sabato 8 ottobre 2011

l'Unità 8.10.11
La ragazza ai blindati
«Non bloccateci, siamo il futuro»
di Mariagrazia Gerina

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http://www.scribd.com/doc/67983048

Corriere della Sera 8.10.11
Indignati e flessibili
«Usiamo Twitter come in Africa»
di Lorenzo Salvia


ROMA — Megafono in mano, sguardo che deve aver già fatto una discreta strage di ragazzine, felpa trasandata ma non troppo. Basta guardarlo negli occhi per capire che Nicolò Squartini è uno dei leader del corteo. «Produciamo conflitto per far sentire la nostra voce», dice quando il serpentone ha appena superato il ministero dell'Istruzione (non si fermano, un'altra beffa). Linguaggio da anni Settanta? Niente affatto, sentite qua: «Siamo come la primavera africana: per scendere in piazza non abbiamo bisogno dei partiti che ci spiegano cosa pensiamo. Ci autoconvochiamo, usiamo Facebook e Twitter». E non è un dettaglio per smanettoni digitali. L'autunno del 2011 è un'onda che parte dal basso, che esce fuori dalle scuole e dalle università, che arriva fino ai precari, ai cassintegrati, ai disoccupati. E per questo è molto difficile da rinchiudere nel recinto della contestazione studentesca. Questi ragazzi non ce l'hanno solo con i tagli alla scuola o con la riforma dell'università. Non urlano solo contro la Gelmini o Berlusconi ma contro il modello di società nel quale i loro genitori li hanno tirati su. «Quel modello — dice pochi passi più in là Valerio Carocci, 19 anni — che nella migliore delle ipotesi ha pronto per noi un futuro da precari sottopagati».

«Salvate la scuola non le banche», dice lo striscione retto da due ragazze che all'improvviso fanno dietro front. Ecco un altro dettaglio che non è un dettaglio. Se la polizia li ferma loro non provano a sfondare ma cambiano strada e bloccano un altro pezzo di città. Flessibili, proprio come il mercato vuole. Più che al '68, al '77 o alla Pantera, è agli indignados che bisogna guardare. A quel movimento radicale che da Madrid, con le tende di Puerta del Sol, ha passato il testimone ai ragazzi no future di Londra per poi puntare contro Wall Street, il simbolo di quel mondo che questi giovani contestano. Daniele Lanni è arrivato da San Benedetto del Tronto: «Siamo la prima generazione che sta peggio dei propri genitori» dice lisciandosi baffetti e pizzetto da matricola di Scienze politiche. «Ma siamo anche la prima generazione che torna in piazza dopo anni in cui giovani hanno pensato solo ai fatti loro». Adesso in testa al corteo c'è Sofia Sabatino, Rete degli studenti: «La crisi ha scardinato le poche certezze del nostro tempo. Prima c'era chi accettava lo sfruttamento perché sperava di salvarsi e uscire dal gruppo di quelli messi peggio. Adesso quest'illusione non c'è più e la gente torna in piazza». Sul corteo cominciano a scendere goccioloni grossi così. Loro non si scoraggiano. E, di nuovo flessibili, adattano lo slogan: «Piove, piove, piove / può anche nevicare / ma la nostra lotta / non si fermerà».

l'Unità 8.10.11 - Dossier
Bene pubblico
Come difendersi da liberisti e populisti
7 pagine di vari autori, in occasione dello sciopero di oggi

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http://www.scribd.com/doc/67983138

l'Unità 8.10.11
A difesa del welfare
Mobilitiamoci nelle corsie di ospedale
Se non ora quando?
di Maura Cossutta

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http://www.scribd.com/doc/67983048

il Fatto 8.10.11
Donne, Arabia, Africa
Il premio politicamente corretto
Nobel per la Pace alle paladine di libertà e uguaglianza
di Alessandro Cisilin


Le donne, l’Africa, la primavera araba. C’è il meglio dell’attualità, tra le istanze sociali e le suggestioni simboliche globali, nella scelta di quest’anno del Comitato di Oslo. L’aveva detto il presidente Thorbjørn Jagland – anche Segretario generale del Consiglio d’Europa - in un’insolita esternazione della vigilia: “Ultimamente il premio aveva provocato spaccature e polemiche, in questo caso invece unirà”. E così è stato.
DUE ANNI FA il premio “di buon auspicio” al neo-presidente Barack Obama aveva lasciato perplessi i pacifisti. L’anno scorso il Nobel al dissidente cinese Liu Xiaobo aveva fatto infuriare Pechino. Stavolta festeggiano praticamente   tutti e tutte, anche in Italia, dalle donne del governo a quelle dell’opposizione, col presidente Napolitano a esaltare “la straordinaria originalità del contributo   femminile al progresso civile e sociale contemporaneo”. Una chiosa alla motivazione letta dallo stesso Jagland: “Senza le pari opportunità la democrazia e   una pace duratura non sono raggiungibili”. Parole dolci per la yemenita Tawakkul Karman, 32 anni, ovvero gli stessi del regime del suo presidente Saleh. È una giornalista d’assalto, con 3 figli e tanta militanza nel maggiore partito d’opposizione, l’islamico Al Islah. Soprattutto, è leader del movimento che da mesi sfida l’autorità invocando una svolta democratica. “Un premio a tutte le donne dello Yemen”, il suo primo commento.
E TRA MATERNITÀ e militanza, Islam e democrazia, incarna perfettamente quel negletto spazio di umanità che si fa strada tra la repressione governativa e la guerriglia quaedista. Poi c’è il riscatto africano dell’avvocato Leymah Gbowee, 39 anni, attivista da oltre 20, direttrice di un’organizzazione femminile dedita   alla risoluzione dei conflitti nel continente, con un ruolo pregresso di primo piano nella cessazione della guerra civile che aveva fatto 250mila morti in Liberia, unendo cristiane e musulmane. Il terzo premio, ovvero il primo nei pronostici, è di segno un po’ diverso. Anche lei liberiana, ma è ben più potente, essendo la prima presidentessa di un paese africano. Nota ai più per aver sconfitto l’ex calciatore George Weah al ballottaggio del 2005, la 74nne Ellen Johnson Sirleaf ha un curriculum di tutto rispetto, tra antiche militanze (con qualche giorno di carcere) e un’eccellente carriera tra Harvard, Banca Mondiale, Onu e Citybank. Ha ottimi rapporti con gli Stati Uniti e la Cina, ed è nel pieno della campagna elettorale per la propria rielezione.

La Stampa 8.10.11
Madri della rivoluzione
di Lucia Annunziata


Hanno vinto tre donne o, rispettivamente, il Presidente della Liberia, un’attivista dei diritti civili e una giornalista rivoluzionaria?I premi alle donne anche quando sono importantissimi come il Nobel assegnato ieri alle tre protagoniste di cui parliamo, hanno sempre un sapore un po’ dolce-amaro. Dedicati con pompa magna all’altra metà del cielo dovrebbero essere in effetti più precisamente assegnati alle opere che alla identità sessuale. E mai come nel caso anche di questi Nobel ci ritroviamo a festeggiare tre donne africane i cui successi si innalzano molto più in alto della loro differenza.
Queste signore infatti hanno portato a termine in questi anni imprese con cui si sono misurati vanamente un numero enorme di uomini. Sarà anche perché ciascuna di loro ha raggiunto nella vita ben prima del Nobel un livello di scolarizzazione, educazione, e capacità di operare al di sopra di ogni mediocre convinzione, incluse quelle delle civiltà occidentali.
Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee, le due liberiane, si sono confrontate non tanto con la condizione femminile, ma con le devastazioni di una guerra civile come se ne ricordano poche, se si fa eccezione per quella del Ruanda. La Liberia fondata nel 1847 prende il suo nome dagli schiavi neri americani liberati, e la capitale si chiama Monrovia in onore del Presidente James Monroe. Gli americani Liberiani, come venivano chiamati, hanno dominato la politica del Paese, sempre aiutati dagli Stati Uniti in funzione del ruolo pro-occidentale che la Liberia ha giocato in Africa e alle Nazioni Unite nel secondo dopoguerra. Aiuti che non vennero meno neppure dopo un colpo di Stato nel 1980 che diede l’avvio a ben due guerre civili, la cui eredità è di 250 mila morti e l’85 per cento della popolazione sotto il livello di povertà. Qualcuno ricorderà i nomi di due signori di queste guerre: Samuel Doe, che si elesse presidente nel 1985 dopo aver fatto il golpe, e Charles Taylor che lanciò una offensiva contro Doe nel 1989 con l’aiuto del Burkina Faso e della Costa d’Avorio. Entrambi sono diventati il prototipo della violenza militare in Africa, dell’uso dei bambini in guerra, delle violenze ripetute sulle donne, e, non ultimo, grazie a molti film e a una campagna sostenuta da grandi star, del traffico illegale dei «diamanti insanguinati», usato dal regime per autofinanziarsi. La vicenda di Taylor finì per mano di un ulteriore gruppo ribelle che nel 2003 conquistò Monrovia e spedì (col sostanziale aiuto degli Usa) il dittatore in esilio, aprendo la strada alla ennesima missione di messa in sicurezza delle Nazioni Unite, sotto la cui egida avvennero le elezioni del 2005 in cui venne eletta la attuale Presidente e ora Premio Nobel. Dov’erano Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee mentre tutto questo accadeva e cosa hanno fatto per la Liberia? Solo dopo aver risposto a questa domanda possiamo davvero capire l’importanza del Premio svedese.
Ellen Sirleaf era dentro e fuori il suo Paese, spesso dentro e fuori un carcere, e negli Stati Uniti. Figlia del primo deputato nero di origini locali, adottata da una famiglia benestante, economista con numerose lauree inclusa quella di Harvard, alla John F. Kennedy School, ministro delle Finanze del suo Paese fino al golpe di Samuel Doe, poi fuggita a Washington dove lavora per la World Bank e più tardi in Africa per le Nazioni Unite. Nel frattempo sfidava inutilmente nel 1997 alle elezioni presidenziali Charles Taylor, e arrivava poi alla presidenza nel 2005 dopo la cacciata del dittatore. Probabilmente Sirleaf non sarebbe giunta così in alto se non ci fosse stata in Liberia un’attivista come la sua compagna di Nobel, Leymah Gbowee, una vera e propria Lisistrata nera di cui Aristofane sarebbe stato molto orgoglioso. Fu lei, 39 anni, assistente sociale, madre oggi di sei figli, a lanciare e sostenere nell’anno cruciale della fine della Guerra civile, il 2002, uno «sciopero del sesso» sostenuto dal suo gruppo delle «donne in bianco», musulmane e cristiane, che si scontrarono a più riprese con le varie bande di militari denunciando la pratica sistematica dello stupro. In un episodio famosissimo Leymah Gbowee affrontò un’assemblea di legislatori minacciando di spogliarsi nuda in pubblico, gesto di potente maledizione in West Africa.
Anche la terza donna del Nobel esercita un ruolo che va ben al di là di quello femminile: Tawakkul Karman dello Yemen ha 32 anni, tre figli ed è una giornalista che in uno dei Paesi più repressivi dell’Africa musulmana è diventata, con il suo velo rosa a fiori, l’ispirazione della protesta contro Ali Abdallah Saleh. Fondatrice dell’associazione «Giornaliste senza catene» è militante nel partito islamico e conservatore Al Islah, primo gruppo di opposizione. Arrestata a gennaio, poi rilasciata grazie alle manifestazioni a suo sostegno, ha già ottenuto il titolo di madre della rivoluzione. Il Nobel a lei è nei fatti il Nobel alle primavere arabe. Durante una delle manifestazioni a Sana’a disse queste parole: «Manterremo la dignità delle persone e il loro diritto ad abbattere ogni regime».
E’ un po’ la frase che il comitato del premio Nobel ha parafrasato nella motivazione della sua scelta. Ma va ricordato che questa moderna dichiarazione dei diritti universali può essere attribuita alle donne proprio perché oggi il loro ruolo femminile si è trasformato in metafora e pratica del bene generale.

Corriere della Sera 8.10.11
Le tre signore della pace
di Emma Bonino


Sono molto contenta. Perché il premio Nobel per la pace è stato attribuito a tre donne: l'attivista per i diritti civili dello Yemen, Tawakkol Karman, la militante pacifista Leymah Gbowee e la sua compatriota, presidente della Liberia, Ellen Johnson-Sirleaf (nelle foto, da sinistra a destra).
D ire che sono contenta è banale, ma vero. Sono molto contenta. Perché se pure qualche rumore sulla possibilità che il premio Nobel per la Pace potesse essere conferito a Ellen c'era, la competizione è stata difficile fino all'ultimo. Con lei, Ellen Johnson Sirleaf, ho lavorato un po' di anni fa: era mia collega nell'International Crisis Group. Era il periodo in cui era in esilio a Washington, dopo l'arresto e la galera negli anni Ottanta seguiti al colpo di Stato; spinse l'organizzazione a occuparsi di più di Africa e delle dittature.
Ma quello che mi fa più contenta è la motivazione di questo Nobel, che è rivoluzionaria. Non solo afferma che senza le energie e la creatività del 50 per cento della popolazione mondiale non si va da nessuna parte. Ma premia la scelta, da parte di queste tre donne, della nonviolenza declinata in modi diversi, certo, nelle diverse aree del mondo. Da radicale per me è un principio fondamentale. Infine, e questo si vede soprattutto nella scelta dell'attivista liberiana Leymah Gbowee, si premia la riconciliazione post dittatura. Lei, cristiana, ha fatto un'associazione con le donne musulmane, superando le diversità religiose in nome del bene del suo Paese. Mi ricorda, con tutte le diversità del caso, il Nobel del '76 attribuito alle attiviste nordirlandesi Betty Williams e Maired Corrigan che avevano fondato l'associazione Women for peace (donne per la pace), con le donne cattoliche e protestanti insieme.
Ellen Johnson Sirleaf è riuscita a riappacificare la Liberia dopo l'era di Taylor. È stata inflessibile nel chiedere l'estradizione dell'ex presidente, accusato dal Tribunale speciale per la Sierra Leone dei crimini contro l'umanità commessi durante la guerra civile in quell'infelice Paese (fomentata dall'allora presidente liberiano Charles Taylor). E ripenso con orgoglio oggi quanto noi radicali con «Non c'è pace senza giustizia» abbiamo lavorato in sinergia con Ellen, per l'istituzione di quel tribunale ad hoc, cui pochissimi credevano. Da presidente, poi, ha condotto con saggezza e moderazione, così come ha fatto anche Mandela per il Sudafrica, la transizione del suo Paese. Ha istituito una commissione di riconciliazione per valutare i crimini commessi e confessati, senza pena di morte, in modo che potesse prevalere la giustizia sulla vendetta nel chiudere un'epoca sanguinosa della Liberia e guardare avanti.
Il Nobel di quest'anno è un riconoscimento a generazioni, culture, provenienze etniche e religiose diverse. Tawakkol Karman è una ragazza, Leymah Gbowee quasi una quarantenne e Ellen una settantenne.
Sono donne che provengono non solo da Paesi e zone del mondo diverse, una è musulmana, una, Leymah, è cristiana e Ellen non usa far riferimento pubblico ad alcuna religione. Tawakkol Karman è un'«islamista» con delle contraddizioni positive, non appartiene all'area liberale della primavera araba. Ma è un'islamista sui generis, non interamente velata, come usa diffusamente in Yemen. Ed è la prima donna araba, di qualsiasi disciplina, insignita del Nobel.
Io spero che le motivazioni di quest'anno facciano riflettere tutto il mondo. Non si è più premiata la diplomazia (basti pensare ai Nobel di Kissinger o Arafat, ma anche a quello di Martti Athisaari, o addirittura a quello a Obama), la soluzione classica dei conflitti. Si riconosce e si premia un elemento diverso: le donne, svantaggiate ovunque nel mondo, in posti dove si è o si è stati sull'orlo della guerra civile, con determinata nonviolenza cercano di riportare la legalità, il rispetto dei diritti della persona, la democrazia.
Ieri dopo aver letto la notizia, passando nei corridoi del Senato, mi sono ritrovata a sorridere ai colleghi maschi, scherzando ma non troppo: «Rassegnatevi e fate di necessità virtù». A noi donne dico: «È un momento importante, facciamone tesoro».
Vice Presidente del Senato

il Riformista 8.10.11
C'è nel Pd una lotta politica?
di Emanuele Macaluso

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http://www.scribd.com/doc/67983198

il Riformista 8.10.11
Veltroni prepara l'attacco a Bersani
di Ettore Maria Colombo
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http://www.scribd.com/doc/67983198

La Stampa 8.10.11
Intervista
Veltroni: “No alle elezioni Un governo che salvi l’Italia”
“I punti forti: l’avvio degli interventi anti-crisi e la riforma della legge elettorale”
di Federico Geremicca


IL REFERENDUM «Ma come si fa ad andare alle urne per eleggere un Parlamento dei nominati?»
MONTEZEMOLO «E’ vero, il baratro è vicino Non possiamo rispondere con Forza gnocca»
EPPUR SI MUOVE «La consapevolezza che si deve fare qualcosa è cresciuta anche nel Pdl»

Il Pd non vuole le elezioni anticipate. E non le vuole - o non dovrebbe volerle - per un mucchio di ragioni che Walter Veltroni, stavolta, elenca con un puntiglio e una pignoleria che ricordano assai poco le sue sperimentate capacità affabulatorie. Si comincia dalle elezioni e dal Pd perché, ad esser onesti, il Partito democratico è apparso visibilmente oscillante, sul punto: a seconda di questo o quel dirigente, un giorno è meglio andare a votare e quello dopo - invece - diventa preferibile un nuovo governo variamente definito (di transizione, di decantazione, tecnico, etc).
Molte manovre - a partire dalle candidature alla premiership - si intrecciano intorno alla data del voto: e così, a dirla tutta, perfino le conclusioni dell’ultima Direzione del Pd sarebbero state - secondo alcuni - assai ambigue, sul punto. Walter Veltroni c’era: chiediamo a lui, dunque, come stanno le cose.
Fuori da ogni ironia: è possibile capire qual è, sul punto, la linea emersa in Direzione?
«Al di là della posizione favorevole alle elezioni anticipate legittimamente espressa da qualcuno, come La Torre, le conclusioni sono state chiare: il Pd si impegna a costruire le condizioni per la nascita di un governo di transizione e considera per ragioni che se vuole poi le illustrerò - il voto anticipato come soluzione estrema».
Le illustri pure, così diradiamo qualche nebbia.
«Guardi, lo ha detto bene Montezemolo, l’altro giorno: il Paese è a un passo dal baratro. E se la situazione è questa - ed è certamente questa noi non possiamo rispondere né con “forza gnocca” né precipitando l’Italia verso elezioni che sarebbero precedute, nel pieno di questa devastante crisi, da mesi di confusione e rissa politica».
Dunque, meglio lasciare in carica il governo che c’è?
«Questo è quel che pensa Berlusconi, magari, non noi. Il Pd - e non solo il Pd - ritiene che quel che occorre sia un governo di transizione che abbia in agenda tre cose: il varo degli interventi economico-sociali più urgenti per fronteggiare la crisi; l’avvio di almeno alcune delle riforme suggerite all’Italia dalla Bce e di quei provvedimenti strutturali richiamati proprio oggi da Mario Draghi; l’approvazione di una nuova legge elettorale. Già queste poche cose, da sole, raffredderebbero le tensioni che attraversano il Paese e ci ridarebbero prestigio all’estero».
E’ un anno che chiedete l’avvento di un governo diverso, senza cavar fuori - come si dice - un ragno dal buco.
«Non sono d’accordo. E’ cronaca di questi giorni, di queste ore: qualche risultato inizia a vedersi e qualcosa comincia a muoversi. La consapevolezza che così non si possa andare avanti è molto cresciuta anche tra le forze di maggioranza. Io ne scrivevo già un anno fa, e con Beppe Pisanu ci sono tornato più di recente. Naturalmente, il processo che può portare alla nascita di un nuovo governo diventa tanto più difficile quanto più si evocano le elezioni. Anzi, il solo parlarne è il modo migliore per blindare Berlusconi lì dov’è».
Per la verità, qualcuno sostiene che il Pd - prigioniero delle sue manovre - avrebbe rinunciato a chiedere il voto anticipato perché non pronto all’appuntamento: né sul piano delle alleanze con cui andare alle elezioni né su quello della scelta del candidato premier. Come risponde?
«Sono due questioni distinte. Sulle alleanze io resto della mia idea: la strada è partire dalle cose da fare. Siamo d’accordo che in politica estera, per esempio, la partecipazione alle nostre missioni in corso all’estero resta un impegno da rispettare? E ancora: c’è intesa sul fatto che in questo Paese i diritti civili di tutti e delle donne in particolare vadano difesi dove attaccati ed estesi ove necessario? Oppure: si concorda sul fatto che l’accordo del 28 giugno tra Confindustria e sindacati traccia una via che è giusto seguire?».
Perché fa questo elenco?
«Perché nella prossima legislatura il governo eletto avrà da fare sei o sette cose ormai decisive per il Paese, e la prima è certamente un radicale abbattimento del debito che ci strozza. Ecco: io dico che delle alleanze bisogna fare una funzione, non una priorità. In fondo, è l’idea centrale della cosiddetta vocazione maggioritaria, che non è mai stata voler andar da soli a tutti i costi».
E lei pensa che sulle questioni elencate sia possibile metter d’accordo Vendola, Di Pietro e Casini? Finora non è accaduto: e forse anche non esser riusciti a offrire una via alternativa dentro la crisi è una bella responsabilità...
«Questo è il vero problema politico. E cioè: perché perfino nel pieno del declino del berlusconismo - privato e di governo - le forze riformiste non riescono a mettere in campo scelte programmatiche chiare e un profilo credibilmente innovatore? Naturalmente non è un problema che nasce oggi, visto che in questo Paese il centrosinistra, anche quando ha vinto le elezioni, non è mai stato davvero maggioranza...».
Da settimane, però, i sondaggi dicono che siete in vantaggio.
«Sì, ma quel che sorprende e preoccupa è che, come tutte le analisi confermano, il passaggio di consensi dalla maggioranza all’opposizione è minimo, di fatto inesistente: i voti in uscita dalla destra finiscono nel Grande Magazzino dell’Astensionismo. Dobbiamo riuscire a tirarli fuori dal lì, altrimenti rischiamo un paradosso che alcuni già profetizzano: che tornino ad un centrodestra liberato da Berlusconi».
E questo non dovrebbe spingervi a chiedere elezioni nel tempo più breve possibile?
«Una delle regioni per le quali sono contrario al voto anticipato è che non si può tornare alle urne con questa legge per avere un altro “Parlamento dei nominati”. So che dire questo può sembrare far l’occhiolino alla cosiddetta antipolitica: ma bisognerebbe ricordare che l’antipolitica non nasce dal nulla, ma dalla cattiva politica. Io chiedo: andiamo a votare con questa legge dopo che un milione e 300mila italiani hanno firmato per un referendum che chiede di abolirla? Commetteremmo un errore molto grave».
Nulla ci dice, però, della candidatura a premier del centrosinistra, che è un altro bel problema. Perché? A parte Bersani, si candidano tutti: Vendola, Serracchiani, Renzi...?
«Non ne parlo perché, visto che non vogliamo le elezioni anticipate, penso sia più utile dedicarsi a cose concrete. E dunque su questo, almeno a me, non strapperà una sola parola...».

l'Unità 8.10.11
Fede e politica
Non serve un nuovo partito cattolico
Il Pd può vincere la sfida
di Enzo De Luca

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Corriere della Sera 8.10.11
Il dubbio e la fede, la scommessa di Ravasi
Cercatori insoddisfatti di Dio come Cioran e Ionesco: modelli contemporanei
di Amando Torno

Il Cortile dei Gentili ritorna in un autunno ricco di incontri. Innanzitutto con l'appuntamento di Bucarest l'11 e il 12 ottobre. Il cardinale Gianfranco Ravasi, in visita in Romania come ministro della cultura del Vaticano, oltre i colloqui e dibattiti previsti riceverà un dottorato honoris causa all'università della capitale rumena. Alla sua lectio magistralis seguirà un dialogo con il fisico e filosofo Horia-Roman Patapievici. E poi, il 12, vi saranno cinque interventi di intellettuali rumeni sull'argomento «Umanesimo e spiritualità». Il sottotitolo di queste relazioni è una domanda stimolante: «È possibile un dialogo sulla trascendenza?».
Ravasi ci confida: «Ho intenzione a Bucarest di intervenire in questi grandi eventi su Cioran e Ionesco, figure ideali di un agnosticismo o ateismo segnato profondamente dalla domanda». Si sofferma su una frase di Cioran: «Mi sono sempre aggirato attorno a Dio come un delatore. Incapace di invocarlo, l'ho spiato». E precisa: «Vorrei presentare la figura di colui che si aggira attorno al cortile dei credenti e ne cerca quasi il centro. Anche se in un altro suo testo giunge al paradosso secondo cui "il nome di Dio è il Nulla, cioè Tutto". Lui per tutta la vita quell'opera di spionaggio l'ha condotta». Inoltre, dicevamo, Ionesco. Il cardinale aggiunge: «Lo presenterei cominciando da una dichiarazione che ha fatto in una intervista. Questa: "Ogni volta che il telefono suona mi precipito nella speranza, ogni volta delusa, che possa essere Dio che mi telefona. O almeno uno dei suoi angeli di segreteria". In lui c'era continuamente la speranza di una epifania del divino. E poco prima della morte, alla fine del suo Diario, nell'ultima riga c'è una frase folgorante. È la risposta a quell'attesa: "Pregare Non So Chi. Spero: Gesù Cristo"».
Si ritorna con il Cortile dei Gentili a Firenze, il 17 ottobre. È una tappa obbligatoria di questo progetto. Del resto, sulle rive dell'Arno si realizzò un miracolo culturale, all'epoca di Lorenzo il Magnifico, che è paragonato a quello che avvenne nell'Atene di Pericle. In Palazzo Vecchio, nel Salone dei Cinquecento, Antonio Paolucci, Moni Ovadia, Sergio Givone, Erri De Luca, Antonio Natali e, ovviamente, il cardinal Ravasi, parleranno di «Umanesimo e bellezza ieri e oggi». Sua eminenza ricorda la caratteristica di tale incontro: «L'impegno principale che vorrei realizzare tra arte e fede è il ritrovare la loro radicale sororità, secondo la convinzione espressa da Paul Klee: "L'arte non rappresenta il visibile, ma l'Invisibile che si cela nel visibile"». E dopo una breve pausa il porporato precisa: «Questa è anche la meta della fede».
Il 26 ottobre, il giorno precedente l'incontro di Assisi tra il Papa e i rappresentanti delle grandi religioni (al quale sono invitati anche dei non credenti, siano essi atei e agnostici) il Cortile dei Gentili organizza una tavola rotonda all'Università di Roma Tre con Giacomo Marramao. Il tema è legato all'iniziativa del Pontefice. Per tale motivo si risponderà alla domanda: «Perché gli atei hanno accettato l'invito del Papa?». Interverranno Julia Kristeva, Remo Bodei, il filosofo messicano Guillermo Hurtado, Anthony Graylings (dell'Accademia Reale inglese), Walter Baier (che ha avuto incarichi nel mondo comunista) oltre al cardinale Ravasi. Il giorno 27 i relatori del Cortile dei Gentili «preparatorio» parteciperanno alla giornata con Benedetto XVI. Quest'anno gli incontri interreligiosi di Assisi compiono il loro venticinquesimo. Con il tempo sono cresciuti, anzi rappresentano ormai un riferimento non soltanto per il mondo della fede. Il titolo scelto per il 2011 è «Pellegrini della verità, pellegrini della pace».
Il 14 e il 15 novembre sarà la volta di Tirana, ovvero l'inizio di un dialogo con l'Albania. Il Cortile dei Gentili comincerà la sera sul sagrato della cattedrale — un po' come si era fatto lo scorso marzo a Nôtre Dame a Parigi — e affronterà tre temi: «Lavoro», «Spiritualità», «Informazione e comunicazione». Le relazioni, il giorno seguente, si terranno all'Università statale di Tirana e nel pomeriggio in un ateneo privato, l'Università Europea. Tra i nomi non mancheranno lo scrittore Ismail Kadare e l'accademico e scienziato Luan Omari. Ai quali va aggiunto anche uno specialista di storia religiosa, oltre che deputato al parlamento: Mark Marku.
Ravasi riassume il senso dell'incontro: «Ho accettato l'invito che giungeva direttamente dall'Albania per una ragione storica: in epoca moderna questa nazione rappresenta probabilmente l'unico Stato che poneva l'ateismo come articolo fondante della Costituzione. La richiesta è venuta dal docente di ateismo dell'Università di Tirana. Il quale insegna ancora questa materia, ma egli è cattolico e teologo». Che dire? Anche nei Paesi dell'ex blocco comunista casi del genere non sono eccezionali. Ravasi precisa a tale proposito: «Avendo continuamente contatti con persone che ignorano o rifiutano la fede, rimango sempre più convinto della dichiarazione dello scrittore francese Pierre Reverdy, il quale affermava: "Ci sono atei di una asprezza feroce che, tutto sommato, si interessano di Dio molto più di certi credenti frivoli e leggeri"». Ci accommiatiamo da sua eminenza mentre proferisce un'ultima frase, che sarà anch'essa oggetto di riflessione. È di Giorgio Caproni: «Mio Dio perché non esisti? A furia di insistere, cerca di esistere».

La Stampa 8.10.11
Filosofia
Il paradiso della Forma s’illumina con la ragione
di Franca D'Agostini


Federico Vercellone LE RAGIONI DELLA FORMA Mimesis, pp. 134, 13,00

Il più recente libro di Federico Vercellone, Le ragioni della forma , va apertamente contro-corrente, sia rispetto al naturalismo imperante in certi settori della filosofia analitica contemporanea, per cui ogni tesi filosofica andrebbe accompagnata da qualche imaging cerebrale, o sorprendente esito neuronale; sia rispetto al nuovo realismo postpostmoderno, il cui assunto di base e sostanzialmente unico contenuto è: «C’è una realtà» (notizia sensazionale, di cui avvertivamo il bisogno: meno male che ci hanno avvertiti). Rilanciare le ragioni della forma significa in breve ricordare il fatto che tanto la realtà che ci urta e ci frastorna quanto il nostro stesso frastornarci e modificarci sotto il suo influsso sono composti anche da quelle configurazioni impalpabili e tuttavia inequivocabilmente esistenti che chiamiamo forme, strutture, frames, schemi.
Una evidenza molto presente alla tradizione, ma che, come Vercellone spiega bene, si delinea con chiarezza nelle sue importanti implicazioni filosofiche e culturali all’inizio dell’ottocento con Goethe, e con il romanticismo tedesco. Nasce allora l’idea della morfologia (da morfé = forma) curiosa disciplina a metà tra l’estetica, la filosofia della natura, la matematica, le scienze dell’uomo e della società. Tale scienza è nella sua stessa possibilità una grande sfida alla frammentazione illuministica e poi positivistica dei saperi. Essa pone le basi di un pensiero che abbraccia i diversi campi del conoscere, ma non è niente affatto generico e vago, anzi dotato di rigorosi legami con la matematica e le altre scienze, e al tempo stesso proteso verso l’arte, e verso l’agire politico. Insomma: una specie di paradiso in cui i filosofi conversano amabilmente con gli scienziati e gli artisti.
Vercellone ricostruisce l’evoluzione di questa affascinante ipotesi (che era anche al centro del lavoro di un importante filosofo torinese, morto prematuramente: Francesco Moiso). Si incomincia da quel ripensamento estetico dell’universale che viene lanciato dal romanticismo. Nelle pagine di Schlegel appare l’intuizione di un nuovo platonismo: l’universale non è mai stato nemico della realtà e della natura, è sempre stato in re, ha vissuto e vive da sempre nella bellezza delle cose. Si passa poi alla comunicazione, ed emerge l’idea di quelle strane entità incorporee, dotate di grandi poteri causali, che trasmettiamo semplicemente scambiandoci parole; configurazioni fantasma, che sembrano non esserci, ma guidano i pensieri, e di conseguenza i comportamenti. Io dico «fiore» ed ecco nelle menti di chi mi ascolta appare l’immagine-forma fiore: «L’assente da ogni mazzo», diceva Mallarmé, ma inequivocabilmente presente qui e ora.
La seconda parte del libro individua l’ermeneutica del Novecento come erede della morfologia romantica, ma resa scettico-critica dall’esperienza del nichilismo tardo-ottocentesco. Qui la forma vacilla. Il suo potere espressivo e la sua evidenza sembrano dileguare. Eppure, la morfologia ne esce in qualche misura rafforzata, e resa più attenta ai giochi dinamici dell’interpretazione. Proprio a un’idea «morfologica» dell’ermeneutica Vercellone affida la ri-costruzione del paradiso romantico, come spazio di una ragione democratica, critica e dialogica. È allora perfettamente coerente la comparsa, nelle pagine finali del libro, del neo-illuminismo di Gobetti, interpretato come una visione tragica, consapevole del fatto che la forma nella comunicazione contemporanea sembra ritrarsi e nascondersi una volta per tutte.

Repubblica 8.10.11
Lo scettico del super neutrino
"Ecco perché dubito dei calcoli del Cern"
Il Nobel Glashow ha appena pubblicato un lavoro che critica l´esperimento e i suoi risultati
"Credo che siano stati fatti errori nella statistica, nella sincronizzazione degli orologi o forse nella misura della distanza"
"Se le particelle fossero più veloci della luce si entrerebbe in conflitto con principi molto generali della fisica"
di Piergiorgio Odifreddi


L´annuncio che l´esperimento opera effettuato tra il Cern di Ginevra e il laboratorio del Gran Sasso aveva misurato una velocità dei neutrini superiore a quella della luce, ha messo in subbuglio il mondo intero, scientifico e non. Si è parlato in particolare di violazione della teoria della relatività di Einstein, e di anomalia che mette in crisi il paradigma corrente della fisica.
Per cercare di capirne qualcosa di più abbiamo intervistato Sheldon Glashow, premio Nobel per la fisica nel 1979 ed eminenza grigia della fisica delle particelle. Il quale, benché quasi ottantenne, in meno di una settimana dall´annuncio aveva già pubblicato un lavoro che gettava forti dubbi sulla sua correttezza, e ne inquadrava teoricamente le paradossali conseguenze.
Anzitutto, vogliamo brevemente ricordare cosa affermano gli sperimentatori dell´opera?
«Che il viaggio dei neutrini tra il Cern e il laboratorio del Gran Sasso, distante circa 730 chilometri, dura 60 nanosecondi, meno di quanto ci metterebbe la luce a percorrere la stessa distanza. Dunque, i neutrini sembrano essere particelle superluminari, e viaggiare a una velocità superiore a quella della luce nel vuoto di circa 7 chilometri e mezzo al secondo».
Interessanti, dunque, questi neutrini!
«Lo erano anche prima di questo esperimento, come dimostra la loro storia. Agli inizi furono "inventati" da Wolfgang Pauli, per salvare il principio di conservazione dell´energia. Vennero osservati per la prima volta negli anni ´50, e negli anni ´60 si scoprì che ce n´erano due tipi, che salirono a tre in seguito. Negli anni ´70 si presentò un problema legato ai neutrini solari, che fu risolto definitivamente solo nel 2001, con osservazioni effettuate in Giappone e in Canada. Nel frattempo, sia negli Stati Uniti che in Giappone erano stati rilevati neutrini emessi dalla supernova del 1987. E nel 1998 i giapponesi avevano osservato le oscillazioni dei neutrini atmosferici, dimostrando che almeno alcuni tipi hanno una massa».
Ci sono ragioni per dubitare dei risultati annunciati?
«Io credo che ci debbano essere stati errori sperimentali. Forse nella sincronizzazione degli orologi. Forse nella misura della distanza, che non può essere stata effettuata solo con il gps, perché non si possono trasmettere segnali ai satelliti in orbita dal laboratorio del Gran Sasso, che si trova a circa un chilometro e mezzo di profondità sotto la montagna. Forse nella statistica, o ancora in qualcos´altro, chissà».
Assumendo che non ci siano invece errori, è stato suggerito che i neutrini superveloci potrebbero essere dei tachioni.
«I tachioni sono particelle ipotetiche, che in teoria non violano la teoria della relatività speciale, ma in pratica portano a contraddizioni: ad esempio, la loro massa dovrebbe essere immaginaria, cioè avere un quadrato negativo (mentre tutti i numeri reali, anche quelli negativi, elevati al quadrato diventano positivi)! Nessuna persona di buon senso può pensare che i neutrini siano dei tachioni».
Cosa si può pensare, allora?
«Qualcuno sospetta che ci possano essere delle violazioni delle previsioni della relatività speciale: in particolare, che la massima velocità raggiungibile dai neutrini possa essere superiore alla velocità della luce».
Ma la relatività non afferma solo che ci debba essere una velocità insuperabile, senza stabilire a priori che debba essere proprio quella della luce?
«E´ possibile formularla così. Ma si può fare anche di più, come abbiamo mostrato Sidney Coleman ed io nel 1999: si può supporre che le velocità massime raggiungibili differiscano per le varie particelle, e calcolare limiti alle possibili differenze di queste velocità».
E cosa succede?
«Strane cose. Ad esempio, se gli elettroni possono viaggiare più velocemente della luce, allora quando lo fanno perdono rapidamente energia (a causa della cosiddetta radiazione di Cherenkov nel vuoto). Viceversa, se la velocità della luce è superiore a quella massima raggiungibile dagli elettroni, allora i raggi gamma ad alta energia devono decadere in coppie di elettroni e positroni. Così, il fatto che si osservino sia elettroni che fotoni ad alta energia ci permette di dedurre delle restrizioni molto forti sulla possibile differenza tra le loro velocità massime raggiungibili, e le cose vanno come previsto».
Se effettivamente la velocità massima raggiungibile dai neutrini fosse superiore a quella della luce, questo vorrebbe dire che i fotoni dovrebbero avere una massa maggiore di quella dei neutrini?
«No, non necessariamente. Il che non significa che i fotoni non abbiano una massa! Potrebbero averla, ma le restrizioni più forti che abbiamo assicurano che in tal caso la cosiddetta lunghezza d´onda di Compton del fotone (che misura il rapporto fra la costante di Planck e il prodotto fra la velocità del fotone e la sua supposta massa) sia superiore a qualcosa come una settimana luce: cioè, alla distanza percorsa dalla luce in una settimana, che è di circa 180 miliardi di chilometri!».
E i neutrini dell´esperimento opera, dai quali siamo partiti, possono avere velocità superiore a quella della luce?
«Solo se non valgono i princìpi di conservazione dell´energia e del momento (cioè, del prodotto fra massa e velocità)! L´ho dimostrato l´altro giorno, subito dopo l´esperimento, insieme a Andrew Cohen, in un articolo sulle Nuove costrizioni sulle velocità dei neutrini. Se valgono quei due princìpi, allora i neutrini superluminali dovrebbero emettere coppie di elettroni e protoni e perdere energia. In particolare, i calcoli mostrano che solo pochissimi di quelli emessi al Cern potrebbero raggiungere il Gran Sasso con energie superiori a 12,5 gigaelectronvolt (l´elettronvolt misura il momento delle particelle, e "giga" sta per "miliardo"), mentre l´esperimento ne ha osservati molti a energie comprese fra 20 e 50. E anche altri autori, ad esempio un gruppo di teorici cinesi guidati da Xiao-Jun Bi, hanno ottenuto risultati, che giungono alla stessa conclusione: supporre che i neutrini vadano più veloci della luce è in conflitto con princìpi molto generali della fisica, senza dover scomodare la relatività».
Dunque, cosa dimostrerebbe l´esperimento?
«Sono state proposte due "soluzioni". La prima, assurda, è che nella prima ventina di metri del loro viaggio i neutrini viaggino a velocità dieci volte superiori a quella della luce, e poi scendano sotto di essa. La seconda, spiacevole ma non così assurda, è che non comprendiamo perfettamente la legge della conservazione del momento: modificandola, si potrebbe trovare che i neutrini possono viaggiare a velocità superiore a quella della luce, senza perdere energia».
Sembra comunque che ci sia un conflitto con la velocità dei neutrini calcolata sulla base delle osservazioni della supernova apparsa nel 1987.
«Solo apparentemente, perché i neutrini emessi dalla supernova avevano energie migliaia di volte inferiori a quelli emessi dal Cern. Dunque, gli effetti superluminali potrebbero dipendere fortemente dall´energia, e questo non sembra presentare un problema».
In conclusione, prima di divulgare la notizia al mondo intero, non sarebbe stato meglio aspettare di capirci qualcosa di più?
«No! I ricercatori ci hanno provato in tutti i modi, a trovare spiegazioni sensate di quella che essi stessi hanno definito un´"anomalia", ma non ci sono riusciti. E non essendo impiegati di un´azienda farmaceutica, non potevano mettere tutto a tacere: sarebbe anche stato scorretto nei confronti delle molte nazioni che hanno finanziato l´esperimento. Hanno annunciato i risultati, e sperano che altri possano in qualche modo spiegarli».
Lei come pensa che finirà?
«Personalmente, alla luce dei calcoli di cui ho parlato, io credo che ci siano stati errori: in tal caso, li troveremo. Comunque, inizierà presto l´analogo esperimento minos negli Stati Uniti, e vedremo se confermerà o refuterà quello di opera».

Repubblica 8.10.11
Hessel e Morin, quasi 200 anni in due, ai vertici delle classifiche
Quei grandi vecchi da bestseller
Dopo il successo di "Indignatevi!" un pamphlet per trasformare politica e società


PARIGI. «Vogliamo denunciare il corso perverso di una politica cieca che ci sta conducendo al disastro. Vogliamo proporre un percorso politico di salute pubblica. Vogliamo annunciare una nuova speranza». Inizia così il libro scritto a quattro mani dai due grandi vecchi della cultura francese – Stéphane Hessel e Edgar Morin, rispettivamente 94 e 90 anni – i quali hanno unito i loro sforzi per provare ad immaginare i contorni concreti di una politica di cambiamento in grado di trasformare le nostre vite. Intitolato Le chemin de l´espérance (Fayard, pagg. 61, euro 5), il piccolo volume appena giunto nelle librerie francesi e già schizzato in testa alle classifiche, vuole essere la continuazione ideale di Indignatevi!, il pamphlet pubblicato da Hessel alla fine del 2010 che, con oltre tre milioni di copie vendute, ha lanciato le proteste degli "indignados" ai quattro angoli del pianeta (con vendite record in Francia, in Germania, in Spagna e in Italia; ma i risultati, oltre le 50mila copie, sono stati sorprendenti anche negli Stati Uniti). Il libretto, tradotto anche in cinese, dell´ex partigiano è diventato un manifesto e ha evidentemente anticipato lo spirito dei tempi, grazie anche alla parola chiave "Indignatevi", adottata da tutti. Morin da parte sua con l´ultimo saggio aveva venduto 70mila copie, nel suo paese. Confermando appunto la vitalità di un nuovo genere: il saggio combattivo.
«Di fronte a un mondo sempre più in crisi le giovani generazioni hanno bisogno di ritrovare fiducia e speranza. Per questo abbiamo scritto queste pagine, in cui sono presenti soprattutto le idee di Morin, a cui io ho dato solo un piccolo contributo», ha spiegato Hessel, presentando il libro in televisione. «Dappertutto incontro giovani che s´indignano, ma che poi non sanno cosa fare concretamente per cambiare la situazione. Il libro si rivolge a loro con alcune proposte concrete per trasformare la società in cui viviamo».
I due anziani autori – nel cui passato ci sono diverse esperienze comuni, dalla partecipazione alla resistenza alla difesa dei diritti dei palestinesi – denunciano innanzitutto il fallimento dell´ideologia ultraliberale «incapace di risolvere i problemi vitali dell´umanità», condannando il pianeta «alla disintegrazione e alla regressione». Da qui il bisogno di una politica originale capace al contempo di mondializzare, «per sentirci partecipi di un destino comune di esseri umani minacciati da pericoli mortali», ma anche di demondializzare, «per dare spazio a un´economia sociale e solidale» necessaria a ridurre le enormi disuguaglianze che minano la società. A questo proposito, Hessel e Morin invocano una vera propria rivoluzione culturale per rimettere in discussione «l´egemonia della quantità sulla qualità» e immaginare un altro stile di vita lontano dai diktat dell´homo oeconomicus. Solo così si realizzerà quell´ "insurrezione delle coscienze" che i due intellettuali francesi considerano una necessità improcrastinabile.

La Stampa 8.10.11
Intervista a Alexander Sokurov
“Ho visto il Diavolo è solo un usuraio”
Il regista di “Faust” Leone d’Oro a Venezia: il Male non si combatte con la religione ma con la cultura
di Fulvia Caprara


"LA MORTE DELL’ANIMA «Oggi quasi non esiste più, ogni impegno spirituale è malvisto, è il non-trionfo della ragione»"
"UN FILM SULLA DIVINA COMMEDIA «Ci sto pensando da anni mi chiedo come mai nessun italiano l’abbia già fatto»"

Dante e Putin «Il suo è uno dei libri più grandi da cui imparare per la ricerca nell'animo umano, una carovana di emozioni profonde» «Gli ho detto che è sua responsabilità aiutare il cinema che, per gretti interessi economici rischia di scomparire»

Il diavolo, sicuramente, non è mai stato raccontato meglio che nel Faust di Aleksander Sokurov, vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia e il 26 ottobre sui nostri schermi: «Nell’epoca del 3D - dice il presidente dell’Ente dello Spettacolo Dario E. Viganò che al maestro è legato da un rapporto «fertile e di lunga data» - i suoi film sono 4D: inesausta e ardente ricerca della dimensione spirituale». Dalla Russia, dove sta già lavorando a nuovi progetti, Sokurov si racconta, parlando dell’anima, star di tutto il suo cinema.
Vendere l'anima al diavolo, ovvero tradire se stessi. Rispetto ai tempi del Faust di Goethe, l'uomo contemporaneo è forse più abituato a farlo. Che cosa significa oggi, vendere l'anima al diavolo?
«Oggi il concetto di anima quasi non esiste più. L’anima singola si sta svilendo. E la responsabilità dell’individuo c’entra molto. Se l’anima nel Novecento avesse avuto più valore, gli stessi tedeschi avrebbero appoggiato Hitler? E i russi avrebbero appoggiato Lenin e Stalin? L'anima secondo me non viene data alla nascita, bisogna coltivarla, nutrirla, farla crescere, insomma, impegnarsi per averla. Oggi ogni impegno spirituale è mal visto e persino il cinema ci abitua a non usare l'intelletto. E’ l'assoluto nontrionfo della ragione. Quindi vendere l'anima per l'uomo contemporaneo non è più importante: il nostro tempo è fondato sugli affari fasulli, sulla vendita al limite della truffa delle cose inesistenti. Ecco, vendere l'anima, oggi, è una truffa perché il capitale è inesistente. Figuriamoci se ci possono essere dei poveri diavoli interessati a comprare una cosa inesistente...».
Gli uomini politici sembrano i più propensi a quel tipo di affare, per loro vendere l'anima può vuol dire restare a galla. E' d'accordo?
«Indubbiamente gli uomini di potere farebbero di tutto. Ma hanno un'anima? Hanno la cultura che permette all'anima di sopravvivere, di pulsare dentro l'uomo? Mi chiedo spesso se quelli che noi definiamo "potenti" siano persone potenti nello spirito, se hanno il tempo per la cultura. Tutto quello che sta accadendo oggi sembra dimostrare che non conoscono il valore della cultura. Non possono quindi conoscere il valore dell'anima. O non tratterebbero così la cultura che ha bisogno di sostegno».
La fede religiosa è ancora un'arma fondamentale per proteggersi dalle tentazioni di Mefistofele?
«Il mio Mefistofele non è un diavolo, è un usuraio. Non fa nulla di sovrannaturale. Nulla che non si possa rivelare come abilità di un bravo giocoliere. Il male non è sovrannaturale. Lo si crede tale in una società moralmente degradata e forse in Russia siamo messi peggio che in Europa, il degrado sembra irreversibile. Cosa si può fare? È necessario un cambio delle priorità, comprendere cosa significa la cultura. Perché solo la cultura può allontanare un popolo dallo stato selvaggio. Non basta la religione. Non ci sono altri fili se non quelli della cultura che possano legare la gente al bene e all' amore verso il prossimo».
Con il suo film, a Venezia, ha vinto l'arte nella sua accezione più completa. Secondo lei il cinema deve prima di tutto essere espressione artistica, e perché?
«Grazie per questa definizione. Che dire? Sono in difficoltà perché non considero il cinema la settima arte, non è ancora arrivato alla maestria della pittura, alla forza della musica, alla potenza della letteratura».
Il suo non è un film facile, che cosa chiede al pubblico che lo andrà a vedere?
«Forse di legare questo film all'intera tetralogia. Sarebbe troppo? Sono comunque molto grato ad ogni spettatore per il tempo che spenderà a vedere il mio film, per il lavoro della comprensione».
E' vero che la prima telefonata di auguri dopo la vittoria è stata quella di Putin? Che cosa vi siete detti?
«Sì, non abbiamo parlato a lungo. Ho ribadito subito che questo Leone significa che si deve imperversare nella lotta per il sostegno del cinema che, a causa di gretti interessi economici, rischia di scomparire. La mia responsabilità come artista è fare un film dignitoso, quella dei potenti è difendere la cultura. Durante la premiazione mi sono dimenticato di ringraziare il presidente di giuria Aronofsky, il suo discorso mi aveva colpito e commosso, e non sono riuscito a stringere la mano neanche ad altri membri della giuria, ero stanco e stordito. Mi dispiace. Mi hanno portato l’ultimo film di Mario Martone, lo guarderò, e approfitto ora per ringraziarlo, insieme all'attrice italiana, Alba Rohrwacher, un viso delicato che mi ha incuriosito molto».
Ha girato in Islanda. Perché?
«Avevo visitato l’Islanda diverse volte, ammiro quel paesaggio austero. Mi sembrava il più adatto per il film. In Islanda regna un’atmosfera visuale particolare. L'ostilità della natura spoglia che irrompe con la forza dell'acqua dei geiser, quella nebbiolina acquosa dei vapori, quella luce, era l'ambiente giusto».
Sta già lavorando al suo prossimo progetto?
«Sto preparando un documentario sull' occupazione tedesca del Louvre, a novembre andrò a Parigi. Sto anche preparando un documentario in Russia, e sto riflettendo sul prossimo lungometraggio, forse da fare in Italia...».
Una volta ha dichiarato che le piacerebbe girare una versione cinematografica della Divina Commedia. E' ancora così, e perchè?
«Ci sto pensando da anni. Per noi russi la letteratura europea ha avuto un ruolo fondamentale per la comprensione del "vecchio mondo", ci ha dato l'idea di quella profondità e delle radici del pensiero europeo. Pensare che Dante aveva affrontato temi così profondi già allora, mentre in Russia non avevamo ancora la letteratura come tale... E’ uno dei libri più grandi da cui imparare. Parlo non della dimensione politica ma della ricerca nell'animo umano, mi eccita molto l'idea di metterlo sullo schermo. Rigorosamente in italiano. Mi chiedo come mai nessun regista italiano l'abbia fatto già».

venerdì 7 ottobre 2011

l’Unità 7.10.11
Tre milioni in nero
Camusso: dobbiamo tornare alle regole
Ai funerali i sindacati confederali e il Pd. La leader della Cgil: «Tutti responsabili se pensiamo sia normale lavorare per 4 euro l’ora»
I dati drammatici della Cgia sul sommerso: un esercito senza diritti
di I. Cim


«Questa è una delle più grandi stragi sul lavoro del Paese, quelle donne stavano lavorando in un luogo non idoneo. Non è che ci solleviamo se si tratta di cinesi e per gli altri non vale. Ora bisogna avere un grande rispetto per le vittime e le loro famiglie. Poi, dopo il dolore e l’attenzione alle famiglie, bisogna riflettere seriamente su come si fa a far ripartire un’economia legale in questa città, nel Mezzogiorno e in tutto il Paese».
Così il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, a Barletta per i funerali pubblici delle quattro operaie senza contratto, morte schiacciate dal palazzo crollato di via Roma. Con loro c’era anche la figlia 14enne del titolare della ditta. Nessun commento esplicito è giunto dal segretario generale sulle parole del sindaco Nicola Maffei, che non si era sentito di criminalizzare chi, pur di dare un lavoro, sottopagava gli operai. Il segretario generale, però, pur precisando che «non voglio interpretare né credo sia utile farlo», ha detto che «il tema della sicurezza sul lavoro va affrontato e non si può giustificare né l’evasione né il lavoro nero. Forse bisognerebbe ripartire e ricostruire certezza delle regole, luoghi. Questo mi pare il vero messaggio di questa giornata con tutto il rispetto ovviamente per tutte le famiglie e per il loro dolore».
Secondo i dati della Cgia, infatti, in Italia risultano lavoratori a nero quasi 3 milioni di persone, il che «dimostra che l’idea del Governo di contenere il fenomeno attraverso un aumento dei rapporti di lavoro flessibile è miseramente fallito», ha detto Cesare Damiano, capogruppo Pd in commissione Lavoro alla Camera. Secondo i dati della Cigl Puglia, invece, i lavoratori a nero risultano essere circa il 30% su un milione e 200mila impiegati. Tanti i motivi di questa diffusione del sommerso. Nella provincia Bat, per esempio, sarebbe stato l’avvento della concorrenza internazionale e, più in particolare cinese, a far fallire la filiera del tessile. Fino alla fine degli anni 90, infatti, Barletta era la capitale della produzione di abbigliamento. Ricche commesse da case di moda italiane avevano portato lavoro. Ha spiegato il segretario generale della Cisl, Raffale Bonanni, che «appena quindici anni fa Barletta aveva un sistema economico abbastanza florido e realizzava prodotti assolutamente apprezzati. Questi sono stati esposti alla concorrenza internazionale e non sono stati sorretti in Italia. Questo è il punto vero e su questo bisogna riflettere con molta forza da parte di tutti».
Quindi, sarebbe in parte la competizione con produttori più economici, alla base del sommerso. Un’idea da combattere, per il segretario generale Cgil, che afferma: «Accettare l’idea che si competa in questo modo ci porta a quelle condizioni. Invece dovremmo avere la forza e la capacità di competere meglio e di sapere che l’obiettivo è quello che altri non debbano più lavorare così e non che noi dobbiamo lavorare come loro».
La Guardia di Finanza, dunque, ha alzato il tiro e, su disposizione della Procura della Repubblica di Trani ha disposto una serie di controlli su larga scala. Da martedì infatti ci sono accertamenti a tappeto in tutti i maglifici di Barletta, al fine di stanare chi si serve di manodopera a nero e sottopagata. Inoltre accertamenti sono in corso per identificare l’esatto numero di “micro-maglieri” abusive disseminate in tutte la città e concentrate in strutture fatiscenti, per sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine.

l’Unità 7.10.11
Domani la manifestazione nazionale contro la manovra del governo
Stipendi ridotti di 10mila euro in 4 anni. E i precari pagano di più
Tagli a scuola, sanità, servizi pubblici
La Cgil scende in piazza
Da piazza della Repubblica il corteo sfilerà fino a piazza del Popolo, contro i tagli all’istruzione, sanità e servizi. Sul palco Susanna Camusso e i segretari di Flc e Fp, insieme ai precari del pubblico impiego
di Alessandra Rubetti


In piazza contro i tagli contenuti nella manovra del governo che si abbattono sul settore pubblico. Non solo per difendere gli stipendi di insegnanti, medici, infermieri, per ridare un futuro alla ricerca ma, soprattutto, per gridare che il «pubblico è futuro», come recita lo slogan che dà il titolo alla manifestazione nazionale dei lavoratori pubblici e della conoscenza organizzata per domani dalla Cgil. Appuntamento alle 14 in piazza della Repubblica, per sfilare fino a piazza del Popolo. Sul palco, insieme a Susanna Camusso, ci saranno i segretari della Flc e della Fp, Mimmo Pantaleo e Rossana Dettori, e poi, anche lì, alcuni precari. Quei lavoratori senza certezze quelli colpiti con più ferocia dalle scelte economiche degli ultimi anni che marceranno nel cuore del corteo.
«Avevamo detto che la manovra era iniqua, sbagliata e con carattere depressivo. E i fatti ci stanno dando ragione. Gli atti del governo dimostrano un particolare accanimento verso tutto ciò che è pubblico e in particolare per i lavoratori della pubblica amministrazione e per i precari», ha ricordato ieri il segretario confederale della Cgil Fulvio Fammoni, alla conferenza stampa per presentare la mobilitazione. Una «manifestazione per la democrazia», come la definisce Pantaleo, perché «senza il servizio pubblico sei privato dei tuoi diritti» così recita lo slogan sui manifesti in giro per Roma e con la quale «vogliamo spiegare che la manovra del governo colpisce tutti i cittadini, che in ogni caso faranno le spese della riduzione dei servizi pubblici», annota Dettori.
I dati forniti ieri dal sindacato di Corso d’Italia parlano di quali saranno gli effetti dell’ultima manovra, sommati a quelli delle politiche economiche di questo governo dal 2008 in poi. Il risultato è che, a causa del blocco dei rinnovi dei contratti nazionali, nei prossimi quattro anni un insegnante di scuola media con più di 20 anni di servizio perderà circa 9 mila euro, un professore universitario 14.760 euro. Se a questo si aggiungono gli effetti della riduzione del salario accessorio, in media nella scuola e nella pubblica amministrazione la mannaia del centrodestra produrrà delle perdite sul reddito che andranno oltre i 10mila euro.
«Il governo dice di non aver messo le mani in tasca ai cittadini, ma non è affatto vero», contesta Dettori, citando le due ultime finanziarie, per una riduzione complessiva del 53 percento sui finanziamenti destinati a enti locali, regioni e sanità. A ciò si affianca la decisione di dimezzare la spesa per il personale del pubblico impiego, che si traduce in «licenziamenti occulti», ovvero in contratti precari non più rinnovati: così 31 mila precari sono già rimasti a casa e a loro se dovranno aggiungere altri 40 mila. «L’emorragia di risorse non riguarda solo i lavoratori. La scuola ha perso 8 miliardi. Il diritto all’istruzione non è più garantito», contesta Pantaleo, chiedendo che si torni a investire su scuola, università e ricerca, secondo formule diametralmente opposte a quelle indicate dal governo e dalla Bce per uscire dalla crisi.
«Anche il blocco del Tfr: è stato deciso solo per i dipendenti pubblici», sottolinea Rossana Dettori, «è evidente che c’è un problema di disparità. Gli unici cui il governo ha messo le mani in tasca sono i lavoratori pubblici. Il vero obiettivo è la riduzione degli spazi pubblici, che va a intaccare il diritto alla formazione, alla salute, al lavoro».
E se per domani la Cgil si prepara a una protesta ad alta partecipazione, con pullman in arrivo da tutta Italia da Imola fanno sapere che sbarcheranno a Roma con alla mano una raccolta di firme per chiedere la patrimoniale, e intanto anche Sel aderisce alla manifestazione la Cisl convoca per il 12 ottobre gli stati generali del pubblico impiego, lanciando la mobilitazione degli statali.

l’Unità 7.10.11
Intervista a Enrico Panini
«Mobilitazione per stringere alleanze per il Paese»
Oltre gli indignados «Per risolvere i problemi dell’Italia serve riscoprirne la dimensione collettiva. Il pubblico è garante di democrazia»
di Luigina Venturelli


La parola d’ordine scelta per la manifestazione recita «Pubblico è futuro». E sullo striscione d’apertura del corteo si legge «Un paese senza memoria è un paese senza futuro». Parole d’ampio respiro politico. Inadatte ad una rivendicazione sindacale in senso stretto. Enrico Panini, responsabile organizzazione della Cgil, perché la manifestazione di domani non sarà una semplice protesta di categoria?
«In piazza scenderanno i lavoratori del pubblico impiego e della conoscenza, i più colpiti dalle manovre di questo governo, che nei loro confronti ha condotto una vera e propria vendetta ideologica per quello che rappresentano: il pubblico come garante bene di tutti, sfera di diritti collettivi, ambito dal quale sono passati negli anni i più importanti avanzamenti sociali di questo paese. Basti pensare alle riforme del sistema sanitario e al loro impatto sulla salute di tutti i cittadini o sui diritti delle donne, basti pensare alla scuola pubblica e alle conquiste dell’istruzione di massa per la crescita sociale e culturale dell’Italia». Sembrano passati secoli.
«Per questo quella di domani sarà una grande manifestazione di popolo: perché il pubblico, in ultima analisi, è garante della democrazia. In arrivo nella capitale ci sono seicento pullman e due treni speciali, saranno presenti lavoratori di altre categorie, ma anche studenti, famiglie con figli in età scolare, movimenti in difesa dei diritti del malato e molte altre associazioni. Il disegno di questo governo è privatizzare tutto il possibile fino a lasciare solo uno Stato minimo, caritatevole, che si occupi dello stretto bisogno per le fasce più deboli, lasciando che per tutto il resto il censo funzioni come elemento regolatore dei diritti di uomini e donne. Un vero e proprio stravolgimento della nostra Costituzione».
Prima lo sciopero generale del 6 settembre, poi la protesta dei pensionati e la manifestazione per il lavoro a dicembre. Qual è il senso di questa lunga stagione di protesta? E quale la diversità rispetto ai tanti indignados? «L’iniziativa della Cgil vuole essere un presidio di democrazia, fare da collante tra le diverse parti della società, fonte di alleanze nel paese. Per affrontare davvero i problemi dell’Italia bisogna riscoprirne la dimensione collettiva, ritrovare le ragioni per stare insieme, ed uscire dalle rivendicazioni mie o tue che animano tante proteste di questa fase storica».
Si tratta di riparare danni di lungo periodo.
«Il liberismo e il berlusconismo hanno cercato in ogni modo di ridurre lo spazio delle forme di intermediazione e rappresentanza sociale per arrivare all’estrema semplificazione che contrappone un leader a un popolo anonimo. E che nulla c’entra con la democrazia ampia ed articolata disegnata dalla nostra Costituzione».
È questo l’obiettivo dell’iniziativa Cgil? Riparare i danni?
«L’obiettivo primario è rispondere alle tante domande insolute di un Paese che per buona parte si è impoverito drammaticamente mentre l’altra si arricchiva, anche grazie all’evasione fiscale. Per questo la Cgil ha presentato una serie di rivendicazioni e proposte programmatiche per modificare i rapporti di forza nel Paese ed intraprendere un percorso di crescita su binari completamente diversi da quelli che ci hanno portato a questa crisi».
Nel merito?
«Per trovare risorse economiche nel breve periodo proponiamo un intervento sui grandi patrimoni e una stretta contro l’evasione, ma nel medio e lungo periodo servono misure per crescere: un piano straordinario per l’occupazione giovanile, investimenti nel pubblico, nel sapere e nella ricerca oggi ridotta la lumicino. Per ora saranno i precari della conoscenza e dei comparti pubblici a pagare questa crisi con l’espulsione dal lavoro. Quegli stessi giovani su cui invece dovremmo puntare per l’ammodernamento del sistema».
Non vi sentite soli in questa lotta? Quali spazi ci sono per costruire iniziative comuni con Cisl e Uil e, magari, un nuovo patto sociale? «L’intesa del 28 giugno sul modello contrattuale e la scelta di Confindustria di non applicare l’articolo 8 della manovra rappresentano passi importanti. Ma al momento, in questa fase politica, non vedo le condizioni per una condivision

l’Unità 7.10.11
Il relatore Costa al lavoro per allargare il consenso. Il numero di Wikipedia: il testo è un’idiozia
Bersani: «È un problema che va affrontato, ma le ricette sono totalmente sbagliate»
Intercettazioni si va verso la fiducia Pd: «Colpo di mano»
Berlusconi è categorico: bisogna andare avanti con il disegno di legge sulle intercettazioni e poi completare la riforma della giustizia. L’Aula della Camera inizia l’esame del testo, che slitta alla prossima settimana
di Pino Stoppon


Silvio Berlusconi è categorico: bisogna andare avanti con il disegno di legge sulle intercettazioni e poi completare la riforma della giustizia. L'Aula della Camera inizia l'esame del testo, che slitta alla prossima settimana quando, dopo l'esame della nota di variazione al Def, si proseguirà con la discussione sul complesso degli emendamenti. Ieri, infatti, non si è votato nessuno degli emendamenti malgrado il governo avesse fatto convocare in aula tutti i suoi deputati «senza eccezione alcuna» per evitare imboscate dell'opposizione. Il nuovo relatore Enrico Costa (Pdl) è al lavoro per allargare il consenso sul testo, ma il governo valuta l'ipotesi di porre la fiducia sul disegno di legge che è duramente contestato dalle opposizioni.
Un'ipotesi, quella di blindare il provvedimento, su cui però nel Pdl non tutti sono d'accordo. A partire dai Cristiano-popolari di Mario Baccini fino a Francesco Pionati, di Adc, i quali consigliano «grande prudenza sull'uso della fiducia per puntare invece ad una riforma il più possibile condivisa» della disciplina degli ascolti telefonici. Secondo Umberto Bossi, il provvedimento sulle intercettazioni «passa anche senza la fiducia». «Il ddl sostiene il Senatur serve a far diventare il nostro paese normale, perché le intercettazioni sono usate indipendentemente dai processi». Ma il Pd continua la sua battaglia rinnovando l'invito al governo a ritirare il provvedimento: «L'annunciato ricorso alla fiducia sarebbe l'unico escamotage per nascondere la debolezza della maggioranza», sostiene Donatella Ferranti che si appella alla Lega perché» valuti i rischi per la sicurezza determinati dalla legge». D'altra parte, Giuseppe Pisanu, uno dei «malpancisti» del Pdl, sostiene che le intercettazioni sono «un problema secondario rispetto alla drammaticità della crisi economica», auspicando una soluzione «sulla linea del compromesso che si era raggiunto in commissione giustizia che evitava gli abusi ma garantiva la tutela di questo strumento per le indagini e la libertà di informazione». Un concetto molto simile a quello di Vannino Chiti del Pd, secondo cui le intercettazioni «sono solo la priorità di Berlusconi».
Il leader dei Democratici, Pier Luigi Bersani, denuncia un «colpo di mano», sottolineando che quello delle intercettazioni «è un problema che va affrontato, ma le ricette sono totalmente sbagliate». Duro è Italo Bocchino di Fli: «Non possiamo permettere che la stampa venga imbavagliata. Se la maggioranza vuole proseguire con questo scempio, noi ci opporremo per il bene dell'informazione e del diritto degli italiani di essere informati». Contestazioni su cui fa muro il Pdl. «Qui non si vuole salvaguardare il diritto di cronaca ed informazione bensì si vuole garantire l'assoluta anarchia ed un vero e proprio far west», tuona in Aula Luigi Vitali, mentre in Senato il Pdl presenta un'interrogazione in cui viene denunciata una «lesione grave e continuativa del diritto di difesa costituzionalmente sancito», nelle procure di Milano e Napoli, citando i processi Mills, Mediaset, Ruby, i casi Lavitola-Tarantini e quello di Alfonso Papa. Sull’argomento interviene anche il numero uno di Wikipedia Jimmy Wales: «È una legge idiota che infligge un duro colpo alla libertà di espressione». Sulla stessa lunghezza d’onda anche il settimanale inglese The Economist. Il disegno di legge, è scritto nell’ultimo numero, voluto da Berlusconi appare come «un ultima coltellata» che, «piuttosto che proteggere le libertà civili, limita la libertà di espressione dei media».

il Fatto 7.10.11
Le verità da non pubblicare
di Caterina Malavenda


Che il Parlamento voglia intervenire sulle intercettazioni e sulla loro divulgazione non v'è dubbio. Sul testo che verrà sottoposto all'approvazione della Camera, invece, regna sovrana l'incertezza, vista la possibilità per il governo di apportare modifiche in corso d'opera. Quel che si sa del progetto basta, però, per individuare gli obiettivi che il disegno di legge n. 1451-c si prefigge di raggiungere, con le sostanziali modifiche apportate alle norme attualmente vigenti. E si tratta di obiettivi in parte condivisibili, poiché si intende tutelare chi, estraneo alle indagini, finisce prima nei brogliacci e poi nelle trascrizioni di conversazioni, certamente irrilevanti e non solo per le indagini, pubblicate a volte con troppa leggerezza.
 DETTO QUESTO, però, il rimedio non può essere certo la compressione assoluta della libertà di raccontare vicende di evidente interesse pubblico, attraverso la diffusione di conversazioni non più segrete. Anche quelle prive di rilevanza penale, stralciate e riposte in un archivio inaccessibile, siccome inutili per le indagini, possono fornire, infatti, elementi preziosi per la compiuta formazione dell'opinione pubblica, come recenti vicende stanno lì a dimostrare. Non basta. Se sarà approvato il testo uscito dalla Commissione Giustizia, così come emendato, ad esempio, occorrerà attendere un tempo insopportabilmente lungo – fino a 50 giorni se va bene, trattandosi di termine non perentorio e la cui violazione rimane priva di conseguenze processuali – anche per poter conoscere i presupposti di un'ordinanza di custodia cautelare, specie qualora essa si basi, essenzialmente, sul contenuto di intercettazioni telefoniche o ambientali. Anche nel caso in cui interi brani fossero trascritti dal Gip nell'atto, notificato all'indagato al momento dell'arresto e, quindi, non più segreti ed evidentemente rilevanti per l'emissione della misura, il giornalista dovrà astenersi dal farne parola fino a quando un collegio, composto da altri tre giudici – o forse uno, secondo un emendamento totalmente condivisibile – già incaricato di autorizzarle, non abbia deciso che quelle intercettazioni sono davvero rilevanti per le indagini.
 Stesso iter per le intercettazioni che vengano messe a disposizione delle parti, alla fine delle operazioni o, più spesso, alla conclusione delle indagini preliminari, così perdendo la segretezza che le ha caratterizzate fino a quel momento. Brogliacci, files e trascrizioni di cui l'indagato può disporre, potranno essere pubblicati in sintesi solo all'esito della oramai famosa udienza filtro, da tenersi entro e non oltre 45 giorni dopo che le parti avranno finito di esaminarli. Il termine sarà ulteriormente dilatato, ove il collegio decidesse di far trascrivere le conversazioni, prima di valutarle. Ovviamente i giornalisti, che avranno potuto leggere l'intero materiale, quando sarà loro concesso, dovranno limitarsi a parlare solo delle conversazioni che saranno risultate non manifestamente irrilevanti, espunti comunque fatti, circostanze e persone estranei alle indagini, anche se non lo sono alla cronaca. Diverranno, invece, ad insindacabile giudizio del collegio, inaccessibili fino a nuovo ordine, che potrà non arrivare mai, tutte le altre conversazioni, con una limitazione intollerabile del diritto di informare e di essere informati anche su ciò che è estraneo al codice penale. Ancora una chicca: se il magistrato che conduce le indagini non può rilasciare dichiarazioni sul suo procedimento, il giornalista che ne pubblica il nome o l'immagine commette un reato del quale risponde economicamente anche l'editore.
 Ciò a meno che, ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca, non risulti impossibile separare l'immagine del magistrato dalla “rappresentazione dell'avvenimento”. Una buona e una (apparente) cattiva notizia, per chiudere. La buona: gli editori sono stati esonerati dalla responsabilità amministrativa, derivante dalla pubblicazione di atti ed intercettazioni, essendo tenuti a pagare quote piuttosto importanti solo nel caso in cui si tratti di intercettazioni illegali o di quelle stralciate, perchè irrilevanti. Se a pensar male si indovina è possibile che ciò dipenda dall'incessante lavorìo delle lobbyes o dalla volontà di rompere il fronte che si oppone alla promulgazione della legge. Il risultato non va sottovalutato: l'editore non avrà più motivi per interferire sulle decisioni di direttore e giornalisti che, rispettando i divieti più seri e ragionevoli, potranno decidere cosa pubblicare, rispondendone direttamente e mettendo in gioco, in caso di probabile inasprimento delle pene, quella libertà, in nome della quale avranno violato la legge.
 LA CATTIVA: ancora ieri si parlava di carcere per i giornalisti, ipotesi al momento non ancora all'ordine del giorno, ma da non escludere. Forse non è questa l'intenzione, ma potrebbe aiutare ad uscire dall'equivoco: oggi i processi per pubblicazione arbitraria di atti di indagine possono essere definiti pagando una somma irrisoria che, nel disegno di legge, viene drasticamente aumentata, passando da 125 a 2.500 euro o a 5000 euro, se si tratta di intercettazioni. Chi può permetterselo potrebbe ancora decidere di rischiare, a scapito di chi, per denaro, dovrà rinunciare. Eliminando questa possibilità e prevedendo il carcere, resta in gioco solo la libertà personale, quella libertà che ciascun giornalista potrà decidere di mettere a repentaglio, se davvero crederà che ne valga la pena.

il Fatto 7.10.11
Assalto finale alla Giustizia
di Gian Carlo Caselli


A furia di ripeterle anche le balle finiscono per sembrare vere e, tuttavia, non si può abdicare al dovere di ragionare. Ragionando, si vedrà che l’intervento giudiziario è in espansione in tutti i sistemi democratici. Ovunque esso crea frizioni con il potere politico, fino a turbare destini di governi. Gli esempi che si possono fare sono infiniti. Eccone alcuni: Clinton è stato processato perché una previdente stagista aveva conservato una certa macchia sul suo abito; la prima elezione di Bush è stata decisa da un giudice della Florida; l’ex primo ministro De Villepin è stato coinvolto in un affare di tangenti per alcune fregate vendute a Taiwan ; in Israele il presidente della Repubblica Katsav si è dimesso (prima ancora della condanna) perché accusato di molestie sessuali.
 SIAMO DUNQUE di fronte a un fenomeno che ha dimensioni oggettive, non riconducibile a mere forzature soggettive. Il caso italiano non fa eccezione, ma presenta una specificità che lo rende anomalo: il magistrato che tocca certi interessi deve mettere in conto che potrà subire un’aggressione, fatta di insulti (fresco di giornata quello che nella giustizia penale ci sono schegge impazzite che puntano all’eversione) e di ostacoli vari frapposti alla sua azione. Un accerchiamento che si risolve in un sostanziale rifiuto della giurisdizione o nel tentativo di piegarla ad interessi di parte. È questo il quadro che finiscono per disegnare alcune iniziative dell’attuale maggioranza in tema di giustizia (e si fa per dire: perché in realtà si tratta di interventi che hanno nel mirino il sereno esercizio della giurisdizione, mentre poco o nulla si continua a fare per la giustizia vera e propria, cioè per un miglior funzionamento del sistema). Il premier e i suoi epigoni (condizionati dall’ossessione del primo per i suoi problemi giudiziari) sfornano a ripetizione interventi che vanno appunto nella direzione dell’accerchiamento. Un giorno si parla di “processo breve”, ma tutti capiscono che l’obiettivo è far svanire – fra i tanti – due noti processi per frode fiscale e corruzione in atti giudiziari. Il giorno dopo si parla di “processo lungo”, con una tendenza preoccupante alla schizofrenia e comunque mettendo in cantiere un progetto assurdo visti i tempi biblici della giustizia, ma utile a far precipitare altri processi “eccellenti” nel baratro della prescrizione. Poi c’è la riforma delle intercettazioni, che mentre impedisce di conoscere i vizi (pubblici o privati) di chi non ama troppi controlli, riduce pesantemente i poteri di indagine della magistratura. Come se ai medici si togliessero le radiografie, indispensabili – come le intercettazioni – per scoprire mali che altrimenti resterebbero nascosti.
 SULLO SFONDO la tempesta delle polemiche scatenate senza sosta contro i giudici. A partire dal colore turchese dei loro calzini. Proseguendo con gli ammonimenti a non parlare troppo disinvoltamente di giustizia (in un paese in cui tutti ne parlano, spesso con toni da bar dello sport): mentre proprio le asprezze della stagione richiedono ai magistrati la “parola” (che è un diritto, ma anche un contributo potenzialmente utile per una giustizia migliore). Per finire con la litania degli errori giudiziari che nessuno mai paga, quando si tratta non di errori ma di divergenze di valutazione fra le diverse fasi del giudizio. Divergenze (per quanto capaci di destare enorme scalpore) che di regola restano “fisiologiche”: salvo preferire un sistema come quello nordamericano – assai meno garantista del nostro – dove la condanna dell’imputato è decisa da una giuria popolare con un semplice bigliettino su cui sta scritto “guilty” (colpevole), senza nessuna motivazione e senza nessun controllo da parte di un altro giudice (l’appello non è ammesso, salvo che per specifiche questioni di procedura). Dunque delle due l’una: o si esclude anche da noi l’appello (così scompariranno gli “errori”, perché diventa impossibile il contrasto di giudizi) oppure, fermo restando il diritto di criticare tutte le sentenze, non si prendano più a pretesto dolorosissime vicende per agganciarvi attacchi al modo stesso di esercitare la giurisdizione, posto che le divergenze sono connaturate (“fisiologiche”) a un sistema articolato su più fasi. Invece, in Italia si registrano persino tentativi della maggioranza per ottenere dai giudici una certa interpretazione della legge o per sostituirsi a essi nell’interpretazione, rendendo così l’accerchiamento sempre più stretto e soffocante.

Corriere della Sera 7.10.11
Letta e Franceschini vicini alla minoranza
Ma il tempo gioca a favore di Bersani
di Maria Teresa Meli


ROMA — Come nella migliore tradizione, nel Pd ufficialmente negano tutti divisioni e difficoltà. Ma è dalla riunione di direzione del 3 ottobre scorso che qualcosa è cambiato. E che la maggioranza su cui poteva fare affidamento Bersani si è andata assottigliando. Enrico Letta si è sfilato in nome della linea dettata dalla Bce. Franceschini ha marcato le distanze sul referendum e sugli scenari futuri: lui è favorevole a un governo di transizione, il leader continua a dire che quello «non è il progetto del Pd».
Non è un caso, dunque, che Letta e Franceschini abbiano deciso di partecipare all'assemblea nazionale dei Modem, che si terrà a Roma lunedì prossimo. Su Bce ed esecutivo d'emergenza Veltroni, Fioroni e Gentiloni — i tre «big» della minoranza interna — la pensano esattamente come il vicesegretario e il capogruppo.
I movimenti dentro il suo partito non sfuggono a Bersani. Del resto, Veltroni non ha fatto niente per nascondere il suo pranzo, martedì, con Franceschini, né i suoi frequenti «pour parler» con Letta. Com'era sotto gli occhi di tutti la battaglia dell'altro giorno all'Anci, dove il candidato ufficiale del segretario, Michele Emiliano, è stato impallinato dai sindaci delle due regioni rosse per eccellenza. Ossia l'Emilia Romagna (che, peraltro, è la «patria» di Bersani) e la Toscana.
Con il segretario, in questo momento, c'è solo la maggioranza dura e pura composta da bersaniani e dalemiani. E neanche da tutti, perché i quarantenni mostrano una certa inquietudine. Ma anche se in questa fase Bersani può contare su numeri risicati, e se mai come in questi giorni appare in difficoltà, le porte per lui sono tutt'altro che chiuse. Ci sono due elementi che giocano in suo favore.
Innanzitutto il tempo. Per mandare in porto l'operazione che hanno in mente, infatti, i leader della minoranza interna hanno bisogno di arrivare alle elezioni nel 2013. Altrimenti, come ha ammesso Fioroni, «salta tutto». E quel che dovrebbe saltare è il tentativo sia di evitare un'alleanza stretta con Idv e Sel che di sostituire a Bersani un altro candidato premier. Il nome su cui si punta è quello di Matteo Renzi. Veltroni, infatti, non nutre più mire su quel ruolo. Piuttosto, vuole ritagliarsi uno spazio da «king maker». Anche Rosy Bindi, del resto, un'altra che punta a candidarsi come premier, ha bisogno di un orizzonte che non si fermi al 2012. Ma il tempo rischia di essere ben più esiguo. Il governo di transizione, infatti, sembra un'ipotesi più che mai tramontata: se cade Berlusconi, ci sono solo le elezioni. Così è stato interpretato al Pd il riferimento di Napolitano a Pella: il suo governo è stato quanto di più lontano dall'esecutivo di transizione guidato da Mario Monti di cui si è parlato ultimamente. E con il voto a breve termine il segretario diventa il candidato premier più probabile, benché Gentiloni continui a dire che «non è detto che sia Bersani nemmeno nel 2012».
L'altro elemento in favore del segretario è costituito dalla sponda dell'Udc: anche Pier Ferdinando Casini preferisce le elezioni anticipate. All'indomani del voto, infatti, il leader centrista diventerebbe determinante, con un esecutivo di transizione, invece, perderebbe quasi ogni margine di manovra. E Bersani ha già detto che in caso di vittoria elettorale, dopo chiederebbe comunque la «collaborazione con l'Udc». Il cui gran capo, potrebbe ottenere in cambio il Quirinale.

Repubblica 7.10.11
Il ritorno della sinistra
di Alessandra Longo


Forse la sinistra sta per tornare di moda. La previsione è di Carlo Freccero, il cui saggio è stato pubblicato su Alternative per il socialismo, la rivista di Fausto Bertinotti. Scrive Freccero: «Diceva Andy Warhol che chi ha avuto successo una volta, ed è in grado di conservarsi nel tempo fedele alla sua identità, prima o poi avrà modo di tornare di moda». E allora ecco spiegato il perché del possibile ritorno della «gauche»: «Nel trentennio che ci siamo lasciati alle spalle la sinistra ha ostinatamente rifiutato di accettare i cambiamenti della postmodernità». Insomma, «si è conservata ostinatamente anacronistica, ha mantenuto un realismo da prima rivoluzione industriale, e perciò rischia oggi di essere attuale». Messa così, precisa Freccero, «non è un complimento».

l’Unità 7.10.11
Dodicimila persone scadute e clandestine «Il governo che fa?»
Finiti i 6 mesi concessi agli immigrati dal Nordafrica in rivolta
Non tutti sono scappati in Europa, come sperava Maroni
di Felice Diotallevi


È scaduto il tempo per loro. Sono gli 11 mila e ottocento immigrati che fuggirono dal Nordafrica ai tempi dell’ondata rivoluzionaria, fra l’inverno e la primavera scorsa. Si decise di fare loro un permesso provvisorio, di sei mesi, a partire dal 7 aprile. Oggi termina. Questa la legge. Questo il decreto che fu firmato dalla presidenza del consiglio per contrastare l’emergenza di Lampedusa. L’isola mediterranea stava esplodendo. L’Italia si rimpallava con l’Europa e con gli stati africani le responsabilità. Poi il decreto e i permessi a tempo determinato. E solo «per i cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa affluiti nel territorio nazionale dal 1 ̊ gennaio 2011 fino alla mezzanotte del 5 aprile 2011». Nessuna proroga è annunciata e così le associazioni che accolgono i migranti si troveranno a breve a ospitare irregolari. Arci, Caritas e Asgi infatti si allarmano e chiedono al governo di «muoversi».
Le intenzioni “soperte” del governo erano semplici: una mini sanatoria a tempo avrebbe certamente invogliato gli immigrati a darsi alla fuga verso altri paesi. Chi subito, chi dopo. Tutti comunque prima dei sei mesi. Ai permessi infatti era stata data validità per attraversare le frontiere di Schengen e circolare liberamente in Europa. Ma le restrizioni delle autorità francesi le battaglie a Ventimiglia hanno fatto sì che molti dei migranti siano rimasti in Italia. La Protezione civile quantifica questo “resto” in 11.800 persone. Profughi libici e migranti tunisini. I tunisini coi permessi in scadenza, così come i profughi provenienti dalla Libia e in attesa della procedura di riconoscimento dell'asilo, sono ospitati presso strutture pubbliche e associazioni. Attualmente sono distribuiti in tutte le regioni italiane, con l'eccezione dell'Abruzzo ancora impegnato ad assistere i cittadini colpiti dal terremoto e per questo escluso dal piano di assistenza della Protezione civile 1.
Di fatto, queste persone da oggi saranno clandestine. Cosa accadrà?
Dai volontari della Caritas veneziana, all'Arci di Genova, per arrivare agli avvocato dell'Associazione di studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) arriva un campanello d'allarme: «Siamo di fronte a una situazione assurda: i permessi di soggiorno sono in scadenza e non c'è nessuna presa di posizione da parte del governo». A Bologna si chiede esplicitamente il rinnovo dei documenti: a chiederlo al Governo, associandosi alla campagna promossa dalle associazioni Ya basta e Al Sirat, è la Camera del lavoro del capoluogo emiliano. «Siamo fermamente convinti che queste persone, al pari degli altri hanno diritto a vivere nella regolarità e nella legalità e che l'ingresso nella clandestinità debba essere in tutti i modi evitato», scrive in una nota Anna Rosa Rossi, responsabile delle politiche dell'immigrazione della Camera del lavoro. In quest'ottica, la Camera del lavoro darà il suo contributo nella raccolta fondi «Adotta un kit della dignità» proposta da Ya basta e Al Sirat.

«La raccomandazione a favore dello Stato palestinese ha raccolto all'Unesco 40 voti favorevoli su 58». Solo quattro Paesi hanno votato contro
l’Unità 7.10.11
Strasburgo Standing ovation dei 47 stati membri per il leader dell’Anp
Dialogo «Ma gli insediamenti israeliani sono un serio ostacolo alla pace»
Abu Mazen all’Europa «Vi chiedo di sostenere la primavera palestinese»
Mahmud Abbas conquista il Consiglio d’Europa. Grandi applausi accompagnano il discorso a Strasburgo del presidente palestinese. Che ha intascato anche l’appoggio dell’Unesco
di Umberto De Giovannangeli


Una standing ovation saluta il suo discorso. «Mahmud» conquista il Consiglio d’Europa. «Avete appoggiato la Primavera araba che chiedeva democrazia e libertà. Ora è arrivata anche la Primavera palestinese, che chiede libertà e la fine dell'occupazione. Ci meritiamo il vostro sostegno». Si rivolge così Mahmud Abbas (Abu Mazen) all' Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (Apce) a Strasburgo. «Pace, dialogo, convivenza civile, collaborazione, sicurezza», ripete più volte il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
APPELLO ACCORATO
I palestinesi vogliono solo vivere in pace e hanno fatto ogni sforzo per raggiungere questo obiettivo, rimarca Abu Mazen davanti ai rappresentanti dei 47 Stati membri del Consiglio d'Europa. Il presidente spiega che i palestinesi si sono sempre seduti con fiducia al tavolo dei negoziati, anche accettando, nonostante i dubbi, piani come la Road Map. Ma il nuovo governo israeliano «ora insiste per azzerare quanto sinora concordato per ripartire da zero e dà preminenza alla questione della sicurezza». E più volte è tornato sulla questione degli insediamenti israeliani che sono «un serio ostacolo per la pace». «Noi dimostreremo il potere che hanno le persone inermi di fronte ai proiettili e alle ruspe distruttrici», afferma Abu Mazen ricordando che come la «Primavera araba» voleva liberarsi dei dittatori quella palestinese chiede solo di liberarsi dell'occupazione israeliana. «Questo movimento resta pacifico nonostante tutte le provocazioni», assicura. La visita del leader dell’Anp arriva due giorni dopo che l'Apce ha reso il Consiglio nazionale palestinese (Cnp) un «partner per la democrazia» e ha espresso il suo sostegno alla domanda dei palestinesi davanti all' Onu. Sei membri del Consiglio d'Europa si riuniscono al Consiglio di sicurezza dell'Onu. Abu Mazen, che si esprimeva in arabo, ha a lungo giustificato la sua iniziativa alle Nazioni Unite, spiegando che le speranze dei palestinesi di avere il loro Stato sono state troppo a lungo deluse.
DIALOGO POSSIBILE
«Quanto tempo devono ancora attendere?», incalza. Di fronte al blocco dei negoziati con il governo israeliano, «la nostra alternativa è stata di rivolgerci alla Comunità internazionale e di invitarla ad aprire nuovi orizzonti per il processo di pace», ribadisce il raìs. Questo passo non è finalizzato «a isolare Israele», sottolinea, ribadendo di essere favorevole all'ultima proposta del Quartetto (Stati Uniti, Onu, Unione Europea e Russia) per la ripresa dei negoziati bloccati da oltre un anno. Ma ha ripetuto che la sospensione della colonizzazione è «una delle condizioni necessarie» per questa ripresa e si è rammaricato che «il governo di Netanyahu insiste per fissare nuove condizioni» impossibili. «La domanda che i palestinesi riconoscano Israele come uno Stato “ebraico” è una condizione preliminare inaccettabile, perchè c'è il pericolo che questo trasformi il conflitto che infuria nella nostra regione in un conflitto religioso», ha in particolare affermato Abu Mazen. Il presidente palestinese ha poi ribadito il suo rifiuto della violenza e del terrorismo malgrado «le numerose provocazioni da parte israeliana».
SUCCESSO ALL’UNESCO
Il pronunciamento dell’Assemblea del Consiglio d’Europa non è il solo successo diplomatico colto da Abu Mazen dopo il suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il consiglio esecutivo dell'Unesco, riunito a Parigi, ha approvato l’altro ieri una raccomandazione per attribuire alla Palestina lo statuto di Stato membro a tutti gli effetti. La raccomandazione a favore dello Stato palestinese ha raccolto all'Unesco 40 voti favorevoli su 58. Fonti vicine all'organizzazione delle Nazione Unite hanno precisato che quattro sono i Paesi ad aver votato contro, tra cui gli Stati Uniti, mentre 14 quelli che hanno scelto l'astensione, tra cui l'Italia, la Francia e la Spagna. La raccomandazione per attribuire allo stato palestinese lo statuto di Stato membro a tutti gli effetti, su iniziativa di un gruppo di Paesi arabi, sarà esaminata alla fine del mese durante la Conferenza generale dell'Unesco, che si terrà a Parigi dal 25 ottobre al 10 novembre prossimi.

Repubblica 7.10.11
Palestina, la battaglia dell’Unesco
L’organizzazione verso il pieno riconoscimento. Gli Usa insorgono: tagliamo i fondi
Israele teme che l’Anp chieda la protezione internazionale dei siti nei Territori
di Alberto Stabile


BEIRUT - È per lo meno dai tempi degli accordi di Oslo (1993) che l´autorità palestinese chiede, ogni due anni, in occasione della celebrazione del Consiglio generale dell´Unesco, il pieno il riconoscimento come membro effettivo dell´Agenzia delle Nazioni Unite preposta alla salvaguardia del patrimonio educativo, scientifico e culturale del mondo. La novità è che, mercoledì, per la prima volta, il comitato esecutivo dell´organizzazione ha deciso a maggioranza (ma con il voto contrario degli Stati Uniti) di portare la richiesta di full membership palestinese al voto del Consiglio generale che si riunirà dal 15 Ottobre al 10 Novembre, a Parigi. Una decisione che ha irritato Hillary Clinton e provocato le ire del Congresso a maggioranza repubblicana, al punto da minacciare d´interrompere il flusso dei finanziamenti americani all´Unesco, circa 250 milioni di dollari, ogni due anni.
Ma perché gli Stati Uniti, anche stavolta spalleggiati da Israele, si oppongono alla promozione dell´Autorità palestinese da "osservatore" a membro a pieno titolo dell´Unesco? La prima, ovvia risposta è che gli americani ritengono che la richiesta presentata all´Unesco non sia altro che una mossa per accentuare la pressione sul Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dopo che il tentativo dei palestinesi di vedersi riconoscere come Stato è stato in qualche modo indirizzato verso una sorta di labirinto burocratico.
Ma c´è un altro motivo che spinge israeliani e americani, a respingere il tentativo di riconoscimento avanzata dai palestinesi all´Unesco. I due alleati temono, in sostanza che una volta sancita la partecipazione a pieno titolo dei palestinesi all´Unesco, gli stessi potrebbero più agevolmente richiedere la protezione internazionale per quei luoghi di interesse archeologico, religioso e culturale che sorgono nei Territori occupati e, comunque, contesi e che sono attualmente sotto sovranità israeliana. In altri termini, la guerra dei siti come aspetto collaterale del più generale conflitto sulla terra.
Già un paio di anni fa il premier Netanyahu stupì il mondo includendo unilateralmente nel patrimonio cultuale israeliano siti quali la tomba di Rachele (Betlemme), la Tomba di Giuseppe (Nablus) e la moschea-sinagoga di Hebron (Mapela, o Grotta dei Patriarchi per gli ebrei, Al Haram al Khalil per i musulmani) che si trovano in zone tuttora al centro del conflitto. I palestinesi risposero stilando, in modo del pari unilaterale, un loro elenco di siti attestanti l´originalità del loro patrimonio nazionale e la loro titolarità sullo stesso. Ad aprire la lista era la città di Betlemme con al centro la Chiesa della Natività (VI Secolo). Seguiva poi la città vecchia di Hebron e la kasbah di Nablus gravemente danneggiata dalle incursioni israeliane durante la Seconda intifada, il sito romano di Sebastia, Tell al Suitan a Gerico e così via.
L´autorità palestinese celebrò quel passo come una vittoria, ma l´Unesco respinse la richiesta obbiettando che non poteva essere un "osservatore" a chiedere l´inclusione di un sito nel patrimonio mondiale, ma uno Stato membro. E´ del tutto evidente che quell´obiezione potrebbe essere travolta dall´imminente decisione del Consiglio generale dell´Agenzia.
Non c´era Gerusalemme nella lista preparata dai palestinesi, perché la Città santa e le sue mura appartengono al Patrimonio mondiale dell´Unesco sin dal 1982. Il che, però, non ha impedito ai progettisti della metropolitana di superficie di far passare la ferrovia a cinque metri, e forse, meno, dalle mura di Solimano il Magnifico. La città vecchia di Gerusalemme, resta, tuttavia, per i palestinesi non meno che per gli israeliani testimonianza viva della loro appartenenza.


il Fatto 7.10.11
Gli ultraortodossi e il rito (politico) dei polli redentori dello Yom Kippur
di Roberta Zunini


Gerusalemme. L’odore di pollame e sangue è nauseabondo. Soprattutto al mattino presto, dopo il cappuccino. I miasmi si sentono già dopo aver attraversato la green line – la linea teorica di demarcazione tracciata nel '48 dall'Onu per dividere Gerusalemme Ovest da Gerusalemme Est e Israele dalla Palestina. Ma a Mea Shearim, il quartiere degli Haredim, gli ebrei ultraortodossi, che durante lo shabbath, estate e inverno, camminano per Gerusalemme con un enorme cappello di pelo di volpe e il cappotto nero di feltro, in ricordo della lunga diaspora dei loro avi, nei ghiacciati Paesi dell'Est, gli odori, i gesti, la vita stessa, sono solo un pallido riverbero della realtà. Sono un mezzo per riconnettersi a Dio.
 IL GIORNO che precede la ricorrenza fondamentale, per tutti gli ebrei, di Yom Kippur – l'espiazione – nel quartiere dove vivono solo ed esclusivamente gli appartenenti a questa setta, è un lasso di tempo con un solo intermediario tra loro e Dio: un animale. Il pollo. E non vi è nulla di ironico. Questo animale, tra i più ordinari e prosaici del mondo, non solo occidentale, ha la funzione di assorbire tutti i peccati degli individui. È il motivo per cui lo fanno roteare sopra la testa e poi lo sgozzano. Appena entrati nei vicoli sporchi e maleodoranti del quartiere, ieri, in ogni angolo, abbiamo visto uomini e donne che cercano di asservire i polli al loro rituale di espiazione. Le donne però non lo possono fare da sole: il marito prende il pollo, la moglie si piega, abbassa la testa, coperta dal foulard a bandana, e fa roteare, come avesse un lazo in mano, il pollo sopra la sua testa. Sarà l'animale a risucchiare in sé tutti i suoi peccati. Quelli commessi nonostante le regole morali ferree, che scandiscono la vita degli Haredim. Nessuno vuole parlare con noi, anzi, siamo mal tollerati.
 Dopo aver assistito ad alcuni scorci questi riti, apparentemente squallidi, agli angoli delle vie, i cui balconi si toccano, in un promiscuità che non lascia nemmeno un istante di privacy alle famiglie composte da almeno 10 figli, un gruppo di bambini si avvicinano ad Alessio Romenzi, il fotografo che ha permesso al Fatto di entrare a Mea Shearim, con un foglio scritto in ebraico. Romenzi traduce: “Questa donna non ha la gonna adatta per stare qua”. Avevo sperato che la mia gonna pantalone fosse sufficiente per assistere al rito. Ma dopo circa un’ora un Haredim si è accorto che la mia gonna lunga fino ai piedi non era in realtà una gonna, bensì una gonna pantalone. I bambini, anche loro con un lungo paltò nero e uno zuccotto bianco in testa, partecipano al rito, più attratti dall'efferratezza dello sgozza-mento dei polli, che dal significato della loro morte cruenta.
 IN OGNI vicolo è stato allestito un bancone di legno dove una catena di ebrei macellai ultraortodossi, tagliano la gola ai polli e non appena scende la prima goccia di sangue, li infilano in buchi appositamente ricavati dalle tavole di legno. I bimbi si accalcano attorno i macellai e guardano, senza capire ma eccitati dagli starnazzamenti dei polli. Ricordano i riti dei nepalesi quando celebrano le loro cerimonie ai piedi dell'Everest . Ma qua la storia è andata diversamente e i riti sono diventati simboli di caparbietà e opposizione al mutamento della società israeliana.
 Niente è più distante dalla vita a Mea Shearim della quotidianità di Tel Aviv, dove Yom Kippur è solo un momento di raduno con la famiglia di origine. Un digiuno da condividere con i genitori, i fratelli e i nonni, se ancora sono vivi. Devo lasciare il quartiere, non c'è verso, ormai la mia gonna pantalone è un segno di oltraggio. Impedirei loro di purificarsi per il digiuno di oggi. Imbocco un vicolo e incontro un'altra coppia intenta a roteare i polli sulla testa dei loro 14 figli. Tutti insieme.
 RICORDANO un quadro di Bruegel, un momento di austera vita fiamminga. È difficile capire. Impossibile entrare in contatto con questo mondo fuori dal mondo. Ma, una cosa è certa, Yom Kippur è un momento fondamentale per la fede ebraica e non è difficile comprendere perchè nel 1973, Israele si fece sorprende, debole e senza difesa, dagli arabi. La guerra dello Yom Kippur è una data imprescindibile di questo popolo.

Repubblica 7.10.11
Perché la Turchia fa sognare il mondo arabo
di Bernard Guetta


È in Turchia che l´opposizione siriana è andata a radunarsi, nei giorni scorsi: le correnti politiche e religiose, i laici e gli islamisti, di destra e di sinistra - erano tutti lì; e non è certo a caso che hanno scelto Istanbul per annunciare la formazione della loro nuova organizzazione comune, il Consiglio nazionale siriano.
La Turchia fa sognare il mondo arabo, e affascina ogni giorno di più i popoli entrati in movimento dopo la rivoluzione tunisina, divenuta per loro un motivo di speranza, o anche un esempio da seguire. E non solo perché il suo tasso di crescita ha largamente superato quello della Cina nell´ultimo semestre, o perché la Turchia, quindicesima economia del mondo, è una delle potenze emergenti più dinamiche, ma anche e soprattutto perché a questo successo economico si accompagna un successo politico.
Governata da quasi un decennio da un partito islamista, l´Akp, che convertendosi alla democrazia è divenuto maggioritario, la Turchia si è stabilizzata nella prosperità. E ha rotto con una lunga storia di colpi di stato militari a ripetizione, coniugando al meglio tradizioni religiose e modernità, Islam e democrazia, islamismo e laicità, tanto che oggi la nuova generazione araba, islamisti in testa, cerca di importare il suo modello.
Ormai in Siria i Fratelli musulmani dicono di aspirare a uno Stato «civile, democratico e moderno» e fanno appello al sostegno degli Stati Uniti. Gli islamisti tunisini si richiamano ufficialmente all´Akp, e interi settori dei movimenti islamisti, in Egitto, in Marocco, in Giordania e in Libia vogliono seguire l´esempio turco.
È una gran buona notizia per l´Africa del Nord, per il Medio Oriente e per la stabilità internazionale, nel momento in cui la primavera araba ha portato i movimenti islamisti ad essere forze politiche ineludibili. La giovane generazione islamista conferma sempre più la sua rottura col terrorismo, per la semplice ragione che il jihadismo non ha dato nulla ai popoli arabi, i quali oggi se ne discostano; e perché la Turchia è ben più attraente del Pakistan, dell´Iran o dell´Arabia Saudita. L´evoluzione in atto è così profonda che fin dalle prime manifestazioni di piazza Tahrir le correnti laiche e democratiche dei Paesi arabi hanno potuto aprire un dialogo con i giovani islamisti; ed è ciò che anche gli Stati Uniti stanno incominciando a fare. Peraltro, sull´esempio dell´Akp, questa nuova generazione rifiuta l´etichetta di «islamista».
Sotto i nostri occhi, il mondo arabo-musulmano entra in una nuova fase politica: quella di un post- islamismo alla ricerca di se stesso. Ma il modello turco è esportabile, come questi Paesi vorrebbero credere?
La risposta è tutt´altro che ovvia, per tre ragioni. In primo luogo i Paesi arabi non hanno eserciti abbastanza forti e convintamente laici per garantire, come già i militari turchi, che gli islamisti non giungano al potere prima di aver compiuto la loro evoluzione. In secondo luogo, se è vero che nell´islamismo arabo le correnti moderniste sono una forza in via di espansione, la vecchia guardia fondamentalista, e talora jihadista, non è stata ancora completamente emarginata. La terza ragione, e la più importante, è che il boom economico turco aveva preceduto l´ascesa al potere dell´Akp, il quale ultimo si è limitato ad assestarlo su basi di stabilità politica. Le crisi economiche e sociali che attendono il mondo arabo sono gravide di radicalizzazioni estremiste, e il consenso democratico sarà lento e difficile da consolidare.
La scena politica araba si rischiara, soprattutto grazie alla Turchia, ma Istanbul non ha pozioni magiche da offrire; tanto più che la Turchia stessa sta entrando in una zona di turbolenze. Molto popolare, il suo primo ministro Recep Erdogan ha l´ambizione di incarnare un potere presidenziale forte, e di ottenere per via referendaria una modifica della Costituzione in tal senso. Dopo aver rafforzato la democrazia nel Paese, l´Akp minaccia di condurla a una deriva autoritaria. Ma l´aspetto più inquietante è che la Turchia si sente oggi innalzata dall´ebollizione araba a un punto tale da divenire preda di una febbre diplomatica.
Forte del sostegno degli Stati Uniti, che sperano di trovarvi un appoggio per stabilizzare il Medio Oriente, la Turchia ha praticamente rotto i ponti con Israele; sta alzando i toni verso l´Europa sulla questione cipriota, e si sente ormai leader del mondo arabo, tanto da ridestare, persino nelle giovani generazioni, il ricordo della colonizzazione ottomana. Ma con un ritmo del genere rischia di esaurire la propria carica disperdendola su tutti i fronti. E sarebbe un peccato, perché il mondo ha bisogno della Turchia.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 7.10.11
La rivolta non-violenta
di Guido Carandini


Le proteste contro un futuro che promette disoccupazione e quindi mancanza di redditi per creare una famiglia, per disporre di un´abitazione, per fare progetti di studio e di iniziative che offrano prospettive di avanzamento, diventano sempre più spesso delle "rivolte non-violente", una nuova forma di protesta di massa dei giovani riuniti nelle piazze contro l´impotenza della politica scavalcata o sottomessa dal capitale globale. E la generale sfiducia nei partiti può tradursi, di riflesso, anche nella convinzione della inutilità del voto quale strumento di partecipazione collettiva alle decisioni di chi governa e di chi guida l´economia. Secondo le ultime proiezioni i non-votanti italiani supereranno il trenta per cento, costituendo il futuro maggiore partito del nostro Paese.
Questo nuovo fenomeno della protesta che diventa rivolta di massa non-violenta si sta diffondendo nel mondo del capitalismo maturo dal Sud-est asiatico all´Europa, fino a raggiungere Wall Street, passando da Nuova Delhi a Madrid, da Tel Aviv a Roma e a New York, con i cortei e le manifestazioni degli "indignati" per la corruzione, l´impotenza delle democrazie e le colpe dell´alta finanza.
Da noi quella protesta di massa è stata delle donne ("Se non ora quando?") e degli studenti contro la legge sui tagli all´istruzione pubblica. Ma sarebbe l´ora che l´indignazione per le malefatte del nostro governo e il disgusto per gli ignobili comportamenti del suo capo si tramutassero ora in rivolte non-violente di massa anche di quanti stanno perdendo il loro lavoro o la speranza di trovarne uno, e saranno per di più impoveriti da una manovra finanziaria che risparmia solo i ricchi e gli evasori.
Occorrerebbe allora che la nostra "sinistra", invece di implorare inutilmente un "passo indietro" di altri, si decidesse a fare essa stessa un "passo avanti" muovendosi nel solco delle nuove forme di protesta. E quindi collaborando a suscitare nelle centinaia di migliaia di indignati nostrani - compresi magari quelli che hanno votato per la Lega e il Pdl - la volontà di radunarsi nelle piazze per mostrare al mondo che oltre alla Confindustria e alla Chiesa di Roma c´è una vasta opinione pubblica che chiede la fine dell´ignominia berlusconiana.
È urgente farlo perché la rivolta non-violenta, oltre un certo punto, può tramutarsi come a Londra in tumulto facinoroso e barricadiero, con somma gioia della destra pronta a opporgli una dura reazione delle forze dell´ordine e severe sanzioni giudiziarie. Sarebbe un´altra pesante sconfitta della democrazia che, insieme ai rivoltosi, finirebbe anch´essa imprigionata dall´ingiustizia che non ha saputo combattere, dallo squallore di miserabili periferie che non ha voluto scongiurare, dalla corruzione privata e pubblica che non ha contrastato e che porta gli scontenti a rinunciare al diritto di voto.
A questo punto i politici devono rendersi conto di almeno due cose. La prima è che la crisi più devastante che sconvolge i nostri Paesi è questa sfiducia nella democrazia rappresentativa del capitalismo, perché ne corrode l´anima più avanzata. Quella che aveva saputo affiancare gli anticorpi della solidarietà e della compassione sociale alla logica del profitto e al cinismo del potere. La seconda è che ormai l´invenzione di una democrazia alimentata da nuove idee, da nuovi progetti, da nuove regole di partecipazione, non può più spettare a degli eletti con procedure sempre più lontane dalla volontà e dai bisogni dei cittadini.
Se quell´invenzione germoglierà, questo avverrà sempre meno per il carisma personale o il talento politico di singoli personaggi ricchi e potenti, e invece sempre di più per la saggezza collettiva di cittadini che, spinti nelle piazze dai loro bisogni manifestati e condivisi «in rete», nei social network, dovranno prima deliberare come soddisfarli e da chi farsi guidare, e solo dopo andare a votare.
Questa, possiamo augurarci, sarà la democrazia del futuro, ben diversa dalla dittatura di maggioranze servili e di piccoli cortigiani, "vil razza dannata" come li chiamava il Rigoletto, che corrompono la politica inchinandosi al potere del denaro.

il Fatto 7.10.11
“Occupiamo Wall Street” Tutto è iniziato con un post
Ancora scontri tra Indignati d’America e polizia
di Angela Vitaliano


Abbiamo avuto la più grande crisi finanziaria dalla Grande Depressione con conseguenti danni collaterali in tutto il Paese e si vedono ancora alcuni di quelli che hanno agito irresponsabilmente andarci giù pesante con quelle stesse procedure corrotte che ci hanno per prime portato in quella situazione. Per questo penso che le persone siano frustrate”. Parla degli indignados di OWS, Obama, a margine di una conferenza stampa, in cui decide che non è più momento di tacere su quanto, da settimane, sta avvenendo nel quartiere finanziario di Manhattan: “Chi protesta stia sicuro che il nostro obiettivo è quello di avere le banche e le istituzioni finanziarie in ordine, perché le peggiori conseguenze sono sempre quelle sull'economia reale”. Nessuno ignora più, dunque, il movimento, giunto al suo 20° giorno di occupazione dell’area di Zuccotti Square, a poca distanza da Wall Street, lì dove quell’1% di persone riesce a “manipolare” la ricchezza del 99% di americani che, invece, la crisi la sta soffrendo fino in fondo e da troppo tempo.
 E SE OBAMA “parla” con gli indignados, promettendo il suo appoggio nella battaglia alla “cattiva politica” della finanza, anche i media ora trattano il movimento con attenzione. Per la prima volta mercoledì, in occasione della marcia organizzata con l’appoggio di moltissime sigle sindacali, la Msnbc, canale nazionale, ha mandato i propri giornalisti e cameramen per seguire in diretta quanto avveniva a downtown. Lo stesso ha fatto Keith Olbermann che dalle frequenze di Current tv, per primo, sin dalla prima settimana di attività del movimento, gli aveva dato spazio nel suo programma. Finora gli indignados a stelle e strisce avevano potuto contare solo sui social network, in particolare twitter, e su alcuni website che avevano “sposato” la loro causa fin dal principio. A cominciare dal sito della rivista anticapitalistica adbuster.org   che, sin dall’estate, aveva chiamato a raccolta quelli che questa situazione non la reggono più per dare vita a quello che ormai viene comunemente denominato “l’autunno newyorchese”.
 SICURAMENTE, l’adesione dei sindacati alla protesta e la loro presenza massiccia alla marcia di mercoledì è servita a dare un ulteriore spinta alla popolarità degli indignados che ogni giorno, pioggia o sole, si riuniscono in assemblea, per discutere la piattaforma dei loro programmi. Con loro giovedì anche Naomi Klein, l’attivista canadese nota per i suoi interventi contro la finanza delle corporazioni.
 La marcia di mercoledì di è svolta in maniera assolutamente pacifica fino a quando un gruppo di dimostranti ha tentato di occupare Wall Street scatenando la reazione della polizia e l’arresto di altre ventiquattro persone. Il movimento degli indignados, che ora stampa anche un proprio giornale, The Occupy Wall Street Journal, ha, fra l’altro, presentato una class-action contro il sindaco Bloomberg e contro il capo delle polizia Kelly per i 700 arresti sul ponte di Brooklyn. Non ci sono dubbi che la battaglia per appurare le responsabilità degli uni e degli altri negli scontri sarà uno degli argomenti più importanti anche nei prossimi giorni. La prima notizia dei nuovi scontri si è avuta, ancora una volta, via Twitter, proprio mentre, l’altra metà della rete apprendeva la notizia della scomparsa di Jobs.

Repubblica 7.10.11
Il presidente statunitense: il piano sul lavoro va approvato subito, la gente ha bisogno ora di aiuto
Obama: "Gli indignados danno voce alla frustrazione dell´America"
"La Cina aggressiva e la crisi europea sono i veri problemi per l´economia degli Usa"
d Federico Rampini


San Francisco - Proprio mentre il vento della rivolta "Occupy Wall Street" soffia verso la West Coast e le proteste si rafforzano anche qui a San Francisco, Barack Obama per la prima volta parla degli "indignados". Lo fa esprimendo «comprensione» verso i manifestanti giunti alla terza settimana di lotta. Fa proprie alcune delle loro accuse verso i banchieri. Questa protesta, dice il presidente rispondendo a una domanda in conferenza stampa, «esprime le frustrazioni degli americani che sentono che abbiamo attraversato la più grave crisi finanziaria dalla Grande Depressione, con enormi danni in tutto il Paese». In questa emergenza, denuncia Obama, «alcuni degli stessi attori che si comportarono in modo irresponsabile cercano di contrastare le nuove regole, disegnate per impedire che si ripetano gli abusi che ci hanno trascinato fin qui».
La presa di posizione è molto netta, è inusuale che un presidente si schieri "con la piazza", tanto più a pochi giorni dagli arresti di massa compiuti dalla polizia di New York (700 manifestanti fermati per avere bloccato il ponte di Brooklyn). Non è un caso che Obama abbia deciso di mostrare comprensione all´indomani di una manifestazione più ampia del solito: mercoledì sera per la prima volta le Union sono scese in piazza a Wall Street, a fianco degli "indignados". E´ un evento raro, questa convergenza di forze tra i sindacati tradizionali e una protesta di tipo alternativo, radicale, senza leader né programmi specifici, che finora ha avuto un´impronta prevalentemente giovanile. Era dalle giornate di Seattle del 1999 (contro il Wto) che le Union e i movimenti più radicali non si trovavano insieme in una mobilitazione su temi economico-sociali. E´ la conferma di una radicalizzazione che coinvolge in parallelo il clima politico. Dopo avere tentato la strada del dialogo bipartisan, ed essere stato regolarmente frustrato dai repubblicani, Obama ha cambiato tono. Più aggressivo, più battagliero contro la destra. Anche contro l´eurozona. Il presidente ha parole dure sulla crisi europea. «E´ il più forte vento contrario che sta frenando la ripresa americana, questa incertezza sull´Europa», dice. Invita quindi i leader europei a mettere a punto «un piano d´azione chiaro e concreto» per uscirne. Fissa una data, quasi un ultimatum: vuole vedere questo piano anti-default al summit del G20, il 3 novembre a Cannes. Dopo l´Europa tocca alla Cina, accusata di «intervenire pesantemente sui mercati dei cambi» per tenere basso il valore della sua moneta. Però Obama non appoggia la legge sui dazi contro la Cina varata questa settimana dal Senato di Washington, ricorda che prima di scatenare ritorsioni contro Pechino bisogna assicurarsi che siano compatibili con le regole del Wto. L´offensiva principale Obama la riserva alla sua destra. Intima ai repubblicani di accettare in tempi rapidi la discussione parlamentare del suo piano per il lavoro, 447 miliardi di dollari per rilanciare gli investimenti nella scuola e nelle infrastrutture, da finanziare con la sovratassa del 5% sui milionari. «La nostra economia ha bisogno di una scossa proprio adesso per proteggersi da un peggioramento in Europa».

il Riformista 7.10.11
Ricordo di Bruno Pontecorvo il fisico «eterno adolescente»
di Ilaria Tabet

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il Riformista 7.10.11
Tranströmer chi?
Il Nobel 2011 al poeta svedese
di Francesco Longo

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Repubblica 7.10.11
Diventare Mondrian
Così il mondo si trasformò in linee rette e tre colori


Al Complesso del Vittoriano di Roma una grande retrospettiva dedicata al pittore olandese È il racconto attraverso 70 olii e disegni della sua evoluzione dal figurativo all´astratto
Il percorso divide la sua produzione in vari momenti: dal realismo dell´inizio, quando dipinge paesaggi, all´essenzialità finale
Via via tronchi e rami si sfaccettano sempre di più, si smaterializzano, si semplificano. Si riducono a segni essenziali

ROMA. Come si diventa Piet Mondrian? In che modo si arriva a elaborare immagini che, nella loro semplicità, hanno avuto la forza di diventare icone del XX secolo, tanto da essere riprodotte, riutilizzate, rielaborate in tutti gli ambiti del moderno, dalla pubblicità al design alla moda?
La mostra Mondrian. L´armonia perfetta, curata da Benno Tempel, promossa da "Comunicare Organizzando" e aperta al Complesso del Vittoriano da domani al 29 gennaio, è esemplare nell´indicare la strada, i momenti di passaggio, tutti i punti di quella linea che ha portato l´artista olandese a elaborare la sua celeberrima astrazione geometrica: linee verticali e orizzontali, pochi colori, anzi soltanto tre, i primari: giallo, rosso e blu, più il bianco e il nero. Visitarla, trovarsi di fronte a queste 70 opere del pittore olandese e alle 40 di artisti con cui ha avuto scambi nel corso della sua carriera, significa capire in maniera impeccabile come le grandi rivoluzioni della pittura moderna siano nate da passaggi che per gli artisti non sono soltanto stilistici, ma esistenziali.
Ed è davvero emozionante scoprire che quella griglia così rigorosa, quel porto inossidabile, sicuro e assoluto a cui approda Mondrian, si può già riconoscere fin dai suoi esordi. Era lì che covava, veniva nutrito. E aspettava solo di attraversare diversi stadi, tutte le sue vite, per presentarsi nel pieno della potenza formale. Tra queste sale commuove vedere l´artista che si cerca. E si trova. Attraverso capolavori che scandiscono le sue tappe, il suo tempo dentro quella che lo studioso Michel Seuphor ha definito «una pittura che è quasi una religione».
L´artista olandese cammina su un sentiero chiaro e riconoscibile che questa esposizione rende leggibile come un racconto. Se si guardano i primi dipinti, quelli ancora influenzati dalla Scuola dell´Aja, scuri, densi, si può già riconoscere la sua ossessione nel tenere insieme verticali e orizzontali. Lo si vede dalla scelta dei formati e dei soggetti: fari che si innalzano, oppure dune che si distendono. E poi, ecco le case coloniche di Achterhoek dipinte tra il 1894 e il 1896. Più le guardi e più ti accorgi che lì, acquattata, c´è già tutta la divisione in linee, rettangoli e quadrati che lo governerà successivamente. Mondrian contiene Mondrian.
Il percorso del pittore non è solo formale, è anche filosofico. O meglio iniziatico. La mostra è allestita in ordine cronologico e divide la sua produzione in diversi momenti: c´è il realismo dell´inizio, quando Mondrian, che nasce a Amesfoort nel 1872 e muore a New York nel 1944, dipinge soprattutto il paesaggio. Ma poi c´è il luminismo e il simbolismo, la fase cubisteggiante e infine il momento in cui arriva alla purezza dell´astrattismo, prende parte al gruppo legato alla rivista De Stijl con Theo Van Doesburg, George Vantongerloo, Bart Van der Leck, Vilmos Huszár, Gerrit Rietveld tutti qui esposti, e teorizza il Neoplasticismo. Un´arte diversa per un mondo migliore. È l´utopia del Modernismo, ma non solo.
Mondrian è un pittore spirituale e qui si vede bene. Come Kandinsky, come Kupka è attratto dalla Teosofia, dalle teorie di Rudolph Steiner e di Helena Blavatsky. Non si è ancora scritta bene la storia dell´influenza dei circoli spiritualistici sulla rivoluzione astratta d´inizio ´900, ma è un fatto: i traghettatori della pittura dal realismo retinico ad una realtà più profonda e vera, che svela la trama segreta del mondo fatta di "punti, linee e superfici", sono tutti legati a queste dottrine. E per Mondrian l´incontro è piuttosto precoce.
Qui esposti ci sono quadri bellissimi come Devozione, una fanciulla con gli occhi rivolti verso un fiore, Passiflora e Metamorfosi di un crisantemo morente, dipinti con una pennellata fluida, che sono l´espressione iniziale dei suoi contatti con le teorie teosofiche. Mondrian si oppose all´interpretazione della prima di queste tele come rappresentazione di una donna in preghiera, affermando di voler rendere visivamente «il concetto stesso di devozione». Steiner affermava che questa potesse svilupparsi con l´osservazione «positivamente mistica» di forme minerali, animali e vegetali. Come succede qui, in questi rarissimi esempi, in cui l´artista si cimenta a rappresentare una donna. Che contempla.
Così come i fiori sono la riproduzione microcosmica del processo eterno di nascita, vita, morte e rigenerazione che per i teosofi è il principio del mondo. Se loro credono nella forza cosmica della luce, ecco che Mondrian circonda i suoi petali di irradiazioni luminose, di vere e proprie "aure". E La luna rossa del 1907 sorge sullo spirito del mondo.
Mondrian conosce la luce: schiarisce anche i suoi paesaggi, ancora una volta dune, acque e poi fari, mulini e campanili, linee orizzontali e verticali. Come quelle con cui costruisce gli alberi. È l´ultima stazione della sua pittura "naturale" prima del passaggio all´astratto. Questi quadri sono testimonianze straordinarie di un passaggio. Via via tronchi e rami si sfaccettano sempre di più, si smaterializzano, si semplificano. Si riducono a segni essenziali: piccole croci, linee perpendicolari danno forma alle forze che li abitano. La crescita e la gravità, l´elevazione e l´espansione, il cielo e la terra. È tutto un tenere insieme gli opposti, creare riconciliazioni. La verticalità e l´orizzontalità altro non sono che la griglia duale di forze che tiene insieme il mondo, l´incarnazione e lo spirito, il maschile e il femminile, lo yin e lo yang . Mondrian ormai è pronto a diventare il Mondrian che tutti conosciamo. Quello che ritroviamo in quei capolavori dipinti quando ormai è andato a Parigi, dove negli anni Venti il suo atelier è un luogo di culto, come la Composizione in ovale con piani di colore 2 del 1914. È così che il pittore paesaggista si trasforma in quello che non vorrà tornare in Olanda perché ci sono – dice – «Tutti quei prati! Tutti quei prati!». Si allontana dalla rappresentazione della realtà perché, vuole «eliminare il tragico dell´esistenza» e cerca nella semplicità della superficie un´essenza più vera. Evoca "le cinque strade per l´eliminazione del dolore" di matrice buddista. Ma lui di vie ne imbocca una sola. E la segue tutta con un rigore quasi sacerdotale, mistico. Le sue composizioni di rette, quadrati e colori primari sono il suo linguaggio eroico e, a questo punto, il solo possibile.

Repubblica 7.10.11
La cultura spiritualista, la svolta astratta, le metropoli moderne
Il lungo viaggio dalla teosofia a New York
di Achille Bonito Oliva


Il viaggio di Piet Mondrian verso l´astrazione è un lungo percorso che passa attraverso il realismo, il simbolismo, il luminismo ed infine il cubismo. Ma è la teosofia che impregna l´opera del grande maestro olandese e la porta verso una dimensione che supera ogni empito narrativo. La radicalità di Mondrian è frutto anche di una mentalità puritana che depura il linguaggio dell´arte di ogni piacere figurativo. Come si evince dall´intero corpo della sua opera, l´immagine tende sempre più a perdere il puro ricalco delle cose a spostarsi dal mondo esterno verso una interiorizzazione dello sguardo che porta prima l´artista olandese verso l´esito simbolista per poi arrivare alla purezza dell´astrazione.
Qui prevale uno sguardo limpido, inizialmente influenzato dall´arte giapponese, ma sostanzialmente invece teso verso l´affermazione della autonomia dell´arte, capace di arrivare ad una sintesi di tutte le arti. Così prende forma lo spiritualismo laico di cui Mondrian si fa sacerdote.
Le teorie del colore di Goethe prima e Kandinsky poi trovano qui una loro completa applicazione ma nello stesso tempo acquistano una originalità, frutto di una impaginazione spaziale e cromatica assolutamente rigorosa, depurata da ogni edonismo figurativo.
Mondrian è il grande artista superficialista che utilizza lo spazio pittorico senza allusive profondità e restituisce ai colori una nitida purezza. Etica ed estetica si intrecciano fra loro al servizio di una visione dell´arte che è anche una visione del mondo e che è fondata sulla composizione di linee e rettangoli e sull´uso di pochi colori primari (il bianco, il nero, i tre primari). Evidente è lo spirito costruttivo del linguaggio astratto di Mondrian, assolutamente diverso da quello di Kandinsky che tende verso una astrazione lirica confinante con la musica.
L´architettura è invece il versante su cui si affaccia la superficie pittorica di Mondrian che sembra già profetizzare il landscape dei nuovi spazi urbani americani. Parigi, Londra e New York sono state le tappe del nomadismo biografico dell´artista. Dalla Francia ha carpito il senso del cubismo e dagli Stati Uniti quello di un neoplasticismo senza confini di genere.
D´altronde il contesto culturale della sua provenienza è segnato dalla presenza di Theo van Doesburg e dal sodalizio con molti altri artisti riuniti intorno alla rivista De Stijl.
Il risultato finale della sua ricerca trova le sue prove più mature nel suo soggiorno finale a New York dove anche il tessuto urbano, il ritmo di vita e la musica jazz sembrano costituire la colonna sonora e stereofonica della sua opera. Lo spazio ormai ha acquistato la massima esposizione di superficie. La tradizione olandese del suo puro-visibilismo trova qui la sua più radicale espressione: cuore sgombro e sguardo limpido.
L´arte diventa un processo radicale che si fonda sul valore della semplicità, frutto di scomposizione e ricomposizione, e che evidenzia la cosa mentale della pittura.