza, il resto si informa soltanto attraverso canali televisivi saldamente controllati da un governo eletto tramite un plebiscito più che sospetto. Non a caso, sei anni fa il dottor Ala Al-Aswani propose di limitare il diritto di voto a chi era in grado di leggere e scrivere. Sconfitto, è tornato alla narrativa per rivolgersi a chi, in patria e fuori, vuole sapere e capire.
Era il 2002 quando pubblicò Palazzo Yacoubian, divenuto in breve il libro in lingua araba più venduto dopo il Corano. Al Cairo governava Mubarak e le primavere arabe erano, più che lontane, inimmaginabili. Nel microcosmo dell’edificio narrato da Aswani si muovevano le maschere tragicomiche della società egiziana, dominata dal Grande Uomo. Per evitare la censura, che agisce come un computer (cerca parola), era bastato non nominare il presidente.
Sedici anni dopo, molte cose sono accadute, quasi nulla è cambiato. Ala Al-Aswani , seppur alternandola con una docenza a New York dove si sente più sicuro, esercita ancora la professione di dentista in Egitto. Mi disse che non l’avrebbe mai abbandonata per due motivi: dà maggiori garanzie economiche della letteratura e fornisce spunti perché «la gente è autentica quando sperimenta il dolore». Per una ritorsione della storia è toccato a lui sperimentarlo, e alla sua gente. Di qui la materia per Sono corso verso il Nilo. Del primo libro riprende la forma, quella di un romanzo corale intorno a un microcosmo, in questo caso piazza Tahrir, su cui le vite si affacciano, verso cui convergono e da cui dipartono dopo aver trovato l’amore o la morte, la speranza o la disillusione.
Se il giornalista americano Thanassis Cambanis in Once upon a revolution, C’era una volta la rivoluzione, era stato il più lucido a spiegare il fallimento dell’insurrezione, perché osservava la foresta da fuori e dall’alto, Aswani è il più spietato e definitivo nel raccontarla, perché lo fa dall’interno, senza sconti neppure per se stesso. Compone un mosaico di storie e non importa sapere quali e quanto aderiscano alla realtà: se tutte le vicende sono verosimili, il romanzo è vero. Procede per capitoli alternati, con la tecnica del cliffhanger, interrompendoli sul picco. C’è qualcosa di già visto, come la vicenda degli innamorati impossibili, lei figlia del capo dei Servizi, lui di un umile autista. E qualcosa di più sorprendente, come la passione, poi amore vero, che lega un gentiluomo copto, attore emarginato, e la sua domestica musulmana. Ci sono verbali di testimonianza delle torture subite e ci sono gli interessi economici italiani così diffusi e protetti in quella terra. C’è Mubarak, che essendo caduto in disgrazia può essere infine nominato. E ci sono quelli che, in quel remoto 2011, si preparavano a succedergli.
E c’è, più di ogni altra cosa, il senso di un fallimento incombente. Aswani fa dire a uno dei protagonisti che «gli piacerebbe scrivere un articolo in cui dire: Cari egiziani, prima di mandare i vostri ragazzi a morire inutilmente leggetevi la storia del vostro Paese... non siete fatti per la rivoluzione né lei è fatta per voi... Ogni volta che vi siete ribellati contro l’autorità avete fallito e le condizioni di vita sono peggiorate».
Pagina dopo pagina si affonda nel ventre dell’incoscienza popolare che è la vera causa della disfatta. Ipocrisia, corruzione, ignavia non appartengono soltanto al potere, sono le armi del suicidio di massa chiamato sottomissione, in forma religiosa e laica.
Straziante la lettera d’addio di una giovane insegnante che, dopo essere stata umiliata, ripara all’estero: «Questo popolo, per la cui libertà e dignità sono morti i migliori di noi, non sa che farsene di libertà e dignità...alla maggior parte degli egiziani sta bene la repressione, accettano la corruzione e ne sono diventati parte integrante».
Alla fine, posata la cenere, rappreso il sangue che cosa resta? Un uomo del popolo, di quel popolo apparentemente prostrato, che non si vende, conserva la memoria e si fa giustizia. E da lui può partire la rivincita.
La Stampa TuttoLibri 29.9.18
Sudtirolo, quando la guerra fredda esplodeva fra i monti
1961, inizia la stagione del «terrorismo» in Alto Adige Tre ragazzi vivono confusi tra idealità e sensi di colpa
di Lorenzo Mondo


Dopo avere esercitato la professione di giornalista, come inviata della Rai, in varie parti del mondo, Lilli Gruber ha ubbidito al forte richiamo della sua piccola terra natale: quella fetta montagnosa incuneata tra Austria e Italia chiamata Alto Adige o Sudtirolo, che ha avuto un singolare destino, senza uguali in Europa. L’autrice le ha dedicato una trilogia, che si è appena conclusa con un libro intitolato Inganno, difficilmente inquadrabile tra i consueti generi letterari. Diciamo intanto che i primi due volumi, Eredità e Tempesta, coprivano un arco di tempo che va dal crollo dell’impero austrungarico e dal trattato di Saint-Germain, fino al termine della seconda guerra mondiale, con la sconfitta del fascismo e del nazismo. Un periodo cruciale nella storia del Novecento, per l’Europa ma anche per il Sudtirolo che il trattato di pace del 1946 ha assegnato ancora una volta all’Italia, contro l’aspirazione degli abitanti al ricongiungimento con l’Austria o all’indipendenza. Di qui prende avvio Inganno, che pur occupandosi di un tempo minore, avulso da immani tragedie, desta un forte interesse. Anche perché si tratta di un periodo meno indagato e capace di riservare sorprese.
Bisogna risalire al giugno del 1961, una data emblematica: quando nella Notte dei Fuochi vengono fatti saltare in Sudtirolo decine di tralicci dell’elettricità. E’ lo scontro aperto tra gli attentatori che si definiscono «combattenti della libertà» e le istituzioni italiane che li considerano terroristi. Migliaia di soldati e forze dell’ordine occuperanno il territorio, di fronte al crescere di una violenza che non ha esitato a uccidere. L’estensione del fenomeno e la sua radicalizzazione lasciano tuttavia presumere che sia sfuggito di mano al numero ristretto di montanari ingenui e idealisti che ne sono all’origine. Perché, al di là dell’inquinamento provocato da gruppi neonazisti, il Sudtirolo è diventato un campo di battaglia in cui si confrontano nella guerra fredda Est ed Ovest, e rappresenta una barriera contro la temuta invasione da parte dell’Unione Sovietica. Non a caso si apprenderà che tra quelle montagne gli americani hanno installato un consistente deposito di armi nucleari. E’ uno scenario dove entrano in gioco, oltre ai terroristi, servizi segreti e agenti provocatori, funzionali a una strategia dell’emergenza che giustifichi la militarizzazione del Sudtirolo. Con deviazioni che potrebbero perfino insidiare la tenuta democratica dell’Italia. Soltanto nel 1969, con l’approvazione del pacchetto di misure per l’autonomia, il clima nella regione si è rasserenato. Questa terra di confine ha saputo trasformarsi, «con il tempo e grazie alla determinazione di molte persone di buona volontà, in un laboratorio di convivenza civile tra etnie e culture diverse, di successo economico ed equilibrio politico».
Lilli Gruber affronta queste vicende con l’approccio originale già sperimentato nei precedenti volumi della trilogia. Racconta, in prima persona e nelle vesti di giornalista, i risultati delle sue ricerche tra archivi e carte private, gli incontri, particolarmente avvincenti, con i superstiti testimoni. Ma queste pagine riescono a figliare altre storie, inventate per quanto verosimili: di alcuni ragazzi che agiscono in modo confuso nel contesto di idealità e sensi di colpa, di sacrifici e tradimenti, che si accampa sullo sfondo d’un incontaminato paesaggio montano. Come se l’autrice volesse rendere al vivo, calata in personaggi comuni, la difficoltà di non perdersi nei grovigli della Storia. Ed intendesse esaudire, per parte sua, un inappagato desiderio di raccontare.
La Stampa TuttoLibri 29.9.18
Bugiardo, audace e violento:, sono Mussolini, figlio del ’900
Dai fasci di combattimento, agli omicidi politici, alle donne la parabola del dittatore che “fiutò” lo spirito del tempo
di Mirella Serri


La mucca è morta per una malattia infettiva. Il veterinario per evitare il contagio ne cosparge di petrolio la carcassa e la seppellisce in una profonda fossa. Ma i contadini del Polesine riesumano la bestia e la divorano. Giacomo Matteotti - chiamato dai nemici «socialista impellicciato» poiché figlio di un ricco proprietario terriero - nella campagna elettorale e nei comizi nelle sue terre fa di questa vicenda il simbolo della fame secolare e della povertà che spingono a mangiare cadaveri putrefatti. Il deputato, detto anche Tempesta, è solo uno dei tanti protagonisti dello splendido romanzo di Antonio Scurati, M. il figlio del secolo. Con questo primo tomo - e ve ne sono in cantiere altri due per ricostruire la biografia di Benito Mussolini - lo scrittore napoletano nel suo «racconto-verità», dove persino i dettagli sono storicamente verificati, ripercorre gli esordi del Duce: la narrazione inizia il 23 marzo 1919, quando a Milano nei locali dell’Associazione Commercianti ed esercenti si riunì lo scarso manipolo di reduci che diede vita ai primi Fasci di combattimento, e termina alle ore 15 del 3 gennaio 1925 con il Capo che, «accigliato e scuro in volto», dopo l’omicidio dell’onorevole Matteotti denuncia la campagna denigratoria nei suoi confronti e dà il via al regime dispotico.
Il romanzo-documento di Scurati è un antidoto nei confronti di ogni indulgenza verso la dittatura: ci porta nelle viscere del fascismo, nel cuore dell’ascesa al potere degli ex combattenti, dei folli, dei delinquenti, dei fanatici e di tutta la «schiuma» di una terra avvelenata che riuniva i piccoli artigiani, i commercianti, gli impiegati statali i quali, dopo aver abbandonato il moschetto che non aveva regalato loro alcuna gloria, non avevano più un lavoro né mezzi di sostentamento. Come del resto gli operai e i contadini aggrediti dalla violenta crisi economica. Di questo straordinario affresco in camicia nera fanno parte non solo Gabriele D’Annunzio, Italo Balbo e Filippo Tommaso Marinetti ma anche figure meno note di quel «mondo di morti» che fu al potere per oltre vent’anni, come Michele Bombacci, uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia divenuto fedelissimo del Duce e poi fucilato dai partigiani a Dongo; Cesare Rossi, ex militante socialista e principale consigliere del despota; Amerigo Dùmini – picchiatore e sicario che si presentava «Dùmini otto delitti». Quest’ultimo nel 1924 fu tra i membri della Čeka del Viminale a capo del manipolo che sequestrò e accoltellò Matteotti.
Il «cerchio magico» delle belle signore che idolatrarono il Mascellone fu costituito da Margherita Sarfatti, dalla giovanissima Bianca Ceccato costretta ad abortire, da Ida Dalser che chiamò suo figlio con il nome del padre, Benito, a cui aggiunse Albino, e da Angela Curti. La dolce e remissiva Angela lo aveva avvicinato nel marzo del 1921 per ottenere la liberazione del marito ed era caduta tra le sue braccia. Divenne madre di Elena a cui Lui riconobbe una grande somiglianza con la sua «mascella quadrata».
Con un linguaggio alto, forte e ricco d’immagini, Scurati tratteggia anche le molteplici identità del tiranno abile politico e capace di imprevedibili voltafaccia. Come avvenne, per esempio, nel caso degli squadristi torinesi che si scatenarono dopo la marcia su Roma nella resa dei conti con i socialisti. Nel dicembre 1922 il feroce Piero Brandimarte che prendeva gli ordini dal monarchico fascista Cesare Maria De Vecchi, dette avvio alla mattanza per vendicare due suoi accoliti uccisi da un tramviere. In piena notte gli squadristi invasero l’abitazione di un fattorino delle tramvie e prima di assassinarlo lo torturarono davanti alla moglie e alla figlia. Poi toccò a un operaio comunista e al segretario della sezione torinese del sindacato metalmeccanici che legato per i piedi al paraurti posteriore di un camion fu trascinato per le strade del capoluogo sabaudo. Negli scontri morirono 14 uomini e vi furono 26 feriti mentre venivano date alle fiamme la Camera del Lavoro, il circolo dei ferrovieri anarchici e la sede dell’Ordine Nuovo. Mussolini protestò veemente e, indignato, definì il massacro «un’onta per la razza umana». Diceva sul serio? Per nulla. Tre giorni dopo proclamava l’amnistia per i reati di sangue a sfondo politico. E non solo: il 28 dicembre veniva istituita la Milizia Volontaria per la Sicurezza nazionale e il sanguinario Brandimarte ne diventava uno dei responsabili.
Bugiardo e spergiuro, il dittatore fu anche un Giuda pronto a liberarsi degli uomini a lui più vicini, come D’Annunzio. Oppure a far manganellare i seguaci ribelli, come il fascista dissidente Cesare Forni, bastonato in pieno giorno alla stazione di Milano. Fu anche un ottimo attore e performer: al Teatro Olimpia di Firenze, Mussolini si presentò alle folle plaudenti in tuta da aviatore come se fosse appena sceso dal suo aeroplano mentre aveva trascorso la notte tra le soffici coltri dell’hotel Baglioni. Il Duce non si smentì mai nella sua proteiforme volgarità: avvertito della scomparsa di Matteotti, mentre tutto il Paese era attanagliato dalla paura, commentò: «Sarà andato a puttane!». Subito dopo Mussolini buttava alle ortiche democrazia e libertà e con celebri passaggi oratori spalancava le porte all’assolutismo: «Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». Come dargli torto? Affermazioni sacrosante che non si potevano certo smentire.
il manifesto 29.9.18
La musica non è un lusso
Palestina. Al Conservatorio di Gaza i giovani suonano per esercitare i loro diritti: all’educazione, al gioco, all’espressione. Il racconto di Cultura è Libertà, associazione italiana che sostiene il progetto
di Alessandra Mecozzi


GAZA CITY Arrivo a Gaza il 12 agosto, dopo aver passato i tre controlli: quello israeliano, quello dell’Autorità nazionale palestinese e quello di Hamas.
Sono contenta di aver raggiunto questa striscia di terra quasi inaccessibile. Il mare calmo, che evoca un’idea di libertà, ci ricorda invece che questa popolazione è imprigionata: i pescatori hanno il mare, ma non possono pescare, se non a rischio di essere colpiti dai proiettili israeliani. C’è divieto di bagnarsi, per l’inquinamento dovuto al danneggiamento del sistema idrico di riciclo delle acque reflue. Ma i ragazzini ci sguazzano allegramente. Le navi della Flotilla per Gaza, con a bordo aiuti umanitari, sono state sequestrate al largo dai militari israeliani.
Undici anni di assedio e numerosi attacchi militari hanno stremato Gaza: ospedali al collasso, mancanza di materiali per ricostruire le strutture bombardate, esportazioni ridotte al minimo e ora anche i pesanti tagli di Trump (300 milioni di dollari) all’Unrwa, in una terra in cui i profughi sono il 70% della popolazione.
PUÒ DUNQUE SEMBRARE fuori luogo una campagna di raccolta fondi per il Conservatorio musicale Edward Said, a Gaza. Ma, mi dice Sima Khoury, la vice direttrice del Conservatorio nazionale, che ho incontrato a Ramallah: «Il bisogno di musica e di cultura è stato a lungo ignorato. L’attenzione della maggior parte dei donatori locali e internazionali si è concentrata sulle risposte umanitarie all’emergenza o sulla ricostruzione politica ed economica. Ma la musica non è un lusso. I traumi subiti dai giovani a causa delle distruzioni e delle bombe possono essere in parte curati con l’educazione musicale, il gioco, l’apprendimento».
Entrando a Gaza, vado subito a incontrare i destinatari del progetto di Cultura è Libertà: «Musica per i bambini/e contro la distruzione: borse di studio e sostegno al Conservatorio Edward Said». Ne usufruiranno ragazzini e ragazzine le cui famiglie non possono pagare mille shekel all’anno (230 euro) e contribuiranno alla sopravvivenza del Conservatorio che per ognuno spende 4.500 shekel (mille euro).
GIÀ SIMA AVEVA parlato dell’amore per la musica che c’è a Gaza. A volte le famiglie pensano che questo studio potrà dare a figlie e figli una possibilità di recarsi all’estero e trovare un lavoro. Ma la musica tra i giovani, il 70% della popolazione, significa in primo luogo possibilità di esprimersi e comunicare in una terra da cui è possibile raramente uscire, spesso solo per curarsi. Questa terra, certo povera e infelice, ma ricca di voglia di vivere e di farsi sentire dal mondo.
IL CONSERVATORIO DI GAZA sorprende: per la cura con cui è tenuto, per la quantità di bambini e bambine che lo frequentano, per la passione degli insegnanti, come Alina, russa, insegnante di violino. E poi per la scelta di dedicare gli spazi non solo alle lezioni di musica, chitarra, piano, strumenti ad archi, ma anche alle attività di gioco, lettura, cartoni animati.
Il giovane direttore, Ismail Daoud, figlio di musicisti, è lui stesso affermato suonatore di oud (liuto arabo). È felice del nostro progetto. La passione di Ismail per la musica percorre i suoi racconti nella visita che facciamo al Conservatorio, dove attualmente ci sono 200 bambini/e. Inoltre alcune decine seguono i programmi esterni, dove viene individuato chi ha maggior talento e potrà usufruire della borsa di studio per frequentare il Conservatorio.
«PER CONTINUARE abbiamo sempre bisogno di aiuti, per fortuna di recente il governo norvegese ha contribuito con suoi fondi. Cerchiamo di realizzare scambi con altri paesi e ospitiamo insegnanti di musica volontari, per brevi periodi: da cinque a 15 giorni. Siamo in contatto con il Centro italiano di scambi culturali Vik e lavoriamo anche con la Scuola di musica Al Kamandjati (la raccolta fondi sosterrà le attività dei bambini nel Festival 2019 ndr). Abbiamo un piccolo laboratorio di riparazione degli strumenti musicali dove ripareremo, ci vorrà molto lavoro, anche i tre violoncelli che abbiamo ricevuto da voi».
I tre strumenti (regalatici da un liutaio francese) li avevamo portati a Gaza tre anni fa, in vista della creazione del laboratorio di Al Kamandjati «Liutai a Gaza», che non ha però potuto realizzarsi per il perdurante divieto dell’autorità israeliana di far entrare gli insegnanti da Ramallah. I soldi raccolti allora hanno così contribuito al Festival di Al Kamandjati a Gaza, nel 2017 e nel 2018.
«Anche noi – prosegue Ismail – organizziamo un festival, in ottobre e novembre: il Sea and Freedom Festival. Nato nel 2015, presenta ogni anno in diverse città artisti locali e ospiti che si esibiscono soprattutto in generi musicali arabi. Il festival contribuisce a dare la possibilità ai palestinesi di Gaza, specialmente ai giovani, di partecipare alla vita culturale e alla produzione artistica, un loro diritto, come dice la Carta dei diritti umani delle Nazioni unite».
RICORDO CHE ALL’INIZIO del governo di Hamas, molte erano le restrizioni e i divieti nei confronti di spettacoli e musica. «Adesso non più, non abbiamo problemi. Abbiamo sempre i permessi per spettacoli e feste, con qualche limite: tener separati maschi e femmine, non far cantare in pubblico ragazze da una certa età in poi. Ma come vedete cantano tutte e i gruppi sono misti».
Tre giorni dopo vado alla bella festa, lo spettacolo di fine anno scolastico, partecipata da una quantità di bambini/e e ragazzi/e. Insieme, ballano, suonano e una ragazza con una bellissima voce si esibisce anche in un assolo.
PENSO CON TRISTEZZA che il giorno in cui sono arrivata ho visto le macerie del teatro El Meshal, bombardato e distrutto da Israele solo alcuni giorni prima, come il Villaggio degli artisti. L’attacco alla cultura è uno degli strumenti di «guerra» di Israele, con cui intende distruggere socialità e identità, mentre viola costantemente anche il diritto umano alla cultura.
Ma ho anche visto che gli indomabili ragazzi di Gaza, il giorno dopo il bombardamento, hanno tenuto un concerto sulle macerie, sopra le quali hanno scritto «Free Palestine».
Lunga vita perciò al Conservatorio Edward Said. Diamogli una mano. Per contribuire alla copertura delle borse di studio, potete partecipare al crowdfunding su https://buonacausa.org/cause/musicabambini. O visitate il sito di Cultura è Libertà palestinaculturaliberta.wordpress.com, dove trovate l’Iban dell’associazione.
Il Fatto 29.9.18
La casa delle bambole sessuali
A Mirafiori Non solo baby – La sede chiusa lo scorso 12 settembre, a Torino. Tra i modelli opzionabili, anche “Alessandro”, un bambolo con due dotazioni di pene, da 13 o 18 centimetri – LaPresse
di Paolo Stefanini


All’automazione in fabbrica erano abituati, a Mirafiori Sud. La Fiat è proprio lì di fronte. A quella in camera da letto, evidentemente no. E così i residenti del palazzo di via Onorato Vigliani, uno come tanti altri di questo quartiere residenziale operaio, hanno gridato allo scandalo, non appena è stato chiaro che il tanto pubblicizzato “bordello delle bambole” era nel loro cortile. “Un viavai continuo – si sono lamentate le nonne, spaventate di mandare i nipoti giù a giocare – perché chissà che tipi sono quelli che vanno con le bambole”. E dopo neanche dieci giorni di attività, il 12 settembre scorso sono arrivati i vigili a mettere tutto sotto sequestro.
Di sicuro, i condomini ora possono stare tranquilli: l’attività non riaprirà più, è stata rilevata “l’incompatibilità edilizia”. Ma presto le bambole torneranno a fare l’amore. La polizia municipale ha contestato l’esercizio abusivo di affittacamere, e la mancanza di comunicazione del registro dei clienti per via telematica. E sembrava la mossa vincente: bell’elemento di dissuasione, per chi vuole trasgredire, dover tirar fuori la carta d’identità e vedere i propri dati spediti in Questura. Ma due giorni fa, la società che gestisce la casa di appuntamenti, la LumiDolls, ha annunciato che riprenderà l’attività in un albergo: in questo modo i clienti si mescoleranno ai normali ospiti della struttura, e non saranno immediatamente individuabili come amanti del sesso con le bambole. E il Comune avrebbe già dato il “via libera”.
Del resto, come dice uno dei soci dell’attività, un geometra torinese che incontriamo in uno snack-bar di corso Unione Sovietica, “abbiamo una struttura molto organizzata, pronta a trovare le soluzioni a tutte le difficoltà che ci verranno fatte, e che in parte ci aspettavamo; con una squadra composta di ottimi avvocati, commercialisti, ingegneri, ufficio stampa e altri dipendenti”. Respinge con decisione le voci sulle carenze igieniche, che non sarebbero state riscontrate dalla Asl, e si dice molto ottimista sulla pronta ripresa delle attività. Vorrebbe dimostrare che quello dell’affittare la camera per la LumiDolls non è un business, “ma un accessorio, una mera messa a disposizione di uno spazio dove utilizzare il servizio offerto, che rientra nella categoria dello sharing: solo che non diamo in uso biciclette, motorini o automobili, che possono essere usati in strada, ma bambole sessuali”. La succursale italiana è una società a responsabilità limitata, la Kama Ld srl, specializzata in “commercio al dettaglio di articoli sulla sessualità e la sensualità”. E ha l’esclusiva per l’Italia del marchio LumiDolls (di proprietà della spagnola Privefe s.l.). Proprio in Spagna, a Barcellona, ha infatti aperto la casa madre, nel febbraio del 2017, da un’idea imprenditoriale di Sergi Prieto, offrendo poi in franchising il concept. Ad aprile scorso è stata inaugurata la sede russa, nella City di Mosca, e poco più di un mese fa quella italiana, a Torino.
Perché proprio in Piemonte e non a Roma o a Milano? “Intanto perché io sono di qui – dice il socio, che subito aggiunge con orgoglio sabaudo – e poi perché tutte le cose, in Italia, sono sempre partite da Torino”. È venuto a conoscenza della realtà catalana poco dopo l’apertura, per circa un anno ha valutato il mercato, studiato il progetto e messo a punto il business-plan. Si è persuaso che il settore abbia un futuro “molto interessante” e ha concluso l’accordo con la casa madre spagnola. Ora, a quanto sostiene, “ci sono già circa 400 persone che hanno preso contatti per aprire in franchising, da Aosta a Palermo. Io rispondo alla Spagna; gli altri italiani risponderanno a noi”.
“È importante non marchiare i clienti. Il fenomeno
va inquadrato nella complessità della sessualità atipica”
Ma davvero ci ritroveremo con una diffusione così capillare di questa casa d’appuntamenti con sex dolls? I giorni di apertura sono stati troppo pochi per avere dati statistici attendibili ma, secondo LumiDolls, le bambole (mezzora d’affitto costa 80 euro; un’ora, 100) prima del blitz dei vigili erano già tutte prenotate fino alla metà di novembre, e i clienti “appartenevano alla fascia socio culturale medio-alta” (c’è anche un bambolo, Alessandro, con due dotazioni di pene in opzione: da 13 o da 18 centimetri). E non è un mistero che i BorDolls, come spesso si chiamano all’estero questi bordelli di bambole, abbiano sempre più mercato anche in Paesi, come per esempio la Germania, dove la prostituzione è legale.
“Il fenomeno va inquadrato nello spazio molto complesso della sessualità atipica”, spiega Fabrizio Quattrini, docente di Clinica delle parafilie e della devianza all’Università de L’Aquila e presidente dell’Istituto italiano di Sessuologia scientifica di Roma. “L’importante è non marchiare queste persone. Ormai le parafilie, le perversioni erotiche, tra le quali può rientrare, per esempio, anche il Bdsm (che racchiude le diverse pratiche di Bondage, Dominazione, Sadismo, Masochismo), non sono più considerate patologie di per se stesse. È solo quando si sviluppa una dipendenza, non diversa da quella per una droga, o quando si vive queste pulsioni senza accettarle, soffrendone, che si passa nell’area del disturbo parafilico”.
Poi, se si vuole andare a cercare di capire cosa spinge una persona a fare sesso con delle bambole, si apre un mondo. “Sono probabilmente soggetti che fanno questa scelta su una base egoistica, per avere la disponibilità assoluta di un oggetto inanimato, che risponde al loro volere. C’è quasi sicuramente un tratto narcisistico. La bambola non giudica, non critica, si può gestire in pieno. Viviamo in una società in cui la donna ha, giustamente, preso potere, e nella quale molti uomini vedono distrutti gli stereotipi sul sesso maschile, e quindi alcuni di loro preferiscono rivolgersi a un qualcosa di artificiale ma controllabile, piuttosto che a qualcuno assolutamente non più controllabile”.
Quattrini è in contatto con un produttore di bambole per motivi di studio e sottolinea un altro aspetto interessante: quello delle real dolls, costruite ad hoc su richiesta dei clienti, somiglianti a un modello specifico del committente, con certe forme, determinati capelli, occhi, lentiggini… In questo caso, le moderne bambole non sono che la versione più aggiornata del mito greco di Pigmalione, che si innamorò della statua della dea Afrodite per la sua perfezione.
Ma nel richiedere la propria bambola c’è chi potrebbe volerne una con le fattezze di un bambino o una bambina. “Di questo sono preoccupato – dice Quattrini –. In Giappone c’è stato un vero boom. Alcuni ritengono che queste bambole potrebbero sostituire i bambini veri, vittime dei pedofili. Ma io sono convinto, al contrario, che potrebbero invogliare alcuni soggetti a passare dalle sole fantasie all’attivazione di comportamenti socialmente pericolosi”. La LumiDolls, da parte sua, su questi temi è estremamente rigorosa, e non solo ha scelto bambole di statura non ridotta per evitare qualsiasi accomunamento alla corporatura infantile, ma il franchising italiano, a differenza della casa madre spagnola, ha deciso “per motivi deontologici” di non vendere – oltre ad affittare, infatti, commercializza i modelli di bambole con prezzi tra gli 800 e i 2.000 euro – nemmeno bambole di donne incinte, che godono di una buona richiesta sul mercato.
“Uno schiaffetto sul culo non si nega a nessuno, né alla ragazza né alla bambola. Ma loro sono così delicate…”
In Europa è attiva una campagna internazionale contro il sesso con le bambole e i robot, lanciata dalla professoressa di Etica dei robot, Kathleen Richardson, della De Montfort University di Leicester, che chiede il bando assoluto delle sex dolls, vedendo nel fenomeno “misoginia, oggettificazione e deumanizzazione della donna”. “Se i vibratori e i dildo sono usati dalle donne solo per masturbarsi, gli uomini dicono di ‘fare sesso’ con le bambole, il che dimostra come ormai, in modo preoccupante, per molti maschi la masturbazione e la violenza (la bambola subisce passivamente) siano considerati sesso”. Il socio della LumiDolls di fronte all’equazione tra bambole e violenza scuote la testa. “Può dire queste cose solo chi non le conosce. Sono così delicate, le nostre bambole. Se con la vostra ragazza potete fare l’amore indossando anelli o braccialetti, con loro dovete togliervi tutto, perché la pelle potrebbe lacerarsi. Non potete tirarle per le mani, perché si rovinano. Abbiamo regole ferree e sanzioni. Se con una donna reale bisogna essere gentili, con le bambole ancor di più. Poi, oh, uno schiaffetto sul culo non fa male né alla ragazza né alla bambola. Comunque, noi siamo un’avanguardia del futuro. Le nostre badanti saranno dei cyborg, ne sono certo. Già oggi, bambole come quelle della LumiDolls possono essere un grande aiuto per chi ha problemi di interazione o disabilità. Per chi ha un compagno o una compagna che, per motivi di salute, non può più fare sesso, ma che non si vuole tradire”.
Sul mercato ci sono anche bambole prodigio della tecnica che arrivano a costare 60 mila euro: modelli con un sistema che accelera i battiti del “cuore” durante l’amplesso o che aumenta la temperatura corporea al crescere dell’eccitazione, o dotati di sistemi per l’emissione di finte secrezioni vaginali. Ma il vero passaggio che ci aspetta è quello dalle sex dolls ai sex robot che, grazie all’intelligenza artificiale potranno interagire, un po’ come Siri sul telefonino. E allora, come si è chiesto David Levy, autore del libro Love and Sex with Robots, dovremmo credere al nostro sex robot quando dice di amarci, se in fondo è stato programmato per dircelo? E ancora, dovrà il robot prendere l’iniziativa lui di fare sesso? Potrà in certi casi estremi rifiutarsi di avere un rapporto? Gli umani proveranno gelosia se qualcun altro avrà rapporti con il loro sex robot? Il socio della LumiDolls risponde: “Credo che quello con le bambole sia un gioco e debba rimanere tale. Vanno valutate per quello che sono. C’è una cosa che un internauta ci ha scritto nei commenti e che mi ricorderò sempre: ‘Le vostre bambole sono una sega vestita a festa’. Questa frase mi è rimasta scolpita nel cuore”.
Repubblica 29.9.18
La lezione (da ricordare) del mondo antico
Quando le élite aprirono ai barbari e salvarono Roma per undici secoli
di Silvia Ronchey


Da sempre l’ideologia politica dell’America si nutre di un’analogia simbolica, perfino iconografica, con l’impero romano. Basta guardare l’architettura del potere a Washington, dal Lincoln Memorial al Jefferson Memorial, dal Supreme Court Building a Capitol Hill. Era stato già Thomas Jefferson a volere che la sede del Congresso degli Stati Uniti replicasse un antico edificio romano. Negli anni 80 del secolo scorso Francis Ford Coppola aveva immaginato di ambientare in quella eloquente scenografia un film sulla congiura di Catilina, in cui perfino il casting fosse calcato sui volti della statuaria dei Musei Capitolini. Fin dal secondo dopoguerra l’idea di pax americana, in analogia con quella augustea, ha dominato il lessico politico e anche se da qualche decennio la cosiddetta tardoantichistica, ossia la storia del declino dell’impero romano, è divenuta una specialità delle università statunitensi, gli Stati Uniti hanno continuato a darsi il ruolo "romano" di garante della sicurezza globale del mondo. Fino alla svolta odierna, in cui le parole d’ordine dell’amministrazione Trump fanno parlare, invece, di "impero chiuso".
Ma proprio nel tempo della cosiddetta decadenza e caduta dell’impero romano, narrata da Gibbon, vediamo come la tendenza di un impero alla chiusura può essere non solo contrastata ma integralmente ribaltata da una parte delle sue classi dirigenti, delle sue élite intellettuali, delle sue aristocrazie. Il cosiddetto Impero romano d’occidente, dopo la grande crisi del III secolo, il collasso del sistema economico e finanziario, il calo demografico, il blocco del dinamismo sociale, l’approfondirsi del divario tra poveri e ricchi, il confluire delle classi medie nella fascia degli humiliores, uniti a una nuova ondata di movimenti migratori globali e alla pressione di nuovi soggetti etnici ai confini, si chiuse in se stesso. Tutte le energie dello Stato vennero spese in provvedimenti difensivi. L’aristocrazia romana si arroccò nelle sue ville sull’Aventino.
Ma contemporaneamente un’altra parte dell’élite politica e intellettuale reagì a questo moto di chiusura costituendo una formula alternativa dello stesso impero e traghettandola dalla Prima alla Seconda Roma: Costantinopoli. Tra il IV e il V secolo, dalla fondazione della nuova capitale da parte di Costantino alla cosiddetta "caduta silenziosa" della vecchia nel 476, un modello di impero romano ancora più aperto, se possibile, mostrò al mondo come quegli stessi soggetti etnici che a Roma si chiamavano barbari potessero partecipare dell’antica cultura grecoromana, della sua filosofia e prassi politica, integrarsi nelle classi dirigenti e nelle strutture militari, rifondare su scala più ampia il principio di dinamismo verticale, di ricambio delle élite, di mescolanza tra etnie e circolazione tra classi, che aveva fatto la forza di Roma antica. È da questo riaprirsi quasi istantaneo dell’impero romano tra il IV e V secolo, al momento cioè della sua apparente caduta, che nasce la cultura umanistica che oggi chiamiamo europea.
Bisanzio, i cui cittadini si autodenominavano Rhomaioi, "romani", e tali erano giuridicamente e politicamente, e sarebbero stati ancora lungamente, per undici, prosperi secoli, perpetuò e perfezionò la tradizione del diritto e la dottrina politica, la struttura economica e finanziaria, la rete commerciale e viaria, e in generale la funzione di tutela di quella "pace globale" che era stata propria dei discendenti di Enea — migranti anche loro, stranieri fuggiti da un’espugnata Troia alla quale anche geograficamente l’impero era tornato.
Perché un impero, per aprirsi, o riaprirsi, sembra avere bisogno anzitutto di questo: di stranieri, di barbari. Scriveva Kavafis: «Si è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. / Alcuni sono arrivati dai confini, / hanno detto che di barbari non ce ne sono più. / E adesso cosa sarà di noi, senza più barbari?».
Repubblica 29.9.18
La lezione (dimenticata) del Novecento
Dietro gli slogan sovranisti l’eterno ritorno del nazionalismo
di Umberto Gentiloni


Come me nessuno mai, sono stato il più capace di tutti» parole pronunciate martedì scorso dal presidente degli Stati Uniti nel Palazzo di vetro delle Nazioni Unite mentre il paragone azzardato con amministrazioni precedenti scatenava risa e facili battute in platea. Ma come spesso accade, quando sembra che le frasi di Trump siano destinate al fugace contesto del suo profilo Twitter, alla fine di un discorso restano gli interrogativi sui destinatari di messaggi che sono ben più profondi e impegnativi di una battuta fuori luogo. Gli ingredienti dei suoi continui richiami al primato americano sono ormai sperimentati e ben noti tra gli addetti ai lavori e non solo: isolazionismo e chiusura identitaria, protezionismo come orizzonte di riferimento combinato con il rilancio di paure e impulsi contro l’immigrazione e l’immigrato in quanto tale. Una ricetta venduta come grande innovazione del tempo presente, come scoperta e rivelazione epocale che in realtà ha già attraversato pagine e tornanti della storia degli Stati Uniti e delle relazioni tra il nuovo mondo e il vecchio continente. Basta tornare a dare un senso alle parole che leggiamo o ascoltiamo.
Dietro le presunte categorie di un "sovranismo" diffuso che va per la maggiore si celano le più classiche sembianze di un becero nazionalismo che ha attraversato e insanguinato il secolo scorso. Gli anni tra le due guerre mondiali portano il segno di un passato rimosso troppo in fretta, quando la sconfitta del disegno di un ordine internazionale rilancia le ragioni di un’America chiusa, restia a uscire dai recinti di un perimetro rassicurante e sperimentato.
Un’oscillazione continua tra l’apertura e il dialogo per costruire ponti o architetture condivise e le sirene di un primato fondato sulla forza economica o il predominio militare. La sconfitta del wilsonismo e dei suoi valori di riferimento mette da parte, negli anni Venti del Novecento, un’ispirazione morale che pur tra debolezze e incongruenze aveva abbozzato l’ipotesi di radicare un sistema internazionale condiviso e partecipato, un embrione possibile di un governo mondiale come risorsa contro aggressioni e prove di forza. Ma il pendolo ha continuato a oscillare pericolosamente, confermando i timori di chi con ambizione e utopia pensava di poter ridimensionare il ricorso alla guerra come principale strumento per la risoluzione dei conflitti. Un tracciato che affonda le radici nella democrazia americana e nelle priorità della sua politica estera per dirla con Walter Russell Mead e un suo celebre volume del 2001 ( Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America): l’economia prima di tutto (hamiltoniani), la difesa della democrazia ad ogni costo (jeffersoniani), la nazione e la sua rispettabilità minacciata (jacksoniani), i valori morali irrinunciabili e intoccabili (wilsoniani). Filoni contraddittori e contrastanti di presenza degli Usa sulla scena internazionale per scrollarsi di dosso le insinuazioni del cancelliere Bismark che avevano come bersaglio la proiezione esterna della nascente potenza americana considerata illogica e pericolosa, salvata da una «speciale provvidenza in grado di mettere insieme i matti, gli ubriachi e gli Stati Uniti d’America». E il secolo americano avrebbe rilanciato la dialettica tra egoismo e partecipazione portandosi dietro il paradosso di una doppia contrarietà: chi ha contrastato il predominio e l’interventismo unipolare e su un altro versante chi ne ha sottolineato i rischi per un disimpegno, una fuga da teatri di crisi di difficile gestione. Troppa o poca America a seconda dei casi e delle esigenze strumentali. La collaborazione tra diversi presuppone che il nazionalismo della singola nazione non metta in discussione un quadro condiviso di regole e riferimenti, non intacchi un tessuto prezioso eredità di generazioni lontane. Altro che primato in solitaria di una potenza incontrastata: voltarsi indietro rischia di essere un cammino senza ritorno. Ogni soggetto è pronto (o dovrebbe esserlo) a rinunciare a porzioni crescenti di sovranità e potere, questo il lascito doloroso del secolo XX. Nessuno può salvarsi da solo.
il manifesto 29.9.18
I confini e le sovranità necessarie alla retorica del capitalismo
Europa fronte del conflitto. L’organizzazione e la divisione tra Stati è un’eredità del passato che il capitalismo riattualizza facendone forse l’arma più efficace del suo successo di classe
di Piero Bevilacqua


Ma davvero, al livello cui è giunta l’economia mondiale, avremmo ancora bisogno di «crescere»,«correre», «competere», se l’umanità non fosse divisa in stati, con le loro frontiere e le loro bandiere? Avremmo ancora bisogno di «andare avanti», cioè di accumulare ulteriore ricchezza, se ciascuno non perseguisse per sé, l’obiettivo che è comune, vale a dire il benessere di tutti? Osservata da una prospettiva che prescinda dagli stati nazionali, questa costruzione storica che ancora decide il destino dell’umanità, il meccanismo che ispira il capitalismo del nostro tempo, appare in tutta la sua tragica assurdità. Che bisogno c’è ancora di crescere se ogni anno vanno al macero 1, 3 miliardi di tonnellate di cibo, rimangono invendute, solo in Europa, decine di milioni di auto e un numero imprecisato viene quotidianamente rottamato, se l’iperconsumo fa crescere di anno in anno rifiuti e discariche in ogni angolo del pianeta, e una nuova micidiale spazzatura – la cosiddetta e-waste, la spazzatura elettronica – va divorando sempre nuovi territori, tanto nei paesi ricchi che in quelli poveri?
E QUALE RAZIONALITÀ SEGRETA sorregge questa corsa all’infinito, dal momento che per alimentarla, stiamo distruggendo la vita dei mari, saccheggiando le risorse idriche del pianeta, avvelenando le terre fertili, inquinando l’aria, riducendo la biodiversità naturale, alterando irreversibilmente il clima? A che fine questa corsa l’un contro l’altro stato, se essa condanna una parte estesa dell’umanità alla disoccupazione e alla precarietà, alla polverizzazione della vita sociale, al ritorno del lavoro schiavile anche nelle campagne ?
È EVIDENTE che l’organizzazione e la divisione tra stati è una eredità del passato che il capitalismo del nostro tempo – grande stratega nelle mosse di dominio sull’umanità – riattualizza facendone forse l’arma più efficace del suo successo di classe. Dunque è sufficiente porre mente a questo stato di cose per scorgere oggi l’inanità della lotta politica tutta interna ai vincoli dei singoli stati nazionali. Restando chiusi dentro questi confini i partiti politici operano come zelanti servitori delle retoriche capitalistiche, accentando una insuperabile subalternità al capitale industriale e finanziario, libero di muoversi senza limiti di frontiere e di bandiere.
NON È CERTO UN CASO che da quando è scomparso dalla scena del mondo l’antagonista globale rappresentato dal comunismo, mostro burocratico, ma pur sempre «mostro», questo modo di produzione va celebrando i fasti più distruttivi della sua storia, contro il lavoro e contro gli ecosistemi della Terra. E non è vero che a impedire oggi il conflitto di classe sia la destrutturazione postfordista del lavoro di fabbrica. È la limitatezza territoriale della lotta operaia e popolare di fronte allo spazio di movimento mondiale del capitale. Ma mai come oggi la logica della crescita fa tutt’uno con la distruzione degli equilibri della Terra, offrendo alla sinistra l’opportunità egemonica di far coincidere il riscatto dei subalterni con la salvezza del pianeta. È evidente che senza una forza di contrapposizione di ampiezza sovranazionale, capace di colpire il capitale nei suoi interessi vitali, la politica riformista ha la potenza del graffio del gatto.
LA SPAZIO POLITICO dell’Unione europea è dunque lo spazio minimo in cui pensare un’azione politica in grado di una qualche efficacia, come hanno efficacemente argomentato su questo giornale Luciana Castellina (14/ 9 e Marco Bascetta, 22/9). Del resto, quel che può ancora oggi la politica di fronte ai colossi dell’economia, l’ha mostrato proprio l’UE con le recenti sanzioni a Microsoft e Google. Sappiamo bene che è arduo modificare i trattati neoliberisti che reggono l’impalcatura dell’Unione, ma il fronte della lotta oggi è questo continente, non le retrovie nazionali.
Esattamente per tale ragione, occorre dire che i vari tentativi oggi in corso di resuscitare il centro-sinistra costituiscono velleità da scansare. L’operazione avrebbe la stessa possibilità di tenuta del ponte Morandi ricostruito con le macerie oggi nel greto del Polcevera. Non si costruisce nulla di solido con le rovine di un edificio, per giunta mal costruito. E non c’è modo più serio di liberare le forze avanzate e riformatrici attive in quell’ambito che dichiarare solennemente chiusa quella esperienza.
MA TALE POSIZIONE chiede alla sinistra radicale una serietà e un senso di responsabilità che finora sono mancati. Il tentativo di Varoufakis – uno dei pochi leader politici che ha conoscenza profonda dell’Unione – e di altri dirigenti di Diem (una trama transnazionale con un organico programma per le elezioni europee) deve essere colto dalla varie sigle della nostra sinistra come una grande occasione di unificazione in un momento grave della storia d’Europa. Potere al Popolo, Sinistra Italiana, Rifondazione, Possibile non possono più continuare il loro irresponsabile gioco a scacchi.
il manifesto 29.9.18
Il Migliore e il nemico, se il noir indaga sul Pci
Florinas in giallo. Apparati riservati e cimici a Togliatti. Ma il vero mistero è come sia sparito tutto quel mondo. A poposito dell'ultimo libro di Vindice Lecis
di Daniela Preziosi


Dicembre 1951, via Arbe, quartiere Montesacro, Roma. Palmiro Togliatti esce dal villino con Nilde Iotti e la piccola Marisa. La scena è familiare, rassicurante. Ma quando i tre si allontanano un gruppo di uomini entra nella casa e la dissemina di microfoni. Non sono nemici. Sono compagni. Agli ordini del “partito”, in questo caso di Giulio Seniga, vicepresidente della commissione Vigilanza. Ma il segretario non sa nulla. Forse neanche Pietro Secchia, potente capo dell’organizzazione, “togliattiano riluttante”, contrario alla linea della legalità costituzionale che il Migliore ha imposto al Pci.
È l’episodio iniziale dell’ultimo noir storico di Vindice Lecis, Il nemico. Intrighi, sospetti e misteri nel Pci della guerra fredda (Nutrimenti, pp. 194, euro 16). L’autore, una vita da cronista all’Espresso, una seconda vita da scrittore, si basa su documenti in qualche caso inediti, archivi e sullo studio meticoloso della memorialistica sul Pci degli anni 50. Un partito di massa, due milioni di iscritti, tre scuole di formazione nazionali e molte locali che sfornano in 5 anni 61mila dirigenti. Ma il Pci è anche «un paese nel paese», assediato dal sospetto di intelligenza con l’Urss, bastonato nelle piazze, come spiega Secchia in una burrascosa seduta al senato («A Roma sono stati arrestati, dal primo di quest’anno, 868 lavoratori, 1119 sono stati processati in pretura o in tribunale, (…). A Napoli gli arrestati sono stati 407 di cui 308 processati e 99 condannati a pene varie. A Reggio Emilia, 410 arrestati per diffusione di manifestini, sciopero, strillonaggio dell’Unità…»). In piena guerra fredda in comunisti insomma sono il nemico della Dc, il partito di governo. Ma quanti nemici ha davvero Togliatti? È in questo clima che il Pci adotta una serie di rigorose misure interne: sconfina nella psicosi o non ha scelta? Lecis si diverte a descrivere l’apparato riservato, non inventa, non aggiunge, non serve. Nel suo racconto non ci sono cedimenti al complottismo, quello oggi che va alla grande nelle librerie (e nelle urne). Il meccanismo del giallo qui serve per indagare su alcuni punti dolenti della storia della sinistra, per tornare sui luoghi del delitto (politico). L’autore è un comunista italiano (nel senso di piccista) non pentito ma non agiografo. Nel precendente L’infiltrato riflette sulla partecipazione attiva del Pci alle operazioni del generale Dalla Chiesa contro le Br. Qui siamo vent’anni prima: le microspie ’amiche’ a casa di Togliatti nascono dalla necessità di proteggere il capo ma anche dalla ossessiva diffidenza di Botteghe Oscure nei confronti di Iotti, considerata troppo vicina ad ambienti cattolici. In quel periodo il segretario subisce un incidente d’auto, una successiva cura medica sbagliata lo riduce in fin di vita. Stalin non lo ama – è del 50 la “proposta” di andare a dirigere il Kominform, l’ufficio di informazione dei partiti comunisti, per farlo fuori dalla guida del più grande partito comunista occidentale. Dunque a chi risponde Secchia? E a chi Seniga, l’unico che conosce i nomi segretissimi dei compagni ai quali il Pci dà in custodia ingenti somme di denaro – utili in caso di golpe – e che nel 1954 fuggirà con la cassa per inseguire la fantasia di un partito rivoluzionario? Non manca poi l’indagine psicologica sui personaggi e sul vero mistero italiano: chi erano quei comunisti, e come si sono estinti.
Il nemico sarà presentato domani pomeriggio nella giornata finale della nona edizione di Florinas in giallo. Sul tema del ’furto’, variamente declinato, anche quest’anno autori e lettori si sono dati appuntamento nella cittadina logudorese arrampicata sulla collina, non lontano da Sassari, perfetta ambientazione per il festival «L’Isola dei misteri».
Corriere 29.9.18
Elettrodomestici Candy ai cinesi Qingdao Haier compra il 100%
La famiglia Fumagalli vende per 475 milioni. È l’ultimo marchio italiano del bianco
di Corinna De Cesare


Candy come la canzone di Nat King Cole ma in Italia, quando parlavi di Candy, parlavi della lavatrice. Merito dei Fumagalli di Monza che nell’Italia post-bellica del boom economico portarono nel nostro Paese la prima lavabiancheria «made in Italy» con riscaldamento dell’acqua e pompa di scarico. «Tante grazie, è Candy» diceva lo spot degli anni 50. Fu una vera rivoluzione, cui seguì la semi-automatica con risciacquo e centrifuga. Insieme a tutto il resto: lavastoviglie, frigoriferi. Fino ad arrivare alle acquisizioni, l’internazionalizzazione e le operazioni che portarono la ex Officine Meccaniche Eden Fumagalli al gruppo da 1,14 miliardi di fatturato di oggi, con 4.660 dipendenti e sei stabilimenti in Europa. Il quartiere generale però è sempre rimasto lì, a Brugherio, e lì resterà anche ora che Candy è stata ceduta ai cinesi di Haier.
L’ultima grande azienda italiana del «bianco», un settore che fino a poco tempo fa faceva dell’Italia la fabbrica d’Europa degli elettrodomestici, è passata infatti alla Qingdao Haier per 475 milioni di euro. Al gruppo quotato sul listino di Shanghai andrà il 100% dello storico marchio della famiglia Fumagalli, che resterà operativa fino al perfezionamento della vendita all’inizio del 2019. Poi i Fumagalli usciranno di scena pur restando nel consiglio. Nel giugno dello scorso anno Candy aveva annunciato un ambizioso piano di investimenti da quasi 300 milioni di euro in tre anni. Piani confermati anche dopo la vendita. «Resteremo nel board proprio per verificare che saranno realizzati — dice l’amministratore delegato Beppe Fumagalli rassicurando i sindacati preoccupati per il futuro dei mille lavoratori di Brugherio —. Per il gruppo si apre una fase di espansione, cinque mesi fa non avevamo intenzione di vendere, poi siamo entrati in contatto con questa azienda e ne è nata un’operazione finanziaria».
Da poche settimane però le sigle sindacali avevano firmato un accordo per gestire con la cassa integrazione 200 esuberi a Brugherio. La paura è quella di finire come le tante aziende italiane acquistate da gruppi internazionali e poi ridimensionate o chiuse. «La preoccupazione è comprensibile ma c’è l’impegno — aggiunge Fumagalli — di mantenere la sede come quartier generale per almeno dieci anni e dal punto di vista produttivo saranno rispettati tutti gli accordi».
È stata la forza europea di Candy, che vanta anche marchi come Hoover e Rosières, ad attrarre i cinesi di Haier considerati da Euromonitor come il maggior marchio di elettrodomestici al mondo in termini di vendite. Candy consegue oggi il fatturato principalmente dall’estero (Uk e Francia i principali mercati) ma come per tutti i gruppi del «bianco», ha risentito molto della crisi economica. Dopo tre anni in perdita, tra il 2011 e il 2014, nel 2016 il bilancio si è chiuso con il superamento della soglia storica di un miliardo di euro di ricavi. Non è bastato e i Fumagalli hanno ceduto alla corte dei cinesi. «Tante grazie, è Candy».
Il Fatto 29.9.18
Il rocker di Maidan, onda della nuova Ucraina
Simbolo - Vakarchuk era l’idolo dei ragazzi della rivoluzione: ora lo vogliono candidare presidente
di Michela A. G. Iaccarino


Forse il rock può salvare l’Ucraina e le rime possono fermare la guerra. Forse, pensano i ragazzi di Kiev, può salvare il Paese il cantante Sviatoslav Vakarchuk e l’“Oceano di Elza”, Okean Elzy, il suo gruppo musicale.
Se scrivi il nome del cantautore in Internet in cirillico, il primo suggerimento del server slavo da qualche mese è prezident: è Vakarchuk uno dei possibili candidati favoriti alla presidenza per le prossime elezioni ucraine 2019.
Si candiderà sul serio? Questa domanda è semplice quanto il suo silenzio di risposta, che allude, ma non conferma: sta valutando.
Le conclusioni però le traggono gli ultimi sondaggi del Socis, istituto sociologico internazionale: più del 7 per cento della popolazione sarebbe pronto a votarlo, una percentuale di poco inferiore a quella di Yulia Timoshenko. Il primo concerto dell’anno Vakarchuk ha deciso di farlo proprio il 24 agosto, data non ufficiale di inizio della campagna elettorale, e 80 mila fan allo stadio olimpico di Kiev che potrebbero diventare elettori.
“Non mi arrenderò senza combattere!”. La sua canzone, Bez boyu, senza lotta, la cantavano i ragazzi sulle barricate di Maidan nel 2013 prima che arrivasse lui a intonarla sul palco per sostenere la rivoluzione della piazza gialloblù che mise in fuga l’ex presidente Viktor Yanukovich.
“Se sarà necessario lo farò”, ha detto in passato a chi gli chiedeva di candidarsi, ma adesso potrebbe davvero sfidare la vecchia zarina Yulia Timoshenko e il presidente in carica Poroshenko – che ha appena querelato la Bbc per aver diffuso la notizia secondo cui avrebbe pagato 400 mila dollari a Michael Cohen per assicurarsi un incontro con Trump nel 2017 –.
Nato al confine coi Carpazi più occidentale del Paese, bastione delle forze nazionaliste, Vakarchuk è cresciuto in quella Lviv – Lvov per i russi – che ha appena dichiarato illegale l’uso scritto e parlato della “lingua dell’invasore” nella regione.
Per 24 anni e dieci album, i suoi versi hanno accompagnato alcuni ragazzi all’altare, altri in trincea contro le repubbliche del Donbass.
Fisico come tutti nella sua famiglia, politico come quasi nessuno nell’industria musicale ma come suo padre, ex ministro dell’Educazione, Vakarchuk nel 2007, eletto con il partito Blocco di auto-difesa, entra al Parlamento ma non resiste, non riesce a respirare quella che chiama “atmosfera di corruzione” e dopo un anno abbandona gli scranni.
“Un esercito, una polizia muscolare” sarebbero la sua risposta efficace all’immorale classe politica d’Ucraina. Nel 2014 dopo l’annessione della Crimea, ha rinunciato a cantare nel paese dove in milioni lo ascoltano, la Russia, e le arene erano piene da Mosca a Vladivostok nonostante cantasse in ucraino.
Non solo l’aedo della rivoluzione: anche il comico più famoso del Paese, Volodomyr Zelensky, potrebbe scegliere di percorrere la strada che porta alla Verkhovna Rada, Parlamento di Kiev.
In quell’Ucraina dove il 6 per cento della popolazione sarebbe pronto a votarlo, è diventato famoso per la serie “servitore del popolo”: recita la parte di un professore di Storia che diventa presidente del Paese per sbaglio.
Il Fatto 29.9.18
Razzismo della busta paga: il colore della pelle costa caro
Londra - Nella Sanità pubblica un chirurgo bianco guadagna 10 mila sterline in più
di Sabrina Provenzani


“Pensa che l’Nhs sia razzista?”. “Sì”. C’è dell’ironia nel fatto che tocchi al dottor Chaand Nagpaul – il primo presidente non bianco nei 186 anni di storia della British Medical Association, l’associazione dei categoria dei medici britannici – commentare gli sconfortanti dati di un approfondito studio sulle discriminazioni salariali nel servizio sanitario britannico. Verdetto senza possibilità di equivoci: perfino per il servizio pubblico non conta il merito, conta il colore della pelle.
Lo studio di Nhs Digital ha incrociato salari e appartenenza etnica di 750 mila dipendenti della Sanità pubblica, dagli inservienti ai primari: in qualsiasi mansione, i lavoratori di colore – britannici, africani, Caraibici – guadagnano meno dei bianchi con identiche responsabilità.
Fra i medici più esperti, i neri guadagnano fino a 10 mila sterline in meno all’anno rispetto ai colleghi bianchi.
Gli infermieri neri in media 1.870 sterline meno di quelli bianchi. Per le infermiere il gap è di 2.700 sterline. E la discriminazione non si ferma a questo.
Fra i 100 mila medici impiegati dall’Nhs, circa un terzo appartiene a minoranze etniche, principalmente nere o asiatiche. Ma solo 7 su 100 occupano posizioni manageriali o di vertice. E i dati dimostrano che i medici bianchi sono anche meno soggetti a sanzioni disciplinari, mentre i colleghi di minoranze etniche vengono deferiti più spesso agli organi di vigilanza e gli errori puniti più duramente.
Fra gli specialisti, i bianchi guadagnano in media il 3,5% in più dei neri, quasi il 5% più degli asiatici e oltre il 6 più di quelli di etnia mista. Differenze che la maggior anzianità media dei dottori bianchi non basta a giustificare.
Se di questo fenomeno servisse un testimonial, il sessantenne dottor Nagpaul sarebbe il candidato perfetto.
Arrivato nel Regno Unito dal Kenya a 7 anni, figlio di immigrati indiani, sostiene che la sua domanda per diventare medico di famiglia sia stata respinta nove volte a causa del suo cognome.
“In ogni fase della mia carriera ho dovuto lavorare molto più duramente del normale per andare avanti. Ho dovuto accettarlo, ma non ci sono dubbi sulla mancanza di eguali opportunità nell’Nhs”.
Il sottosegretario alla Salute, Stephen Barclay, promette: “Stiamo lavorando a un piano per affrontare le disuguaglianze. Abbiamo pubblicato questi dati proprio perché siamo determinati a fare dell’Nhs un luogo di lavoro più inclusivo ed egualitario”. E ci sono progressi, almeno in Inghilterra, dove il numero di medici di minoranze etniche in posizioni senior, secondo Nhs England, è aumentato del 18% in due anni.
Una parte della società britannica, principalmente nel settore pubblico, tenta di fare i conti con le proprie storture: raccoglie segnalazioni, commissiona analisi, lancia sondaggi e, di fronte alle costanti evidenze di un’integrazione ancora mal riuscita, avvia meticolose politiche di inclusione.
Ma quello della discriminazione delle minoranze etniche è uno fenomeno così pervasivo che ha smesso di stupire, mentre aumentano il risentimento e la disillusione di intere comunità.
La Stampa 29.9.18
L’intreccio tra militari e populismo scuote il Brasile orfano di Lula
Il 7 ottobre le elezioni
Il Partito dei lavoratori è al potere da un quarto di secolo
di Juan Luis Cebriàn


Anche se è in carcere da aprile, condannato per corruzione, e il tribunale gli ha vietato di candidarsi, Lula da Silva, che è stato presidente del Brasile per otto anni, continuerà a svolgere un ruolo cruciale nelle elezioni del 7 ottobre. L’influenza sull’opinione pubblica di questo ex sindacalista settantaduenne, più volte candidato alla presidenza fino alla vittoria del 2002, rimane un fattore determinante. I suoi seguaci, e non solo loro, sperano che il suo sostegno a Fernando Haddad, candidato per il suo partito (Pt), possa evitare l’elezione di Jair Bolsonaro, un ex militare di estrema destra, xenofobo e ultranazionalista.
Le imminenti elezioni in Brasile segnano la fine di un processo politico che ha avuto inizio con l’impeachment dell’ex presidente Dilma Roussef che molti, a cominciare da lei stessa, non esitano a definire vero colpo di Stato. È stata destituita con l’accusa di manipolare i conti pubblici ritardando i pagamenti e i depositi nelle banche, cosa che in molti Paesi è considerata pratica comune per soddisfare le necessità finanziarie. Le è subentrato il vicepresidente Temer, ugualmente coinvolto in casi di corruzione, così come il presidente della Camera dei deputati che ha chiesto l’impeachment, Eduardo Cunha, condannato a quindici anni di carcere per aver accettato tangenti.
Roussef, ex guerrigliera, amministratrice onesta anche se poco carismatica, era la candidata scelta da Lula per succedergli. Il leader del Pt voleva così sviluppare ulteriormente le riforme che aveva lanciato e che tra le altre cose hanno salvato dalla povertà 30 milioni di brasiliani. Roussef nel 2014 aveva di nuovo vinto e i suoi oppositori temevano che, alla fine del suo mandato Lula potesse vincere di nuovo le elezioni del prossimo ottobre, prolungando di altri otto anni l’egemonia della sinistra. Avere al potere il Partito dei lavoratori ininterrottamente per un quarto di secolo dev’essere sembrato un po’ troppo all’influente borghesia di San Paolo che controlla i destini del paese. La destituzione di Roussef e l’interdizione di Lula, tuttora il leader più popolare nel Paese nonostante sia in carcere, sono indicati dagli analisti come fasi dello stesso processo, nell’insieme legale anche se non privo di ombre, destinato a ristabilire il governo della destra.
Il ruolo della magistratura
La condanna e la prigionia di Lula per alcuni sono un esempio dell’indipendenza della magistratura brasiliana. Ma i suoi fedeli pensano che l’ex presidente sia la vittima innocente di una cospirazione. Condannato in appello per aver accettato come tangente un appartamento a Playa de las Asturias (cosa che nega), è stato escluso dalla candidatura in nome della Ley de Ficha limpia, la legge della fedina penale pulita, che lui stesso, paradossalmente, aveva firmato da presidente, anche se molti altri in situazioni simili non hanno ricevuto lo stesso trattamento.
La corruzione in Brasile, recentemente collegata in gran parte alla compagnia petrolifera statale Petrobas e all’azienda edile privata Odebrecht, ha molto a che fare con i processi elettorali e il finanziamento delle campagne. In parlamento sono rappresentati fino a venticinque partiti e la necessità di creare coalizioni genera spesso tangenti e complicità poco confessabili. Scomparsa la corruzione delle imprese, le fonti di finanziamento occulto per le formazioni politiche possono concentrarsi sul traffico di droga e sulle ricche comunità religiose.
I movimenti evangelici
L’influenza politica dei movimenti evangelici in America Latina è in rapida crescita. Bolsonaro e Haddad sono i candidati che presumibilmente arriveranno al ballottaggio e in Brasile molti pastori hanno già annunciato il loro sostegno al primo.
La vittoria dell’esponente di estrema destra, che all’inizio del mese durante un comizio è stato pugnalato da un malato di mente e si trova ancora convalescente in ospedale, potrebbe essere evitata solo se la grande maggioranza degli sconfitti il 7 ottobre appoggiasse il candidato di Lula. Intanto, all’interno del Pt, si stanno moltiplicando gli intrighi per evitare la svolta centrista e socialdemocratica rappresentata da Haddad. Se quest’ultimo sarà sconfitto è più che probabile che l’opposizione lulista organizzi manifestazioni di piazza, aumentando così il senso di insicurezza e di caos, e questo sarebbe il miglior terreno di coltura per applicare le nuove e rigide politiche di sicurezza volute dal presidente.
La militarizzazione dell’ordine pubblico è stata ripetutamente messa in pratica dal presidente Temer, che a febbraio ha decretato l’intervento delle forze militari a Rio de Janeiro. Non è una tendenza esclusiva del Brasile. Il presidente messicano Calderón già un decennio fa decise di coinvolgere la marina e l’esercito nella lotta contro il traffico di droga. Oggi si registra un aumento allarmante nella vendita di fucili e carabine di precisione a vari Paesi dell’America Latina, presumibilmente destinati alla criminalità organizzata.
La debolezza e la corruzione di molte forze di polizia facilitano il ruolo assunto dall’esercito nei compiti di sicurezza interna.
Lo spettro del colpo di Stato
Il Brasile è la maggiore potenza del Sud America, un continente gravato da problemi drammatici, con l’Argentina ancora una volta sull’orlo della bancarotta e il Venezuela diventato scenario di una crisi umanitaria di proporzioni globali. Da ciò che avverrà alle prossime elezioni dipenderà il suo futuro: continuerà a identificarsi con i valori fondamentali e le istituzioni della democrazia o finirà in mano a un governo populista? Uno di più al mondo e stavolta sì, di ideologia e pratiche chiaramente fasciste, in più con il supporto di un esercito sempre pronto a intervenire nei processi politici. Al punto che il numero due di Bolsonaro, il generale in pensione candidato alla vicepresidenza, Hamilton Mourao, che dirige la campagna elettorale in assenza del suo capo ricoverato in ospedale, ha dichiarato che non può escludere un colpo di Stato, se servirà al Paese. Come nel famoso samba «O Bêbado e a Equilibrista», diventato un inno contro la dittatura, «la speranza danza su una fune con un ombrello» e a ogni passo «può finire male».
traduzione di Carla Reschia
Il Fatto 29.9.18
“Migranti schiavi delle milizie in guerra”
Tripoli - Le Ong: “Gruppi armati usano i profughi dei centri di detenzione abbandonati dalle autorità”
di Pierfrancesco Curzi


Migranti usati come manovalanza dalle milizie durante la guerriglia per le strade di Tripoli. Nuove storie di schiavismo, di coercizione e di vergogna dalla Libia. La denuncia arriva dai diretti interessati e da quanto raccolto dalle organizzazioni umanitarie. Un gruppo di profughi del Corno d’Africa, almeno 200 persone tra cui una sessantina di bambini e minori, recluso nel centro denominato ‘Semaforo 70’, sopravvive in condizioni drammatiche. Siamo a Faruja, periferia sud della città, epicentro di combattimenti tra gruppi armati che in un mese (26 agosto-26 settembre) hanno fatto 117 morti ufficiali e circa 600 feriti. Uno dei 25 campi dove le organizzazioni internazionali entrano in supporto di profughi, Unhcr in particolare. O meglio entravano, visto che ciò, per motivi di sicurezza, non accade da quasi due mesi. Una fonte confidenziale a Tripoli ha raccolto il racconto di uno dei migranti: “Il centro è sotto il controllo di una milizia. Molti di noi vengono presi di forza, portati nella zona degli scontri e usati per trasportare armi e munizioni in prima linea, col rischio di essere uccisi. Altri vengono sfruttati per fare le pulizie negli uffici e nelle caserme dei capi, anche se stremati e in pessime condizioni di salute. Siamo gli schiavi moderni in mezzo ad una guerra civile. I miliziani ci vedono come merce di scambio e la vita nel centro è un inferno. Non abbiamo ricevuto acqua e cibo per quasi una settimana. Assetati, alcuni hanno bevuto acqua da pozzi e rubinetti insicuri e soffrono di violenti attacchi di dissenteria. La gente sta male e non viene curata, siamo allo stremo”.
Una situazione analoga è stata registrata in un altro centro lontano dal cuore della capitale, a Qasr Ben Gashir. L’allarme è stato raccolto dall’Unhcr, dall’Oim (l’agenzia Onu per i migranti) e da altre organizzazioni operative sul territorio. L’unica speranza per migliaia di profughi rinchiusi e veri e propri lager. A causa dell’instabilità. Tripoli è diventato un campo di battaglia e per il settore umanitario è difficile raggiungere i quartieri in conflitto. Ci sono strutture dove Unhcr e Oim non riescono a operare da mesi, difficile dunque capire la portata della tragedia, lontana dai radar della cooperazione.
Il cessate-il-fuoco siglato mercoledì sembra reggere, per ora, e ciò ha permesso quanto meno di tappare alcune falle. Come garantire cibo e accesso ad acqua potabile, coperte, prodotti per l’igiene e cure mediche di primo soccorso. Tra i migranti numerosi i casi di tubercolosi, scabbia e altre malattie trasmissibili, ma anche infezioni purulente, ferite non trattate e ustioni gravi. Tanti avrebbero bisogno di trattamenti sanitari e interventi chirurgici.
Un pezzo di Libia di cui il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, dovrà tener conto in Senato quando martedì riferirà a proposito di ciò che sta accadendo sull’altra sponda del Mediterraneo. Intanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha diffuso le statistiche esatte sulle vittime degli scontri dell’ultimo mese: 108 maschi e 9 femmine, 8 minorenni e 3 bambini sotto i 5 anni. In tutto 79 giovani tra i 18 e i 35 anni. I morti libici sono 106, 11 non libici: tra loro 1 turco, 2 del Niger, 1 siriano, 1 egiziano, 2 ivoriani, 1 burkinabè, 1 nigeriano; 2 sono rimasti sconosciuti.