Repubblica 11.7.15
Il potere di-vino che lega Gesù ai riti dionisiaci
Tra ebbrezza e pathos tutto il fascino mistico della bevanda più antica
di Marino Niola
«CHI beve vino è civile, chi non ne beve è barbaro».Lo dicevano i Greci facendo del succo della vite il simbolo alimentare dell’identità ellenica, concepita come la forma più compiuta di umanità. La bevanda che spumeggia nelle coppe è un dono di Dioniso, per i romani Bacco, il dio straniero per antonomasia, che irrompe nella scena
mitologica mascherato, circondato da un corteggio di baccanti e di satiri, alla guida del suo carro coperto di foglie e di pampini, tirato da tigri e pantere profumate per portare agli uomini il suo dono prezioso. Ma anche pericoloso. Perché il nume dell’ebbrezza e della forza vitale introduce nella società un caos positivo, un disordine creativo che è necessario accettare, ma che è altrettanto necessario saper controllare. Non a caso la tragedia, che nasce ad Atene proprio dai rituali dionisiaci, mostra spesso le conseguenze di un rapporto incontrollato con il fermento che il dio introduce nei diversi luoghi dove si ferma per insegnare l’arte della spremitura e della fermentazione della vite. Il teatro, infatti, rivela la tensione tra le due metà dell’essere. Fa affiorare la verità nascosta dietro la maschera. Mette in scena il conflitto tra la mania profetica, ispirata dal dio divinatore e la ragione quotidiana. Il pathos che si mescola al logos. Come il vino all’acqua.
Dioniso insomma rappresenta il bios allo stato nascente ed effervescente. Succo della vite e succo della vita. Ecco perché l’intensità del rapporto con il dio dei pampini deve essere accuratamente calibrata. Proprio come fanno i Greci, quando diluiscono la bevanda alcolica per controllarne il potere inebriante. In questo senso si può dire che se la civiltà misura il vino, il vino misura la civiltà.
Solo i bruti bevono il nettare della vite senza diluirlo. Come fa Polifemo, il bestione-cafone che per il Greci è il campione dell’inumanità. E finisce bellamente uccellato da Ulisse, che gli offre vino purissimo, prodotto dal figlio del sacerdote di Apollo. Le istruzioni per l’uso consigliano di mescolare una dose di questo fuoco liquido con venti d’acqua. E invece il babbione con un occhio solo se lo tracanna superconcentrato. E passa improvvisamente dal vedere la metà al vedere doppio. Per poi finire accecato, dalla sua ingordigia ferina, prima ancora che dal palo ardente che Ulisse gli conficca nella pupilla. Il carattere smodato e intemperante degli appetiti di Polifemo fa pendant con la sua mancanza di ospitalità, collocando il feroce monocolo sul versante opposto di quello dionisiaco, fondato invece sull’accoglienza dello straniero, ma anche sulla convivenza con la parte straniera di sé. Il vino è uno specchio per vedere attraverso l’uomo, dice Alceo, il celebre poeta, che non si sa se fosse più sommo o più sommelier. Visto che a lui si deve la consacrazione del proverbiale binomio vino e verità, «oinos kai alathea», passato alla storia come «in vino veritas». Non a caso la funzione culturale del vino ha nella mitologia mediterranea il suo paradigma filosofico nel simposio. Parola che deriva dal greco symposion: da syn, insieme e pino, bere. Nel corso del convivio, il rapporto tra vino e socialità si rivela in tutta la sua profondità. Il rito, reso celebre dall’omonimo dialogo di Platone, inizia quando il simposiarca, che guida il consesso e modera la discussione, stabilisce le parti di vino e di acqua da mescolare, oltre al numero di coppe che ogni commensale dovrà bere. Obbligatoriamente. Se non vuole trasgredire le leggi della comunità.
E che il succo della vite sia un simbolo di comunione lo prova la sopravvivenza di alcuni usi e costumi connessi al bere nella civiltà moderna. Come il tradizionale scambio di vino nelle osterie europee, che trasformava degli sconosciuti in commensali. O i brindisi che scandiscono matrimoni, lauree e tutte le occasioni importanti. Insomma accettare il vino significa aprire all’altro. Rimandare al mittente il dono può essere una dichiarazione di guerra. Come quella di Alfio, protagonista della Cavalleria
rusticana di Mascagni, che rifiuta pubblicamente di brindare con Compare Turiddu. «Grazie ma il vostro vino io non l’accetto, diverrebbe veleno entro il mio petto». A quel punto la tragedia è inevitabile. E a scorrere sarà sangue vero, non quello metaforico di Dioniso. Che Euripide definisce letteralmente un dio da bere, «versato in libagione». Una vittima sacrificale cui «gli uomini sono debitori di ogni bene». E improvvisamente in queste parole lampeggia quel filo che unisce Dioniso a Cristo. Le due divinità liquide. I due stranieri che portano il fermento nella collettività e la rigenerano.
In realtà il fattore maggiormente decisivo di questa longevità simbolica del vino è proprio la sua adozione da parte del cristianesimo che lo traduce nella sua teologia e nella sua liturgia facendone, insieme al pane, la sostanza sacra del sacramento eucaristico. Così i due emblemi alimentari del Mediterraneo antico, si transustanziano nel corpo e nel sangue di Cristo. E più la Chiesa rende centrale il ruolo della bevanda nell’eucaristia, più l’Islam prende progressivamente le distanze dal sangue di Bacco. Anche se in realtà nelle prime sure del Corano, quelle della Mecca, il vero musulmano non deve essere astemio. È con le successive sure di Medina, quando la religione del Profeta si trasforma in politica, che il vino diventa tabù. A riprova del fatto che la dieta mediterranea è inseparabile dalle vicende dei tre grandi monoteismi. Insomma, il vino spara fulmini e barbariche orazioni che fan sentire il gusto delle alte perfezioni. Parola di Paolo Conte.
La prima puntata della serie “Mangiare i simboli” è uscita l’ 8 luglio
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 11 luglio 2015
Repubblica 11.7.15
Ottica, numeri e precisione l’emozione nasce dalla tecnica
Ecco come nel corso della storia gli artisti sono stati considerati non più artigiani ma detentori del sapere
di Jean Clair
LA MILA NESIANA Pubblichiamo l’intervento che Jean Clair terrà oggi (ore 12, Sala Buzzati) alla Milanesiana, il festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi L’incontro si inserisce nel ciclo “Ossessioni /arte e scienza” in collaborazione con Intesa Sanpaolo. Protagonista della serata della Milanesiana sarà Gabriele Salvatores (dalle 21 al cinema Mexico) con Nicola Lagioia
La mia prima emozione che potessi qualificare come artistica la provai in un museo scientifico: al Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, davanti ai piccoli strumenti di vetro e di rame che Lavoisier utilizzava nel suo laboratorio. Si trattava di arte? Il nome del Museo lo assicurava: Conservatorio delle Arti e dei Mestieri. Ora non si chiama più così, ma è intitolato “Museo delle tecniche”. Solo più tardi ho ritrovato lo stesso piacere in un museo detto “delle Belle Arti”, mi pare fosse davanti alla Vergine del Cancelliere Rolin, al Louvre, la cui precisione ottica mi incantava.
E solo più tardi ancora compresi che gli oggetti della scienza erano a volte delle opere d’arte, e che le opere d’arte erano spesso oggetti scientifici. L’estetica a volte poteva essere un’euristica.
La più bella dimostrazione di questa equazione l’ha fatta Claude Lévi-Strauss, a proposito di un ritratto di dama di Cluet di cui ammirava la “collerette”.
L’emozione profonda, ci dice, che suscita la riproduzione del collo di merletto, filo per filo, con un effetto di trompe- l’oeil scrupoloso, è la stessa che produce il modellino a scala ridotta, il capolavoro dell’artigiano, che è il prototipo dell’opera d’arte.
Entrambi, per effetto della riduzione, procedono per una sorta di inversione del processo della conoscenza: per conoscere un oggetto, abbiamo tendenza a operare a partire delle sue componenti. La riduzione della scala capovolge la situazione; più piccola, la totalità dell’oggetto appare meno temibile. La virtù intrinseca del modello è di compensare la rinuncia alle dimensioni sensibili attraverso l’acquisizione di dimensioni intelleggibili.
La scienza che lavora a scala reale, che rimpiazza un essere con un altro, l’effetto con la causa, è dell’ordine della metonimia, mentre l’arte che lavora a scala ridotta producendo un’immagine omologa all’oggetto rientra nel campo della metafora.
Ars , in latino, ci parla di abilità: è un talento particolare acquisito attraverso lo studio e la pratica (diciamo: “possedere l’arte di...”); una conoscenza legata a un mestiere, un’esperienza del corpo che permette la precisione e l’economia dei gesti, un’attitudine appresa che si schiude all’eleganza, allo charme, alla grazia (diciamo: “fare con arte”). Ars è nel contempo la “maniera” dell’artista e il marchio dell’artigiano. Nel linguaggio popolare, l’”homme de l’art”, l’uomo dell’arte, è l’uomo del mestiere. Questa qualità può limitarsi a una parte del corpo, una particolare abilità manuale, un gesto, un’attitudine, per esempio il portamento del ballerino, o la voce posata del cantante o dell’oratore - l’ actio nella retorica... Si parlerà anche della “mano intelligente” dell’architetto, quella sua arte particolare che unisce competenze manuali e intelligenza concettuale.
Da questo punto di vista, l’arte, ars , si oppone alla natura, come l’artificio si oppone al naturale. Ma si oppone anche all’ ingenium, che non è il genio, bensì l’inclinazione spontanea, la disposizione propria della sensibilità. L’ ars è acquisita, l’ ingenium è innato. L’ ingenium è la capacità naturale dello spirito a produrre, una potenza generativa che è allo stesso tempo predisposizione nativa e invenzione. Vicino a quella che Lévi-Strauss descriveva con il termine di “bricolage”, l’ ingenium è quell’attitudine dello spirito umano a riunire dati eterogenei per produrre qualcosa di nuovo. Oltrepassa i limiti della semplice ragione, è appunto quell’eccesso che somiglia a un dono, al’invenzione ingenua, al tratto di genio.
Ars si oppone infine alla
scientia , che è un sapere essenzialmente linguistico e verbale, un’informazione, una conoscenza, o l’insieme delle conoscenze acquisite su un soggetto. Cicerone oppone i due termini di ars e scientia quando parla di “ artem scientia tenere ”, possedere un’arte in teoria.
Scientia , la conoscenza astratta e generale, non è il sapere concreto e singolare che si incarna in un gesto, in un “tour de main”, quel linguaggio del corpo che Aristotele chiamava giustamente tekhné : «I Greci, ricorda Ernst Gombrich, avevano un solo termine e un solo concetto per l’arte e per l’abilità:
tekhné » - la storia dell’arte, per definizione, era la storia delle tecniche.
Se consideriamo le lingue germaniche, ritroviamo più o meno le stesse opposizioni.
Kunst , l’arte, deriva dall’alto tedesco können , che ci parla di una disposizione intermedia tra la conoscenza e la competenza, tra il sapere e l’abilità. In ogni caso nulla di comparabile alla pretenzione che oggi dissimuliamo sotto il termine di “arte”.
Können ha la stessa origine del gotico kann , dell’antico inglese can , nel senso di un potere radicato in un sapere.
Notiamo en passant che können non va confuso, nonostante l’omofonia, con kennen , che si- gnifica conoscere, essere al corrente, come to know in inglese: è questo il campo della conoscenza, del knowledge , della scientia .
Già all’origine quindi troviamo nel termine “arte” un’ambivalenza, un’oscillazione tra un savoir faire che rileva di un apprendimento e di una conoscenza, dell’ordine del codificabile e del trasmissibile, e d’altra parte una qualità eccezionale, una tendenza particolare di un individuo, uno slancio dell’essere, una disposizione singolare dei suoi organi, delle sue cellule, che gli permetterebbe di esercitare un potere di cui gli altri non dispongono, nonostante abbiano le stesse conoscenze. Ma i due aspetti sono legati: non ci può essere pouvoir-faire senza savoir-faire , né savoir- faire senza vouloir-faire .
Malkunst , nel sedicesimo secolo, è l’arte di dipingere, e cioè quell’insieme complesso di ricette e di conoscenze che permettono all’artigiano di esercitare il suo mestiere. Ma oltre alla chimica che gli permette di preparare i colori, quest’arte complessa riunisce ben altre competenze: la matematica e la fisica che permettono di fondarsi sulla prospettiva come scienza esatta, e di disporre correttamente i corpi nello spazio; l’anatomia, insegnata nei teatri di Padova, di Bologna, di Londra, di Vienna; la fisiologia, ossia lo studio del funzionamento dei tessuti, delle carnagioni, degli organi; l’ottica, la dioptrica e la catoptrica, che permettono di progredire nella scienza dei colori, delle rifrazioni, dei riflessi, delle trasparenze; e anche un po’ di zoologia che permette di distinguere e di tagliare correttamente i calami per disegnare e i peli animali di cui son fatti i pennelli, di martora per esempio... tutto un insieme di conoscenze e di ricette che hanno permesso all’arte della pittura di passare dallo statuto di
ars mecanica a quello delle artes liberales , e all’artista, di non essere semplicemente un abile artigiano ma un letterato, un sapiente, un polymathes , un polytechnes .
© Jean Clair 2015
Ottica, numeri e precisione l’emozione nasce dalla tecnica
Ecco come nel corso della storia gli artisti sono stati considerati non più artigiani ma detentori del sapere
di Jean Clair
LA MILA NESIANA Pubblichiamo l’intervento che Jean Clair terrà oggi (ore 12, Sala Buzzati) alla Milanesiana, il festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi L’incontro si inserisce nel ciclo “Ossessioni /arte e scienza” in collaborazione con Intesa Sanpaolo. Protagonista della serata della Milanesiana sarà Gabriele Salvatores (dalle 21 al cinema Mexico) con Nicola Lagioia
La mia prima emozione che potessi qualificare come artistica la provai in un museo scientifico: al Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, davanti ai piccoli strumenti di vetro e di rame che Lavoisier utilizzava nel suo laboratorio. Si trattava di arte? Il nome del Museo lo assicurava: Conservatorio delle Arti e dei Mestieri. Ora non si chiama più così, ma è intitolato “Museo delle tecniche”. Solo più tardi ho ritrovato lo stesso piacere in un museo detto “delle Belle Arti”, mi pare fosse davanti alla Vergine del Cancelliere Rolin, al Louvre, la cui precisione ottica mi incantava.
E solo più tardi ancora compresi che gli oggetti della scienza erano a volte delle opere d’arte, e che le opere d’arte erano spesso oggetti scientifici. L’estetica a volte poteva essere un’euristica.
La più bella dimostrazione di questa equazione l’ha fatta Claude Lévi-Strauss, a proposito di un ritratto di dama di Cluet di cui ammirava la “collerette”.
L’emozione profonda, ci dice, che suscita la riproduzione del collo di merletto, filo per filo, con un effetto di trompe- l’oeil scrupoloso, è la stessa che produce il modellino a scala ridotta, il capolavoro dell’artigiano, che è il prototipo dell’opera d’arte.
Entrambi, per effetto della riduzione, procedono per una sorta di inversione del processo della conoscenza: per conoscere un oggetto, abbiamo tendenza a operare a partire delle sue componenti. La riduzione della scala capovolge la situazione; più piccola, la totalità dell’oggetto appare meno temibile. La virtù intrinseca del modello è di compensare la rinuncia alle dimensioni sensibili attraverso l’acquisizione di dimensioni intelleggibili.
La scienza che lavora a scala reale, che rimpiazza un essere con un altro, l’effetto con la causa, è dell’ordine della metonimia, mentre l’arte che lavora a scala ridotta producendo un’immagine omologa all’oggetto rientra nel campo della metafora.
Ars , in latino, ci parla di abilità: è un talento particolare acquisito attraverso lo studio e la pratica (diciamo: “possedere l’arte di...”); una conoscenza legata a un mestiere, un’esperienza del corpo che permette la precisione e l’economia dei gesti, un’attitudine appresa che si schiude all’eleganza, allo charme, alla grazia (diciamo: “fare con arte”). Ars è nel contempo la “maniera” dell’artista e il marchio dell’artigiano. Nel linguaggio popolare, l’”homme de l’art”, l’uomo dell’arte, è l’uomo del mestiere. Questa qualità può limitarsi a una parte del corpo, una particolare abilità manuale, un gesto, un’attitudine, per esempio il portamento del ballerino, o la voce posata del cantante o dell’oratore - l’ actio nella retorica... Si parlerà anche della “mano intelligente” dell’architetto, quella sua arte particolare che unisce competenze manuali e intelligenza concettuale.
Da questo punto di vista, l’arte, ars , si oppone alla natura, come l’artificio si oppone al naturale. Ma si oppone anche all’ ingenium, che non è il genio, bensì l’inclinazione spontanea, la disposizione propria della sensibilità. L’ ars è acquisita, l’ ingenium è innato. L’ ingenium è la capacità naturale dello spirito a produrre, una potenza generativa che è allo stesso tempo predisposizione nativa e invenzione. Vicino a quella che Lévi-Strauss descriveva con il termine di “bricolage”, l’ ingenium è quell’attitudine dello spirito umano a riunire dati eterogenei per produrre qualcosa di nuovo. Oltrepassa i limiti della semplice ragione, è appunto quell’eccesso che somiglia a un dono, al’invenzione ingenua, al tratto di genio.
Ars si oppone infine alla
scientia , che è un sapere essenzialmente linguistico e verbale, un’informazione, una conoscenza, o l’insieme delle conoscenze acquisite su un soggetto. Cicerone oppone i due termini di ars e scientia quando parla di “ artem scientia tenere ”, possedere un’arte in teoria.
Scientia , la conoscenza astratta e generale, non è il sapere concreto e singolare che si incarna in un gesto, in un “tour de main”, quel linguaggio del corpo che Aristotele chiamava giustamente tekhné : «I Greci, ricorda Ernst Gombrich, avevano un solo termine e un solo concetto per l’arte e per l’abilità:
tekhné » - la storia dell’arte, per definizione, era la storia delle tecniche.
Se consideriamo le lingue germaniche, ritroviamo più o meno le stesse opposizioni.
Kunst , l’arte, deriva dall’alto tedesco können , che ci parla di una disposizione intermedia tra la conoscenza e la competenza, tra il sapere e l’abilità. In ogni caso nulla di comparabile alla pretenzione che oggi dissimuliamo sotto il termine di “arte”.
Können ha la stessa origine del gotico kann , dell’antico inglese can , nel senso di un potere radicato in un sapere.
Notiamo en passant che können non va confuso, nonostante l’omofonia, con kennen , che si- gnifica conoscere, essere al corrente, come to know in inglese: è questo il campo della conoscenza, del knowledge , della scientia .
Già all’origine quindi troviamo nel termine “arte” un’ambivalenza, un’oscillazione tra un savoir faire che rileva di un apprendimento e di una conoscenza, dell’ordine del codificabile e del trasmissibile, e d’altra parte una qualità eccezionale, una tendenza particolare di un individuo, uno slancio dell’essere, una disposizione singolare dei suoi organi, delle sue cellule, che gli permetterebbe di esercitare un potere di cui gli altri non dispongono, nonostante abbiano le stesse conoscenze. Ma i due aspetti sono legati: non ci può essere pouvoir-faire senza savoir-faire , né savoir- faire senza vouloir-faire .
Malkunst , nel sedicesimo secolo, è l’arte di dipingere, e cioè quell’insieme complesso di ricette e di conoscenze che permettono all’artigiano di esercitare il suo mestiere. Ma oltre alla chimica che gli permette di preparare i colori, quest’arte complessa riunisce ben altre competenze: la matematica e la fisica che permettono di fondarsi sulla prospettiva come scienza esatta, e di disporre correttamente i corpi nello spazio; l’anatomia, insegnata nei teatri di Padova, di Bologna, di Londra, di Vienna; la fisiologia, ossia lo studio del funzionamento dei tessuti, delle carnagioni, degli organi; l’ottica, la dioptrica e la catoptrica, che permettono di progredire nella scienza dei colori, delle rifrazioni, dei riflessi, delle trasparenze; e anche un po’ di zoologia che permette di distinguere e di tagliare correttamente i calami per disegnare e i peli animali di cui son fatti i pennelli, di martora per esempio... tutto un insieme di conoscenze e di ricette che hanno permesso all’arte della pittura di passare dallo statuto di
ars mecanica a quello delle artes liberales , e all’artista, di non essere semplicemente un abile artigiano ma un letterato, un sapiente, un polymathes , un polytechnes .
© Jean Clair 2015
Corriere 11.7.15
Ugo Spirito, fascista comunista, teorico dell’economia corporativa
risponde sergio Romano
Ho trovato una citazione di Ugo Spirito che assimilava il suo pensiero a quello di Otto e Gregor Strasser, che rappresentavano l’estrema sinistra nel partito Nsdap e avevano messo in difficoltà il Führer prima che, col suo carisma, avesse la prevalenza nel partito e si sbarazzasse dei due fratelli. Il filosofo aretino non mette in contrapposizione l’individuo e la collettività, ma mi pare improprio definirlo di sinistra. Ha avuto qualche effetto sulla politica di qualche partito o movimento?
Giampaolo Grulli
Caro Grulli,
Ugo Spirito fu uno dei migliori allievi di Giovanni Gentile, ma si allontanò in parte dal suo insegnamento per creare una nuova scuola filosofica che definì «problematicismo». Ma la ragione della sua notorietà, al di fuori del mondo strettamente accademico, tuttavia fu la sua appassionata adesione allo Stato corporativo, divenuto, dopo la grande crisi del 1929, il più ambizioso progetto di Mussolini. Spirito ne dette una interpretazione radicale. Al Convegno di studi sindacali e corporativi, che si tenne a Ferrara nel maggio del 1932, esortò il governo ad approfittare della crisi del capitalismo per andare al di là delle proprie intenzioni originarie e puntare verso la creazione della «corporazione proprietaria»: un sistema economico in cui la proprietà della impresa sarebbe stata trasferita alla particolare corporazione in cui la sua attività era stata classificata. Era evidente che un tale programma sarebbe stato possibile soltanto grazie al capovolgimento della filosofia economica del Paese e a un massiccio esproprio di industrie private. Il fascismo conservatore reagì polemicamente, Spirito fu accusato di comunismo, la polemica sulla stampa durò per parecchio tempo e coinvolse anche Gentile, mentre Mussolini, secondo il suo stile in questi casi, lasciava fare per intervenire, se necessario, al momento opportuno.
Terminata la guerra, in circostanze nazionali e internazionali alquanto diverse, Spirito continuò a seguire con grande attenzione la evoluzioni dei regimi comunisti. Fece viaggi in Unione Sovietica e in Cina, confrontò i due sistemi e sembrò particolarmente interessato da ciò che accadeva allora nella Repubblica popolare cinese. Non è sorprendente quindi che, negli anni Trenta, Spirito conoscesse le posizioni progressiste dei fratelli Strasser, Gregor e Otto. Gregor aveva fatto buoni studi, era stato farmacista e, dopo la guerra, aveva creato un gruppo paramilitare che gli aveva permesso di prendere contatto con Hitler. Verso la metà degli anni Venti, dopo la sua adesione al partito nazional-socialista, predicava un vangelo economico in cui lo Stato sarebbe stato proprietario del 51% delle principali industrie e del 49% delle attività commerciali.
Era convinto che il successo politico del nazional-socialismo dipendesse dal rapporto che il partito avrebbe saputo creare con la classe operaia. Ma Hitler non intendeva legare le proprie fortune a una scelta limitata. Quando si accorse del diffuso malumore degli agricoltori, ne divenne il protettore. Quando constatò il malessere economico della piccola borghesia, si atteggiò a difensore dei suoi interessi. E non esitò infine a concludere un accordo con alcuni grandi industriali. Fu questa, per Gregor, la goccia che fece traboccare il vaso. Nel 1932, dopo uno scontro sulla strategia politica del partito, Strasser si dimise da tutti i suoi incarichi. Otto se ne era già andato due anni prima. Per evitare che le dimissioni di Gregor provocassero una frattura del partito, Hitler non esitò a a trattarlo come un infame traditore. In un libro sulla Nascita del Terzo Reich (Mondadori, 2003), uno storico inglese, Richard J. Evans, scrive che la campagna di Hitler contro Stra sser ricorda quella di Stalin contro Trotsky.
Ugo Spirito, fascista comunista, teorico dell’economia corporativa
risponde sergio Romano
Ho trovato una citazione di Ugo Spirito che assimilava il suo pensiero a quello di Otto e Gregor Strasser, che rappresentavano l’estrema sinistra nel partito Nsdap e avevano messo in difficoltà il Führer prima che, col suo carisma, avesse la prevalenza nel partito e si sbarazzasse dei due fratelli. Il filosofo aretino non mette in contrapposizione l’individuo e la collettività, ma mi pare improprio definirlo di sinistra. Ha avuto qualche effetto sulla politica di qualche partito o movimento?
Giampaolo Grulli
Caro Grulli,
Ugo Spirito fu uno dei migliori allievi di Giovanni Gentile, ma si allontanò in parte dal suo insegnamento per creare una nuova scuola filosofica che definì «problematicismo». Ma la ragione della sua notorietà, al di fuori del mondo strettamente accademico, tuttavia fu la sua appassionata adesione allo Stato corporativo, divenuto, dopo la grande crisi del 1929, il più ambizioso progetto di Mussolini. Spirito ne dette una interpretazione radicale. Al Convegno di studi sindacali e corporativi, che si tenne a Ferrara nel maggio del 1932, esortò il governo ad approfittare della crisi del capitalismo per andare al di là delle proprie intenzioni originarie e puntare verso la creazione della «corporazione proprietaria»: un sistema economico in cui la proprietà della impresa sarebbe stata trasferita alla particolare corporazione in cui la sua attività era stata classificata. Era evidente che un tale programma sarebbe stato possibile soltanto grazie al capovolgimento della filosofia economica del Paese e a un massiccio esproprio di industrie private. Il fascismo conservatore reagì polemicamente, Spirito fu accusato di comunismo, la polemica sulla stampa durò per parecchio tempo e coinvolse anche Gentile, mentre Mussolini, secondo il suo stile in questi casi, lasciava fare per intervenire, se necessario, al momento opportuno.
Terminata la guerra, in circostanze nazionali e internazionali alquanto diverse, Spirito continuò a seguire con grande attenzione la evoluzioni dei regimi comunisti. Fece viaggi in Unione Sovietica e in Cina, confrontò i due sistemi e sembrò particolarmente interessato da ciò che accadeva allora nella Repubblica popolare cinese. Non è sorprendente quindi che, negli anni Trenta, Spirito conoscesse le posizioni progressiste dei fratelli Strasser, Gregor e Otto. Gregor aveva fatto buoni studi, era stato farmacista e, dopo la guerra, aveva creato un gruppo paramilitare che gli aveva permesso di prendere contatto con Hitler. Verso la metà degli anni Venti, dopo la sua adesione al partito nazional-socialista, predicava un vangelo economico in cui lo Stato sarebbe stato proprietario del 51% delle principali industrie e del 49% delle attività commerciali.
Era convinto che il successo politico del nazional-socialismo dipendesse dal rapporto che il partito avrebbe saputo creare con la classe operaia. Ma Hitler non intendeva legare le proprie fortune a una scelta limitata. Quando si accorse del diffuso malumore degli agricoltori, ne divenne il protettore. Quando constatò il malessere economico della piccola borghesia, si atteggiò a difensore dei suoi interessi. E non esitò infine a concludere un accordo con alcuni grandi industriali. Fu questa, per Gregor, la goccia che fece traboccare il vaso. Nel 1932, dopo uno scontro sulla strategia politica del partito, Strasser si dimise da tutti i suoi incarichi. Otto se ne era già andato due anni prima. Per evitare che le dimissioni di Gregor provocassero una frattura del partito, Hitler non esitò a a trattarlo come un infame traditore. In un libro sulla Nascita del Terzo Reich (Mondadori, 2003), uno storico inglese, Richard J. Evans, scrive che la campagna di Hitler contro Stra sser ricorda quella di Stalin contro Trotsky.
La Stampa 11.7.15
Nelle vie di Barcellona per capire Picasso
Ultimi giorni a Ferrara della mostra che ripercorre i primi passi del genio ai tempi di Gaudí e del Quatre Gats
di Marco Vallora
Un consiglio: non bisognerebbe perdersela, una mostra così inusuale e ben congegnata, che per di più ha la virtù di non sprecare, invano, il nome-allodola di Picasso, che pure è il perno occulto di questa rassegna, anche spettacolare, curata da vari specialisti spagnoli (non solo d’arte: ci sono anche urbanisti e storici della politica) e tra questi, pure Maria Teresa Ocana, che ha diretto per oltre 23 anni il museo Picasso di Barcellona e che ora è responsabile del Museo di Catalogna. Intanto e non soltanto perché presenta interessantissimi pittori di transizione tra Otto e Novecento, spagnoli, molto omaggiati in patria, ma da noi ingiustamente ignorati (qualche nome? Il magnifico disegnatore Ramon Casas. Il visionario dionisiaco Anglada Camarasa. Il misterioso Joaquim Mir ed il paesaggista neo-romantico Rusinol, tutto fontane arabeggianti, che ispirarono i Giardini di Spagna di De Falla).
Non soltanto perché illumina un importante momento storico ed esemplare della Spagna, tra guerre carliste, Alfonsi XII detronizzati ed Amedei di Savoia presi in prestito, tra l’albeggiare di rivoluzioni anarcheggianti, testimonianze d’un traumatico passaggio da una società rustico-cattolica, a un urbanesimo selvaggio, soprattutto in Barcellona: «Rosa di fuoco». Rutilantemente ripensata dagli architetti cosiddetti modernisti, Gaudí in testa, che è presente in mostra con la sua rivoluzionaria maquette, a testa rivoltata, tra pesi e piombini, della struttura portante della Sagrada Familia. E con degli specchi neo-barocchi e tutte curve, che avrebbero certo ispirato un Mollino. Una società morbida, decadente, «volage» come le baudleriane dame languidamente distese e bistrate di Anglada Camarasa, sostanziate di sole piume ed aigrettes? Macché: la mostra, che pure evidenzia, spettacolarmente, assorte lettrici, sterili aristocratiche sfinite dalla lussuria del ballo, morfinomani dalla mano d’artiglio e donne perdute nel peccato, non dimenticata di mostrare anche l’altro lato d’una società, che oscilla tra Modernismo e Noucentismo, ma soprattutto tra conservatorismo bigotto, della Lliga Regionalista, e vagiti rivoluzionari del Catalanismo, repubblicano e federalista. Per finire poi con le impressionanti documentazioni-cartoline della cosiddetta «settimana tragica», del 1909, tra barricate, incendi di chiese, torture e violenze in strada. Certo, tutto ruota intorno alla versione ispanica del cabaret parigino Le Chat noir, che qui diventa El Quatre Gats, ed è un’istituzione per gli artisti che vi soggiornano, e danno la prova della loro capacità di ritrattisti e caricaturisti. Ma anche per musicisti, letterati, pensatori, primo fra tutti quel geniale Eugenio d’Ors, riscopritore di El Greco, che suggerisce il nome fantastico di questo cabaret, che non scimmiotta soltanto Parigi, ma s’abbevera del proprio folklore locale. Anche se alcuni degli artisti di casa (in testa quello scuro e nichilista Isidre Nonell, accusato di disfattismo dai critici reazionari, grafico infallibile e pioniere di quella poetica dei derelitti e dei gitani, che si sarebbe riversata nel Picasso del periodo-saltimbanchi) sono abituati ad un pendolarismo Barcellona-Parigi, per fuggire il provincialismo ispanico. Pendolarismo nevrotico, che poi il giovane, disorientato Picasso, in fuga dal severo padre pittore (qui, per distinguersi si firma, ancora, Pablo Ruiz Picasso) avrebbe emulato, nutrendosi di Toulouse-Lautrec (ed ecco il periodo blu, venoso: imbibito d’assenzio perverso) di Puvis de Chavannes, di Daumier ma anche di Nonell e di Casas. Ecco perché è importante la mostra: perché combatte i luoghi comuni d’un Picasso reuccio d’avanguardia, nato armato dal nulla, mentre invece lo vediamo qui imbibito di storia e di cultura patria, in drammatica ricerca della sua strada.
Nelle vie di Barcellona per capire Picasso
Ultimi giorni a Ferrara della mostra che ripercorre i primi passi del genio ai tempi di Gaudí e del Quatre Gats
di Marco Vallora
Un consiglio: non bisognerebbe perdersela, una mostra così inusuale e ben congegnata, che per di più ha la virtù di non sprecare, invano, il nome-allodola di Picasso, che pure è il perno occulto di questa rassegna, anche spettacolare, curata da vari specialisti spagnoli (non solo d’arte: ci sono anche urbanisti e storici della politica) e tra questi, pure Maria Teresa Ocana, che ha diretto per oltre 23 anni il museo Picasso di Barcellona e che ora è responsabile del Museo di Catalogna. Intanto e non soltanto perché presenta interessantissimi pittori di transizione tra Otto e Novecento, spagnoli, molto omaggiati in patria, ma da noi ingiustamente ignorati (qualche nome? Il magnifico disegnatore Ramon Casas. Il visionario dionisiaco Anglada Camarasa. Il misterioso Joaquim Mir ed il paesaggista neo-romantico Rusinol, tutto fontane arabeggianti, che ispirarono i Giardini di Spagna di De Falla).
Non soltanto perché illumina un importante momento storico ed esemplare della Spagna, tra guerre carliste, Alfonsi XII detronizzati ed Amedei di Savoia presi in prestito, tra l’albeggiare di rivoluzioni anarcheggianti, testimonianze d’un traumatico passaggio da una società rustico-cattolica, a un urbanesimo selvaggio, soprattutto in Barcellona: «Rosa di fuoco». Rutilantemente ripensata dagli architetti cosiddetti modernisti, Gaudí in testa, che è presente in mostra con la sua rivoluzionaria maquette, a testa rivoltata, tra pesi e piombini, della struttura portante della Sagrada Familia. E con degli specchi neo-barocchi e tutte curve, che avrebbero certo ispirato un Mollino. Una società morbida, decadente, «volage» come le baudleriane dame languidamente distese e bistrate di Anglada Camarasa, sostanziate di sole piume ed aigrettes? Macché: la mostra, che pure evidenzia, spettacolarmente, assorte lettrici, sterili aristocratiche sfinite dalla lussuria del ballo, morfinomani dalla mano d’artiglio e donne perdute nel peccato, non dimenticata di mostrare anche l’altro lato d’una società, che oscilla tra Modernismo e Noucentismo, ma soprattutto tra conservatorismo bigotto, della Lliga Regionalista, e vagiti rivoluzionari del Catalanismo, repubblicano e federalista. Per finire poi con le impressionanti documentazioni-cartoline della cosiddetta «settimana tragica», del 1909, tra barricate, incendi di chiese, torture e violenze in strada. Certo, tutto ruota intorno alla versione ispanica del cabaret parigino Le Chat noir, che qui diventa El Quatre Gats, ed è un’istituzione per gli artisti che vi soggiornano, e danno la prova della loro capacità di ritrattisti e caricaturisti. Ma anche per musicisti, letterati, pensatori, primo fra tutti quel geniale Eugenio d’Ors, riscopritore di El Greco, che suggerisce il nome fantastico di questo cabaret, che non scimmiotta soltanto Parigi, ma s’abbevera del proprio folklore locale. Anche se alcuni degli artisti di casa (in testa quello scuro e nichilista Isidre Nonell, accusato di disfattismo dai critici reazionari, grafico infallibile e pioniere di quella poetica dei derelitti e dei gitani, che si sarebbe riversata nel Picasso del periodo-saltimbanchi) sono abituati ad un pendolarismo Barcellona-Parigi, per fuggire il provincialismo ispanico. Pendolarismo nevrotico, che poi il giovane, disorientato Picasso, in fuga dal severo padre pittore (qui, per distinguersi si firma, ancora, Pablo Ruiz Picasso) avrebbe emulato, nutrendosi di Toulouse-Lautrec (ed ecco il periodo blu, venoso: imbibito d’assenzio perverso) di Puvis de Chavannes, di Daumier ma anche di Nonell e di Casas. Ecco perché è importante la mostra: perché combatte i luoghi comuni d’un Picasso reuccio d’avanguardia, nato armato dal nulla, mentre invece lo vediamo qui imbibito di storia e di cultura patria, in drammatica ricerca della sua strada.
Corriere 11.7.15
E il Partito scopre la minaccia degli speculatori
La polizia cerca chi ha puntato al ribasso. Le mosse del governo e le attese sui tassi
di Guido Santevecchi
PECHINO In questi giorni la Borsa in Cina non conosce la normalità: o crolla o fa record al rialzo. Ieri a Shanghai il Composite Index è salito del 4,54%, dopo il balzo del 5,76 di giovedì che aveva realizzato l’incremento più alto in una sola seduta dal 2009. Le due giornate sommate segnano la crescita consecutiva più forte dal 2008. E seguono il mercoledì della grande paura, quando Shanghai aveva perso il 5,9%.
L’agenzia «Xinhua», che sta facendo più il tifo che informazione, ha lanciato un tweet sportivo con un saltatore dell’asta sotto il titolo «Abbagliante ripartenza». Giovedì aveva utilizzato la foto di un missile.
È l’inizio della riscossa dopo un mese di caduta che ha bruciato circa tremila miliardi di dollari di capitalizzazione e gettato nel panico 90 milioni di piccoli investitori? Ora viene il dubbio che parte del panico sia stato prodotto proprio dall’eccesso di reazione del governo: sospensione della quotazione per metà dei titoli, promessa di «ampia iniezione di liquidità» da parte della Banca centrale, divieto di vendere per sei mesi a chi detiene più del 5% di un pacchetto azionario. È stata scatenata anche la polizia in una caccia agli short sellers «colpevoli di operazioni malevole».
Nel fine settimana si attendono altre manovre della Banca centrale, da un nuovo taglio dei tassi (il quinto da novembre) a ulteriore liquidità. Il Partito-Stato non può permettersi di perdere questa partita in Borsa: sarebbe la prima sconfitta grave da decenni del suo sistema di pianificazione.
Il libero mercato può attendere. Ma tutto sommato, bisogna anche ricordare che se dal 15 giugno la Borsa di Shanghai (e quella secondaria di Shenzhen) hanno perso oltre il 30 per cento del loro valore, nei dodici mesi precedenti avevano guadagnato il 150 per cento. Almeno fino alla riprova di lunedì prossimo, la situazione è stata puntellata. Anche Hong Kong ha ripreso il 5,8% nelle ultime due sedute della settimana.
Il governo, senza citare la Borsa, dice che ora bisogna concentrarsi sulla crescita: stanno per arrivare i dati sul secondo trimestre di Pil.
E il Partito scopre la minaccia degli speculatori
La polizia cerca chi ha puntato al ribasso. Le mosse del governo e le attese sui tassi
di Guido Santevecchi
PECHINO In questi giorni la Borsa in Cina non conosce la normalità: o crolla o fa record al rialzo. Ieri a Shanghai il Composite Index è salito del 4,54%, dopo il balzo del 5,76 di giovedì che aveva realizzato l’incremento più alto in una sola seduta dal 2009. Le due giornate sommate segnano la crescita consecutiva più forte dal 2008. E seguono il mercoledì della grande paura, quando Shanghai aveva perso il 5,9%.
L’agenzia «Xinhua», che sta facendo più il tifo che informazione, ha lanciato un tweet sportivo con un saltatore dell’asta sotto il titolo «Abbagliante ripartenza». Giovedì aveva utilizzato la foto di un missile.
È l’inizio della riscossa dopo un mese di caduta che ha bruciato circa tremila miliardi di dollari di capitalizzazione e gettato nel panico 90 milioni di piccoli investitori? Ora viene il dubbio che parte del panico sia stato prodotto proprio dall’eccesso di reazione del governo: sospensione della quotazione per metà dei titoli, promessa di «ampia iniezione di liquidità» da parte della Banca centrale, divieto di vendere per sei mesi a chi detiene più del 5% di un pacchetto azionario. È stata scatenata anche la polizia in una caccia agli short sellers «colpevoli di operazioni malevole».
Nel fine settimana si attendono altre manovre della Banca centrale, da un nuovo taglio dei tassi (il quinto da novembre) a ulteriore liquidità. Il Partito-Stato non può permettersi di perdere questa partita in Borsa: sarebbe la prima sconfitta grave da decenni del suo sistema di pianificazione.
Il libero mercato può attendere. Ma tutto sommato, bisogna anche ricordare che se dal 15 giugno la Borsa di Shanghai (e quella secondaria di Shenzhen) hanno perso oltre il 30 per cento del loro valore, nei dodici mesi precedenti avevano guadagnato il 150 per cento. Almeno fino alla riprova di lunedì prossimo, la situazione è stata puntellata. Anche Hong Kong ha ripreso il 5,8% nelle ultime due sedute della settimana.
Il governo, senza citare la Borsa, dice che ora bisogna concentrarsi sulla crescita: stanno per arrivare i dati sul secondo trimestre di Pil.
Corriere 11.7.15
Il capitalismo alla pechinese: la Borsa funziona solo se cresce
sulla Borsa cinese La rete di Stato
Le contraddizioni del capitalismo alla pechinese: il mercato va bene finché cresce Il peso abnorme dei gruppi pubblici
di Francesco Daveri e Francesco Giavazzi
Quando nell’ultimo mese la Borsa di Shanghai è crollata del 30 per cento, dopo un rialzo del 150 per cento dei dodici mesi precedenti, il governo cinese ha chiesto l’intervento di Xiao Gang, il capo della Consob cinese. È il capitalismo alla pechinese: va bene il mercato fino a che il segno è positivo. Se invece il mercato porta con sé il segno meno (nell’economia, come in Borsa), le cose cambiano.
In Cina c’è un signore, sconosciuto alla più parte degli occidentali, che in questi giorni di grande instabilità sui mercati sta salvando il suo posto di lavoro e — forse — anche il suo paese. Il suo nome è Xiao Gang ed è il capo della China Securities Regulatory Commission, la Consob cinese. Da noi il presidente dell’autorità che regola i mercati finanziari è il garante della trasparenza delle informazioni a delle transazioni in Borsa. Il suo compito finisce lì. In Cina il compito del regolatore è più difficile perché da lui il governo si aspetta che garantisca il rapido sviluppo del mercato dei capitali: cioè vuole risultati, non il rispetto delle regole.
È a Xiao Gang che il governo cinese ha guardato quando nell’ultimo mese la borsa di Shanghai è crollata del 30 per cento. Un crollo che peraltro va considerato alla luce del rialzo del 150 per cento dei dodici mesi precedenti. Che ha fatto Xiao Gang per non perdere il posto? Ha sospeso dalla quotazione più di metà delle società del listino (in gran parte imprese di Stato) e ha vietato ai detentori di importanti pacchetti azionari di vendere i titoli in loro possesso almeno per sei mesi. Ha poi chiesto e ottenuto dalla banca centrale cinese il rifinanziamento della società (di proprietà dell’autorità da lui presieduta) che fornisce liquidità alle aziende che fanno margin trading (la pratica rischiosa di comprare azioni a debito). Una specie di Quantitative Easing super-focalizzato ad aiutare i soggetti che sul mercato hanno più acuto bisogno di liquidità per non andare in bancarotta. E infine, come riportato dal Wall Street Journal , ad accrescere l’efficacia delle misure messe in campo, sui social media sono iniziate a circolare notizie sul fatto che la polizia cinese aveva acceso i fari sulla pratica delle vendite allo scoperto. A buon intenditor poche parole: gli operatori che negli ultimi giorni avevano fatto profitti vendendo e quindi uscendo dal mercato hanno capito che bisognava ricominciare rapidamente a comprare per non entrare nella lista nera degli speculatori.
È il capitalismo alla pechinese: va bene il mercato fino a che il segno è più. Se invece il mercato porta con sé il segno meno (nell’economia, come in borsa), le cose cambiano. Dopo aver auspicato l’arricchimento individuale fin dai tempi di Deng Xiaoping, il governo cinese non può permettersi che la libertà economica si disgiunga dall’arricchimento. Nel 2008-09, dopo il fallimento di Lehman, il governo cinese iniettò in pochi giorni l’equivalente di 586 miliardi di dollari in nuove infrastrutture, salvataggi e altri aiuti pubblici all’economia, e soprattutto indusse le aziende di Stato a indebitarsi. Negli ultimi anni, per far fronte a quei debiti le ha indotte a quotarsi in borsa (senza però che lo Stato ne perdesse il controllo). Una strategia che per funzionare ha bisogno di una borsa che cresca ed attragga risparmio privato. Quando la borsa ha cambiato segno, mercato e regole sono stati messi rapidamente da parte. Ritorna il dirigismo protezionista che almeno nel brevissimo termine ha però funzionato: i divieti e le minacce degli ultimi giorni hanno prodotto un artificioso ma istantaneo rimbalzo vicino al 15 per cento. Solo il tempo mostrerà se i divieti sono compatibili con la prosecuzione di una crescita normale dell’economia (più bassa che in passato e più centrata sullo sviluppo dei consumi e del mercato interno) e con lo sviluppo di veri mercati dei capitali in Cina.
Dietro ciò che accade sul mercato è in atto però una battaglia di più lungo respiro. Oggi le imprese di Stato soffocano il mercato finanziario cinese. Rappresentano circa il 30 per cento del pil, ma oltre il 70 per cento dei prestiti delle banche. Ai privati rimangono le briciole e un costo del denaro che raggiunge anche il 30 per cento. Riequilibrare i flussi di credito facendo sì che una quota maggiore vada alle imprese private, di gran lunga più efficienti di quelle di Stato, è una delle condizioni, forse la più importante, per rimettere la Cina su un sentiero di crescita sostenibile. Non sarebbe da stupirsi se il risultato delle attuali difficoltà delle imprese di Stato — che con una borsa in discesa fanno più fatica a sostituire debiti con capitale — fosse l’occasione che il presidente Xi Jinping aspettava per ridurre il loro peso politico prima ancora che economico. Insomma anziché una fonte di instabilità lo scoppio della bolla azionaria cinese potrebbe essere l’occasione per una «pulizia» del mercato finanziario, propedeutica ad una ripresa della crescita .
Il capitalismo alla pechinese: la Borsa funziona solo se cresce
sulla Borsa cinese La rete di Stato
Le contraddizioni del capitalismo alla pechinese: il mercato va bene finché cresce Il peso abnorme dei gruppi pubblici
di Francesco Daveri e Francesco Giavazzi
Quando nell’ultimo mese la Borsa di Shanghai è crollata del 30 per cento, dopo un rialzo del 150 per cento dei dodici mesi precedenti, il governo cinese ha chiesto l’intervento di Xiao Gang, il capo della Consob cinese. È il capitalismo alla pechinese: va bene il mercato fino a che il segno è positivo. Se invece il mercato porta con sé il segno meno (nell’economia, come in Borsa), le cose cambiano.
In Cina c’è un signore, sconosciuto alla più parte degli occidentali, che in questi giorni di grande instabilità sui mercati sta salvando il suo posto di lavoro e — forse — anche il suo paese. Il suo nome è Xiao Gang ed è il capo della China Securities Regulatory Commission, la Consob cinese. Da noi il presidente dell’autorità che regola i mercati finanziari è il garante della trasparenza delle informazioni a delle transazioni in Borsa. Il suo compito finisce lì. In Cina il compito del regolatore è più difficile perché da lui il governo si aspetta che garantisca il rapido sviluppo del mercato dei capitali: cioè vuole risultati, non il rispetto delle regole.
È a Xiao Gang che il governo cinese ha guardato quando nell’ultimo mese la borsa di Shanghai è crollata del 30 per cento. Un crollo che peraltro va considerato alla luce del rialzo del 150 per cento dei dodici mesi precedenti. Che ha fatto Xiao Gang per non perdere il posto? Ha sospeso dalla quotazione più di metà delle società del listino (in gran parte imprese di Stato) e ha vietato ai detentori di importanti pacchetti azionari di vendere i titoli in loro possesso almeno per sei mesi. Ha poi chiesto e ottenuto dalla banca centrale cinese il rifinanziamento della società (di proprietà dell’autorità da lui presieduta) che fornisce liquidità alle aziende che fanno margin trading (la pratica rischiosa di comprare azioni a debito). Una specie di Quantitative Easing super-focalizzato ad aiutare i soggetti che sul mercato hanno più acuto bisogno di liquidità per non andare in bancarotta. E infine, come riportato dal Wall Street Journal , ad accrescere l’efficacia delle misure messe in campo, sui social media sono iniziate a circolare notizie sul fatto che la polizia cinese aveva acceso i fari sulla pratica delle vendite allo scoperto. A buon intenditor poche parole: gli operatori che negli ultimi giorni avevano fatto profitti vendendo e quindi uscendo dal mercato hanno capito che bisognava ricominciare rapidamente a comprare per non entrare nella lista nera degli speculatori.
È il capitalismo alla pechinese: va bene il mercato fino a che il segno è più. Se invece il mercato porta con sé il segno meno (nell’economia, come in borsa), le cose cambiano. Dopo aver auspicato l’arricchimento individuale fin dai tempi di Deng Xiaoping, il governo cinese non può permettersi che la libertà economica si disgiunga dall’arricchimento. Nel 2008-09, dopo il fallimento di Lehman, il governo cinese iniettò in pochi giorni l’equivalente di 586 miliardi di dollari in nuove infrastrutture, salvataggi e altri aiuti pubblici all’economia, e soprattutto indusse le aziende di Stato a indebitarsi. Negli ultimi anni, per far fronte a quei debiti le ha indotte a quotarsi in borsa (senza però che lo Stato ne perdesse il controllo). Una strategia che per funzionare ha bisogno di una borsa che cresca ed attragga risparmio privato. Quando la borsa ha cambiato segno, mercato e regole sono stati messi rapidamente da parte. Ritorna il dirigismo protezionista che almeno nel brevissimo termine ha però funzionato: i divieti e le minacce degli ultimi giorni hanno prodotto un artificioso ma istantaneo rimbalzo vicino al 15 per cento. Solo il tempo mostrerà se i divieti sono compatibili con la prosecuzione di una crescita normale dell’economia (più bassa che in passato e più centrata sullo sviluppo dei consumi e del mercato interno) e con lo sviluppo di veri mercati dei capitali in Cina.
Dietro ciò che accade sul mercato è in atto però una battaglia di più lungo respiro. Oggi le imprese di Stato soffocano il mercato finanziario cinese. Rappresentano circa il 30 per cento del pil, ma oltre il 70 per cento dei prestiti delle banche. Ai privati rimangono le briciole e un costo del denaro che raggiunge anche il 30 per cento. Riequilibrare i flussi di credito facendo sì che una quota maggiore vada alle imprese private, di gran lunga più efficienti di quelle di Stato, è una delle condizioni, forse la più importante, per rimettere la Cina su un sentiero di crescita sostenibile. Non sarebbe da stupirsi se il risultato delle attuali difficoltà delle imprese di Stato — che con una borsa in discesa fanno più fatica a sostituire debiti con capitale — fosse l’occasione che il presidente Xi Jinping aspettava per ridurre il loro peso politico prima ancora che economico. Insomma anziché una fonte di instabilità lo scoppio della bolla azionaria cinese potrebbe essere l’occasione per una «pulizia» del mercato finanziario, propedeutica ad una ripresa della crescita .
Corriere 11.7.15
Srebrenica
Vent’anni fa il massacro di 8.000 uomini: un luogo che richiama Auschwitz
di Donatella Di Cesare
Dove eravamo l’11 luglio del 1995? Molti di noi hanno difficoltà a ricordarlo. In quel giorno d’estate di vent’anni fa è caduta Srebrenica, ed è iniziato il massacro. Così, fra la disattenzione dell’opinione pubblica, le responsabilità di Usa, Francia e Gran Bretagna, e le colpe dell’Onu, è stata scritta l’ultima atroce pagina del libro nero del Novecento.
Stretta fra le gole dei monti, nella Bosnia orientale, Srebrenica era stata dichiarata nel 1993 safe haven , «zona protetta». I musulmani bosniaci non esitarono a cercarvi riparo in migliaia.
D’altronde, già allora, si era materializzato lo spettro dei campi. Nella ex Jugoslavia, solcata dalla guerra, campi di concentramento erano stati creati ovunque: stadi, miniere, depositi, aree dismesse. Il più noto è quello di Omarska. Ai miliziani serbi non mancò la fantasia. Alle torture tradizionali aggiunsero nuove sevizie: ingestione di olio da motori, evirazione, cannibalismo forzato, necrofilia. Le donne furono sottoposte a stupri collettivi e sistematici. Il giornalista americano Roy Gutman denunciò, ma restò inascoltato.
È in tale contesto che va vista Srebrenica, una zona protetta che non tardò a rivelarsi un grande campo. Per quasi tre anni i rifugiati sopravvissero in quella valle tetra, fra stenti e isolamento, fin quando, malgrado la presenza di tre compagnie olandesi di caschi blu, l’11 luglio 1995 i militari serbo-bosniaci, guidati da Ratko Mladic, che da tempo circondavano l’enclave, entrarono a Srebrenica. Chiesero la consegna di tutti i maschi validi. E la benzina per evacuarli. Dalle ultime rivelazioni emerge che i caschi blu, senza troppe domande, fornirono 30 mila litri. I satelliti-spia fotografarono ogni cosa, ma i raid della Nato si fecero attendere invano.
Il massacro richiese alcuni giorni. E avvenne nelle frazioni intorno. Nel campo di Bratunac i giovani musulmani furono ordinati in due file parallele e abbattuti per lo più a randellate. Ma c’era chi, tra i massacratori, preferì conficcare l’ascia nella schiena, chi tagliare la gola. La sera, dei 400 da eliminare, restavano ancora 296; nella notte furono mandati davanti a un plotone di esecuzione.
Mentre delle oltre 8.000 vittime si cercano ancora i resti (i corpi di almeno 1.200 non sono stati rinvenuti), si discutono due grandi questioni. La prima è quella della definizione del massacro. Si è trattato di «genocidio»? E di che tipo?
L’Onu è apparso titubante. E ora, a fermare la già travagliata risoluzione, giunge il veto della Russia. Al contrario, il 2 agosto 2001 il Tribunale penale internazionale dell’Aia ha riconosciuto nel massacro di Srebrenica un «genocidio». Questo giudizio, confermato in appello il 19 aprile 2004, si basa sulla evidente «intenzione» che ha guidato la «pulizia etnica»: quella di «distruggere almeno una parte sostanziale di un gruppo protetto». Se dunque, dal punto di vista quantitativo, non si può avvicinare Srebrenica al massacro degli 800.000 tutsi in Ruanda, si sottolinea però la continuità tra pulizia etnica e genocidio. Distruggere per sradicare: sta qui la continuità. Non si uccide, ad esempio, per sottomettere, bensì per eliminare una intera comunità da un territorio. Al di là delle cifre, quel che conta è la volontà di purificare uno spazio dalla presenza di un «altro» considerato indesiderabile, pericoloso, ingombrante. È insomma la volontà di decidere con chi coabitare che spinge, in nome di un «noi» etnicamente puro, a un uso della chirurgia in politica.
La seconda grande questione riguarda invece il giudizio filosofico-politico. È vero che i massacratori non disdegnarono il faccia a faccia, che i carnefici, a differenza di quel che avvenne nelle officine hitleriane, cercarono la vicinanza delle vittime. Si scagliarono contro l’inquilino della porta accanto, il collega di lavoro. Spesso martoriarono e mutilarono attingendo, nel lavoro sanguinario, a pratiche già in uso. Ma questo non deve far credere che Srebrenica abbia rappresentato il riemergere della barbarie e dell’odio atavico, né che sia stata semplicemente la conseguenza di un piano di spartizione, di una ridefinizione dei nuovi Stati europei che stavano per sorgere.
Srebrenica è stato un territorio, posto fuori dall’ordinamento normale, dove (purtroppo sotto l’egida iniziale dell’Onu) sono stati internati, privati dei diritti, e infine eliminati, essere umani ritenuti superflui. Perciò si inscrive nell’universo concentrazionario. Il nome di Srebrenica segna, dopo Auschwitz, l’inquietante ritorno del campo nel paesaggio politico dell’Europa.
Srebrenica
Vent’anni fa il massacro di 8.000 uomini: un luogo che richiama Auschwitz
di Donatella Di Cesare
Dove eravamo l’11 luglio del 1995? Molti di noi hanno difficoltà a ricordarlo. In quel giorno d’estate di vent’anni fa è caduta Srebrenica, ed è iniziato il massacro. Così, fra la disattenzione dell’opinione pubblica, le responsabilità di Usa, Francia e Gran Bretagna, e le colpe dell’Onu, è stata scritta l’ultima atroce pagina del libro nero del Novecento.
Stretta fra le gole dei monti, nella Bosnia orientale, Srebrenica era stata dichiarata nel 1993 safe haven , «zona protetta». I musulmani bosniaci non esitarono a cercarvi riparo in migliaia.
D’altronde, già allora, si era materializzato lo spettro dei campi. Nella ex Jugoslavia, solcata dalla guerra, campi di concentramento erano stati creati ovunque: stadi, miniere, depositi, aree dismesse. Il più noto è quello di Omarska. Ai miliziani serbi non mancò la fantasia. Alle torture tradizionali aggiunsero nuove sevizie: ingestione di olio da motori, evirazione, cannibalismo forzato, necrofilia. Le donne furono sottoposte a stupri collettivi e sistematici. Il giornalista americano Roy Gutman denunciò, ma restò inascoltato.
È in tale contesto che va vista Srebrenica, una zona protetta che non tardò a rivelarsi un grande campo. Per quasi tre anni i rifugiati sopravvissero in quella valle tetra, fra stenti e isolamento, fin quando, malgrado la presenza di tre compagnie olandesi di caschi blu, l’11 luglio 1995 i militari serbo-bosniaci, guidati da Ratko Mladic, che da tempo circondavano l’enclave, entrarono a Srebrenica. Chiesero la consegna di tutti i maschi validi. E la benzina per evacuarli. Dalle ultime rivelazioni emerge che i caschi blu, senza troppe domande, fornirono 30 mila litri. I satelliti-spia fotografarono ogni cosa, ma i raid della Nato si fecero attendere invano.
Il massacro richiese alcuni giorni. E avvenne nelle frazioni intorno. Nel campo di Bratunac i giovani musulmani furono ordinati in due file parallele e abbattuti per lo più a randellate. Ma c’era chi, tra i massacratori, preferì conficcare l’ascia nella schiena, chi tagliare la gola. La sera, dei 400 da eliminare, restavano ancora 296; nella notte furono mandati davanti a un plotone di esecuzione.
Mentre delle oltre 8.000 vittime si cercano ancora i resti (i corpi di almeno 1.200 non sono stati rinvenuti), si discutono due grandi questioni. La prima è quella della definizione del massacro. Si è trattato di «genocidio»? E di che tipo?
L’Onu è apparso titubante. E ora, a fermare la già travagliata risoluzione, giunge il veto della Russia. Al contrario, il 2 agosto 2001 il Tribunale penale internazionale dell’Aia ha riconosciuto nel massacro di Srebrenica un «genocidio». Questo giudizio, confermato in appello il 19 aprile 2004, si basa sulla evidente «intenzione» che ha guidato la «pulizia etnica»: quella di «distruggere almeno una parte sostanziale di un gruppo protetto». Se dunque, dal punto di vista quantitativo, non si può avvicinare Srebrenica al massacro degli 800.000 tutsi in Ruanda, si sottolinea però la continuità tra pulizia etnica e genocidio. Distruggere per sradicare: sta qui la continuità. Non si uccide, ad esempio, per sottomettere, bensì per eliminare una intera comunità da un territorio. Al di là delle cifre, quel che conta è la volontà di purificare uno spazio dalla presenza di un «altro» considerato indesiderabile, pericoloso, ingombrante. È insomma la volontà di decidere con chi coabitare che spinge, in nome di un «noi» etnicamente puro, a un uso della chirurgia in politica.
La seconda grande questione riguarda invece il giudizio filosofico-politico. È vero che i massacratori non disdegnarono il faccia a faccia, che i carnefici, a differenza di quel che avvenne nelle officine hitleriane, cercarono la vicinanza delle vittime. Si scagliarono contro l’inquilino della porta accanto, il collega di lavoro. Spesso martoriarono e mutilarono attingendo, nel lavoro sanguinario, a pratiche già in uso. Ma questo non deve far credere che Srebrenica abbia rappresentato il riemergere della barbarie e dell’odio atavico, né che sia stata semplicemente la conseguenza di un piano di spartizione, di una ridefinizione dei nuovi Stati europei che stavano per sorgere.
Srebrenica è stato un territorio, posto fuori dall’ordinamento normale, dove (purtroppo sotto l’egida iniziale dell’Onu) sono stati internati, privati dei diritti, e infine eliminati, essere umani ritenuti superflui. Perciò si inscrive nell’universo concentrazionario. Il nome di Srebrenica segna, dopo Auschwitz, l’inquietante ritorno del campo nel paesaggio politico dell’Europa.
il Fatto 11.7.15
La guerra narrata dalla Pinotti
risponde Furio Colombo
CARO COLOMBO, sono stato colto di sorpresa da una dichiarazione del ministro della Difesa Roberta Pinotti. Ha detto: “Non è vero che l’Isis sta vincendo. Abbiamo bisogno di una contro-narrazione”. Che cos’è, un’arma segreta?
FERRUCCIO
È UN LINGUAGGIO alla moda che, al di fuori della critica letteraria, non ha alcun significato. Infatti sia la “narrazione” (molto ben fatta e molto raccapricciante) del Califfato, sia la contro-narrazione burocratica a cui pensa di dare vita la Pinotti, non contano niente. Ciò che conta è se l’Iraq riuscirà a riprendere Ramadi o se Kobane resterà in mano ai curdi. Il resto si chiama propaganda. Più serio invece è ciò che la Pinotti dice sul “come fare la guerra del Mediterraneo”, quella che a lei sta a cuore. È vero che la Pinotti è, lei stessa, autrice di una deliberata confusione. Certe volte parla di sommergibili, certe volte no. Può capitare che parli di “distruggere” (ma cambia i verbi facilmente), alterna fatti decisi e approvati (il Consiglio dei ministri italiano ha dato il via alla strana operazione EUnavfor) a una solidarietà vacua e inconsistente (il sì dell’Ue), ad attese lontane (il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che non ha mai esaminato il caso) e a ben quattro diversi consensi di quattro separati punti di forza o di diverso governo, in Libia. Ma ogni volta l’intrepida ministro rimette la sua macchinetta degli eventi al presente e racconta come se fosse sul punto di aprire il fuoco. Per esempio (“Messaggero”, 6 luglio) la sorprendi a dire che si comincerà “con il dispiegamento delle navi e la raccolta di informazioni sulle imbarcazioni e le rotte degli scafisti”. Detto così, si direbbe che sono stati del tutto inutili anni di esperienza e conoscenza del fenomeno, inclusa l'iniziativa “Mare Nostrum” che, per salvare migliaia di migranti (come ha fatto) doveva sapere molto delle imbarcazioni e delle
rotte. Ma sentite la narrazione della Pinotti: “Le fasi ulteriori prevedono azioni di contrasto, con la possibilità di fermare i barconi in mare e individuare i luoghi di raccolta dei migranti”. Vengono cioè indicati 3 obiettivi diversi e non compatibili. “Contrasto” in gergo militare vuol dire impedire, dunque sparare. “Fermare” vuol dire prendere tempo per decidere se affondare o salvare. “Individuare i luoghi di raccolto dei migranti” vuol dire un lavoro di intelligence che non può non essere stato già fatto (da anni), e che è impossibile svolgere in alto mare mentre si confrontano una nave da guerra e un gommone. C’è una ragione per tutto ciò? Certo che c’è e il ministro lo narra con parole chiare e commosse: “Noi non possiamo accettare che gli scafisti sfruttino il dolore delle persone, guadagnando proventi altissimi impiegati poi chissà come” (accenno al rapporto fra scafisti e terrorismo). I dubbi che non si tratti di una vera guerra vengono subito fugati: “Impiegheremo droni, elicotteri, la portaerei Cavour. Ci sono una nave britannica, due tedesche, altri assetti di altre nazioni. Uomini e mezzi”. Poi abbiamo le risposte che contano: no, dalla Libia non abbiamo risposte ma occorre che ci sia presto la firma di tutte le parti. Sulla preparazione di intelligence la risposta è ovvia e semplice: È materia riservata. Altri obiettivi? La protezione dei nostri natanti e delle piattaforme petrolifere. Solo a questo punto viene fuori, nel giusto contesto, il numero di soldati: 7300 militari per la sicurezza interna ed esterna. Resta un vuoto, in questa e in ogni altra intervista: come si “contrastano” gli scafisti, senza mandare a fondo i migranti? E c’è proprio da essere così fieri che il comando di questa operazione, che non potrà essere senza vittime, sia stato affidato all’Italia?
La guerra narrata dalla Pinotti
risponde Furio Colombo
CARO COLOMBO, sono stato colto di sorpresa da una dichiarazione del ministro della Difesa Roberta Pinotti. Ha detto: “Non è vero che l’Isis sta vincendo. Abbiamo bisogno di una contro-narrazione”. Che cos’è, un’arma segreta?
FERRUCCIO
È UN LINGUAGGIO alla moda che, al di fuori della critica letteraria, non ha alcun significato. Infatti sia la “narrazione” (molto ben fatta e molto raccapricciante) del Califfato, sia la contro-narrazione burocratica a cui pensa di dare vita la Pinotti, non contano niente. Ciò che conta è se l’Iraq riuscirà a riprendere Ramadi o se Kobane resterà in mano ai curdi. Il resto si chiama propaganda. Più serio invece è ciò che la Pinotti dice sul “come fare la guerra del Mediterraneo”, quella che a lei sta a cuore. È vero che la Pinotti è, lei stessa, autrice di una deliberata confusione. Certe volte parla di sommergibili, certe volte no. Può capitare che parli di “distruggere” (ma cambia i verbi facilmente), alterna fatti decisi e approvati (il Consiglio dei ministri italiano ha dato il via alla strana operazione EUnavfor) a una solidarietà vacua e inconsistente (il sì dell’Ue), ad attese lontane (il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che non ha mai esaminato il caso) e a ben quattro diversi consensi di quattro separati punti di forza o di diverso governo, in Libia. Ma ogni volta l’intrepida ministro rimette la sua macchinetta degli eventi al presente e racconta come se fosse sul punto di aprire il fuoco. Per esempio (“Messaggero”, 6 luglio) la sorprendi a dire che si comincerà “con il dispiegamento delle navi e la raccolta di informazioni sulle imbarcazioni e le rotte degli scafisti”. Detto così, si direbbe che sono stati del tutto inutili anni di esperienza e conoscenza del fenomeno, inclusa l'iniziativa “Mare Nostrum” che, per salvare migliaia di migranti (come ha fatto) doveva sapere molto delle imbarcazioni e delle
rotte. Ma sentite la narrazione della Pinotti: “Le fasi ulteriori prevedono azioni di contrasto, con la possibilità di fermare i barconi in mare e individuare i luoghi di raccolta dei migranti”. Vengono cioè indicati 3 obiettivi diversi e non compatibili. “Contrasto” in gergo militare vuol dire impedire, dunque sparare. “Fermare” vuol dire prendere tempo per decidere se affondare o salvare. “Individuare i luoghi di raccolto dei migranti” vuol dire un lavoro di intelligence che non può non essere stato già fatto (da anni), e che è impossibile svolgere in alto mare mentre si confrontano una nave da guerra e un gommone. C’è una ragione per tutto ciò? Certo che c’è e il ministro lo narra con parole chiare e commosse: “Noi non possiamo accettare che gli scafisti sfruttino il dolore delle persone, guadagnando proventi altissimi impiegati poi chissà come” (accenno al rapporto fra scafisti e terrorismo). I dubbi che non si tratti di una vera guerra vengono subito fugati: “Impiegheremo droni, elicotteri, la portaerei Cavour. Ci sono una nave britannica, due tedesche, altri assetti di altre nazioni. Uomini e mezzi”. Poi abbiamo le risposte che contano: no, dalla Libia non abbiamo risposte ma occorre che ci sia presto la firma di tutte le parti. Sulla preparazione di intelligence la risposta è ovvia e semplice: È materia riservata. Altri obiettivi? La protezione dei nostri natanti e delle piattaforme petrolifere. Solo a questo punto viene fuori, nel giusto contesto, il numero di soldati: 7300 militari per la sicurezza interna ed esterna. Resta un vuoto, in questa e in ogni altra intervista: come si “contrastano” gli scafisti, senza mandare a fondo i migranti? E c’è proprio da essere così fieri che il comando di questa operazione, che non potrà essere senza vittime, sia stato affidato all’Italia?
Corriere 11.7.15
Perché le coppie gay vogliono sposarsi
di Maria Laura Rodotà
Siete mai stati a un matrimonio tra due uomini o due donne? Forse no, in Italia è vietato. E’ un peccato, per chi ama andare alle feste di nozze: le cerimonie sono commoventi, l’atmosfera è spesso euforica, la sensazione — anche dove è legale da tempo — è di partecipare a un evento pionieristico. Di contribuire a furia di brindisi a gettare le basi per un futuro migliore. Sono usate di rado, di questi tempi e in contesti ottimisti, espressioni come “gettare le basi” e “futuro migliore”. Ma servono a capire di cosa si parla quando si parla di uguaglianza matrimoniale. La maggior parte degli sposi gay, lesbiche, bisessuali vuole festeggiarsi ma soprattutto scambiarsi promesse, accettare diritti e doveri, creare una famiglia. Essere elementi integrati e normali della società in cui vivono. Non più individui marginali, e, come si dice ancora, tollerati.
Esempio. «Da quando ti frequento sono diventato molto più tollerante», spiegava tempo fa un noto giornalista a una compagna di lavoro convivente con una donna. La quale obiettava: «Cosa c’è da tollerare? Il rischio che mi baci al bar in orario protetto turbando bimbi benpensanti? L’idea che io mi sottragga alle logiche relazionali tradizionali mettendo tutti in imbarazzo?». E invece: c’è il caso che chi ha un forte legame non etero voglia avere una relazione tradizionale.
Per avere e dare sicurezza. Per usufruire delle agevolazioni sia burocratiche che fiscali di cui beneficiano coppie sposate e famiglie regolari, anche (e insomma (a) la reversibilità delle pensioni per le coppie stessosesso non sarebbe onerosa per l’Inps; e (b) provate voi da genitori non coniugati a fare il passaporto alla prole). Per fare, finalmente, una cosa seria, da adulti. Per tanti etero vissuta come un incubo (anche a ragione), per molte persone Lgbt, da sempre tagliate fuori, un traguardo, anche di pubblica dignità.
E molti italiani/e vanno all’estero, anche se in Italia le nozze non sono riconosciute. Ci sono B. e F. che si sono sposate in Spagna, è stato bello ma «pure il funzionario comunale iberico sudatissimo ti guarda come una poveraccia che arriva da un Paese arretrato». C’è Claudio Rossi Marcelli, che col marito Manlio ha una figliolanza tipo famiglia Bradford. Claudio scrive libri divertenti sulla sua famiglia (“Hello daddy” e l’ultimo “E il cuore salta un battito”, Mondadori) e si è unito civilmente in Comune a Ginevra, con famiglie emozionate e amici incravattati. C’è il nostro collega Stefano Bucci, autore anche lui di un bel libro autobiografico, «I veri amori sono diversi» (Marsilio), e protagonista, dopo le nozze a New York, di una battaglia legale per la registrazione in Italia. Stefano scrive sul matrimonio parole alte. Da sentirsi inadeguati, da buttarla con lui sul frivolo e sulle di liste di nozze. E’ un battibecco che da’ tutto il senso della battaglia per la «marriage equality». Tra chi ha fatto un matrimonio «normale» e ricorda con angoscia il negozio, l’imbarazzo nelle scelte, la sensazione di essere parte di un vuoto scambio simbolico. E chi, come Stefano, lo racconta come l’elemento allegramente materialista di un evento importante.
E poi ci sono i figli. I bambini con due papà e due mamme, da noi, sono tuttora ufficialmente strani. C’è chi non manda i figli a giocare nelle case di peccatori/trici (succede); chi così costringe a cambiare scuola (succede anche questo); chi proibisce nelle scuole innocenti libri per bambini più possibilisti della media (succede a Venezia, grazie al neosindaco Luigi Brugnaro). Ci sono mille problemi perché una delle mamme o dei papà non è genitore ai sensi di legge. E, se l’unione finisce male, e il genitore naturale è arrabbiato con l’ex, chi si è sentito madre o padre fino a quel momento magari non può più vedere quelli che sente suoi figli. Anche in questo, il matrimonio — e la conseguente possibilità di dirsi addio con delle regole — aiuta. Basta, per capire, vedere la fenomenale serie americana in onda in queste settimane, Transparent: una lesbica divorziata viene travolta dall’arrivo della figlia adolescente, che ha litigato con l’ex moglie/madre biologica. E, come tutte le figlie di separati, va a stare dall’altro genitore. La scena in cui sta la madre facendo l’amore con la nuova compagna ed è interrotta da una telefonata della pupa imbufalita ha valore universale per chiunque abbia prole, diciamo.
Diciamo, pure, che chi pensa al matrimonio è in genere grandicello/a (ha senso: negli Stati Uniti, dove da pochi giorni c’è il matrimonio per tutti, la maggioranza degli under 30 è favorevole; ma come principio, non perché puntino a prossime nozze, etero o lgbt che siano). E che — forse — le lunghe adolescenze di molti sono finite. E chi trova la sua persona (cit. Grey’s Anatomy), vorrebbe sposarsi. E vorrebbe il celebrante con fascia tricolore, e la lista, e la festa, e le zie accaldate con i ventagli, e una promessa di vita rispettabile e rispettata (a pensarci, in Italia il problema non è solo l’omofobia; è lo scarso rispetto in generale, di alcune leggi e del prossimo; forse ci si dovrebbe pensare su, qualunque sia lo stato civile).
Perché le coppie gay vogliono sposarsi
di Maria Laura Rodotà
Siete mai stati a un matrimonio tra due uomini o due donne? Forse no, in Italia è vietato. E’ un peccato, per chi ama andare alle feste di nozze: le cerimonie sono commoventi, l’atmosfera è spesso euforica, la sensazione — anche dove è legale da tempo — è di partecipare a un evento pionieristico. Di contribuire a furia di brindisi a gettare le basi per un futuro migliore. Sono usate di rado, di questi tempi e in contesti ottimisti, espressioni come “gettare le basi” e “futuro migliore”. Ma servono a capire di cosa si parla quando si parla di uguaglianza matrimoniale. La maggior parte degli sposi gay, lesbiche, bisessuali vuole festeggiarsi ma soprattutto scambiarsi promesse, accettare diritti e doveri, creare una famiglia. Essere elementi integrati e normali della società in cui vivono. Non più individui marginali, e, come si dice ancora, tollerati.
Esempio. «Da quando ti frequento sono diventato molto più tollerante», spiegava tempo fa un noto giornalista a una compagna di lavoro convivente con una donna. La quale obiettava: «Cosa c’è da tollerare? Il rischio che mi baci al bar in orario protetto turbando bimbi benpensanti? L’idea che io mi sottragga alle logiche relazionali tradizionali mettendo tutti in imbarazzo?». E invece: c’è il caso che chi ha un forte legame non etero voglia avere una relazione tradizionale.
Per avere e dare sicurezza. Per usufruire delle agevolazioni sia burocratiche che fiscali di cui beneficiano coppie sposate e famiglie regolari, anche (e insomma (a) la reversibilità delle pensioni per le coppie stessosesso non sarebbe onerosa per l’Inps; e (b) provate voi da genitori non coniugati a fare il passaporto alla prole). Per fare, finalmente, una cosa seria, da adulti. Per tanti etero vissuta come un incubo (anche a ragione), per molte persone Lgbt, da sempre tagliate fuori, un traguardo, anche di pubblica dignità.
E molti italiani/e vanno all’estero, anche se in Italia le nozze non sono riconosciute. Ci sono B. e F. che si sono sposate in Spagna, è stato bello ma «pure il funzionario comunale iberico sudatissimo ti guarda come una poveraccia che arriva da un Paese arretrato». C’è Claudio Rossi Marcelli, che col marito Manlio ha una figliolanza tipo famiglia Bradford. Claudio scrive libri divertenti sulla sua famiglia (“Hello daddy” e l’ultimo “E il cuore salta un battito”, Mondadori) e si è unito civilmente in Comune a Ginevra, con famiglie emozionate e amici incravattati. C’è il nostro collega Stefano Bucci, autore anche lui di un bel libro autobiografico, «I veri amori sono diversi» (Marsilio), e protagonista, dopo le nozze a New York, di una battaglia legale per la registrazione in Italia. Stefano scrive sul matrimonio parole alte. Da sentirsi inadeguati, da buttarla con lui sul frivolo e sulle di liste di nozze. E’ un battibecco che da’ tutto il senso della battaglia per la «marriage equality». Tra chi ha fatto un matrimonio «normale» e ricorda con angoscia il negozio, l’imbarazzo nelle scelte, la sensazione di essere parte di un vuoto scambio simbolico. E chi, come Stefano, lo racconta come l’elemento allegramente materialista di un evento importante.
E poi ci sono i figli. I bambini con due papà e due mamme, da noi, sono tuttora ufficialmente strani. C’è chi non manda i figli a giocare nelle case di peccatori/trici (succede); chi così costringe a cambiare scuola (succede anche questo); chi proibisce nelle scuole innocenti libri per bambini più possibilisti della media (succede a Venezia, grazie al neosindaco Luigi Brugnaro). Ci sono mille problemi perché una delle mamme o dei papà non è genitore ai sensi di legge. E, se l’unione finisce male, e il genitore naturale è arrabbiato con l’ex, chi si è sentito madre o padre fino a quel momento magari non può più vedere quelli che sente suoi figli. Anche in questo, il matrimonio — e la conseguente possibilità di dirsi addio con delle regole — aiuta. Basta, per capire, vedere la fenomenale serie americana in onda in queste settimane, Transparent: una lesbica divorziata viene travolta dall’arrivo della figlia adolescente, che ha litigato con l’ex moglie/madre biologica. E, come tutte le figlie di separati, va a stare dall’altro genitore. La scena in cui sta la madre facendo l’amore con la nuova compagna ed è interrotta da una telefonata della pupa imbufalita ha valore universale per chiunque abbia prole, diciamo.
Diciamo, pure, che chi pensa al matrimonio è in genere grandicello/a (ha senso: negli Stati Uniti, dove da pochi giorni c’è il matrimonio per tutti, la maggioranza degli under 30 è favorevole; ma come principio, non perché puntino a prossime nozze, etero o lgbt che siano). E che — forse — le lunghe adolescenze di molti sono finite. E chi trova la sua persona (cit. Grey’s Anatomy), vorrebbe sposarsi. E vorrebbe il celebrante con fascia tricolore, e la lista, e la festa, e le zie accaldate con i ventagli, e una promessa di vita rispettabile e rispettata (a pensarci, in Italia il problema non è solo l’omofobia; è lo scarso rispetto in generale, di alcune leggi e del prossimo; forse ci si dovrebbe pensare su, qualunque sia lo stato civile).
La Stampa 11.7.15
Gay, il distinguo su adozioni e matrimonio
di Carlo Rimini
Condivido il metodo e il tono dell’argomentare del prof. Orsina su queste colonne. Per questo anch’io voglio dichiarare innanzitutto quale è la mia posizione: penso che la recente sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti che ha affermato che è un diritto fondamentale dell’individuo contrarre matrimonio, anche con una persona dello stesso sesso, sia una conquista della civiltà oltre che, come scrive Gianni Riotta, una pietra miliare nell’evoluzione giurisprudenziale.
Penso che anche la nostra società sia ormai pronta per recepire una scelta analoga. Ho letto il manifesto funebre di un uomo di cinquant’anni, morto improvvisamente con una moglie e due figli. Molti segni lasciavano capire che si trattava di un uomo profondamente cattolico. La morte era annunciata dalla moglie, dai due figli e dai loro giovani fidanzati: «i figli Laura con Dario e Marco con Massimo». Ho pensato al coraggio della mogliettina madre dietro a quelle tre lettere: “con”. Il coraggio di una madre, come il coraggio della Corte suprema degli Stati Uniti. Non è scontato: che cosa avremmo fatto noi? C’è più coraggio in una madre, segnata dal dolore, che parla in nome di un figlio che nei giudici supremi che parlano in nome del popolo americano.
Eppure sono d’accordo che non possiamo cancellare per legge le nostre tradizioni. Penso che la convivenza civile si basi sul rispetto delle idee degli altri, ed anche dei loro simboli. La parola «matrimonio» viene ancora percepita con un valore simbolico e sacrale da molti di noi. Fino a che tale percezione persisterà (giacché Zagrebelsky ci ha dimostrato ieri come cambia rapidamente la percezione della tradizione) le persone di buon senso potranno accettare una mediazione «fra le due anime della nostra gente», come ha scritto tanti anni addietro – quando si discuteva del divorzio – Angelo Falzea, un grande giurista. Penso quindi che si possa accettare di non chiamare matrimonio l’unione omosessuale. Penso anche che la mediazione possa spingersi oltre: dal piano dei simboli a quello della sostanza e delle regole. In questa prospettiva penso che sia ragionevole prevedere che una coppia omosessuale non possa adottare un bambino in stato di abbandono o ricorrere a tecniche di procreazione assistita. Istintivamente sarei portato ad essere più coraggioso, ma – quando si parla di figli – i diritti degli adulti cedono il passo di fronte alle necessità dei bambini.
Oltre questo confine, ogni ulteriore istanza di riduzione dei diritti delle copie omosessuali deve essere rigettata con granitica fermezza. Le famiglie omosessuali hanno diritto a tutte le garanzie che la legge prevede a favore dei coniugi. Le coppie dello stesso sesso non hanno solo il diritto – come scrive Orsina – a vivere la propria sessualità come meglio credono e alla luce del sole (e ci mancherebbe altro!), ma hanno il diritto a costituire una famiglia regolata da norme identiche a quelle che disciplinano il matrimonio e riconosciuta dallo Stato nello stesso modo, con l’unica eccezione della adozione dei minori in stato di abbandono. Se la legge introducesse ulteriori differenze fra l’unione omosessuale e il matrimonio, la discriminazione sarebbe inaccettabile. Questa regola va applicata sin dal primo problema che si incontra al di là del confine: l’adozione del figlio del partner omosessuale. La legge riconosce al coniuge il diritto di adottare il figlio dell’altro. È una adozione che produce effetti diversi e minori rispetto all’adozione del minore in stato di abbandono ed ha lo scopo di attribuire un rilievo giuridico ad un legame affettivo che si è già formato e consolidato nei fatti, nella vita. Nessuna ragione può consentire di escludere le coppie omosessuali da questo strumento giuridico.
Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano
Gay, il distinguo su adozioni e matrimonio
di Carlo Rimini
Condivido il metodo e il tono dell’argomentare del prof. Orsina su queste colonne. Per questo anch’io voglio dichiarare innanzitutto quale è la mia posizione: penso che la recente sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti che ha affermato che è un diritto fondamentale dell’individuo contrarre matrimonio, anche con una persona dello stesso sesso, sia una conquista della civiltà oltre che, come scrive Gianni Riotta, una pietra miliare nell’evoluzione giurisprudenziale.
Penso che anche la nostra società sia ormai pronta per recepire una scelta analoga. Ho letto il manifesto funebre di un uomo di cinquant’anni, morto improvvisamente con una moglie e due figli. Molti segni lasciavano capire che si trattava di un uomo profondamente cattolico. La morte era annunciata dalla moglie, dai due figli e dai loro giovani fidanzati: «i figli Laura con Dario e Marco con Massimo». Ho pensato al coraggio della mogliettina madre dietro a quelle tre lettere: “con”. Il coraggio di una madre, come il coraggio della Corte suprema degli Stati Uniti. Non è scontato: che cosa avremmo fatto noi? C’è più coraggio in una madre, segnata dal dolore, che parla in nome di un figlio che nei giudici supremi che parlano in nome del popolo americano.
Eppure sono d’accordo che non possiamo cancellare per legge le nostre tradizioni. Penso che la convivenza civile si basi sul rispetto delle idee degli altri, ed anche dei loro simboli. La parola «matrimonio» viene ancora percepita con un valore simbolico e sacrale da molti di noi. Fino a che tale percezione persisterà (giacché Zagrebelsky ci ha dimostrato ieri come cambia rapidamente la percezione della tradizione) le persone di buon senso potranno accettare una mediazione «fra le due anime della nostra gente», come ha scritto tanti anni addietro – quando si discuteva del divorzio – Angelo Falzea, un grande giurista. Penso quindi che si possa accettare di non chiamare matrimonio l’unione omosessuale. Penso anche che la mediazione possa spingersi oltre: dal piano dei simboli a quello della sostanza e delle regole. In questa prospettiva penso che sia ragionevole prevedere che una coppia omosessuale non possa adottare un bambino in stato di abbandono o ricorrere a tecniche di procreazione assistita. Istintivamente sarei portato ad essere più coraggioso, ma – quando si parla di figli – i diritti degli adulti cedono il passo di fronte alle necessità dei bambini.
Oltre questo confine, ogni ulteriore istanza di riduzione dei diritti delle copie omosessuali deve essere rigettata con granitica fermezza. Le famiglie omosessuali hanno diritto a tutte le garanzie che la legge prevede a favore dei coniugi. Le coppie dello stesso sesso non hanno solo il diritto – come scrive Orsina – a vivere la propria sessualità come meglio credono e alla luce del sole (e ci mancherebbe altro!), ma hanno il diritto a costituire una famiglia regolata da norme identiche a quelle che disciplinano il matrimonio e riconosciuta dallo Stato nello stesso modo, con l’unica eccezione della adozione dei minori in stato di abbandono. Se la legge introducesse ulteriori differenze fra l’unione omosessuale e il matrimonio, la discriminazione sarebbe inaccettabile. Questa regola va applicata sin dal primo problema che si incontra al di là del confine: l’adozione del figlio del partner omosessuale. La legge riconosce al coniuge il diritto di adottare il figlio dell’altro. È una adozione che produce effetti diversi e minori rispetto all’adozione del minore in stato di abbandono ed ha lo scopo di attribuire un rilievo giuridico ad un legame affettivo che si è già formato e consolidato nei fatti, nella vita. Nessuna ragione può consentire di escludere le coppie omosessuali da questo strumento giuridico.
Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano
il Fatto 11.7.15
Abusi su minori Oggi inizia il processo Wesolowski
Un vescovo alla sbarra per pedofilia: è la prima volta nella storia vaticana
di Caterina Minnucci
Dopo la riforma voluta da Papa Francesco, oggi comincia in Vaticano il processo per pedofilia contro l’ex arcivescovo polacco Józef Wesolowski. Sarà la prima volta nella storia che un caso del genere verrà esaminato dal tribunale penale Oltretevere. WESOLOWKI è accusato di aver pagato dei ragazzi adolescenti per fare sesso, mentre era nunzio vaticano nella Repubblica Dominicana tra il 2008 e il 2013. Alcune vittime hanno raccontato di essere state adescate dal sacerdote per strada, l’uomo indossava abiti laici e un berretto con la visiera per non farsi riconoscere. Il prelato, 66 anni, era stato ordinato sacerdote nel 1972 da Giovanni Paolo II e prima di finire nel mirino di Bergoglio, che nell’agosto del 2013 lo ha richiamato in Vaticano, era una figura di spicco della diplomazia ecclesiastica. Le accuse di pedofilia – che potrebbero costargli fino a dodici anni di carcere – sono emerse dopo la pubblicazione di un’inchiesta della giornalista dominica-na Nuria Piera, uscita nel settembre 2013, in cui sosteneva che il sacerdote pagava per fare sesso con minori frequentando una zona di Santo Domingo nota per la prostituzione minorile. A giugno del 2014, dopo la sospensione a divinis, Wesolowski è stato ridotto allo stato laicale dalla Congregazione per la dottrina della fede che lo ha condannato in primo grado. Dopo il rinvio a giudizio del tribunale Vaticano adesso a giudicarlo sarà un collegio composto interamente di laici. Se condannato, potrà fare appello.
Abusi su minori Oggi inizia il processo Wesolowski
Un vescovo alla sbarra per pedofilia: è la prima volta nella storia vaticana
di Caterina Minnucci
Dopo la riforma voluta da Papa Francesco, oggi comincia in Vaticano il processo per pedofilia contro l’ex arcivescovo polacco Józef Wesolowski. Sarà la prima volta nella storia che un caso del genere verrà esaminato dal tribunale penale Oltretevere. WESOLOWKI è accusato di aver pagato dei ragazzi adolescenti per fare sesso, mentre era nunzio vaticano nella Repubblica Dominicana tra il 2008 e il 2013. Alcune vittime hanno raccontato di essere state adescate dal sacerdote per strada, l’uomo indossava abiti laici e un berretto con la visiera per non farsi riconoscere. Il prelato, 66 anni, era stato ordinato sacerdote nel 1972 da Giovanni Paolo II e prima di finire nel mirino di Bergoglio, che nell’agosto del 2013 lo ha richiamato in Vaticano, era una figura di spicco della diplomazia ecclesiastica. Le accuse di pedofilia – che potrebbero costargli fino a dodici anni di carcere – sono emerse dopo la pubblicazione di un’inchiesta della giornalista dominica-na Nuria Piera, uscita nel settembre 2013, in cui sosteneva che il sacerdote pagava per fare sesso con minori frequentando una zona di Santo Domingo nota per la prostituzione minorile. A giugno del 2014, dopo la sospensione a divinis, Wesolowski è stato ridotto allo stato laicale dalla Congregazione per la dottrina della fede che lo ha condannato in primo grado. Dopo il rinvio a giudizio del tribunale Vaticano adesso a giudicarlo sarà un collegio composto interamente di laici. Se condannato, potrà fare appello.
La Stampa 11.7.15
“Un messaggio forte per riavvicinare i fedeli”
Naím: “I cattolici perdono consenso a favore di altre chiese Bergoglio ha capito che deve essere netto sui temi sociali”
di Paolo Mastrolilli
Lasciate perdere queste storie sul «Papa comunista», sono fesserie buone solo per la propaganda. Il vero punto della visita di Francesco in America Latina, secondo Moisés Naím, è un altro: «Vuole ricostruire la centralità della Chiesa nel suo continente, minacciata da tutte le altre versioni del cristianesimo che stanno portando via i fedeli cattolici. Perciò deve essere “disruptive”, perturbare lo status quo, e non potrebbe mai riuscirci se un Papa allineato con i poveri come lui non affrontasse il tema globale della diseguaglianza economica».
Naím, ex ministro del Commercio in Venezuela, ex direttore della rivista americana «Foreign Policy», e autore del fortunatissimo saggio «The End of Power», sta seguendo da vicino la visita di Francesco nel proprio continente, con un interesse insieme accademico e personale.
Il pontefice sta criticando l’economia di mercato, al punto che alcuni lo accusano di aver ripreso la «Teologia della liberazione» su questi temi. Lei come lo giudica?
«Negli ultimi tempi il cattolicesimo ha perso “quote di mercato” in America Latina. Altre forme di cristianesimo, come i carismatici, gli evengelici, gli episcopali, stanno portando via i fedeli. È un fenomeno presente anche in Africa e Asia, ma è forte soprattutto in America Latina. Francesco è partito per contrastarlo, e sa che per riuscirci deve lanciare un messaggio fresco, nuovo, diverso dal passato».
Evo Morales, il presidente boliviano, gli ha regalato un crocefisso a forma di falce e martello: il Papa non rischia di farsi strumentalizzare?
«Non c’è dubbio che esista una guerra mediatica. In Ecuador ha incontrato il presidente Correa, che guida uno dei regimi più repressivi del continente, dopo Cuba e Venezuela. Correa è in difficoltà, ha perso di recente elezioni importanti, e in vista della visita di Francesco si è scatenata una vera e propria lotta fra lui e l’opposizione, per fare a gara a chi era più vicino al pontefice. Poi è andato da Morales che gli ha regalato il crocefisso a forma di falce e martello, un gesto meditato per diventare la foto del giorno. Il Papa lo sa, perché conosce il suo continente, ma l’obiettivo fondamentale del viaggio resta quello di riconnettersi con i cattolici».
Dal punto di vista economico, le sue critiche hanno senso?
«La diseguaglianza è un’emergenza globale, di cui l’America Latina è da sempre il campione del mondo. Negli ultimi tempi, in realtà, è andata un po’ in controtendenza, perché ha visto diminuire il suo gap, che invece è cresciuto molto in Europa e Stati Uniti. La povertà però resta un problema gravissimo, e un Papa impegnato a favore dei poveri come lui non poteva non sottolinearlo».
A settembre Francesco sarà negli Usa, dove alcuni conservatori lo accusano di essere comunista: come verrà accolto?
«Io penso che il momento più importante della sua visita, in realtà, sarà il discorso che terrà all’Assemblea Generale dell’Onu. Il mondo è molto scombussolato: cambiamenti climatici, terrorismo, rapporto con l’Islam, crisi economica, tensioni dalla Russia alla Siria, dalla Libia allo Yemen. La gente sente il bisogno di una guida, e guarderà al Papa per avere ispirazione».
Ma parlerà anche al Congresso e visiterà la Casa Bianca. Alcuni dicono che è alleato di Obama sui temi economici e sociali, altri che lo detesta per questioni come i matrimoni gay. Chi ha ragione?
«Il problema, in questo caso, non sono le posizioni di Francesco, ma la polarizzazione politica degli Stati Uniti. Il Paese è estremamente diviso, dall’economia ai temi etici, ed è inevitabile che questo si rifletta sui tentativi di strumentalizzare a proprio favore la visita del Papa».
Nel saggio «The End of Power» lei ha descritto la crisi del potere nella nostra confusa società contemporanea. Francesco in questo senso è un’eccezione alla regola, o una conferma?
«Più che del Papa, in tale contesto parlerei del Vaticano. Come istituzione, 20 anni fa nessuno si sarebbe immaginato di vederla in una crisi così profonda. Da questa prospettiva la Chiesa conferma le difficoltà del potere tradizionale, e Francesco sta cercando la risposta per risollevarla».
“Un messaggio forte per riavvicinare i fedeli”
Naím: “I cattolici perdono consenso a favore di altre chiese Bergoglio ha capito che deve essere netto sui temi sociali”
di Paolo Mastrolilli
Lasciate perdere queste storie sul «Papa comunista», sono fesserie buone solo per la propaganda. Il vero punto della visita di Francesco in America Latina, secondo Moisés Naím, è un altro: «Vuole ricostruire la centralità della Chiesa nel suo continente, minacciata da tutte le altre versioni del cristianesimo che stanno portando via i fedeli cattolici. Perciò deve essere “disruptive”, perturbare lo status quo, e non potrebbe mai riuscirci se un Papa allineato con i poveri come lui non affrontasse il tema globale della diseguaglianza economica».
Naím, ex ministro del Commercio in Venezuela, ex direttore della rivista americana «Foreign Policy», e autore del fortunatissimo saggio «The End of Power», sta seguendo da vicino la visita di Francesco nel proprio continente, con un interesse insieme accademico e personale.
Il pontefice sta criticando l’economia di mercato, al punto che alcuni lo accusano di aver ripreso la «Teologia della liberazione» su questi temi. Lei come lo giudica?
«Negli ultimi tempi il cattolicesimo ha perso “quote di mercato” in America Latina. Altre forme di cristianesimo, come i carismatici, gli evengelici, gli episcopali, stanno portando via i fedeli. È un fenomeno presente anche in Africa e Asia, ma è forte soprattutto in America Latina. Francesco è partito per contrastarlo, e sa che per riuscirci deve lanciare un messaggio fresco, nuovo, diverso dal passato».
Evo Morales, il presidente boliviano, gli ha regalato un crocefisso a forma di falce e martello: il Papa non rischia di farsi strumentalizzare?
«Non c’è dubbio che esista una guerra mediatica. In Ecuador ha incontrato il presidente Correa, che guida uno dei regimi più repressivi del continente, dopo Cuba e Venezuela. Correa è in difficoltà, ha perso di recente elezioni importanti, e in vista della visita di Francesco si è scatenata una vera e propria lotta fra lui e l’opposizione, per fare a gara a chi era più vicino al pontefice. Poi è andato da Morales che gli ha regalato il crocefisso a forma di falce e martello, un gesto meditato per diventare la foto del giorno. Il Papa lo sa, perché conosce il suo continente, ma l’obiettivo fondamentale del viaggio resta quello di riconnettersi con i cattolici».
Dal punto di vista economico, le sue critiche hanno senso?
«La diseguaglianza è un’emergenza globale, di cui l’America Latina è da sempre il campione del mondo. Negli ultimi tempi, in realtà, è andata un po’ in controtendenza, perché ha visto diminuire il suo gap, che invece è cresciuto molto in Europa e Stati Uniti. La povertà però resta un problema gravissimo, e un Papa impegnato a favore dei poveri come lui non poteva non sottolinearlo».
A settembre Francesco sarà negli Usa, dove alcuni conservatori lo accusano di essere comunista: come verrà accolto?
«Io penso che il momento più importante della sua visita, in realtà, sarà il discorso che terrà all’Assemblea Generale dell’Onu. Il mondo è molto scombussolato: cambiamenti climatici, terrorismo, rapporto con l’Islam, crisi economica, tensioni dalla Russia alla Siria, dalla Libia allo Yemen. La gente sente il bisogno di una guida, e guarderà al Papa per avere ispirazione».
Ma parlerà anche al Congresso e visiterà la Casa Bianca. Alcuni dicono che è alleato di Obama sui temi economici e sociali, altri che lo detesta per questioni come i matrimoni gay. Chi ha ragione?
«Il problema, in questo caso, non sono le posizioni di Francesco, ma la polarizzazione politica degli Stati Uniti. Il Paese è estremamente diviso, dall’economia ai temi etici, ed è inevitabile che questo si rifletta sui tentativi di strumentalizzare a proprio favore la visita del Papa».
Nel saggio «The End of Power» lei ha descritto la crisi del potere nella nostra confusa società contemporanea. Francesco in questo senso è un’eccezione alla regola, o una conferma?
«Più che del Papa, in tale contesto parlerei del Vaticano. Come istituzione, 20 anni fa nessuno si sarebbe immaginato di vederla in una crisi così profonda. Da questa prospettiva la Chiesa conferma le difficoltà del potere tradizionale, e Francesco sta cercando la risposta per risollevarla».
La Stampa 11.7.15
Bergoglio
Francescano, ma non comunista
di Roberto Toscano
E’ dal momento della sua elezione al pontificato che Papa Bergoglio non lascia praticamente passare un giorno senza ribadire con schietta essenzialità richiami morali che mettono in gioco la natura stessa del nostro mondo globalizzato, il suo potere di esclusione, lo scandalo crescente della disuguaglianza. Messo piede nella sua terra latino-americana, il suo messaggio si è fatto ancora più esplicito e radicale.
La novità non è certo la preoccupazione della Chiesa per i poveri e le vittime dell’ingiustizia, e nemmeno l’autocritica nei confronti delle troppe connivenze con le violenze della colonizzazione dell’America Latina e dei troppi compromessi con poteri oligarchici - un’autocritica che aveva ispirato sia Giovanni Paolo II nel suo forte discorso del 1992 a Santo Domingo sia Benedetto XVI, che nel maggio del 2007 parlò delle «ombre» che accompagnarono l’evangelizzazione dell’America Latina.
Ma il messaggio latino-americano di Papa Francesco va ben oltre, nella misura in cui non si limita a denunciare la malvagità umana e il sordo egoismo che ispira i potenti e i privilegiati, non si limita a riprendere il discorso della Chiesa sui diritti umani, ma attacca esplicitamente le strutture, il sistema. E lo fa sottoponendo l’economia globale a un vaglio morale senza sconti e senza eufemismi. Addirittura - e immaginiamo lo sconcerto che questo sta producendo negli ambienti del cattolicesimo conservatore - Bergoglio sembra echeggiare il radicalismo francescano quando denuncia il culto al denaro, che definisce, citando la famosa condanna di Basilio di Cesarea, padre della Chiesa, «sterco del diavolo»: «Quando il capitale si converte in un idolo, quando l’avidità per il denaro subordina tutto il sistema socioeconomico, rovina la società, rende l’uomo schiavo, distrugge la fraternità fra gli esseri umani».
Si conferma qui il senso profondo (per i credenti, provvidenziale) dell’elezione al soglio pontificio di un cardinale proveniente dall’America Latina, per la Chiesa serbatoio di fedeli - il 40 per cento dei cattolici nel mondo - fondamentale ma negli ultimi decenni minacciato da una forte offensiva protestante, resa possibile non solo dalle grandi risorse economiche dei missionari evangelici statunitensi, ma anche dalla diffusa percezione di una Chiesa conservatrice e non sufficientemente solidale con i poveri.
Anche per quanto riguarda la rivisitazione critica della conquista ed evangelizzazione cristiana dell’America Latina le parole del Papa si muovono su un terreno d’inequivoca radicalità. Sono parole in cui sembra di sentire un eco del drammatico scontro, rappresentato nel famoso film «Mission», fra la Chiesa del gesuita Padre Gabriel, schierato fino all’estremo sacrificio dalla parte degli indios contro il potere coloniale e gli schiavisti, e quella del Cardinale Altamirano, intelligente e in fin dei conti anche sensibile, ma che finisce per piegarsi alle esigenze della realpolitik, autorizzando la violenza del potere contro la ribellione degli indios. Oggi Bergoglio esalta la Chiesa di Padre Gabriel, quella dei sacerdoti «che si opposero alla logica della spada con la logica della croce».
Il rischio a questo punto è quello di semplificare e appiattire, ripercorrendo i polverosi sentieri delle ideologie del XX secolo, una svolta che è significativa nella misura in cui è nuova, e descrivere il messaggio di Papa Bergoglio come un trionfo tardivo dei movimenti rivoluzionari cui la Chiesa, nella sua maggioranza e soprattutto nelle sue gerarchie, si era sistematicamente opposta a patto di indecenti connivenze con poteri non democratici e antipopolari.
Teologia della Liberazione
No, Papa Francesco non si è convertito alla Teologia della liberazione, ma si rende conto del prezzo pagato dalla Chiesa nel rigetto conservatore delle istanze di cui quei movimenti erano generosi anche se spesso confusi portatori. E senz’altro ricorda come la Chiesa riuscì a riassorbire, non con la condanna ma con la cooptazione, la spinta potenzialmente eversiva del primo francescanesimo.
Quello che è certo è che non siamo di fronte a un «Papa comunista», come alcuni inguaribili nostalgici della Guerra Fredda cominciano anche da noi a mormorare. Il bizzarro dono del crocifisso/falce e martello del Presidente boliviano Morales ha suscitato nel Papa un’evidente perplessità, ma certo non un «vade retro» scandalizzato. Il fatto è che per Bergoglio il comunismo è morto e sepolto, anche se rimangono aperti i grandi quesiti sociali da esso sollevati, ai quali non ha saputo rispondere per le sue contraddizioni, il suo dogmatismo ideologico e la sua deriva autoritaria e violenta. Quesiti che, contrariamente a quanto sostenuto dall’ideologia neoliberale, non si possono ignorare, ma ai quali il messaggio cristiano dovrebbe avere l’ambizione di rispondere in modo diverso, autentico, sostenibile e basato sulla fede. Si tratta di un pontefice, inoltre, che non sembra certo intenzionato a essere indulgente nei confronti di chi «vuole cancellare Cristo dalla società», e che anche in Bolivia ha detto parole forti contro «la persecuzione genocida» dei cristiani in Medio Oriente.
Nel momento in cui il comunismo è davvero morto, e in cui anche la socialdemocrazia non sta molto bene di salute, il disegno di Bergoglio risulta quindi evidente. È quello di rendere il messaggio della Chiesa egemonico sotto il profilo dei valori che dovrebbero ispirare una società più umana. Un disegno ambizioso, che dovrà fare i conti con le infinite contraddizioni esistenti all’interno stesso di una Chiesa certo tutt’altro che compatta, oltre che marcata da secoli dai troppi prezzi pagati al realismo, nonchè con le prevedibili controspinte che, in America Latina ma non solo, verranno messe in atto da chi ritiene che si tratti di un messaggio puramente retorico o addirittura destabilizzante, soprattutto in un momento in cui sempre più inquietante è la sfida di un Islam militante che si colloca agli antipodi dell’umanesimo cristiano di cui Bergoglio è il coraggioso paladino.
Credenti o non credenti, entusiasti o critici - ma in ogni caso tutti disorientati dopo la scomparsa dei solidi, anche se spesso micidiali, riferimenti del XX secolo -, faremmo bene comunque a prendere sul serio la non superficiale sfida di Papa Francesco, il primo Papa del XXI secolo.
Bergoglio
Francescano, ma non comunista
di Roberto Toscano
E’ dal momento della sua elezione al pontificato che Papa Bergoglio non lascia praticamente passare un giorno senza ribadire con schietta essenzialità richiami morali che mettono in gioco la natura stessa del nostro mondo globalizzato, il suo potere di esclusione, lo scandalo crescente della disuguaglianza. Messo piede nella sua terra latino-americana, il suo messaggio si è fatto ancora più esplicito e radicale.
La novità non è certo la preoccupazione della Chiesa per i poveri e le vittime dell’ingiustizia, e nemmeno l’autocritica nei confronti delle troppe connivenze con le violenze della colonizzazione dell’America Latina e dei troppi compromessi con poteri oligarchici - un’autocritica che aveva ispirato sia Giovanni Paolo II nel suo forte discorso del 1992 a Santo Domingo sia Benedetto XVI, che nel maggio del 2007 parlò delle «ombre» che accompagnarono l’evangelizzazione dell’America Latina.
Ma il messaggio latino-americano di Papa Francesco va ben oltre, nella misura in cui non si limita a denunciare la malvagità umana e il sordo egoismo che ispira i potenti e i privilegiati, non si limita a riprendere il discorso della Chiesa sui diritti umani, ma attacca esplicitamente le strutture, il sistema. E lo fa sottoponendo l’economia globale a un vaglio morale senza sconti e senza eufemismi. Addirittura - e immaginiamo lo sconcerto che questo sta producendo negli ambienti del cattolicesimo conservatore - Bergoglio sembra echeggiare il radicalismo francescano quando denuncia il culto al denaro, che definisce, citando la famosa condanna di Basilio di Cesarea, padre della Chiesa, «sterco del diavolo»: «Quando il capitale si converte in un idolo, quando l’avidità per il denaro subordina tutto il sistema socioeconomico, rovina la società, rende l’uomo schiavo, distrugge la fraternità fra gli esseri umani».
Si conferma qui il senso profondo (per i credenti, provvidenziale) dell’elezione al soglio pontificio di un cardinale proveniente dall’America Latina, per la Chiesa serbatoio di fedeli - il 40 per cento dei cattolici nel mondo - fondamentale ma negli ultimi decenni minacciato da una forte offensiva protestante, resa possibile non solo dalle grandi risorse economiche dei missionari evangelici statunitensi, ma anche dalla diffusa percezione di una Chiesa conservatrice e non sufficientemente solidale con i poveri.
Anche per quanto riguarda la rivisitazione critica della conquista ed evangelizzazione cristiana dell’America Latina le parole del Papa si muovono su un terreno d’inequivoca radicalità. Sono parole in cui sembra di sentire un eco del drammatico scontro, rappresentato nel famoso film «Mission», fra la Chiesa del gesuita Padre Gabriel, schierato fino all’estremo sacrificio dalla parte degli indios contro il potere coloniale e gli schiavisti, e quella del Cardinale Altamirano, intelligente e in fin dei conti anche sensibile, ma che finisce per piegarsi alle esigenze della realpolitik, autorizzando la violenza del potere contro la ribellione degli indios. Oggi Bergoglio esalta la Chiesa di Padre Gabriel, quella dei sacerdoti «che si opposero alla logica della spada con la logica della croce».
Il rischio a questo punto è quello di semplificare e appiattire, ripercorrendo i polverosi sentieri delle ideologie del XX secolo, una svolta che è significativa nella misura in cui è nuova, e descrivere il messaggio di Papa Bergoglio come un trionfo tardivo dei movimenti rivoluzionari cui la Chiesa, nella sua maggioranza e soprattutto nelle sue gerarchie, si era sistematicamente opposta a patto di indecenti connivenze con poteri non democratici e antipopolari.
Teologia della Liberazione
No, Papa Francesco non si è convertito alla Teologia della liberazione, ma si rende conto del prezzo pagato dalla Chiesa nel rigetto conservatore delle istanze di cui quei movimenti erano generosi anche se spesso confusi portatori. E senz’altro ricorda come la Chiesa riuscì a riassorbire, non con la condanna ma con la cooptazione, la spinta potenzialmente eversiva del primo francescanesimo.
Quello che è certo è che non siamo di fronte a un «Papa comunista», come alcuni inguaribili nostalgici della Guerra Fredda cominciano anche da noi a mormorare. Il bizzarro dono del crocifisso/falce e martello del Presidente boliviano Morales ha suscitato nel Papa un’evidente perplessità, ma certo non un «vade retro» scandalizzato. Il fatto è che per Bergoglio il comunismo è morto e sepolto, anche se rimangono aperti i grandi quesiti sociali da esso sollevati, ai quali non ha saputo rispondere per le sue contraddizioni, il suo dogmatismo ideologico e la sua deriva autoritaria e violenta. Quesiti che, contrariamente a quanto sostenuto dall’ideologia neoliberale, non si possono ignorare, ma ai quali il messaggio cristiano dovrebbe avere l’ambizione di rispondere in modo diverso, autentico, sostenibile e basato sulla fede. Si tratta di un pontefice, inoltre, che non sembra certo intenzionato a essere indulgente nei confronti di chi «vuole cancellare Cristo dalla società», e che anche in Bolivia ha detto parole forti contro «la persecuzione genocida» dei cristiani in Medio Oriente.
Nel momento in cui il comunismo è davvero morto, e in cui anche la socialdemocrazia non sta molto bene di salute, il disegno di Bergoglio risulta quindi evidente. È quello di rendere il messaggio della Chiesa egemonico sotto il profilo dei valori che dovrebbero ispirare una società più umana. Un disegno ambizioso, che dovrà fare i conti con le infinite contraddizioni esistenti all’interno stesso di una Chiesa certo tutt’altro che compatta, oltre che marcata da secoli dai troppi prezzi pagati al realismo, nonchè con le prevedibili controspinte che, in America Latina ma non solo, verranno messe in atto da chi ritiene che si tratti di un messaggio puramente retorico o addirittura destabilizzante, soprattutto in un momento in cui sempre più inquietante è la sfida di un Islam militante che si colloca agli antipodi dell’umanesimo cristiano di cui Bergoglio è il coraggioso paladino.
Credenti o non credenti, entusiasti o critici - ma in ogni caso tutti disorientati dopo la scomparsa dei solidi, anche se spesso micidiali, riferimenti del XX secolo -, faremmo bene comunque a prendere sul serio la non superficiale sfida di Papa Francesco, il primo Papa del XXI secolo.
Il Sole 11.7.15
Mafia capitale
«Anche sotto Marino privilegi a Buzzi»
Gabrielli sull'Ama: «Subappaltata all’organizzazione criminale»
«Con Alemanno intimidivano, con Marino corrompevano»
La relazione consegnata da Pignatone
Lascia il responsabile del programma del sindaco
di Marco Ludovico
ROMA «Pur se è giusto sottolineare la differenza tra i due periodi e le due amministrazioni, la situazione è rimasta estremamente grave». Giuseppe Pignatone consegna al comitato provinciale per l’ordine pubblico e la sicurezza convocato dal prefetto di Roma, Franco Gabrielli, il 7 luglio scorso, una relazione durissima. Anche se il parere del procuratore capo, alla fine, salva Marino: «Non sussistono, alla data odierna, le condizioni per lo scioglimento del consiglio comunale di Roma Capitale» scrive il magistrato.
Pignatone sostiene che «l’associazione mafiosa di Carminati e Buzzi, pur estremanente pericolosa» a suo avviso «non può avere la pervasività in tutti gli ambienti sociali ed economici e la durata indefinita nel tempo delle relazioni con il mondo esterno all’associazione stessa che sono proprie delle mafie “tradizionali” e che giustificano lo scioglimento». Inoltre «dopo le elezioni del 2013» il procuratore ritiene che «la capacità di condizionamento dell’amministrazione capitolina, prevalentemente mediante accordi di tipo corruttivo/collusivo, è rimasta limitata ad alcuni settori economico/amministrativi che, pur rilevanti, rappresentano comunque una parte non maggioritaria di Roma capitale».
Se le conclusioni di Pignatone sono in linea con quelle poi rappresentate da Gabrielli al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, il quadro generale dell’attuale consiliatura del Campidoglio, raccontato dal numero uno di piazzale Clodio, resta impressionante. Certo «con l’amministrazione successiva» a quella guidata da Gianni Alemanno i «contatti di Carminati ai livelli più alti non ci sono più». Ma, aggiunge il procuratore, «non c’è dubbio che rimanga la presenza estremamente pesante di Buzzi e del mondo delle cooperative che ruota attorno a lui, che continuano ad avere un trattamento privilegiato da parte dell’amministrazione e della burocrazia comunale, con molti esponenti delle quali Buzzi intesse rapporti di tipo corruttivo; né va mai dimenticato - si legge nel documento - che il Buzzi agisce sempre d’intesa con Carminati, cui va anche parte dei guadagni delle cooperative».
Non basta: durante la giunta Marino «emblematiche, e gravi, sono la nomina di Quarzo Giovanni, indagato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., a Presidente della Commissione Consigliare per la Trasparenza, con l’intervento diretto e personale di Carminati; la permanenza di Giovanni Fiscon quale direttore generale di Ama; la rimozione della d.ssa Acerbi dal Dipartimento delle Politiche sociali».
Responsabile numero uno dell’inchiesta Mafia Capitale, Pignatone ricorda che «per tutta la durata delle indagini (che coprono l’attività di entrambe le amministrazioni capitoline) Carminati e Buzzi utilizzano un sistema estremanente raffinato di penetrazione nei vari apparati, in particolare nell’apparato comunale». Il magistrato rammenta che le ordinanze di misura cautelare hanno colpito «cinque componenti dell’Assemblea capitolina» attuale e anche «numerosi dirigenti e funzionari» del Comune e di Ama. Non solo: «Numerosissimi sono poi i contatti che non rivestono - allo stato - carattere illecito ma che dimostrano la capacità dell’associazione di incidere sulla vita e sul funzionamento dell’amministrazione capitolina piegandola alle sue esigenze, anche con una serie di atti e comportamenti illegittimi». Ma sciogliere il Campidoglio è troppo.
Ieri si è dimesso Mattia Stella, componente della segreteria di Marino «anche se non sono indagato» precisa. Secondo quanto scriveva a dicembre il gip Flavia Costantini, per Carminati e Buzzi «i rapporti con la nuova amministrazione comunale sono costituiti da una relazione con il capo della segreteria del sindaco, Mattia Stella, che si intrecciano con quelli con Coratti», il presidente Pd del consiglio comunale, indagato e dimissionario. Secondo la relazione di Gabrielli emerge una totale assenza di controlli al Campidoglio, in particolare sugli affidamenti di appalto senza gara, che «appaiono sufficienti a giustificare una proposta di rimozione di Iudicello dall’incarico di segretario e direttore generale di Roma Capitale, con conseguente avvio del procedimento disciplinare». Ma Iudicello, dimessosi, respinge ogni accusa e darà battaglia in tribunale. Mafia Capitale secondo il prefetto di Roma durante «la Giunta Alemanno» usava «come strumento principe l’intimidazione mafiosa» mentre durante l’amministrazione Marino «la disponibilità di amministratori e dipendenti pubblici viene acquisita attraverso la corruzione». E «la conduzione di Ama era subappaltata a Mafia Capitale».
Mafia capitale
«Anche sotto Marino privilegi a Buzzi»
Gabrielli sull'Ama: «Subappaltata all’organizzazione criminale»
«Con Alemanno intimidivano, con Marino corrompevano»
La relazione consegnata da Pignatone
Lascia il responsabile del programma del sindaco
di Marco Ludovico
ROMA «Pur se è giusto sottolineare la differenza tra i due periodi e le due amministrazioni, la situazione è rimasta estremamente grave». Giuseppe Pignatone consegna al comitato provinciale per l’ordine pubblico e la sicurezza convocato dal prefetto di Roma, Franco Gabrielli, il 7 luglio scorso, una relazione durissima. Anche se il parere del procuratore capo, alla fine, salva Marino: «Non sussistono, alla data odierna, le condizioni per lo scioglimento del consiglio comunale di Roma Capitale» scrive il magistrato.
Pignatone sostiene che «l’associazione mafiosa di Carminati e Buzzi, pur estremanente pericolosa» a suo avviso «non può avere la pervasività in tutti gli ambienti sociali ed economici e la durata indefinita nel tempo delle relazioni con il mondo esterno all’associazione stessa che sono proprie delle mafie “tradizionali” e che giustificano lo scioglimento». Inoltre «dopo le elezioni del 2013» il procuratore ritiene che «la capacità di condizionamento dell’amministrazione capitolina, prevalentemente mediante accordi di tipo corruttivo/collusivo, è rimasta limitata ad alcuni settori economico/amministrativi che, pur rilevanti, rappresentano comunque una parte non maggioritaria di Roma capitale».
Se le conclusioni di Pignatone sono in linea con quelle poi rappresentate da Gabrielli al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, il quadro generale dell’attuale consiliatura del Campidoglio, raccontato dal numero uno di piazzale Clodio, resta impressionante. Certo «con l’amministrazione successiva» a quella guidata da Gianni Alemanno i «contatti di Carminati ai livelli più alti non ci sono più». Ma, aggiunge il procuratore, «non c’è dubbio che rimanga la presenza estremamente pesante di Buzzi e del mondo delle cooperative che ruota attorno a lui, che continuano ad avere un trattamento privilegiato da parte dell’amministrazione e della burocrazia comunale, con molti esponenti delle quali Buzzi intesse rapporti di tipo corruttivo; né va mai dimenticato - si legge nel documento - che il Buzzi agisce sempre d’intesa con Carminati, cui va anche parte dei guadagni delle cooperative».
Non basta: durante la giunta Marino «emblematiche, e gravi, sono la nomina di Quarzo Giovanni, indagato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., a Presidente della Commissione Consigliare per la Trasparenza, con l’intervento diretto e personale di Carminati; la permanenza di Giovanni Fiscon quale direttore generale di Ama; la rimozione della d.ssa Acerbi dal Dipartimento delle Politiche sociali».
Responsabile numero uno dell’inchiesta Mafia Capitale, Pignatone ricorda che «per tutta la durata delle indagini (che coprono l’attività di entrambe le amministrazioni capitoline) Carminati e Buzzi utilizzano un sistema estremanente raffinato di penetrazione nei vari apparati, in particolare nell’apparato comunale». Il magistrato rammenta che le ordinanze di misura cautelare hanno colpito «cinque componenti dell’Assemblea capitolina» attuale e anche «numerosi dirigenti e funzionari» del Comune e di Ama. Non solo: «Numerosissimi sono poi i contatti che non rivestono - allo stato - carattere illecito ma che dimostrano la capacità dell’associazione di incidere sulla vita e sul funzionamento dell’amministrazione capitolina piegandola alle sue esigenze, anche con una serie di atti e comportamenti illegittimi». Ma sciogliere il Campidoglio è troppo.
Ieri si è dimesso Mattia Stella, componente della segreteria di Marino «anche se non sono indagato» precisa. Secondo quanto scriveva a dicembre il gip Flavia Costantini, per Carminati e Buzzi «i rapporti con la nuova amministrazione comunale sono costituiti da una relazione con il capo della segreteria del sindaco, Mattia Stella, che si intrecciano con quelli con Coratti», il presidente Pd del consiglio comunale, indagato e dimissionario. Secondo la relazione di Gabrielli emerge una totale assenza di controlli al Campidoglio, in particolare sugli affidamenti di appalto senza gara, che «appaiono sufficienti a giustificare una proposta di rimozione di Iudicello dall’incarico di segretario e direttore generale di Roma Capitale, con conseguente avvio del procedimento disciplinare». Ma Iudicello, dimessosi, respinge ogni accusa e darà battaglia in tribunale. Mafia Capitale secondo il prefetto di Roma durante «la Giunta Alemanno» usava «come strumento principe l’intimidazione mafiosa» mentre durante l’amministrazione Marino «la disponibilità di amministratori e dipendenti pubblici viene acquisita attraverso la corruzione». E «la conduzione di Ama era subappaltata a Mafia Capitale».
Corriere 11.7.15
Il Campidoglio e le tracce di corruzione Così si arrivava agli appalti inquinati
Si dimette l’ex capo della segreteria di Marino
Gabrielli: con Alemanno Mafia Capitale intimidiva
di Giovanni Bianconi
ROMA Ci sono piccole storie che svelano grandi irregolarità e sistematiche manovre corruttive, nelle pieghe dell’indagine amministrativa sulle infiltrazioni di Mafia Capitale nel Comune di Roma. Per esempio un appalto dal valore pressoché insignificante rispetto al «gigantismo» del bilancio generale (474.000 euro destinati alla gestione del servizio di pulizia e manutenzione degli arenili di Castel Porziano per il 2014), però emblematico del modo di operare della presunta associazione mafiosa guidata da Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Assegnato con una procedura in cui sono state rilevate diverse «carenze».
Il Comune aveva suddiviso l’appalto in due lotti, «per ognuno dei quali ha individuato i soggetti da invitare a gara; senonché tutti i soggetti invitati sono risultati direttamente o indirettamente riconducibili a Buzzi, alcuni addirittura parte integrante del suo sodalizio». Una ulteriore dimostrazione, secondo la commissione d’indagine, «dei collegamenti tra il sodalizio criminale e il vertice politico-amministrativo del Municipio». Nel caso specifico, quello di Ostia. Ma «il percorso amministrativo seguito da questo appalto si incrocia», per i commissari, con l’attività del Dipartimento Ambiente e Territorio del Comune sotto l’attuale gestione; in particolare con «l’atto di indirizzo adottato dall’assessore Estella Marino, su sollecitazione del dottor Altamura (dirigente arrestato per corruzione nella seconda fase dell’operazione della Procura, ndr ) che ha innalzato l’importo degli appalti da riservarsi alle cooperative sociali».
Sempre a Ostia c’è la vicenda della nuova sede dei vigili urbani, «ospitati in un immobile di proprietà della Immobilgest, nonostante la metratura dei locali fosse inferiore a quella richiesta dal bando e la destinazione del bene non conforme»; il contratto è scaduto, ma l’amministrazione continua a pagare più di un milione all’anno come «indennità di occupazione». Quando il comandante della Polizia locale di Roma Raffele Clementi, «che in maniera a dir poco singolare non era stato affatto coinvolto nella procedura», lo venne casualmente a sapere, provò a opporsi. In maniera «ferma e formale». Inutilmente: «Il Dipartimento Patrimonio del Comune insiste nella volontà di stipulare il contratto a far data dal 1° aprile 2015». Il problema è che l’Immobilgest è «riconducibile alle proprietà di Mauro Balini», presidente del Porto di Ostia; un personaggio — scrivono gli ispettori — che con il suo corredo di relazioni e contatti è lo strumento attraverso cui l’organizzazione criminale effettua il salto di qualità verso attività commerciali di apparente rispettabilità e liceità».
I commissari concludono stigmatizzando «l’irregolarità della condotta del Comune nella gestione della gara», e anche questa considerazione è stata analizzata dal prefetto Gabrielli per arrivare alle sue determinazioni. Che da un lato hanno portato alla proposta dello scioglimento per mafia del Municipio di Ostia, dall’altro a utilizzare toni più indulgenti con l’assessore Estella Marino: «Non pare discutibile che il dottor Altamura sia inizialmente riuscito nell’intento di “orientare” l’assessore verso decisioni che riservavano alle cooperative una serie di affidamenti in materia di verde pubblico; ma è da sottolineare come ciò sia accaduto nei primi tempi del suo incarico, quando è lecito ritenere che l’amministratore non avesse penetrato a sufficienza la conoscenza degli uffici a lei facenti capo, e dei personaggi che li popolavano».
Tra l’altro Gabrielli precisa che «alla criticità del contesto (ereditato dal sindaco Ignazio Marino dalla Giunta Alemanno, ndr ) si aggiunge, duole dirlo, una generale assenza di iniziative di organi esterni capaci di fornire la dimensione del pericolo dell’infiltrazione mafiosa o, più in generale, delle anomalie esistenti nel sistema degli appalti capitolini; e questo nonostante che alcune rilevanti iniziative di indagine avevano portato alla luce significativi casi di malaffare riguardante le partecipate di Roma Capitale». Una censura apparentemente rivolta all’ex prefetto Pecoraro, il quale insediò la commissione d’accesso che ha riservato severe critiche non solo alla Giunta Alemanno ma anche a quella Marino.
Gabrielli ha concluso il suo lavoro proponendo, tra l’altro, la rimozione del segretario generale del Campidoglio in carica con entrambi i sindaci, Liborio Iudicello. Destinatario di analoga proposta era anche l’ex capo della segreteria del sindaco Marino, Mattia Stella, che nelle intercettazioni appariva come uno che Buzzi intendeva utilizzare per i suoi scopi. Stella ieri si è dimesso, (come Iudicello), e il sindaco gli ha ribadito vicinanza e solidarietà. Quanto alle due amministrazioni, il prefetto spiega che con Alemanno Mafia Capitale utilizzava «come strumento principe l’intimidazione mafiosa», mentre con Marino «la disponibilità di amministratori e dipendenti pubblici viene acquisita attraverso la corruzione».
Il Campidoglio e le tracce di corruzione Così si arrivava agli appalti inquinati
Si dimette l’ex capo della segreteria di Marino
Gabrielli: con Alemanno Mafia Capitale intimidiva
di Giovanni Bianconi
ROMA Ci sono piccole storie che svelano grandi irregolarità e sistematiche manovre corruttive, nelle pieghe dell’indagine amministrativa sulle infiltrazioni di Mafia Capitale nel Comune di Roma. Per esempio un appalto dal valore pressoché insignificante rispetto al «gigantismo» del bilancio generale (474.000 euro destinati alla gestione del servizio di pulizia e manutenzione degli arenili di Castel Porziano per il 2014), però emblematico del modo di operare della presunta associazione mafiosa guidata da Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Assegnato con una procedura in cui sono state rilevate diverse «carenze».
Il Comune aveva suddiviso l’appalto in due lotti, «per ognuno dei quali ha individuato i soggetti da invitare a gara; senonché tutti i soggetti invitati sono risultati direttamente o indirettamente riconducibili a Buzzi, alcuni addirittura parte integrante del suo sodalizio». Una ulteriore dimostrazione, secondo la commissione d’indagine, «dei collegamenti tra il sodalizio criminale e il vertice politico-amministrativo del Municipio». Nel caso specifico, quello di Ostia. Ma «il percorso amministrativo seguito da questo appalto si incrocia», per i commissari, con l’attività del Dipartimento Ambiente e Territorio del Comune sotto l’attuale gestione; in particolare con «l’atto di indirizzo adottato dall’assessore Estella Marino, su sollecitazione del dottor Altamura (dirigente arrestato per corruzione nella seconda fase dell’operazione della Procura, ndr ) che ha innalzato l’importo degli appalti da riservarsi alle cooperative sociali».
Sempre a Ostia c’è la vicenda della nuova sede dei vigili urbani, «ospitati in un immobile di proprietà della Immobilgest, nonostante la metratura dei locali fosse inferiore a quella richiesta dal bando e la destinazione del bene non conforme»; il contratto è scaduto, ma l’amministrazione continua a pagare più di un milione all’anno come «indennità di occupazione». Quando il comandante della Polizia locale di Roma Raffele Clementi, «che in maniera a dir poco singolare non era stato affatto coinvolto nella procedura», lo venne casualmente a sapere, provò a opporsi. In maniera «ferma e formale». Inutilmente: «Il Dipartimento Patrimonio del Comune insiste nella volontà di stipulare il contratto a far data dal 1° aprile 2015». Il problema è che l’Immobilgest è «riconducibile alle proprietà di Mauro Balini», presidente del Porto di Ostia; un personaggio — scrivono gli ispettori — che con il suo corredo di relazioni e contatti è lo strumento attraverso cui l’organizzazione criminale effettua il salto di qualità verso attività commerciali di apparente rispettabilità e liceità».
I commissari concludono stigmatizzando «l’irregolarità della condotta del Comune nella gestione della gara», e anche questa considerazione è stata analizzata dal prefetto Gabrielli per arrivare alle sue determinazioni. Che da un lato hanno portato alla proposta dello scioglimento per mafia del Municipio di Ostia, dall’altro a utilizzare toni più indulgenti con l’assessore Estella Marino: «Non pare discutibile che il dottor Altamura sia inizialmente riuscito nell’intento di “orientare” l’assessore verso decisioni che riservavano alle cooperative una serie di affidamenti in materia di verde pubblico; ma è da sottolineare come ciò sia accaduto nei primi tempi del suo incarico, quando è lecito ritenere che l’amministratore non avesse penetrato a sufficienza la conoscenza degli uffici a lei facenti capo, e dei personaggi che li popolavano».
Tra l’altro Gabrielli precisa che «alla criticità del contesto (ereditato dal sindaco Ignazio Marino dalla Giunta Alemanno, ndr ) si aggiunge, duole dirlo, una generale assenza di iniziative di organi esterni capaci di fornire la dimensione del pericolo dell’infiltrazione mafiosa o, più in generale, delle anomalie esistenti nel sistema degli appalti capitolini; e questo nonostante che alcune rilevanti iniziative di indagine avevano portato alla luce significativi casi di malaffare riguardante le partecipate di Roma Capitale». Una censura apparentemente rivolta all’ex prefetto Pecoraro, il quale insediò la commissione d’accesso che ha riservato severe critiche non solo alla Giunta Alemanno ma anche a quella Marino.
Gabrielli ha concluso il suo lavoro proponendo, tra l’altro, la rimozione del segretario generale del Campidoglio in carica con entrambi i sindaci, Liborio Iudicello. Destinatario di analoga proposta era anche l’ex capo della segreteria del sindaco Marino, Mattia Stella, che nelle intercettazioni appariva come uno che Buzzi intendeva utilizzare per i suoi scopi. Stella ieri si è dimesso, (come Iudicello), e il sindaco gli ha ribadito vicinanza e solidarietà. Quanto alle due amministrazioni, il prefetto spiega che con Alemanno Mafia Capitale utilizzava «come strumento principe l’intimidazione mafiosa», mentre con Marino «la disponibilità di amministratori e dipendenti pubblici viene acquisita attraverso la corruzione».
Corriere 11.7.15
L’ultima occasione di Marino
di Aldo Cazzullo
La capitale d’Italia sta diventando un caso internazionale di incuria e degrado. L a morte di un bambino in una metropolitana da anni a livelli mediorientali, ulteriormente peggiorati da giornate di sciopero a singhiozzo, ne è soltanto l’ultimo, gravissimo segno. (Nella foto, il sindaco di Roma, Ignazio Marino).
Va avanti a singhiozzo pure l’aeroporto, in piena stagione turistica e alla vigilia del Giubileo. Mentre lo scandalo di Mafia Capitale si va profilando in tutta la sua gravità: emerge un quadro sempre più serio di contaminazione tra malaffare e malapolitica; e cresce l’impressione che non sia affatto finita qui. Se una città si riduce in tali condizioni, è inevitabile guardare al sindaco. Ignazio Marino non ha responsabilità immediate nei disastri di questi giorni (Fiumicino non è neppure nel suo Comune); ma non può considerarsi soltanto un capro espiatorio. Nessuno dubita della sua integrità personale; ma finora la sua difesa è stata debole.
Non basta addossare le responsabilità al partito. Tutti sanno che il Pd romano è inquinato da clientelismo e corruzione; non a caso è stato commissariato. Troppi segnali però indicano che Marino ha fatto poco, come sostiene nella sua relazione il procuratore Pignatone. Tre dipartimenti su 15 (Politiche sociali, Ambiente, Emergenza abitativa) in mano a Mafia Capitale; la richiesta del prefetto Gabrielli di rimuovere il direttore generale del Comune e di sciogliere il consiglio municipale di Ostia; interferenze in grado di inquinare gli appalti e le scelte delle società controllate, dall’Ama all’Ente Eur: gli elementi raccontati sul Corriere da Giovanni Bianconi confermano che non bastano l’onestà e le buone intenzioni a liberare l’amministrazione dagli interessi criminali.
Marino non può pensare di rispondere al disagio della capitale con formule tipo «resterò fino al 2023», come se avesse la rielezione in tasca. Non può illudersi di continuare come se nulla fosse. Deve dimostrare di essere capace di uno scatto. Deve aprire una nuova stagione. Costruisca un’altra giunta, di altro livello, aperta a tecnici non legati ai partiti, a personalità della cultura e delle professioni, a esponenti di primo piano della società civile. Ce ne sono molti, disposti a fare qualcosa per la loro città. Se Roma è sporca, caotica, corrotta, lo si deve anche a una parte dei suoi cittadini, che forse la amano più a parole che con i comportamenti. Chiunque contrasti un tono medio di accidia e degrado morale rischia l’impopolarità. Marino però è riuscito benissimo a diventare impopolare, senza incidere sui comportamenti viziosi. È arrivato il momento di ribaltare il quadro.
Tra le sue grandi risorse, Roma ha una fortissima identità (i romani da più generazioni sono pochi ma i nuovi arrivati diventano romani rapidamente), segnata da tolleranza, ironia, accortezza, capacità di adattamento. Il confine con il menefreghismo, il cinismo, l’astuzia, l’arte di arrangiarsi è molto labile, e spesso è stato oltrepassato. Ma ora una maggioranza crescente di romani, al di là degli schieramenti ideologici, avverte la necessità di un cambiamento profondo, di una ricostruzione incentrata su regole, legalità, buona amministrazione, valori etici e anche estetici. Se Marino è in grado di prendere la testa di questo movimento, lo faccia, e dimostri in primo luogo di saper cambiare se stesso e la propria amministrazione. Se non è in grado, sarebbe meglio per lui lasciare di propria volontà, senza essere costretto dalla forza delle cose. «Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce» è scritto sul profilo del sindaco su WhatsApp. Una colta citazione di Lao Tse. Qualcuno gli ricordi che era anche il motto di Giulio Andreotti.
L’ultima occasione di Marino
di Aldo Cazzullo
La capitale d’Italia sta diventando un caso internazionale di incuria e degrado. L a morte di un bambino in una metropolitana da anni a livelli mediorientali, ulteriormente peggiorati da giornate di sciopero a singhiozzo, ne è soltanto l’ultimo, gravissimo segno. (Nella foto, il sindaco di Roma, Ignazio Marino).
Va avanti a singhiozzo pure l’aeroporto, in piena stagione turistica e alla vigilia del Giubileo. Mentre lo scandalo di Mafia Capitale si va profilando in tutta la sua gravità: emerge un quadro sempre più serio di contaminazione tra malaffare e malapolitica; e cresce l’impressione che non sia affatto finita qui. Se una città si riduce in tali condizioni, è inevitabile guardare al sindaco. Ignazio Marino non ha responsabilità immediate nei disastri di questi giorni (Fiumicino non è neppure nel suo Comune); ma non può considerarsi soltanto un capro espiatorio. Nessuno dubita della sua integrità personale; ma finora la sua difesa è stata debole.
Non basta addossare le responsabilità al partito. Tutti sanno che il Pd romano è inquinato da clientelismo e corruzione; non a caso è stato commissariato. Troppi segnali però indicano che Marino ha fatto poco, come sostiene nella sua relazione il procuratore Pignatone. Tre dipartimenti su 15 (Politiche sociali, Ambiente, Emergenza abitativa) in mano a Mafia Capitale; la richiesta del prefetto Gabrielli di rimuovere il direttore generale del Comune e di sciogliere il consiglio municipale di Ostia; interferenze in grado di inquinare gli appalti e le scelte delle società controllate, dall’Ama all’Ente Eur: gli elementi raccontati sul Corriere da Giovanni Bianconi confermano che non bastano l’onestà e le buone intenzioni a liberare l’amministrazione dagli interessi criminali.
Marino non può pensare di rispondere al disagio della capitale con formule tipo «resterò fino al 2023», come se avesse la rielezione in tasca. Non può illudersi di continuare come se nulla fosse. Deve dimostrare di essere capace di uno scatto. Deve aprire una nuova stagione. Costruisca un’altra giunta, di altro livello, aperta a tecnici non legati ai partiti, a personalità della cultura e delle professioni, a esponenti di primo piano della società civile. Ce ne sono molti, disposti a fare qualcosa per la loro città. Se Roma è sporca, caotica, corrotta, lo si deve anche a una parte dei suoi cittadini, che forse la amano più a parole che con i comportamenti. Chiunque contrasti un tono medio di accidia e degrado morale rischia l’impopolarità. Marino però è riuscito benissimo a diventare impopolare, senza incidere sui comportamenti viziosi. È arrivato il momento di ribaltare il quadro.
Tra le sue grandi risorse, Roma ha una fortissima identità (i romani da più generazioni sono pochi ma i nuovi arrivati diventano romani rapidamente), segnata da tolleranza, ironia, accortezza, capacità di adattamento. Il confine con il menefreghismo, il cinismo, l’astuzia, l’arte di arrangiarsi è molto labile, e spesso è stato oltrepassato. Ma ora una maggioranza crescente di romani, al di là degli schieramenti ideologici, avverte la necessità di un cambiamento profondo, di una ricostruzione incentrata su regole, legalità, buona amministrazione, valori etici e anche estetici. Se Marino è in grado di prendere la testa di questo movimento, lo faccia, e dimostri in primo luogo di saper cambiare se stesso e la propria amministrazione. Se non è in grado, sarebbe meglio per lui lasciare di propria volontà, senza essere costretto dalla forza delle cose. «Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce» è scritto sul profilo del sindaco su WhatsApp. Una colta citazione di Lao Tse. Qualcuno gli ricordi che era anche il motto di Giulio Andreotti.
il Fatto 11.7.15
Mafia Capitale
Bufera in Campidoglio Stella lascia Marino, e il sindaco applaude
No è indagato, ma un componente importante della segreteria del sindaco di Roma Ignazio Marino, ha lasciato il suo incarico. È Mattia Stella, responsabile dell’attuazione del programma e dei rapporti con le realtà economiche e sociali. Il suo nome era emerso nell’inchiesta su Mafia Capitale ma era subito stato specificato che Stella non era indagato. Solo giovedì si era dimesso anche il se-
gretario generale del Campidoglio, Liborio Iudicello, nella lista nera dei dirigenti ritenuti condizionabili stilata dal prefetto Franco Gabrielli. ”D’intesa con il Sindaco, ho deciso di interrompere la mia collaborazione – ha scritto Stella –. Ho sempre agito con lo sguardo di chi credeva nella buona fede degli interlocutori, sempre in coerenza con il mandato amministrativo di Ignazio Marino”. “Con questa scelta – conclude – non intendo fare un passo indietro”. Marino ha fatto sapere di aver “accolto e condiviso” le dimissioni, ricordando il “contributo intelligente, sapiente e determinante” di Stella. All’ormai ex componente dello staff del sindaco sono arrivate parole di apprezzamento di gran parte della giunta comunale, compreso l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella, ex magistrato antimafia.
Mafia Capitale
Bufera in Campidoglio Stella lascia Marino, e il sindaco applaude
No è indagato, ma un componente importante della segreteria del sindaco di Roma Ignazio Marino, ha lasciato il suo incarico. È Mattia Stella, responsabile dell’attuazione del programma e dei rapporti con le realtà economiche e sociali. Il suo nome era emerso nell’inchiesta su Mafia Capitale ma era subito stato specificato che Stella non era indagato. Solo giovedì si era dimesso anche il se-
gretario generale del Campidoglio, Liborio Iudicello, nella lista nera dei dirigenti ritenuti condizionabili stilata dal prefetto Franco Gabrielli. ”D’intesa con il Sindaco, ho deciso di interrompere la mia collaborazione – ha scritto Stella –. Ho sempre agito con lo sguardo di chi credeva nella buona fede degli interlocutori, sempre in coerenza con il mandato amministrativo di Ignazio Marino”. “Con questa scelta – conclude – non intendo fare un passo indietro”. Marino ha fatto sapere di aver “accolto e condiviso” le dimissioni, ricordando il “contributo intelligente, sapiente e determinante” di Stella. All’ormai ex componente dello staff del sindaco sono arrivate parole di apprezzamento di gran parte della giunta comunale, compreso l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella, ex magistrato antimafia.
Il Sole 11.7.15
Scuola, attuazione in 9 deleghe e 24 decreti
La riforma approvata. Doppio binario per l’alternanza: il nuovo regime partirà solo per le classi terze, le altre seguiranno le vecchie regole
Percorso in salita: per ora fermi voucher da 500 euro e Its, partenza lenta per la valutazione insegnanti
di Claudio Tucci
Roma L’inizio di un percorso di valutazione degli insegnanti? Per ora sarà poco più di una sperimentazione: al termine infatti del triennio 2016-2018 gli Uffici scolastici regionali dovranno inviare al Miur una relazione sui criteri adottati dalle scuole per premiare i docenti meritevoli; poi dovrà essere istituito un apposito tavolo tecnico ministeriale per arrivare (chissà quando, e comunque «previo confronto con parti sociali e rappresentanze professionali») a stilare linee guida nazionali per la valutazione dei docenti (rivedibili annualmente). Anche il voucher di 500 euro all’anno per la formazione continua dei professori, sulla carta dovrebbe partire subito, ma la sua attuazione concreta richiede l’emanazione di un Dpcm, di concerto con Miur e Mef, che dovrà definire criteri e modalità di assegnazione e utilizzo della somma. Senza contare che pure le prime semplificazioni di alcune norme regolatorie degli Its, per essere realizzate, debbono attendere l’emanazione di un decreto interministeriale. Polemiche e ricorsi a parte (su cui si veda altro articolo qui sotto) l’attuazione della riforma della scuola si presenta come una strada in salita: serviranno almeno 24 provvedimenti amministrativi per rendere operative alcune norme del provvedimento, oltre a ben 9 deleghe con le quali il governo intende riscrivere ampie parti della normativa scolastica, a partire dall’accesso all’insegnamento nella scuola secondaria, al riordino delle classi di concorso (fondamentale prima di bandire il nuovo concorso a cattedre per circa 60mila posti il 1° dicembre), al nuovo sistema di istruzione 0-6 anni, alla revisione dei percorsi dell’istruzione professionale.
E se per il potenziamento di arte, musica, lingue, diritto ed economia, saranno essenzialmente le scuole, nella loro autonomia, a decidere, per il decollo del «curriculum dello studente», con la possibilità cioè per i ragazzi dal terzo anno delle superiori di individuare materie opzionali di studio, servirà accanto al Dm - da emanare sentito il garante per la privacy, per disciplinare le modalità di trattamento dei dati inseriti nel curriculum - una direttiva ministeriale.
Anche la valutazione dei dirigenti scolastici e il collegamento con la retribuzione di risultato per “entrare in vigore” dovranno passare attraverso il confronto sindacale, e in ogni caso sarà il Miur a dover dettare le linee d’indirizzo. Sono state attenuate, direttamente nella legge Renzi-Giannini, le conseguenze del mancato superamento del periodo di formazione di prova per i docenti neo assunti. In caso di pagella negativa, non scatterà subito il licenziamento, ma gli insegnanti avranno una seconda chance: dovranno sottoporsi a un secondo periodo di formazione e di prova, non rinnovabile. Per i docenti di ruolo la formazione in servizio diventa obbligatoria, ma le attività formative devono essere definite dalle scuola sulla base di indicazioni nazionali adottate ogni tre anni con un decreto Miur.
Una delle nove deleghe contenute nella riforma si riferisce all’istruzione professionale. Ma anche l’istruzione tecnica, riformata cinque anni fa sempre da Mariastella Gelmini, ha bisogno di un check-up attento. Se non altro perché tutta la filiera tecnico-professionale deve essere più legata al mondo produttivo: quando usciremo dalla crisi, ci sarà bisogno di personale specializzato che le scuole devono saper formare secondo quello che serve alle imprese.
In questo senso il potenziamento, e l’obbligatorietà, dell’alternanza scuola-lavoro è un passo positivo. Tuttavia a settembre ci sarà un sistema “misto”. Le novità della riforma (l’innalzamento ad almeno 400 ore nei tecnici e professionali, e ad almeno 200 ore nei licei) si applicheranno solo ai ragazzi delle classi terze. E poi nei successivi due anni si estenderà a quarte e quinte. Per i ragazzi di quarta e quinta, quindi, a settembre varrà “la vecchia alternanza”: e cioè circa 70 ore l’anno, non obbligatorie.
Scuola, attuazione in 9 deleghe e 24 decreti
La riforma approvata. Doppio binario per l’alternanza: il nuovo regime partirà solo per le classi terze, le altre seguiranno le vecchie regole
Percorso in salita: per ora fermi voucher da 500 euro e Its, partenza lenta per la valutazione insegnanti
di Claudio Tucci
Roma L’inizio di un percorso di valutazione degli insegnanti? Per ora sarà poco più di una sperimentazione: al termine infatti del triennio 2016-2018 gli Uffici scolastici regionali dovranno inviare al Miur una relazione sui criteri adottati dalle scuole per premiare i docenti meritevoli; poi dovrà essere istituito un apposito tavolo tecnico ministeriale per arrivare (chissà quando, e comunque «previo confronto con parti sociali e rappresentanze professionali») a stilare linee guida nazionali per la valutazione dei docenti (rivedibili annualmente). Anche il voucher di 500 euro all’anno per la formazione continua dei professori, sulla carta dovrebbe partire subito, ma la sua attuazione concreta richiede l’emanazione di un Dpcm, di concerto con Miur e Mef, che dovrà definire criteri e modalità di assegnazione e utilizzo della somma. Senza contare che pure le prime semplificazioni di alcune norme regolatorie degli Its, per essere realizzate, debbono attendere l’emanazione di un decreto interministeriale. Polemiche e ricorsi a parte (su cui si veda altro articolo qui sotto) l’attuazione della riforma della scuola si presenta come una strada in salita: serviranno almeno 24 provvedimenti amministrativi per rendere operative alcune norme del provvedimento, oltre a ben 9 deleghe con le quali il governo intende riscrivere ampie parti della normativa scolastica, a partire dall’accesso all’insegnamento nella scuola secondaria, al riordino delle classi di concorso (fondamentale prima di bandire il nuovo concorso a cattedre per circa 60mila posti il 1° dicembre), al nuovo sistema di istruzione 0-6 anni, alla revisione dei percorsi dell’istruzione professionale.
E se per il potenziamento di arte, musica, lingue, diritto ed economia, saranno essenzialmente le scuole, nella loro autonomia, a decidere, per il decollo del «curriculum dello studente», con la possibilità cioè per i ragazzi dal terzo anno delle superiori di individuare materie opzionali di studio, servirà accanto al Dm - da emanare sentito il garante per la privacy, per disciplinare le modalità di trattamento dei dati inseriti nel curriculum - una direttiva ministeriale.
Anche la valutazione dei dirigenti scolastici e il collegamento con la retribuzione di risultato per “entrare in vigore” dovranno passare attraverso il confronto sindacale, e in ogni caso sarà il Miur a dover dettare le linee d’indirizzo. Sono state attenuate, direttamente nella legge Renzi-Giannini, le conseguenze del mancato superamento del periodo di formazione di prova per i docenti neo assunti. In caso di pagella negativa, non scatterà subito il licenziamento, ma gli insegnanti avranno una seconda chance: dovranno sottoporsi a un secondo periodo di formazione e di prova, non rinnovabile. Per i docenti di ruolo la formazione in servizio diventa obbligatoria, ma le attività formative devono essere definite dalle scuola sulla base di indicazioni nazionali adottate ogni tre anni con un decreto Miur.
Una delle nove deleghe contenute nella riforma si riferisce all’istruzione professionale. Ma anche l’istruzione tecnica, riformata cinque anni fa sempre da Mariastella Gelmini, ha bisogno di un check-up attento. Se non altro perché tutta la filiera tecnico-professionale deve essere più legata al mondo produttivo: quando usciremo dalla crisi, ci sarà bisogno di personale specializzato che le scuole devono saper formare secondo quello che serve alle imprese.
In questo senso il potenziamento, e l’obbligatorietà, dell’alternanza scuola-lavoro è un passo positivo. Tuttavia a settembre ci sarà un sistema “misto”. Le novità della riforma (l’innalzamento ad almeno 400 ore nei tecnici e professionali, e ad almeno 200 ore nei licei) si applicheranno solo ai ragazzi delle classi terze. E poi nei successivi due anni si estenderà a quarte e quinte. Per i ragazzi di quarta e quinta, quindi, a settembre varrà “la vecchia alternanza”: e cioè circa 70 ore l’anno, non obbligatorie.
Corriere 11.7.15
Il rifiuto del 2 per mille: un plebiscito contro i partiti
di Pierluigi Battista
Non ci voleva molto a capire come mai i partiti fossero e restino ancora così contrari al deperimento del loro finanziamento pubblico. Il perché ammonta a una cifra resa nota in questi giorni: 325 mila euro. È la cifra complessiva che 16.518 contribuenti su circa 41 milioni hanno deciso di erogare ai partiti attraverso il meccanismo (volontario) del 2 per mille. Un cifra risibile. Un plebiscito contro i partiti. Un segnale, l’ennesimo, che i cittadini italiani non sono disposti a sborsare nemmeno un euro per finanziare la politica. Un rifiuto massiccio, corale, quasi unanime. Si capisce che i partiti abbiano qualche remora ad affidare al contributo volontario delle persone la loro sopravvivenza economica. Ma non si capisce bene se non si vergognino almeno un po’. Se sentano qualcosa che assomiglia all’umiliazione, alla percezione di un isolamento nel recinto degli infetti, con una reputazione oramai ai minimi storici, perché sotto quei minimi c’è soltanto il nulla.
E invece se ne lamenteranno. E chiederanno di spremere le risorse pubbliche. Non si chiederanno se per caso non sia malata una politica incapace di attirare su di sé un gesto generoso, di simpatia, di incoraggiamento. Diranno che è colpa della predicazione dell’«anti-politica».
Non si domanderanno come mai siano così poco amati, anzi siano così disprezzati, considerati dei parassiti, dei dilapidatori di risorse, apparati di potere che succhiano denaro da ogni opera pubblica, che praticano il voto di scambio, che mandano in Parlamento gente mediocre, in qualche caso ignorante, priva di ogni credibilità e autorevolezza.
Se la prenderanno con gli italiani. Ci vorrebbe un soprassalto di orgoglio. Un sussulto di consapevolezza: farsi contagiare dall’idea che quei soldi devono meritarseli, con un minimo di passione militante. Altrimenti si spartiscano i 325 mila euro. Di più è troppo.
Il rifiuto del 2 per mille: un plebiscito contro i partiti
di Pierluigi Battista
Non ci voleva molto a capire come mai i partiti fossero e restino ancora così contrari al deperimento del loro finanziamento pubblico. Il perché ammonta a una cifra resa nota in questi giorni: 325 mila euro. È la cifra complessiva che 16.518 contribuenti su circa 41 milioni hanno deciso di erogare ai partiti attraverso il meccanismo (volontario) del 2 per mille. Un cifra risibile. Un plebiscito contro i partiti. Un segnale, l’ennesimo, che i cittadini italiani non sono disposti a sborsare nemmeno un euro per finanziare la politica. Un rifiuto massiccio, corale, quasi unanime. Si capisce che i partiti abbiano qualche remora ad affidare al contributo volontario delle persone la loro sopravvivenza economica. Ma non si capisce bene se non si vergognino almeno un po’. Se sentano qualcosa che assomiglia all’umiliazione, alla percezione di un isolamento nel recinto degli infetti, con una reputazione oramai ai minimi storici, perché sotto quei minimi c’è soltanto il nulla.
E invece se ne lamenteranno. E chiederanno di spremere le risorse pubbliche. Non si chiederanno se per caso non sia malata una politica incapace di attirare su di sé un gesto generoso, di simpatia, di incoraggiamento. Diranno che è colpa della predicazione dell’«anti-politica».
Non si domanderanno come mai siano così poco amati, anzi siano così disprezzati, considerati dei parassiti, dei dilapidatori di risorse, apparati di potere che succhiano denaro da ogni opera pubblica, che praticano il voto di scambio, che mandano in Parlamento gente mediocre, in qualche caso ignorante, priva di ogni credibilità e autorevolezza.
Se la prenderanno con gli italiani. Ci vorrebbe un soprassalto di orgoglio. Un sussulto di consapevolezza: farsi contagiare dall’idea che quei soldi devono meritarseli, con un minimo di passione militante. Altrimenti si spartiscano i 325 mila euro. Di più è troppo.
il Fatto 11.7.15
Donazioni ai partiti: pochi soldi ai tesorieri
di Antonio Padellaro
C’è poco da fare, i 16.518 italiani che nel 2014 hanno versato “volontariamente” la miseria di 325 mila euro ai partiti, sono il sondaggio più autentico e inappellabile sulla popolarità della politica che rasenta ormai lo zero assoluto. Che non c’entri la crisi è dimostrato dal miliardo donato alla Chiesa cattolica e, del resto, ormai tutti hanno capito la differenza che esiste tra chi trasforma i soldi ricevuti in aiuti a chi soffre e chi soffre perché non viene più aiutato a beccare quattrini. Ad abboccare alla favola del “costo della democrazia” deve essere rimasto soltanto qualche parente prossimo (e pure incline al masochismo) della pingue casta che, peraltro, se la passa benone tra emolumenti, vitalizi e prebende varie. Purtroppo per i tesorieri in gramaglie (Sposetti in primis, che quando piange se la ride sotto i baffi), sono stati quei maledetti Cinquestelle a rovinare il giochino da quando hanno dimostrato che si può fare politica, e con un certo successo, senza toccare un solo euro pubblico. E per restare al Pd, a cui è andata buona parte dell’elemosina, ci spiegate per quale diavolo di motivo un contribuente sano di mente dovrebbe privarsi di un solo centesimo per donarlo, per esempio, a quel malfamato partito romano che il due per mille (ma anche molto di più) se lo faceva versare da Mafia Capitale? Ah, le vacche grasse sono finite dietro le sbarre? Coraggio, uno può sempre cercarsi un lavoro.
Donazioni ai partiti: pochi soldi ai tesorieri
di Antonio Padellaro
C’è poco da fare, i 16.518 italiani che nel 2014 hanno versato “volontariamente” la miseria di 325 mila euro ai partiti, sono il sondaggio più autentico e inappellabile sulla popolarità della politica che rasenta ormai lo zero assoluto. Che non c’entri la crisi è dimostrato dal miliardo donato alla Chiesa cattolica e, del resto, ormai tutti hanno capito la differenza che esiste tra chi trasforma i soldi ricevuti in aiuti a chi soffre e chi soffre perché non viene più aiutato a beccare quattrini. Ad abboccare alla favola del “costo della democrazia” deve essere rimasto soltanto qualche parente prossimo (e pure incline al masochismo) della pingue casta che, peraltro, se la passa benone tra emolumenti, vitalizi e prebende varie. Purtroppo per i tesorieri in gramaglie (Sposetti in primis, che quando piange se la ride sotto i baffi), sono stati quei maledetti Cinquestelle a rovinare il giochino da quando hanno dimostrato che si può fare politica, e con un certo successo, senza toccare un solo euro pubblico. E per restare al Pd, a cui è andata buona parte dell’elemosina, ci spiegate per quale diavolo di motivo un contribuente sano di mente dovrebbe privarsi di un solo centesimo per donarlo, per esempio, a quel malfamato partito romano che il due per mille (ma anche molto di più) se lo faceva versare da Mafia Capitale? Ah, le vacche grasse sono finite dietro le sbarre? Coraggio, uno può sempre cercarsi un lavoro.
il Fatto 11.7.15
Il flop
La scelta del 2 per mille ai partiti Gli italiani snobbano la casta: solo spiccioli alla politica
A decorrere dall’anno finanziario 2014, con riferimento al precedente periodo d’imposta, ciascun contribuente poteva scegliere di destinare un finanziamento al proprio partito politico di riferimento. Gli italiani, però, hanno preferito virare su altro. Anche quest’anno la Chiesa cattolica, con l’80% delle scelte e 1,2 miliardi incassati, si aggiudica la stragrande maggioranza delle donazioni legate all’8 per mille da parte di 18.929.945 di contribuenti italiani. Di tutt’altro segno è stato l’incasso percepito dai partiti politici con i versamenti del 2 per mille: solo 16.518 contribuenti – su un totale di 41 milioni di dichiaranti – hanno fatto questa scelta. Il bottino, secondo quanto diffuso dal Dipartimento del Tesoro, è stato decisamente scarso: appena 325mila euro. Una cifra irrisoria se paragonata al numero dei donanti. Il più gettonato è stato il partito di Matteo Renzi in testa alla classifica: al Pd sono andati infatti 199.099 euro da 10.157 contribuenti. A Seguire la Lega con 28.140 euro da 1.839 contribuenti e Fi con 24.712 euro da 829 contribuenti. Sel infine ha incassato 23.287 euro da 1.592 contribuenti.
Il flop
La scelta del 2 per mille ai partiti Gli italiani snobbano la casta: solo spiccioli alla politica
A decorrere dall’anno finanziario 2014, con riferimento al precedente periodo d’imposta, ciascun contribuente poteva scegliere di destinare un finanziamento al proprio partito politico di riferimento. Gli italiani, però, hanno preferito virare su altro. Anche quest’anno la Chiesa cattolica, con l’80% delle scelte e 1,2 miliardi incassati, si aggiudica la stragrande maggioranza delle donazioni legate all’8 per mille da parte di 18.929.945 di contribuenti italiani. Di tutt’altro segno è stato l’incasso percepito dai partiti politici con i versamenti del 2 per mille: solo 16.518 contribuenti – su un totale di 41 milioni di dichiaranti – hanno fatto questa scelta. Il bottino, secondo quanto diffuso dal Dipartimento del Tesoro, è stato decisamente scarso: appena 325mila euro. Una cifra irrisoria se paragonata al numero dei donanti. Il più gettonato è stato il partito di Matteo Renzi in testa alla classifica: al Pd sono andati infatti 199.099 euro da 10.157 contribuenti. A Seguire la Lega con 28.140 euro da 1.839 contribuenti e Fi con 24.712 euro da 829 contribuenti. Sel infine ha incassato 23.287 euro da 1.592 contribuenti.
Corriere 11.7.15
Il governo e la campagna d’autunno per puntellarsi
di Massimo Franco
Matteo Renzi sta preparando la campagna di settembre. La riunione di quello che a Palazzo Chigi è definito «gabinetto di guerra» si è svolta qualche giorno fa. E a sorpresa, è emersa la sua convinzione che i numeri del governo siano destinati a consolidarsi, non a diminuire: a cominciare proprio dal Senato. Non ci sarebbe soltanto la fronda dei parlamentari di Denis Verdini dentro Forza Italia. Renzi e la sua cerchia intravedono uno sfaldamento anche in altri gruppi; e perfino qualche segnale da alcuni settori della minoranza del Pd. Per questo, tra i partecipanti la previsione è che a settembre, quando si voterà la riforma del Senato, il testo cambierà assai poco.
Ma soprattutto, il presidente del Consiglio sta delineando una strategia che prevede un’insistenza crescente nei confronti dell’Europa in materia di crescita; una legge di stabilità che non esclude provvedimenti tali da sfidare i vincoli del 2,8 per cento nel rapporto fra deficit e Pil; e un’offensiva referendaria per la primavera del 2016, che si salderà con le elezioni comunali in alcune gradi città. Ieri, una qualche eco di questo approccio si è avuta nella sua conferenza stampa: lì dove ha avvertito che nessuno può pensare «che dopo avere fatto le riforme a casa nostra l’Italia vada con la faccia soddisfatta in Europa».
«Possiamo dire o no», ha chiesto, «che un’Europa che si basa solo sui parametri non esiste? Ecco qual è la discussione dei prossimi mesi». Lo schema è chiaro. Sulla possibilità che prevalga occorre mantenere la cautela. FI assicura di essere contraria a Renzi e al governo; e nega la rinascita del Patto del Nazareno con Berlusconi, descrivendo un premier «impantanato, messo al palo dalla sua minoranza». E chiede una modifica della riforma del Senato che preveda l’elezione diretta. L’ipotesi incrocia quella dei 25 dissidenti del Pd, che l’hanno proposta.
L’incognita, dunque, rimane nelle file della sinistra. L’approvazione del testo sulla scuola ha lasciato segni di nervosismo tra il governo e un pezzo della sua maggioranza. Si parlava della possibilità che Renzi recuperasse l’unità del Pd, riesumando il «teorema» vincente per portare al Quirinale Sergio Mattarella. Per ora, però, la sensazione è che cresca la divergenza tra il partito tradizionale e quello renziano. Per questo ci si chiede se, per avere i numeri, il premier a Palazzo Madama preferirà fare affidamento sui transfughi di altre forze.
E, in questo caso, quale prezzo pagherebbe. Ufficializzare l’appoggio della componente di Verdini accentuerebbe l’irritazione nelle file del Pd. La stessa insistenza di Palazzo Chigi sulla comunicazione sbagliata del partito rappresenta un riconoscimento implicito delle difficoltà dell’esecutivo. Che in questa fase appaia indebolito, non lo dicono solo i sondaggi. Ma Renzi rivendica riforme e posti di lavoro, e accusa: « Se le avessero fatte quelli prima di noi, la nostra economia oggi sarebbe più forte».Vuole ribadire in anticipo che nel futuro ci sarà ancora lui .
Il governo e la campagna d’autunno per puntellarsi
di Massimo Franco
Matteo Renzi sta preparando la campagna di settembre. La riunione di quello che a Palazzo Chigi è definito «gabinetto di guerra» si è svolta qualche giorno fa. E a sorpresa, è emersa la sua convinzione che i numeri del governo siano destinati a consolidarsi, non a diminuire: a cominciare proprio dal Senato. Non ci sarebbe soltanto la fronda dei parlamentari di Denis Verdini dentro Forza Italia. Renzi e la sua cerchia intravedono uno sfaldamento anche in altri gruppi; e perfino qualche segnale da alcuni settori della minoranza del Pd. Per questo, tra i partecipanti la previsione è che a settembre, quando si voterà la riforma del Senato, il testo cambierà assai poco.
Ma soprattutto, il presidente del Consiglio sta delineando una strategia che prevede un’insistenza crescente nei confronti dell’Europa in materia di crescita; una legge di stabilità che non esclude provvedimenti tali da sfidare i vincoli del 2,8 per cento nel rapporto fra deficit e Pil; e un’offensiva referendaria per la primavera del 2016, che si salderà con le elezioni comunali in alcune gradi città. Ieri, una qualche eco di questo approccio si è avuta nella sua conferenza stampa: lì dove ha avvertito che nessuno può pensare «che dopo avere fatto le riforme a casa nostra l’Italia vada con la faccia soddisfatta in Europa».
«Possiamo dire o no», ha chiesto, «che un’Europa che si basa solo sui parametri non esiste? Ecco qual è la discussione dei prossimi mesi». Lo schema è chiaro. Sulla possibilità che prevalga occorre mantenere la cautela. FI assicura di essere contraria a Renzi e al governo; e nega la rinascita del Patto del Nazareno con Berlusconi, descrivendo un premier «impantanato, messo al palo dalla sua minoranza». E chiede una modifica della riforma del Senato che preveda l’elezione diretta. L’ipotesi incrocia quella dei 25 dissidenti del Pd, che l’hanno proposta.
L’incognita, dunque, rimane nelle file della sinistra. L’approvazione del testo sulla scuola ha lasciato segni di nervosismo tra il governo e un pezzo della sua maggioranza. Si parlava della possibilità che Renzi recuperasse l’unità del Pd, riesumando il «teorema» vincente per portare al Quirinale Sergio Mattarella. Per ora, però, la sensazione è che cresca la divergenza tra il partito tradizionale e quello renziano. Per questo ci si chiede se, per avere i numeri, il premier a Palazzo Madama preferirà fare affidamento sui transfughi di altre forze.
E, in questo caso, quale prezzo pagherebbe. Ufficializzare l’appoggio della componente di Verdini accentuerebbe l’irritazione nelle file del Pd. La stessa insistenza di Palazzo Chigi sulla comunicazione sbagliata del partito rappresenta un riconoscimento implicito delle difficoltà dell’esecutivo. Che in questa fase appaia indebolito, non lo dicono solo i sondaggi. Ma Renzi rivendica riforme e posti di lavoro, e accusa: « Se le avessero fatte quelli prima di noi, la nostra economia oggi sarebbe più forte».Vuole ribadire in anticipo che nel futuro ci sarà ancora lui .
Corriere 11.7.15
Verdini sceglie: sostengo Matteo
«Aspettiamo l’ora X». Ed è chiaro che l’attesa di Verdini non è più un segno di incertezza ma il preludio all’azione.
di Francesco Verderami
Non si sa quanti fossero i parlamentari azzurri che l’altro giorno stavano ad ascoltarlo, è certo che durante l’incontro riservato l’ex coordinatore di Forza Italia ha anticipato la linea che «sarà legata ai movimenti di Renzi sulle riforme».
In attesa dell’«ora X», Verdini ha offerto un quadro del leader democratico, a metà strada tra il profilo psicologico e l’analisi politica: «Datemi retta, non è tipo disposto a galleggiare. Non frequenta salotti, non si è fatto rapire dal ponentino romano. O farà quanto ha in mente o se ne tornerà a casa senza consultare il partito, la famiglia, gli imprenditori... Denuncerà che non gli è stato consentito cambiare il Paese e saluterà. Lo conosco: aspettiamoci una reazione forte sulle riforme. E chi pensa che sarà disposto ad accettare una mediazione, avrà brutte sorprese. Non ci saranno patti, nessuna trattativa. A quel punto il problema non sarà suo ma di tutti gli altri. Vedremo chi si aggregherà. Noi voteremo sì».
Appuntamento dunque per l’«ora X», che «scatterà in settembre». Sarà allora che si compirà il disegno. Il cerimoniere del Nazareno è parso pronto a salutare Berlusconi, e soprattutto a lasciare un partito in cui si sente «in forte disagio»: «Non sono d’accordo su niente, non mi piace nulla. Un giorno stiamo con Tsipras sull’Europa, il giorno dopo stiamo con la Camusso sulla scuola... Stiamo con chi capita, alla giornata». D’altronde è questa la condizione in cui versa Forza Italia, «diventata — a giudizio di Verdini — irrilevante sia sotto il profilo elettorale sia sotto il profilo politico», e perciò destinata a un «progressivo e inesorabile declino». Perché — ecco il punto — «una forza aggregante non può sopravvivere se diventa una forza aggregata». Chi stava ad ascoltarlo giura che Salvini non è stato citato. Non ce n’era bisogno.
Non era questo il finale di partita che aveva previsto per Berlusconi, probabilmente Verdini non aveva ancora previsto per lui un finale. La condizione in cui si trova è dovuta — manco a dirlo — alla rottura del patto con Renzi. Una colpa scaricata sui «nuovi consiglieri» dell’ex premier: «Prima l’hanno portato allo sfascio e ora tentano di recuperare. Sento parlare di Nazareno 2, Nazareno 3... Sono tentativi sterili di chi, resosi conto di aver commesso una follia, cerca vie d’uscita. Ma non credo che Silvio possa e voglia tornare sui propri passi. Anzi, è un miracolo che stia ancora in piedi».
A Berlusconi riconosce «la forza e il talento di un Maradona», a cui andrebbe dato «un pallone d’oro alla carriera». Invece gli hanno affibbiato una condanna che è «surreale»: «Tutti sanno com’è caduto Prodi. Lo sa persino Prodi. Già si reggeva con il puntaspilli e i voti dei senatori a vita. Dopo l’arresto della moglie del suo ministro della Giustizia gli è saltato il governo. Ma allora, quando stava ancora a Palazzo Chigi, l’unico nel centrodestra convinto che sarebbe entrato in crisi era Silvio: né Fini né Casini ci credevano. E fece un capolavoro con la svolta del predellino, che impose con la forza della politica. Certe cose però le fai quando sei determinante...». Dicono che in quel momento Verdini abbia sospirato, con sincera, partecipata e teatrale compostezza.
Ma il «pallone d’oro alla carriera» sa di fine corsa. Su Renzi invece l’analisi è stata diversa: «Diciamolo — ha detto ai presenti — lui è una vera novità nella politica. Nel senso che rispetto agli altri non è tipo disposto a traccheggiare, a prender tempo. Va dritto». E se è vero che a forza di andar dritti si rischia prima o poi lo schianto, è altrettanto vero — così parlò Verdini — che «un’alternativa a Matteo non c’è. E questa è anche la sua fortuna». Perciò i boatos su un cambio in corsa alla guida del governo, la lista dei suoi possibili successori a Palazzo Chigi, sono esercizi di fantasia che più prosaicamente vengono definite «masturbazioni politiche di Palazzo».
C’è Renzi, ci sono le riforme, e ci sarebbe poi un «progetto per ricostruire un’area che elettoralmente potrebbe valere il venti per cento». Ciò che resta del vecchio Pdl però non sembra in grado di realizzarlo, «sbagliano tutti — secondo Verdini — anche gli amici centristi. Nessuno pensa che debbano lasciare il governo, non è il tema. Ma lo si vuol capire o no che in questa legislatura possiamo fare solo manovre parlamentari e non manovre politiche? Perché leader in giro non ce ne sono. E allora sarebbe necessario che tutti facessero un passo indietro per dar vita a un’aggregazione. Per ora si può contare su molti deputati e senatori ma su pochi voti. Per il futuro le potenzialità sarebbero invece enormi».
In attesa dell’«ora X», Verdini ieri si è trincerato dietro una rappresentazione estemporanea della Turandot, così da non dover smentire o confermare la riunione: «Nessun dooorma/nessun dooorma». Ed è stato inutile chiedergli quanti fossero i parlamentari azzurri presenti all’esibizione: «Ma no, c’era solo il mio amico Mazzoni ad ascoltarmi». Prima che si interrompesse la conversazione si è però sentito distintamente: «Ecco... Scrivete che eravamo solo in due che è meglio». Clic.
Verdini sceglie: sostengo Matteo
«Aspettiamo l’ora X». Ed è chiaro che l’attesa di Verdini non è più un segno di incertezza ma il preludio all’azione.
di Francesco Verderami
Non si sa quanti fossero i parlamentari azzurri che l’altro giorno stavano ad ascoltarlo, è certo che durante l’incontro riservato l’ex coordinatore di Forza Italia ha anticipato la linea che «sarà legata ai movimenti di Renzi sulle riforme».
In attesa dell’«ora X», Verdini ha offerto un quadro del leader democratico, a metà strada tra il profilo psicologico e l’analisi politica: «Datemi retta, non è tipo disposto a galleggiare. Non frequenta salotti, non si è fatto rapire dal ponentino romano. O farà quanto ha in mente o se ne tornerà a casa senza consultare il partito, la famiglia, gli imprenditori... Denuncerà che non gli è stato consentito cambiare il Paese e saluterà. Lo conosco: aspettiamoci una reazione forte sulle riforme. E chi pensa che sarà disposto ad accettare una mediazione, avrà brutte sorprese. Non ci saranno patti, nessuna trattativa. A quel punto il problema non sarà suo ma di tutti gli altri. Vedremo chi si aggregherà. Noi voteremo sì».
Appuntamento dunque per l’«ora X», che «scatterà in settembre». Sarà allora che si compirà il disegno. Il cerimoniere del Nazareno è parso pronto a salutare Berlusconi, e soprattutto a lasciare un partito in cui si sente «in forte disagio»: «Non sono d’accordo su niente, non mi piace nulla. Un giorno stiamo con Tsipras sull’Europa, il giorno dopo stiamo con la Camusso sulla scuola... Stiamo con chi capita, alla giornata». D’altronde è questa la condizione in cui versa Forza Italia, «diventata — a giudizio di Verdini — irrilevante sia sotto il profilo elettorale sia sotto il profilo politico», e perciò destinata a un «progressivo e inesorabile declino». Perché — ecco il punto — «una forza aggregante non può sopravvivere se diventa una forza aggregata». Chi stava ad ascoltarlo giura che Salvini non è stato citato. Non ce n’era bisogno.
Non era questo il finale di partita che aveva previsto per Berlusconi, probabilmente Verdini non aveva ancora previsto per lui un finale. La condizione in cui si trova è dovuta — manco a dirlo — alla rottura del patto con Renzi. Una colpa scaricata sui «nuovi consiglieri» dell’ex premier: «Prima l’hanno portato allo sfascio e ora tentano di recuperare. Sento parlare di Nazareno 2, Nazareno 3... Sono tentativi sterili di chi, resosi conto di aver commesso una follia, cerca vie d’uscita. Ma non credo che Silvio possa e voglia tornare sui propri passi. Anzi, è un miracolo che stia ancora in piedi».
A Berlusconi riconosce «la forza e il talento di un Maradona», a cui andrebbe dato «un pallone d’oro alla carriera». Invece gli hanno affibbiato una condanna che è «surreale»: «Tutti sanno com’è caduto Prodi. Lo sa persino Prodi. Già si reggeva con il puntaspilli e i voti dei senatori a vita. Dopo l’arresto della moglie del suo ministro della Giustizia gli è saltato il governo. Ma allora, quando stava ancora a Palazzo Chigi, l’unico nel centrodestra convinto che sarebbe entrato in crisi era Silvio: né Fini né Casini ci credevano. E fece un capolavoro con la svolta del predellino, che impose con la forza della politica. Certe cose però le fai quando sei determinante...». Dicono che in quel momento Verdini abbia sospirato, con sincera, partecipata e teatrale compostezza.
Ma il «pallone d’oro alla carriera» sa di fine corsa. Su Renzi invece l’analisi è stata diversa: «Diciamolo — ha detto ai presenti — lui è una vera novità nella politica. Nel senso che rispetto agli altri non è tipo disposto a traccheggiare, a prender tempo. Va dritto». E se è vero che a forza di andar dritti si rischia prima o poi lo schianto, è altrettanto vero — così parlò Verdini — che «un’alternativa a Matteo non c’è. E questa è anche la sua fortuna». Perciò i boatos su un cambio in corsa alla guida del governo, la lista dei suoi possibili successori a Palazzo Chigi, sono esercizi di fantasia che più prosaicamente vengono definite «masturbazioni politiche di Palazzo».
C’è Renzi, ci sono le riforme, e ci sarebbe poi un «progetto per ricostruire un’area che elettoralmente potrebbe valere il venti per cento». Ciò che resta del vecchio Pdl però non sembra in grado di realizzarlo, «sbagliano tutti — secondo Verdini — anche gli amici centristi. Nessuno pensa che debbano lasciare il governo, non è il tema. Ma lo si vuol capire o no che in questa legislatura possiamo fare solo manovre parlamentari e non manovre politiche? Perché leader in giro non ce ne sono. E allora sarebbe necessario che tutti facessero un passo indietro per dar vita a un’aggregazione. Per ora si può contare su molti deputati e senatori ma su pochi voti. Per il futuro le potenzialità sarebbero invece enormi».
In attesa dell’«ora X», Verdini ieri si è trincerato dietro una rappresentazione estemporanea della Turandot, così da non dover smentire o confermare la riunione: «Nessun dooorma/nessun dooorma». Ed è stato inutile chiedergli quanti fossero i parlamentari azzurri presenti all’esibizione: «Ma no, c’era solo il mio amico Mazzoni ad ascoltarmi». Prima che si interrompesse la conversazione si è però sentito distintamente: «Ecco... Scrivete che eravamo solo in due che è meglio». Clic.
il Fatto 11.7.15
Bonsanti: “Il governo non ha più credibilità”
Le intercettazioni pubblicate ieri sul Fatto
sono devastanti per la credibilità della classe politica che ci governa. Ma quello che è più grave a mio avviso è la conferma definitiva che la riforma della Costituzione nasce all’interno di un patto Renzi-Berlusconi. Credo che bisognerebbe interrompere subito un processo riformatore nato e sviluppatosi fuori dal Parlamento. Prendiamo atto definitivamente che ci fu una vera e propria congiura Toscana per cacciare Enrico Letta da Palazzo Chigi, che chi poteva opporsi e era informato acconsentì forse perché ricattato. Prendiamo atto che questa è la politica che ci governa, altro che democrazia! Bisogna andare al voto appena possibile, riprenderci la nostra dignità di cittadini, finirla una buona volta con la politica del segreto e del sommerso. Anche la congiura dei Pazzi, alla fine, fallì. SANDRA BONSANTI presidente Libertà e giustizia
Bonsanti: “Il governo non ha più credibilità”
Le intercettazioni pubblicate ieri sul Fatto
sono devastanti per la credibilità della classe politica che ci governa. Ma quello che è più grave a mio avviso è la conferma definitiva che la riforma della Costituzione nasce all’interno di un patto Renzi-Berlusconi. Credo che bisognerebbe interrompere subito un processo riformatore nato e sviluppatosi fuori dal Parlamento. Prendiamo atto definitivamente che ci fu una vera e propria congiura Toscana per cacciare Enrico Letta da Palazzo Chigi, che chi poteva opporsi e era informato acconsentì forse perché ricattato. Prendiamo atto che questa è la politica che ci governa, altro che democrazia! Bisogna andare al voto appena possibile, riprenderci la nostra dignità di cittadini, finirla una buona volta con la politica del segreto e del sommerso. Anche la congiura dei Pazzi, alla fine, fallì. SANDRA BONSANTI presidente Libertà e giustizia
La Stampa 11.7.15
I leader europei e l’uso interno della crisi greca
di Cesare Martinetti
La settimana scorsa Sarkozy aveva anticipato il Consiglio europeo e messo la Grecia fuori dall’euro prima ancora di conoscere il risultato del referendum. Hollande, invece, ha anticipato lo stesso Tsipras e ieri mattina ha dichiarato che il piano di riforme di Atene è «serio e credibile» prima ancora di averlo visto. E come faceva a saperlo?
Perché sembra che in segreto abbia mandato i suoi consiglieri a consigliare il governo di Atene. Intanto la direttrice dell’ufficio nazionale del turismo greco Nella Tylianaki, citata dalla Reuters, annuncia un boom di prenotazioni da parte dei turisti francesi: ne sono attesi almeno un milione e 600 mila, il 10 per cento in più rispetto all’anno scorso che fu già record. Insomma, per dirla in sintesi con Arnaud Leparmentier, sperimentatissimo corrispondente europeo di Le Monde, la Grecia sta diventando un’autentica «hystérie française».
Una corsa folle e un po’ grottesca, sullo sfondo delle cartoline delle vacanze (a proposito, non dimenticate di postare la vostra #GreciaPerMe sul profilo Twitter de La Stampa) dove all’immagine mitica e mitizzata della Grecia si affianca l’irrinunciabile fascinazione francese per il giacobino di turno, in questo caso Alexis Tsipras. In realtà il volto quasi sempre sorridente del primo ministro greco non è che un punchball dove si scaricano i colpi di una durissima battaglia politica interna. Ognuno prende posizione in vista delle presidenziali 2017 che si annunciano come la madre di tutte le battaglie politiche francesi. In questi giorni è ricomparso persino Michel Houellebecq, dopo i giorni terribili di Charlie. E l’autore di Soumission, come d’abitudine, in un’intervista alla Revue des Deux Mondes, non ha fatto mancare la sua stilettata, timbrando il premier Manuel Valls con un «deficiente».
In realtà l’uso improprio della Grecia in funzione di politica interna non è solo francese. In Germania l’adesione del leader socialdemocratico Sigmar Gabriel alla linea di Angela Merkel ha provocato qualche rottura dentro la Spd. Ma Gabriel è vicecancelliere nel governo di grande coalizione, sa che il sentimento dominante dell’elettore tedesco non è certo tenero con la Grecia e anche lui fa i suoi conti elettorali.
In Italia Matteo Renzi, assediato da destra e da sinistra da un inedito festival degli opposti estremismi, ha tenuto una linea centrale, sostanzialmente filo-Merkel, ma pronto ad allinearsi subito all’ottimismo di François Hollande, pronosticando addirittura l’accordo prima di domenica. Salvini, Brunetta, Grillo, Vendola, la sinistra Pd con Fassina sono un plotone di esecuzione pronto al fuoco per far scivolare il governo sulla banana greca.
È vero, come dice il politologo francese Marc Lazar, che per la sinistra riformista europea è arrivato il momento di una riflessione approfondita su democrazia, politica economica, modello di crescita, lavoro, società e in definitiva a quali elettori vuole rivolgersi. Il problema è che non c’è traccia di questa riflessione perché resa impossibile dal fatto che ognuno si muove tatticamente in funzione della propria battaglia politica nazionale.
Torniamo in Francia, che per l’attivismo di Hollande in questi ultimi giorni si sta affermando come la protagonista della mediazione possibile tra Merkel e Tsipras. Ora, si sa benissimo, per convergenti e confermati retroscena di Consiglio europeo, che il Presidente francese non ha nessuna simpatia personale né stima politica per il primo ministro greco. Perché allora tanto attivismo? Perché Hollande e il suo governo hanno bisogno di riguadagnare credito a sinistra, avendo verdi e ultragauche all’opposizione dichiarata e una consistente ala di «frondeurs» nel Ps sempre sul limite della rottura per la politica economica di Manuel Valls giudicata troppo di destra e «liberale». E così l’Eliseo ha inviato persino qualche consigliere economico per aiutare Tsipras a confezionare un piano accettabile dall’Eurogruppo. La riconquista di una leadership che sappia di sinistra vale bene una «messa» con Syriza.
Sarkozy ha il problema opposto, quello di una leadership di destra, distinguendosi da Marine Le Pen, opportunista fan di Tsipras in funzione anti Merkel-Bruxelles. Con il Front, però, l’ex Presidente, ormai scatenato nella corsa alla riconquista dell’Eliseo, condivide (senza dirlo) le posizioni su immigrazione e sicurezza. E allora nella partita greca punta tutto su un elettorato d’ordine, che preferirebbe (ma chissà se è vero) la solidità del vecchio asse con la Germania all’avventurismo della banda filo Tsipras.
Giochi d’azzardo sulla pelle - anche questi - dell’Unione europea, per i quali le previsioni sui flussi turistici dell’estate greca appaiono come una parabola aneddotica. Se si annuncia la corsa dei francesi alle isole dell’Egeo, è già una realtà la ritirata di tedeschi e scandinavi: cinquantamila disdette negli ultimi giorni. «Nessuna voglia di prendermi in faccia i pomodori dei greci», ha detto un intervistato nell’inchiesta della Reuters. E come dargli torto?
I leader europei e l’uso interno della crisi greca
di Cesare Martinetti
La settimana scorsa Sarkozy aveva anticipato il Consiglio europeo e messo la Grecia fuori dall’euro prima ancora di conoscere il risultato del referendum. Hollande, invece, ha anticipato lo stesso Tsipras e ieri mattina ha dichiarato che il piano di riforme di Atene è «serio e credibile» prima ancora di averlo visto. E come faceva a saperlo?
Perché sembra che in segreto abbia mandato i suoi consiglieri a consigliare il governo di Atene. Intanto la direttrice dell’ufficio nazionale del turismo greco Nella Tylianaki, citata dalla Reuters, annuncia un boom di prenotazioni da parte dei turisti francesi: ne sono attesi almeno un milione e 600 mila, il 10 per cento in più rispetto all’anno scorso che fu già record. Insomma, per dirla in sintesi con Arnaud Leparmentier, sperimentatissimo corrispondente europeo di Le Monde, la Grecia sta diventando un’autentica «hystérie française».
Una corsa folle e un po’ grottesca, sullo sfondo delle cartoline delle vacanze (a proposito, non dimenticate di postare la vostra #GreciaPerMe sul profilo Twitter de La Stampa) dove all’immagine mitica e mitizzata della Grecia si affianca l’irrinunciabile fascinazione francese per il giacobino di turno, in questo caso Alexis Tsipras. In realtà il volto quasi sempre sorridente del primo ministro greco non è che un punchball dove si scaricano i colpi di una durissima battaglia politica interna. Ognuno prende posizione in vista delle presidenziali 2017 che si annunciano come la madre di tutte le battaglie politiche francesi. In questi giorni è ricomparso persino Michel Houellebecq, dopo i giorni terribili di Charlie. E l’autore di Soumission, come d’abitudine, in un’intervista alla Revue des Deux Mondes, non ha fatto mancare la sua stilettata, timbrando il premier Manuel Valls con un «deficiente».
In realtà l’uso improprio della Grecia in funzione di politica interna non è solo francese. In Germania l’adesione del leader socialdemocratico Sigmar Gabriel alla linea di Angela Merkel ha provocato qualche rottura dentro la Spd. Ma Gabriel è vicecancelliere nel governo di grande coalizione, sa che il sentimento dominante dell’elettore tedesco non è certo tenero con la Grecia e anche lui fa i suoi conti elettorali.
In Italia Matteo Renzi, assediato da destra e da sinistra da un inedito festival degli opposti estremismi, ha tenuto una linea centrale, sostanzialmente filo-Merkel, ma pronto ad allinearsi subito all’ottimismo di François Hollande, pronosticando addirittura l’accordo prima di domenica. Salvini, Brunetta, Grillo, Vendola, la sinistra Pd con Fassina sono un plotone di esecuzione pronto al fuoco per far scivolare il governo sulla banana greca.
È vero, come dice il politologo francese Marc Lazar, che per la sinistra riformista europea è arrivato il momento di una riflessione approfondita su democrazia, politica economica, modello di crescita, lavoro, società e in definitiva a quali elettori vuole rivolgersi. Il problema è che non c’è traccia di questa riflessione perché resa impossibile dal fatto che ognuno si muove tatticamente in funzione della propria battaglia politica nazionale.
Torniamo in Francia, che per l’attivismo di Hollande in questi ultimi giorni si sta affermando come la protagonista della mediazione possibile tra Merkel e Tsipras. Ora, si sa benissimo, per convergenti e confermati retroscena di Consiglio europeo, che il Presidente francese non ha nessuna simpatia personale né stima politica per il primo ministro greco. Perché allora tanto attivismo? Perché Hollande e il suo governo hanno bisogno di riguadagnare credito a sinistra, avendo verdi e ultragauche all’opposizione dichiarata e una consistente ala di «frondeurs» nel Ps sempre sul limite della rottura per la politica economica di Manuel Valls giudicata troppo di destra e «liberale». E così l’Eliseo ha inviato persino qualche consigliere economico per aiutare Tsipras a confezionare un piano accettabile dall’Eurogruppo. La riconquista di una leadership che sappia di sinistra vale bene una «messa» con Syriza.
Sarkozy ha il problema opposto, quello di una leadership di destra, distinguendosi da Marine Le Pen, opportunista fan di Tsipras in funzione anti Merkel-Bruxelles. Con il Front, però, l’ex Presidente, ormai scatenato nella corsa alla riconquista dell’Eliseo, condivide (senza dirlo) le posizioni su immigrazione e sicurezza. E allora nella partita greca punta tutto su un elettorato d’ordine, che preferirebbe (ma chissà se è vero) la solidità del vecchio asse con la Germania all’avventurismo della banda filo Tsipras.
Giochi d’azzardo sulla pelle - anche questi - dell’Unione europea, per i quali le previsioni sui flussi turistici dell’estate greca appaiono come una parabola aneddotica. Se si annuncia la corsa dei francesi alle isole dell’Egeo, è già una realtà la ritirata di tedeschi e scandinavi: cinquantamila disdette negli ultimi giorni. «Nessuna voglia di prendermi in faccia i pomodori dei greci», ha detto un intervistato nell’inchiesta della Reuters. E come dargli torto?
Corriere 11.7.15
I duri di Syriza sconfessano «l’ex amico» Alexis: «E’ venuto meno ai patti, soluzione umiliante»
dal nostro inviato Marco Imarisio
ATENE L’atrio davanti all’emiciclo del Parlamento equivale al nostro corridoio dei passi perduti. Al rientro dal pranzo, il ministro dell’Energia Panagiotis Lafazanis ha la faccia di uno che ha mangiato proprio male. «E’ una questione di principio — urla ad alcuni giovani collaboratori — Questa cosa non era nei patti».
Anche i monoliti presentano qualche crepa, a guardarli da vicino. L’evidente arrabbiatura dell’esponente più importante di «Piattaforma di sinistra», l’ala radicale di Syriza, è in netto contrasto con i sorrisi del neo titolare dell’Economia Euclid Tsakalotos, che dalla parte opposta della sala dispensa calma e rivolge cordiali banalità ai giornalisti che lo circondano. Appena suona la campanella i due chiacchierano per qualche minuto nell’aula ancora semivuota, e si concedono qualche risata. Ma poche ore prima tra i deputati di Syriza, c’era un’aria che mancava l’aria. «Comunque vada — dice Stathis Kouvelakis, uno dei leader della Piattaforma — la spaccatura tra noi e Tsipras è destinata ad aumentare. Il suo racconto della riunione del gruppo parlamentare non aderisce alle versioni benevole che verranno fatte circolare in serata. «Abbiamo detto ad Alexis che non possiamo accettare quello che di fatto è un terzo memorandum della Troika. Non siamo i socialisti e neppure Samaras. Non è giusto rinunciare ai punti fermi dell’accordo che firmammo a Salonicco prima delle elezioni».
Lafazanis, professore di matematica, 65 anni, comunista da sempre, non ha risparmiato «all’ex amico» Alexis la sua ruvidezza. «Stai facendo una cosa incompatibile con il programma di Syriza, che non aiuterà il Paese. Questo è un altro piano di salvataggio con misure di austerità ancora più dure. Ogni soluzione è complicata, ma questa è la più umiliante: indica la resa della Grecia e della sua gente. Noi non ci staremo mai». Il primo ministro si è appellato allo spirito del referendum, quando Syriza si presentò compatta per il no e sembra passato un anno mentre invece era solo una settimana fa. «Il mandato che abbiamo ricevuto è stato quello di ottenere condizioni migliori, non di uscire dell’euro». Ma i conti che vanno regolati sono quelli di casa. La maggioranza ci sarà comunque, in serata le quattro commissioni competenti a giudicare la legge che autorizza il governo a negoziare un nuovo accordo con l’Europa hanno dato il via libera, preludio all’esito positivo del voto in aula che arriverà nel corso della notte. Le opposizioni europeiste come i centristi di To Potami si sono già offerte di fare da stampella.
Quel che non torna nel conto di Tsipras è proprio Syriza, spaccata molto più del dato numerico dei cinque parlamentari che hanno presentato una mozione dove si chiede l’addio immediato all’euro e il ritorno «alla sovranità nazionale» e dell’ex ministro dell’Economia Yannis Varoufakis che sibillino ha detto di sostenere il successore ma non voterà per sopraggiunti impegni di famiglia. Se ci sarà una maggioranza diversa, ci sarà anche un premier diverso, avrebbe detto a conclusione della riunione interna. Se Syriza si spacca, lui promette le dimissioni, che è un modo estremo per tenere insieme una sinistra più complessa di quanto appaia a prima vista.
Alle otto di sera in piazza Syntagma alla manifestazione del no all’accordo si contano settemila persone e almeno otto diversi tipi di bandiere e striscioni con relativi slogan. Ci sono anche quelle di Syriza, e poi in un crescendo di radicalizzazione del messaggio, i comunisti ortodossi del Kke, gli antagonisti anarchici che stanno buoni ma promettono sfracelli nei giorni a venire, e infine quelli di Epam, il Fronte del popolo unito, che nei loro volantini non si accontentano della cancellazione istantanea di ogni debito e memorandum, dell’uscita dall’euro e della nazionalizzazione delle banche, ma chiedono anche una nuova Costituzione che preveda il processo e una «severa» punizione per Angela Merkel. L’accordo passerà anche, ma andare avanti così è dura.
I duri di Syriza sconfessano «l’ex amico» Alexis: «E’ venuto meno ai patti, soluzione umiliante»
dal nostro inviato Marco Imarisio
ATENE L’atrio davanti all’emiciclo del Parlamento equivale al nostro corridoio dei passi perduti. Al rientro dal pranzo, il ministro dell’Energia Panagiotis Lafazanis ha la faccia di uno che ha mangiato proprio male. «E’ una questione di principio — urla ad alcuni giovani collaboratori — Questa cosa non era nei patti».
Anche i monoliti presentano qualche crepa, a guardarli da vicino. L’evidente arrabbiatura dell’esponente più importante di «Piattaforma di sinistra», l’ala radicale di Syriza, è in netto contrasto con i sorrisi del neo titolare dell’Economia Euclid Tsakalotos, che dalla parte opposta della sala dispensa calma e rivolge cordiali banalità ai giornalisti che lo circondano. Appena suona la campanella i due chiacchierano per qualche minuto nell’aula ancora semivuota, e si concedono qualche risata. Ma poche ore prima tra i deputati di Syriza, c’era un’aria che mancava l’aria. «Comunque vada — dice Stathis Kouvelakis, uno dei leader della Piattaforma — la spaccatura tra noi e Tsipras è destinata ad aumentare. Il suo racconto della riunione del gruppo parlamentare non aderisce alle versioni benevole che verranno fatte circolare in serata. «Abbiamo detto ad Alexis che non possiamo accettare quello che di fatto è un terzo memorandum della Troika. Non siamo i socialisti e neppure Samaras. Non è giusto rinunciare ai punti fermi dell’accordo che firmammo a Salonicco prima delle elezioni».
Lafazanis, professore di matematica, 65 anni, comunista da sempre, non ha risparmiato «all’ex amico» Alexis la sua ruvidezza. «Stai facendo una cosa incompatibile con il programma di Syriza, che non aiuterà il Paese. Questo è un altro piano di salvataggio con misure di austerità ancora più dure. Ogni soluzione è complicata, ma questa è la più umiliante: indica la resa della Grecia e della sua gente. Noi non ci staremo mai». Il primo ministro si è appellato allo spirito del referendum, quando Syriza si presentò compatta per il no e sembra passato un anno mentre invece era solo una settimana fa. «Il mandato che abbiamo ricevuto è stato quello di ottenere condizioni migliori, non di uscire dell’euro». Ma i conti che vanno regolati sono quelli di casa. La maggioranza ci sarà comunque, in serata le quattro commissioni competenti a giudicare la legge che autorizza il governo a negoziare un nuovo accordo con l’Europa hanno dato il via libera, preludio all’esito positivo del voto in aula che arriverà nel corso della notte. Le opposizioni europeiste come i centristi di To Potami si sono già offerte di fare da stampella.
Quel che non torna nel conto di Tsipras è proprio Syriza, spaccata molto più del dato numerico dei cinque parlamentari che hanno presentato una mozione dove si chiede l’addio immediato all’euro e il ritorno «alla sovranità nazionale» e dell’ex ministro dell’Economia Yannis Varoufakis che sibillino ha detto di sostenere il successore ma non voterà per sopraggiunti impegni di famiglia. Se ci sarà una maggioranza diversa, ci sarà anche un premier diverso, avrebbe detto a conclusione della riunione interna. Se Syriza si spacca, lui promette le dimissioni, che è un modo estremo per tenere insieme una sinistra più complessa di quanto appaia a prima vista.
Alle otto di sera in piazza Syntagma alla manifestazione del no all’accordo si contano settemila persone e almeno otto diversi tipi di bandiere e striscioni con relativi slogan. Ci sono anche quelle di Syriza, e poi in un crescendo di radicalizzazione del messaggio, i comunisti ortodossi del Kke, gli antagonisti anarchici che stanno buoni ma promettono sfracelli nei giorni a venire, e infine quelli di Epam, il Fronte del popolo unito, che nei loro volantini non si accontentano della cancellazione istantanea di ogni debito e memorandum, dell’uscita dall’euro e della nazionalizzazione delle banche, ma chiedono anche una nuova Costituzione che preveda il processo e una «severa» punizione per Angela Merkel. L’accordo passerà anche, ma andare avanti così è dura.