sabato 17 novembre 2012

l’Unità 17.11.12
Domani l’iniziativa ANPI
«No al fascismo in cento piazze diverse»
Domani giornata antifascista in tutta Italia. Con una petizione l’Anpi chiederà al presidente del Senato giustizia sulle stragi naziste
di Carlo Smuraglia


In Italia, quelli che apparivano semplici rigurgiti di nostalgismo fascista, si stanno manifestando con rinnovato impegno, con rinnovata ampiezza e con crescente diffusione. Si aprono nuove sedi di movimenti neofascisti, si assumono iniziative, spesso ardite, da parte di Forza Nuova, di «Fiamma Tricolore», di «Casa Pound», con un vero e proprio crescendo e spesso con la protezione e l’incoraggiamento anche da parte di pubblici amministratori.
Aumenta la violenza delle manifestazioni, anche da parte di coloro che storicamente risorgono in occasione delle crisi cercando di approfittarne e finiscono sempre per porre in essere vere e proprie spinte verso destra, i cui sbocchi sotto il profilo storico sono sempre stati nefasti. Si aggiungono anche i tentativi di collegamento, addirittura a livello europeo, di cui è inequivocabile dimostrazione la recente manifestazione dell’Mse a Roma. In questa situazione complessiva, la linea di difesa di coloro che credono nei valori della democrazia e dell’antifascismo è ancora troppo debole e spesso incerta tra la reazione immediata e la riflessione più ampia e il tentativo di coinvolgere nella resistenza e nel contrattacco, molti cittadini e le stesse istituzioni.
Colpisce il fatto che l’esposizione di simboli fascisti e le manifestazioni aperte di fascismo (vedi le vergognose esibizioni durante il funerale di Pino Rauti) e nazismo lascino indifferente tanta parte dei cittadini, che non ne considera la gravità e la pericolosità, e trovino un clima troppo tiepido anche nelle istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto della Costituzione. Istituzioni che, al più, possono prendere in considerazione il problema sotto il profilo dell’ordine pubblico, senza avvedersi che il problema è molto più serio e coinvolge princìpi e tematiche riferibili ai valori costituzionali.
Tutto questo trova le sue radici nel fatto che il nostro Paese non ha mai fatto seriamente i conti con il proprio passato, non ha mai analizzato e fatto conoscere a fondo il fascismo, ha trascurato non di rado le pagine più belle della nostra storia, come la Liberazione dai tedeschi e dai fascisti, ed infine è stato troppo tiepido di fronte ai continui attacchi di negazionismo e di revisionismo. Si è diffusa la falsa idea di un fascismo «buono» e «mite», contro la verità e la realtà, a fronte dei tremila morti del primo periodo del fascismo, delle leggi razziali, delle persecuzioni di chi non era fascista e della guerra in cui sono stati mandate al massacro decine di migliaia di giovani e si è rovinato e distrutto il Paese. Revisionismo e negazionismo favoriscono la sottovalutazione dei fenomeni, producono diseducazione e disinformazione, non aiutano la diffusione di un antifascismo di fondo, che dovrebbe essere il connotato comune di tutte le generazioni. Ancora più grave che le stesse istituzioni, mai liberate del tutto dalle incrostazioni fasciste, facciano così poco per trasformarsi in quegli organismi democratici che disegna la Costituzione, con fondamentali disposizioni come l’art. 54 e l’art. 97, ma poi con tutto il quadro dei princìpi che ne costituiscono l’ossatura, il fondamento e la base.
Che dei Comuni possano mostrare aperta simpatia verso i movimenti neofascisti, così come il fatto che troppi prefetti e questori restino inerti (oppure si attestino, come si è detto, sull’ordine pubblico) a fronte di manifestazioni che dovrebbero ripugnare alla coscienza civile di tutti, sono rivelatori di una permeabilità assai pericolosa per istituzioni che per definizione dovrebbero essere democratiche.
Ma c’è di più: un governo che ad una interrogazione parlamentare inerente la vicenda Graziani risponde di non essere competente perché si tratta di un fatto locale (!). E ancora. Noi siamo convinti che gran parte degli appartenenti alle forze dell’ordine sia rispettosa delle norme costituzionali e dei doveri connessi alla loro funzione; ma non possiamo non constatare che ancora troppi sono gli episodi di violenza ingiustificata e arbitraria, da quelli collettivi (vanno ricordati i casi anche recenti vedi lo sciopero del 14 novembre in cui le forze dell’ordine hanno spesso «calcato la mano», anche se continuo a deprecare l’uso della violenza da parte di alcuni manifestanti) a quelli individuali (episodi anche recenti, di cui si è diffusamente occupata la stampa, come i pestaggi di cittadini inermi, gli «anomali» trattamenti riservati ad alcuni arrestati). Questo dimostra che è ancora insufficiente il livello di democratizzazione e di formazione all’interno di corpi che dovrebbero essere sempre e concretamente impegnati nella difesa della democrazia e della convivenza civile, nel profondo rispetto dei diritti del cittadino.
Insomma, un quadro insoddisfacente e preoccupante, contro il quale occorre reagire non solo episodicamente, ma in modo coordinato e diffuso, che riguardi i cittadini, le associazioni, i partiti, i movimenti, ma si riferisca anche alle istituzioni. Uno studioso ha scritto di recente un libro con un titolo significativo: «Italia: una nazione senza Stato», osservando che se si è ormai costruita l’anima (la Nazione) manca, tuttavia, un «corpo» che a quella corrisponda (cioè una Costituzione non solo fatta di intangibili principi ma applicata concretamente e rispettata, governi duraturi, Parlamento che funziona, leggi comprensibili e ispirate a interessi generali, strutture organizzative efficienti e imparziali, burocrazia non arcigna ma fatta per il cittadino, e così via).
Noi siamo d’accordo, in linea di principio, ma pensiamo che in materia di democrazia e di antifascismo ci sia bisogno di uno slancio salutare e innovativo sia per l’anima che per il corpo; ed a questo vogliamo contribuire con una grande campagna di massa per creare una vera cultura dell’antifascismo e della democrazia, per disperdere ogni vocazione autoritaria e populistica, per ricreare la fiducia reciproca fra cittadini e istituzioni.
Di tutto questo parleremo in più di 100 piazze del Paese domani 18 novembre, Giornata Nazionale del tesseramento all’Anpi. Un momento per noi prezioso e importante per portare ossigeno e forza alla democrazia e all’antifascismo e per confrontarci con i cittadini su temi fondamentali per la stessa convivenza civile, individuando i modi e le vie per uscire da una crisi che non è solo economica ma anche politica e morale.

l’Unità 17.11.12
Polizia

Matricole visibili garanzia per tutti
di Ma. So.


«Una questione delicata su cui non ho ancora deciso». Risponde così il ministro dell’Interno Cancellieri sulla questione dei numeri di matricola visibili sui caschi o le divise degli agenti per identificare gli autori di eventuali abusi. Succede in Germania, succede nel Regno Unito, perché non si può fare anche in Italia? Lasciare che il ministero o la magistratura, e soltanto loro, possano identificare gli autori delle violenze attraverso il numero di matricola è una garanzia per tutti. Per chi svolge il proprio lavoro con competenza e onestà e per chi manifesta sapendo che le eventuali «mele marce» non resteranno impunite. Perché attendere? Bisogna impedire che il clima di sfiducia nelle istituzioni democratiche cresca ancora.

l’Unità 17.11.12
Muoversi per crescere. Appello per Bersani


Ma lo è anche nei grandi nodi extraurbani dove non è mai decollata l’integrazione modale e dove mancano le infrastrutture necessarie a superare i colli di bottiglia. Il settore dei trasporti è un settore cruciale, è lì che si giocherà la sfida del prossimo decennio. Un sistema inadeguato, vecchio, inquinante e senza regia sta frenando, oggi, i tempi di reazione alla crisi e limiterà, domani, la capacità di competere. A quasi trent’anni dal primo Piano generale dei trasporti la gomma continua ad essere la modalità prevalente per le merci e per i passeggeri. I Tir e le auto invadono quotidianamente le nostre strade con un costo sociale incalcolabile in termini di inquinamento, perdite di vite umane e spreco di tempo. Il riequilibrio modale è ancora lontano dal venire. La cura del ferro, di cui si sente ancora bisogno, non è mai stata realizzata, nel trasporto regionale e nelle merci. I porti «che dovrebbero operare nell’ottica di cooperazione e di condivisione sotto una regia che li renda funzionali all’esigenze del sistema Paese» mancano delle necessarie infrastrutture per rendere il trasporto marittimo alternativo a quello terreste e non è mai stata posta in essere una credibile politica di riordino dell’autotrasporto. E le politiche di mobilità urbana hanno mancato di coraggio e creatività nel disincentivare l’utilizzo e l’acquisto delle auto e mettere in campo massicci investimenti in trasporto pubblico e mobilità sostenibile. I centri urbani devono essere liberati. I nostri grandi monumenti non possono essere ridotti a sontuosi spartitraffico e le piste ciclabili non possono essere considerate un lusso. Gli italiani devono rivoluzionare il proprio modo di vita ed imparare a spostarsi in modo collettivo. Ma la politica deve essere da guida. Anche per i processi di risanamento industriale nel trasporto pubblico locale, che oggi attraversa una crisi gravissima, da affrontare con urgenza e decisione.
Chi si candida a governare il paese ha l’obbligo di mettere in campo un imponente intervento per modernizzare, fluidificare e razionalizzare il sistema dei trasporti mettendo al centro la logistica che è innovazione, tecnologica e ricerca e il massimo possibile di sicurezza sul lavoro. Investire nei trasporti vuol dire anche salvare la nostra industria specializzata dalla speculazione finanziaria e metterla nelle condizioni di vincere la sfida della competizione internazionale. Le ferrovie, i porti, gli interporti, le strade, gli aeroporti, le linee di trasporto pubblico locale sono un patrimonio su cui tanto si è investito e che non può essere svenduto. Chi ha a cuore il futuro del Paese deve parlare il linguaggio della verità ed accantonare l’uso propagandistico che si è fatto delle grandi infrastrutture. La priorità è nelle piccole opere e negli interventi volti a superare le carenze gestionali ed organizzative e ad aumentare l’efficienza e la qualità dei servizi offerti. Va finalmente messa in campo, e resa operativa, l’Autorità indipendente di regolazione dei trasporti.
Accanto alla responsabilità di indirizzo della politica, i soggetti economici del settore devono poter contare su un rispetto delle norme basato su trasparenza e correttezza. È per tutto questo che siamo al fianco di Pier Luigi Bersani e sosteniamo la sua candidatura a presidente del Consiglio. Grazie alla sua autorevolezza, all’esperienza di governo in questo settore, è la migliore garanzia per gli italiani. Con lui possiamo vincere la sfida e dotare il nostro paese di un sistema di trasporti sostenibile, sicuro, equilibrato, alla portata dei cittadini e attento alle loro esigenze.
Primi firmatari: Michele Meta, Silvia Velo, Mario Lovelli, Costantino Boffa, Fulvio Bonavitacola, Daniela Cardinale, Dario Ginefra, Francesco Laratta, Pierdomenico Martino, Giorgio Merlo, Mario Tullo, Sandra Zampa, Adriano Alessandrini, Daniele Borioli, Roberto Bubboli, Alessandro Capitani, Michele Civita, Gianni Cozzi, Rodolfo De Dominicis, Paolo Delle Site, Massimo Ercolani, Francesco Filippi, Federico Fontana, Michele Giardiello, Stefania Giusti, Luciano Greco, Cesare Guidi, Francesco Mariani, Francesco Maddalena, Antonio Mallamo, Johan Sebastian Marzani, Renato Midoro, Kadigia Mohamud, Mattia Morandi, Francesco Nerli, Luca Persia, Roberto Pesaresi, Alessandro Ricci, Maria Rosaria Saporito, Pietro Spirito, Davide Shingo Usami.

l’Unità 17.11.12
Manifesto Liberal Pd per Bersani, firma anche Battiato


A sostegno della candidatura di Pier Luigi Bersani alle primarie del centrosinistra arriva pure un Manifesto «Liberal», che conta già trenta sottoscrizioni provenienti dal mondo della politica, della cultura, dell’impresa e delle istituzioni. Fra i nomi che hanno aderito all’iniziativa, promossa da Enzo Bianco, presidente dei Liberal Pd, Ludina Barzini (vice presidente Liberal Pd) Luigi De Sena, Antonio Maccanico, Adolfo Battaglia, Franco Battiato, il presidente del Cnr Luigi Nicolais, Pasquale Pistorio (già vice presidente di Confindustria), l’ambasciatore Roberto Di Leo, Giorgio Bogi, Giuseppe Facchetti.
E anche da Dario Fo arriva un appoggio a Bersani. «Renzi? Il toscano non lo sopporto, è un “ciancione” pieno di sé. E non è di sinistra. Se andassero al ballottaggio voterei per Bersani, che ha tanti difetti ma è più umano mentre Renzi lo sento artificiale», ha detto Fo a Radio 24.

l’Unità 17.11.12
Primarie, ecco come registrarsi ai seggi
Sale il numero di uffici elettorali in cui iscriversi, in vista del 25 novembre On line tutti
gli indirizzi e gli orari di apertura, città per città


Sarà di nuovo un weekend di mobilitazione straordinaria, quello di oggi e domani. Il coordinamento per le primarie del 25 novembre ha deciso di aumentare il numero degli uffici elettorali in cui è possibile andare a registrarsi (ora siamo a quota 6.600 tra circoli Pd, Sel, sedi Arci e altro) ma anche di ripetere l’operazione dello scorso fine settimane, con l’allestimento di gazebo nelle principali piazze delle città italiane.
Oggi, tra l’altro, sul sito delle primarie sarà possibile sapere dove bisogna andare a votare il 25 novembre (con eventuale doppio turno il 2 dicembre, se nessun candidato supererà il 50% più uno dei consensi). Bisogna infatti votare nel seggio collegato alla propria sezione elettorale.
COME FARE
Per registrarsi operazione propedeutica per il voto del 25 novembre si può andare in qualunque ufficio elettorale (gli indirizzi e gli orari di apertura, città per città, sono consultabili sempre sul sito delle primarie). Oppure si può fare on-line, andando all’indirizzo web  www.primarieitaliabenecomune.it.
In entrambi i casi bisogna comunicare i propri dati anagrafici, sottoscrivere l’appello a favore del centrosinistra, per l’Italia bene comune, e iscriversi all’Albo degli elettori. È possibile anche lasciare un indirizzo di posta elettronica o un numero di cellulare per avere poi informazioni ulteriori sulle primarie e su dove andare a votare il 25.
Chi si registra on-line deve comunque passare a un ufficio elettorale a versare i due euro (almeno) di contributo spese e ritirare il «certificato di elettore di centrosinistra» che dà diritto a scegliere, tra poco più di una settimana, chi dovrà essere il candidato premier per le prossime elezioni politiche. Anche se sarà possibile farlo il 25 (ma si dovrà fare in un luogo diverso da quello dove si voterà), conviene registrarsi in questi giorni per evitare di dover poi fare file molto più lunghe.
Le urne per votare, tra due domeniche, saranno aperte dalle 8 alle 20. Se nessuno tra Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Nichi Vendola, Laura Puppato e Bruno Tabacci dovesse incassare il 50% più uno dei consensi, ci sarà un secondo turno domenica 2 dicembre. Per quarantott’ore, in quella settimana tra le due votazioni, si potrà iscrivere (per poi votare al secondo turno) chi non lo avesse precedentemente fatto.
Possono partecipare al voto i giovani che abbiano compiuto 18 anni entro il 25, i cittadini dell’Unione europea residenti in Italia e quelli di altri Paesi extra-Ue in possesso di regolare permesso di soggiorno e di carta di identità. Per poter votare sarà necessario esibire al seggio un documento d’identità valido, la tessera elettorale e il proprio «certificato di elettore della coalizione di centrosinistra “Italia Bene Comune”» rilasciato al momento della registrazione all’Albo degli elettori.
Sono moltissimi fanno sapere intanto dal Coordinamento per le primarie i cittadini che si sono già registrati per votare e scegliere il candidato premier del centrosinistra: almeno 180.000 si sono iscritti online, mentre quasi 250.000 si sono registrati negli uffici elettorali allestiti dalla coalizione in tutta Italia.

Corriere 17.11.12
Primarie Pd, la battaglia delle iscrizioni
di Virginia Piccolillo


Il partito: già registrati 430 mila votanti. Il team dello sfidante: alla Leopolda non si può
ROMA — Oltre 430 mila già registrati. Più della metà online. Entra nel vivo la sfida delle primarie per il candidato premier del centrosinistra che si terrà il 25 novembre in quasi 9 mila seggi sparsi in tutta Italia. Per scegliere tra Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Nichi Vendola, Bruno Tabacci e Laura Puppato occorre registrarsi e pagare 2 euro, operazione che potrà essere fatta direttamente in ciascun seggio, portando certificato elettorale e documento d'identità. Ma preregistrarsi, negli uffici elettorali od online, renderebbe tutto più snello, per questo i comitati lo raccomandano.
Si fa più rovente anche la battaglia per la vittoria finale. Con i due favoriti dai sondaggi, Bersani e Renzi, che si punzecchiano. «Va alla grandissima» dichiara Bersani. Mentre Renzi rimarca che le regole lo «penalizzano». Entrambi schierano supporter di peso. Antonio Di Pietro annuncia che parteciperà alle primarie e non voterà per Renzi: «È neoliberista e filo Marchionne. Appoggiamo proposte alternative a Monti. Mi auguro vincano Bersani o Vendola». «Con tutto quello che ha combinato Di Pietro non solo in queste ultime settimane, ma negli ultimi 15-20 anni, meglio così», risponde il rottamatore a stretto giro. Mentre Vendola loda la scelta «giusta» e Bersani raffredda: «Benissimo: ognuno voti chi vuole, ma non si ricostruisce la foto di Vasto».
Per Bersani si schierano anche Dacia Maraini, Giuseppe Tornatore, Paola Concia e Aurelio Mancuso. Spera in un successo del sindaco fiorentino, invece, Marco Pannella: «Ritengo che l'elezione di Renzi possa rappresentare una svolta importantissima in tutta la politica italiana», dice a Radioradicale. Chiarendo però che il rapporto con il Pd è ancora tra concorrenti. A distanza replica il concorrente Bruno Tabacci: «Renzi è un giovane interessante ma ha idee leggere. Abbiamo bisogno di rottamare ladri e imbecilli».
Intanto però l'attenzione è ai numeri. Gli oltre 430 mila che si sono registrati sono ancora molto al di sotto dei 3 milioni, cifra raggiunta nelle scorse primarie e in quelle precedenti, ma, fa notare Nico Stumpo, coordinatore delle primarie, «a quel numero si arrivò in una giornata sola. Quella del voto. Quindi bisogna aspettare. Quello che è straordinario — aggiunge il responsabile organizzazione del Pd — è la partecipazione dei volontari. Uno sforzo enorme. Basta guardare i numeri. Circa 100 mila persone che da un mese sono coinvolte e hanno messo a disposizione alcune ore del loro tempo per le registrazioni, 80 mila lavoreranno il 25 novembre. Numeri enormi che solo il centrosinistra può permettersi». I fondi raccolti, assicura Stumpo, «al netto delle spese sostenute, rimarranno per finanziare la futura campagna elettorale».
Soddisfazione anche nel quartier generale di Renzi. Dove la parola d'ordine è: «Ora basta recriminare mettiamocela tutta». Lo dice chiaro il renziano Lino Paganelli, responsabile feste ed eventi del Pd: «Ora bisogna tutti far sì che la gente partecipi. I numeri ci dicono che c'è una grande partecipazione nei grandi centri. Da domani sul sito si potranno trovare tutti gli indirizzi dei seggi. Contiamo di averne molti di più». In realtà le polemiche proseguono: David Ermini, responsabile del comitato Renzi in provincia di Firenze, denuncia che il comitato del Pd fiorentino «non ha consentito di mettere un tavolo per la registrazione alla Stazione Leopolda».

Corriere 17.11.12
I sospetti renziani sui gazebo. Ai militanti la guida anti brogli
di Angela Frenda


FIRENZE — Nove giorni alle primarie del centrosinistra. E il «generale» Matteo Renzi ieri, nella seconda giornata di Stazione Leopolda, ha deciso di dare una scossa ai motori della macchina per gli ultimi 100 metri. Senza farsi influenzare dai sondaggi, lo ha detto anche ai suoi: «Se vota un numero di persone molto significativo, la partita è aperta; se votano in pochi, è più difficile vincere. In questi giorni arriverà di tutto, frasine, minaccine. State sereni, è la settimana più difficile ma anche la più bella. Ma a chi dice "qui ci asfaltano", rispondo: non provino a toccare nessuno di noi». Stessa opinione per la sua mente organizzativa Lino Paganelli: «I sondaggi? Nelle primarie contano poco. Questi nove giorni fanno la differenza».
E però, la tensione sale. La si percepiva anche ieri mattina, negli incontri a porte chiuse con i comitati. La parola d'ordine è una sola: organizzarsi e difendersi. Proprio come un esercito in guerra. Per la mobilitazione si annunciano porta a porta, aperitivi e «Leopoldine» in tutt'Italia. Mentre a ognuno di loro ieri è stato illustrato il vademecum del «perfetto» rappresentante di seggio di Matteo Renzi. Con tutti i trucchi per evitare i temuti brogli. Eccone alcuni: non perdere mai di vista l'urna. Costruirla sul luogo e non accettarne di preconfezionate. Svuotare l'urna senza mai rovesciare tutto il contenuto sul tavolo. Compilare subito il verbale di voto, fotografarlo, e inviarlo. In questo modo, attraverso un sistema informatico unico, sarà possibile per lo staff renziano vedere in tempo reale i verbali di ciascun seggio, e contestare eventuali brogli. Regole simili a quelle delle primarie della sinistra francese.
Ma i comitati sono titubanti. Nell'incontro nel pomeriggio con un Matteo Renzi spumeggiante contestano vuoti organizzativi. Il sindaco di Firenze prova a tranquillizzarli: «Siamo a un passo dal traguardo. Non perdiamo di vista l'obiettivo». Il vero nodo, spiega Paganelli, «è superare i timori creati nei giorni scorsi dalle voci sulle registrazioni complesse». Renzi lancia l'operazione «Give me Five»: «Ciascuno dei 120 mila volontari web porti a votare alle primarie almeno cinque persone. Chiamate anche la zia Concetta. Tra l'altro i sondaggi ci danno nettamente tra gli anziani. In settimana farò un paio di cose choc».
Intanto la macchina organizzativa prepara la strategia finale. Renzi ieri è rimasto defilato, per lo più dietro il palco a organizzare. Con lui, il solito «quadrato magico», cioè quelli di cui il sindaco, diffidente per natura, davvero si fida: l'amico di sempre (dai tempi degli scout) Gigi De Siervo, dirigente Rai. Marco Carrai, col quale si conoscono da adolescenti, oggi amministratore delegato della «Firenze parcheggi» ma anche colui che tiene i rapporti con il mondo dei finanziatori. Luca Lotti, capo di gabinetto, meno di 40 anni, laurea in Scienze politiche, da Azione cattolica. E Marco Agnoletti, suo portavoce storico. Da loro un suggerimento ad attaccare, nel suo intervento di oggi. Lui però non è convinto. Ha accettato invece di anticipare il suo discorso alle 12: al vecchio orario, le 16, parlava in contemporanea anche Bersani.
Tanti ancora gli interventi di ieri. A cominciare da quello, a sorpresa, di Giorgio Gori, (ex) spin doctor, oggi proiettato verso la politica attiva («Hanno provato a mettere zizzania tra me e Matteo. Io suggeritore? Figuriamoci. E poi quella cravatta viola nessuno di buon senso poteva suggerirgliela»); Don Enzo Mazzi; Mario Adinolfi; Oscar Farinetti («La politica? Come la maionese impazzita»). E c'è il politologo Roberto D'Alimonte («Renzi avrà bisogno di Bersani, e Bersani di Renzi») che in privato ha spiegato al sindaco: il risultato è imprevedibile. Infine lui, Alessandro Baricco. Lo scrittore ha invitato a «fare come gli arabi quando conquistarono la Spagna. Distruggiamo le navi alle spalle. La nostra è un'Italia vera. Bersani e Vendola? Hanno le stesse facce di chi gioca alla playstation e quasi si vergogna». E sul finale, il docuweb girato da Fausto Brizzi: 24 minuti sul «fenomeno Renzi».

Corriere 17.11.12
Camusso tra Bersani (che chiama il Colle) e gli irriducibili

di R. Ba.

ROMA — Nella complessa partita per ridurre il gap di produttività dell'Italia rispetto alla media europea ieri sono entrati in gioco anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il segretario del Pd Pierluigi Bersani. Il capo dello Stato, ricordiamo, è stato molto attivo nel convincere l'ex numero uno di Confindustria Emma Marcegaglia e il segretario generale della Cgil Susanna Camusso — convocandole al Quirinale una settimana prima — a firmare l'intesa del 28 giugno 2011 che avrebbe ridisegnato i contratti e la rappresentanza. Erano giorni particolari, di lì a poco sarebbe scoppiato il caso Italia sui mercati e occorreva la massima coesione possibile. Bersani oggi è preoccupato che il tradizionale asse del Pd con la Cgil offuschi la sua immagine riformista proprio alla vigilia delle elezioni. Molti i contatti nelle ultime ore sull'asse Pd-Colle-Cgil. Basteranno queste leve a convincere Camusso a mettere la sua firma «digitale» su questa faticosa intesa sulla produttività?
La Cgil non è mai stata convinta che forzando il secondo livello di contrattazione si sarebbero risolti tutti i problemi della produttività. E ha sempre temuto che il bonus di sacconiana memoria (per ridurre al 10% le tasse sul salario variabile, con fondi messi a disposizione dal governo per 1,6 miliardi di euro nel biennio) alla fine avrebbe creato un mercato duale dei lavoratori e a lungo andare scardinato la tenuta della previdenza. Secondo i calcoli fatti dall'ufficio studi del sindacato di corso Italia solo due milioni di lavoratori dipendenti su 16 sarebbero interessati al secondo livello. Ben altro ci vuole per rendere più efficiente il nostro sistema produttivo. Susanna Camusso anche l'altro giorno, nel suo discorso da Terni, ha ricordato la strada maestra degli investimenti in ricerca e innovazione e l'aumento delle dimensioni delle imprese, «oggi troppo piccole» per competere. Ma la pressione del governo, che si era già impegnato a presentare a Bruxelles entro il 18 di ottobre scorso una intesa credibile, dei media e anche del Pd forza politica decisiva nel sostegno a Mario Monti, hanno convinto la Cgil ad andare avanti nonostante la netta opposizione interna della Fiom di Maurizio Landini. Il giorno di svolta, quando Corso Italia ha capito che le cose si stavano mettendo su una strada per lei inaccettabile, è stato mercoledì 17 ottobre. Nel pomeriggio, il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, incontrando le associazioni imprenditoriali, ha indicato i famosi 5 punti per il governo fondamentali nel concedere gli sgravi. Tutti capitoli chiesti dalle piccole e medie imprese e dalle banche (leggi demansionamento per risolvere i 30 mila esuberi emersi con la riforma Fornero) e indigesti per i sindacati. Il negoziato avviato da quel momento in poi è stato tutto giocato per mediare la richiesta del governo deciso a spezzare la vecchia logica degli accordi sull'asse Confindustria-Cgil. Un cambiamento epocale, già avviato con l'uscita della Fiat da viale Astronomia, e che ha messo a dura prova la tenuta interna della Cgil. Camusso, in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera domenica 4 novembre, ha iniziato con un «diversivo» chiedendo al governo più coraggio e di approvare un decreto che disciplinasse la rappresentatività. Palazzo Chigi ha indirettamente fatto rispondere al ministro del Lavoro Elsa Fornero che ha ricordato la necessità di un altro decreto, quello con i paletti per concedere gli sgravi fiscali. Le distanze da allora sono aumentate sempre di più e l'altro giorno in un lungo direttivo dove ha prevalso la linea del «no» la Cgil ha deciso l'ultima mossa. Ecco allora la lettera di ieri con la richiesta di rimettere in pista la Fiom nella trattativa per il contratto dei metalmeccanici. Tra oggi e domenica, visto che Squinzi ha detto che il testo dell'accordo lo invierà al governo lunedì, si capirà se la moral suasion incrociata del Colle e del Pd ha avuto successo.
R. Ba.

il Fatto 17.11.12
Il piano di Landini: Primarie per la segreteria della Cgil
Il segretario Fiom rinuncia alla politica per il sindacato
di Salvatore Cannavò


Il futuro del segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, si è ormai chiarito. Nessuna “scesa in campo” politica ma il segreto obiettivo di puntare alla segreteria della Cgil. Solo che con le regole attuali è difficile che possa riuscirci. Ecco perché da un po’ di giorni in Fiom si discute di primarie anche nel principale sindacato per consentire a tutti gli iscritti di scegliersi il segretario generale. Di ufficiale non c’è nulla, ma l’idea viene accarezzata con cura.
A tenere banco, nei mesi scorsi, era stata l’idea del “partito Fiom” che si era ritagliata uno spazio nell'immaginario mediatico e politico. L'amico e compagno di Landini, il torinese Giorgio Airaudo, anima della Fiom che guarda con attenzione alla politica, aveva indicato Landini come “il Lula italiano” immaginando il segretario Fiom a capo di un’operazione politica di sinistra. Landini ha ascoltato con attenzione Airaudo, ha avuto con lui diversi colloqui e ci ha pensato su. Ma alla fine ha preferito declinare la proposta ribadendo la propria vocazione sindacale. Landini resterà, dunque, nel sindacato e nell'immediato dovrà vedersela con problemi noti: la vertenza con la Fiat, il rinnovo del contratto metalmeccanico, la gestione di una crisi durissima nel settore industriale con la perdita di migliaia di posti di lavoro.
MA SE NELL'IMMEDIATO la strada è tracciata nel futuro più lontano gli sbocchi vanno ancora definiti. E l’obiettivo è stato selezionato con prudenza ma anche con cura: la segreteria generale della Cgil. Una prospettiva che sembra preclusa a chi finora ha tenuto una posizione di minoranza dentro il sindacato rosso e che non ha mai esibito rapporti strepitosi con il gruppo dirigente attuale. “Diciamolo chiaramente” spiegano da Corso Trieste, “con le regole attuali Landini non sarà mai il segretario della Cgil”. Con le regole attuali significa dire con i congressi tradizionali, con la blindatura dei gruppi dirigenti e con una modalità tipica della retorica di sinistra. “Con le primarie, invece, sarebbe un'altra storia” spiega la stessa fonte.
Le primarie fra gli iscritti al primo sindacato italiano per eleggere direttamente il segretario generale, rappresenterebbero una scossa significativa. Una rottura della pratica tradizionale dei congressi e dei documenti contrapposti e un modo per movimentare le acque in una struttura che a molti sembra un po' ingessata. A essere entusiasta, per una simile ipotesi, sarebbe innanzitutto la base Fiom. “Con le primarie significa che tu, operaio o impiegato, ti puoi scegliere il tuo, e sottolineo tuo, segretario generale” dice Ciro D'Alessio della Fiom di Pomigliano, uno dei 19 lavoratori di cui il Tribunale ha ordinato l'assunzione in Fiat. “Sarebbe una scelta bellissima; io non ho niente contro Susanna Camus-so, ma certo l'idea di Landini segretario sarebbe una cosa davvero importante”. Ma il messaggio potrebbe arrivare a un pubblico più largo perché la Fiom ha spesso rappresentato ragioni più ampie: “In Fiom siamo tempestati da richieste di iscrizione da parte di lavoratori di altre categorie” spiega ancora D'Alessio e il dato viene confermato anche dalla Fiom nazionale. Per rappresentare tutto questo ci sono solo due strade: quella della “scesa” in politica oppure la segreteria della Cgil. L'obiettivo è segnato, occorre capire come arrivarci. Se davvero dovesse partire la raccolta di firme per chiedere le primarie, l'impatto in Cgil potrebbe essere molto rilevante. Anche per questo prevale ancora la cautela. Sentito dal Fatto, Sergio Cofferati, che della Cgil è stato un autorevolissimo segretario, promotore forse dell'ultima stagione di grande mobilitazione di piazza – la manifestazione contro le modifiche all'articolo 18 del 23 marzo 2002 è negli annali della Cgil – preferisce non sbilanciarsi e sottolinea che in fondo, con la modalità attuale dei congressi, una candidatura alternativa alla segreteria generale si può avanzare lo stesso. E sull'ipotesi di Landini segretario fa un'apertura: “Penso che sia importante che rimanga nel sindacato e penso anche che nessuno spazio gli sia precluso”.

Repubblica 17.11.12
Zingaretti: “Il centrodestra può fare di tutto, ma sarà spazzato via”
“Il governo si è piegato a uno scempio politico”
di Mauro Favale


ROMA — «Possono fare di tutto, ma alla fine verranno spazzati via». Nicola Zingaretti dal 4 ottobre, dopo aver abbandonato improvvisamente la corsa per il Campidoglio («Non sono pentito, anzi»), è ufficialmente il candidato per il centrosinistra alla Regione Lazio, alle prese con una confusa partita per la data del voto.
Sperava nelle urne a dicembre. Ora è arrivato il parere del capo dello Stato: si è rassegnato alla possibilità di non votare prima di marzo?
«Ovviamente rispetterò la decisione che verrà presa anche se così viene anticipata la sentenza del Consiglio di Stato attesa per il 27 novembre. Ritengo comunque che votare a marzo sia un danno che avrà dei costi».
Di che tipo?
«Credo che l’esecutivo si sia piegato a interessi di parte e abbia sottovalutato il costo democratico di lasciare per mesi senza governo Lazio e Lombardia. Questo scempio rischia di provocare un’ulteriore rottura del rapporto tra cittadini e istituzioni. Per non parlare del costo economico».
L’avete quantificato?
«Se voteremo a marzo avremo sprecato 60 milioni di euro. L’immagine che si dà è quella di una casta che non tiene conto degli interessi dei cittadini. Poi ci lamentiamo se cresce l’antipolitica».
Eppure anche il Pd alla fine si è piegato all’election day.
«Bersani ha chiarito la posizione del Pd: votare al più presto per le regioni e a scadenza naturale per le politiche. Poi, davanti all’offensiva del Pdl, si è fatto carico dell’impegno di non mettere a rischio la tenuta del governo».
Con l’election day i romani potrebbero ritrovarsi votare per regionali, politiche e forse anche comunali.
«Voglio solo ricordare il caos dell’election day del 2001, quando ci furono le file ai seggi fino alle 2 di notte. E all’epoca non c’erano le regionali».

Repubblica 17.11.12
L’avvocato Pellegrino: “Nel Lazio bisognava votare entro dicembre”
“Un precedente pericoloso stravolge l’ordinamento”
di Alberto Custodero


ROMA — «Sul Capo dello Stato è stato esercitato un ricatto per costringerlo a non rispettare la legge che, come stabilito dalla Corte costituzionale, impone di votare per il rinnovo della Regione Lazio entro 90 giorni dal suo scioglimento». L’avvocato Gianluigi Pellegrino, amministrativista e difensore di Movimento di cittadini critica la posizione del Quirinale.
Avvocato, non è un po’ forte l’accusa di un ricatto?
«Il Pdl, che teme non già la campagna elettorale ma i risultati delle regionali prima delle politiche, ha scatenato in queste ore un inaccettabile ricatto alle istituzioni: “Se si rispettano le prerogative costituzionali dei cittadini delle Regioni, dice, facciamo cadere il governo”».
Perché allora se la prende con il capo dello Stato?
«Perché Napolitano sta là per respingere i ricatti costituzionali, non per cedere agli stessi. Deve difendere i cittadini contro l’abuso del potere. Se invece per valutazioni di opportunità cede agli abusi di potere, allora rischia di generare confusione nei cittadini».
Il momento è confuso: cosa sta accadendo?
«I cittadini del Lazio si aspettavano che il Presidente li difendesse contro la protervia di Polverini e Berlusconi. Non è avvenuto. Il Quirinale, con il suo comunicato, pur riconoscendo le sacrosante ragioni costituzionali dei cittadini, ha finito anche al di là delle sue intenzioni con l’avallare la violazione della regione e del governo, sovrapponendosi al giudizio del Consiglio di Stato che aveva fissato l’udienza per il prossimo 27 novembre senza entrare nel merito».
Come se la spiega?
«Non resta che pensare che sia il lascito avvelenato degli abusi eversivi di questi venti anni che sembrano paradossalmente aver contaminato anche le istituzioni che meritoriamente li hanno arginati».

l’Unità 17.11.12
Pisapia e Veronesi: «Mai più l’ergastolo»
di Pino Stoppon


MILANO L’ergastolo o il «fine pena mai» «non deve esserci più nel codice penale di un’Italia democratica». A dirlo il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, all’apertura a Milano della quarta conferenza mondiale «Science for peace».
«Con la tutela dei diritti si ottiene anche l’osservanza dei doveri spiega c’è un collegamento diretto tra la pace e le sanzioni. Prima di essere sindaco ho lavorato alla commissione ministeriale di riforma del codice penale, che voleva uscire dall’equazione sanzione uguale carcere». Un progetto che non è stato accolto, ma che secondo il sindaco di Milano andrebbe ripreso. «Ci sono pene più efficaci osserva che consentirebbero sia di risarcire le vittime che di rieducare socialmente il condannato». Pisapia ha infine sottolineato come «l’alleanza tra scienza e pace sia indifferibile, indispensabile e decisiva per un mondo migliore. L’impegno per la pace richiede un salto di qualità e tutti, dalla politica al volontariato e alla società civile, devono adoperarsi per questo. L’antidoto alla guerra è lo sviluppo della scienza e della libertà».
E proprio l’abolizione dell’ergastolo in Italia è il tema della campagna di sensibilizzazione che «Science for peace» ha lanciato quest’anno. E non è solo l’intervento del sindaco di Milano che ha chiarito l’intento ma anche qeullo dell’oncologo Umberto Veronesi.
«La scienza ci ha confermato che l’uomo è geneticamente non violento spiega nel nostro dna non c’è il gene dell’aggressività. La nostra vocazione naturale è alla solidarietà a protezione dei più deboli, mentre l’aggressività è la nostra risposta ad una minaccia alla sopravvivenza, o il risultato di fattori esterni, come un’educazione sbagliata».
E una cultura di pace, secondo Veronesi, non può prescindere da una giustizia «ispirata al recupero e alla riabilitazione della persona. Non c’è solo la pena di morte, che condanniamo, ma anche l’ergastolo, che è una pena di morte più lenta prosegue un’agonia lunga senza speranza, futuro e creatività. L’ergastolo è una pena ingiusta e assurda, che non ha più senso. La violenza chiama violenza, e bisogna interrompere questa catena».
La giustizia spesso è «ingiusta osserva Veronesi ha delle connotazioni vendicative. Giudica senza capire. Bisogna abbandonare l’ergastolo, così come hanno fatto altri paesi europei. L’unico strumento efficace per una società più sicura conclude è la rimozione delle cause che portano alla violenza, come gli squilibri e le ingiustizie sociali, il mobbing, l’intolleranza verso persone o etnie o religione diversa».
Il cervello umano, a differenza di quanto si pensava fino a poco tempo fa, si rigenera durante tutta la vita, quindi, ha detto ancora Veronesi, «chi ha commesso un crimine a 20 anni non è la stessa persona a 40» ed è una «ingiustizia grave» tenerlo in carcere tutta la vita. «L’anno scorso ha ricordato l’oncologo ci siamo battuti per l’abolizione della pena di morte. Uno Stato che uccide infatti legittima i propri cittadini a fare altrettanto, oggi invece vogliamo parlare di violenza nei sistemi giudiziari, dove spesso non c’è giustizia. La violenza chiama altra violenza, bisogna interrompere la catena, e l’ergastolo è spesso il risultato di una giustizia poco giusta. La giustizia deve giudicare, ma anche capire, e oggi la regola è il contrario».

l’Unità 17.11.12
Pd e cattolici democratici. Non guardare indietro
di Giorgio Merlo


UNA COSA È CERTA: LA PRESENZA DEI CATTOLICI DEMOCRATICI NEL PD ERA E RESTA DECISIVA PER MARCARE LA «PLURALITÀ» DEL PARTITO da un lato, e per rendere più feconda e più riformista la proposta politica dall’altro. Del resto, è noto che di fronte alla liturgia, ormai un po’ noiosa e un po’ datata, che il Pd non è altro che lo stanco prolungamento dell’esperienza e della storia della sinistra italiana, è facile rispondere con i fatti. E cioè, proprio i cattolici democratici e i popolari sono stati decisivi, con altri, nella costruzione del «progetto democratico» che non si può ridurre nel futuro, pena il suo fallimento, alla riedizione di un passato ormai archiviato a livello storico e a livello politico. Ma è proprio nell’attuale fase politica che il contributo dei cattolici democratici richiede un soprassalto di dignità e di autorevolezza. La cosiddetta «resistenza» al berlusconismo e a tutto ciò che ha rappresentato anche in termini culturali e di costume è ormai alle nostre spalle.
Anche se è bene non dimenticare che proprio in quella stagione di glorificazione effimera e di entusiasmo mondano del messaggio berlusconiano, solo la piccola pattuglia cattolico democratica, con pochi e sparuti altri compagni di viaggio, osarono mettere in discussione nella variegata area cattolica la proposta politica di quel centrodestra. Spiace ricordarlo, ma molti protagonisti dell’attuale «centro moderato» furono affascinati proprio da quelle parole d’ordine e dai messaggi virtuali che partivano dalle pompose centrali ideologiche del fondatore della Fininvest.
Comunque sia, proprio quei cattolici democratici sono riusciti a mantenere, seppur tra mille difficoltà, la barra dritta e oggi possono autorevolmente e coraggiosamente dire che sono titolati a inaugurare, con altri, una nuova fase della democrazia nel nostro Paese. Una partita che, però, e qui sta la differenza, deve essere giocata adesso non «contro» un avversario apparentemente irriducibile ma «per» la costruzione di una stagione di governo e di riforme che il Paese attende ormai da troppi anni. Una stagione che non può essere contrassegnata dal solo «ritorno delle sinistre» al governo come se fossimo in un gioco a specchi dove la contrapposizione è sempre sistemica e di alternatività quasi antropologica. No, adesso il centrosinistra democratico, riformista e di governo deve saper sprigionare proprio quella «cultura di governo» che ha sempre rivendicato e che, probabilmente, dopo il voto del 2013, sarà chiamato a declinare in prima persona. Altroché l’alternativa di sinistra o il ritorno dell’Unione. In gioco c’è la possibilità di riscoprire proprio quella vena riformista e di profondo cambiamento che ha sempre caratterizzato le migliori stagioni del centrosinistra nella storia democratica del nostro Paese. E il Pd è chiamato direttamente in causa. Proprio il Pd, e cioè il partito riformista più consistente e più radicato nell’attuale fase politica e che può dimostrare adesso la sua vocazione riformista e di cambiamento.
È questa la sfida politica, culturale e programmatica dei cattolici democratici nel Pd e nel Paese. Da pattuglia di resistenza alla degenerazione della presenza dei cattolici ad avanguardia per la riaffermazione di quei valori fondanti che giustificano ancora la nostra presenza nell’agone politico contemporaneo. Nessuna deriva socialdemocratica e nessuna assuefazione al «ritorno delle sinistre». Del resto, il Pd non è nato per quella prospettiva e la sua stessa mission non è mai stata quella di ripetere stancamente le esperienze del passato. Sotto questo profilo, la candidatura a premier di Bersani rappresenta un valore aggiunto e un riconoscimento della specificità di questa esperienza, della nostra esperienza, nel nuovo progetto di governo. E la sua citazione di Papa Giovanni nel recente confronto televisivo con gli altri candidati a premier del centrosinistra perché «riusciva a cambiare le cose nel profondo rassicurando e senza spaventare nessuno» è la conferma che il nostro futuro non rinnega il passato ma lo oltrepassa, senza nostalgie identitarie e senza regressioni ideologiche.
E proprio per centrare questo obiettivo va consolidato e assecondato il «progetto democratico». Non stupisce, pertanto, che i cattolici democratici sono schierati convintamente con Bersani in queste primarie. Consapevoli, però, che c’è un compito tutto politico teso a fecondare la proposta del Pd e del centrosinistra con le nostre idee e i nostri valori e un’altra esigenza, forse più culturale, proiettata invece a convincere settori dell’area cattolica italiana sulla bontà di questa scelta e di questa mission.
Certo, servono coraggio, audacia, intelligenza e forse anche impopolarità. Ma, del resto, lo dice la stessa storia ultradecennale del cattolicesimo democratico. La nostra non è mai stata una scelta di campo «comoda» o «accondiscendente». E anche stavolta dovrà affrontare ostacoli e incomprensioni. Con la speranza però, e anche la fiducia, che nella nuova stagione politica che si sta per aprire conteranno sempre più le proposte e le idee che si mettono in campo per risolvere i problemi dei cittadini. Mutuando sino fondo il vecchio e attualissimo slogan di Pietro Scoppola. Adesso più che mai servono «cultura del comportamento e cultura del progetto».

Corriere 17.11.12
Quelle madri sempre sacrificate la scelta che divide anche i cattolici
di Isabella Bossi Fedrigotti


Sawita, dentista trentunenne, immigrata dall'India in Irlanda, incinta al quarto mese di gravidanza, quasi al quinto, aveva chiesto di abortire dichiarando di essere afflitta da dolori lancinanti. I medici, però — la notizia ha già fatto il giro del mondo — si sono opposti affermando, così pare, che in un Paese cattolico questo non si poteva fare. Che, se il feto era sofferente, bisognava aspettare che morisse. Morta, però, è Sawita, di setticemia, e assieme a lei naturalmente anche il futuro bambino.
Tre sono le possibilità: che i medici fossero fermamente convinti, in nome della religione, che la vita di una madre non vale quella, sia pure ipotetica, visto lo stadio ampiamente incompiuto della gravidanza, del figlio; che i medici fossero, in realtà, cattivi medici, incapaci di diagnosticare il malessere che avrebbe portato Sawita alla morte; che, trattandosi di un'immigrata di colore, avessero trattato il caso con una certa approssimativa disattenzione, secondo un'usanza tristemente diffusa non soltanto in Irlanda, senza davvero impegnarsi a cercare di capire l'inglese forse imperfetto della paziente indiana. Ma è anche possibile, se non probabile, che tutte e tre le cose insieme abbiamo determinato il comportamento dei medici. Di là dal caso specifico dell'infelice Sawita, resta la tormentosa questione di fondo che divide anche i cattolici: davvero è giusto (sul serio lo vorrà Dio?) che, quando si pone l'alternativa, è sempre la madre che va sacrificata in nome del figlio, trascurando la presenza di altri piccoli nonché quella di un marito costretto, in nome di un bambino che nemmeno conosce, a scegliere la vedovanza? Perché la religione «preferisce» il figlio alla mamma? Perché lui rappresenta il futuro e lei (magari trentunenne) soltanto il passato?
Il progresso della medicina ha fortunatamente ridotto di molto i casi in cui si pone la drammatica scelta, e, tuttavia, a volte ancora se ne presentano. Come si presentano casi di madri che, colpite da un tumore, rinunciano alla chemioterapia per non danneggiare il feto: ammirevoli al massimo grado — e subito sante per la Chiesa — però come non pensare che in realtà confidino tutte nel miracolo di avere alla fine salva la vita entrambi, mamma e bambino?

l’Unità 17.11.12
Israele e Gaza, atti di guerra
Colpita Gerusalemme
Continua il lancio di missili su Tel Aviv che riapre i rifugi. Oltre 29 vittime palestinesi
Richiamati 75mila riservisti, minacciato l’attacco di terra ai Territori
Abu Mazen si schiera con Hamas
di Umberto De Giovannangeli


Razzi su Gaza e Tel Aviv. Gaza bombardata. I carri armati di Tsahal ammassati ai confini con la Striscia. I miliziani di Hamas, pronti a colpire nel cuore d’Israele, che annunciano trionfanti: «Abbiamo abbattuto un caccia» con la stella di David. I rifugi che tornano a riaprirsi dopo 21 anni. Nessuna tregua. È guerra. Senza quartiere. Circa 85 missili sono esplosi ieri dì mattina a Gaza nell’arco di 45 minuti, facendo salire in aria dense nubi di fumo nero e provocando due morti secondo fonti di Hamas. È salito ad almeno 29 il bilancio delle vittime palestinesi. Tra i morti ci sono sei bambini e 12 militanti. Un bimbo di 4 anni è stato ucciso insieme a un giovane uomo quando un missile israeliano è caduto vicino alle loro case a Jabaliya. Ci sono anche centinaia di feriti. Nella notte nuovo colpo contro Hamas: l’aeronautica israeliana ha eliminato Ahmed Abu Jalal, uno dei leader del movimento di resistenza islamico in un raid aereo nella Striscia. Lo riferisce il Jerusalem Post.
Un altro ordigno ha raggiunto, invece, un edificio che ospita un generatore di corrente, situato vicino alla casa del primo ministro Ismail Haniyeh. Successivamente però è arrivata anche la risposta di Hamas. Una nuova esplosione è stata udita a Tel Aviv, a causa di un razzo che sarebbe finito in mare.
Il sindaco della città ha disposto l’apertura dei rifugi pubblici. Erano 21 anni che non accadeva L’ultima volta che gli abitanti di Tel Aviv erano stati costretti a riparare nei rifugi fu nel 1991, quando la città fu colpita a più riprese da missili iracheni Scud. Il municipio di Tel Aviv consiglia agli abitanti di verificare dove sia il rifugio pubblico più vicino, in particolare a quanti non abbiano nei loro appartamenti stanze dalle pareti rafforzate.
Le sirene nel pomeriggio sono risuonate anche a Gerusalemme, dove sono state udite alcune esplosioni. Si tratta di razzi Fajr-5 di fabbricazione iraniana che hanno colpito il circondario cittadino. In particolare un razzo è caduto nei pressi dell’insediamento di Gush Etzion, alla periferia sudovest della Città Santa. Dopo il missile caduto nell’area di Gerusalemme, il sindaco della città Nir Barkat ha affermato che al momento non c’è uno stato di allerta tale da dover aprire i rifugi pubblici, come invece è stato fatto a Tel Aviv. Le istruzioni date dal primo cittadino sono di continuare la «normale routine», ma di essere «particolarmente vigili» e di seguire le notizie e gli appelli che arriveranno nelle prossime ore via tv e radio.
Il razzo lanciato dalle Brigate al Qassam, il braccio armato di Hamas, contro Gerusalemme è stato denominato M75 in ricordo di uno dei fondatori del movimento radicale, Ibrahim al Maqadma, ucciso in un raid israeliano nel 2003. «La M sta per Maqadma, 75 per la gittata, che è di 75-80 km», scrivono le Brigate.
Successivamente le brigate Ezzeddin al Qassam di Gaza hanno affermato di aver abbattuto un caccia israeliano con un missile terra-aria. Ma la notizia non ha trovato conferma da parte del ministero della Difesa israeliano.
PAURA
Israele si prepara a proseguire lo scontro militare con i palestinesi e pensa a un’operazione di terra. Lo dimostra il fatto che ha cominciato a richiamare 16.000 dei 30.000 riservisti per i quali è stato dato il via libera alla partecipazione al conflitto con Gaza. L’ingresso dei riservisti nella campagna militare che dura da due giorni indica la necessità di un’operazione che potrebbe durare diversi giorni, anche attraverso un dispiegamento delle truppe sul terreno. Siamo alla vigilia di una campagna massiccia, molto più di quanto lo è stata quella di 4 anni fa. Israele è pronto a mobilitare fino a 75.000 riservisti per la campagna di Gaza. È quanto riporta la tv Canale 2. In serata, il capo di Stato Maggiore delle forze armate israeliane, generale Benny Gantz, arriva al confine sud con la Striscia di Gaza. «Siamo qui stasera (ieri, ndr), alla vigilia di una possibile operazione di terra» ha detto ai soldati. E ha aggiunto: «Non è la nostra prima volta a Gaza». Lo riferisce l’esercito israeliano.
Le Brigate Givati e dei paracadutisti hanno intanto ultimato la «fase di preparazione». Tsahal ha bloccato tutte la strade di accesso alla Striscia, considerata ormai all’interno di una zona di operazioni militari e dunque interdetta al traffico civile.
Da Ramallah prende la parola il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmud Abbas (Abu Mazen). «È il momento giusto per la riconciliazione con Hamas. Uniti contro Israele» afferma. «Andremo comunque all’Onu il 29 novembre per chiedere il passaggio come Stato non membro. Qualunque cosa succeda», aggiunge il presidente palestinese che non intende rinunciare alla sua campagna per un riconoscimento politico dell’Anp. E aggiunge che il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon «fra due o tre giorni» farà visita nei Territori palestinesi.
Parla, Abu Mazen, ma le sue parole si perdono nel clamore delle armi. Gaza si prepara al peggio. Le testimonianze sono angoscianti. Le scene viste in questi giorni negli ospedali dei Territori sono al limite della sopportazione umana. Le vittime giungono a ondate, presentano talvolta ferite orribili, patiscono sofferenze atroci. Le équipe mediche lavorano senza sosta da 72 ore, giorno e notte. Ma è evidente che medici e infermieri sono esausti, scossi: anche loro stanno probabilmente per crollare. È uno scenario apocalittico.

l’Unità 17.11.12
La primavera araba sceglie Hamas
L’isolamento è rotto
La diplomazia dei Paesi arabi da Egitto a Tunisia ha rotto l’isolamento politico del leader palestinese
di U.D.G.


Una prigione infuocata. Ma non più politicamente isolata. Questa è Gaza oggi. Sul piano militare le drammatiche vicende di questi giorni riportano alla memoria l’Operazione «Piombo Fuso», scatenata da Israele quattro anni fa nella Striscia. Ma la storia non si ripete eguale a se stessa. Ciò che è cambiato, profondamente, rispetto a quattro anni fa è lo scenario mediorientale. Non sono sole le piazze arabe a sostenere la «resistenza dei fratelli palestinesi» contro la «brutalità sionista». Il dato di novità, ed è una novità pesantissima, sta nelle nuove leadership prodotte dalle «primavere arabe». A cominciare dal Paese-chiave negli equilibri regionali: l’Egitto. Da Hosni Mubarak a Mohamed Morsi: dal «faraone» garante di una pace, per quanto fredda, con lo Stato ebraico al presidente emanazione dei Fratelli Musulmani. Basta questo per comprendere la portata del cambio epocale che va oltre il Paese delle Piramidi. «A nome del popolo egiziano vi dico che l’Egitto di oggi è diverso dall’Egitto di ieri e che gli arabi di oggi sono diversi dagli arabi del passato rimarca Morsi in una breve dichiarazione rilasciata dopo la preghiera del venerdì in una moschea del Cairo e rilanciata dal’agenzia di stampa Mena Il Cairo non lascia Gaza da sola». Da presidente di «lotta e di governo», Morsi sa il peso che la causa palestinese ha nell’orientamento dell’opinione pubblica araba. Al tempo stesso, il primo presidente del dopo-Mubarak sa bene che l’Egitto ha bisogno del sostegno economico e militare non solo dei munifici emiri del Golfo, ma anche degli Stati Uniti.
IL CAMBIO DI SCENARIO
La guerra di Gaza è il primo, severo, test per quell’Islam politico che è uscito vincitore dalle elezioni, a partire da Egitto e Tunisia. Non è un caso che nel giro di 24 ore Gaza ha visto la presenza del premier egiziano, Hisham Qandil, ieri ed oggi il ministro degli Esteri tunisino Rafiq Abdessalem. Un po’ per convinzione e molto perché la causa palestinese può servire ancora come collante interno, efficace strumento di propaganda: una lezione del passato che i nuovi leader arabi sembrano aver assimilato in fretta. La visita a Gaza di Abdessalem è stata ufficialmente annunciata con un comunicato dalla presidenza della repubblica a Tunisi. Nella nota si sottolinea il «sostegno indefettibile alla causa palestinese». La delegazione tunisina, sarà composta dal rappresentanti del Ministero degli Esteri e della stessa Presidenza della repubblica, come espressamente deciso dal capo dello Stato, Moncef Marzouki. Quella di Israele nei confronti di Gaza, si legge nella nota della presidenza, «è un’aggressione barbarica». La nota spiega che il capo dello Stato tunisino ha parlato al telefono con il premier palestinese di Hamas, Ismail Hanyeh, e gli ha espresso «solidarietà con la lotta del popolo palestinese». Il governo tunisino ha chiesto la convocazione di una riunione urgente del Consiglio di sicurezza e «sanzioni contro Israele».
Il premier egiziano accompagnato da dirigenti di Hamas. Il presidente tunisino che telefona ad Hanyeh, «dimenticandosi» che i palestinesi hanno un presidente: Mahmud Abbas (Abu Mazen). Il fatto che a Gaza qualche settimana fa ha fatto visita l’emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa al Thani, portando con sé un assegno di 400milioni di dollari. Tutto questo c’entra poco con la solidarietà umana. Quello che sta ad indicare è che è in atto un riconoscimento politico di Hamas, fatto in tempi di guerra. L’isolamento fisico rimane, ma quello politico è rotto. Per Hamas è certamente una vittoria.

Corriere 17.11.12
Il nuovo Egitto si schiera: cambia lo scacchiere Mediorientale
di Antonio Ferrari


La guerra di Gaza ha un terzo protagonista politico, influente, e soprattutto esterno: il nuovo Egitto. Nuovo perché il presidente Mohammed Morsi si è affrettato a spiegare che il suo Paese «non è più quello di ieri» e che anche «gli arabi di oggi non sono più quelli di ieri». Un messaggio sibillino che ne ha accompagnato uno esplicito: «L'Egitto non lascerà sola Gaza», che è vittima «di un'eclatante aggressione contro l'umanità».
Linguaggio inusuale per il capo del più importante Paese arabo, che per decenni aveva accuratamente evitato ogni eccesso pur di proteggere il trattato di pace di Camp David. Ma allora Hosni Mubarak, ergendosi a bastione della stabilità, faceva quel che voleva e non doveva rispondere a nessuno. Adesso il presidente Morsi, eletto democraticamente, deve rispondere a chi gli ha dato il voto, e rendere conto di ogni passo compiuto.
C'è però una seria complicazione, Mohammed Morsi non è un capo di Stato neutrale. Avrà di sicuro carisma e volontà da statista, come sostengono i suoi collaboratori, ma appartiene alla Fratellanza musulmana. E se da una parte può essere più spregiudicato del suo predecessore Mubarak, dall'altra deve tener conto che la base dei suoi elettori è sicuramente più vicina ad Hamas che ai gruppi palestinesi laici, come il Fatah. Infatti, Hamas è sicura espressione della Fratellanza, e oggi si trova nell'ambigua posizione d'essere blandito sia dagli sciiti sia dai sunniti. I legami dei padroni della Striscia con l'Iran sono noti e hanno una lunga storia. Ma ora, oltre alle interessate carezze (e promesse) egiziane vi sono i soldi, tanti, 400 milioni di dollari, portati a Gaza dall'emiro del piccolo e multimiliardario Qatar, alleato di ferro dei sauditi. Un solido sostegno sunnita quindi, cui potrebbe accostarsi anche la Turchia di Erdogan.
Ecco perché questa guerra di Gaza è molto più insidiosa delle precedenti. Per i popoli coinvolti (israeliani e palestinesi) e per gli influenti attori esterni. Fa impressione che il presidente egiziano Morsi abbia deciso di richiamare immediatamente il suo ambasciatore a Tel Aviv, e di inviare subito il primo ministro per offrire concreta solidarietà agli abitanti della Striscia e ai loro leader. Pensare al Cairo come mediatore, a questo punto, è davvero arduo, anche se il premier israeliano Netanyahu finge di crederci e l'Amministrazione Obama fa capire di volerlo credere.

l’Unità 17.11.12
Avi Pazner, il portavoce del governo israeliano che è stato ambasciatore in Italia
«Israele ha il dovere di difendere il suo popolo»
L’obiettivo israeliano è distruggere tutto il potenziale missilistico palestinese
di U.D.G.


Quale governo degno di questo nome, quale paese al mondo non reagirebbe se avesse un milione di persone sotto attacco missilistico...Mentre parliamo un missile ha colpito di nuovo Asqelon e le sirene d’allarme sono risuonate a Tel Aviv e Gerusalemme...Hamas deve capire che ha tutto da perdere se continua con queste azioni terroristiche: ci vorranno giorni, ma alla fine impareranno la lezione». A parlare è Avi Pazner, portavoce del governo israeliano, per anni ambasciatore dello Stato ebraico a Roma. «Le operazioni condotte fino ad ora sottolinea Pazner hanno permesso di neutralizzare il 95% dei missili Fajir 5 a lunga percorrenza. L’obiettivo è di distruggere tutto l’arsenale missilistico in dotazione ai gruppi terroristi palestinesi».
A Gaza è ancora guerra, mentre la comunità internazionale chiede a Israele moderazione...
«Ma in queste settimane siamo stati più che moderati di fronte ai razzi sparati a centinaia dalla Striscia di Gaza contro Sderot, Beer Sheva, Asqelon...A chi ci chiede moderazione vorrei dire di vivere anche solo un giorno con l’incubo che un razzo possa colpire l’asilo del proprio bambino, o la propria abitazione...Israele è stato costretto a reagire perché nessuno Stato al mondo rimarrebbe inerme quando un milione dei propri cittadini è sotto minaccia missilistica».
Ma a Gaza a morire sono anche bambini, donne, civili...
«Di ciò siamo addolorati, mi creda. Ma la responsabilità di queste morti ricade su Hamas e sugli altri gruppi terroristi che nascondono il loro armamentari in edifici pubblici, che usano i civili come scudi umani. Non è Israele che “assedia” Gaza, ma sono i gruppi terroristi palestinesi a tenere in ostaggio la popolazione civile, trasformando abitazioni in depositi d’armi. Non facendosi scrupolo di usare i civili come scudi umani. Hamas e la Jihad islamica hanno trasformato Gaza in una rampa di lancio di missili che bersagliano le città di frontiera ed ora anche Tel Aviv e Gerusalemme. Non è Israele che ha dichiarato guerra ad Hamas. Israele sta esercitando il diritto-dovere all’autodifesa. Nessuno, mi creda, ritiene che la questione palestinese possa risolversi militarmente, ma oggi il problema è un altro...».
E qual è questo problema?
«È contrastare un nemico che ha come obiettivo dichiarato la distruzione dell’”entità sionista” non facendo distinzione alcuna tra militari e civili. Ogni israeliano è un obiettivo da colpire. Da eliminare. Mi lasci aggiungere che aver avuto un consenso elettorale non dà ad Hamas alcuna copertura o legittimazione per condurre le sue azioni terroristiche».
La guerra di Gaza è iniziata con l’ennesima «eliminazione mirata»: quella del comandante delle Brigate Ezzedin al-Qassam, Ahmed Jabaari. Già in passato Israele aveva eliminato dirigenti di primo piano di Hamas, ma altri li hanno sostituiti. «Hamas è una organizzazione gerarchica che risponde ad una precisa catena di comando. Spezzarla è di grande importanza nella lotta al terrorismo. Aggiunga che Jabaari aveva la responsabilità di una serie di attentati che sono costati la vita a centinaia di israeliani. Ma l’obiettivo principale di questa operazione è neutralizzare l’arsenale di missili Fajir di lunga gittata: ne abbiamo neutralizzato il 95%, ma ne hanno ancora per portare la minaccia ad un milione di israeliani. Hamas deve capire la lezione, e la capirà».
Anche attraverso un attacco da terra?
«È un’opzione in campo, molto concreta».
Ambasciatore Pazner, c’è chi sostiene che dietro l’operazione militare vi sia una ragione elettorale: Israele va al voto a gennaio...
«Non esiste. Nessun governo rischierebbe per calcoli elettorali una operazione di questo genere, che si sa come inizia, ma non si può dire come finirà. Vede, Israele può dividersi su tante cose, e lo fa perché è una vera democrazia, ma quando è in gioco la sicurezza nazionale non c’è destra o centro o sinistra che tenga: Israele ritrova la sua unità, quell’unità che ci ha permesso di esistere nonostante le tante guerre e attacchi che hanno segnato i nostri primi 64 anni di vita come Stato. E sarà così anche questa volta».

Corriere 17.11.12
Grossman: «Qui si sviluppa un Dna di guerra»


MILANO — «Oggi siamo ad uno dei punti più bassi delle relazioni tra israeliani e palestinesi. L'idea di dialogo, riconciliazione e pace sembra più lontana che mai». Così lo scrittore israeliano David Grossman, premiato ieri con l'Art for peace award alla conferenza Science for peace a Milano, parla degli scontri in corso tra Israele e palestinesi. «Chi vive in una regione di guerra permanente — spiega — sviluppa un dna alla guerra, che non viene dalla nascita, ma è acquisito a causa dell'ambiente e della situazione». Grossman ha raccontato anche cosa significa vivere in Medio Oriente, «zona disastrata, area di paura e occupazione. È come vivere in trincea, con i muscoli del corpo sempre all'erta, preparati per il colpo che seguirà, al dover scappare. Una routine di vita — commenta — che viene intrisa di sospetto e paura, e tutto questo impedisce di fare quello che è essenziale per raggiungere la pace».

l’Unità 17.11.12
L’occasione di Obama
di Giuseppa Cassini
già ambasciatore d’Italia in Libano


Si torna dagli Stati Uniti dopo aver assistito al photo-finish del traguardo elettorale di Obama e si torna a sperare. Si torna a sperare che Barack Hussein riprenda il filo smarrito dopo il suo magistrale discorso del Cairo. Tutto il mondo arabo ricorda quel 4 giugno 2009, quando il neo-presidente americano si presentò all’Università del Cairo ad offrire un «Nuovo Inizio».
Nell’ultimo decennio proclamò abbiamo assistito a due narrazioni sanguinose, la jihad di al-Qaeda e la crociata dei neocon; fallite entrambe, è tempo di aprirci ad un vero partenariato. Il discorso toccò le corde più sensibili dell’animo islamico grazie anche ai suggerimenti di Dalia Mogahed, la musulmana velata all’egiziana che Obama aveva inserito (una nomina realmente rivoluzionaria) nell’ufficio della Casa Bianca per i rapporti interreligiosi: «Don’t patronize» suggerì lei non essere paternalista, non vendere ai musulmani i valori americani, soprattutto offri rispetto per la loro dignità.
Dopo quelle parole il consenso a favore dell’America salì alle stelle, all’80%. Poi ridiscese al 30%. Allo scoppio della Primavera araba i giovani in rivolta chiedevano fatti, non più parole, ma Washington rispose troppo timidamente: zero progressi nel processo di pace in Palestina, due pesi e due misure nei confronti dei paesi arabi, l’Iraq abbandonato a una guerra civile strisciante, e così via. La Primavera araba resta l’occasione irripetibile per chiudere il contenzioso che avvelena i rapporti con l’Islam, purché Obama prenda in mano il dossier con la stessa audacia che contraddistinse l’operato di Carter nel 1978: tanto più ora che ha le mani libere da ogni laccio elettorale. Questo abbiamo appena sentito dire in America, nei circoli politici più sensibili alla crisi mediorientale. Il bello è che tutti sanno come la pensa Obama personalmente. Tutti ricordano, infatti, lo scambio di battute fuori onda con Sarkozy al G20 di Cannes, esattamente un anno fa («Non ne posso più di Netanyahu, è un bugiardo!» aveva bisbigliato Sarkozy, e Obama di rimando «Lo dici a me che devo trattare con lui tutti i giorni?»). Quando dirigeva a Harvard la «Law Review», il futuro presidente ebbe occasione di conoscere John Mearsheimer e Stephen Walt, due accademici serissimi, per nulla antisemiti, che nel 2006 scrissero un saggio intitolato «The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy». Osarono dire pane al pane, chiamare «lobby israeliana» la lobby israeliana, e raccontare lucidamente un fatto unico nella storia della politica estera americana: ossia, come da mezzo secolo gli Stati Uniti mettono in secondo piano i propri interessi nazionali a profitto di una potenza straniera, Israele. Beh, quei due accademici ebbero difficoltà a pubblicare il loro saggio. Neppure fossimo al tempo del maccartismo.
Come potrebbe Obama suggellare alla grande il suo secondo mandato? Ricalcando un precedente di successo come fu nel 1975 la Conferenza di Helsinki sulla Sicurezza e la Cooperazione Europea. Se Obama avesse la capacità di visione di Lincoln, la sagacia di Eisenhower e il coraggio di Carter potrebbe tornare al Cairo con una proposta di questo genere: «Cari amici musulmani, sono qui ad illustrarvi la mia idea di partenariato. Vi propongo un’iniziativa di Forum a doppio binario. I paesi occidentali e i 57 Paesi della Conferenza Islamica si incontreranno in due sessioni separate ma ugualmente legittime: una riservata ai governi, sulla falsariga della conferenza che si tenne ad Istanbul nel 2002 dopo l’attacco alle Torri Gemelle; e un’altra sessione riservata alla società civile (esponenti religiosi, capi partito, saggi dei clan, intellettuali, imprenditori, ecc.). L’agenda dei lavori può prendere spunto dalla Conferenza di Helsinki, che si concluse con pieno successo nel 1975: rispetto per la sovranità di ogni Paese, tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, autodeterminazione dei popoli, composizione pacifica delle controversie, disarmo nucleare del Medio Oriente, per finire con un appello alla laicità dello Stato». La dichiarazione finale dovrebbe contenere un obiettivo realistico: concordare una hudna tawila (tregua lunga) di dieci anni. È questo un concetto persuasivo e comprensibile in tutta la Umma el-Islam, a partire dai clan somali fino ai talebani passando per Hamas e Hezbollah. Perchè non dovrebbe essere accettata una proposta simile? In fondo, gli invasati di Allah stanno ammazzando molti più musulmani che cristiani ed ebrei. Finora si è trattato di una guerra civile interislamica piuttosto che uno scontro fra noi e loro». «Inoltre dovrebbe aggiungere persistere in questa guerra d’attrito ci impedisce di rispondere con la dovuta urgenza alle sfide cruciali cui il mondo è confrontato». Una Tregua Lunga è il minimo a cui tendere per guadagnare abbastanza tempo da poter rispondere a tali sfide. Tutti noi, cristiani e musulmani, ebrei e non credenti, viviamo a tempo contato». Essendo figlio di due continenti e culturalmente radicato in tre continenti, Barack Hussein Obama è il solo statista al mondo che sarebbe in grado di abbattere le frontiere del reciproco sospetto tra l’Occidente e la Umma el-Islam. Sta in lui provarci.

Corriere 17.11.12
Ecco chi ha tradito Antonio Gramsci
Canfora indaga sull'arresto del padre del Pci
di Giuseppe Galasso


Luciano Canfora è noto quale detective in materia storica sui temi più vari. I suoi non sono, però, lavori di ginnastica intellettuale, eseguiti per il piacere di sciogliere un rebus. Li anima, invece, una passione civile e morale della verità, che gravita sempre su nuclei di problemi vivi e di spicco e risponde a profonde convinzioni politiche. Caso vissuto, quindi, di quella contemporaneità della storia, per cui è l'urgenza del presente a volgerci al passato e a renderne attuali i problemi; e il buono storico si distingue dal cattivo se la spinta del presente non altera ciò che del passato una corretta filologia ci può dire. Non è un caso, perciò, che Canfora inizi il suo nuovo libro Spie, Urss, antifascismo. Gramsci 1926-1937 (Salerno Editrice) con alcune colorite pagine sulle «storie sacre», ossia quelle in cui la ricerca è condizionata in partenza da fini ideologici o di parte.
Qui si tratta del rapporto fra Antonio Gramsci, dopo il suo arresto nel novembre 1926, e il gruppo dirigente del suo partito — un rapporto, finché non vi fu la postuma santificazione, difficile — e di tre lettere di Ruggero Grieco a Terracini, a Scoccimarro e a Gramsci, insidiose per quest'ultimo, che perciò definì «criminale» quella diretta a lui.
Per l'arresto (non facilmente evitabile) si configurano «pesanti ombre» e una inettitudine dei responsabili della sicurezza di Gramsci. Per le tre lettere — sfrondando al massimo la questione, che Canfora mostra al centro di scelte e condotte politiche rilevanti per la storia del comunismo italiano ed europeo negli anni di Stalin — emerge che Grieco si fece strumentalizzare da un qualcuno, mosso da torbidi fini e individuato in Angelo Tasca.
Intorno a tutto ciò Canfora fa ruotare la dirigenza comunista italiana fra il 1926 e il 1937, con una folla di personaggi maggiori (Sraffa, Togliatti, Bordiga, Camilla Ravera, la cognata di Gramsci, i diplomatici russi a Roma) e minori o quasi sconosciuti, che egli porta in luce. Una puntigliosa indagine illustra poi tormenti e difficoltà della storiografia dei comunisti fino alla pubblicazione delle lettere di Grieco (di cui una copia, non si capisce bene come, finì nell'Archivio dello Stato in Roma).
Si chiude, infine, con l'esame del pensiero gramsciano sull'affermazione del fascismo in Europa e sugli scenari aperti con la fine della prospettiva rivoluzionaria nell'Occidente europeo. Dalle sue analisi teoriche e storiche Gramsci emerge in tutto il rilievo di una rigorosa e vigorosa riflessione, in cui Luciano Canfora distingue tre fasi: quella «esordiale» fra il 1914 e il 1918, in cui egli si vota alla causa della rivoluzione socialista; la seconda, in cui crolla il sogno rivoluzionario e si hanno nuove condizioni nell'Europa fascista e nell'Unione Sovietica; la terza è quella del carcere e dei Quaderni, con un originale sforzo di riflessione storica e politica.
Per noi è dubbio che la scelta «esordiale» di Gramsci sia quella dal 1914 in poi. Il Gramsci di allora, per nulla vergine, aveva alle spalle un'intensa vicenda intellettuale, in cui la rivoluzione era già sull'orizzonte e in cui aveva influito a fondo su di lui la cultura italiana (e soprattutto, per noi, checché se ne pensi, Croce). Senza questi incunaboli il pensiero gramsciano perderebbe, sempre per noi, alcuni suoi tratti di fondo.
Nelle altre fasi, e in specie nella terza, Canfora riporta a Gramsci l'idea di una via nazionale al socialismo e vede in Togliatti l'erede di questo progetto, connesso, così, alla storia della democrazia italiana.
Non si può qui approfondire la cosa, ma per il Togliatti post 1945 rimane sempre l'adesione piena, in effetti, alla linea di Mosca fin ben oltre i fatti d'Ungheria nel 1956, e ciò porta ad altre idee sul rapporto fra comunismo e democrazia in Italia. Il pensiero dell'ultimo Gramsci è, comunque, oggetto qui di un'analisi più che stimolante. Il fascismo come «rivoluzione passiva», la novità del nazismo, il corporativismo e il fascismo come «terza via», il rilievo dell'elemento nazionale, la riflessione sulle «rivoluzioni concorrenti», con le collusioni di Roma e poi di Berlino con Mosca, sono prospettive gramsciane, spesso di grande acutezza, che Canfora studia in pagine meritevoli di attento indugio.
Si conclude, così, degnamente un «romanzo storiografico», ricchissimo di figure sia note che quasi ignote, nelle cui logiche comportamentali Canfora penetra spesso con acume; ricco, altresì, di vicende al limite del paradossale, se non dell'incredibile; e scritto con lucida e partecipe foga dall'autore di una ricerca, che vale anche come un eloquente monito contro errori e nefandezze a cui, nell'oppressione della libertà congiunta a spirito settario e all'accettazione di un verbo totalitario, idoli falsi e bugiardi (rivoluzione, nazionalismo o altro) possono portare i fautori di qualsiasi causa.

Il libro: Luciano Canfora, «Spie, Urss, antifascismo. Gramsci 1926-1937», Salerno Editrice, pagine 352, € 15

Repubblica 17.11.12
Guida a sinistra
Ora e sempre uguaglianza
Il filosofo americano spiega, in un nuovo saggio-conversazione, quale sia l’obiettivo politico per i progressisti di oggi
di Michael Walzer


Se la mia vita e il mio lavoro sono stati segnati da una passione politica, questa è l’egualitarismo: una profonda avversione a qualsiasi forma di gerarchia, all’arroganza che quest’ultima alimenta in chi sta al potere e alla deferenza e all’umiltà che incute in quanti occupano gli ultimi posti. Sono insofferente verso le pretese elitarie ovunque si manifestino, nelle organizzazioni di sinistra come nel mondo accademico. È difficile conservare la stessa passione per oltre cinquant’anni, specialmente se è una passione monogama (nel mio caso, la fedeltà alla sinistra).
La disuguaglianza è una caratteristica essenziale delle società capitaliste? Sì. Ma a ben vedere è stata prodotta da molti sistemi politici ed economici diversi, non solo dal capitalismo. La società feudale era gerarchica, e così pure quella romana, quella dell’antica Grecia e quella cinese. Si tratta di un modello ricorrente che assume forme diverse in tempi e luoghi diversi; una sorta di struttura gerarchica di base, tuttavia, è stata prodotta più e più volte nel corso della storia dell’uomo. Tanto che si è portati a pensare che il desiderio di differenziarsi, di raggiungere un certo status sociale, di essere migliori, più ricchi e politicamente più influenti dei propri vicini sia profondamente radicato nella natura umana. Robert Michels avanzò una teoria di questo tipo, sostenendo – sulla base dei suoi studi sulle organizzazioni socialiste – che vi sia una tendenza costante a creare forme di autorità e gerarchia persino all’interno di un sindacato o di un partito socialista. Non ho una teoria completa sulla natura umana, ma sono convinto che vi sia una sorta di desiderio ricorrente di differenziazione: per questo la difesa dell’uguaglianza è l’eterna missione della sinistra. Non è una battaglia; è una guerra infinita contro la disuguaglianza, la gerarchia, l’arroganza e le pretese elitarie. Le nostre organizzazioni non sono immuni da tutto ciò, per cui la lotta è al tempo stesso locale e globale; dobbiamo combattere nel nostro stesso campo, ma anche contro altre forze politiche. È importante riflettere sulla natura di questa guerra. In un certo senso, è quello che Irving Howe definì un “lavoro stabile”, riferendosi a una storiella ebraica. Questa: la comunità ebraica di una cittadina polacca incarica un tizio di stazionare all’ingresso dell’abitato in attesa del Messia, in modo che, quando lo vedrà arrivare, possa dire a tutti gli ebrei di prepararsi. Qualcuno chiede all’uomo: «E questo sarebbe un lavoro? Stare fermi in attesa della venuta del Messia?». Al che lui risponde: «Sì, è un lavoro. Il compenso non è un granché, ma è un lavoro stabile». Anche l’egualitarismo è un “lavoro stabile” e poco remunerativo. Al tempo stesso, ciò che ne garantisce di tanto in tanto la buona riuscita è una certa forma di instabilità. La lotta contro la disuguaglianza, le gerarchie e l’autoritarismo richiede momenti di insurrezione e mobilitazione popolare: basti pensare al movimento sindacale americano negli anni Trenta del secolo scorso, alle campagne per i diritti civili negli anni Sessanta o alle battaglie femministe nei Settanta. Momenti in cui particolari forme di gerarchia sono state sfidate da una sorta di esplosione di rabbia e ostilità; non mi riferisco necessariamente a un evento rivoluzionario, ma a un periodo di intensa attività politica. Ai miei occhi, la lotta per l’uguaglianza è un “lavoro stabile” inframmezzato da quei momenti di insurrezione, e non credo che assisteremo a cambiamenti in tal senso. Non esiste un traguardo utopico raggiunto il quale l’uguaglianza potrà regnare incontrastata per il resto della storia dell’uomo. Non è così che funziona. (…) Nel XIX secolo, lo Stato-nazione garantiva uno spazio di contestazione politica e la socialdemocrazia era una forza politica attiva in molti Paesi. Dov’è tale spazio nella società globale? Deve esserci, così come deve esserci un modo per sviluppare una socialdemocrazia internazionale in grado di contrastare il capitalismo globale, proprio come la socialdemocrazia del XIX e del XX secolo mise in discussione il capitalismo nazionale; ma non l’abbiamo ancora trovato. L’anti-globalizzazione è molto simile all’anti-industrializzazione del XIX secolo. Non credo che sia la giusta soluzione. La globalizzazione racchiude una grande promessa, ma comporta anche molti rischi. Per ora, si direbbe che il suo effetto a breve termine sia stato un aumento delle disuguaglianze sociali a livello internazionale. Ma la globalizzazione potrebbe anche favorire una maggiore uguaglianza, se l’Organizzazione mondiale del commercio e il Fondo monetario internazionale adotteranno politiche socialdemocratiche anziché neoliberali.
Quale forma dovrebbe assumere una socialdemocrazia globale? Purtroppo non esiste nulla di simile, neppure lontanamente, a uno Stato mondiale o a un governo politico globale. Il Consiglio di sicurezza e l'Assemblea generale delle Nazioni Unite sono assolutamente inefficaci, e questo è una parte del problema.
Quel che vediamo, però, è che lo Stato-nazione garantisce ancora, almeno in parte, la possibilità di adottare misure a tutela della propria comunità. Uno Stato giusto ed efficiente è molto utile. Ma occorre anche riflettere, per esempio, su come il diritto del lavoro internazionale abbia facilitato l’organizzazione di sindacati in Paesi come la Cina comunista. I sindacati indipendenti possono essere un fattore di uguaglianza nella misura in cui favoriscono un aumento dei salari e un miglioramento dei servizi sociali a beneficio dei lavoratori cinesi, oltre che lo sviluppo del mercato interno, riducendo il divario con i loro colleghi del Messico, dell’Indonesia o addirittura del Bangladesh. Così chi oggi cerca idee per la sinistra anche di questo, dei diritti globali dei lavoratori, non può non tenere conto.

Repubblica 17.11.12
L’epoca senza Edipo
Il desiderio onnipotente di Deleuze e Guattari
Quarant’anni fa il testo dei due studiosi che ha fatto storia
Ma quelle tesi così decisive hanno avuto anche effetti negativi
di Massimo Recalcati


Quest’anno ricorre il quarantennale dell’uscita di un libro che fece epoca: l’Anti- Edipo di Deleuze e Guattari che uscì a Parigi nel 1972. Si tratta della più potente critica alla pratica e alla teoria della psicoanalisi mossa da “sinistra”. Oggi, come sappiamo, imperversa la critica conservatrice: contro la psicoanalisi vengono invocati la psicologia scientifica, il potere chimico dello psicofarmaco, l’autorità esclusiva della psichiatria nel trattamento del disagio mentale. Invece gli autori dell’Anti- Edipo (un filosofo già molto noto e un brillante psichiatra analizzante di Lacan con il quale ruppe bruscamente) non rimproverano affatto alla psicoanalisi di non essere sufficientemente scientifica nella sue affermazioni teoriche e nella sua pratica clinica, ma qualcosa di assai più radicale. Le rimproverano di essere al servizio del potere e dell’ordine stabilito. La loro accusa è che la psicoanalisi dopo aver scoperto il “desiderio inconscio” ha volutamente ridotto la portata rivoluzionaria di questa scoperta mettendosi al servizio del padrone. Su cosa si reggerebbe il culto psicoanalitico dell’Edipo se non sull’obbedienza cieca alla Legge repressiva e mortificante del padre? Nonostante la violenza spietata degli Anti-Edipo gli psicoanalisti dovrebbero leggere e rileggere ancora oggi la loro opera come un grande vento di primavera. Sotto la retorica rivoluzionaria della liberazione del corpo schizo, fuori-Legge, del “corpo senza organi” come macchina desiderante, come fabbrica produttiva del godimento pulsionale, questo libro contiene una serie di rilievi alla psicoanalisi che non si possono accantonare: la critica relativa all’uso paranoico e violento dell’interpretazione (se un paziente dice X vuole dire Y), una rappresentazione dell’inconscio come teatrino familaristico, chiuso su se stesso, che perderebbe di vista il suo carattere sociale e i suoi infiniti concatenamenti collettivi, una apologia conformista e moralista del principio di realtà e dell’adattamento come fine ultimo della pratica analitica, l’uso tutto politico del denaro che seleziona i pazienti in base al loro reddito, una valorizzazione del-l’Io e del suo principio di prestazione, eccetera.
Eppure questo libro va molto al di là di questo, perché ha mobilitato alla rivolta una intera generazione, quella del ’77. Quest’opera è una critica politica alla psicoanalisi che non promuove tanto una improbabile teoria alternativa a quella psicoanalitica (la schizoanalisi) ma una vera e propria teoria della rivoluzione dove “tutto è possibile”. A questa teoria si sono abbeverati con entusiasmo i giovani della mia generazione. Foucault aveva dichiarato che il nostro secolo forse sarebbe stato deleuziano. Aveva ragione ma in un senso probabilmente molto diverso da quello che auspicava. Il deleuzismo è sfuggito dalle mani di Deleuze (come spesso accade per tutti gli “ismi”). L’Anti- Edipoha dato involontariamente la stura ad un elogio incondizionato del carattere rivoluzionario del desiderio contro la Legge che ha finito paradossalmente per colludere con l’orgia dissipativa che ha caratterizzato i flussi – non delle macchine desideranti come si auspicavano Deleuze e Guattari – ma di denaro e di godimento che hanno alimentato la macchina impazzita del discorso del capitalista. Lacan aveva provato a segnalare ai due questo pericolo. In una intervista rilasciata a Rinascita nel maggio del 1977 a chi gli chiedeva un parere sull’Anti- Edipo rispose che «L’Edipo costituisce di per se stesso un tale problema per me che non penso che ciò che Deluze e Guattari hanno voluto intitolare l’Anti- Edipo possa avere il minimo interesse». Lacan avverte che non bisogna premere il grilletto troppo rapidamente sul padre. La contrapposizione rivoluzionaria tra le macchine desideranti e la Legge, tra la spinta impersonale e de-territorializzante della potenza del desiderio e la tendenza conservatrice alla territorializzazione rigida del potere e delle sue istituzioni (Chiesa, Esercito, famiglia, psicoanalisi...) rischiava di dissolvere il senso etico della responsabilità soggettiva. Per Deleuze e Guattari la parola soggetto è infatti una parola da mettere al bando, così come Legge, castrazione, mancanza. L’Anti-Edipo compie un elogio a senso unico della forza della pulsione che lo fa scivolare fatalmente in una prospettiva di naturalizzazione vitalistica dell’umano. La liberazione dei flussi del desiderio reagisce giustamente al culto rassegnato del principio di realtà al quale sembra votarsi la psicoanalisi, senza accorgersi di generare un nuovo mostro: il mito della schizofrenia come nome della vita che rigetta ogni forma di limite. Il mito del corpo schizo come corpo anarchico, a pezzi, pieno, senza organi, costruito come una macchina pulsionale che gode ovunque, antagonista alla gerarchia dell’Edipo, si è tradotto nei flussi della macchina cinica e perversa del discorso capitalista.
Eppure l’Anti-Edipo a rileggerlo oggi è anche molto più di questo. Non è solo la celebrazione di un desiderio che non riesce a fare i conti con la Legge della castrazione. C’è una linea più sottile che attraversa questo libro e che la nostra generazione non è riuscita probabilmente a cogliere sino in fondo. È un grande tema dell’Anti-Edipo anche se non il tema centrale. Deleuze e Guattari lo ripropongono attraverso le parole dello psicoanalista Reich: «perché le masse hanno desiderato il fascismo? ». Problema che ritroviamo intatto già in Spinoza: perchè gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della loro libertà? In Millepiani Deleuze e Guattari, quasi dieci anni dopo l’Anti- Edipo, devono ritornare sull’opposizione tra desiderio e Legge con una precisazione che avrebbe dovuto essere presa più sul serio. Attenzioni ai micro-fascismi, ai micro-edipi che s’insediano proprio là dove pensavamo ci fosse il flusso liberatorio del desiderio. «La madre – scrivono i due – può credersi autorizzata a masturbare il figlio, il padre può diventare mamma». Un’autocritica che suona anticipatrice dei nostri tempi. Come Nietzsche avvertiva gli uomini che vivevano nell’annuncio liberatorio della morte di Dio del rischio di generare nuovi idoli (lo scientismo, il fanatismo ideologico, l’ateismo stesso, ogni specie di fondamentalismo), allo stesso modo Deleuze e Guattari avvertono che esiste un pericolo insidioso inscritto nella stessa teoria del desiderio come flusso infinito, come “linea di fuga” che oltrepassa costantemente il limite. Attenzione, sembrano dirci, che questa linea «non si converta in distruzione, abolizione pura e semplice, passione d’abolizione». Attenzione che questa “linea di fuga” che rigetta il limite non diventi una “linea di Morte”.

Repubblica 17.11.12
Un Paese sul lettino
Così andrà in onda la terapia quotidiana
di Concita De Gregorio


Siamo pronti per andare in analisi, forse. Tutti, collettivamente, l’Italia intera. Psicoanalisi di una nazione. No, non dal terapeuta: come potrebbe un Paese impoverito ed esasperato, rabbioso e allo stremo – il Paese che abbiamo sotto gli occhi, quello che urla dalle piazze la sua povertà di prospettive e di mezzi – come potrebbero una studentessa fuori sede, un operaio senza lavoro, un poliziotto da milletrecento euro al mese, una coppia di impiegati in attesa del secondo figlio permettersi il lusso economico e la fantasia di spendere centinaia di euro dall’analista? Sono nel pieno di una crisi che so tradurre solo in rabbia, distruzione, masochismo: dottore, mi aiuti. Impossibile, persino inconcepibile. Però invece un luogo c’è, una stanza dell’analista alla portata di tutti esiste: ce l’abbiamo in casa, costa relativamente poco. È la tv. Ha fatto molti danni, è vero. Basta usarla in un modo diverso. È un elettrodomestico, in fondo, come il frigo. Basta riempirla di un cibo diverso. Una buona pietanza al posto di un precotto ammuffito. Una tv buona maestra, una tv di cura. Si può andare in analisi spingendo un tasto del telecomando? Siamo pronti a rinunciare alle risse e alle soap, alla tv-verità dei casi da circo per chiuderci in una stanza, invece, e parlare, solo parlare e ascoltare noi stessi? Qualcuno pensa di sì. Qualcuno che produce tv in questo Paese e che tiene d’occhio quel che accade là fuori, sì, ma anche il business, certo. Buoni propositi e buoni profitti. È il momento, dicono. Siamo pronti.
Dunque si parte, sette anni dopo l’originale, con la versione italiana di un format tv israeliano che ha avuto un successo strepitoso nei paesi, molti, un cui è stato esportato. La versione primitiva, quella di Hagai Levi, è del 2005: si chiama Be Tipul. Quella americana, In treatment, diretta da Rodrigo García, figlio di Gabriel García Márquez, protagonista Gabriel Byrne, va in onda su HBO, è alla terza stagione, ha vinto due Emmy e un Golden Globe. L’hanno replicata in Sudamerica e in Europa dell’Est. Ora arriva in Italia. È il tempo. «È in crisi il Paese, è in crisi la tv. Questo è il momento di guardare l’Italia attraverso gli occhi di una ragazzina con istinti suicidi, di una coppia in crisi, di un poliziotto che non sa far pace con se stesso. È il momento della parola, della cura. Della tv che cura », dice Lorenzo Mieli, che insieme a Mario Gianani con Wildside produce la serie che andrà in onda su Sky, sponsor Andrea Scrosati, a partire da marzo. Tutti i giorni, per sette settimane, mezz’ora al giorno in seconda serata. In cura, in terapia. Sotto trattamento. Non sappiamo, naturalmente, se il pubblico italiano risponderà come quello americano. Non sappiamo se davvero siamo pronti per guardarci dentro prima di guardare fuori. L’investimento, tuttavia, è imponente. Grande cast, regista da cinema d’autore. Sarà Saverio Costanzo (Private, In memoria di me, La solitudine dei numeri primi) a dirigere un gruppo di interpreti che va da Sergio Castellitto a Valeria Golino, da Licia Maglietta a Valeria Bruni Tedeschi.
La struttura è quella di una soap. Tutti i giorni dal lunedì al venerdì, due puntate “verticali”, riassuntive, il sabato e la domenica. Un paziente al giorno. Come set una stanza. L’analista è Castellitto (dopo che per lunghi mesi si era parlato di Nanni Moretti, la scelta è stata infine questa), sposato con Valeria Golino. Giovanni, il terapeuta, il lunedì riceve Sara – Kasia Smutniak – disorientata seduttrice compulsiva, il martedì Dario – Guido Caprino – un poliziotto infiltrato responsabile della morte di una bambina (nell’originale un soldato che ha sparato su una scuola), il mercoledì una ragazzina che studia danza e che forse si fa male da sola, forse corteggia il suicidio, l’esordiente Irene Casagrande figlia di una madre che ha il volto di Valeria Bruni Tedeschi. Il giovedì una coppia borghese in crisi, Adriano Giannini e Barbora Bobulova, il venerdì la seduta di supervisione del terapeuta con l’analista che gli fa da guida, Licia Maglietta. È naturale che Castellitto-Giovanni, colui a cui tutti gli altri si affidano perché risponda ai loro bisogni (conflitto e negazione, amore e passione sono le coppie di parole chiave) sia colui che più di ogni altro riassume in sé il senso della crisi di tutti e di ciascuno. Del paese in cui viviamo, delle vite che facciamo, del destino che ci è dato e che ci diamo. Per sette settimane, per quasi due mesi, ogni sera. In tv, che è l’unica stanza di cui ognuno dispone.
Gli episodi della serie Usa sono oggetto di studio nei corsi di psicologia alla Sapienza, gli studenti li portano agli esami e spiegano di cosa hanno bisogno e perché le persone in cura. Chissà se la versione italiana saprà dire qualcos’altro ancora di cosa siamo diventati, noi quaggiù, e di dove stiamo andando.

La Stampa 17.11.12
Se la velina fa un provino da Bellocchio
di Francesco Rigatelli

 La chiamano dalla lista. Federica Nargi si mette davanti alla telecamera e inizia: «Ho 22 anni e ho fatto varie cose… compresa la velina!». Siamo al Festival del cinema di Roma, dove ogni pomeriggio lo spazio Lottomatica promette agli aspiranti attori un provino con i registi di passaggio. Da Giovanni Veronesi a Francesca Archibugi, a Sergio Rubini. Il caso vuole che l’ex velina mora, sostituita pochi mesi fa e in cerca di futuro, si trovi davanti il regista più lontano da lei. Marco Bellocchio, colosso del cinema italiano antinconformista, uno di culto, a contare i giovani aspiranti attori in fila per farsi porre tutti le stesse domande, declinate ogni volta diversamente. «Chi sei? Nel senso di come ti cali nella realtà romana, dove stai, con chi vivi?». Quando è il turno di Federica lui non la riconosce. «Mica uno è obbligato a sapere chi sono!», ammetterà lei dopo. La sequela di domande e risposte che segue è degna della migliore commedia all’italiana. «Cosa intendi con velina?» chiede Bellocchio. Intanto il contorno di ventenni, che poco prima faceva a gara a scattarsi le foto con Nargi, si piega in due dalle risate. Lei prova a metterlo sulla strada giusta: «Le veline in Italia sono solo due…». Lui ancora diffida: «E tu eri una delle due?», «Ah, sì?». «Ma per un anno?». «Per quattro». Bellocchio: «Ma come? Se ora hai 22 anni…». E lei: «Eh, ho iniziato a 18». Lui: «Pensavo che le veline cambiassero ogni anno!». Lei: «Evidentemente piacevamo…». Lui: «E ora vuole fare l’attrice?». Lei sprizzante energia: «Sì». E sorridente interpreta la scena sulla maternità di Barbara Bobulova da «Manuale d’amore 2». Bellocchio non ha visto il film e prende tempo: «Bene, allora vedremo…», poi prova a metterci una pezza: «Ti chiedevo delle veline perché pensavo fossero in tante trasmissioni». La velina e Bellocchio, due Italie che s’incontrano loro malgrado. Ma l’Italia più vera è il contorno di aspiranti attori che sognano Bellocchio, e intanto in fila si fanno la foto con la velina.

venerdì 16 novembre 2012

l’Unità 16.11.12
Bersani: cambiamento con i fatti, non a parole
Il leader Pd contestato a Napoli da un gruppo di «antagonisti» che chiedono la liberazione dei loro compagni arrestati
«Il centrosinistra è solido, non è un’armata Brancaleone»
di Giuseppe Vittori


ROMA Il centrosinistra deve cercare di vincere le elezioni con «poche parole» e il giorno dopo fare «molti fatti». Lo ha detto il segretario Pd Pier Luigi Bersani incontrando i lavoratori delle aziende in crisi a Napoli: «Ci vuole un governo politico e solido in questo passaggio, così drammatico. Ma anche un governo solido, senza cambiamento, non basterebbe. Dobbiamo predisporci a fare una proposta di governo che sia di cambiamento: più nei fatti che nelle parole», e se queste superano i fatti, «non va bene».
Ma la giornata napoletana del leader Pd ha vissuto momenti di tensione al teatro Augusteo. Una cinquantina di studenti ha interrotto la manifestazione di Bersani, quando aveva appena iniziato a parlare, il gruppo di giovani «antagonisti» ha innalzato cartelli e fotografie chiedendo la liberazione dei loro compagni fermati per gli scontri di piazza di mercoledì. La tensione è salita alle stelle, dalla platea i simpatizzanti Pd hanno rusposto con urla e fischi, ma sono volati schiaffi e pugni. La protesta è durata pochi minuti ed è rientrata (e si è spostata all’esterno). Il segretario Pd è stato più volte interrotto, però non si è scomposto e ha ripreso il suo discorso, apprezzato dal resto della platea, e ha ringraziato gli studenti che hanno manifestato pacificamente, «siete stati bravi».
Sul dopo elezioni ha ribadito a Napoli quanto detto la mattina a Roma sgombrando il campo da ogni ipotesi di Monti-Bis: «Serve un governo politico che dia un indirizzo preciso, è necessario che ci diamo una maggioranza politica come tutti i Paesi, poi il tasso tecnico si vedrà, noi siamo quelli di Ciampi». E sgombra il campo da possibili illazioni anche sulla legge elettorale. Se «poniamo qualche fermo non è non per l’interesse del Pd, perché se fosse solo per quello, potremmo essere più flessibili, ma se qualcuno vuole mettere il Paese nell’ingovernabilità, non ci sto». Per evitare lo «tsunami» dell’ingovernabilità, il Pd è disposto a fare «un compromesso che però garantisca la governabilità».
Va bene che esiste la strana maggioranza che sostiene il governo Monti, ma gli «avversari» non sono «spariti», Silvio Berlusconi «è lì», poi può darsi che decida di schierarsi in prima linea o di usare al suo posto un altro «prototipo di queste avventure personalistiche». Bersani l’ha buttata sull’ironico: «Scende in campo, non scende in campo... Se vede appena appena che c’è un campo, secondo me in qualche modo lo ritroviamo. O lui o qualche ulteriore prototipo di queste avventure personalistiche. Una destra che cerca di far dimenticare quel che ha combinato, dove ci ha portato». Berlusconi per vent’anni «ha detto “suono il piffero, parlo di cieli azzurri e racconto grandi favole” e se quella stagione potrà chiudersi, (anche se non è stata «una cosuccia»), si è diffuso il populismo ed è «entrato in vena un micidiale meccanismo di indebolimento della struttura democratica» che ha portato a «ritenere il Sud come una zavorra per il Nord».E questo per il segretario Pd è stato il danno più grave dei governi Pdl-Lega. Ma oggi, avverte, anche se Berlusconi non ci sarà più, «possono arrivare delle altre novità, per esempio Grillo, che sta inoculando un deterioramento sul tema democratico». E non risparmia una pizzicata al leader del Movimento 5 stelle: Grillo impone un controllo sulle candidature alle elezioni che nemmeno Lenin avrebbe immaginato. «Si può candidare solo quello che ha un “marchio di fabbrica doc”. Lenin gli fa un baffo, non avrebbe mai pensato questa cosa qua...», dice il segretario Pd.
E rassicura gli elettori: il centrosinistra è «solido, non l’armata Brancaleone di cui si parla». I vero elemento «nuovo» è «riformare la democrazia rappresentativa, rifiutare la comunicazione menzognera e mettere i piedi nella vita reale dei cittadini».

l’Unità 16.11.12
Il sondaggio SGW per i cristiano sociali: centrodestra in picchiata, boom di Grillo
Il centrosinistra fa il «sorpasso» tra i cattolici
Il Pd primo partito anche in questa area di elettorato
E chi vota per i centristi preferisce l’alleanza a sinistra
Per i credenti i temi del lavoro della crescita e della moralità contano più di quelli riguardanti la bioetica
di Susanna Turco


Icattolici preferiscono Grillo a Montezemolo, vale a dire «la Salsi a Irene Tinagli», per usare le parole di Rosy Bindi; per la prima volta da un quindicennio sono pronti a votare più centrosinistra che centrodestra (36 contro 30 per cento), primo partito il Pd con il 24 per cento; non mettono i temi etici tra le priorità dell’agenda politica (sono indicati solo dal 5 per cento degli intervistati, che optano in maggioranza per crescita e lavoro); non amano gli interventi delle gerarchie ecclesiastiche nel dibattito politico italiano (sono ritenuti «corretti» solo dal 34 per cento degli intervistati); conoscono poco i ministri cattolici del governo Monti (il 72 per cento di loro non sa indicare quali siano), né particolarmente li stimano (percentuale di preferenze ottenuta da Riccardi, tre; da Ornaghi, zero); considerano inadeguata l’attuale classe politica (è il primo ostacolo al rilancio dell’Italia secondo il 44 per cento degli intervistati), ma credono assai di più in un «vero rinnovamento degli attuali partiti» (58 per cento di favorevoli) che alla «costituzione di un nuovo partito con esponenti nuovi» (33 per cento). È un quadro per certi versi sorprendente, quello che esce dal sondaggio Swg, commissionato dai cristiano sociali di Mimmo Lucà e presentato ieri a Roma.
Vezzeggiati, vagheggiati, contesi da una politica che li considera una conquista determinante per la vittoria, nell’autunno 2012 i cattolici paiono più che altro avere gli stessi orientamenti degli altri elettori italiani. Anche la percentuale di chi accarezza l’idea di astenersi tende a coincidere: 44-41 per cento, contro il 42 dell’elettorato italiano nel suo complesso. Dipenderà forse anche dalla base, larghissima, degli intervistati dall’Swg (metà degli 800 interpellati sono cattolici «praticanti saltuari», vale a dire che vanno a messa «una volta l’anno»).
Comunque sia, alla vigilia dell’incontro montezemoliano «Verso la Terza repubblica» di domani a Roma, vale la pena di cominciare proprio da qui, dal bacino potenziale della lista per l’Italia. Nonostante tante riflessioni, calcoli, e nomi di peso, il grande rassemblement in via di costituzione con l’obiettivo di raccogliere il voto moderato stufo del centrodestra e non convinto del centrosinistra appare lontano assai. Almeno a guardare i dati Swg: una Lista per l’Italia che comprendesse i nomi di Montezemolo, Marcegaglia, Passera, Giannino, Fini, Casini, Riccardi, Olivero, Dellai, otterrebbe il voto dell’11,5 per cento dell’elettorato cattolico (che scende a 9,3 per cento considerando l’elettorato totale, vale a dire appena 1,7 per cento in più dei voti Udc più Fli); senza i partiti di Fini e Casini, i consensi della Lista per l’Italia scenderebbero tra i cattolici al 6 per cento (5,3 l’elettorato totale). Una miseria insomma. Cui fa da contrappeso il successo dei Cinque stelle: nel gennaio 2011 raccoglieva i consensi del 2 per cento dei cattolici praticanti (quelli che a messa ci vanno almeno una volta a settimana), adesso è schizzato al 16,5 per cento; una percentuale che sale al 18 se si aggiungono i cattolici saltuari.
Notevole è anche il grafico di spostamento dei voti dei cattolici praticanti tra il 1996 e oggi: in pratica il centrodestra ha raccolto la maggioranza dei consensi fino a due mesi fa, quando si è certificata la parità (33 per cento) col centrosinistra, e solo adesso risulta sotto di tre punti. Dopo il picco al 52,5 per cento nel 2008 (contro il 35,5 del centrosinistra), il vero crollo c’è stato nell’ultimo anno e mezzo, quando è passatio dal 44 al 30 attuale (curiosamente, quello stesso 14 per cento in più che segna Grillo).
Quanto ai singoli partiti, attualmente il voto cattolico si orienta maggiormente sul Pd (24 per cento), secondo partito il Movimento cinque stelle (18), terzo il Pdl (17,5), quarta l’Udc (9 per cento, che sale al 18 se si considera la sola fetta di cattolici praticanti). Per le riflessioni sul tema delle alleanze, è da notare che, se messi di fronte all’alternativa secca tra destra e sinistra, i cattolici praticanti che si collocano politicamente tra i centristi preferiscono optare per l’alleanza Pd-Sel (48 per cento), piuttosto che per l’alleanza Pdl-Lega-Destra (36) anche se un buon 16 per cento sceglie l’opzione «non sonessuno dei due».

Corriere 16.11.12
Come la Chiesa italiana si orienta fra destra e sinistra
risponde Sergio Romano


Leggo sul Corriere del 10 novembre che i vescovi cattolici americani si erano schierati con Romney, un mormone che rappresenta la destra politica, il partito votato dai cittadini più abbienti. Anche in Italia i vescovi sono a favore del centrodestra, allora chiedo: cosa deve fare il centrosinistra, maggiormente votato dai cittadini meno ricchi, per avere l'appoggio dell'apparato vescovile?
Marisa Rancati

Cara Signora,
Provi a mettersi nei panni della Chiesa cattolica. Mentre le società di tutti i maggiori Paesi occidentali parlano principalmente di crisi economica e finanziaria, disoccupazione, minacce ambientali, energia nucleare, catastrofi naturali e partecipazione dei loro cittadini ai conflitti in corso, la Chiesa è preoccupata dalla prospettiva di un mondo in cui le donne possano liberamente abortire, i vecchi vengano accompagnati alla morte con leggi che prevedono l'eutanasia o il suicidio assistito, gli omosessuali possano sposarsi e il matrimonio divenga una «option» lasciata ai gusti e alle scelte degli interessati. Questo non significa che la Chiesa sia indifferente alla povertà e al futuro del pianeta. Ma credo che gran parte della sua attenzione, in questo particolare momento, sia concentrata sugli effetti etici della grande rivoluzione biologica scoppiata negli ultimi decenni.
Per fare fronte a queste «minacce» la Chiesa si comporta come una potenza terrena e cerca alleati. Quando questi temi sono stati discussi nelle grandi conferenze delle Nazioni Unite, i rappresentanti della Santa Sede non hanno esitato a stabilire una intesa con quelli dei Paesi islamici che hanno, in alcuni casi, analoghe preoccupazioni. Quando il marito di Terry Schiavo (una donna americana che sopravviveva artificialmente da molti anni), chiese che l'alimentazione venisse interrotta, la Chiesa si oppose e fece causa comune con i gruppi evangelici che avevano una maggiore influenza sulla Casa Bianca all'epoca della presidenza Bush. Non è sorprendente quindi che il Vaticano manifesti maggiore favore per i governi e i partiti politici che appaiono più sensibili alle posizioni della gerarchia cattolica. In Francia, ad esempio, in occasione delle ultime elezioni, alcuni gruppi cattolici si erano schierati a favore della conferma di Nicolas Sarkozy e, più recentemente, l'arcivescovo di Parigi ha esplicitamente condannato il matrimonio tra omosessuali che la presidenza Hollande sembra decisa ad approvare.
In Italia la situazione mi sembra più complicata di quanto risulti dalla sua lettera. La Conferenza episcopale apprezzava la politica conservatrice del governo Berlusconi sulle questioni bioetiche e le sue misure fiscali sugli immobili che appartengono alla Chiesa. Ma era alquanto imbarazzata dalla vita privata del leader del Pdl e ha finito per prenderne le distanze. Oggi, alla vigilia delle nuove elezioni, i vescovi temono probabilmente che la sinistra annunci nel suo programma alcune riforme che le sarebbero sgradite. Ma sa anche di potere contare sulla componente cattolica del Partito democratico. Ricordo, cara Signora, che in Italia, a differenza di quanto accade nella maggior parte degli altri Paesi europei, la sinistra non è rappresentata dai socialisti, ma da una combinazione fra postcomunisti ed ex democristiani di sinistra: due forze politiche che, per ragioni di convenienza o lealtà confessionale, non hanno mai esitato e tenere conto degli interessi della Chiesa.

l’Unità 16.11.12
La Velina Rossa pubblica lettera di Vigna contro Renzi
di G. V.


ROMA Il gran rifiuto di Pier Luigi Vigna a Matteo Renzi, l’accusa di aver usato la poltrona di sindaco di Firenze come «trampolino» verso posti più alti. Il compianto magistrato antimafia si dimise da consigliere della sicurezza del sindaco di Firenze, nel febbraio scorso, con una lettera di fuoco, della quale ora si apprende il contenuto, rivelato dalla Velina Rossa di Pasqualino Laurito.
«Sono sempre stato rispettoso della libertà di scelta altrui, ma nella stessa misura non ho mai considerato positivamente chi opta per lo svolgimento di una determinata funzione pubblica come un trampolino di lancio per conseguirne un’altra del tutto diversa», scriveva Vigna con un tono decisamente amareggiato. «Poiché (emerge) anche da tue dichiarazioni pubbliche in merito il convincimento che tu abbia optato per la sindacatura di Firenze quale passaggio attraverso le primarie alla leadership politica, il mio giudizio su tale condotta non può che essere critico».
Così l’ex procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna, scomparso il 28 settembre scorso, scriveva nel gennaio 2011 al sindaco di Firenze Matteo Renzi motivando le sue dimissioni dall’incarico di consigliere speciale per la sicurezza dello stesso Renzi. La lettera è stata trovata e diffusa dalla Velina Rossa, che, in conclusione, con la consueta vena polemica di Laurito ha voluto offrire il suo «contributo» alla manifestazione di Renzi ieri a Firenze: «Questo è il nostro contributo all’assemblea della Leopolda».
Vigna era stato nominato consigliere il 25 settembre del 2009 con il compito di fornire al sindaco il proprio apporto collaborativo nel settore della sicurezza. «Ho sempre pensato aggiungeva l’ex magistrato nella sua missiva che ogni funzione pubblica non possa essere strumentalizzata».

Corriere 16.11.12
Il segretario e il (futuro) peso di Matteo nel Pd
di Maria Teresa Meli


FIRENZE — Con una più che abbondante dose di malizia Pier Ferdinando Casini sostiene che, da quando Massimo D'Alema si è fatto da parte, Matteo Renzi si è perso per strada. Vero e falso. Falso perché intanto è innegabile che il sindaco di Firenze abbia vinto la sua battaglia per la rottamazione: lo dimostra anche il fatto che molti circoli del Pd in giro per l'Italia chiedono di non avere nei comizi per la campagna delle primarie esponenti della vecchia guardia come il presidente del Copasir e Rosy Bindi. Vero perché dopo la spinta della rottamazione la rincorsa di Renzi ha segnato una battuta d'arresto. In tutti i sondaggi, nei tre che ogni settimana si fa consegnare Pier Luigi Bersani, e in quello che tutti i lunedì arriva sulla scrivania del primo cittadino del capoluogo toscano, il segretario è sempre in testa. Con un'unica differenza: secondo le rilevazioni che giungono a largo del Nazareno il distacco tra i due oscilla tra i cinque e i dieci punti, mentre quelle commissionate da Renzi riducono la distanze a due, tre punti in percentuale. Non finisce qui: i sondaggi più accurati dicono che con un milione e mezzo di votanti Bersani vincerà sicuramente al primo turno, mentre il sindaco di Firenze per ottenere la vittoria dovrebbe sperare in una mega-partecipazione: cinque di milioni di elettori. Renzi sa benissimo che la sua è una sfida durissima: «Al 70 per cento vincerà Bersani, ma...». Ma non è detta l'ultima parola. Il sindaco continua a combattere: quest'ultima settimana girerà in lungo e in largo per le regioni rosse: Emilia, Toscana e Umbria. E poi cercherà di agganciare gli anziani, che sono il suo vero punto debole. Nel frattempo ha dato mandato ai suoi rappresentanti di lista di fotografare in ogni gazebo il risultato, onde evitare i brogli. Ma tutto si può dire di Renzi tranne che sia un ingenuo. Sin dall'inizio il sindaco sapeva che la sua battaglia era a dir poco ardua. Per questo ha pronto il piano B. «Non me ne andrò certo dal partito, anche se qualcuno vorrebbe che finisse così», spiega a tutti i suoi sostenitori, pure a quelli che vorrebbero intraprendere un'avventura diversa assieme a lui. No: Renzi resterà al suo posto a Firenze e sarà il leader della minoranza del Pd, in attesa di diventare maggioranza, perché il sindaco ritiene che un centrosinistra composto da Partito democratico e Sel avrà vita breve. «Comunque dovranno passare per me», dice riferendosi a Bersani e ai suoi. Certo, per ottenere questo risultato il primo cittadino del capoluogo toscano deve ottenere almeno il 30 per cento dei consensi, perché al di sotto di quella soglia i rapporti di forza muterebbero inevitabilmente a suo sfavore. Dunque, anche la sconfitta non segnerebbe la fine politica del sindaco di Firenze. E il segretario, che lo sa bene, non a caso continua a ripetere ai fedelissimi che «Renzi dovrà avere un ruolo di peso in futuro». Già, il Pd orbo del sindaco rischierebbe di ottenere meno voti perché non c'è dubbio che Renzi sta attirando forze nuove attorno a sé, e privarsene sarebbe un grosso errore per i dirigenti del Partito democratico. Ma il futuro del sindaco di Firenze non è, come pure crede qualcuno dei suoi, legato al congresso del Partito democratico. Non pensa di certo a fare il segretario. Lo dice e lo ripete: «Giammai». Ed è vero. Le sue ambizioni politiche sono diverse. Come si è visto anche ieri quando ha voluto dare la linea a tutto il centrosinistra sulle elezioni. Secondo lui è ridicolo e inspiegabile il litigio sulla data delle elezioni. Ufficialmente il Partito democratico è contrario all'abbinamento. Il sindaco, invece, la pensa in maniera molto diversa: secondo lui l'election day è la strada giusta. L'unico vero ostacolo per Matteo Renzi non è quindi la sconfitta alle primarie, ma la resa dei conti che si potrebbe tenere nella sua città dove più di mezzo partito lo aspetta al varco.

La Stampa 16.11.12
“Il Pd lontano dalla gente? Sono i ministri quelli algidi”
Epifani a Barca: non si può uscire dalla crisi solo con il rigore
L’ex segretario Cgil. Il governo si preoccupa troppo poco delle conseguenze che i suoi provvedimenti hanno provocato
intervista di Riccardo Barenghi


«C’è una ripresa della vitalità sociale che io giudico molto positiva. Mi preoccupano però, e molto, le ragioni che spingono lavoratori e studenti a protestare. Ragioni che finora non sono state affrontate né dal governo tecnico né dalla politica». Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil prima di Susanna Camusso e dopo Sergio Cofferati, non vede certo un futuro rosa, semmai grigio per non dire nero.
Pessimista, Epifani? Eppure lei, come tutto il suo partito, il Pd, ha sostenuto il governo Monti.
«Quella è stata una scelta giusta perché ha evitato al Paese di sprofondare, ci ha ridato una credibilità internazionale e ha affrontato problemi che erano ineludibili».
E ora, dopo un anno, qual è il suo bilancio?
«Penso che il limite di questo governo sia stato pensare che si potesse uscire da questa crisi solo col rigore. Invece si doveva pensare e agire anche nella direzione della crescita. E soprattutto direi che si dovevano e ancora si devono dare risposte a coloro che stanno peggio di altri. Il problema è che una parte del Paese riesce a sopravvivere, un’altra parte no. È a questi ultimi che bisogna guardare, altrimenti si rischia di dividere l’Italia in due».
E il governo Monti invece non li ha guardati?
«Ho avuto la sensazione che il governo si preoccupasse troppo della parte tecnica del suo compito e poco delle conseguenze che i suoi provvedimenti avrebbero provocato. Inoltre avrei evitato alcune frasi, alcune dichiarazioni che hanno ulteriormente allontanato una parte dei cittadini dalla politica».
Sta parlando del ministro Elsa Fornero?
«Sì, ma non solo di lei. Purtroppo ho notato un algido distacco dai problemi reali delle persone che non ha aiutato. Il mio consiglio è allora di moderare i toni e di stare più attenti alle richieste e alle proteste».
Ieri in un’intervista al nostro giornale il ministro Fabrizio Barca ha accusato la politica, cioè i partiti e in particolare il Pd, di stare troppo in televisione e poco sul territorio. Lei è d’accordo?
«Beh, io considero il Partito democratico il protagonista principale del cambiamento che avverrà dopo le elezioni. E penso anche che, spesso e volentieri, a cominciare dal segretario Bersani, è composto da persone che si spendono nel rapporto con la gente. Ma ho anche notato tristemente che l’altro ieri durante il grande sciopero europeo nelle piazze italiane la politica era assente. Un vuoto che si toccava con mano».
Forse perché avevano paura di essere coinvolti politicamente negli scontri...
«Guardi che gli scontri non sono certo stati il punto principale del grande sciopero europeo. E se in alcune situazioni, penso a Torino, si è trattato di provocazioni portate da estremisti dei centri sociali e da giovani di estrema destra, in altre, Roma per esempio, la polizia ha decisamente esagerato nella risposta. Quindi bisogna assolutamente che la sinistra dia rappresentanza a questi giovani, non possiamo abbandonarli a se stessi o, peggio, alla violenza estremistica. Le loro domande esigono risposte che finora non hanno avuto».
Senta Epifani, ma a questo punto non converrebbe a tutti anticipare le elezioni politiche, visto che da qui ad aprile il rischio è che la situazione sociale peggiori?
«Vedo questo rischio ma non credo che un paio di mesi facciano la differenza. Semmai credo che si debba usare questo tempo per affrontare e magari risolvere qualche problema. Altrimenti il centrosinistra si troverà tali e tanti problemi sulle spalle che non riuscirà a risolverli tutti».
A proposito, le piace quest’alleanza tra Pd e Sel?
«Mi piace perché le forze che si sono opposte al centrodestra hanno ora il diritto-dovere di proporsi come alternativa».
Ma anche Casini si è opposto a Berlusconi...
«E infatti la nostra ambizione deve essere di governare anche con lui. A patto però che Casini non pretenda di contare 100 se vale 10».

Corriere 16.11.12
Una soluzione di buon senso
di Massimo Franco


Non sarebbe facile spiegare all'Europa, ai mercati finanziari e all'opinione pubblica italiana una crisi del governo di Mario Monti scaturita da una lite sulla data del voto in tre Regioni travolte dagli scandali. I primi ad avere qualche imbarazzo nel conferire razionalità a quella che apparirebbe una follia politica sarebbero probabilmente gli stessi partiti della maggioranza. Il sussulto muscolare, seppure in tono minore, ingigantirebbe la loro immagine di debolezza; e il distacco da una realtà tuttora in bilico, ostaggio della crisi economica.
Si coglie uno scarto vistoso e preoccupante fra una forte pressione internazionale, europea ma anche statunitense, a garantire continuità alle scelte di politica economica dell'Italia; e la disinvoltura, finora solo verbale, con la quale c'è chi ritiene di liquidare un'esperienza di governo per calcoli elettorali e puntigli contrapposti. È come se l'avvicinamento alle urne portasse all'allontanamento dalla ragionevolezza: mentre ci si aspetterebbe il contrario. Eppure, è doveroso sperare che alla fine un compromesso si trovi; e che si eviti un esito traumatico della legislatura.
Altrimenti, andrebbe sciupato il tentativo compiuto negli ultimi dodici mesi di costruire pazientemente un altro percorso basato sulla prevedibilità, intesa come affidabilità, dell'Italia. Scaricare in extremis su Palazzo Chigi le convulsioni e le ambizioni dei partiti sarebbe il regalo finale a quella che, a torto o a ragione, viene definita antipolitica. Il Quirinale ritiene che ci siano alcuni mesi di legislatura da riempire in modo costruttivo e assennato: in primo luogo l'approvazione della legge di Stabilità e, se c'è un residuo di consapevolezza, la riforma del sistema elettorale.
Onorando questi due impegni, probabilmente il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, potrebbe anche acconsentire a sciogliere con un minimo di anticipo le Camere. Quello che vuole evitare a tutti i costi, è un'accelerazione che non sia condivisa e che ponga le basi per un altro periodo di instabilità dopo le elezioni. In caso di accordo, il capo dello Stato forse accorcerebbe di qualche settimana anche il suo settennato. Si sa che, precedenti alla mano, vuole lasciare la scelta del prossimo presidente del Consiglio al suo successore che verrà eletto dal nuovo Parlamento.
Può darsi che da qui a quel momento avvengano fatti nuovi, oggi imprevedibili: compresa l'ipotesi che Monti renda più esplicita la propria disponibilità a restare a Palazzo Chigi dopo il voto, come sperano la Casa Bianca di Barack Obama, le istituzioni finanziarie internazionali e le principali cancellerie europee. Ma senza gesti di responsabilità e di duttilità da parte di tutti fin dai prossimi giorni, il pericolo di una regressione diventa concreto. Ed è bene non farsi illusioni: un azzardo incomprensibile sarebbe sanzionato duramente a livello internazionale e dall'elettorato. In una fase così drammatica, il gioco del cerino brucerà le dita a tutti: e non solo le dita.

Corriere 16.11.12
Il presidente emerito della Corte costituzionale, Valerio Onida:
«L'election day sarebbe un errore Schiaccerebbe le Regionali»
di R. Zuc.


Il presidente emerito della Corte costituzionale, Valerio Onida, si è dovuto confrontare anche in passato con la materia elettorale e, in particolare, con questioni che riguardano lo scioglimento dei consigli regionali, da cui dipende la data delle elezioni. Come nove anni fa per la Campania e l'Abruzzo, quando venne demandato agli statuti regionali il potere di sciogliere o meno il consiglio regionale in caso di dimissioni anticipate. Ora per il Lazio ci si trova di fronte ad una situazione simile. Ma per Onida la questione è soprattutto politica: le elezioni regionali non possono essere «schiacciate» dal peso delle politiche: «È un fatto di democrazia».
Quale fu la scelta presa nel 2003?
«La questione era relativa alla "prorogatio" dei poteri dei consigli regionali di Campania e Abruzzo: in caso di scioglimento anticipato non potevano più operare o, invece, dovevano conservare i loro pieni poteri e legiferare per i 45 giorni, già previsti dalla legge in caso di scadenza naturale? La sentenza 196 decise di affidare la materia agli statuti regionali, pur ribadendo la difficoltà di operare per i consigli sciolti. Io ero il relatore».
E come giudica la recente sentenza del Tar sul Lazio, sulla sospensiva richiesta da Renata Polverini, che ha fatto ricorso al Consiglio di Stato?
«Il problema è che lo statuto regionale del Lazio non prevede alcunché sull'argomento. Ed è ciò che molto probabilmente ha considerato il Tar del Lazio nel prendere quella decisione. Ma il problema non è solo tecnico».
Vuole dire anche politico?
«Certo. La decisione che porterebbe ad accorpare le elezioni regionali con quelle politiche a mio giudizio non funziona per un motivo squisitamente politico. Le prime consultazioni verrebbero infatti ad essere insidiate dalle seconde, nel loro valore di rappresentanza dei cittadini di una determinata area del Paese. Facendo svolgere i due voti lo stesso giorno, per forza l'attenzione degli elettori sarebbe concentrata sulle politiche, a scapito di una competizione, quella locale, che meriterebbe più interesse».

il Fatto 16.11.12
Emma Bonino
Il Quirinale fa stalking sulla legge elettorale
di Caterina Perniconi


Vicepresidente del Senato, Radicale, donna. Arrabbiata per il “pessimo spettacolo” che stanno dando i partiti sulla legge elettorale e per le ingerenze del Quirinale.
Emma Bonino, il Capo dello Stato ha appena dichiarato che il suo ruolo non è solo quello di “tagliare i nastri”.
Lo dice la Costituzione cosa può fare il presidente della Repubblica. In uno Stato di diritto ognuno deve fare il proprio mestiere attenendosi alle regole stabilite.
E Giorgio Napolitano dove le sta contravvenendo?
Come dice il mio collega Maurizio Turco, la pressione su questo tema è arrivata a livello di stalking.
Addirittura?
Magari l’espressione “stalking” sarà un po’ iperbolica per descrivere il pressing, ma questa ennesima violazione del processo elettorale, aggiunta alle quotidiane condanne al sistema giustizia e carcerario, conferma l’Italia come il paese pluripregiudicato d’Europa.
Infatti una riforma a meno di un anno
dalle elezioni riceverebbe una sanzione.
Il Consiglio d’Europa lo chiede, non solo perdareiltemponecessarioperdisegnare i nuovi collegi, ma anche per assicurare che elettori e partiti abbiano modo di prenderne le misure e organizzarsi. Se oggi cominciamo a raccogliere le firme per le liste e poi cambiano la legge che facciamo, le buttiamo?
C’è anche un precedente.
Il 6 novembre la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Bulgaria per aver introdotto nuove norme poco prima del voto del 2005, una sorta di Porcellum bulgaro.
Allora perché anche voi Radicali avete
proposto una modifica meno di un mese fa? Se lo fanno gli altri è sbagliato,
se lo fate voi è giusto?
Se non si riesce a fermare il fiume, almeno si cerca di non farlo straripare. Noi riteniamo che il sistema maggioritario con collegi uninominali sia l’unico che garantisce rappresentatività, governabilità e, fatto nuovo, il “vincolo” europeo.
Alla fine agirà il governo con un decreto?
Ma per carità, adesso basta. Questo governo si era preso un impegno extraparlamentare per sciogliere alcuni nodi economici, del resto devono occuparsi i partiti.
Che non stanno dando un bello spettacolo.
La definirei una prova invereconda basata sulle convenienze.
Quali?
I leader dei partiti pensano ad una legge elettorale non per il Paese ma per prefigurare l’esito che politicamente vogliono, cioè nessuna governabilità e nessuna maggioranza per essere “costretti”, dopo aver creato le condizioni per arrivarci, a richiamare Monti.
Cosa pensa di un Monti bis?
Penso che se Monti vuole fare il presidente del Consiglio deve presentarsi alle elezioni. I governi di unità nazionale sono sempre stati una tragedia e stiamo assistendo solo al ritorno di una partitocrazia sempre più arrogante.
Temete Grillo?
Temo piuttosto l’inadeguatezza delle forze politiche. Non avevano alcuna scusa per non varare una riforma elettorale degna di questo nome, restituendo ai cittadini la possibilità di decidere sulle due cose che distinguono una democrazia da un sistema non democratico: scegliere l’esecutivo sulla base di un programma e la persona che va a rappresentarlo in Parlamento.
Quindi il Porcellum va abolito.
Va abolito se si fa una legge migliore. La nuova proposta è il combinato disposto dei due obbrobri che abbiamo vissuto fino a qui, il proporzionale con preferenze per il 75% (quelle dei casi Fiorito o del caso ‘ndrangheta in Lombardia), e per il 25% liste bloccate scelte dai segretari di partito. Un’altra violazione delle prescrizioni europee e di un esito referendario.
I Radicali con chi vanno alle elezioni?
Non ne ho idea, ma non voglio far parte di uno schieramento ideologico di quelli che vedo riunirsi nei teatri, sempre in tre e sempre maschi, salvo sostituire Di Pietro con Nencini.
Oggi sembra avvicinarsi il voto a febbraio.
Sentiamoci domani e vediamo che succede.

Repubblica 16.11.12
Un deficit di libertà
di Ezio Mauro


SOLTANTO chi non vuol vedere ciò che ha sotto gli occhi può ridurre ad una questione di ordine pubblico la mobilitazione contro l’austerità, per il lavoro e il welfare che ha riempito mercoledì le piazze d’Europa. Sulla violenza abbiamo imparato ad essere netti e precisi: chi va in strada per rivendicare i suoi diritti non ha nulla a che spartire con chi cerca lo scontro fisico con la polizia o compie atti vandalici, presenze che vanno dunque denunciate, isolate e contrastate senza nessuna forma di ambiguità. Nel farlo, la polizia ha il dovere di ricordarsi di essere al servizio di uno Stato democratico e dunque mentre garantisce la sicurezza dei cittadini – tutti, anche i manifestanti – deve evitare l’abuso di potere e l’esercizio di una violenza di Stato che purtroppo abbiamo già visto altre volte andare vergognosamente in scena nelle nostre città. E che abbiamo documentato anche ieri, portando il governo a prenderne atto.
Ma detto questo c’è tutto il resto, di cui non si parla. La coesione sociale di questo Paese ha del miracoloso di fronte al processo di esclusione di un pezzo di società dal sistema occidentale di garanzie in cui eravamo cresciuti per decenni. La crisi che stiamo tutti vivendo ha accentuato fortemente la disuguaglianza sociale, che è diventata una cifra dell’epoca, esplosiva. In un Paese irrisolto e malato come l’Italia questa disuguaglianza è diventata sproporzione. E tuttavia il capitale sociale ha tenuto: un insieme di relazioni, interdipendenze, fiducia e speranza, connessioni, che ha consentito al “sistema” di essere tale anche sotto l’urto della crisi.
Aggiungiamo la frammentazione dei soggetti sociali e delle loro culture di riferimento, l’egemonia culturale di un neoliberismo storpiato all’italiana in una falsa ideologia che consentiva ogni dismisura e scusava qualsiasi privilegio, giustificando e applaudendo qualunque abuso.
Quegli studenti e quegli operai che sono andati in piazza, disorganizzati e divisi in mille rivoli, rappresentano l’irruzione in scena di ciò che è stato escluso, nel senso vero e proprio del termine: tagliato fuori. Un ceto, una fascia di popolazione, una generazione, possono essere compressi fino all’irrilevanza sociale, dunque politica, cioè fino all’invisibilità. È quanto sta accadendo nelle nostre società, sotto i nostri sguardi che non vedono. E tutto ciò, com’è naturale, avviene attorno alla questione capitale di una società democratica, che è la questione del lavoro.
La perdita del lavoro (e nello stesso modo il lavoro che non c’è) è infatti qualcosa di più della perdita del reddito e della sicurezza economica. È lo smarrimento dei legami sociali, dell’interdipendenza dei ruoli, del riconoscimento reciproco attraverso le funzioni e le obbligazioni volontarie che nascono dalle scelte individuali e dalle necessità collettive. Ma è anche il venir meno dei diritti, fino al diritto democratico supremo, il sentimento della cittadinanza. Molto semplicemente, senza libertà materiale non c’è libertà politica: il lavoro è partecipazione, emancipazione, costruzione di sé e della propria libertà in relazione con gli altri e con le libertà altrui. È la trama in cui la realizzazione della nostra vita entra pubblicamente in rapporto con le vite degli altri, in quel disegno che abbiamo chiamato società, cioè lo stare insieme liberamente accettato in una composizione di diritti e di doveri che tende al cosiddetto bene comune, o qualcosa di simile.
Se si rompe il nucleo di valori comunemente riconosciuto nella civiltà occidentale del lavoro, salta tutto questo. Per gli individui, va in crisi il rapporto stesso con la democrazia, perché quando io non sono più in grado di far fronte ai doveri fondamentali davanti alla mia famiglia e ai miei figli, alle loro necessità primarie, alle legittime aspirazioni (cioè alla libertà), la democrazia può diventare per me un guscio vuoto, un insieme di formule che non trova senso pratico e traduzione concreta nella vita di tutti i giorni. Peggio, la democrazia diventa un sistema che si predica per tutti e si declina per alcuni, il regime degli “inclusi”, dei protetti e dei garantiti, che taglia fuori il resto.
La grande novità della fase che viviamo sta proprio qui. Le disuguaglianze sono state molto forti nei decenni che abbiamo alle spalle, in alcuni casi sono state odiose. Ma il sistema politico- economico in cui siamo cresciuti, il suo orizzonte culturale tendevano fortemente all’inclusione. I sessant’anni del dopoguerra hanno esteso in tutta l’Europa una sorta di economia sociale di mercato che ha liberato la forza e le potenzialità del capitalismo regolandolo con il welfare state: prima forma strutturale di redistribuzione in basso del reddito e sistema di garanzia per i più deboli, evitando che diventassero esclusi. Qualcosa di ben lontano, com’è evidente, dalla “democrazia compassionevole” e anche dalla “Big society” che sostituiscono la benevolenza individuale e dei gruppi sociali all’organizzazione dello Stato sociale, la carità ai diritti. Com’è chiaro, la beneficenza non ha bisogno della democrazia: ma in democrazia, la solidarietà sociale ha bisogno di qualcosa di più della beneficenza.
Siamo al nucleo fondamentale della questione, i diritti. Vedendo che sotto la spinta mai neutrale della crisi i soggetti più deboli e più esposti della nostra società sono stati più volte costretti a scegliere tra lavoro e diritti, addirittura tra lavoro e salute, abbiamo dovuto prendere atto di una questione a cui non eravamo preparati: i diritti nati dal lavoro sono dei diritti “nani”, cioè subordinati e condizionati, che possono venire revocati se la crisi lo impone, dunque sono della variabili dipendenti e non autonome. Eppure fanno parte di quel contesto democratico generale di cui tutti usufruiamo qualunque sia il nostro ruolo, perché è la civiltà materiale italiana nel suo progredire. E tuttavia poiché sono frutto del negoziato (e dunque necessariamente del rapporto di forza) e soprattutto perché costano, in quanto rispondono a delle spettanze, sono comprimibili come non accadrebbe mai ad altri diritti. Dimostrando così che il lavoro può tornare ad essere semplice prestazione, cioè merce, quando perde ogni valenza generale, simbolica, culturale, infine e soprattutto politica.
Questo accade perché il neoliberismo, dopo aver generato la crisi, è riuscito paradossalmente a trasformarsi nel suo presunto antidoto, cioè nell’unica legge di sopravvivenza delle democrazie esauste d’Occidente, diventando nei fatti la religione superstite, una moderna ideologia. Non c’è oggi un confronto culturale in atto, nei nostri Paesi. Non c’è una cultura capace di coniugare capitale, lavoro, responsabilità fuori dal paradigma che ha fallito, ma domina ancora il campo. Le destre non hanno elaborato cultura, declinando il modello dominante in un laissez faire smodato nel campo privato, politico, istituzionale. La sinistra scambia la modernità con il senso comune altrui, in cui nuota controcorrente, da gregaria. L’establishment lucra quel che può dalle rendite di posizione della fase, incapace di guardare oltre. La tecnocrazia, impegnata in una necessaria azione di risanamento e in una nuova forma politica di rispetto delle istituzioni, soffre tuttavia di una specie di “integralismo accademico” che la porta a privilegiare i paradigmi scolastici rispetto alla realtà, salvo prendere atto periodicamente che il governo di un Paese moderno per fortuna non è un convegno di Cernobbio.
A questo bisogna aggiungere la divaricazione crescente tra il vincolo europeo e la sua legittimazione democratica. Strumenti decisivi e cruciali della costruzione europea come la Bce (che dobbiamo ringraziare, nella guerra allo spread) si sono trasformati davanti a noi in veri e propri soggetti della governance comunitaria, senza essere mai stati eletti. Leadership di fatto, come quella di Angela Merkel, contano più delle istituzioni dell’Unione, trojke e istituti che non rispondono ai cittadini commissariano i governi, agenzie di rating pesano più delle pubbliche opinioni. È evidente che ci sarà bisogno di più Europa, per uscire dalla crisi: ma ci sarà soprattutto bisogno di una governance democratica, con una rispondenza visibile e riscontrabile tra autorità, potestà, cittadinanza, rappresentanza. Per il momento, questo deficit di legittimazione produce un deficit di politica, e tutto diventa meccanica: anche il rigore, non temperato dall’equità, dalla valutazione del consenso, dal principio di giustizia sociale, è un paradigma obbligato e obbligatorio, non una politica.
La mancanza di politica si avverte drammaticamente anche dall’altra parte del mondo in cui viviamo. Gli esclusi, i senza lavoro, i ragazzi senza prospettive, non hanno oggi una cultura politica che sappia parlare a loro e per loro. Chi rappresenta il lavoro, quando c’è e deve difendere i suoi diritti, quando non c’è e diventa un deficit di libertà? Oggi non c’è rappresentanza. Con il rischio, come avvertono in molti guardando alla Grecia, che la destra prenda in mano temi tipicamente di sinistra e li agiti nella sua strumentalità antieuropea, in una rinascita modernissima e ambigua di una protesta nazional-sociale sotto altre forme.
Ma se questo è il cuore del problema, non abbiamo finito. Perché l’alleanza capitale-lavoro- welfare è stata un’identità naturale delle democrazie rappresentative dell’Occidente, per tutti questi decenni. Se salta, salta anche il tavolo di compensazione dei conflitti che ci ha tutelati tutti, cioè quel vincolo d’interdipendenza che ha legato e tenuto insieme i vincenti e i perdenti del boom, delle crisi cicliche, di internet, della globalizzazione, quel nesso di destino comune che ha scusato e reso fin qui tollerabili le disuguaglianze. Fuori da quel vincolo di libertà tra capitale lavoro e cittadinanza è difficile trovare nuove legittimazioni di sistema per tutti, l’imprenditore e il lavoratore. Da lì è nata un’idea di società, con le istituzioni e i legami che ne derivano. Fuori, non sappiamo come riscrivere il contratto sociale, le obbligazioni reciproche, le protezioni e le opportunità di crescita, i nuovi diritti e i nuovi doveri. Il rischio è che la nuova legittimazione sconti l’esclusione, cioè non sia democratica, o meglio che conservi la forma della democrazia, ma non la sostanza a cui eravamo abituati.
Tutto questo crea uno spazio enorme per la politica, e naturalmente per la sinistra. Se solo lo sapessero.

Corriere 16.11.12
Ordine del giudice: test prenatale anche negli ospedali
«Un diritto sapere se l'embrione è sano»
di Margherita De Bac


ROMA — Altre donne prima di lei si erano sentite negare il diritto di sapere in anticipo, prima di avviare la gravidanza, se il bambino sarebbe nato sano. Teresa però (la chiameremo così) non si è fermata. Ha presentato ricorso al Tribunale civile di Cagliari chiedendo che l'Ospedale Microcitemico, il centro pubblico dove aveva cominciato un percorso di fecondazione artificiale, ordinasse ai medici di non negarle questa speranza.
I giudici le hanno dato ragione. Con una sentenza resa nota ieri dall'Associazione Luca Coscioni hanno disposto di eseguire la diagnosi preimpianto sull'embrione, l'analisi genetica che consentirebbe a Teresa e al marito di accarezzare il sogno di avere un bebè in piena salute. Lei è malata di talassemia, lui ne è portatore. Hanno il 50 per cento di probabilità di trasmetterla al figlio. Il test sugli embrioni, creati in provetta, potrebbe farli diventare genitori felici. «Non voglio rischiare di avere una creatura destinata a gravi sofferenze. Non voglio essere messa di fronte alla decisione di abortire», racconta Teresa.
La sentenza cagliaritana segna un'altra tappa importante della legge sulla procreazione medicalmente assistita, la numero 40. Nel ribadire che la diagnosi preimpianto deve essere eseguita nei centri pubblici in possesso dei requisiti tecnici (secondo o terzo livello) chiarisce che le stesse strutture devono garantire le stesse prestazioni di quelle private, ad esempio il congelamento e la fecondazione di un numero di ovociti superiori a tre. Tecniche contemplate dalla legge, inizialmente piena di divieti e col passare degli anni modificata a colpi di interventi di tribunali e Corte costituzionale (altri sono in arrivo). In particolare, però, nei 76 laboratori pubblici (sui 357 totali) che avrebbero i requisiti per accontentare le coppie infertili sotto tutti i profili, in questi anni si è cercato di non affrontare il problema non essendo del tutto chiara l'interpretazione della legge. Fra pronunciamenti di tribunali, linee guida e raccomandazioni orali, come quello dell'ex sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella definito «diktat» dai Radicali, si era creata confusione. Risultato, le diagnosi genetiche erano diventate monopolio del privato, costo da 6 a 10 mila euro.
Ora non dovrebbero più esserci dubbi interpretativi. Per Filomena Gallo, segretario dell'Associazione Coscioni, significa aver ristabilito il principio dell'equità delle cure: «I centri avranno l'obbligo di fornire indicazioni sullo stato di salute dell'embrione. Già una sentenza del 2007 aveva autorizzato una coppia a ottenere la diagnosi preimpianto. Con questa seconda decisione si entra nel merito». Emma Bonino, vicepresidente del Senato, conta le sentenze contro la legge 40: «In tutto 19. La conferma che è un testo ideologico e fuori dal contesto». Favorevole alla «svolta» Giovanni Mommi, responsabile della ginecologia del Microcitemico, dove prima del 2004, anno di entrata in vigore della legge 40, la diagnosi sull'embrione era un fiore all'occhiello. La Sardegna ha infatti un'alta incidenza di talassemia: «Il nostro ospedale non è attrezzato per l'esame. Il giudice però stabilisce che la Asl demandi il test a laboratori privati e paghi».
Ironica Eugenia Roccella, deputata del Pdl: «Se fosse vero che i centri pubblici dovranno necessariamente dotarsi delle attrezzature per svolgere la diagnosi preimpianto sarebbe più semplice trasferire le competenze di Asl e Regioni direttamente ai tribunali che, a quanto pare, sono più preparati in questa materia. In quanto al merito i giudici hanno stabilito in pratica che un bambino con talassemia ha meno diritto di nascere rispetto a una persona sana. È un chiaro presupposto eugenetico».

l’Unità 16.11.12
Diagnosi preimpianto. La legge 40 è a pezzi
Il tribunale di Cagliari ordina all’ospedale di eseguire l’esame Affossato l’emendamento per il disconoscimento dei bambini «in provetta»
di Jolanda Bufalini


Nuovi fuochi si accendono attorno al totem ideologico della legge 40 sulla procreazione assistita, come avviene, con regolarità, quando si avvicina lo scontro elettorale. Le soluzioni di buon senso per risolvere i problemi che affliggono le coppie sterili e le donne con il loro desiderio di maternità si allontanano e si riattizza la contrapposizione ideologica che lascia irrisolte le questioni.
Ieri gli episodi sono stati due: l’affossamento, in commissione Affari sociali, di un emendamento alla legge 40 presentato dall’onorevole Antonio Palagiano (Idv) su cui erano d’accordo tutti i gruppi. Si prevedeva che le donne che hanno concepito un figlio con la procreazione assistita possano disconoscere, alla nascita, il bambino. L’altro episodio è avvenuto a Cagliari dove un giudice ha deciso in favore di una coppia (la donna è talassemica) che si era vista negare dalla struttura pubblica l’indagine prenatale.
Quello del disconoscimento è un diritto di tutte le donne: nella ratio c’è soprattutto il proposito di scoraggiare l’aborto. Un figlio indesiderato può vedere la luce in ospedale, con la garanzia per la madre dell’anonimato. Estendere la norma a chi ha fatto ricorso alla provetta risponde a un principio di uguaglianza. Ma, quando sembrava che l’emendamento potesse passare in commissione, con i tempi veloci che la discussione d’Aula preclude, pare ci sia stata una riunione informale della commissione Affari costituzionali, alla presenza del sottosegretario Cecilia Guerra. «Questa norma si è sostenuto apre la porta all’utero in affitto, in questo modo una coppia gay può, in accordo con la donna che disconosce, avere il figlio».
Chi dice queste cose, reagisce il professor Carlo Flamigni, «è malvagio», «è qualcuno che pensa male delle donne, le guarda con sospetto, le considera sciocche e facilmente portate a sbagliare». Fa un esempio concreto: «Può darsi il caso che una donna che ha fatto ricorso alla procreazione assistita venga abbandonata dal marito e, al momento di partorire, non sia in condizione di mantenere il bambino che nascerà». È un problema di eguaglianza, «per il resto sono sufficienti le leggi che vietano in Italia l’utero in affitto. Prima siamo tutti eguali poi, il legislatore, se teme delle scappatoie, provvederà con le eccezioni».
A guidare le file dei sospettosi Eugenia Roccella, “madrina” della legge 40: «Bisogna garantire che non vi siano forme surrettizie di commercio intorno alla procreazione assistita, e non si possa aggirare il divieto di fecondazione eterologa». «La norma della legge 40 aggiunge Roccella è un concreto ostacolo a forme più o meno mascherate di mercato del corpo, come per esempio l’utero in affitto». Con lei Paola Binetti (Udc), Carlo Casini del Movimento per la vita, Barbara Saltamartini (Pdl).
Risponde Margherita Miotto, capogruppo Pd agli Affari sociali: «Non sono a conoscenza di contesti informali. Il Pd ha sostenuto l’emendamento Palagiano con forte convinzione. Le ipotesi su utero in affitto o affidamenti alle coppie gay sono frutto di inutili dietrologie. Quella è una norma riconosce l'uguaglianza tra la maternità naturale e quella assistita, non apre nuovi scenari, peraltro vietati dalla legge». Maria Antonietta Farina Coscioni: «Mettere in discussione la legge 40 sembra essere qualcosa di scandaloso».
Invece la legge sulla procreazione assistita esce ancora una volta malconcia dalla sentenza di Cagliari. In origine la legge 40 proibiva non le indagini preimpianto ma il congelamento degli embrioni, norma caduta per effetto di una sentenza della Corte costituzionale del 2009. Livia Turco: «La legge 40 è pasticciata perché è ideologica. Dobbiamo modificarla nel cuore, cioè nel concetto di infertilità. Il testo attuale esclude quella derivante da gravi malattie, circostanza che rende una maternità rischiosa per la salute della donna e del bambino». La sentenza di Cagliari è la «numero 19 contro una legge ideologica», commenta Emma Bonino.

l’Unità 16.11.12
I troppi buchi della legge 40
Tribunali e Consulta hanno già emesso venti sentenze: non è arrivato il momento di ripensare tutta la norma?
di Luca Landò


Pezzo dopo pezzo, comma dopo comma. A otto anni di distanza la legge sulla fecondazione assistita si è trasformata in un lenzuolo bucato, un groviera normativo ben diverso dall’impianto legislativo che nel 2004 divise il Paese a metà. L’ultimo colpo è arrivato ieri.
Si tratta della sentenza con cui il Tribunale di Cagliari ha riconosciuto il diritto di una coppia (lei talassemica, lui portatore sano) di ricorrere alla diagnosi preimpianto dell’embrione. Un diritto che la legge non nega ma nemmeno difende, lasciandolo così facile preda delle interpretazioni di comodo e dei governi di turno.
È quello che successe con le linee guida del ministro Sirchia che durante il governo Berlusconi di fatto bloccò l’applicazione delle analisi preimpianto parlando di un loro utilizzo a solo scopo «osservazionale». Espressione contorta per dire che le analisi, anche se eseguite, non avrebbero mai potuto impedire l’inserimento dell'embrione, nemmeno di fronte alla certezza di una grave patologia.
Il risultato è che oggi dei 76 centri pubblici che effettuano la «procreazione medicalmente assistita» nessuno (nessuno) offre quella diagnosi preimpianto che pure era stata autorizzata nel 2008 dalle linee guida di Livia Turco, ministro della Salute dopo Sirchia, e dalle numerose sentenze che si sono succedute in otto anni.
La sentenza di ieri non è dunque una bocciatura della legge 40 ma un intervento che toglie la diagnosi dell’embrione da un pericoloso e ambiguo limbo normativo che la legge conteneva e permetteva. E stabilisce, una volta per tutte, che quelle tecniche sono utili, dunque preziose per la vita della donna e di chi nascerà. La vicenda della coppia di Cagliari è indicativa: lei affetta da talassemia, lui portatore sano. In base alla legge 40 potrebbero accedere alla procreazione medicalmente assistita perché infertili ed eseguire una diagnosi preimpianto per verificare, prima dell'inserimento in utero, se l'embrione è affetto dalla patologia dei genitori. Ma il laboratorio si rifiuta, lasciando la coppia di fronte a due possibilità: rinunciare alla diagnosi e correre il rischio, oppure rivolgersi ad una struttura privata dove i costi si aggirano però intorno ai 9.000 euro a ciclo. Seguono invece un’altra strada. E si rivolgono a un tribunale.
Contando i ricorsi per correggere le singole parti della legge (come la possibilità di congelare gli embrioni, di fare analisi preimpianto, di abolire il limite dei tre embrioni per ciclo di fecondazione) sono già venti le volte in cui i giudici sono intervenuti per affermare i diritti delle coppie secondo lo spirito della Costituzione anziché gli articoli della legge 40. E sono ben cinque le pronunce con le quali la Corte costituzionale ha di fatto «riscritto» il testo normativo: non male per una legge che l’allora maggioranza berlusconiana volle con forza, anche a costo di creare fra i cittadini un improbabile confronto tra Guelfi e Ghibellini della bioetica su una materia tanto delicata quanto complessa.
Il risultato è una normativa fuori dal tempo e dalla realtà che non tiene conto né delle conoscenze scientifiche raggiunte né del calvario cui vengono in questo modo poste le coppie che ricorrono alla fecondazione assistita. Non solo quelle affette da infertilità, ma anche uomini e donne portatori di patologie serie e che vorrebbero evitare di mettere al mondo un figlio malato gravemente o ricorrere all’aborto terapeutico. Perché questo, non altro, è l’esito di una legge sulla fecondazione assistita che vuole ostacolare, anziché favorire, l’uso delle analisi preimpianto dell’embrione.
Un ultimo punto. La scorsa estate il governo ha annunciato di voler ricorrere contro la sentenza emessa il 28 agosto dalla Corte di Strasburgo proprio sul tema delle diagnosi preimpianto. Viene da chiedersi se, alla luce di questo nuovo pronunciamento e di quelli collezionati finora, sia davvero il caso di portare a livello europeo la difesa di una legge, non solo sbagliata ma anche malfatta; o non sia più opportuno ragionare sul lungo elenco di bocciature e correzioni che arrivano dai tribunali e dai cittadini. Non vorremmo sbagliare ma anziché sostenere a oltranza la legge 40 forse è arrivato il momento di prendere una decisione. Anzi due: ammettere l’errore. E ricominciare da capo.

Corriere 16.11.12
«Dietrofront sui bimbi in provetta da riconoscere»


ROMA — «È stato affossato» l'emendamento, approvato la scorsa settimana in commissione alla Camera, che permetteva il disconoscimento da parte della madre anche per il figlio ottenuto mediante procreazione artificiale. Per dare un iter «più veloce alla proposta di legge, senza passare per l'Aula — denuncia la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni — c'era la disponibilità di tutti i gruppi di procedere in sede legislativa. Però il gridare allo scandalo per la modifica della legge 40 ha fatto sì che nella seduta successiva della commissione Affari sociali ci sia stato un ripensamento da parte di tutti, dal gruppo del Pdl alla Lega all'Udc». Tra i motivi del «ripensamento» anche il timore che l'emendamento potrebbe aprire alla pratica dell'utero in affitto e ai bambini nati da coppie gay.

Repubblica 16.11.12
Anpi, incontri in tutta Italia 
"Per dire no al neofascismo"
Nel fine settimana in 100 città la giornata di sensibilizzazione contro l'intolleranza e il razzismo. "Scuotere l'indifferenza e coinvolgere le istituzioni"
di Valeria Pini

qui

il Fatto 16.11.12
Fischi al Profumo di cultura
Ggli “Stati generali” si risolvono in molte parole, pochi fatti e moltissime contestazioni da parte dei giovani, il cui bersaglio principale è il ministro dell’Istruzione
di Luigi Galella


Stati Generali. L'espressione ha una sua antica solennità, anche se gli esiti storicamente furono contrari alle attese dei promotori. Roma 15 novembre, Teatro Eliseo. Sul palco e in platea, la crème della cultura e della politica italiana. In galleria, i cronisti e più in alto gli studenti. Parla il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. Incautamente, nelle prime frasi, dichiara ciò che andrebbe fatto: “Dobbiamo cambiare... ”
Enunciazione di intenti, parole fatali. Dalla platea, in alto, si leva una voce senza microfono ma chiaramente udibile, che lascia basito l'aristocratico parterre di ministri, studiosi e professori: “Come ministro, come? Ieri ci sono stati adolescenti picchiati dalla polizia”. Il riferimento è alle manifestazioni di piazza degli studenti, in Italia e in Europa. In una foto, presente nei siti online, c'è il volto insanguinato di un tredicenne, preso a manganellate dalla polizia.
Un passo indietro. Il Sole 24ore, quotidiano della Confindustria, aveva stilato il 19 febbraio di quest'anno il “Manifesto della Cultura”, sollecitando l'esecutivo a porre quella che per noi italiani potrebbe essere il tratto distintivo della nostra identità e che rimane invece un polveroso retaggio scolastico “al centro dell'azione di rilancio economico del Paese”. Un meritorio vaste programme. Il 24 febbraio, con sollecita premura, il Governo rispondeva con una lettera densa di promesse: “Cultura: necessario tornare a investire”. Firmatari, tre ministri: Lorenzo Ornaghi, Corrado Passera, Francesco Profumo. Quindi, il decreto di stabilità, prima versione, con cui si è compreso come si torna a investire, ad esempio facendo lavorare i docenti un terzo in più dell'orario settimanale senza retribuzione aggiuntiva, con il vantaggio di sfoltire l'organico di alcune decine di migliaia di professori, precari e non. I fatti, separati dalle parole.
“QUESTO È grave”, risponde Profumo alla contestazione. È grave che i ragazzi vengano malmenati perché protestano. Ma sono altrettanto gravi le parole che si allontanano distrattamente dai fatti. Liberatasi una voce di dissenso, altre ne arrivano. Il Ministro prova a usare la carta segreta, leggendo una lettera di un ragazzo del “Virgilio”, uno dei Licei più prestigiosi della capitale. L'autore è Guglielmo Marchesi e il suo scritto mette in evidenza come cultura derivi dal latino colere, coltivare, ricavandone lo spunto per dei riferimenti metaforici ai tagli trasversali e alla “chiusura dell'innaffiatoio”. Profumo dispensa elogi, non sa come ringraziare quel giovane che lo trae d'impaccio, aiutandolo a trovare le parole migliori, meglio di un oscuro ghostwriter ministeriale. Ma per quanto pregevoli, queste continuano a essere lontanissime dai fatti.
Il dissenso non risparmia neanche Fabrizio Barca, ministro della Coesione Territoriale, presente fra gli altri con Lorenzo Ornaghi (Beni e Attività Culturali). Lo stesso Giuliano Amato, nella prima parte della mattina, introducendo i lavori della giornata, aveva coniato l'espressione “background della creatività italiana”. C'è chi meglio di altri sa come dialettica-mente declinare il tema. Ma detto all'inglese: “Facts are stubborn things”. I fatti sono cose ostinate. Argomenti testardi. Non è più tempo di eloquenza, quindi. Lo si comprende definitivamente quando Profumo giunge al punto focale del suo ragionamento. Dopo aver detto che un ramo del Parlamento ha già posto la priorità sul tema della famiglia, candidamente dichiara che ora si deve chiedere “un'attenzione all'altro bene più importante: la formazione”. Una strana concezione del bicameralismo. Qui famiglia, lì cultura.
E siccome ricerca e formazione non possono andare avanti con lo “stop and go”, ecco la proposta: un piano quinquennale. Era dall'economia collettivistica staliniana che s'era persa la traccia di “piani quinquennali”. Una ragazza in alto sbotta, con voce accorata, rabbiosa: “Ho 21 anni, sono un studentessa, e il mio presente? ” Già la cancelliera tedesca Merkel aveva evocato quella cifra, 5, profetizzando il numero degli anni della crisi. Non porta bene, e infatti le voci contro si moltiplicano.
PROFUMO non riesce a proseguire, s'aggrappa al secondo ramo del Parlamento: la giusta attenzione, se non c'è scuola non c'è educazione, ecc. Un'altra voce, potente come un graffio: “Li tolga alla scuola privata”. I fondi. E lui: “L'innaffiatoio non può essere chiuso”. E il giovane, ancora: “Per innaffiare i giardini di chi? ” Le metafore possono far male. In ultimo, giunge il Presidente della Repubblica. Le proteste si placano. Un lungo applauso di saluto, quindi il discorso. Con tecnica argomentativa più abile di quella di Profumo, Napolitano dichiara che non sarà “elusivo”. Primi applausi. Quindi parla della cultura come di “una scelta trascurata in un lungo arco di tempo”. Non confinabile quindi all'attuale esecutivo. Indirettamente, un mea culpa. Ma poi l'affondo verso la sua stessa creatura, ormai traballante, con una puntuale critica alle modalità della spending review, che non ha saputo salvaguardare una quota adeguata di investimenti per la cultura. Se anche Napolitano critica il governo...

Corriere 16.11.12
«Risorse alla cultura. La politica non dica soltanto dei no»
Monito di Napolitano. Ministri contestati
di Paolo Conti


ROMA — «Vedo un'effervescenza simile a quella che ho incontrato nel Sulcis non so se usciremo anche da qui in elicottero. Ma è un'effervescenza positiva perché credo che l'Italia sia tornata a domandare». Il ministro per la Coesione territoriale Luciano Barca assiste dal palco del teatro Eliseo, durante gli Stati generali della cultura organizzati da Il Sole 24 Ore con l'Accademia dei Lincei e l'Enciclopedia Italiana, a una forte contestazione dalla platea e dalla galleria. Sono precari dei beni culturali, studenti, occupanti del teatro Valle. Un grido: «Parlare di cultura significa anche parlare dei lavoratori del settore». Una ragazza urla dal loggione: «Ho 21 anni, voglio sapere del mio presente, non del mio futuro. Sono preoccupata ora». Il suo interlocutore stavolta è Francesco Profumo, ministro dell'Istruzione. Un altro ragazzo attacca Lorenzo Ornaghi, ministro per i Beni culturali, che analizza i tagli: «Lei parla come un economista, perché non parla come un ministro della Cultura? Non ne possiamo più di parole, siamo allarmati». Ornaghi ribatte: «Mai fatto l'economista in vita mia. Se non ci rendiamo conto dei fatti facciamo chiacchiere. E non si può dire che questo governo non abbia fatto niente per i Beni culturali».
Le tensioni viste nelle strade europee raggiungono l'universo della cultura e della ricerca, a sua volta in grave affanno per la spending review, in un teatro che ospita il presidente Giorgio Napolitano, due ministri in sala (Anna Maria Cancellieri, Interni, e Paola Severino, Giustizia) e tre sul palco nel dibattito coordinato dal direttore de Il Sole 24 Ore, Roberto Napoletano (Barca, Ornaghi e Francesco Profumo, Istruzione).
Le contestazioni sono forti e affiorano subito dopo la prolusione di Giuliano Amato, presidente della Treccani, sulla situazione della cultura in Italia. C'è tensione e nervosismo, lo si percepisce durante il dibattito. Roberto Napoletano, per rendere rapidi i temi, interrompe l'archeologo Andrea Carandini col suo atto di accusa contro i tagli («il ministero è ormai un morente ibernato»).
Tocca al capo dello Stato riprendere in mano le redini della giornata e «rimettere insieme» governanti e contestatori. Partendo da una constatazione: «Esiste da decenni una sottovalutazione clamorosa della cultura, della formazione, della ricerca da parte delle istituzioni rappresentative della politica, del governo, dei governi locali, ma anche della società civile». A Monti, ricorda Napolitano, si deve «il recupero della credibilità e del nostro ruolo nel mondo» ma il presidente dice: «Non eludo e non esito dall'avere uno spirito critico anche nei confronti del comportamento dell'attuale governo, pur conoscendo la sensibilità e l'impegno dei ministri». Il punto sono i tagli «lineari»: «Occorre far emergere una nuova scala di priorità, non credo ci si debba arrendere agli automatismi della spending review». Quindi urge «salvaguardare una quota consistente di risorse per la cultura, la ricerca e la tutela del patrimonio e del paesaggio». Cita l'articolo 9 della Costituzione che obbliga la Repubblica a sostenere la ricerca, a tutelare beni culturali e paesaggio». Certo, aggiunge, «non possiamo giocare con il rischio di fallimento» ma «contenimento e riduzione della spesa pubblica non vogliono dire che non ci possa essere una selezione. Scegliere è una responsabilità della politica: dire dei no e dire dei sì. E servono più sì».
Napolitano riceve autentiche ovazioni da parte di tutti, anche dei contestatori. E ancora: «Si può parlare di emergenza dimenticata? Non è l'espressione più adatta. È stata una scelta di fondo trascurata in un lungo arco di tempo, non nata con questo governo. È una scelta che resta da fare. Per la cultura esiste una questione di soldi, ma anche di capacità progettuale, organizzativa, gestionale». Alla fine anche una battuta, diretta proprio ai contestatori: «Nel passato ho fatto il comiziante e sono abituato a confrontarmi con i battibecchi in piazza anche se adesso faccio un altro mestiere...» La tensione si scioglie. Altri applausi.

Corriere 16.11.12
Le cellule della luce. Ecco perché l'oscurità ci rende depressi
di Edoardo Boncinelli


Sappiamo che in alcuni soggetti la scarsezza di luce causa depressione e alcuni tipi di depressione grave vengono curati con un'esposizione a una luce forte. Abbiamo, insomma, bisogno di luce, ma non sapevamo perché. In passato qualcuno aveva addirittura favoleggiato dell'esistenza di un «terzo occhio», da identificare probabilmente con la ghiandola pineale, sensibile alla luminosità dell'ambiente. Si è visto ora che nella retina dei nostri occhi esistono un certo numero di cellule specifiche che misurano l'intensità e la durata dell'illuminazione e queste sono alla base del fenomeno.
Si tratta di una sottopopolazione di cellule gangliari, quelle che portano il segnale visivo dalla retina al cervello, che sono state battezzate ipRGC, intrinsically photosensitive retinal ganglion cells. Queste cellule non servono a vedere l'immagine che abbiamo davanti ma misurano appunto specificamente l'intensità e la durata dell'illuminazione. Sono connesse direttamente con varie strutture del sistema limbico, quello che regola il nostro umore, al quale segnalano per esempio la durata del giorno e della notte, per aggiustare i nostri ritmi circadiani.
Sulla rivista Nature sta per comparire uno studio di un gruppo di ricerca di Baltimora che ha sottoposto alcuni topi ad un alternarsi di luce e oscurità leggermente diverso da quello al quale sono abituati. Le cose sono fatte in modo da non turbare il loro regime di sonno e non causare altri danni collaterali. Si è visto però che gli animali esposti rivelano chiari segni di depressione e cominciano a perdere la capacità di imparare. I ricercatori dimostrano che questo secondo difetto è direttamente causato dalla depressione, perché se si danno varie sostanze antidepressive a questi animali, quelli riacquistano prontamente la capacità di imparare. Si è visto inoltre che topi privi del tipo di cellule appena ricordate sono insensibili al trattamento. Non c'è dubbio che un meccanismo simile operi anche in noi. Abbiamo così imparato un certo numero di cose fondamentali: il ritmo circadiano è regolato da speciali cellule della retina; turbare questo ritmo genera depressione; e questa può portare direttamente a problemi nell'apprendimento. Occorre fare attenzione quindi tra le altre cose al jet lag e alle giornate buie...

La Stampa 16.11.12
Perché sostengo che l’ergastolo vada abolito
d Umberto Veronesi


Il dibattito sulla giustizia ci aiuta a delineare la società in cui vorremmo vivere. Per questo abbiamo voluto mettere al centro della quarta conferenza mondiale Science for Peace che si svolge oggi e domani a Milano il tema della violenza dei sistemi giudiziari nel mondo e in quest’ambito sosteniamo la campagna a favore dell’abolizione dell’ergastolo, che riteniamo una forma di pena antiscientifica e anticostituzionale.
Antiscientifica perché è dimostrato che il nostro cervello ha cellule staminali che possono colmare il vuoto lasciato dalle cellule cerebrali che scompaiono; quindi, come gli altri organi del corpo, può rinnovarsi. Questo dato scientifico ha implicazioni importanti per la giustizia perché il carcerato dopo 20 anni può essere una persona diversa da quando ha commesso il reato. Inoltre l’ergastolo è anticostituzionale perché contro il principio riabilitativo della nostra Costituzione, che all’articolo 27 recita che le pene devono essere tese alla rieducazione del condannato. Ma per chi è condannato a morire in carcere, il futuro si consuma nei pochi metri della sua cella, e senza futuro non ci può essere ravvedimento.
Dunque l’ ergastolo non risponde al bisogno di giustizia, ma a quello di vendetta, per soddisfare la reazione istintiva ed emotiva dei cittadini. Ma non risolve il problema reale, che è quello di vivere in un Paese civile e avanzato, in cui la sicurezza individuale è tutelata da una giustizia equa. Una giustizia vendicativa e non rieducativa infatti non riduce la criminalità, è un pessimo insegnamento per i cittadini, e difficilmente porta a un miglioramento nei rapporti umani. L’abbiamo sperimentato con la pena di morte, da molti considerata una punizione esemplare per dissuadere i cittadini dall’omicidio. Ma in Italia dopo la soppressione della pena capitale si è progressivamente ridotto il numero annuale di omicidi fino al livello di 1 caso ogni 100.000 abitanti: il più basso del mondo assieme alla Finlandia. Del resto non è una novità che la violenza generi nuova violenza: è la conclusione di grandi pensatori, da Platone a Leonardo da Vinci fino a Gandhi. Oggi la ricerca scientifica avvalora le loro tesi perché gli studi antropologici e genetici confermano che l’essere umano è biologicamente portato alla non-violenza e dunque l’aggressività, nelle sue varie forme, è nella maggioranza dei casi dovuta a cause ambientali, come il disagio sociale o la povertà, o a violenze e abusi subite durante l’infanzia. Ecco allora che capire, prima di punire, diventa necessario per rimuovere le cause che sono alla radice dei conflitti e dei comportamenti criminali. L’Italia è l’unico Paese ad avere introdotto, nel ’92 l’ergastolo ostativo (il fine pena mai) per i condannati particolarmente pericolosi, come i mafiosi responsabili di omicidi. Possiamo obiettivamente affermare di avere così ridotto il potere delle mafie? Io credo di no. Allora aboliamo l’ergastolo e avviciniamoci a una giustizia che possa fare del nostro Paese un modello avanzato di civiltà.

Repubblica 16.11.12
“Aboliamo l’ergastolo le persone cambiano è provato dalla scienza”
Umberto Veronesi lancia la campagna di firme
di Carla Brambilla


MILANO — «L’ergastolo è più atroce di qualsiasi altra pena, perché ti ammazza lasciandoti vivo». A lanciare il “Manifesto contro l’ergastolo” sarà la conferenza internazionale “Science for Peace”, promossa dalla Fondazione Umberto Veronesi, oggi e domani all’Università Bocconi. Una sfida scientifica e culturale in sostegno di una grande proposta di iniziativa popolare per l’abolizione della pena dell’ergastolo, a cui aderiscono scienziati, intellettuali, scrittori, politici, docenti universitari. Tra i primi firmatari Margherita Hack, Umberto Veronesi, Gino Strada, Erri De Luca, Susanna Tamaro, Andrea Camilleri, Giuliano Amato, Franca Rame, Ascanio Celestini e molti altri personaggi. Ma la raccolta di firme è appena cominciata.
«L’ergastolo è una pena antiscientifica e anticostituzionale — denuncia Veronesi. — Antiscientifica perché è dimostrato che il nostro cervello, come altri organi del nostro corpo, può rinnovarsi e il cervello che abbiamo oggi non è lo stesso di 20 anni fa. L’ergastolo è poi anticostituzionale perché va contro il principio riabilitativo della nostra Costituzione, che all’articolo 27 recita che le pene devono essere tese alla rieducazione del condannato ». «Il grado di democrazia di un Paese si misura dallo stato delle sue carceri — sostiene l’appello. — L’ergastolo è una pena molto più dolorosa e disumana della pena di morte. Spesso un ergastolano è un uomo ombra, perché pensa di essere morto pur essendo vivo, perché vive una vita senza vita. Mentre a ogni persona detenuta dovrebbe riconosciuto il diritto a una speranza». Il manifesto contesta in modo particolare il cosiddetto “ergastolo ostativo” che esclude l’accesso alle misure alternative al carcere, rendendo questa pena un effettivo “fine pena mai”. «Un uomo non può essere considerato colpevole per sempre. Una pena per essere giusta deve avere un inizio e una fine, perché una condanna che non finisce non potrà mai rieducare nessuno». Ci sono in Italia più di 1500 detenuti condannati all’ergastolo e più di mille di loro non hanno accesso a nessun beneficio penitenziario, come i permessi premio. «Per loro il fine pena mai è reale — assicura Nadia Bizzotto, dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII,
particolarmente impegnata sui temi carcerari, tra i relatori alla conferenza milanese. — Se le pene devono tendere alla “rieducazione del condannato” che senso ha rieducare una persona per portarla alla tomba? L’ergastolo ostativo ai benefici penitenziari è una pena di morte mascherata ». La sanzione penale nella prospettiva della scienza contemporanea sarà al centro della giornata di oggi di Science for Peace. «Una giustizia vendicativa e non rieducativa non riduce la criminalità — assicura Veronesi, smontando un luogo comune particolarmente radicato. — L’abbiamo già sperimentato con la pena di morte».

Repubblica 16.11.12
L’astrofisica Margherita Hack è la prima firmataria
“È una forma di tortura senza senso frutto dell’ignoranza e della paura”


«L’ERGASTOLO è una barbarie. Una forma di tortura. La pena dovrebbe avere lo scopo di migliorare le persone. E non essere un’inutile vendetta». La grande astrofisica Margherita Hack, prima firmataria della proposta di iniziativa popolare per l’abolizione dell’ergastolo, non ha bisogno di molte parole per condannare il carcere a vita.
Le neuroscienze hanno dimostrato che il cervello umano cambia nel corso degli anni. Anche per questo non ha senso una pena che non ha fine?
«Non mi sembra ci sia bisogno di essere degli scienziati per sapere che gli esseri umani cambiano, e anche molto, nel corso della loro vita...»
Però non sono poche le persone convinte che l’ergastolo sia una pena giusta per i reati più efferati.
«Credo che alla base di questa convinzione ci sia un problema di ignoranza e di paura. Mi auguro che il prossimo Parlamento, che dovrebbe avere una maggioranza un po’ più evoluta di questo, abbia la capacità di abolire definitivamente l’ergastolo».
(c.br.)


FOTO DI GAZA QUI:
http://www.lastampa.it/2012/11/15/multimedia/esteri/da-gaza-pioggia-di-razzi-contro-israele-AI9ZzIzjH4AKVYOZXJUuyJ/pagina.html


il Fatto 16.11.12
I pilastri della morte
Secondo giornodi raid israeliani a Gaza
Razzo di Hamas contro Tel Aviv
di Roberta Zunini


Per favore prega per noi, la mia bambina non smette di piangere, stanno bombardando dappertutto”. È surreale vedere e ascoltare via Skype l'esplosione delle bombe. Chi ci parla dall'altra parte dello schermo potrebbe morire da un momento all'altro: è questo il rischio che corrono Rula, giovane avvocato e madre, e la sua famiglia. Rula ha chiamato ieri sera, circa mezz'ora dopo l'inizio della nuova serie di bombardamenti dell'aviazione israeliana, al termine di una giornata in cui l'offensiva di Hamas era riuscita ad arrivare dove non avrebbe dovuto: a Tel Aviv.
L’“IRON DOME”, il sofisticato sistema antimissile israeliano questa volta non ha funzionato del tutto: due missili sono riusciti a penetrarlo e a precipitare in una zona deserta nell'estrema periferia di Tel Aviv. Per la prima volta dal 1991, le sirene hanno suonato nella capitale israeliana costringendo gli abitanti a scappare nei rifugi. Non ci sono stati feriti ma il panico si è diffuso rapidamente.
Vent'anni fa era in corso la prima guerra del Golfo e a prendere di mira gli abitanti della capitale israeliana fu Saddam. Oggi sono i miliziani di Hamas e i gruppi della Jihad islamica che si annidano nella Striscia di Gaza, a voler uccidere i civili israeliani, portando il livello dello scontro al massimo. “Abbiamo ampliato l'estensione della battaglia per raggiungere Tel Aviv - rivendica un comunicato diffuso dai gruppi ultra-radicale - e ciò che sta per succedere sarà ancora più grave”. Gli jihadisti sottolineano che sono stati usati “Fajr-5”, razzi d'artiglieria progettati e fabbricati in Iran, la cui portata è di circa 75 chilometri. Dopo l'escalation dei giorni scorsi, a causa degli oltre 250 missili lanciati dalla Striscia sulle città del sud di Israele, che hanno ucciso 3 persone, il premier Netanyahu aveva dato il via all'operazione “Pilastro di porre una versione aggiornata di “Piombo fuso”, l’operazione a inizio 2009, che provocò la morte di 1.400 gazawi. Israele, come allora, è disposto ad andare fino in fondo perché non può accettare che missili, per giunta di fabbricazione iraniana, arrivino a colpire Tel Aviv. Il difesa” o “Colonna di nuvole”: obiettivo principale era il capo del braccio armato di Hamas, Ahmed Jabari, polverizzato nella sua auto da un missile teleguidato. Ma ora la rappresaglia delle forze di difesa israeliane (almeno una ventina le vittime nei due giorni di raid) potrebbe dare il via all'ingresso delle truppe di terra nella Striscia e riproministro della Difesa Ehud Barak, poco prima di dare il via alla nuova serie di bombardamenti, aveva detto: “Pagheranno il prezzo per il lancio dei razzi contro Tel Aviv”. I primi a pagare dovrebbero essere i leader di Hamas, come è già accaduto in passato quando il fondatore del movimento islamico, lo sceicco paraplegico Yassin fu assassinato nel 2004 grazie all'esplosivo inserito in un cellulare fattogli pervenire, la stessa sorte toccò al suo successore Abdel Rantisi (ucciso con un missile di precisione nello stesso anno) e prima ancora (1995) “all'ingegnere” Yahya Ayyash, esperto nella fabbricazione di bombe e fatto fuori con il cellulare-killer.

l’Unità 16.11.12
Mohamed El Baradei: «La Striscia è una prigione. La soluzione non è nelle armi»
Ex direttore dell’Aiea, premio Nobel per la pace, tra i protagonisti della «primavera egiziana», fondatore del partito laico Al-Dostour
di Umberto De Giovannangeli


La nostra conversazione spazia dal Medio Oriente in fiamme alla controversa transizione egiziana. Un giro d’orizzonte alquanto interessante se il «compagno di viaggio» è un uomo che ha accumulato nel corso della sua vita pubblica un bagaglio considerevole d’esperienza: Mohamed El Baradei, già direttore dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica delle Nazioni Unite, premio Nobel per la pace, tra i protagonisti della «primavera egiziana». A Gaza è guerra: «Non basta far tacere le armi riflette El Baradei se poi si lascia che la Striscia di Gaza resti una enorme prigione a cielo aperto, isolata dal resto del mondo, dove cresce solo rabbia e disperazione. Non c’è pace senza giustizia, e giustizia vuole che al popolo palestinese sia riconosciuto finalmente il diritto ad uno Stato indipendente. È con la politica e non con le armi che Israele può difendere la sua sicurezza. Israele ha nel presidente Abbas (Abu Mazen, ndr) un interlocutore saggio, disposto a negoziare una pace giusta, duratura, tra pari. Delegittimarlo come Israele sta facendo è un altro errore esiziale». El Baradei si sofferma anche sul dossier iraniano e sulle voci di contatti segreti tra Washington e Teheran: «Non so se questi contatti si sono svolti – osserva l’ex direttore dell’Aiea ma sono convinto che il dialogo costruttivo è la linea giusta da seguire, perché le sanzioni da sole non risolveranno il problema, tanto meno l’opzione militare che, se praticata, avrebbe effetti devastanti per l’intero Medio Oriente e per la sicurezza nel mondo. Se l’Iran venisse aggredito, riceverebbe immediato appoggio non solo da tutti i cittadini iraniani, ma anche da quasi tutti gli abitanti del Medio Oriente, oltre che da un vasto numero di persone sparse in tutto il mondo». «Prego aggiunge affinché una cosa simile non possa mai accadere. Mi auguro che gli israeliani si rendano conto che una tale decisione ne minerebbe gravemente la posizione, invece che consolidarne la sicurezza. La questione potrà essere risolta solo quando Stati Uniti e Iran decideranno di sedersi al tavolo delle trattative intenzionati a giungere a una soluzione che accontenti entrambi».
A Gaza è di nuovo guerra. È la resa dei conti finale tra Israele e Hamas?
«Chi lo pensa è un irresponsabile e gioca con il fuoco. Già in passato, Israele ha provato a risolvere con la forza il “problema-Hamas” eliminando molti dei suoi dirigenti. Ma altri li hanno sostituiti e la storia si ripeterà. Non è con le armi che Israele potrà sentirsi più sicuro. La sua sicurezza è legata indissolubilmente alla realizzazione del diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente. Un diritto fin qui colpevolmente negato».
C’è il rischio che la guerra di Gaza possa estendersi?
«Certo che sì. Ed anche per questo che l’incendio va domato al più presto. La “primavere arabe”, non in termini anti-israeliani ma come parte di quelle istanze di libertà e di giustizia che non valevano solo per l’interno. Sono il primo a ritenere che non esista alternativa al dialogo e che il diritto di resistenza non vada confuso con attacchi indiscriminati contro i civili. Ma, lo ripeto, alla pace va data una chance, vera, reale. Solo così potranno essere sconfitti gli estremisti».
Mentre a Gaza si combatte, l’Egitto fa i conti con una transizione difficile e per molti aspetti contraddittoria.
«Dagli avvenimenti dell’ultimo anno dobbiamo trarre la lezione che divisi si perde. La divisione delle forze laiche, democratiche e progressiste ha pesato in misura decisiva alla vittoria di Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani nelle elezioni presidenziali. Occorre voltar pagina e l’unità raggiunta tra Al-Dostour (il partito della Costituzione di cui El Baradei è stato co-fondatore, ndr) e l’Al-Adl (Giustizia», partito laico centrista, ndr) va nella giusta direzione».
A proposito di Costituzione, un punto centrale nel programma dell’Al-Dostour, è proprio quello di battersi per una nuova carta costituzionale che recepisca lo spirito e le istanze che furono alla base della rivolta anti-Mubarak.
«La Costituzione è la legge fondamentale, quella che dà l’impronta ad un Paese, e i suoi dettami non possono compromettere la libertà umana, la dignità e l’uguaglianza. Diritti civili e giustizia sociale: sono i pilastri di una battaglia che ha come posta in gioco il futuro dell’Egitto».
Lei è stato molto critico con i Fratelli Musulmani. Perché?
«Perché il modo in cui il Fratelli Musulmani gestiscono il bene pubblico si scontra con i tentativi del popolo di trasformare l’Egitto in uno Stato di diritto. A ciò si aggiunga che nulla è stato fatto per migliorare le condizioni di vita della popolazione e offrire una prospettiva alle nuove generazioni. La lotta ora non è a Piazza Tahrir (il centro della rivolta anti-Mubarak, ndr) ma nell’arena politica. L’impegno del mio partito è quello di radicarsi in ogni segmento della società egiziana».

Corriere 16.11.12
«Ma questa volta l'America darà un tempo limitato»
di F. Bat.


TEL AVIV — «La situazione nel Sud era impossibile da sostenere. Israele è una democrazia, non può accettare che ogni settimana un settimo dei suoi cittadini si rintani perché piovono razzi». L'altroieri, quand'è partita l'operazione «Colonna di fumo», Nahum Barnea stava in un kibbutz proprio al confine con Gaza. Ha visto abbastanza, sentito molto, capito tutto: mai tenero col premier, stavolta il principe degli editorialisti israeliani è con Netanyahu: «Doveva pur far qualcosa…».
Quanto peseranno queste bombe sul voto di gennaio?
«I politici non amano operazioni di questo tipo, sotto elezioni, perché si sa che è facile perderne il controllo. Il primo giorno, sembrava una gran vittoria. Il secondo, i tre morti e le sirene a Tel Aviv hanno già cambiato le carte in tavola. Netanyahu non è sicuramente di buon umore: uno come lui, che in tutti i sondaggi è accreditato della vittoria, non inizia una guerra se non è veramente obbligato».
Obama detesta Netanyahu: come si spiega il suo appoggio incondizionato?
«Gli Usa appoggiano Israele, più che altro: riconoscono che i cittadini hanno diritto a una vita normale. La differenza tra l'Obama di oggi e il Bush che appoggiò la guerra di Olmert, nel 2008, è che probabilmente Obama non concederà a Netanyahu lo stesso tempo che Bush concesse a Olmert».
E' la fine d'ogni possibile dialogo con l'Egitto dei Fratelli musulmani?
«Difficile dirlo. Morsi ha bisogno degli Stati Uniti e non diventerà il portavoce di Hamas: fa molta retorica, ma non penso che s'andrà oltre il rimpatrio dell'ambasciatore. Morsi è ancora instabile, non si sbilancerà più di tanto».
Le piazze arabe non sembrano andar oltre la solidarietà di facciata: Hamas paga l'aver appoggiato Assad?
«La politica araba sta cambiando velocemente e i nuovi governi spesso anticipano le piazze. Il Qatar, che è nemico della Siria, ha appena donato a Hamas 400 milioni di dollari... L'ago della bilancia, però, resta l'Egitto».
A Gaza, quanto durerà il sostegno a Hamas?
«Gaza ora è sotto choc, la botta è forte, il morale basso. Un'azione di questo tipo cementa il consenso palestinese. M'aspetto che torneranno alla strategia di qualche anno fa, a colpirci coi kamikaze».
Quanto influirà quest'operazione sul voto di fine mese all'Onu, per il riconoscimento della Palestina come Stato membro?
«Influirà di sicuro. Israele ora vuole molte cose: che il mondo convinca i palestinesi a non dichiarare l'indipendenza, che appoggi quest'operazione, che sostenga l'attacco all'Iran… Non può ottenere tutto, su qualcosa dovrà cedere».

Repubblica 16.11.12
Polveriera araba
L’Egitto in aiuto di Hamas sul conflitto Israele-Gaza il vento della Primavera araba
La Striscia non è più isolata, rischio contagio
di Bernardo Valli


LA NUOVA fiammata, nel cronico conflitto tra Israele e Gaza, avviene in un Medio Oriente profondamente cambiato. La situazione nella regione è più confusa e più esplosiva.
ED È pericoloso accendere fuochi in prossimità di una polveriera. Eppure è quel che hanno fatto e fanno i due contendenti. In un anno più di 750 razzi partiti da Gaza sono piovuti sul Sud di Israele, ma quelli risultati micidiali (tre morti nel piccolo centro di Kiryat Malachi), sono stati lanciati dopo che un missile aveva ucciso Ahmed al-Jabari, capo militare di Hamas, mentre guidava la sua automobile in una strada di Gaza. Dopo una lunga, rischiosa routine, dopo una contenuta ostilità, l’omicidio mirato ha riacceso il conflitto.
Nei quattro anni trascorsi dall’inverno 2008-9, quando l’operazione israeliana (Piombo fuso) fece mille trecento morti nella Striscia di Gaza, provincia separata e non occupata della Palestina, sono intervenuti tanti mutamenti. Mi limito ai due più rilevanti prodotti dalla “primavera araba”: i Fratelli musulmani sono arrivati al potere nel vicino Egitto e la guerra civile infuria nell’altrettanto limitrofa Siria.
La destituzione al Cairo di Hosni Mubarak, il raìs con il quale per Gerusalemme era facile accordarsi, e l’elezione al suo posto del presidente Mohamed Morsi hanno creato seri problemi tra le due capitali. Ed è finito l’isolamento di Gaza. Il movimento Hamas, che la governa, è infatti un’emanazione, sia pure distinta, della Confraternita dei Fratelli musulmani al governo al Cairo, e dalla quale Morsi proviene. Oltre ai già difficili rapporti con l’ex alleata Turchia, Israele deve adesso gestire un’agitata relazione, o una pace ancora più fredda, con l’Egitto al quale è legato dagli accordi di pace, conclusi a Camp David nel 1978.
I raìs non erano troppo presentabili, ma avevano una qualità: erano interlocutori che non dovevano tener conto delle opinioni dei sudditi, disciplinati da poliziotti e soldati. Il dialogo con loro era diretto. L’egiziano Morsi, eletto al suffragio universale diretto, deve adeguare, almeno in parte, la sua sensibilità di fratello musulmano moderato alle esigenze dei concorrenti salafiti, musulmani più radicali, che chiedono di rivedere i rapporti con Israele. Ed esigono più solidarietà con Gaza governata da Hamas.
E cosi Morsi non è rimasto immobile come il predecessore Mubarak. Ha interpellato la Casa Bianca. Ha richiamato l’ambasciatore da Israele. Si è rivolto alla Lega Araba e al Consiglio di Sicurezza. Ha pronunciato severe condanne alla televisione. E oggi manda il suo primo ministro sul posto, a Gaza, con l’incarico di verificare i danni subiti dalla popolazione, di rendere omaggio ai morti (finora ne sarebbero stati contati diciannove) e di studiare l’invio di aiuti urgenti. In realtà si tratta di una visita con un alto valore politico. L’Egitto dimostra in concreto la sua solidarietà all’avversario di Israele. Un gesto che equivale quasi a una sfida. Gli israeliani oseranno bombardare Gaza durante la visita del primo ministro egiziano? Una crisi seria tra Egitto e Israele spezzerebbe i precari equilibri mediorientali. Barack Obama ha dedicato nelle ultime ore non poco del suo tempo nel tentativo di placare gli animi degli uni e degli altri. Ha dosato le parole. Ha riconosciuto il diritto di Israele a difendersi dalla pioggia di razzi, ma ha invitato a moderare le reazioni. E ha ascoltato a lungo il presidente egiziano, indignato ma non minaccioso.
In quanto alla Siria è un vulcano in eruzione che rischia di travolgere l’intera regione, ed è comunque una fonte di violenza alle porte di Israele. Oltre le alture del Golan, confine contestato tra lo Stato ebraico e la Siria frantumata, infuria una mischia in cui anche la super- esperta intelligence israeliana deve stentare a riconoscere amici e nemici. E deve faticare a evitare le infiltrazioni. Perché ad Aleppo, a Homs, e nei paraggi della stessa Damasco, operano gruppi armati di varie tendenze. Dai laici agli islamisti moderati ai jihadisti. Gli iraniani, irriducibili avversari di Israele, appoggiano il regime di Damasco, e al tempo stesso sono amici di Gaza. Ma anche il ricco Qatar, che appoggia i ribelli, si è manifestato come un benefattore di Gaza. E questo vale per l’Egitto e la Turchia, potenze sunnite e nemiche del regime sciita di Bashar el Assad. Del quale anche gli americani, amici e protettori di Israele, ma non di Hamas, auspicano la destituzione.
Israele si trova dunque al centro di un panorama mediorientale politicamente imprevedibile, in cui non è facile orientarsi. E per un vecchio riflesso condizionato alza il tradizionale “muro di ferro”. Sfodera la sua forza. L’attacco all’Iran è per il momento rinviato sine die.
La conferma di Barack Obama ha allungato i tempi. Benjamin Netanyahu sperava in una vittoria del suo avversario, un falco come lui; e tuttavia Obama non ha tenuto conto della sua dichiarata ostilità durante la campagna elettorale. E ha subito dimostrato che il legame degli Stati Uniti con Israele non poteva essere in alcun modo inquinato. Ma per lui il problema nucleare iraniano richiede più pazienza.
E quest’ultima, la pazienza, non è una virtù di Netanyahu. Il quale ha sentito subito il bisogno non solo di far cessare la pioggia di razzi proveniente da Gaza, ma anche di dimostrare al Medio Oriente agitato e imprevedibile che Israele sa reagire con determinazione, che né la sua volontà politica né la sua forza militare si sono arrugginite. Il messaggio ci sembra indirizzato all’Iran, all’Egitto, alla Siria, non unicamente alla piccola, fastidiosa, ma non più tanto isolata Gaza. E tra i destinatari ci sono i palestinesi in generale, quelli che tramite l’incruento Abu Mazen, capo dell’altra Palestina, quella occupata, tra dieci giorni chiederà ancora una volta di essere rappresentata più degnamente all’Onu. Inoltre, come quattro anni or sono, ai tempi dell’operazione “Piombo fuso”, Israele è alla vigilia di nuove elezioni. E la fermezza gioca in favore di Netanyahu. Gli imperativi tattici si confondono con quelli elettorali. E per il momento sommergono i rischi reali.

Repubblica 16.11.12
Lo scrittore: “Israele che è il più forte deve proporre un cessate-il-fuoco”
Grossman: “Due popoli prigionieri nella sfera della violenza”


GERUSALEMME — «È molto difficile dire ora in che direzione si svilupperà questa ondata di violenza. Può essere che tutto finisca in qualche giorno, come in passato sono terminate altre centinaia di esplosioni di violenza ciclica fra Israele e Hamas, ma potrebbe anche trasformarsi in un’ondata furiosa e prolungata, estendendosi da Gaza alla Cisgiordania. Se ci fosse stato un vero dialogo con i Palestinesi della Cisgiordania ora tutto sarebbe diverso ». Non sembra ottimista David Grossman, lo scrittore israeliano — in Italia in questi giorni per presentare il suo ultimo libro Caduto fuori dal tempo — che incarna meglio la coscienza critica di quel che sta accadendo in Israele in questi anni.
Come vede la situazione che si è creata in questi ultimi giorni nel sud di Israele?
«La situazione dei rapporti fra Israele e Hamas è quella di una sfera ermeticamente chiusa, in cui domina la logica distorta della guerra e dell’odio. Nell’ambito di tale logica, Hamas fa tutto ciò che può per far cessare l’occupazione israeliana che dura già da 45 anni, mentre Israele fa tutto ciò che può per difendere i propri cittadini dai ripetuti attacchi di Hamas. Entrambi hanno le loro proprie giustificazioni per ciò che stanno facendo, entrambi sentono di avere ragione, ma, per l’osservatore esterno, tutto ciò appare una follia. La domanda che ci si deve porre è perché siamo tutti prigionieri all’interno di tale sfera già da 45 anni. Ritengo che la risposta sia che le due parti non sono in grado, in questo momento, di liberarsi dal rituale automatico di attacchi e di ritorsioni, e da soli non ci potranno riuscire. Si condannano ad un round dopo l’altro di violenza e di uccisioni, e ci saranno sempre più palestinesi ed israeliani che si lasceranno trascinare in tale circolo di brutalità e di vendetta».
Che può portare a sviluppi imprevedibili…
«È molto difficile dire ora in che direzione si svilupperà la cosa. La situazione fra Israele ed i palestinesi è così esplosiva, che quasi ogni scenario è possibile. E di nuovo si ripresenta la domanda perché Israele ed i palestinesi non abbiano sfruttato questi ultimi mesi per tentare di iniziare un dialogo. Se ci fosse stato un dialogo, anche solo fra Israele ed i palestinesi della Cisgiordania, tutto oggi sarebbe diverso. Su questo punto preciso, mi aspetto che Israele, che ha molte più possibilità di manovra, che è il più forte dei due, faccia tutto ciò che è in suo potere per far ripartire il processo di pace. Se oggi ci fosse un processo di pace, il mondo sarebbe disposto ad accettare con maggiore comprensione la reazione israeliana».
Ma ora, in questa situazione, lei vede una via d’uscita?
«Penso che Israele debba proporre un cessate-il-fuoco unilaterale di 48 ore, non rispondere ad alcuna provocazione di Hamas, anche se Hamas continuasse a lanciare altre centinaia di missili. Penso che Israele debba contenersi al massimo durante queste 48 ore, per dare la possibilità a coloro che hanno un’influenza su Hamas, come il nuovo regime egiziano, di fare opera di mediazione e arrivare alla calma ».
(f. s.)

La Stampa 16.11.12
Amnesty: l’Occidente smetta di armare i governi autoritari
Brian Wood: presto il trattato contro il traffico d’armi
di Egle Santolini


Il disarmo- Brian Wood è responsabile del controllo degli armamenti della Ong Amnesty International

Brian Wood è research and policy manager sul controllo degli armamenti presso il Segretariato Internazionale di Amnesty International. Lo abbiamo incontrato in occasione della quarta Conferenza mondiale di Science for Peace, progetto della Fondazione Veronesi, dove oggi terrà una lectio magistralis.
Siamo all’indomani di un risultato decisivo per la lotta al traffico d’armi. Cosa è successo?
«A luglio, quasi tutti i 192 membri delle Nazioni Unite avevano partecipato alla conferenza a New York per l’Att, il trattato sul traffico d’armi. E il 7 novembre 157 nazioni hanno votato per il completamento del trattato, previsto per il prossimo marzo. È ancora in corso una battaglia diplomatica tra gli Stati che si accontenterebbero di un testo simbolico e quelli che pretendono regole precise per impedire il trasferimento di armi quando esista il rischio sostanziale che verranno usate per commettere o facilitare serie violazioni dei diritti umani».
Quali sono gli Stati scettici?
«L’Iran, la Siria, la Corea del Nord hanno rallentato i negoziati di luglio».
La Russia si è astenuta, la Cina ha appoggiato il trattato.
«L’astensione della Russia può significare semplicemente che non è soddisfatta del negoziato e deve ancora rifletterci. Alcuni analisti dicono invece che, sotto Putin, voglia muoversi da sola sul mercato delle armi: anche se il fatto di detenere appena il 15% del mercato mondiale dei congegni convenzionali la metterebbe in difficoltà. La Cina produce armi in quota ancora minore: i suoi leader intendono commerciare e cooperare con molte nazioni africane e latino-americane, oltre che accedere a tecnologie avanzate per le loro fabbriche di armi. E dunque la Cina sembra più propensa al compromesso».
Nessuno ha votato contro?
«No. Ma l’Iran ha tentato di alterare o cancellare un passo del trattato».
La rielezione di Obama avrà influssi sul Trattato?
«Si spera che la nuova amministrazione nel Paese, che è il maggior esportatore di armi al mondo, appoggerà un trattato ragionevolmente forte. L’amministrazione Bush aveva votato contro il processo Att».
Avete denunciato l’esistenza di una «nave della vergogna» che trasportava armi dagli Usa all’Egitto per reprimere le manifestazioni.
«Tra il 2006 e il 2010, gli Usa hanno autorizzato 2,5 milioni di dollari per la fabbricazione di gas lacrimogeni e altre sostanze usate per reprimere le manifestazioni. Ma non c’è solo una responsabilità Usa: i governi dell’Europa occidentale, l’amministrazione americana e il governo russo hanno autorizzato il rifornimento di armi in Bahrain, Egitto, Libia, Siria, Yemen negli anni della repressione più brutale. Man mano che la protesta si sviluppava, hanno esitato, in alcuni casi sospendendo i rifornimenti con grave ritardo: erano consci delle ragioni dei manifestanti, ma non volevano compromettere i rapporti con i governi repressori. In Siria, la Russia, l’Iran e altri Stati hanno continuato ad armare l’esercito che colpisce i civili».
Dunque il problema fondamentale è il fallimento della leadership politica.
«Non solo in quelle zone del mondo, ma in tutto il mondo. I cinque membri permanenti dell’Onu hanno esercitato il potere di veto sulla base di strategie politiche di alleanza e non per promuovere la pace e la sicurezza».

l’Unità 16.11.12
Xi, un principe rosso per la Cina In agenda crescita e stabilità
Ridotto da nove a sette il numero dei membri del Comitato permanente, il gotha del potere politico cinese
A Jinping segretario del Pcc e prossimo presidente anche la guida della Commissione militare
La priorità politica è stata l’unità del partito: estromessi i più radicali, riforme improbabili
di Gianni Sofri


È stato il Congresso della prudenza e del compromesso, per unire e ripartire. Quelli di Hu Jintao e di Wen Jiabao sono stati anni di relativa tranquillità, nei quali la Cina si è concentrata su una crescita economica senza precedenti.
Un fatto che implicava però l’assunzione di un ruolo politico generale cui essa non era ancora preparata. Questa contraddizione ha cominciato a rivelarsi e a pesare negli ultimi anni, di fronte alla crisi economica mondiale, nonché a un aggravarsi della situazione politico-militare anche in zone, come il Pacifico occidentale, particolarmente sensibili per la Cina. In questa situazione, il gruppo dirigente cinese ha innanzitutto cercato di riconquistare una propria unità, in grado di affrontare le nuove sfide. In secondo luogo, di liberare l’agenda da problemi pur importanti, ma la cui soluzione fosse in qualche modo rinviabile, per concentrarsi invece sugli obiettivi più rilevanti e urgenti.
In prossimità del Congresso ci si è resi conto che l’unità del gruppo dirigente, e gli stessi risultati raggiunti nella crescita economica erano sottoposti a minacce da parte di singoli leader o di gruppi più di quanto le segrete stanze del potere avessero lasciato trasparire. Una corruzione generalizzata, soprattutto al livello più alto del potere politico era già nota. Ma di recente, l’intera vicenda che ha coinvolto la metropoli di Chongqing, e successivamente lo scandalo legato all’inchiesta americana sui famigliari di Wen Jiabao hanno portato il tema della corruzione ad occupare uno dei primi posti, se non il primo in assoluto, nelle preoccupazioni dei dirigenti cinesi, come si è potuto vedere nel discorso finale di addio di Hu Jintao e in quello di saluto del neo presidente Xi Jinping.
Ma la vicenda di Chongqing, o come meglio sarebbe ora dire, il caso Bo Xilai, è stata di grande rilievo anche per un’altra ragione, e cioè per il suo aver mostrato come nel mondo politico cinese (e non solo nella società e nelle sue crescenti proteste e rivolte) si muovessero, sotto la spinta di trasformazioni epocali, nostalgie vagamente «maoiste». Poco importa che queste generiche nostalgie si accompagnassero, anche in un politico di lungo corso e ambizioso, com’era certamente Bo Xilai, a contraddizioni non da poco nella gestione della lotta politica. Quel che è importante è che l’episodio di Chongqing, e altri che gli si sono accompagnati, ha mostrato, con crescente preoccupazione del Centro del Partito, l’esistenza di potenziali e non trascurabili opposizioni.
PICCOLI RITOCCHI
Il partito ha reagito in vari modi, per esempio allontanando dal potere i rivali più pericolosi, o anche, più semplicemente, chiudendo l’accesso al Comitato permanente a uomini come Wang Yang (pur favorito fra i favoriti), ritenuti pericolosi per il loro radicalismo (nel suo caso, in favore della modernizzazione e liberalizzazione dell’economia).
Nelle settimane precedenti il Congresso, si erano attribuite ai futuri dirigenti intenzioni importanti riguardo a problemi non meno importanti. Si pensi a nuovi passi nell’arretramento del maoismo, ad auspicate concessioni politico-democratiche, a liberazioni di dissidenti (quanto meno del premio Nobel Liu Xiaobo, in prigione da quattro anni), a una maggiore attenzione alle minoranze, soprattutto a quella tibetana.
Si è ora capito che se ci saranno dei passi in queste direzioni saranno quanto mai deboli e incerti, perché queste sono per l’appunto le sfide che il regime non considera ancora decisive rispetto a quelle rappresentate dalla stabilità interna, dalla continuità della crescita economica, dal ruolo di quasi-superpotenza. Ci sarà qualche piccola riforma nel senso di una maggiore democrazia all’interno del Partito unico: poco più che risibile. Ai tibetani si è già cominciato a proibire di darsi fuoco (!); si è anche più attenti a che, laddove si diano fuoco, le ustioni non arrivino a ucciderli. È probabile si occupi di loro Liu Yunshan, il potente capo della propaganda, ora anche membro del Comitato permanente (i sette che governano davvero la Cina). Liu, che ha lavorato nella Mongolia interna per vent’anni, sembra il più adatto ad affrontare i problemi di tibetani, uiguri, mongoli. Anche i dissidenti, salvo imprevisti, dovrebbero continuare a vedersela male. In compenso, il prestigioso Wang Qishan, economista e diplomatico apprezzato, già vice premier, sarà ora lo zar dell’anticorruzione.
Accanto ai due ora nominati, e al Segretario e al probabile Premier, troviamo nel Comitato permanente altri tre personaggi. Uno è l’attuale Segretario del Partito a Chongqing (dove ha sostituito Bo Xilai), e cioè Zhang Dejiang, già Segretario nel Guangdong (subito prima di Wang Yang), e prima ancora nel Zhejiang; legato a Jiang Zemin, ma con una certa autonomia. Yu Zhengshen viene da Shanghai, dove nel 2007 ha sostituito Xi Jinping. Le sue fortune politiche risalgono ai rapporti con Deng Xiaoping e con suo figlio Deng Pufang. A completare il novero dei sette c’è l’attuale segretario del partito di Tianjin, Zhang Gaoli. Esperto molto stimato di economia e finanza, ha fatto di Tianjin una delle città più ricche e moderne del Paese.
Un’impressione generale è che il grigio segretario-presidente Hu esca piuttosto male dal Congresso, dovendo cedere a Xi, fin da ora, la carica importantissima di Presidente della Commissione militare: si è ritenuto, evidentemente, che la delicatezza della situazione attuale non potesse permettere al Paese di avere due centri del potere militare. Ciò nonostante, due su sette membri del Comitato, Zhang Dejiang e Wang Qishang sono molto legati a Hu; in generale, però, prevalgono figure autonome e politicamente forti. E dietro di loro, eletti o autoelettisi garanti della continuità, tornano i vegliardi della Rivoluzione, Jiang Zemin in testa.
Resta da dire ancora qualcosa sul nuovo presidente, che è un tipico «Principe rosso». Suo padre fu vice primo ministro, poi oggetto di una purga di Mao nel 1962, perseguitato durante la rivoluzione culturale, infine riabilitato. Xi Jinping ha passato sette anni in campagna a rieducarsi come «giovane istruito» durante la rivoluzione culturale. È stato, fra l’altro, segretario del partito nello Zhejiang e poi a Shanghai. È considerato «un modernizzatore e un realista», ed è apprezzato a livello internazionale. Sia suo padre che lui hanno avuto buoni rapporti con Hu Yaobang, che fu a capo del partito dall’81 all’87 e che ne rappresentò l’unica (o quasi) voce favorevole a riforme politiche democratiche. Ma è una vicinanza che deve essere valutata con molta prudenza.
Resta da dire di Li Keqiang, che è considerato da mesi, se non da anni, il Presidente del consiglio in pectore, sostituto di Wen Jabao. Ma proprio oggi, essendo stato classificato al secondo posto (e non al terzo, spettante al premier) nel ranking dei sette del Comitato permanente, è diventato improvvisamente oggetto di dubbi, e c’è chi vede in pericolo il suo posto di Capo del Governo. Come già detto, è un uomo legato a Hu, particolarmente attento ai problemi del lavoro, fautore di migliori condizioni lavorative e salariali.
Questi sono gli uomini usciti dal XVIII Congresso. Non diremo che per ora corrispondano ad altrettanti misteri, ma certamente solo l’impatto con i problemi concreti, interni e internazionali, potrà dirci qualcosa di più su di loro, e soprattutto sul futuro della Cina, e sul nostro.

La Stampa 16.11.12
Sette leader prudenti per guidare la Cina
Svelati finalmente i nomi dei nuovi capi del Pc, vincono i moderati
di Ilaria Maria Sala


FUORI LE DONNE Nessuna candidata è entrata nel Comitato permanente del partito
FEDELI ALLA LINEA Molti dei nominati sono stati voluti dal vecchio presidente Jiang Zemin
VOGLIA DI CENSURA Promosso il padre del controllo del web sarà alla propaganda
SILENZIO SUI CONFLITTI Il neopresidente Xi Jinping non parla dei roghi dei tibetani

I passeggeri della metropolitana di Shanghai guardano il discorso del nuovo leader comunista Xi Jinping
Il premier A 57 anni Li Keqiang avrà la guida del governo della seconda economia mondiale
Il presidente Xi Jinping, 59 anni, è un «figlio d’arte» del partito comunista. Guiderà il Pc e anche i militari

Una Cina conservatrice ma con la possibilità di ridurre i conflitti interni al Partito comunista e prendere decisioni più rapide: queste le osservazioni a caldo sulla nuova compagine del potere, presentata ieri con l’annuncio dei membri del nuovo Comitato Permanente del Pc, il cuore del potere cinese. Diminuito di due membri (da nove a sette), è composto di soli uomini, molti dei quali si sono già contraddistinti per le forti vocazioni censorie. Sono per lo più fedeli del vecchio leader Jiang Zemin, che, dopo mesi di lotte intestine, ha scavalcato il presidente uscente Hu Jintao e i suoi uomini.
Poche, ma significative, le novità annunciate ieri: Xi Jinping inizia la sua carriera di segretario generale del Pc (la presidenza della Cina arriverà solo a marzo) forte anche della carica di capo della Commissione militare centrale, una posizione che si pensava avrebbe potuto essere mantenuta da Hu per estendere la durata della sua influenza.
Le donne, e gli uomini più indipendenti, come il segretario del Guangdong, Wang Yang, sono stati relegati al pur potente Ufficio centrale del Partito, ma cinque dei sette selezionati possono restare solo per cinque anni, dato che raggiungeranno il limite di età nel corso del mandato. Esce dal Comitato centrale il capo della sicurezza dopo che l’enfasi sul controllo dell’era di Hu Jintao aveva consentito all’apparato di polizia di pretendere sempre maggiori poteri. Ora rientra in una posizione tecnica. Un segno di distensione, forse, contraddetto però dal fatto che Li Keqiang, il nuovo premier, era stato l’autore dell’insabbiamento dello scandalo del sangue contaminato nello Henan, quando ne era segretario. Zhang Dejiang, numero tre nella nuova gerarchia (economista laureato in Corea del Nord) e prossimo capo del Parlamento, si era distinto invece per aver tenuto nascosto lo scoppio della Sars nel 2003, mentre Liu Yunshan, padre della censura su Internet, è ora responsabile della Propaganda. Segnali che il controllo sulla libertà di espressione non verrà allentato, almeno non nell’immediato.
Nel discorso di inaugurazione Xi Jinping ha ripetuto le frasi ormai consuete sul bisogno di attaccare la corruzione e le diseguaglianze economiche e avvicinarsi al popolo, ma le idiosincrasie del sistema, nonché la prudenza degli uomini selezionati, rendono difficile credere in efficaci riforme a breve termine. Wang Qishan, uno dei sette prescelti, è stato nominato alla commissione anti-corruzione, per quanto la sua forza fosse in particolare nell’economia. Ma la sua determinazione a combattere la corruzione, ancora da dimostrare, sarà comunque indebolita dall’assenza di una stampa indipendente.
Le speranze dei riformisti risiedono in parte su Yu Zhengsheng, ex segretario di partito a Shanghai, assurto alle più alte posizioni malgrado la «pecca familiare» (suo fratello, ex uomo dei servizi, è scappato negli Stati Uniti negli anni 80). Ma se anche individualmente i nuovi leader hanno biografie interessanti o personalità più o meno forti, il sistema non consente grossi cambiamenti: per quanto potente possa apparire da fuori, al suo interno il Pcc teme di perdere il potere, e non può dunque avvallare riforme che lo indebolirebbero.
Silenzio assoluto invece sulla più grossa crisi umanitaria che sta scuotendo il Paese: con 73 auto-immolazioni di protesta in Tibet (altri due, mortali, proprio ieri), Xi Jinping, nel discorso inaugurale, ha solo ribadito le frasi standard sul «successo cinese nel creare una nazione multietnica», senza nemmeno riconoscere l’esistenza di difficoltà in questo campo, come ha fatto invece su corruzione ed ineguaglianze economiche. Un’altra frase, pronunciata ben tre volte, sulla «rinascita cinese», utilizzando un’espressione legata all’epoca dell’espansionismo nazionale, fanno pensare che la nuova Cina conservatrice vorrà anche imporre con maggior determinazione uno sviluppo che potrebbe inquietare i vicini del gigante asiatico, che ha mostrato in questi ultimi anni un temperamento sempre più irritabile.

La Stampa 16.11.12
La Banca centrale cinese verso un cambio di vertici e di politica monetaria
di Wei Gu


Il rimpasto della leadership cinese si è esteso sino al settore finanziario. Per questo motivo, il dirigente della Banca Centrale Cinese, rimasto fuori dal comitato centrale del Partito, potrebbe dimettersi. I vertici dei fondi sovrani di investimento cinesi e il presidente della Bank of China sono tra i possibili candidati per la promozione e, anche se lo Stato mantiene uno stretto controllo sulle questioni finanziarie, bisogna riconoscere che la classe non è acqua. Il cambiamento più rilevante è quello della Banca Popolare Cinese, nella quale si attende il pensionamento di Zhou Xiaochuan dopo 10 anni di presidenza, cosa che ha ovviamente scatenato le speculazioni sulla sua sostituzione. Xiao Gang, presidente della Bank of China e promosso al comitato centrale, composto da 205 membri, dovrebbe avere la meglio: è stato in passato vice governatore ed è abbastanza giovane da riuscire a portare a termine un mandato decennale, dunque ha buone possibilità di succedere a Zhou. Un altro candidato alla promozione è Lou Jiwei, presidente dei fondi sovrani di investimento cinesi e indicato come possibile ministro delle Finanze. Dal momento che la Cina si sta integrando sempre più nel sistema finanziario mondiale, l’esperienza internazionale di Lou, già viceministro delle Finanze, potrebbe tornare molto utile. La scelta di un nuovo dirigente della Banca Centrale Cinese non è un evento noioso come, per esempio, la nomina di un nuovo presidente della Federal Reserve statunitense. La personalità individuale conta qualcosa anche nella società cinese, notoriamente gerarchica. Durante il mandato di Zhou, la Banca Popolare Cinese ha sviluppato un approccio più aperto, con vivaci dibattiti. Forse non saranno questi cambiamenti ad avere l’ultima parola sui tassi di interesse, ma è da qui che potrebbero nascere iniziative di estrema rilevanza che contribuirebbero ad allentare il rigido controllo statale sul tasso di cambio, come ad esempio l’internazionalizzazione dello yuan. Non è detto che i nuovi vertici finanziari cinesi portino automaticamente a riforme più rapide ma, perlomeno, hanno esperienza da vendere per stimolare cambiamenti dall’interno.

La Stampa 16.11.12
Diari di Mussolini chi ha imboscato le prove del falso?
Due fogli attribuiti all’agenda 1940 all’asta ieri a Firenze Dietro il misterioso compratore, l’ombra di Dell’Utri
di Mimmo Franzinelli


Storico-detective L’autore di questo articolo, Mimmo Franzinelli, ha pubblicato nel 2011 Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (Bollati Boringhieri), il volume che ha inferto un serio colpo alla credibilità dei diari «veri o presunti» del duce, riconducendoli al laboratorio vercellese delle signore Panvini. Ha da poco pubblicato da Mondadori Il prigioniero di Salò. Mussolini e la tragedia italiana del 1943-1945

Colpo di scena ieri a Firenze, all’asta di due fogli pseudomussoliniani, strappati dall’agenda 1940 appartenente alla serie «Diari veri o presunti» in corso di pubblicazione presso Bompiani su impulso del senatore Marcello Dell’Utri. È l’aggiornamento della telenovela avviatasi a Vercelli alla metà degli anni Cinquanta, con l’ingente produzione di apocrifi da parte delle signore Mimì e Rosetta Panvini. Una vicenda le cui origini sono chiarite da una serie di articoli apparsi nell’estate del 1957 su Stampa Sera .
Il catalogo della Casa d’Aste Gonnelli presentava prudentemente le due pagine come «carte autografe (?) non firmate», mentre garantiva l’autenticità degli altri manoscritti in vendita a Firenze: autografi di Nietzsche, Tagore, Gide, Verdi, San Giovanni Bosco ecc. I fogli riportano segni di bruciature e di acqua: indizio rivelatore, poiché al momento dell’irruzione dei carabinieri in casa Panvini - inizio agosto 1957 - le due falsarie bruciarono i manufatti, per eliminare il corpo del reato. Parte della documentazione andò distrutta, parte venne sequestrata dagli agenti e alcuni fogli furono parzialmente salvati dalle loro autrici.
La comparsa del materiale battuto all’asta - a partire dalla quotazione base di 1.500 euro - segue di sette mesi la morte del loro proprietario, Aldo Pianta, che, ricevuti gli apocrifi dall’avvocato delle Panvini, Eusebio Ferraris, ha venduto pochi anni addietro - attraverso una catena di intermediari svizzeri - cinque agende a Dell’Utri. L’asta fiorentina costituisce dunque un «sondaggio» degli eredi Pianta sulle prospettive di mercato dell’eredità: attendiamoci dunque la comparsa di ulteriori falsi.
L’attenzione sull’appuntamento di ieri - che ha richiamato le telecamere della Rai - non riguarda il contenuto delle carte, insignificante e banale (come d’altronde le agende «dellutriane» 1935-39), quanto la gara per la loro aggiudicazione. Sembra che il bibliofilo Dell’Utri avesse un forte interesse verso questo materiale. Ipotesi avvalorata dall’andamento della gara: ogni offerta delle persone presenti in sala è stata subito superat a dal rilancio telefonico di una persona di cui solo il banditore conosce l’identità. Evidentemente, già prima dell’asta, qualcuno aveva deciso di acquistare, a qualsiasi prezzo, quei due fogli.
Per una curiosa sincronia, è uscito ieri il documentatissimo volume di Nicole Ciccolo e Elena Manetti Mussolini e il suo doppio. I diari svelati (Pioda Editore), con l’analisi comparata sulle agende «vere o presunte», effettuata dalla grafologa Ciccolo su una varietà di autografi mussoliniani, originali (depositati all’Archivio Centrale dello Stato) e apocrifi (conservati presso la Fondazione Mondadori di Milano e l’Archivio di Stato di Vercelli). La perizia della studiosa accerta in via definitiva la maternità delle signore Rosetta e Mimì Panvini, madre e figlia, le due fantasiose e creative vercellesi che, in vita e post mortem, hanno gabbato tante persone desiderose di essere ingannate.
Nicole Ciccolo ha partecipato all’asta, assistendovi di persona e rilanciando attraverso l’offerta del suo consulente legale e del suo editore, tranne poi rinunciare dinanzi all’offerta vincente di 2.800 euro. La grafologa così spiega la disponibilità all’acquisto di materiali da lei stessa ritenuti falsi: «Il motivo principale della mia partecipazione all’asta sta nel desiderio di poter disporre dei fogli in originale, per gli opportuni esami chimico-fisici dell’inchiostro e del supporto cartaceo, al fine di pubblicare la perizia eseguita da esperti sulla base delle nuove tecnologie che ampliano le potenzialità d’indagine rispetto ad analisi compiute sull’agenda datata 1939». Perduta la gara, la grafologa lancia attraverso La Stampa un appello all’anonimo acquirente: «Gli chiedo di consentire l’effettuazione di una perizia chimico-fisica a mie spese, per verificare la presenza o meno di elementi anacronistici con la datazione dell’agenda». Ben difficilmente la disponibilità di Nicole Ciccolo verrà accolta, poiché il movente dell’acquisto consiste probabilmente nel sottrarre i due fogli a una perizia, per evitare un ulteriore colpo alla tesi dellutriana dell’ascendenza mussoliniana delle controverse agende.
Il principale segreto che circonda la surreale questione dei diari alla maniera di Mussolini è il mistero sul lato economico-finanziario della speculazione costruita sulle cinque agende che accreditano un duce moderato, pacifista e amico degli ebrei. Quanto furono pagate quelle agende? Al loro rientro dalla Svizzera corrispose una cospicua esportazione di capitali: regolarmente segnalati, o si trattò di una manovra in nero? E, infine, chi si nasconde dietro la Black & Black, proprietaria delle agende 1935-39 di cui la Fondazione Biblioteca milanese di via Senato (presieduta da Dell’Utri) ha il possesso? Questa società, con sede legale a Hong Kong, fu costituita per lucrare sui falsi diari, promuovendone la pubblicazione e ricavando una fiction dalla storia delle agende. Nel film i partigiani avrebbero depredato Mussolini dei suoi diari, poi miracolosamente ricomparsi in Svizzera…
In attesa di conoscere anche questi importanti risvolti, che completeranno la comprensione della manovra diaristica, bisognerebbe sostituire il titolo «I diari di Mussolini veri o presunti» con «Gli autentici diari mussoliniani della famiglia Panvini». Prima ancora che per rispetto dei lettori, per un elementare senso di giustizia verso la memoria delle misconosciute autrici.

Repubblica 16.11.12
Le leggi del desiderio
Lo studioso francese spiega perché, nonostante la crisi, acquistare prodotti o marchi ha ancora un valore simbolico
Il piacere del consumo come consolazione
di Gilles Lipovetsky


Nell’Europa in preda a una crisi economica e finanziaria di lunga durata, alcuni osservatori sostengono che l’iperconsumo, e l’ascesa incessante dei desideri superflui che a esso si accompagna, sono inevitabilmente destinati a scomparire. Calo del potere d’acquisto, rischi per l’ambiente, desiderio di qualità di vita e slow life, overdose di marketing: è un consumatore “saggio”, ragionevole, frugale, quello che si annuncia, un “resistente” anticonsumo. È legittimo interrogarsi sulle chances di successo di un simile scenario.
Se è possibile o probabile immaginare la fine di un’economia fondata sulle energie non rinnovabili e inquinanti, lo stesso non si può dire per la febbre consumistica. In realtà, le inevitabili trasformazioni che si annunciano (risparmio d’energia, energie pulite, riduzione delle emissioni di anidride carbonica, riciclaggio, ecoconsumo) non significano in alcun modo un superamento della civiltà iperconsumista identificata con la mercificazione quasi assoluta dei modi di vivere.
Sicuramente si stanno evolvendo modalità di consumo che iniziano a tener conto delle esigenze dell’ambiente, ma tutto questo non farà emergere una cultura della “semplicità volontaria”. Le persone smetteranno di desiderare le novità commerciali, di andare a caccia di musiche inedite, di viaggiare ai quattro angoli del mondo, di andare al concerto e al ristorante, di visitare i parchi di divertimenti, di divorare gli ultimi film e videogiochi? È evidente che non succederà.
Lo scenario che si annuncia è che avremo un maggior numero di prodotti che consumano poca energia, ma un consumo sempre più forte di servizi, cure e prodotti culturali.
Nulla arresterà la smodata inclinazione dei consumatori per le novità, e questo perché si tratta di una tendenza che affonda le radici in fenomeni strutturali come la “detradizionalizzazione” delle culture, il culto dei godimenti materiali, l’avvento di economie fondate sull’innovazione perpetua. Questi processi ci condannano a vivere in società caratterizzate dall’amore per il cambiamento in sé e per sé. Non si tratta di una moda effimera, né di un puro effetto di manipolazione pubblicitaria, ma di una logica connaturata alle società nomadi e globali che hanno eliminato la tradizione, intesa come eredità di una storia.
Che cosa vediamo allora? La passione per i viaggi, per le serie televisive, per i gadget tecnologici di moda, per musiche e cucine nuove, per l’arredamento della casa, sono tutti in piena espansione. E mentre cresce l’isolamento delle persone e il malessere soggettivo, i consumi funzionano come un mezzo di consolazione, come una forma di terapia, un modo per dimenticare quello che ci frustra, ci ferisce, ci angoscia. Nelle società iperindividualiste centrate sulla ricerca della felicità privata, è diventato insopportabile non “farsi piacere” attraverso esperienze rinnovate. Tutto contribuisce ad amplificare la smania di acquistare.
D’altra parte, come ho scritto altre volte, sappiamo tutti che le grandi utopie e la controcultura sono evaporate. E quel modello di sopravvalutazione del futuro ha ceduto il passo a un superinvestimento sul presente. La cultura che caratterizza la nostra epoca iper-moderna non è più un insieme di norme che ci vengono dal passato (cultura in senso antropologico), né il “piccolo mondo” delle arti e delle lettere (la cosiddetta cultura alta), ma un settore in piena espansione, tanto che può essere definito come una sorta di “capitalismo culturale”. Lo definiamo così perché diventa non una semplice produzione di oggetti o di modelli razionali e materiali, ma un vero e proprio mondo di simboli, di significanti e di un immaginario sociale planetario.
In questo senso anche il desiderio che proviamo per i marchi non mostra segnali di declino. Ne è la prova la Applemania, lo sviluppo spettacolare del mercato mondiale del lusso, il successo dei grandi brand automobilistici tedeschi, i fan club, l’ossessione degli adolescenti per i loghi. Il gusto dei marchi si generalizza abbracciando ogni cosa, perché rassicurano l’iperconsumatore scombussolato, perso in questa super-offerta commerciale ed estetica. In una società alleggerita delle grandi utopie collettive, i marchi assolvono a una funzione ineliminabile: sono sogni, offrono punti di riferimento, sicurezza; e sono anche strumenti di autovalorizzazione per consumatori ormai slegati dalle antiche forme di appartenenza collettiva.
In queste condizioni, il tropismo consumista ha ancora un grande avvenire davanti a sé. Certo è innegabile che in Europa le spese “incomprimibili” delle famiglie sono fortemente aumentate: fra il 2001 e il 2006 in Francia sono passate dal 50 al 70 per cento per le famiglie a più basso reddito. L’incremento di queste spese obbligatorie ha spinto molte famiglie a comprare prodotti meno cari, fare baratti, cercare prodotti gratuiti o in promozione, aspettare i saldi, consumare meno.
Detto questo, il calo del potere d’acquisto non significa una regressione dei desideri consumistici. Nelle nostre società edonistiche e ipercommercia-li, anche i più poveri sono degli iperconsumatori “nella testa e nei desideri”, e questo nonostante debbano fare sempre più economie e modificare i loro comportamenti d’acquisto. Da un lato probabilmente le difficili condizioni economiche imporranno una certa moderazione, condannando diverse categorie di popolazione a imporsi delle privazioni, ma dall’altro, la cultura dei piaceri e delle novità connaturata alla civiltà consumistica è più viva e vegeta che mai.
(traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 16.11.12
Il Dio dell’arte
Un libro racconta come è cambiata l’iconografia dal Medioevo fino a Bacon
Perché l’Occidente cristiano ha bisogno dell’immagine divina
di Melania Mazzocco

Oggi si può fare storia di tutto. Paradossalmente, nell’epoca della velocità e dell’istantaneità, del tempo trasparente, la storia domina il nostro modo di comprendere le cose. Si scrive la storia di concetti e di oggetti, di popoli e mentalità, fenomeni naturali o biologici. Esistono libri che narrano la storia dell’oceano, della latitudine, dell’infanzia, delle malattie – ma anche della noce moscata, del pettine, del clitoride, del tabacco, del riso, della bestemmia e via dicendo.
Nel monumentale Le immagini di Dio, appena pubblicato da Einaudi (584 pagine corredate da una moltitudine di preziose illustrazioni a colori), il domenicano François Boespflug, teologo e docente di storia delle religioni, affronta il tema più affascinante di tutti: la storia iconica di Dio.
Ovvero: come Dio è stato rappresentato nell’Occidente cristiano, dalla morte di Gesù ai nostri giorni – quando si può parlare della “morte estetica” di Dio. E fra queste due morti, ci sono duemila anni di teofanie – di carta e di pietra, di pigmenti e d’oro: perché il Dio trascendente e irrappresentabile dei Cristiani – a differenza del Dio degli Ebrei e del Dio dei Musulmani – ha tollerato di rendersi visibile attraverso l’immagine.
Non da sempre. Il cristianesimo nasce aniconico: è l’eredità del Decalogo («Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo...»). Nei Vangeli Gesù non viene descritto. Non ha volto, né lineamenti. È evanescente al punto che a poche ore dalla morte Maddalena lo scambia per un giardiniere e i suoi discepoli a Emmaus lo riconoscono solo quando spezza il pane.
Nei Vangeli non si parla d’arte, e i primi cristiani sono impegnati piuttosto a distruggere gli idoli dei pagani, adoratori di statue.
Ma poi, più di due secoli dopo la morte di Gesù, irresistibilmente, il Dio dei Cristiani è tornato.
Nessuno ha concesso l’autorizzazione preventiva. È una trasgressione: un atto di audacia e di libertà, da parte dei committenti, dei fedeli, dei religiosi, degli artisti. Un’esigenza insopprimibile di presenza e vicinanza. Irresistibilmente, quasi ripetendo lo scandalo dell’incarnazione, Dio risale dalle tombe alle case, dilaga sulle monete, nelle chiese… Prima è solo un taumaturgo, oppure un simbolo (agnello, pesce, mandorla). Ma poi ha avuto un volto, una bocca, capelli e barba, ha avuto le mani, i piedi, le scarpe, un vestito. Ed è iniziata un’epopea nuova, ciò che Boespflug chiama: «l’immenso processo di umanizzazione di Dio».
È un fatto enorme, cui noi occidentali, abituati a convivere con la proliferazione di immagini di una civiltà iconofila, non prestiamo quasi attenzione. Come fosse un evento scontato, e perciò universale e a tutti comprensibile. Non lo è. Una qualche riflessione più seria si è avuta solo dopo i fatti del 2006 – le violenze generate dalle caricature danesi di Maometto. Ed è anche in nome della conoscenza reciproca e del dialogo interreligioso, e con lo scopo dichiarato di costruire con il sapere la pace, che Boespflug – dopo trentacinque anni di ricerche e numerose pubblicazioni specialistiche – ha voluto concepire quest’opera totale, che «studia, presenta e racconta esordi, trionfo e lento declino di quello che fu il più straordinario soggetto del pensiero e dell’arte».
L’immagine di Dio non è eterna. Essa dipende dagli uomini: è dunque mortale. Ogni generazione ha creato la propria. Il lettore di questo libro labirintico e arduo dovrà essere paziente; dovrà affidarsi alla sua guida, provvista di un’erudizione sconfinata e insieme umile, sempre militante – anche se talvolta troverà sorprendente l’inevitabile selezione (esaustiva la parte riservata al XII secolo e riduttiva quella dedicata a Michelangelo), avare le righe su Reni, Poussin e Tintoretto o ingenerose quelle su Tiepolo.
Scoprirà che lo aspetta un’avventura intellettuale davvero rara in questo tempo “trasparente”. E Boespflugl accompagnerà attraverso i millenni, in un viaggio speleologico nella mente dei teologi, degli iconoclasti e degli eretici e in quella dei “pauperes” – in nome della cui edificazione, dopo il placet di Gregorio Magno, la Chiesa ha finito per accettare e promuovere le immagini di Dio. Un viaggio nella storia ma anche nella geografia: dalle catacombe di Roma alle chiese dell’Armenia, dalla Germania al Portogallo, da Wroclaw a Pamplona, dall’Ungheria fino alle cataratte del Nilo. Attraverso l’arte – in ogni sua forma.
Affreschi e miniature, icone e reliquiari, vetrate, sculture. E in ogni supporto: la tavola dipinta, l’avorio, il marmo, l’alabastro. Fra gli anonimi maestri del romanico e i grandi del Rinascimento, tra opere celebri come la Trinità di Lorenzo Lotto a Bergamo, ma anche meno note – incantevoli come l’Incoronazione della Vergine di Enguerrand Quarton (1454) o sconvolgenti come il Cristo Rosso dell’espressionista Lovis Corinth, pittore “degenerato” per i nazisti.
Immagini-prototipo, che hanno alimentato un’infinità di imitazioni e riproduzioni, e immagini effimere o solitarie, presenti in un unico esemplare, un manoscritto sperduto nella biblioteca di un monastero di provincia, dove nessuno, a parte i monaci, ha mai potuto vederle. Arte colta o popolare, ligia alle prescrizioni dei papi o ignara – indifferente alle guerre, alle pestilenze, alle leggi: la storia iconica non avanza al ritmo dell’attualità.
Così Boespflug ci insegna che alle origini Dio era solo Cristo, e anche la Trinità (il Padre e lo Spirito Santo) aveva il suo volto: la giovinezza è l’Eterno sottratto al tempo. Solo nel Medioevo maturo Dio è divenuto l’Antico di Anni, il Padre barbuto e anziano che ha resistito nelle chiese fino a poco tempo fa. Per diventare sempre più simile agli uomini – stanco, collerico, dolente. Finché negli ultimi due secoli l’unico Dio possibile è tornato a essere Cristo, e la Crocifissione il solo tema che abbia continuato ad ispirare gli artisti moderni – da Ensor a Picasso, da Chagall a Bacon. Ma ormai non era più questione di Dio: Gesù in croce solo il simbolo della sofferenza dell’umanità. E fra l’arte cristiana e l’arte si è aperto un abisso, forse incolmabile.
Punto d’arrivo di una ricerca durata una vita intera, e ancora aperta, Le immagini di Dio ha un dono raro: è dettato dall’urgenza e dalla necessità. Come credente, Boespflug lo destina in primo luogo ai credenti – perché, senza nostalgia, «lascino che Dio se ne vada» e «in vista della loro capacità di futuro». Ma in verità sono gli altri ad averne bisogno.