venerdì 10 agosto 2018

Repubblica 10.8.18
Renzo Piano
"Tornate indietro pronti a organizzare un Periferia Pride"
intervistadi Francesco Merlo


«Voglio cominciare dalla fine e appellarmi al governo, ai deputati della maggioranza, al Parlamento.
Ovviamente so che gli appelli sono pericolosi».
Coinvolgono i sentimenti e dunque rischiano la retorica.
«Ma qui non c’è il minimo sospetto di retorica e neppure di demagogia perché queste non sono le grandi opere di cui si sta discutendo in questi giorni, Tav, Tap... Questi sono piccoli progetti, tanti piccoli progetti, circa 120. Proprio il contrario della grandeur. Insomma hanno bocciato quel rammendo delle periferie che gli studenti italiani nel 2014 scelsero in maggioranza come tema della maturità. Il rammendo significa cantieri leggeri, interventi d’amore che riqualificano. Per esempio, una stazione di autobus in periferia è già aggregazione sociale. E i passaggi per i disabili a Milano, l’illuminazione, i marciapiedi …».
Non hanno bocciato solo 120 miniprogetti, ma un’idea di futuro?
«Hanno bocciato, spero senza capirlo, la vita associata, la città, e anche il pensiero, che oggi sta di fianco, è laterale e fuori norma, diverso e sorprendente, il pensiero che si spinge oltre il Centro delle abitudini consolidate e dei simboli stereotipati. Hanno bocciato l’intelligenza che oggi è periferia.
E posso ben dirlo io che sono nato nella periferia di Genova dove "le montagne — dicevano i rivali veneziani — sono senza alberi e il mare senza pesci".
A Roma, al Tufello…
«… già, ricordi quando siamo andati insieme e abbiamo scoperto che il Tufello affascina gli artisti perché è un luogo dove ancora si costruiscono i sogni? Le città del mondo sono civili perché sviluppano le periferie. A Parigi ho progettato nella periferia Nord il tribunale e nella periferia Sud l’università. E così in America, e dovunque. Quella legge era la premessa a tutto questo. Era infatti una legge di rammendo, poi sarebbero venute le infrastrutture, e gli ospedali, le biblioteche, l’architettura della vita associata».
Dunque hanno bocciato la civiltà e l’architettura. C’è ancora spazio per un appello pragmatico? Davvero pensi che questo governo possa tornare indietro?
«Sì. Perché nella legge che hanno bocciato c’erano, e lo dico senza ruffianeria, anche i loro valori.
Penso, e spero, che non si siano bene accorti di quel che facevano, che non abbiano riflettuto abbastanza, che abbiano pasticciato proprio perché le loro intenzioni erano buone. Volevano finanziare i Comuni virtuosi e non hanno valutato la gravità del danno che provocavano. Capita, quando si spostano soldi, di fare alla fine più male che bene. Ecco: "tolgo i soldi alle periferie così aggiusto i tombini del centro" è quanto di peggio si possa fare. E non perché i tombini del centro non debbano essere aggiustati».
Stai dicendo che i grillini hanno bocciato una legge grillina. Si può anche dire in un altro modo: i grillini dicono una cosa e poi fanno l’opposto.
«Credo davvero che bocciare i finanziamenti dei progetti per le periferie sia stato — e direi meglio, sarebbe — un tradimento dei Cinque stelle e della Lega innanzitutto verso se stessi. Nelle periferie infatti vivono i giovani.
Nelle periferie non c’è l’élite che Cinque stelle e Lega combattono, ma il popolo che dicono di rappresentare, la marginalità che difendono, la sofferenza, l’energia e la speranza di futuro che li ispirano. E vale anche per la Lega che ha fatto della sicurezza il suo manifesto. Dove, se non in periferia? E non pensiate che Renzo Piano, di sinistra, stia lisciando il pelo alla destra.
Anche perché la sinistra ha votato contro la sua stessa legge».
Bocciata all’unanimità. E con Renzi in aula. Quelli del Pd dicono di non avere capito il linguaggio che è fatto di commi e di art. 147 che rimanda ad art. 128 e così via nel solito labirinto. Ma tutto il decreto milleproroghe è scritto così. E il Pd ha votato tutti gli articoli, sempre contro il governo, tranne in questo caso. Ecco: se improvvisamente decidi di votare a favore, vuol dire che almeno l’articolo che approvi lo conosci e sai cosa stai facendo. Forse è colpa del caldo? O forse oggi la formula è: la fantasia al potere e il surrealismo all’opposizione.
«In questo caso non vedo un nemico politico, non saprei con chi prendermela, capisco che è stato un pasticcio e valuto il pesantissimo danno. Che è anche economico, e non lo dico con il tono minaccioso. Ma lo dico da tecnico, da vecchio progettista. In tutto il mondo il processo è sempre lo stesso: prima c’è il progetto di massima, poi il definitivo, l’esecutivo, l’appalto e infine l’esecuzione. Se interrompi il processo perdi danaro, che in questo caso è danaro pubblico. Mi è difficile trovare un paese civile che spreca il danaro pubblico non portando a compimento le cose già iniziate. E poi c’è il danno culturale, simbolico, politico».
Un danno che senti personale?
«Lì per lì mi sono sentito perso.
Poi ho cercato di capire e ho recuperato concretezza e speranza. Non è certo una legge che ho scritto io. E conosco solo un piccola parte di tutti quei microprogetti. Ma so che quella legge è ispirata al mio lavoro di senatore a vita. Quando accettai la carica, e ci pensai molto, lo feci perché speravo di accendere piccoli lumi nelle coscienze.
Ebbene, quella legge era un lumicino. Per la prima volta infatti nel nostro paese invertiva la tendenza generale all’indifferenza verso le periferie.
Cinque anni fa se ne parlava poco. Ma io, che me ne occupo da tutta la vita, sapevo che la periferia è la terra di frontiera che accende l’immaginazione, eccita il desiderio, quella vita che sta ai margini della vita ma è più vita della vita. Le periferie sono le città che faremo, quelle che lasceremo, che parleranno di noi.
Ad Atene i governanti giuravano di restituire la città migliore di come la prendevano. In greco dicevano "più bella". È il termine giusto».
Ricordo quando arrivasti in Senato e buttasti via l’arredamento di solenne legno scuro portando solo un tavolo rotondo di compensato. Si chiama Progetto G124, dal nome della stanza che ti è stata assegnata a Palazzo Giustiniani.
«Abbiamo lavorato benissimo con sei giovani architetti».
Ai quali hai destinato il tuo stipendio da senatore a vita.
Anche in questo c’è qualcosa di grillino?
«Forse sì, se la logica grillina è quella della cessione del denaro.
Voi giornalisti ci avete visto al lavoro. Attorno al quel tavolo abbiamo progettato tanti piccoli interventi, e quel tavolo rotondo ha ispirato quella legge che si chiama appunto "riqualificazione urbana e sicurezza delle periferie"».
E adesso? Se avessi ragione io e il governo alla Camera non tornasse indietro e confermasse il malfatto al Senato?
«Io comunque non mollo. Le periferie hanno subito di tutto ma nessuno è riuscito a togliere a quella gente la dignità e l’orgoglio di essere periferici. Lo abbiamo visto insieme a Roma quando tutti ci dicevano: «Ma qui non siamo in periferia». Esprimevano un amore per quei luoghi che negava l’idea stessa di periferia come deserto di affetti. Molti anni fa portai Ermanno Olmi al Parco Lambro a Milano e rimase sbalordito perché, nonostante l’alta densità criminale e il degrado, per tutti quelli che vi abitavano era "il posto più bello di Milano". Davvero non riesco a credere che i Cinque stelle non capiscano. Dicono di essere "il cambiamento". Ma è nelle periferie che si trova l’energia del cambiamento che è anche la forza del disagio».
Tu comunque non molli.
«Quest’anno porterò a 12 il numero dei ragazzi che lavoreranno al G124. Ci saranno più tutori e miglioreremo il metodo di selezione».
Perché 12? La battuta sugli apostoli è facile.
«Troppo facile per prenderla sul serio. Sicuramente è un bel numero per stare attorno a una tavola come dimostra anche il Vangelo. E anche la ripartizione del danaro viene meglio».
E da dove ri-comincerete?
«Dalle periferie, dall’amore delle periferie, fosse pure sotto forma di rabbia».
Se non ci restituiscono la legge, lo organizziamo davvero il "Periferia Pride"?
«Sarebbe ora».

Repubblica 10.8.18
Di Maio: " Non ho scelto la mia scorta" Repubblica: "Confermiamo tutto"


Roma Il vicepremier Luigi Di Maio contesta la ricostruzione della vicenda della sua scorta fatta ieri da Repubblica nell’articolo "Due carabinieri e di Pomigliano, così Di Maio si scelse la scorta" e annuncia querele. Il quotidiano «scrive che sono stato io ad aver scelto i due uomini della mia scorta e di aver selezionato due di Pomigliano d’Arco, la mia città». E questo per Di Maio è falso.
Repubblica conferma quanto scritto. E dunque che i due militari dell’Arma di scorta al vicepresidente del Consiglio gli sono stati assegnati su sua segnalazione e richiesta. Attendiamo dunque con fiducia e serenità la querela per diffamazione cosicché sarà possibile in quella sede chiedere l’acquisizione del fascicolo matricolare dei due militari e testimonianze in grado di stabilire chi in questa storia non dice il vero. La stessa fiducia e serenità con cui attende l’esito della querela già presentata dallo stesso vicepresidente del Consiglio per la vicenda dei suoi rapporti con la coppia Virginia Raggi e Raffaele Marra, entrambi al momento a processo a Roma. La prima per falso ideologico, il secondo per abuso di ufficio e corruzione ( reato per cui è stato arrestato).

Corriere 10.8.18
I pm scrivono all’Unicef: denunciate i parenti di Renzi o non potrete avere i soldi
di Fiorenza Sarzanini


Roma La richiesta di rogatoria è partita tre giorni fa. Si tratta di un vero e proprio avviso alle organizzazioni umanitarie che avevano donato alla società di Alessandro Conticini denaro da destinare ai bimbi africani. L’uomo è accusato di appropriazione indebita con il fratello Luca, mentre il terzo fratello Andrea, cognato di Matteo Renzi perché marito di sua sorella Matilde, deve rispondere del reimpiego illecito di capitali. Il messaggio dei magistrati di Firenze alle organizzazioni internazionali è chiaro: «In Italia la legge è cambiata, se non presenterete una denuncia non potremo proseguire l’inchiesta per appropriazione indebita. E dunque non avrete alcuna possibilità di reclamare i soldi elargiti».
I 10 milioni
Sono 10 milioni di dollari versati tra il 2008 e il 2013 per sostenere progetti in favore dell’infanzia in difficoltà. Di questi, 6 milioni e 600 mila dollari sarebbero però finiti sui conti personali degli imprenditori, e in parte anche nelle casse della «Eventi6», società amministrata dalla mamma di Renzi, Tiziana Bovoli. L’ex premier dichiara con una nota di voler «procedere in sede civile e penale contro chiunque accosti il suo nome a una vicenda giudiziaria che riguarderebbe un fratello del marito di una sorella di Renzi». Due giorni fa era stato proprio lui ad annunciare con un video su Facebook la fine dell’attuale governo perché «ci sarà da divertirsi con le inchieste sui fondi della Lega a Genova e sull’attacco via Twitter al presidente Mattarella». Adesso Renzi dice che «i processi si fanno in aula, non sui media. Al termine del processo si fanno le sentenze. E le sentenze si rispettano. Anche quelle sui risarcimenti».
L’avviso agli Usa
La rogatoria alle autorità statunitensi ha come destinatari «l’Unicef, fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia; la Fondazione Pulitzer» e sei associazioni australiane e statunitensi che avevano elargito alla “Play Therapy Africa Limited” e ad altre due organizzazioni no profit di Alessandro Conticini, che è stato per anni direttore Unicef di Addis Abeba e poi è rientrato in Italia. Tutte queste organizzazioni internazionali sono informate dell’inchiesta avviata a Firenze dai magistrati coordinati dal procuratore Giuseppe Creazzo e nei mesi scorsi hanno messo a disposizione i propri bilanci proprio per consentire agli investigatori di ricostruire il percorso dei soldi. Gli amministratori non sono però informati che per procedere dovranno presentare formale denuncia — dopo la riforma varata lo scorso aprile dall’allora ministro Andrea Orlando — e per questo si è deciso di trasmettere formale avviso. Altrimenti si dovrà procedere solo per riciclaggio e reimpiego illecito di fondi.
I conti e le case
I pubblici ministeri hanno già rintracciato le somme e accusano Andrea Conticini di aver «agito come procuratore speciale del fratello» Alessandro: «Impiegava parte del denaro provento del delitto in attività economiche, procedendo all’acquisto di partecipazioni societarie e all’esecuzione di finanziamenti in conto soci» prelevando 267 mila e 800 euro dai conti e dividendoli così: alla «Eventi6» di Rignano — finita in un’altra indagine per false fatturazioni dove sono indagati la madre e il padre di Renzi — 133.900 euro nel 2011; alla Quality Press Italia, 129.900 euro; alla Dot Media di Firenze, 4.000 euro. I fratelli Alessandro e Luca avrebbero invece reimpiegato il resto tra l’altro con un «investimento immobiliare in Portogallo» da quasi 2 milioni di euro.

Corriere 10.8.18
Voto e incidenti in piazza
Nell’Argentina di Francesco l’aborto resta vietato
In Argentina l’aborto resta proibito, come indica una legge del 1921. La proposta di riforma non è passata al Senato. Il movimento delle donne denuncia «l’ingerenza della Chiesa» nel Paese di papa Bergoglio. Scontri in piazza tra chi sosteneva la riforma e gli antiabortisti.
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO Dopo mesi di manifestazioni di piazza di segno opposto, un dibattito acceso nella politica nazionale e una frattura nella società civile, in Argentina per adesso l’aborto resterà proibito. Se non in casi eccezionali — stupro e pericolo di vita della donna — come già indica una legge del lontano 1921, quella che resta in vigore dopo il «no» del Senato di ieri. È stata una battaglia molto accesa, con una seduta che è terminata solo all’alba; alla fine i favorevoli a una nuova legge hanno perduto per 38 a 31, con due astenuti.
Nel Paese di papa Francesco, dunque, tutto resta come prima nonostante i numeri parlino di un fenomeno dalle dimensioni ancora esorbitanti, 500.000 interventi clandestini e almeno un centinaio di vittime ogni anno. L’Argentina a maggioranza cattolica, ma con un numero crescente di evangelici (ancora più estremi sull’argomento) rimane dunque allineata alla gran parte dei Paesi latinoamericani. Nel continente esistono leggi di stampo occidentale sull’interruzione di gravidanza soltanto in Uruguay e a Cuba. Altrove è un tabù che politici di tutte le aree preferiscono non toccare. Come hanno evitato di fare persino le «presidentas» del Cono Sud, nell’epoca recente in cui Cile, Brasile e Argentina sono stati guidati contemporaneamente da tre donne di sinistra.
L’impegno della Chiesa argentina è stato evidente soprattutto nelle ultime settimane, cioè tra il voto favorevole all’aborto della Camera e quello contrario, e quindi decisivo, di ieri al Senato. L’unico accenno di Papa Bergoglio sulla questione risale a giugno, una settimana dopo il primo esame in aula. In un incontro con un gruppo di famiglie in Vaticano, Francesco usò una metafora indiretta ma assai forte, quando disse che «nel secolo scorso tutti ci scandalizzammo con quello che fecero i nazisti per tentare la purezza della razza, oggi facciamo lo stesso, ma con i guanti bianchi». Secondo alcuni osservatori, la Chiesa argentina era convinta che la grande maggioranza degli argentini non volesse l’aborto, che ciò si sarebbe riflesso sul voto dei deputati, sui quali non servivano dunque pressioni.
Per non sbagliare di nuovo, accusano i gruppi pro-aborto, alla vigilia della decisione del Senato la pressione della Chiesa è stata evidente. Nelle omelie in chiesa; nelle piazze, dove i manifestanti a favore, con i fazzoletti verdi al collo, si sono sempre trovati antiabortisti a riceverli, con i fazzoletti azzurri; e poi sui media e i social network. «Ho il telefono intasato di epiteti irripetibili e tutti in nome di Dio...», ha ironizzato il senatore Pedro Guastavino, favorevole alla nuova legge. E poiché in Argentina il Senato è tradizionalmente più conservatore della Camera, perché la rappresentanza delle province prevale su quella del voto urbano, il fronte del «no» è riuscito a prevalere. Nella notte, lungo l’interminabile dibattito, si sono spaccati tutti i partiti, dai peronisti (Cristina Kirchner ha votato a favore, dopo aver impedito la legge durante i suoi anni al potere), ai senatori che appoggiano il presidente Mauricio Macri.
Curioso ora che l’Argentina si trovi tra i pochi Paesi cattolici con una serie di diritti civili già garantiti (matrimonio gay, adozioni, identità di genere), ma senza aborto legalizzato. Quando le unioni omosessuali vennero approvate, l’attuale Pontefice era arcivescovo di Buenos Aires e la frattura con la Kirchner fu pesante. Tanto che si ricorda ancora il gelido e tardivo comunicato di congratulazioni di Cristina alla sua elezione nel marzo 2013. Da Papa, Bergoglio ha poi mantenuto rapporti freddi anche con l’attuale presidente Macri, il quale lo ha visitato per due volte in Vaticano senza riuscire a strappargli un sorriso. Quella dell’aborto negato in Argentina ora è certamente una sua vittoria. E chissà che non serva a dirimere il grande interrogativo che aleggia da anni: perché il Papa non è ancora andato a visitare il suo Paese, dopo quattro viaggi in America Latina?

Il Fatto 10.8.18
L’Argentina ha scelto l’aborto clandestino per far morire le donne

qui

Il Fatto 10.8.18
L’Argentina boccia l’aborto: in piazza scontri fra schieramenti
di Guido Gazzoli


Dopo una seduta fiume durata l’intera giornata, mercoledì il Senato ha respinto la legge di depenalizzazione dell’aborto. Fuori, sulla Plaza del Congreso e l’ampia Avenida Callao si sono fronteggiati i due schieramenti in una manifestazione nutrita come da tempo non si vedeva in Argentina. Il fronte abortista agitava un panno verde come simbolo; quello pro-vita uno azzurro; entrambi hanno sfidato la fredda pioggia persistente.
Il 22 febbraio il presidente Macrì aveva improvvisamente proposto la questione, benché fosse ritenuto ideologicamente contrario all’aborto, facendo sorgere il sospetto che la mossa servisse a distrarre l’opinione pubblica nei giorni delle difficoltà economiche avevano provocato una svalutazione del peso e il ricorso agli aiuti del Fondo monetario.
Da allora i mass media si sono dedicati al caso, con una Chiesa che inizialmente, pur non ammettendo la legalizzazione della pratica abortiva (che secondo i dati provoca la morte di circa un migliaio di donne ogni anno negli interventi clandestini) era sembrata affrontarla blandamente. Fino a quando la sessione dedicata alla Camera dei deputati, per un ristretto margine di voti, ha approvato il progetto di legge. Allora sono intervenute pesantemente le organizzazioni in difesa della vita che, spuntate come funghi, hanno creato un fronte pari a quello per l’approvazione, che ha contato defezioni via via più massicce.
Ora si sta pensando a modificare la legge per eliminare il reato di delitto per i medici che praticano l’aborto quando avvenga per condizioni di pericolo di vita per la madre o di gravidanza provocata da violenza sessuale.

il manifesto 10.8.18
La legge sull’aborto non c’è, il futuro sì
Argentina. Dopo 17 ore di dibattito il Senato boccia la depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza, ma le donne non si fermano: «Continueremo a lottare, faremo la storia»
Di fronte al Congresso le sostenitrici della legalizzazione dell’aborto ricevono la notizia della bocciatura al Senato
di Claudia Fanti


Dopo quasi 17 ore di dibattito, alle 3 di ieri mattina il Senato ha deciso – 38 voti contro 31 – che tutto può restare così. Che le donne possono continuare ad abortire clandestinamente, a un ritmo di 57 interruzioni di gravidanza l’ora, ed eventualmente a morire dissanguate. A meno, è chiaro, che non siano ricche e possano pagarsi un buon medico per un aborto sicuro.
«La cosa più grave di questa notte – ha dichiarato Cristina Kirchner, a cui è stato comunque rimproverato di non aver promosso la legalizzazione dell’aborto durante il proprio governo – è che si respinge un progetto di legge senza proporre nulla di alternativo e dunque lasciando la situazione inalterata».
Ed è quanto ha affermato anche la senatrice Betty Mirkin, in uno degli interventi più appassionati durante il lunghissimo dibattito: «Se usciamo di qua senza una legge, cosa faremo poi? È evidente che l’attuale legislazione non risolve il problema. Cosa andremo a fare domani? Continueremo a punire le donne quando arrivano in ospedale con aborti realizzati in condizioni pericolose? Continueremo così?».
Dove «così» significa che nei prossimi due anni, secondo le stime, moriranno altre 174 donne e altre 98.500 finiranno in ospedale per complicazioni legate ad aborti clandestini. Ieri, dunque, le donne non hanno vinto. Hanno vinto quelli e quelle che, opponendosi all’aborto legale, sicuro e gratuito, hanno detto di aver protetto «entrambe le vite», tanto dell’embrione quanto della madre, quando non vengono difese né l’una né l’altra.
Quelli come il presidente Mauricio Macri, per il quale «non importa il risultato, oggi vincerà la democrazia», come se non fosse il risultato a fare la differenza per la vita delle donne; e quelle come la governatrice di Buenos Aires María Eugenia Vidal, che ha detto che si sarebbe sentita «sollevata» se la legge fosse stata respinta perché così, negli ospedali, le operazioni oncologiche e le cardiopatie non avrebbero dovuto competere con le interruzioni di gravidanza.
Quelli come il senatore Rodolfo Urtubey, convinto che vi siano «stupri senza violenza», come nei casi di abuso intrafamiliare, o come Esteban Bullrich, che ha motivato la sua opposizione alla legge richiamandosi alle differenze tra esseri umani e scimpanzé.
Quelli che hanno celebrato «messe per la vita» ma non hanno speso una parola contro le violenze della dittatura militare. E anzi, come ha evidenziato il senatore Pedro Guastavino (bersaglio di innumerevoli insulti sulle reti sociali), «si voltavano dall’altra parte quando torturavano le nostre compagne incinte nelle carceri clandestine».
Hanno vinto loro, ma non è a loro che appartiene il futuro. Il futuro è dell’onda verde di adolescenti, di giovani, di donne che hanno inondato le strade di Buenos Aires e di altre città e che, incuranti della pioggia, hanno continuato a difendere il loro diritto a decidere sul proprio corpo, su una maternità che o è desiderata o non è, a evidenziare il nesso inscindibile tra patriarcato e capitalismo, a rivendicare «Educazione sessuale per poter decidere. Anticoncezionali per non abortire. Aborto legale per non morire».
Un futuro che non è ancora dietro l’angolo, forse. Se, in base alla Costituzione la legge potrà essere nuovamente discussa il prossimo anno, non è affatto scontato che questo accadrà (essendo il 2019 un anno elettorale, l’attività del Parlamento subirà una drastica riduzione) né è facilissimo che i senatori contrari ci ripensino. Ma, di fronte all’ormai irreversibile cambiamento registrato nella società, è impensabile che il tema possa uscire dall’agenda politica del Paese.
Non è certo un messaggio di sconfitta quello diffuso dalla Campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito: «Noi abbiamo già vinto – dice la storica femminista 89enne Nelly “Pila” Minyersky – Se i senatori non vogliono passare alla storia è un problema loro. Passeremo alla storia noi. La bocciatura del nostro progetto costerà loro molto caro. Se la legge non è passata ora, passerà l’anno prossimo. Noi continueremo a lottare». È solo una questione di tempo.
***
E alla fine Macrì fa mezzo passo indietro
Dopo la bocciatura della legalizzazione dell’aborto da parte del Senato, dopo il lancio di lacrimogeni da parte della polizia ai sostenitori del disegno di legge (alcuni hanno tirato oggetti oltre le transenne che nella piazza di fronte al Congresso li dividevano dai manifestanti anti-abortisti), il presidente Macri ha fatto un mezzo passo indietro.
Ieri pomeriggio ha promesso di intervenire, non per legalizzare l’aborto ma almeno per impedire che chi interrompe una gravidanza non finisca in tribunale: il governo, ha fatto sapere ieri dalla capitale, valuterà l’inserimento della depenalizzazione dell’aborto all’interno della riforma del codice penale che sarà discussa alla fine di agosto dal parlamento. Insomma, abortire resterà un reato, ma potrebbero aumentare i casi di «eccezione». Secondo alcuni media, la modifica riguarderà invece i soggetti punibili: non più le donne, ma solo i medici.

La Stampa 10.8.18
Bocciata la legge sull’aborto
Le femministe “Nessuna resa”
di Emiliano Guanella


La bocciatura in Argentina della proposta di legge per l’aborto legale ha deluso il movimento femminista mentre la Chiesa cattolica tira un sospiro di sollievo, così come il presidente Macri, che rischiava di dover avallare una legge invisa a buona parte del suo elettorato. Il Senato ha respinto per 38 voti contro 31 la proposta per legalizzare l’aborto fino alla quattordicesima settimana di gestazione al termine di un dibattito fiume durato 16 ore, con centinaia di migliaia di sostenitori dei due opposti schieramenti fuori dal palazzo del Congresso.
In piazza si è vista una marea di fazzoletti verdi, simbolo della campagna pro aborto, ma questa volta erano tantissimi anche i fazzoletti azzurri, degli anti abortisti, appoggiata dalla chiesa cattolica e dalle diverse confessioni evangeliche. Il risultato era atteso, quasi tutti i senatori del Nord del Paese, tradizionalmente più conservatore hanno respinto la legge, preferendo la conservazione dello status quo; l’aborto oggi è permesso solo in caso di stupro o rischio di vita per la madre. Dal fronte del No sono arrivati argomenti di tipo etico e morali, sconfinando in alcuni casi in scivoloni fortemente criticati sui social media.
L’intervento del regista Solanas
Il senatore Urtubey, per esempio, ha detto che «in alcuni casi di abusi famigliari non si può parlare di una violenza contro la donna». Infuocate le arringhe di alcuni difensori della proposta, come quella del regista Pino Solanas. «Congratulazioni al movimento femminista, siete un orgoglio per gli argentini. Questa causa si ferma per poche settimane, ma la campagna deve continuare: se non è quest’anno, sarà il prossimo o l’altro ancora».
Il presidente argentino Macri si è detto soddisfatto del livello del dibattito generato dalla società e ha riaffermato l’impegno del suo governo nel far rispettare l’obbligo di educazione sessuale nelle scuole come metodo per evitare gli aborti.
Secondo le cifre ufficiali diffuse dal Ministero della Salute nel 2017ci sono stati 354.627 aborti nel Paese. Nel 2014, l’ultimo anno di cui sono disponibili dati ufficiali, 47 mila donne sono state ricoverate in ospedale per complicazioni post-aborto. Macri ha escluso la possibilità di convocare un referendum sul tema. Per il regolamento parlamentare non si potrà presentare un progetto analogo fino al prossimo anno. Ma il 2019 è anno di elezioni e difficilmente si vorrà di trattare un tema così spinoso. Il movimento femminista e quello studentesco promettono di continuare la loro battaglia nelle piazze.

Repubblica 10.8.18
Intervista a Fernando "Pino" Solanas
"Politica ipocrita sull’aborto La svolta argentina sta per arrivare"
di Alessandro Oppe
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«Questo movimento è inarrestabile. Se non è stato possibile ora, sarà per domani.
Forse il prossimo anno, o l’altro ancora, ma ormai non si torna più indietro». Combattivo come al solito, Fernando "Pino" Solanas è ottimista nonostante la sconfitta nel voto decisivo sulla legalizzazione dell’aborto. Il più grande regista argentino, politico da sempre all’opposizione, l’ha detto anche nel suo discorso appassionato dallo scranno di senatore, mentre fuori, centinaia di migliaia di donne nelle strade di Buenos Aires manifestavano in attesa del responso arrivato solo alle prime ore del mattino di ieri: 38 "no", 31 "sì", tra cui appunto quello di Solanas.
Si può parlare di un’occasione perduta?
«Niente affatto. È il grande trionfo culturale di una causa che da molti anni viene maturando in Argentina. Sono anni di ingiustizie e di discriminazioni, che hanno portato a una mobilitazione straordinaria delle ragazze di questo Paese. Che, inoltre, da tempo sono impegnate con coraggio a lottare contro la piaga dei femminicidi. C’è purtroppo, tra noi, una mentalità retrograda molto forte, che non si può cambiare da un giorno all’altro. E ha a che fare anche con i settori più conservatori della Chiesa».
E così l’Argentina resta ancorata a una legge che risale quasi a un secolo fa.
«Purtroppo è così. Tutti dovrebbero avere gli stessi diritti, che siano cattolici o agnostici. In democrazia bisogna difendere la libertà di coscienza di tutti i cittadini. È intollerabile qualunque tipo di pressione: la libertà della donna di decidere del proprio corpo va rispettata. Io ho ricevuto insulti e minacce sui social network dopo il discorso al Senato, in cui ho raccontato una vecchia storia vissuta in modo diretto. Avevo 16 anni e la mia ragazza restò incinta. Ricordo il suo panico per la possibile reazione della famiglia e della società. Fu costretta a un aborto clandestino, trascorse settimane ricoverata in ospedale rischiando di morire per un’infezione».
Lei denuncia l’ipocrisia dei politici argentini.
«In questo Paese, che mantiene ancora una profonda vocazione repressiva, non è accettabile che la maggior parte dei parlamentari, che si dichiarano democratici, si arroghino il diritto di negare a più della metà delle donne l’accesso a una politica di salute pubblica.
Una politica che consenta a chi ha la necessità di interrompere la gravidanza, di farlo in modo sicuro e legale in un ospedale pubblico. E invece qui si nega alle persone di poter decidere autonomamente su una questione così intima e personale. Perciò nel mio discorso al Senato ho voluto denunciare questa enorme ipocrisia. Migliaia di donne che vivono in condizioni di povertà continueranno a essere costrette a praticare l’aborto clandestino, con i gravi pericoli che ne derivano. In cosa consiste l’ipocrisia e la truffa? Nel fatto che la legge che si è deciso di bocciare non obbliga le donne ad abortire. L’aborto è qualcosa di mostruoso, nessuno lo vuole o lo difende per principio.
Qui non si tratta di aborto "sì" o "no". L’alternativa è se continuare con l’abominio dell’aborto clandestino o garantire a chi ne abbia bisogno la possibilità di un’interruzione della gravidanza legale, pubblica e gratuita».
C’è chi la critica per aver fatto un parallelo tra certe dichiarazioni anti-abortiste circolate in questi giorni e i tempi bui della dittatura di Videla.
«Però è così. E qui torniamo alla grande ipocrisia. C’è chi dice che, se non vogliono tenere i figli, li possono dare in adozione. Ecco, è proprio quello che si faceva durante la dittatura. Si toglieva il neonato alla madre perché non venisse "contaminato" da quei genitori, nemici politicamente e ideologicamente del regime totalitario. È mostruoso».
Che ruolo ha avuto la Chiesa cattolica in questi mesi di acceso dibattito sull’aborto?
«Papa Francesco sta facendo un lavoro monumentale. Perciò viene da chiedersi come fa a resistere, che forza abbia per affrontare tanta gente retrograda e corrotta.
Io non mi sono potuto trattenere di fronte alle infelici dichiarazioni dell’arcivescovo di Buenos Aires, monsignor Poli, che è entrato in modo diretto nel dibattito politico, con la sua esplicita richiesta ai senatori di votare "per la vita". Così si distrugge quella cultura dell’incontro propugnata da papa Francesco. Dio non castiga, ma accompagna, non dovremmo dimenticarlo».

il manifesto 10.8.18
L’Europa scelga tra razzismo e democrazia
Israele. Dopo l'approvazione della legge dello Stato-nazione ebraico, le nazioni europee hanno di fronte due opzioni: continuare a incoraggiare il razzismo israeliano e i suoi crimini ignorando la realtà, o agire per salvare la prospettiva di una pace giusta e duratura che salvaguardi i diritti di tutti, israeliani e palestinesi, cristiani, drusi, musulmani ed ebrei
Protesta contro le demolizioni di comunità beduine palestinesi nel sud di Israele
di Ahmad Tibi

Vice presidente della Knesset, membro della Lista araba unita

I palestinesi cittadini di Israele sono sempre stati trattati come migranti sebbene vivano su queste terre da secoli, prima della creazione di Israele. Mentre veniamo sottoposti a una discriminazione istituzionale, Israele ha sempre tentato di salvare le apparenze ripetendo come un mantra di essere «la sola democrazia del Medio Oriente».
Da quello che ci dicono, però, sono la democrazia per gli ebrei: una teocrazia che ha spinto per la creazione di un unico Stato con due sistemi separati. Uno per la popolazione privilegiata, gli ebrei, e una per le persone di seconda classe, arabi palestinesi cristiani e musulmani. Approvando la legge dello Stato-nazione ebraico Israele è ufficialmente divenuto un regime di apartheid, basato sulla supremazia ebraica.
Il punto adesso è cosa accadrà. Anche in assenza di questa legge, che riconosce pieni diritti politici e nazionali solo alla popolazione ebraica, esistono già oltre 50 leggi in Israele che discriminano i cittadini non ebrei. Ma il significato di questa legge va oltre l’immediata discriminazione che i palestinesi cittadini di Israele subiscono nell’accesso ai servizi: punta a consolidare il programma politico israeliano di sotterrare la soluzione a due Stati basata sui confini del 1967, rendendo impossibile la convivenza di due Stati indipendenti, uno accanto all’altro, in pace e sicurezza che la comunità internazionale, e l’Europa in particolare, ha promosso.
Il governo israeliano si è sentito tranquillo nel promuovere la legge perché ha dietro di sé l’amministrazione Trump. I «tre moschettieri sionisti», ovvero il team per il Medio Oriente del presidente Trump, Greenblatt, Kushner e Friedman, condividono la stessa ideologia radicale sionista dell’attuale governo israeliano, non guardano ai palestinesi come degli uguali e non sono nemmeno capaci di pronunciare termini come «diritti palestinesi» o «Stato palestinese».
Accanto alla posizione Usa, l’Unione europea ha rassicurato Israele in varie occasioni che non avrebbe imposto sanzioni per le sue sistematiche violazioni del diritto internazionale e delle risoluzioni Onu, rafforzando la cultura dell’impunità di Israele. L’ambasciatore della Ue a Tel Aviv insiste spesso nel ripetere che l’Unione europea e Israele «condividono i valori della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani».
Ma adesso la Ue ha la responsabilità di agire, sulla base dei suoi stessi principi. L’Accordo di associazione Ue-Israele prevede all’articolo 2 che «le relazioni tra le parti, così come le disposizioni dell’Accordo stesso, devono essere basate sul rispetto per i diritti umani e i principi democratici, che guidano la politica interna e internazionale e costituiscono un elemento essenziale dell’Accordo».
La legge sulla nazionalità ebraica pone tutti i palestinesi che vivono nella terra storica di Palestina, siano cristiani, drusi o musulmani, dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, dalla Galilea al deserto del Negev, sotto il controllo di uno Stato che per legge nega loro il diritto all’autodeterminazione. I palestinesi rappresentano oltre il 50% della popolazione totale sotto il controllo israeliano, sia in Israele che nei territori occupati.
La Ue intende accettare questa realtà di apartheid come parte di quei cosiddetti «valori comuni» con Israele? Può un qualsiasi rappresentante europeo riferirsi a tale situazione come a quei «principi democratici» a cui l’Accordo di associazione è condizionato?
I sostenitori di Israele, noti come «hasbaristi», insisteranno sul fatto che alcuni cittadini palestinesi sono membri della Knesset (parlamento) israeliano, dunque Israele resta una democrazia. Ma la legge sulla nazionalità non menziona mai questa parola. Ciò che conta è che quella democrazia va al di là della nostra presenza in parlamento e che Israele non può dunque più definirsi tale. Una proposta di legge che ogni anno propongo sull’eguale allocazione di terre a tutti i cittadini è sempre respinta dal governo israeliano. Ogni disegno di legge sul valore dell’eguaglianza è automaticamente respinto.
L’etnocrazia israeliana, questo «ufficializzato» regime di apartheid, non cambierà finché non pagherà il prezzo del suo razzismo, della sua arroganza e della sua sistematica violazione del diritto internazionale. Le nazioni europee hanno di fronte una scelta: o continuare a incoraggiare il razzismo israeliano e i suoi crimini ignorando la realtà, o agire per salvare la prospettiva di una pace giusta e duratura che salvaguardi i diritti di tutti, israeliani e palestinesi, cristiani, drusi, musulmani ed ebrei.
Come primo partner commerciale israeliano, l’Europa ha abbastanza strumenti per fermare questa follia estremista sionista incoraggiata da Trump. Noi rispettiamo la vostra storia e i vostri valori. Aspettiamo con ansia di vederli e sentirli.

Repubblica 10.8.18
Polonia/ Germania
Ebrei e musulmani insieme ad Auschwitz "L’antisemitismo è un peccato per l’Islam"
di  Giampaolo Cadalanu


BERLINO, GERMANIA Davanti alle baracche di un campo di sterminio il rispetto è dovuto, sempre e comunque. Ma non tutti mostrano di comprenderlo. Da una parte ci sono i profughi musulmani accolti in Germania, che in visita ad Auschwitz hanno voluto giurare attorno ad Aiman Mazyek, presidente della comunità islamica, che impegneranno tutta la loro forza e la forza dell’Islam perché «non si ripeta mai più una catastrofe come la Shoah». Dall’altre parte personaggi come il parlamentare della Alternative für Deutschland (Afd) Stephan Brandner, che invoca un colloquio con i responsabili del campo di Buchenwald, ma non riesce nemmeno a chiarire le posizioni ambigue del suo partito sull’Olocausto.
Nel campo di sterminio, che è situato in Polonia, l’appuntamento era una cerimonia interreligiosa che concludeva un viaggio di studio con l’Unione ebrei progressisti guidati dal rabbino Henry Brandt, in compagnia di rifugiati musulmani, giovani della comunità ebraica e diversi esponenti politici. Mazyek ha definito il lager «un simbolo spaventoso della deportazione, della disumanizzazione e della persecuzione di milioni di esseri umani», chiarendo poi che «ogni forma di antisemitismo, o di odio per gruppi umani specifici, o di razzismo, è un peccato davanti all’Islam».
Del tutto diverse le idee sul tema fra i populisti della Alternative für Deutschland: l’anno scorso Björn Höcke, leader del partito in Turingia, aveva suscitato sdegno e irritazione in tutto il Paese chiedendo durante un discorso a Dresda un approccio diverso al passato nazista, e definendo «un monumento alla vergogna» il memoriale di Berlino per le vittime del nazismo. Così, quando Höcke si è presentato al lager di Buchenwald, il personale della fondazione che lo gestisce gli ha negato l’accesso.
Il deputato Brandner aveva voluto con l’amministrazione del campo un colloquio chiarificatore, mercoledì, ma è riuscito ad aumentare l’irritazione, minimizzando le parole del collega e ricordando al personale che «è pagato con soldi pubblici».

il manifesto 10.8.18
La chiamata dei sovranisti della Linke
Germania. Il movimento «Alzati» di Sahra Wagenknecht raccoglie adesioni, con l’appoggio di Oskar Lafontaine. Il 4 settembre lasceranno il partito di Katja Kipping, troppo «internazionalista». Secondo la Taz: «'Aufstehen' ha già raggiunto 50 mila firme, tra cui quelle di chi sceglieva Afd per protesta»
di Sebastiano Canetta


BERLINO Tra l’imminente discesa in campo dei sovranisti che il 4 settembre si muoveranno fuori dall’orbita Linke, e la lenta ma inesorabile caduta della socialdemocrazia di governo, ormai assediata anche dall’alternativa ecologista.
L’orizzonte della Sinistra tedesca rimane schiacciato dalla scissione della sua politica, prima ancora della mutazione genetica dell’elettorato non più “solo” coincidente con la parte più progressista del Paese.
Da mercoledì il «movimento di raccolta» “Alzati” lanciato da Sahra Wagenknecht, capogruppo della Linke al Bundestag, ha aperto il sito web (aufstehen.de) da cui dirigere la linea sovranista che non è possibile diffondere nel partito guidato dall’“internazionalista” Katja Kipping. Con lei c’è Oskar Lafontaine, ex presidente Spd e poi del partito in cui entrambi tuttora militano. Sono appoggiati dal gruppo di deputati e funzionari che hanno scelto di seguirli. Non solo dentro alla Linke. Spiccano, fuori dal recinto di casa, il socialdemocratico Marco Bülow e il Verde Antje Vollmer. Con la loro benedizione confermano l’esistenza di un bacino d’interesse che sta tra la sinistra Spd e la galassia ecologista di formazione marxista ma non solo.
Oltre che, naturalmente, dell’universo nazionale “operaio”, del mondo di chi campa di sussidi, dell’esercito dei pensionati ex Ddr che già votano per Alternative für Deutschland. Riportarli indietro è l’obiettivo di Wagenknecht, convinta che l’appoggio della Linke alla Wilkommenopolitik dei profughi di Merkel abbia allontanato i militanti. Secondo “Alzati”, la protezione dei deboli va attuata a partire proprio da quel Volk in agitazione pronto ad ascoltare chiunque gli proponga alternative alle «soluzioni europee» o made in Usa.
«La cultura di benvenuto senza confini» insieme a «l’azione di bande criminali che si muovono mezzi illegalmente verso l’Europa» sono i problemi all’ordine del giorno per Wagenknecht: la linea che l’ha portata a scontrarsi con l’attuale segreteria del partito.
Sull’informazione di riferimento si squadernano le diverse chiavi di lettura del movimento “sovranista”. La Neus Deutschland, organo collegato a filo doppio con i vertici del partito, informa brevemente che “Alzati” «non ha ancora fatto alcun passo in attesa della campagna di entusiasmo che si dovrà creare da qui a fine mese». Sulla Berliner Zeitung, il quotidiano progressista della capitale, invece, ieri si poteva leggere la “lavata di capo” alla leader dei secessionisti di Ulrich von Alemann, 73 anni, professore di Scienze politiche all’Università di Düsseldorf.
«Wagenknecht è vaga su ciò che vuole davvero. Non sappiamo ancora come si inserirà Aufstehen nell’attuale sistema politico. Se si tratta di trasformarlo in un vero partito il potenziale sarebbe dal 10 al 15%. Ma tutto a spese delle altre forze di sinistra. Per questo Wagenknecht è sulla strada sbagliata».
Tuttavia, però, come riporta la Taz, il foglio della sinistra indipendente «nel giorno dell’apertura Aufstehen ha già raccolto 50 mila firme, tra cui quelle di chi sceglieva Afd per protesta». Gente come la studentessa Viktoria, il dj Rene, il volontario del reparto oncologico pediatrico Christian, tra i testimonial sul sito del nuovo movimento. Qui la parrucchiera Margot svela la «paura di perdere la casa» e racconta il lavoro che le «spezza le mani».
Oltre al campo della Linke, non lontano, si consuma lo psicodramma Spd che neppure con la neosegretaria Andrea Nahles recupera il consenso bruciato prima con Sigmar Gabriel e poi con Martin Schulz. La rilevazione dell’Istituto Insa datata 7 agosto fotografa l’avanzata dei Verdi passati all’incasso dell’opposizione frontale alla Groko di Merkel: l’8,9% preso dai Grünen alle ultime elezioni federali è diventato 12,5% mentre il 20,5 della Spd adesso corrisponde al 17%, esattamente quanto vale Afd.
«Distinguiamoci dai Verdi, imitarli non ci aiuta» tiene a precisare Nahles mentre il suo vice, Karl Lauterbach continua a dare tutta la colpa ai bavaresi: «La Csu ha rovinato l’immagine della Grande coalizione e ora i Verdi beneficiano del danno. Ma al di là di Seehofer, il governo funziona bene».

Corriere 10.8.18
Tutte le strade le ha tracciate Roma
L’effetto sull’economia
Il successo corre lungo le strade dell’antica Roma
Uno studio danesefotografa la relazione tra antiche vie latine e sviluppo economico
Un’ambizione imperiale cui oggi aspira la Cina
di Danilo Taino


L’attuale sviluppo economico — ultimo caso la Via della Seta, architrave della politica del presidente cinese Xi Jinping — ha radici lontane: 2 mila anni. Uno studio danese ha infatti dimostrato che «c’è maggiore attività economica in luoghi dove è maggiore la densità di strade romane».
Q uando la geografia, la geopolitica e gli spiriti egemonici tornano a fare la storia, trascinano con sé le grandi opere. Sempre. Sin dai tempi dell’antica Roma.
Non poteva che essere così anche oggi: la discussione del momento è sul grande, nuovo progetto di Via della Seta lanciato dal governo cinese. Il nome corretto è Belt and Road Initiative , prevede investimenti superiori ai mille miliardi di dollari per creare strade, ferrovie, porti, aeroporti, centrali elettriche e nucleari, centri di scambio merci, gasdotti e oleodotti in 78 Paesi di Asia, Europa e Africa. È l’architrave sul quale la Cina di Xi Jinping intende estendere la propria egemonia sull’intera Eurasia.
Al di là della volontà di potenza di Pechino — che preoccupa sia l’America sia l’Europa — è interessante chiedersi quale sarà l’effetto di sviluppo nel tempo di questo immenso piano infrastrutturale. Il quotidiano Washington Post ha raccontato di un lavoro che il professor Carl-Johan Dalgaard e la sua équipe conducono da anni all’Università di Copenaghen per capire se c’è una relazione tra la rete stradale del passato, in particolare quella costruita dagli antichi romani, e lo sviluppo delle aree toccate da questa ragnatela, che nel secondo secolo dopo Cristo arrivò a estendersi per più di 80 mila chilometri, tra Italia, Europa, Vicino Oriente e Nord Africa.
Non solo per verificare la convinzione diffusa che le strade favoriscono lo sviluppo ma anche per dimostrare che hanno effetti di lunga durata: quelle dei romani di duemila anni fa influenzano ancora l’oggi.
Dalgaard ha dunque sovrapposto la rete di strade romane (individuando la Via Appia del 312 avanti Cristo come il modello iniziale) a una serie di indicatori della prosperità odierna: densità della popolazione, reti infrastrutturali e soprattutto l’illuminazione notturna fotografata dai satelliti.
I ricercatori di Copenaghen hanno poi elaborato una serie di dati e hanno stabilito che «c’è maggiore attività economica in luoghi con maggiore densità di strade romane». C’è insomma una «persistenza» dell’investimento di duemila anni fa. «La persistenza negli investimenti infrastrutturali è una fonte potenziale di persistenza nello sviluppo comparativo», sostiene Dalgaard. E «la densità di strade romane è in genere un forte previsore dell’attività economica contemporanea».
Che l’infrastruttura degli antichi romani abbia aiutato lo sviluppo di ampie regioni è in effetti molto probabile. Che ne sia la causa è più difficile da stabilire: di certo, non è l’unica e forse nemmeno la più importante. Le istituzioni economiche e politiche che sono seguite nei secoli, in particolare dall’Ottocento in poi in Europa, hanno sicuramente giocato un ruolo decisivo. Tanto è vero che la relazione tra strade romane e attività economica è, rispetto all’Europa, meno forte nell’Africa del Nord e nel Vicino Oriente, dove queste istituzioni non si sono sviluppate.
È interessante il fatto che i romani non costruirono la rete stradale tanto per motivi economici quanto per ragioni militari, per fare muovere mezzi e legioni, a cominciare proprio dalla Via Appia. Lo stesso spirito muove, in buona misura, la Via della Seta cinese oggi: un’iniziativa infrastrutturale che è però guidata da ragioni politiche di egemonia, dall’obiettivo di sostituire la Pax Americana con una Pax Sinica, così come duemila anni fa il mondo viveva nella Pax Romana. Un nuovo ordine mondiale non più atlantico ma eurasiatico.
Le strade studiate dai ricercatori danesi andavano da Occidente a Oriente. Nei secoli successivi, altre se ne aprirono, via terra e via mare, per collegare l’Europa e l’Asia.
Oggi è la Belt and Road Initiative a candidarsi come l’unificatore infrastrutturale del supercontinente che va dall’Atlantico al Pacifico. In teoria, ha la potenzialità di aiutare lo sviluppo di grandi regioni, nell’Asia centrale e nel Medio Oriente, forse persino in Siberia, così come le strade romane hanno sostenuto il diffondersi dei commerci al di là dei loro scopi militari.
Il punto debole della nuova Via della Seta cinese è che ha nel dna impronte imperiali oggi difficili da fare accettare: va da Est a Ovest a senso unico, diretta da Pechino con il resto dei Paesi interessati dal progetto in posizione subordinata (soprattutto ai prestiti dei fondi di Stato cinesi). E provoca tensioni e opposizioni.
In Pakistan, per dire, dove il vecchio governo si è troppo indebitato con Pechino per costruire il porto di Gwadar. Nello Sri Lanka, dove lo Stato non è in grado di ripagare i finanziamenti cinesi e dunque Pechino si è appropriata, per i prossimi 99 anni, del porto di Hambantota. E così sta succedendo in alcuni Paesi africani e dell’Est europeo.
Forse, tra duemila anni, studiosi danesi rileveranno che le infrastrutture costruite oggi con i denari di Pechino hanno giocato un ruolo nello sviluppo di alcune regioni. Senza le istituzioni civili e politiche e senza le regole che hanno permesso lo sviluppo dell’Occidente, è però improbabile che scoprano che quelle economie hanno raggiunto risultati eclatanti. Che parta da Roma o da Pechino, una strada non basta.

Il Sole 10.8.18
Perché conviene l’avvicinamento tra Europa e Cina
di Valerio Castronovo


Sebbene fosse già evidente in passato, sommando insieme le risorse e le potenzialità della Cina e dell’India, che la loro crescita di stazza avrebbe prodotto effetti sismici nella geoeconomia e negli equilibri mondiali, il vertice della Ue aveva seguitato, sino alla Grande Crisi esplosa nel 2008, a ritenere di poter contare, anche nell’era della globalizzazione, sulle sue rendite di posizione o che bastasse comunque agire di rimessa per affrontare senza grandi sforzi la competizione con i due giganti asiatici.
Dopo che Donald Trump ha fatto capire a chiare lettere, negli ultimi mesi, che considerava in pratica l’Unione europea non più un partner ma un avversario da indebolire sul piano economico, le contromisure di Bruxelles hanno indotto il presidente americano, nel suo incontro, dello scorso 25 luglio, con Jean-Claude Juncker a sospendere per il momento i dazi sull’alluminio e l’acciaio in cambio di maggiori esportazioni Usa di soia e gas naturale. Ma non è detto che la guerra commerciale fra le due sponde dell’Atlantico sia stata così definitivamente scongiurata.
Perciò la Ue ritiene opportuno stabilire frattanto nuove alleanze. Di qui la crescente attenzione per uno sviluppo, in primo luogo, dei rapporti con Pechino, malgrado si protraggano da tempo infruttuosamente i negoziati di Bruxelles con la Cina per un trattato bilaterale basato su adeguate condizioni di reciprocità e trasparenza che consenta di riconoscere al Dragone lo status di “economia di mercato” a pieno titolo, senza più pratiche distorsive di dumping e barriere discriminatorie alle esportazioni dei Paesi europei.
È vero che non sono mancati ultimamente dall’entourage di Xi Jinping alcuni segnali di una possibile apertura del mercato cinese nei riguardi dei prodotti e degli investimenti stranieri. Tuttavia si sospetta che questa inaspettata disponibilità di Pechino a rivedere certe sue arcigne chiusure stataliste e protezionistiche sia solo una manovra tattica, una sorta di cavallo di Troia, per penetrare nella “fortezza Europa” puntando in particolare a far breccia in alcuni Paesi fra i Balcani e il Sud-Est.
Quanto all’India, sebbene l’avvento al potere nel 2014 del leader nazionalista Narendra Modi abbia suscitato inizialmente il timore che il suo governo assumesse un comportamento più o meno analogo a quello di Pechino, si è registrata invece lungo la strada un’evoluzione dei rapporti fra New Delhi e la Ue caratterizzata da tangibili risultati positivi per entrambe le parti. E ulteriori sviluppi con lo stesso segno si profilano adesso sia in virtù degli investimenti di alcuni gruppi indiani, talora in combinazione con quelli del Vecchio continente, non solo nel settore siderurgico, ma pure in altri comparti (incluso quello finanziario), sia per via delle esportazioni in India di numerose aziende europee. E, in particolare, di quelle italiane, dato che sono cresciute nel 2017 di oltre il 9% e, stando alle previsioni, dovrebbero essere altrettanto promettenti nell’immediato futuro.
È dunque un cambio di rotta della Cina quanto ci si attende adesso dalla Ue con reciproci vantaggi. Poiché se, da un lato, l’Europa mira a ridurre il forte squilibrio fin qui esistente nell’interscambio di beni, dall’altro alcune forniture dei Paesi europei risultano congeniali al piano pluriennale di sviluppo varato recentemente da Pechino, imperniato soprattutto sulla triade innovazione, servizi e consumi.
D’altronde, dopo che è entrato in vigore l’accordo commerciale fra la Ue e il Canada ed è stato firmato il trattato di libero scambio fra Bruxelles e il Giappone, si dovrebbe assistere, dato l’interesse della Cina per un’intesa che garantisca un sistema multilaterale degli scambi internazionali (come è emerso nel summit con la Ue del 17 luglio) a una progressiva liberalizzazione del rigido regime normativo di Pechino in materia di rapporti commerciali con l’Europa.
In tal caso si delineerebbero pure per il made in Italy importanti opportunità di sviluppo. Purché, come ha sottolineato Alberto Bombassei (presidente della Fondazione Italia-Cina e a capo della Brembo che opera da dodici anni con successo in Cina), si agisca con riferimento soprattutto a settori industriali innovativi e di particolare valore aggiunto. Inoltre non è esclusa l’ipotesi che (in seguito sia al prossimo ridimensionamento del Quantitative easing della Bce, sia alla riduzione delle quote di banche e fondi d’investimento nazionali nell’esposizione del debito pubblico), il governo debba coinvolgere nuovi investitori esteri (in primis, cinesi) nella collocazione dei nostri Btp.

il manifesto 10.8.18
Aigues-Mortes, una strage razzista
L'anniversario. 7 agosto 1893, convinta da una «fake news», la folla dà la caccia agli emigrati italiani che lavorano nelle saline in Camargue e fa 10 vittime. Lo storico Enzo Barnabà ricostruisce la tragedia e la sua drammatica attualità. «La stampa di estrema destra presentava i nostri connazionali come delinquenti. Si voleva difendere "l’identità francese". Sembrano frasi scritte oggi in Italia»
di Mauro Ravarino


Era un agosto caldo e di fatica. Soffiava il vento della xenofobia, i politici alzavano il tiro e le fake news erano il pane quotidiano. Francia, Camargue, 1893. Gli straccioni, i ladri di lavoro e potenzialmente delinquenti non avevano attraversato il mare, ma valicato i monti. Gli emigranti erano italiani, piemontesi e toscani soprattutto, impiegati a cottimo per raccogliere il sale.
La tensione si tagliava col coltello. Fu una falsa voce, che si sparse rapidamente, a farla esplodere il 17 agosto: in una rissa, dissero, hanno ammazzato quattro francesi, i responsabili sono es italienes. Partì la vendetta. Fu un massacro. Morirono dieci operai italiani: i torinesi Vittorio Caffaro, 29 anni di Pinerolo, e Bartolomeo Calori, 26 anni di Torino; i cuneesi Giovanni Bonetto, 31 anni di Frassino, e Giuseppe Merlo, 29 anni di Centallo; l’alessandrino Carlo Tasso, 58 anni di Cerrina; l’astigiano Secondo Torchio, 24 anni di Tigliole; il savonese Lorenzo Rolando, 31 anni di Altare; il bergamasco Paolo Zanetti, 29 anni di Alzano Lombardo; il toscano Amaddio Caponi, 35 anni di San Miniato. Sconosciuta l’identità del decimo. Un centinaio i feriti.
Una strage poco conosciuta, spesso negata. Centoventicinque anni dopo, la Francia, o meglio il comune di Aigues-Mortes, la ricorda. Sulla facciata del municipio verrà apposta una targa: «In memoria dei 10 operai italiani vittime della xenofobia durante gli eventi del 17 agosto 1893. In omaggio ai giusti: Jacques Eugène Mauger (abate), Adélaide Fontaine (panettiera), madame Goulay. E ai cittadini di Aigues-Mortes che diedero prova di coraggio e d’umanità».
Venticinque anni fa è stato uno storico italiano a levare il velo di ipocrisia attorno alla tragedia: Enzo Barnabà, siciliano di nascita e ventimigliese d’adozione, francesista, autore di Morte agli italiani! Il massacro di Aigues-Mortes 1893.
Professor Barnabà, finalmente, dopo 125 anni, una lapide ad Aigues-Mortes ricorderà il massacro di dieci italiani ferocemente uccisi. Perché c’è voluto così tanto?
Ad Aigues-Mortes, per decenni, il negazionismo e le ricostruzioni di comodo l’hanno fatta da padroni. Un vecchio signore mi raccontava che quando era piccolo i genitori ne parlavano a bassa voce per non far sentire i bambini. Nel 1993, quando è uscita l’edizione francese del mio libro, si è fatto in modo che non venisse messo in vendita nei negozi cittadini per non turbare le frotte di turisti (molti dei quali italiani) che percorrevano allegramente le strade dell’orribile eccidio. Il ricco dossier che mi ha permesso di ricostruire i fatti era sparito dall’Archivio provinciale. Gli armadi in cui vengono rinchiusi gli scheletri, però, finiscono per essere aperti dagli storici e dagli scrittori. Prima c’è stato il mio Sang des Marais, successivamente il romanzo catartico di Christian Liger, La Nuit de Faraman, e poi il saggio di Noiriel. Il sindaco Pierre Mauméjan, pur essendo di destra, ha deliberato la posa della lapide che sarà effettuata il 17 agosto in pieno centro cittadino. Un atto dovuto, ma coraggioso: Aigues-Mortes è una città in cui xenofobia ed estrema destra imperversano ancora.
Può ricostruire quanto accadde nel 1893?
Il sale era la principale risorsa della città. Durante la raccolta, che avveniva nella seconda metà di agosto e durava un paio di settimane, occorreva mano d’opera che venisse da fuori. Tradizionalmente gli stagionali erano contadini delle non lontane montagne delle Cévennes. Da quando la città era stata collegata alla rete ferroviaria nazionale, la produzione era però aumentata molto, e si fece appello a squadre provenienti in particolare dal Pisano e dal Piemonte. Si lavorava a cottimo. I ritmi erano insopportabili, ci si doveva «drogare» bevendo vino. La malaria infieriva e non c’era acqua per liberare la pelle dal sale. Un lavoro da bagno penale, come recitava un canto operaio. Mancavano i sindacati, gli italiani divennero i capri espiatori di un disagio più generale. Si sparse la voce (falsa) che durante una rissa gli italiani avessero ucciso quattro francesi e si mise in moto la vendetta. Centinaia di transalpini, armati di forconi, bastoni, pietre e anche di fucili, per un’intera giornata presero a dare la caccia all’italiano. Bilancio: dieci morti e un centinaio di feriti.
Perché in quei giorni in Francia si respirava un clima di odio? Ci fu l’intervento della polizia per fermare le violenze o si chiuse un occhio?
Si era in piena campagna elettorale. I partiti xenofobi non le mandavano a dire. Il candidato Maurice Barrès, per esempio, agitava un pamphlet intitolato Contre les Étrangers. Cesare Lombroso parlava di «punture di spillo, ripetute in continuazione da politici ciechi che finiscono per generare odi i quali, benché creati artificialmente, non sono meno potenti degli altri». Va anche ricordata la rivalità tra i due Paesi: guerra doganale, Triplice Alleanza, Tunisia. I poliziotti fecero il possibile, ma erano troppo pochi. A quei tempi, si utilizzava piuttosto l’esercito. Un reparto di cavalleria venne mobilitato, ma aspettò invano per ore alla stazione di Nîmes l’ordine di partire. Quando giunse ad Aigues-Mortes, era tardi. Le responsabilità furono insabbiate.
Come si svolgeva e chi controllava l’emigrazione italiana?
Come scrisse in quei giorni Critica Sociale, si trattava di «un’alluvione umana lenta e continua». Il neonato Partito Socialista non aveva forze sufficienti per incidere sul fenomeno. Ad Aigues-Mortes, sui circa 500 italiani presenti nelle saline, un centinaio era stabilmente emigrato nella regione di Marsiglia, gli altri venivano reclutati da caporali (bayle in occitano) che rivendevano il loro lavoro alla Compagnia delle Saline. Gli operai dunque non venivano assunti e la Compagnia non ne conosceva neppure il nome: portavano un cartoncino con scritto un numero e il nome del loro caporale.
Ci furono dei «giusti» tra i francesi?
Sì, le responsabilità sono sempre individuali. Di alcuni conosciamo il nome, come quello del parroco che difese con grande coraggio gli italiani, affermando che un prete non può fare distinzioni di lingua o nazionalità. E la signora Gouley, che morì a causa di un colpo ricevuto nel tentativo di proteggere un italiano. Diversi anonimi diedero riparo a nostri connazionali.
Si svolse un processo su quei fatti ? Come finì la vicenda?
Fu frettoloso e giocato sulla falsa affermazione del «sangue francese versato per primo», oltre che sull’opportunità di non turbare la ritrovata concordia tra le due «sorelle latine». Crispi, dopo aver cavalcato l’ondata nazionalista che in Italia fece seguito alla strage e scalzato Giolitti, una volta al governo si dimostrò molto conciliante. Malgrado la rigorosa arringa del pubblico ministero, la giuria popolare non volle assumersi responsabilità ed emise uno scandaloso verdetto di assoluzione generale. Come scrisse Michelle Perrot, ci si trovava di fronte a cadaveri che commuovevano ben poco l’opinione pubblica.
Perché ha deciso di studiare a fondo questo brutale massacro? Quali fonti ha consultato?
Nel 1976, giovane insegnante, fui nominato al liceo Daudet di Nîmes, il capoluogo del dipartimento. Ricordavo che a scuola un professore aveva accennato al massacro e volli saperne di più. Nessuno, al liceo, aveva mai sentito parlare della cosa, la Treccani parlava di «400 vittime buttate nel Rodano» (una fake, il fiume non passa da Aigues-Mortes). Le ricerche sono continuate per decenni: gli archivi italiani e francesi hanno un’enorme mole di materiale. Bisogna incrociare le fonti.
All’epoca psicosi e fake news giocarono un ruolo di primo piano, vede analogie con l’attualità italiana?
La stampa di estrema destra presentava gli italiani come delinquenti, accoltellatori, portatori di malattie e di una cultura inferiore. Si accusava il governo di non proteggere i lavoratori e si rivendicava la necessità di difendere l’identità francese. La contrapposizione «noi/loro» entrò largamente in campo. Si giunse al punto di dipingere i nostri immigrati come una quinta colonna che preparava l’invasione militare. Talvolta, sembra di leggere frasi scritte oggi. Per questo è necessario ricordare gli emigrati di Aigues-Mortes, vittime innocenti della violenza xenofoba.

Corriere 10.8.18
Parole in libertà che banalizzano persino Marcinelle
di Paolo Di Stefano


Nel novero, ormai grottesco ed estenuante, delle parole in libertà buttate là dai politici, si aggiunge il pensierino del ministro del Lavoro Luigi Di Maio a proposito della catastrofe di Marcinelle dell’8 agosto 1956. Tra le «riflessioni» che azzarda il vice presidente del Consiglio c’è questa: la tragedia di Marcinelle «insegna che non bisogna partire». Lega e Fratelli d’Italia si sono ben guardati dal commentare questa frase infelice. In compenso hanno urlato all’«offesa» dopo la dichiarazione del ministro degli Esteri Enzo Moavero, che ha ragionevolmente invitato a non dimenticare l’emigrazione dei nostri padri e dei nostri nonni in un’epoca in cui si producono tante tragedie di migrazione. In pratica segnalando un’affinità tra la miseria italiana di ieri e la miseria che costringe molte popolazioni, in questi anni, a partire all’estero rischiando la vita. E non si vede proprio dove sia l’«offesa»: a meno che non si ritenga che i nostri morti abbiamo più valore e più dignità dei morti altrui. È grave, semmai, fare della memoria un esercizio puramente celebrativo, inerte e autoconsolatorio. Ed è, piuttosto, offensivo (senza virgolette) per i 136 morti italiani di Marcinelle, partiti in Belgio in cambio di carbone, esattamente come per i migranti morti oggi in Italia e in Europa, liquidarli con una puerile tautologia: non bisognava e non bisogna partire. Quasi che non sia proprio il «bisogno» ad averli spinti a partire e che allora, come oggi, si trattasse di scegliere. Ministro Di Maio, provi a dirlo alle vedove, agli orfani e ai sopravvissuti di Marcinelle che dal 1946 sono saliti sui treni per Charleroi per andare ad abitare nelle baracche degli ex prigionieri di guerra. Non si è mai trattato di scegliere: le migrazioni per povertà (e tanto più per le guerre o per le persecuzioni) si sottraggono al facile auspicio del «non bisogna», sono una condanna che nessuno vorrebbe mai vivere, uno sradicamento che procura sofferenza e talvolta morte. Tragedie su cui bisognerebbe (anzi, assolutamente bisogna) calibrare le parole evitando di affidarsi al primo pensierino che le banalizza e perciò, appunto, le offende.

Il Fatto 10.8.18
Dramma carceri Giustizia in panne
32 suicidi da inizio anno, ministero e Dap mandano gli ispettori


L’ULTIMO CASO mercoledì, nel carcere di Poggioreale a Napoli, in cui un detenuto si è impiccato alle inferriate con un lenzuolo. Ripetendo tra l’altro - spiega il legale della famiglia - il gesto che il fratello aveva compiuto qualche anno prima sempre a Poggioreale. E appena pochi giorni prima, il 4 agosto, un altro: a Marassi, dove un giovane poco più che trentenne per la prima volta in cella si è tolto la vita. Arrestato il 30 luglio, era quindi detenuto da meno di una settimana.
Sono 32 dall’inizio dell’anno i suicidi in carcere secondo il Ga- rante dei detenuti. Ora si muovono anche il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Alfonso Bonafede e Francesco Basentini hanno disposto delle ispezioni. “Desta preoccupazione il crescente numero di suicidi che si stanno verificando all’interno delle carceri, un fenomeno che impone un’attenta riflessione sulle cause e sulle origini che stanno alla base di questi gesti”. L’avvio dell’attività ispettiva dovrà servire a raccogliere tutti gli indispensabili elementi in- formativi - cause, dinamiche e modalità dei fatti - in riferimento ad ogni suicidio avvenuto dal 1 gennaio 2018 e rispetto ad ogni ulteriore evento futuro della stessa natura. L’iniziativa si inquadra nella maggiore attenzione impressa dall’amministrazione sulle condizioni dei detenuti.

La Stampa 10.8.18
Stretta in arrivo sui negozi di marijuana legale
di Alberto Mattioli


La tolleranza zero sul fronte della droga l’aveva anticipata in un’intervista a «La Stampa», insieme alla notizia che la relativa delega sarebbe toccata a lui, ministro per la Famiglia. Adesso il leghista Lorenzo Fontana passa dalle parole ai fatti. L’occasione è il maxi sequestro di 20 tonnellate di hashish su una nave, a Palermo. Il bersaglio, i «cannabis shop», negozi che smerciano prodotti a base di canapa e che si stanno diffondendo velocemente in tutta Italia (per inciso, ce n’è uno anche davanti a Palazzo Chigi, l’ufficio di Fontana).
Il ministro annuncia che farà verificare «i presupposti giuridici in base ai quali certi prodotti a base di cannabis sono venduti al pubblico in assenza di una specifica regolamentazione», insomma vuol fare chiarezza su quella che ritiene una «zona grigia» di regole incerte, e forse volutamente tali.
Poi Fontana spiega il suo progetto: «Vogliamo innanzitutto verificare, sotto il profilo tecnico, che la diffusione dei cosiddetti “grow shop” sia coerente con la normativa vigente. La norma, infatti, nata due anni fa per consentire la produzione di canapa per uso industriale, ha finito per “legittimare” la commercializzazione al dettaglio della cannabis “light”, usata per altri fini. Fini, sottolineo, che il Consiglio superiore di Sanità non esclude possano essere pericolosi. Da qui le ragioni della nostra prudenza».
Appare quindi possibile, anzi probabile un giro di vite anche sul fronte dell’ormai popolare cannabis «light». Fontana cita anche la relazione annuale della Direzione centrale dei Servizi antidroga, secondo la quale un ragazzo su quattro fa uso di cannabis e uno su dieci delle nuove sostanze psicoattive.
«Nella popolazione studentesca (tra i 15 e 19 anni) - scrive Fontana su Facebook, ormai diventato la bacheca del governo - ci preoccupa, ma allo stesso tempo ci stimola a intervenire efficacemente e precocemente, il dato che il 25,8% faccia uso di cannabis, il 10 di nuove sostanze psicoattive, l’1,9 di cocaina e lo 0,8 di eroina. Puntiamo al potenziamento della prevenzione e alla sensibilizzazione delle famiglie - annuncia il ministro - al consolidamento del rapporto con le scuole e allo sviluppo di progetti comuni oltre che al potenziamento dei flussi informativi e del sistema di allerta precoce del Dipartimento Politiche antidroga».

La Stampa 10.8.18
Mozart, il Requiem dei misteri
Così la vedova alimentò la leggenda sull’ultima opera del genio ragazzino
di Vittorio Sabadin


Nessun capolavoro incompiuto è più affascinante del Requiem di Mozart. Crediamo ormai di saperne tutto, ma molte delle cose che crediamo di sapere sono frutto di leggende e di bugie belle e buone, la cui principale divulgatrice è stata la stessa vedova del compositore, Constanze. L’aura di mistero che avvolge il Requiem è stata alimentata anche dal successo del film Amadeus di Milos Forman, che tanto ha meritevolmente contribuito a fare conoscere Mozart nel mondo quanto ha confuso le idee sui suoi ultimi giorni. Il messaggero misterioso, la sensazione di scrivere la messa funebre per se stesso, la convinzione che Mozart, ormai vinto dalla malattia, abbia lasciato cadere la penna all’ottava battuta del Lacrimosa, persino il funerale da quattro soldi senza che nessuno seguisse la bara: sono tutti espedienti buoni per una commedia, ma non corrispondono a verità. Inoltre, anche se molto lavoro è stato fatto, ancora non sappiamo con certezza quanta parte del Requiem sia di Mozart e quanto sia dovuto invece agli interventi degli allievi Eybler, Freystadtler e Sussmayr, ai quali la vedova chiese di completare il lavoro per venderlo come se il marito l’avesse terminato.
Il conte Franz von Walsegg trascorreva giorni oziosi nel suo castello a Stuppach, isolato dal mondo, dilettandosi con la musica che faceva comporre da altri ed eseguire come se ne fosse lui l’autore. Sua moglie Anna morì a vent’anni nel febbraio del 1791. Sei mesi dopo, nessun committente mascherato e lugubremente vestito di nero si presentò alla porta di Mozart per chiedergli di comporre un requiem. La richiesta arrivò, ma con una lettera sigillata spedita dallo studio dell’avvocato di Walsegg a Vienna, Johann Sortschan. Sussmayr confermò di avere visto la lettera e anche la vedova descrive in una corrispondenza il sigillo che la chiudeva. Il conte aveva fatto erigere alla moglie un monumento funebre spendendo 3000 fiorini. Ora, desiderando restare del tutto anonimo, ne offriva 225 a Mozart per un requiem che avrebbe fatto eseguire, ancora una volta come se fosse suo, in memoria dell’adorata Anna.
Mozart aveva molto altro da fare: il Flauto magico per il teatro di Emanuel Schikaneder, la Clemenza di Tito per l’incoronazione dell’imperatore Leopoldo a Praga. Quando nella notte del 5 dicembre 1791 morì, i fogli della partitura del Requiem erano ancora pieni di spazi bianchi, sui quali si potevano tessere le trame di molte leggende. La lettera a Lorenzo Da Ponte, arguto librettista delle sue opere «italiane», nella quale Mozart afferma di essere ossessionato dall’immagine dello Sconosciuto, di percepire che era giunta la sua ultima ora e di voler a tutti i costi terminare il proprio «canto funebre» si è rivelata palesemente contraffatta. La prima biografia del compositore, scritta da Franz Xaver Niemetschek sulla base della testimonianza della vedova, ci racconta che un giorno a Vienna, nei giardini del Prater, Mozart parlò a Constanze della morte che presagiva imminente, e le disse che stava componendo il Requiem per se stesso. Prima di spirare, si era fatto portare la partitura, per aggiungervi gli ultimi angosciati ritocchi. Sappiamo per certo invece che la musica che Mozart chiese di sentire prima di morire fu un’aria di Papageno dal Flauto magico, una composizione che deve averlo ossessionato, per la complessità dei suoi significati, molto più del Requiem.
Completata in gran parte da Sussmayr, la Messa funebre fu consegnata mesi dopo all’anonimo committente. Walsegg la fece eseguire il 14 dicembre 1793, su una copia scritta a mano da lui stesso e firmata C(ompte) de Walsegg. Ma non è vero, come molti credono, che quella fu la prima volta che si udirono le note del Requiem. La prima esecuzione completa era avvenuta mesi prima alla Jahn-Saal di Vienna per iniziativa del barone von Sweiten, a beneficio di Constanze e dei due figli. Cinque giorni dopo la morte di Mozart l’amico Schikaneder, per conto della corte viennese, aveva organizzato una messa nella quale era stato sicuramente eseguito l’Introito del Requiem, già completato, il Kyrie e probabilmente anche le porzioni a quattro parti della Sequenza e dell’Offertorio. Il funerale non fu dimesso e modesto. Lo pagò il barone von Sweiten e fu conforme alle rigide disposizioni dell’imperatore Giuseppe II, ancora in vigore per le esequie funebri. Si trattò di una cerimonia intima, consona alle leggi e adeguata alla posizione che Mozart aveva nella società. Il tributo di Vienna ci fu e gli amici lo commemorarono con il suo Requiem.
La partitura che Constanze consegnò al committente aveva parti meravigliose, intense e toccanti. Altre erano piene di imperfezioni, rattoppi e magagne, come nel Sanctus, nel Benedictus e nell’Agnus Dei che erano interamente opera di Sussmayr. Completato l’Introito, Mozart com’era sua abitudine aveva scritto le parti delle voci e del basso dei brani seguenti, annotando particolari temi dell’accompagnamento orchestrale solo quando era necessario. L’orchestrazione è opera di Sussmayr, non sappiamo fino a che punto su indicazioni verbali del suo Maestro. Mozart si era poi fermato all’ottava battuta del Lacrimosa non perché le forze gli erano venute meno, ma perché quello era un punto importante sul quale voleva ancora riflettere: appunti ritrovati dimostrano che voleva chiudere il brano con una fuga sulla parola «amen», che Sussmayr ha rozzamente liquidato con una cadenza di due battute, peraltro plagiata.
Chi conosce e ama l’ultimo lavoro di Mozart dovrebbe leggere, se non l’ha già fatto, l’illuminante libro Il Requiem di Mozart di Christoph Wolff (Astrolabio, 2006), nelle cui pagine è stata ricostruita la partitura incompiuta che fu consegnata agli allievi perché la completassero. Scorrerla mette a tacere tante interpretazioni malevole, come quella del musicologo Jacob Weber che parlò in un libro di «gorgheggiamenti» non degni di Mozart nel Kyrie: «Oh tu arcisomaro», «Oh tu doppio somaro», aveva appuntato Beethoven di fianco a questa osservazione. In fondo, per capire che cosa nel Requiem è di Mozart e che cosa non lo è, c’è un sistema infallibile: basta ascoltarlo.

La Stampa 10.8.18
A Gibuti per salvare la cultura con la task force dei caschi blu
di Francesco Semprini


Siamo qui per addestrare la polizia di Gibuti a proteggere i patrimoni artistici». «Quindi siete i caschi blu dell’Onu?». La domanda è retorica, visto che a rispondere è lo stemma con la scritta «celeste Onu» «Unite4Heritage», che spicca sulla mimetica scura bordata di rosso indossata dai due militari italiani. «Uniti per il patrimonio», appunto, il motto dei «Caschi blu» che dal 2016 operano nel mondo a difesa della «cultura violata» da conflitti, disastri naturali e traffici illegali di opere d’arte. Una forza di pace di cui la task force dei Carabinieri del comando Tutela patrimonio culturale (Tpc), rappresenta la spina dorsale, grazie a una tradizione di circa mezzo secolo che li ha resi un’eccellenza planetaria.
Africa orientale
«Si, siamo Caschi blu, qui nella veste di addestratori dei Carabinieri per formare la polizia nazionale», spiegano i due marescialli del Tpc, veterani del Comando provenienti dai nuclei di Roma e di Torino. Li incontriamo a Gibuti, la nuova terra delle opportunità, realtà minuscola ma cruciale che le dinamiche geo-strategiche del nuovo Millennio hanno riportato al centro del Pianeta.
Qui anche l’Italia ha conquistato «il suo posto al sole» con la Base militare di supporto (Bmis) comandata dal colonnello degli Alpini Lorenzo Guani. La prima base interforze dal dopoguerra in territorio straniero, e piattaforma di supporto a 360 gradi per tutte le attività svolte dalle forze armate italiane nella regione. Tra queste c’è l’attività a cui si dedicano i Carabinieri nell’ambito della Missione Italiana di addestramento (Miadit), con cui si preparano mediamente 180 poliziotti somali e 225 fra poliziotti e gendarmi gibutini, oltre a ufficiali, reparti investigativi, forze speciali con i Gis, e addestratori.
Italia Paese precursore
Tra loro gli specialisti del Nucleo Tpc. «È un’attività molto specialistica, abbiamo iniziato nel 2013 e siamo oggi alla decima edizione» spiega il capitano Matteo Maria Lucente, Capo ufficio comando della missione Cc Miadit Somalia 9. In realtà Gibuti non è culla di significativi patrimoni, ma essendo porta di accesso all’Africa dalla Penisola arabica qui potrebbero transitare opere d’arte trafugate in tutta la regione sfruttando il caos yemenita. È il contrasto al traffico illegale una delle priorità di Carabinieri e Caschi blu.
Caschi blu in tutto il mondo
Gibuti è però soltanto uno dei teatri operativi dei Caschi blu italiani, spiega Lucente: «Ho partecipato all’avvio della prima edizione Miadit Palestina 1 nel 2014 per l’addestramento di un corpo di polizia specialistica, la polizia turistica, che si dedica anche alla tutela dell’enorme patrimonio locale tra scavi, edifici di culto e musei». Il Tpc affonda le sue radici al 3 maggio 1969 precedendo di un anno la Convenzione Unesco di Parigi con cui, tra l’altro, si invitavano gli Stati Onu a istituire specifici servizi finalizzati alla protezione del patrimonio culturale nazionale.
L’Italia, insomma, è stata Paese precursore di quello che accadrà molti anni dopo all’Onu creando i suoi Caschi blu, forti del fatto che circa il 60 per cento del patrimonio artistico del mondo si trova nel nostro Paese. La sede principale è a Roma a palazzo Sant’Ignazio, il reparto operativo è suddiviso in tre sezioni, archeologia, antiquariato, falsificazioni arte contemporanea, con cui si abbraccia tutta la storia.
Tra le attività c’è anche la gestione della banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti unica al mondo e il servizio «iTPC», una App per dispositivi mobili di ultima generazione che offre la possibilità di ricercare e consultare più di 22 mila beni culturali, di elevato valore, accessibile a chiunque. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti come il recente ritorno in Italia del vaso di Eufronio e il recupero dello scorso anno dei 5 mila reperti archeologici trafugati in Svizzera. Poi ci sono le missioni all’estero per cui viene fatta una selezione psicofisica e attitudinale nell’ambito di un corso di formazione specifica grazie a cui operare in teatri anche ostili.
I Caschi blu Onu
I peacekeeper italiani della cultura nascono grazie all’esperienza maturata in Kosovo e Iraq, in forza del ruolo riconosciuto al comando a livello globale, e alla collaborazione giudiziaria sviluppata internazionalmente per il recupero dei beni trafugati. È stato il governo italiano, per primo, ad intuire la necessità di rafforzare le capacità di risposta dell’Unesco di fronte alla straordinarietà delle situazioni di emergenza e a proporre la creazione di nuovi strumenti condivisi tra Stati membri ed Organizzazione.
L’accordo con le Nazioni Unite è stato firmato nel 2016. «E’ una delle migliori risposte che il nostro Paese potesse fornire per reagire ai crimini contro l’umanità che l’Isis e le organizzazioni similari stanno perpetrando nelle attuali aree di crisi», ha più volte sottolineato il comandante del Tpc, Generale Fabrizio Parrulli. «Andiamo ovunque ci chiamino», spiegano i militari di stanza a Gibuti, in Iraq, Palestina, Lettonia, America Latina e Messico.
A Baghdad la supermissione
Ma la missione che ha più caratterizzato il lavoro di questi «guardiani della cultura» è stata a Baghdad dopo i tragici avvenimenti del 2004, quando c’è stato il saccheggio del museo della capitale in seguito all’intervento americano e alla ritirata delle forze irachene. Una missione nella missione, quella di Antica Babilonia, che ha visto un significativo tributo di vite umane. E che idealmente è proseguito nell’Iraq martoriato dall’Isis, grazie al lavoro dei carabinieri di «Unite4Heritage» nell’ambito delle operazione «Inherent Resolve» e «Prima Parthica».

Corriere 10.8.18
I Rapa Nui contro il British Museum
L’isola vuole la restituzione di una statua
Fu sottratta 150 anni fa dalla Royal Navy
dal nostro inviato a Londra Matteo Persivale


Alto più di due metri, straordinariamente imponente, quasi magico nel suo mistero, è da 150 anni una delle opere piu viste e amate del British Museum. Hoa Hakananai’a è la statua Moai (16esimo o 17esimo secolo) tra i simboli, per il pubblico mondiale, del museo londinese di Bloomsbury. Il suo nome significa «amico perduto» o anche, ironia della Storia, «amico rubato». Nonostante i cataloghi generalmente lo descrivano come «rimosso» nel 1868 da un capitano della Royal Navy, Richard Powell, e donato alla regina Vittoria che qualche mese dopo lo donò a sua volta al British Museum, al netto di terminologie tecniche più o meno edulcorate si tratta di un’opera rubata, uno dei numerosi «furti coloniali» (esempio classico, i fregi del Partenone sempre al British Museum) ora nel mirino.
Hoa Hakananai’a è tra l’altro un’opera di straordinario interesse e molto rara — è di basalto, materiale inconsueto per le statue Moai — e Rapa Nui chiede ora l’aiuto del governo cileno per ottenerne la restituzione da Londra. È innegabile che nei secoli più di quattromila opere furono sottratte dall’isola, e che il trattamento dei Rapa Nui (su quella che a lungo veniva chiamata «Isola di Pasqua») fu di tipo genocida, con la popolazione indigena decimata dal vaiolo (malattia ora eradicata dai vaccini ma al tempo della colonizzazione britannica devastante) o ridotta in schiavitù.
È significativo che, come nel caso dei fregi del Partenone — «rimossi» dall’Acropoli dal conte di Elgin all’inizio dell’Ottocento dopo una trattativa con le autorità dell’Impero ottomano —, l’unica possibile dichiarazione ufficiale del British Museum sia relativa alla ormai lunghissima permanenza dell’opera a Londra e dalle condizioni obiettivamente esemplari della conservazione ed esposizione, visto che sul modo in cui giunsero in quello che allora era l’Impero di Sua Maestà ci sia poco da dire.
Il tema è politicamente molto delicato: neppure Jeremy Corbyn, leader laburista in queste settimane sotto scacco per il problema dell’antisemitismo nel partito, che vedrebbe di buon occhio qualunque tema che gli permetta di cambiare discorso, sembra disponibile a scendere in campo a favore della restituzione di Hoa Hakananai’a, nonostante proprio Corbyn tra le promesse programmatiche abbia incluso la restituzione dei fregi del Partenone (i britannici generalmente li chiamano Marmi Elgin, il che dice tutto) se diventerà lui primo ministro.
Perché l’Impero è indubbiamente stato smantellato ma in termini di patrimonio artistico buona parte della refurtiva resta ancora nel Regno Unito. La questione legale è spinosa — dopo quanti anni, o secoli, il possesso di un’opera rubata si trasforma nella proprietà dell’opera? Proprio il British Museum ha appena restituito all’Iraq, dopo un’indagine condotta con lodevole zelo in collaborazione con Scotland Yard e i servizi dell’intelligence militare, alcune opere d’arte sumeriche che erano risultate sottratte da un museo di Baghdad, dove torneranno a giorni. Ma, ovviamente, le opere erano state rubate nel 2003, durante la guerra. La tesi di chi è contrario a restituzioni di arte rimasta secoli a Londra è esattamente questa.
Rapa Nui ha chiesto la collaborazione al governo cileno (l’isola è 3.700 km al largo delle coste cilene) e il British Museum si dice comunque, in assenza finora di richieste ufficiali di restituzione, «come sempre disponibile a collaborare con partner e comunità in tutto il mondo, e siamo felici di ricevere proposte e discussioni per progetti futuri e lavori di ricerca».

Corriere 10.8.18
Baracca batte il Barone Rosso
Una garbata discussione sui due piloti della Grande guerra. Richthofen è diventato immortale come avversario di Snoopy nei fumetti, però non basta
Il cavallino rampante rende l’eroe romagnolo più popolare dell’asso tedesco
di Luca Goldoni


Gli hanno intitolato vie, piazze, scuole, squadre di calcio, e se oggi chiedi a un ragazzino chi era Francesco Baracca forse saprà rispondere, perché giornali e tv hanno ricordato i cento anni dal suo ultimo volo di guerra nell’inferno del Montello, in vista del Piave. «Gli eroi sono tutti giovani e belli» cantava Guccini. Baracca era giovane, alto, sguardo dolce e penetrante. Faceva strage di cuori femminili, ma non di nemici: doveva combattere e uccidere. Ma se l’avversario, colpito riusciva ad atterrare, Baracca scendeva tra frumento e margherite accanto a lui e lo soccorreva. Un aviatore gentiluomo, un cavaliere del cielo. Come la maggior parte dei primi aviatori, anche Baracca proveniva dalla cavalleria (le foto in bianco e nero li ritraggono ancora con gli speroni sugli stivali). Le donne, gli amori rimarranno sempre presenti nella breve esistenza di Francesco, ma mai compiuti fino in fondo. A un giornalista egli confessò: «Con la vita che ho scelto, sarei un farabutto ad alimentare un grande amore, probabilmente destinato a un grande funerale».
Quando con mio figlio Alessandro iniziammo le ricerche per una biografia di quel famoso top gun, restammo sbigottiti dalla scoperta di un’infamia. Il paracadute era stato inventato e collaudato, ma gli alti comandi di tutta Europa lo avevano vietato agli aviatori perché, a loro dire, «toglieva grinta e spirito combattivo». Dunque i piloti colpiti erano costretti a precipitare con l’aeroplano o a lanciarsi nel vuoto come torce umane. Gli stati maggiori non si accontentavano di eroi. Esigevano dei martiri.
Ma il motivo centrale di questo articolo è una curiosa polemica italo-tedesca (ben più garbata di quella accesa in F1 da Hamilton, pilota Mercedes, l’8 luglio scorso in occasione del gran premio di Silverstone).
Amo l’Italia dove risiedo da dieci anni — ci scrive Heinrich M. da Firenze — ho seguito le vostre rievocazioni della Grande guerra, comprese le gesta dell’asso Francesco Baracca. Date dunque alle mie amichevoli critiche un valore di curiosità: il Barone Rosso Manfred von Richthofen ha battuto in celebrità tutti gli assi del suo tempo, perché la sua fama è giunta fino ai fumetti. Il più popolare dei suoi avversari infatti si chiama Snoopy, il cane di Charlie Brown, che indossa sciarpa, caschetto, occhialoni, e pilota la sua cuccia meglio del Fokker di Richthofen.
Caro Franz accettiamo la cordiale contesa: non ci mancherebbe altro che noi europei — in disaccordo su tutto, persino sull’opportunità di fare fronte comune contro un nemico feroce come il califfato tagliagole — ci mettessimo a litigare anche sulla popolarità dei nostri assi del primo Novecento.
La sua lettera non fa una piega. Non sono un film o un romanzo che consacrano la fama di un eroe in carne e ossa , bensì la letteratura più popolare: i fumetti. Giusto quindi che Von Richthofen trovi posto fra Toro Seduto, Geronimo e Buffalo Bill. Chi nel mondo non conosce la sfiga di Charlie Brown, la coperta azzurra di Linus e tutti i Peanuts creati dal grande Charles Schulz?
Cerchiamo allora i fattori obbiettivi del perché il Barone Rosso, e non Baracca, entrò nell’olimpo dei cartoon. I due fuoriclasse dell’aviazione hanno combattuto in cieli diversi. Più limitati quelli di Baracca che duellò soltanto con piloti austriaci. Estesi a mezza Europa i cieli del Barone Rosso che incrociò le sue ali con quelle di aviatori francesi, inglesi e russi. Da questi diversi scenari di guerra discende anche il numero delle loro vittorie: 98 quelle di Richthofen e «soltanto» 34 quelle di Baracca. Ma il tedesco fu abbattuto da un avversario più bravo mentre l’italiano — imbattuto nei duelli — fu fulminato da un anonimo cecchino durante un volo radente sul Montello, il 19 giugno 1918.
Forse le sterminate folle di spettatori-tifosi che assistevano ai duelli mortali disputati spesso ad altezza di campanili e a velocità di Panda, avrebbero sognato un match Baracca-Richthofen. Ma le distanze fra i teatri di guerra erano troppo impegnative per le trasferte degli stremati motori e delle fragili ali dell’epoca.
La fama del tedesco ingigantì dopo la sua morte. Su quel triplano rosso fuoco,su quella squadriglia variopinta detta «circo volante» e animata anche da Göring, futuro vice Hitler, si sprecarono film, documentari, album di vignette. Zero mitologia, invece, per l’asso romagnolo. Soltanto anni dopo brillò l’idea geniale della contessa Baracca di regalare a Enzo Ferrari lo stemma del figlio impresso sulla carlinga del suo Spad VII: più che un cavallino, uno stallone rampante, un quadrupede robusto che s’impenna ben saldo sulle due zampe posteriori, la coda rivolta verso il basso. Le successive versioni automobilistiche hanno proposto un puledrino, di volta in volta più snello, più impennato, appoggiato solo sullo zoccolo posteriore sinistro, e soprattutto con la coda non floscia, ma eretta. (E su questo influì un Ferrari quasi infantile che per i suoi bolidi esigeva un’immediata idea di virilità).
Il cavallino da allora continua a galoppare attorno al mondo, dalle monoposto di Formula 1, alle berlinette rosse, e persino appiccicato sulle sgangherate Cadillac che circolano ancora a Cuba. Non esistono altri simboli — né la stella Mercedes, né la Coca Cola, né Snoopy, né Google, né niente — che possano vantare una simile fama planetaria. Alla distanza, dunque, è Baracca che stravince, caro lettore german-fiorentino.

Corriere 10.8.18
L’Italia del Settecento osservata con la lente di Machiavelli
Il giurista Carlantonio Pilati a confronto con i guai dell’epoca. Un appello per il buongoverno e la tolleranza religiosa. I modelli? Olanda e Inghilterra
di Michaela Valente


Il vento del cambiamento ha sempre soffiato sull’Italia, anche quando era un insieme di Stati e staterelli sotto l’egida straniera. Nel 1767 un giurista trentino, Carlantonio Pilati, pubblica la sua proposta, Di una Riforma d’Italia (Edizioni di Storia e Letteratura) per partecipare al vivace dibattito politico di quella stagione di riforme. Non si tratta dell’ennesimo appello destinato a rimanere voce nel deserto, poiché persino Voltaire resta ammirato dall’opera che, a suo giudizio, faceva tremare i preti e infondeva coraggio ai laici per procedere nella giusta direzione.
Prima della cura, è necessaria la diagnosi e quella di Pilati è seria. L’Italia vive una situazione di declino morale ed economico. Indossando la lente di Machiavelli, appare chiaro che la Chiesa ne sia in buona parte responsabile: corruzione, pregiudizi, ignoranza e povertà sono infatti conseguenze del sistema che consente al clero di prosperare, mentre altri soffrono per mantenerlo. Terapia consigliata: dare a Cesare quel che gli spetta e tornare al messaggio evangelico. La strada è indicata dalle floride Inghilterra e Olanda. Pilati biasima il culto dei santi quando diventa idolatria e condanna gli abusi ecclesiastici, ma non auspica indifferenza o ateismo. Certo, consiglia la tolleranza perché favorisce la pace e il commercio. Pur appartenendovi, stigmatizza poi la categoria dei giuristi troppo presi dalla vanagloria, capaci di scovare sofismi per vincere le cause, trascurando il bene comune.
Con una prosa corrosiva, Pilati si rivolge agli ingegni d’Italia e al Principe: la riforma deve essere condivisa, non può essere imposta dall’alto con le leggi, altrimenti governanti prudenti e saggi potrebbero passare per tiranni. Attraverso le scuole e le accademie, si deve educare il popolo ad abbandonare i vizi e ad abbracciare la virtù. Solo allora si potrà intervenire con le leggi.
È un processo lungo, che, avvisa Pilati, potrebbe essere aggirato: se e quando il popolo è occupato, se lavora, non si interesserà delle leggi. Pilati scrive quando il sovrano non ha bisogno di consenso, eppure si preoccupa, parzialmente, della nascente opinione pubblica («mormorio del popolo») e molto di più dell’efficienza dello Stato.
Grazie all’edizione critica e alla ricca introduzione di Serena Luzzi, i consigli di Pilati potrebbero dare spunti di riflessione ad alcuni, mentre altri potrebbero leggere quest’opera (che ebbe edizioni in francese e in tedesco) per cavarne idee, per agire con «pazienza e prudenza» o per «istillare negli animi de’ sudditi certe maniere di pensare».

Repubblica 10.8.18
Va in scena a Parigi l’ultima Maddalena di Caravaggio
di Dario Pappalardo


Il capolavoro del Merisi rivelato da Mina Gregori a "Repubblica" sarà in mostra al Jacquemart-André. Dopo Tokyo e il no a Milano è la prima volta che l’opera lascia il caveau in Svizzera per l’Europa. E c’è chi pensa all’acquisto
La Maddalena in estasi di Caravaggio torna sulla scena. Il quadro che Mina Gregori, la principale esperta mondiale della materia, attribuì al pittore maledetto in un’intervista a Repubblica dell’ottobre 2014, sarà esposto per la prima volta in Europa. Dopo l’unica apparizione a Tokyo, nel 2016, e dopo il clamoroso no alla mostra di Milano dello scorso anno, l’ultimo capolavoro di Michelangelo Merisi andrà a Parigi. Il dipinto lascerà il caveau svizzero in cui è custodito per occupare l’ultima sala della mostra Caravage à Rome, amis & ennemis, al Museo Jacquemart-André dal 21 settembre al 28 gennaio 2019. Si tratterà di una "prima" a tutti gli effetti. Non solo perché l’opera potrà finalmente essere vista da un ampio pubblico, ma anche perché sarà esposta accanto alla Maddalena Klain, la tela di collezione romana che, prima dell’annuncio di Mina Gregori, era considerata il soggetto più vicino all’originale perduto. Secondo la lettera scritta il 29 luglio 1610 – undici giorni dopo la morte dell’artista – da Diodato Gentile, vescovo di Caserta, al cardinale collezionista Scipione Borghese, nell’ultimo viaggio verso Porto Ercole, Caravaggio portava con sé sulla barca "doi S. Giovanni e la Maddalena". "La Maddalena", in questione, con buona probabilità, era proprio il quadro ritrovato da Mina Gregori di cui si conoscevano già decine di repliche di copisti in tutta Europa. Al Jacquemart-André anche il dipinto Klain riporterà l’attribuzione a Caravaggio: la "sfida" che apre un capitolo nuovo nella storia dell’arte partirà da qui. Ma gli studiosi che hanno avuto modo di analizzare da vicino entrambi i soggetti – con Gregori anche l’olandese Bert Treffers e poi Rossella Vodret – hanno pochi dubbi: la qualità della Maddalena scoperta nel 2014 sarebbe decisamente superiore.
Di sicuro, la tela, che misura 108 x 98,5 centimetri, ha bisogno di un restauro che renda più leggibile la parte inferiore particolarmente compromessa.
Se l’ultimo Caravaggio approda in Francia, il risultato è frutto di una trattativa tutta italiana. La mostra Caravage à Rome, amis & ennemis,
infatti, è curata da Francesca Cappelletti, autrice degli studi più aggiornati sul pittore, con Maria Cristina Terzaghi e Pierre Curie. «La Maddalena Gregori è molto più vicina alla Sant’Orsola – il dipinto estremo di Caravaggio del 1610 – di qualsiasi altro quadro», dice Cappelletti. E se il pittore maledetto avesse dipinto due soggetti identici? «La questione dei doppi di Caravaggio non è banale: si presenta per più opere, a partire dal Ragazzo morso dal ramarro. Ma io credo che replicasse raramente i suoi quadri. Intanto, è importante che i due esemplari si vedano finalmente insieme».
Il primo confronto tra le Maddalene si consumerà in un’esposizione che conta altri prestiti importanti: primo fra tutti, il Suonatore di liuto dell’Ermitage, che debutta fuori dalla Russia fresco di restauro.
Ma, come sintetizza il titolo della mostra, ci saranno anche gli "amici" e i "nemici" di Caravaggio, con le loro opere divise in sale che raccontano i soggetti iconografici della Roma di inizio Seicento: dal "Teatro delle teste tagliate" alla "Musica e le nature morte", passando per le "Meditazioni dei santi". «Perché Caravaggio non può essere conosciuto da solo – spiega Cappelletti –. Se non lo vedi con i contemporanei, non lo capisci. Si tende a isolarlo con i caravaggeschi, ma l’ambiente romano di quel tempo è vivacissimo, fatto di pittori che si guardano, copiano, invidiano. La mostra vuole restituire quel clima storico».
In questo gran teatro della pittura di primo Seicento, la Maddalena in estasi sarà il colpo di scena finale, al termine del percorso. Ma attorno al quadro restano misteri e domande. Perché, solo lo scorso anno, non ha potuto viaggiare dalla Svizzera alla vicina Milano e ora invece può raggiungere Parigi in tutta tranquillità? Fonti vicine ai proprietari della tela ci hanno fornito qualche risposta. Il prestito fu negato alla mostra di Palazzo Reale Dentro Caravaggio, curata da Rossella Vodret nel settembre 2017, perché, in quel momento, la Maddalena era oggetto di una trattativa di vendita, poi sfumata. Si temeva che, una volta in Italia, l’opera potesse essere sottoposta a vincolo da parte del ministero dei Beni culturali? «Non si corre alcun rischio di questo tipo. Il quadro non è mai entrato o uscito dall’Italia in tempi recenti – sostiene chi si è già occupato del prestito –. Ci sono una serie di documenti che tutelano l’opera e i proprietari». Tra questi, il biglietto con grafia seicentesca che recita: "Madalena reversa di Caravaggio a Chiaia ivi da servare (o portare, ndr) pel beneficio del Cardinale Borghese di Roma".
Mostrato solo attraverso una riproduzione, non ha mai lasciato l’archivio dei proprietari, che non hanno intenzione di uscire allo scoperto, ma vogliono far sapere: «Non c’è alcun pregiudizio verso l’Italia. Non si vuole che il dipinto sia esposto a tutti i costi, non deve diventare una star. Abbiamo rifiutato alcune proposte perché non c’erano garanzie sufficienti e progetti di qualità. Non ci interessa mandare in tour la Maddalena per incrementarne popolarità e valore economico».
Che l’opera sia sul mercato, però, non è un segreto. Una "grande istituzione straniera" avrebbe già provato ad acquistarla, ma l’offerta non è stata "ritenuta adeguata". E i musei italiani? «Se un’istituzione italiana dovesse farsi avanti, la proprietà non avrebbe alcuna preclusione.
Finora non è accaduto. Ma quante sono le risorse disponibili in Italia?». Il vero punto, infatti, è che il prezzo della Maddalena rischia di essere troppo alto. Non ci sono cifre ufficiali, ma, grazie al battage costruito intorno al pittore negli ultimi anni, un dipinto del genere potrebbe raggiungere anche i cento milioni di euro. Un Caravaggio autentico disponibile per essere venduto rappresenta una rarità assoluta.
«La Maddalena è la Gioconda di Caravaggio: è l’opera che viaggiava con lui. Appartiene al patrimonio mondiale», ricorda chi gioca un ruolo in questa partita. La Gioconda: Leonardo.
Non si può non pensare alle coincidenze. Nei giorni in cui la Maddalena di Caravaggio arriverà a Parigi, il Louvre di Abu Dhabi – dal 18 settembre – esporrà il discusso Salvator Mundi attribuito al genio di Vinci, diventato l’opera più costosa della storia: 450 milioni di dollari. Se c’è qualcuno al mondo che oggi può permettersi un vero Caravaggio, sicuramente abita negli Emirati.

Corriere 10.8.18
Paolo Pasi (Elèuthera) racconta il caso dei confinati che non furono liberati dopo il 25 luglio
Antifascisti di serie B. Perché anarchici
di Giancristiano Desiderio


«Pasta e fagioli è caduto». «Hanno arrestato Pasta e fagioli». La notizia circolava dal giorno prima, ma la conferma ufficiale giunse a Ventotene il 26 luglio 1943: Mussolini era stato deposto, il fascismo era finito. «Pasta e fagioli» era il soprannome in codice dato al Duce dai confinati nell’isola.
Sandro Pertini, Pietro Secchia, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi furono attraversati da una scossa di energia, costituirono un comitato e chiesero al direttore del confino, Marcello Guida, di essere liberati. Ma la liberazione non fu immediata e non giunse per tutti i confinati. Su quella piccola isola, dalla forma di un cavalluccio marino, vi erano ottocento confinati antifascisti ma non tutti gli antifascisti erano uguali. Vi erano socialisti, federalisti, esponenti di Giustizia e Libertà, comunisti e poi loro, gli anarchici e gli irregolari, ossia slavi, albanesi, greci, spagnoli.
Per questi ultimi, anarchici e irregolari, non arrivò la libertà ma la deportazione al Campo 97 di Renicci d’Anghiari, non lontano da Arezzo, dove li attendevano altre migliaia di «irregolari». Gli anarchici per Mussolini erano nemici dello Stato, con il governo Badoglio furono antifascisti «non conformi».
Di fatto erano Antifascisti senza patria, come recita il titolo del libro di Paolo Pasi (Elèuthera) che con una scrupolosa indagine ha restituito un volto e una memoria a questi fantasmi della storia.
La vicenda che racconta Pasi meriterebbe, per l’intensità e la particolarità, un film. Le immagini che scorrono davanti alla mente del lettore sono già cinematografiche, pur essendo storicamente vere. Hanno i volti, tra le centinaia, di undici anime imprigionate che ci raccontano la storia della nostra anima libera: Alfonso Failla, barbiere; Giovambattista Domaschi, meccanico; Alberto Colini, scrittore; i tre fratelli Girolimetti; Umberto Tommasini, cuoco; Emilio Canzi, soldato; Enrico Zambonini, calzolaio; Emilia Buonacosa, operaia; Jaime Rebassa, giornalista. Grazie.

Corriere 10.8.18
Luna nuova, cielo ideale per osservare le stelle cadenti
Stasera le «Lacrime di San Lorenzo», picco previsto tra il 12 e il 13 agosto. L’incognita del meteo
di Greta Sclaunich


Se avete un desiderio da esprimere, è il momento giusto. Non solo perché stasera è la notte di San Lorenzo ma perché, lunario alla mano, quest’anno dovrebbe esserci la visibilità ideale. Merito della luna nuova, anche se c’è ancora qualche dubbio sulle condizioni meteorologiche: al Nord potrebbe piovere. Se doveste saltare l’appuntamento di stasera, però, non c’è da preoccuparsi: le Perseidi, cioè le meteore associate alla notte del 10 agosto e per questo chiamate Lacrime di San Lorenzo, in realtà registrano il loro picco qualche giorno più tardi, nella notte tra il 12 e il 13 agosto. Notti in cui, in teoria, dovremmo poter vederne fino a cento ogni ora. Certo, è difficile, il nostro campo visivo non può coprire l’intera volta celeste. Ma qualche possibilità in più c’è se si guarda il cielo nelle ore centrali della notte, quando la costellazione di Perseo, da cui sembrano provenire tutte le scie, è alta nel cielo. Le stelle cadenti, infatti, sono polveri lasciate dal passaggio della cometa Swift- Tuttle: quando la Terra lo attraversa, le briciole cosmiche si scontrano con l’atmosfera disintegrandosi e lasciando in cielo una scia luminosa.
Non succede solo ad agosto, ma anche a dicembre. Dal 3 al 19 circa, infatti, la Terra incrocia un’altra regione ricca di detriti, lasciati però dall’asteroide 3200 Phaethon. Sono le Geminidi, ma osservarle non è ancora diventata una «tradizione» come nel caso delle Perseidi: il fenomeno è stato registrato per la prima volta nel 1862, mentre l’asteroide che lo ha originato è stato scoperto più di un secolo dopo, nel 1983.
Presto potrebbero arrivare anche le stelle cadenti «on demand» (e a pagamento). Per ora esistono solo sulla carta: sono state inventate da una startup giapponese che sta sviluppando un progetto per mandare in orbita due satelliti, ognuno con un carico di sfere da lanciare nel cielo per creare meteore ad hoc. Insomma, entro il 2020, anno in cui l’azienda prevede di lanciare i satelliti, potremo avere le nostre stelle cadenti personali, che attraversano il cielo nella data e nell’orario scelti da noi. Senza la magia dell’attesa. Se non quella dell’addebito, si prevede salato, sul conto corrente.

Repubblica 10.8.18
La notte di San Lorenzo e l’ascesi dello sguardo
di Silvia Ronchey


Oggi le stelle cadenti, viaggio dall’antica Grecia al cristianesimo
Nel mondo cristiano la notte delle stelle cadenti è una festa della luce e una celebrazione dello sguardo. In Grecia, e in genere nel calendario ortodosso, è associata alla contigua festa della Metamorphosis, ossia della Trasfigurazione, quando Cristo sul Tabor appare ai discepoli in una mandorla accecante di luce.
Un’esortazione, nell’esegesi teologica bizantina e poi russa, alla metamorfosi dello sguardo, all’esercizio di quella capacità di percepire la struttura spirituale delle cose, di intravedere, come ha scritto Pavel Florenskij, «tra le crepe del mondo sensibile l’azzurro dell’eternità», che in altre tradizioni mistiche, come quella buddista, è chiamato appunto "retto sguardo".
Mea nox obscurum non habet, sed omnia in luce clarescunt, recitano, in metrica classica, i Vespri della liturgia di San Lorenzo: «La mia notte non ha oscurità, ma tutto nella luce diventa chiaro». Quello di Lorenzo, uno dei sette diaconi martirizzati a Roma nel Terzo secolo, secondo la leggenda agiografica è il sacrificio dei sacrifici: oltre ai tratti dell’olocausto pagano (Lorenzo fu "cotto", arso vivo sul fuoco come un’antica hostia animale) conserva anche, nella tradizione cristiana, un elemento cannibalesco, come ricorda la frase che secondo il De Officiis di Ambrogio pronunciò durante il supplizio: Assum est. Versa et manduca, «Questa parte è cotta.
Gira e mangia».
Secondo la tradizione popolare sono le lacrime di san Lorenzo, o le scintille di fuoco sprigionate in alto dalla graticola, le scie luminose dello sciame meteorico più visibile dell’anno, che la Terra nella sua rivoluzione si trova ad attraversare tra la fine di luglio e la seconda metà di agosto, con un picco di visibilità concentrato, appunto, questa notte. In età più antica questa pioggia di luci è stata interpretata anche altrimenti. I romani le ritenevano spruzzi di bianco sperma del dio Priapo, sparsi a inseminare i campi, associati quindi alla grande festa della divinità femminile fecondatrice della terra che cade tra pochi giorni, il 15 agosto. Il radiante della pioggia meteorica, ossia il punto dal quale sembrano provenire tutte le scie, è nella costellazione di Perseo. Per questo le stelle cadenti si chiamano Perseidi, richiamando il mito antico della decapitazione della Gorgone Medusa, il cui sguardo fisso nel nostro ci impedisce di guardare rettamente il mondo, ci pietrifica e ci inocula la morte negli occhi, secondo la definizione di Jean-Pierre Vernant. Anche nel mito greco cui gli astronomi ottocenteschi associano queste particelle siderali, rilasciate da un’antica cometa durante le sue passate orbite, si celebra dunque la liberazione dello sguardo.
Che si tratti di Ulisse o del pastore errante nell’Asia, del salmista o di Elia rapito sul carro, da sempre lo sguardo umano si è diretto al cielo. Se è nell’immenso ricamo astrale che ogni sapienza antica riconosce il disegno dei suoi eventi sacri, è nel cielo stellato sopra di sé che i navigatori dei mari o dei deserti, gli ispirati o i mistici trovano la propria rotta nel mondo esteriore così come il retto orientamento interiore.
Se è alla vertigine cosmica che il filosofo affida la sua visione del mondo, se oggi le luci delle città oscurano il cielo, se la scienza moderna ci insegna che è di stelle morte anche da migliaia e migliaia di anni la luce che arriva allo sguardo dei terrestri, è ancora più necessario, una volta l’anno, rivolgerlo a questo universale, letterale simbolo di caducità.
Come scriveva Pascoli: «E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale,/ oh! d’un pianto di stelle lo inondi /quest’atomo opaco del Male».

Repubblica Roma 10.8.18
Il commento
L’ex manicomio e il rischio di scelte folli
di Francesca Giuliani


Era una piccola città, il manicomio in cima alla Trionfale. Il Santa Maria della Pietà ha lasciato andare il suo ultimo paziente nel 1999 data che, se non fosse un altro secolo, non sarebbe tanto tempo fa. È rimasto un complesso sterminato e spettrale, 170 mila metri quadrati, giardini e padiglioni, spazi abbandonati che vanno in malora. Ora in pieno agosto si guadagna un titolo di agenzia la firma di un “protocollo” fra Comune, Regione, Asl, Città metropolitana, municipio XIV tutti armati di buone intenzioni, per approntare un piano di recupero su un’area che, rimarca la sindaca “appartiene ai cittadini” e che avrà, precisa l’assessore Montuori, “una progettualità partecipata e condivisa”. Una via fatta di buone intenzioni da maneggiare con cura. C’è chi avverte che l’uso degli spazi andrà al 70% alla Asl, per un maxi polo sanitario, e chi teme soprattutto una colossale speculazione edilizia. Online si raccolgono firme, il 6 ottobre è convocata una manifestazione, i comitati dei cittadini vogliono dire la loro. La storia del santa Maria della Pietà è ancora da scrivere, il lieto fine lontano.