venerdì 27 luglio 2012

Giovedi 19 ore 21 Palco Falcone
Stefano Fassina

l’Unità 19.7.12
Riforme, è finita
Pd e Idv: basta farse, non votiamo
Blitz Pdl e Lega con l’aiuto di Schifani per accelerare sulle modifiche costituzionali
No alle quote rosa
Finocchiaro: «Indegna discussione». E oggi il voto sul ritorno dell’immunità parlamentare
di Andrea Carugati

Se mai c’era stata una speranza di arrivare a delle modifiche costituzionali condivise dalla strana maggioranza Pd-Pdl-Udc, (con al centro la riduzione dei parlamentari e il rafforzamento dell’esecutivo), ieri il Senato ha scritto la parola fine. L’insistenza del ritrovato asse Pdl-Lega su una riforma non condivisa da Pd, Udc e Idv, e il conseguente affossamento della bozza Violante su cui c’era stato un accordo, hanno spinto Pd e Idv alla decisione di abbandonare i lavori dell’Aula.
Già, perché dopo l’approvazione del Senato federale voluto dalla Lega, ora il Pdl freme per vedere approvata la propria bandierina, l’elezione diretta del presidente della Repubblica, pur consapevole che dopo il via libera del Senato il pacchetto è destinato a languire alla Camera (dove Pdl e Lega non hanno i numeri) e tutte le ipotesi di riforma (compresa la riduzione di senatori e deputati) a finire su un binario morto. Il Pd ha preso ieri la decisione di lasciare i lavori dopo che la proposta di togliere dal tavolo le riforme costituzionali e di dedicare quindi i lavori dell’Aula ai provvedimenti anti-crisi del governoè stata bocciata per soli 8 voti. Alcuni giorni fa, dopo l’approvazione del Senato federale, il relatore Carlo Vizzini si era dimesso, lasciando così le riforme senza relatore. A indispettire il Pd anche la neutralità del governo, che non ha preso posizione sul colpo di mano di Pdl e Lega e l’atteggiamento di Schifani che, regolamento alla mano, ha lasciato briglia sciolta alla vecchia maggioranza concedendo alle riforme le sedute fino al 25 luglio e pure il contingentamento dei tempi.
E ancora: al Pd non è andata giù l’ammissione al voto dell’emendamento firmato da Luigi Compagna (Pdl) e Franca Chiaromonte (Pd), fortemente osteggiato dai democratici, che prevede la reintroduzione dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari, eliminata a furor di popolo ai tempi di Tangentopoli. Questo emendamento si voterà stamattina (e potrebbe passare grazie all’asse Pdl-Lega e al voto segreto).
Dopo questo voto, Pd e Idv usciranno dall’Aula per non rientrarvi fino al termine della discussione sulle riforme e dunque il 25 luglio. «È mortificante partecipare a questa discussione ipocrita. Nella storia delle riforme una pagina indegna come questa non era ancora stata scritta», tuona Anna Finocchiaro. «Dedichiamoci alle priorità vere, come ,la spending rewiev», ha esortato il capogruppo Udc D’Alia. «Questa sulle riforme è una grottesca e inutile sceneggiata», ha rincarato Felice Belisario dell’Idv. «Il paese ha ben altri problemi e non capisce perchè il Parlamento debba perdere tempo in un gioco pericoloso e irresponsabile».
Dalle fila del Pdl si leva la voce sdegnata di Gaetano Quagliariello, per settimane uno dei grandi mediatori sulla bozza Violante e ora rientrato nei ranghi: «Il loro è un atto al limite dell’eversione». Mentre il redivivo Calderoli rialza la testa, difende il biscotto cucinato col Pdl e assicura che «le riforme si fanno o no perché lo decide il Parlamento o il popolo». E il vicepresidente Vannino Chiti (Pd) pone un problema anche al governo. «Da circa un mese, al Senato, esiste una doppia maggioranza. Così non si può andare avanti». «Non possiamo accettare con indifferenza che venga fatto strame della Carta Costituzionale: bisogna che anche il governo se ne preoccupi. Continuando così viene messa a rischio la sua tenuta», insiste Chiti, auspicando che si arrivi almeno a ridurre i parlamentari.
Intanto, la vecchia maggioranza ieri è riuscita a dare una bastonata anche alle “quote rosa”. È infatti stato bocciato–con155no,108sìe23astenutil’emendamento dell’Idv all’articolo 3 sulla parità di genere per l’elezione al Senato, che stabiliva che 125 dei 250 seggi previsti dalla riforma fossero assegnati a donne. Il dibattito ha infiammato l’aula, riproducendo di fatto un’altra passata maggioranza (Pdl, Lega e Udc), ma – cosa ancora più evidente – riproponendo le obiezioni e le resistenze che hanno sempre fermato l’istituzionalizzazione delle quote rosa.

Corriere 19.7.12
Parla Bersani
«Nel 2013 cambia tutto E niente larghe intese»
«Nel 2013 un governo del tutto rinnovato
Le primarie? Non escludo il doppio turno»
Bersani: io organizzo i progressisti, sono sicuro che Vendola non mancherà
intervista di Aldo Cazzullo

«l’Europa chiede una soluzione al quesito dell’affidabilità
dell’Italia. Si sta facendo del nostro Paese il punto di leva per ribaltare il carro dell’euro. È tempo che
la politica si prenda le
sue responsabilità». Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani al Corriere: «Basta chiedere: e dopo Monti che cosa succede? Nel 2013 cambierà tutto. No a larghe intese».

«È tempo di concentrarci sul Paese, perché si sta facendo dell’Italia il punto di leva per ribaltare il carro dell’euro. O stringiamo almeno le cose che si sono decise, o dobbiamo farci dare qualche margine in più per fronteggiare una recessione che sarà durissima. L’Europa chiede una soluzione al quesito dell’affidabilità dell’Italia. È tempo che la politica si prenda le sue responsabilità: le eccezionalità non danno mai una percezione di affidabilità. Si deve smettere di chiedere: "E dopo Monti cosa succede?". Predisponiamo un percorso e una competizione: centrodestra contro centrosinistra. Proporrò con le primarie un’offerta di partecipazione per la scelta del leader. E avanzerò una proposta di serietà e rigore con dentro il cambiamento: un governo larghissimamente rinnovato, che dia all’Italia la sensazione di avere energie nuove in campo. Un colpo di reni».
Segretario Bersani, partiamo dall’inizio. Sta dicendo che, se non scattano le misure anti-spread, l’Italia deve poter spendere di più per la ripresa?
«È senza ripresa che spendiamo di più! Noi siamo la cavia dell’attacco all’euro. Lo dice il governatore Visco: 200-250 punti di spread ce li meritiamo; gli altri vengono dall’attacco mirato contro di noi. O troviamo un meccanismo europeo che ci protegga, oppure, siccome siamo gli unici vincolati al pareggio di bilancio in tempi così rapidi, dobbiamo ottenere un margine per fronteggiare la recessione. Saprei anche dove mettere le risorse».
Dove?
«Negli investimenti che portano subito lavoro e innovazione: ossigeno agli enti locali per le piccole opere, casa, efficienza energetica, agenda digitale».
Lei parla di un «governo larghissimamente rinnovato». Questo significa che in caso di vittoria del centrosinistra non ci sarebbe spazio per gli attuali ministri?
«A parte alcuni presìdi essenziali di esperienza, punteremo su una nuova classe dirigente, una nuova generazione. Non sarà un salto nel buio: è gente che ha già fatto esperienza amministrativa».
Nomi?
«Non ne faccio. Ma ce li ho in testa tutti».
E Monti che farà? Potrebbe avere un futuro alla Ciampi, che fu premier di un «governo del presidente» e poi ministro dell’Economia di un governo di centrosinistra?
«Come si dice in questi casi, Monti è una grande risorsa per il Paese. Non spetta a me stabilire quel che farà, ma a lui. La questione "quanto di Monti deve restare dopo il 2013", che viene posta anche nel mio partito, non tiene conto che questa maggioranza parlamentare non ha un indirizzo univoco. Monti intanto va ringraziato per aver preso in mano un Paese sull’orlo del precipizio. Fa i suoi errori, come tutti. Io gli sono leale; anche per questo credo di aver diritto di segnalarli. Ma Monti è il pompiere. L’incendiario è un altro».
Il ritorno di Berlusconi rende impossibile le grandi intese nel 2013?
«Per l’amor di Dio! Qualunque sia il leader della destra, l’Italia ha diritto a una democrazia che funzioni con due polmoni, a uscire dall’eccezionalità. Il fatto poi che ci sia Berlusconi è grave perché il mondo ci guarda, e può pensare: davvero gli italiani ritornano lì? Vorrei tranquillizzare tutti: Berlusconi non vincerà. Né vogliamo passare mesi a pane e Berlusconi, con le sue donne e i suoi processi. L’Italia ha altri problemi».
Quando si faranno le primarie? E come?
«Vediamo di dire una parola definitiva. Io voglio le primarie. Le voglio di coalizione: partiti, associazioni. Benché sia il candidato statutario del Pd, non pretendo di essere il candidato esclusivo. La data non la decidiamo da soli. Immagino che non sarà né troppo lontana né troppo vicina al voto: diciamo entro fine anno».
Farete primarie a doppio turno, come in Francia?
«Anche le regole non le decidiamo da soli. Non lo escludo affatto. Ne discuteremo».
Quali sono i suoi sentimenti nei confronti di Renzi?
«Io gli voglio bene. Vorrei che pure lui volesse bene, non pretendo a me, ma al Pd. E venisse a dire in casa le cose che invece dice fuori».
E di Grillo?
«Grillo è dentro le insorgenze populiste e semplificatrici che da due anni emergono in tutta Europa. Partono da istanze anche giuste e crescono ammucchiando cose indistinte, in cui non c’è più destra né sinistra. Quel che ha detto Grillo della Bindi non è "voce dal sen fuggita". Si mette in rete quel che si pensa solleciti la pancia del Paese. Io rifiuto in radice questo schema. E ricordo che le prossime elezioni non saranno solo una scelta politica ed economica. In qualche misura saranno anche una scelta di civiltà. E allora bisogna combattere. Se farò un governo io, la sua prima norma riguarderà il diritto dei figli di immigrati nati qui e che studiano qui in Italia a chiamarsi finalmente italiani».
Con quali alleanze affronterà il voto? Non crede che dovrà scegliere tra Casini e Vendola?
«Io sono progressista. Organizzo il campo dei progressisti. Sono sicuro che Vendola sarà dentro questo quadro, che non è solo dei partiti ma anche dei civismi. E mi rivolgo ai moderati. A chi si oppone a Berlusconi, Lega e Grillo, che ci vorrebbero fuori dall’euro, dicono che non si devono pagare i debiti, sono contro gli immigrati».
Ma l’alleanza si farà prima o dopo il voto?
«Casini organizzi il suo campo. Quando ci saranno le elezioni, e quando conosceremo il meccanismo elettorale, vedremo le condizioni concrete di questa proposta. Quando lanciai, due anni fa, un’alleanza tra progressisti e moderati, mi guardavano come se fosse lunare. Invece ci avevo visto».
Tra i moderati c’è anche Fini?
«Non voglio ammucchiate, non sposo nessuno. Vedremo come si organizzerà il loro campo. Propongo un patto di legislatura, per salvare il Paese e riformare la Costituzione senza stravorgerla»
Ci sarà una lista civica a fianco del Pd?
«Non penso a una lista civica. Penso a un patto con i civismi e le cittadinanze attive: la politica si concentra sui grandi temi, e si ritira dai luoghi impropri. Quel che abbiamo fatto alla Rai lo faremo negli altri Cda, nelle Asl, nelle giunte. Perché dev’essere un partito a nominare gli assessori? Dove è possibile sostituiamo al controllo politico quello sociale, partecipativo, democratico. Decidano i cittadini, gli utenti».
Siete disposti al ritorno al proporzionale?
«Noi siamo per il doppio turno. Ma gli altri non lo vogliono. Non vogliono neppure i collegi uninominali maggioritari. Però non ci arrendiamo al Porcellum. Siamo pronti a discutere. Con due paletti. La sera delle elezioni gli italiani devono capire chi governerà, se no sarebbe un disastro, anche per l’Europa; questo implica un premio di governabilità a chi arriva primo, che sia una lista o che siano liste collegate. E i cittadini devono poter scegliere i loro rappresentanti».
Anche con le preferenze?
«Le preferenze fanno aumentare enormemente i costi e questo non piacerebbe agli italiani. E costruiscono un rapporto cittadino-parlamentare molto labile. Meglio piuttosto il sistema delle provinciali, con base significativamente proporzionale ma con i collegi, in cui il partito si presenta con il volto di una persona che può radicare un rapporto con il territorio».
Tra gli errori di Monti c’è anche qualche capitolo della «spending review»?
«Sì. La semplificazione istituzionale e della Pubblica amministrazione si può addirittura rafforzare, ma alcuni meccanismi su sanità e servizi locali rischiano di punire i virtuosi e premiare quelli che sforano. Chiedo di essere ascoltato, come quando lanciai l’allarme sugli esodati. A volte possiamo dare una mano a evitare guai. Fermi restando i saldi, propongo un confronto tra regioni, enti locali e governo per correggere i meccanismi e scrivere entro due mesi un patto da recepire nella legge di stabilità».
Vista la situazione drammatica del Paese, non è un errore che il Pd metta in scena una rissa su un tema pur importante come le nozze gay?
«Siamo l’unico partito che discute sul serio. Non sempre i modi di discutere mi piacciono. Ho visto forzature e personalismi. La chiudo lì: noi proponiamo le unioni gay, nei dintorni della soluzione tedesca. A chi dice che è troppo, rispondo che non possiamo restare fermi alla legislazione di Cipro e Turchia. A chi dice che è poco, rispondo che chi vuol saltare tre scalini alla volta rischia di rimanere al palo. Ricordo che viviamo in un Paese dove non è stato ancora possibile approvare una legge contro l’omofobia».

La Stampa 19.7.12
L’allarme di Bersani: c’è una doppia maggioranza
Salta il confronto in Senato
Il segretario Pd: destra arrogante

Il segretario del Pd: «C’è una doppia maggioranza tra Pdl e Lega al Senato»
di Carlo Bertini

Il gong che manda in cantina le riforme e che fa suonare un altro segnale d’allarme per Monti risuona nei corridoi del Senato nel pomeriggio. Quando, dopo uno scontro durissimo con Pdl e Lega alla riunione dei capigruppo, Pd e Idv decidono di abbandonare i lavori dell’aula, dove «stancamente» continua l’esame di un pacchetto di modifiche costituzionali che ormai non ha più nulla di bipartisan. Insomma, l’accordo blindato Pdl-Lega su Senato federale e semipresidenzialismo che verrà votato il 25 luglio, azzera tutte le intese sbandierate mesi fa dalla «strana maggioranza» per cambiare la Costituzione. E mette il Pd nella difficile posizione di rischiare di passare per il partito affossatore delle riforme, per aver respinto l’offerta del presidenzialismo, dando il destro al Pdl di bloccare pure la legge elettorale. Anche per questo, Bersani in serata passa al contrattacco e dirama una nota avvisando il governo che la misura è colma e che deve farsi carico anche di questo problema.
«Voglio segnalare che l’arroganza della destra sta portando la situazione ai limiti della sostenibilità», dice il leader Pd. «Stiamo assistendo al Senato all’allestimento stabile di una doppia maggioranza con Pdl e Lega che sui temi costituzionali impegnano il voto a perdere della propo-
sta semipresidenzialista rendendo impossibile una discussione sulla spending review». Con una chiusa che contiene un attacco pure a Schifani, perché «i tempi di lavoro del Senato vengono attribuiti all’esigenza di propaganda riducendo a poche ore la possibilità di esame di norme di assoluto rilievo. A questo punto penso che il problema non sia solo nostro ma anche del governo e del suo rapporto con l’attività parlamentare». In poche parole, un’altra grana per Monti, perché «di fatto ormai ci sono due maggioranze diverse», spiegano gli uomini di Bersani. «Loro fanno giochini ad uso elettorale e non possiamo stare a guardare senza reagire la nascita di questa seconda maggioranza che è ancora più strana di quella che regge il governo».
La miccia si accende quando viene respinta con otto voti di scarto la proposta di Pd, Idv e Udc di accantonare le riforme per lasciare spazio alla spending review e del decreto sul terremoto. Schifani si difende dalle accuse sostenendo che bisogna andare avanti con un pacchetto di norme non ancora concluso in questa settimana e che quindi il suo avallo a questo calendario è «un atto dovuto». A quel punto Democratici e dipietristi si rinsaldano e scelgono l’Aventino, annunciando di tornare in aula solo mercoledì per votare contro il presidenzialismo contenuto in un pacchetto di riforme ormai considerato morto e sepolto. «Per interessi di propaganda Pdl e Lega stanno affossando le riforme istituzionali, una pagina indegna come questa non era ancora stata scritta», dice la Finocchiaro. «Un atteggiamento che rasenta l’eversione, alla sinistra sono saltati i nervi» reagisce Quagliariello, che giudica questa una mossa tattica per evitare un voto in aula di un emendamento sull’immunità parlamentare a firma Chiaromonte (Pd) e Compagna (Pdl) che poteva creare imbarazzo.

l’Unità 19.7.12
Asor Rosa: «Niente primarie, serve un grande partito popolare»
«L’unica forza politica in grado di lanciare la sfida per battere l’antipolitica è il Pd, ma deve puntare a un ampio coinvolgimento»
intervista di Maria Zegarelli

ROMA L’unico partito ad avere delle «chance di partenza rispetto alle altre formazioni concorrenti o convergenti» per battere l’antipolitica è il Pd, sostiene il professor Alberto Asor Rosa. Ma deve dare una dimostrazione della sua forza, con un’operazione di grande coinvolgimento «popolare» e certo, aggiunge, «non penso alle primarie». Da quel coinvolgimento, ragiona Asor Rosa, potrebbe iniziare un percorso verso un unico grande partito in grado di racchiudere in sé il vero riformismo, quello a cui fanno riferimento sia Bersani sia Vendola.
Professore, il post-montismo a cui spesso lei fa riferimento come se lo immagina?
«Monti rappresenta la presunta oggettività dei processi economici e finanziari alla quale si sforza di ubbidire risolvendo i problemi tecnicamente a quel livello. Mi pare non sia sufficiente a qualificare una politica di centrosinistra orientata su di una prospettiva più lunga e più ampia. Quindi torna in campo la questione del punto di vista e cioè del modo e dell’angolo visuale in cui ci si colloca per affrontare i problemi e risolverli, a partire dalla disoccupazione. Mi sembra che questa prospettiva prescinda dal punto di vista di Monti».
E tocca ai partiti riappropriarsi di una visione di lungo periodo più ampia?
«Se parliamo di un partito politico di centrosinistra quella prospettiva montiana è chiaramente insufficiente, perché il punto di vista è diverso. Si arriva a delle conclusioni profondamente diverse nell’affrontare problemi anche economici se il punto di vista riguarda le classi subalterne o le classi dominanti. Questa differenza si è persa nel tempo e invece credo vada recuperata proprio in vista delle elezioni, quando mi auguro venga restituito alla politica il primato che le spetta».
Lo abbiamo chiesto a Vendola e lo chiediamo a lei: il popolo delle primarie potrebbe essere rappresentato da un solo grande partito?
«Ho una scarsa considerazione per l’istituto delle primarie».
Non ci crede?
«Mi pare poco rappresentativo come strumento. Io ho fatto una proposta diversa: se esistono forze orientate a formulare un progetto politico e una strategia di alternativa, sia al berlusconismo sia al montismo, riunirle a discutere insieme della prospettiva sarebbe un passaggio di carattere fondamentale. Per fare l’Assemblea ci vuole ovviamente un partito forte ma avrebbe un effetto di formazione politica di massa che le primarie non sono destinate ad avere in alcun caso».
Lei dice: ci vorrebbe un partito forte. Il Pd non le sembra tale?
«Se il Pd facesse una iniziativa del genere mostrerebbe la sua forza e sarebbe un passo in avanti per tutti non soltanto per il Pd, oltre a essere un’occasione di chiarimento al proprio interno. Quando parlo di un partito riformatore non mi riferisco ad un partito che discenda soltanto dai lombi del movimento operaio. Intendo un partito che si metta nella prospettiva di cui parlavo prima e non rinunci a elaborare una propria strategia come pare invece che facciano quelli che nel Pd pensano di proseguire nel montismo anche dopo Monti».
Vede in questa Assemblea di tutti i riformisti il primo passo verso un partito che li accolga tutti?
«Sarebbe un primo passo in quella direzione e per quanto mi riguarda la considererei del tutto sostitutiva delle primarie».
Professore, ma le primarie vengono da tutti considerate uno strumento di grande partecipazione e lei le smonta così?
«Io non sottovaluto le primarie, come strumento di partecipazione, ma credo che lo sia perché non ne esistono altri. Sono convinto che debba invece essere avviato un dibattito politico di massa che vada al di là degli stati maggiori e coinvolga chi oggi è ai margini. Le primarie, se diventano una sorta di conta elettorale potrebbero servire fondamentalmente a legittimare, per esempio, una posizione, francamente insostenibile, come quella del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, il quale sulle questioni decisive non ha detto e non dice una parola. Prima di arrivare alle primarie con parole d’ordine organizzativistiche, come “rottamazione”, bisogna che le questioni fondamentali siano messe sul tappeto e non tra i dirigenti».
Mario Tronti auspica un solo grande partito «decisivo per le sorti del Paese». Potrebbe essere il Pd? «L’osservazione critica che ho fatto a Tronti riguardava l’assenza nel suo discorso delle modalità attraverso cui raggiungere quel risultato, che non può che essere il risultato di un processo che va organizzato. Per questo penso all’Assemblea, un luogo dove mettere in discussione all’esterno il punto di cui discutiamo. Un fatto così non può nascere nelle segreterie dei partiti lacerate da discussioni interne».
Bersani, a propostito di lacerazioni interne, ha proposto agli alleati una cessione di sovranità al premier per evitare i rischi che portarono l’Unione al fallimento.
«Mi chiedo cosa significa cessione della sovranità. Sono scettico sulle garanzie che l’ampliamento dei poteri del premier darebbe in questo senso. Credo che tutto vada portato all’esterno, come un grande partito popolare deve fare. Bisogna spezzare il cerchio di ferro che separa oggi la politica dalla gente».

il Fatto 19.7.12
Goffredo Bettini: Ilgoverno con Pd e Pdl è un regime
L’ex capo del potere romano pronto al ritorno con un candidato alle primarie
di Roberto Faenza

Le contraddizioni interne al Pd alternano moti convulsi a calma piatta. Pochi sanno che sta per
arrivare un missile che potrà fare molto male. Sulla rampa di lancio Goffredo Bettini, che dopo essere stato a lungo una delle menti più brillanti del partito, dopo la disfatta elettorale del 2008 si è autoesiliato, rinunciando a ogni postazione di potere istituzionale e politico. Sono parecchi nel Pd a preferirlo laggiù, nell’isola di Ko Samui in Thailandia, dove passa vari mesi dell’anno a scrivere e organizzare eventi culturali. I suoi competitor fuori e dentro il partito sperano vi rimanga a lungo. Ignorano che ha pronta una rentrée che li stupirà. I leader odierni gli sembrano “matti autoreferenziali che scambiano il proprio mondo con la verità”. Per questo attende le primarie: per proporre un progetto e un candidato che faranno scalpore. Gli chiedo il nome mentre, simile a Orson Wells per imponenza, si aggira tra gli spettatori del Moviemov, il Festival del cinema italiano a Bangkok, da lui stesso diretto. Risponde che non farà nomi “neppure sotto tortura”. Del governo Monti pensa che sia “una disfatta della politica”. Non sarà venuto in Thailandia perché anche qui c’è un Pd simile al nostro? Ride beffardo e definisce il capo del Pd asiatico come “un Veltroni, solo un po’ più bello”. E aggiunge: “Anche lui ha perso le elezioni”. A Veltroni attribuisce il coraggio di essersi imbarcato in una sfida elettorale data perdente contro Berlusconi. Gli rimprovera però di avere lasciato il campo a Franceschini. E di non aver seguito il suo consiglio dopo la sconfitta: mettere il partito davanti a un congresso, “rilanciare l'idea originaria, contro ogni tentativo di ritorno indietro”. Per quanto parli con serena distanza dalle cose nostrane, avverte che al momento opportuno l’orso in letargo scenderà dalla sua tana. E per molti saranno dolori. Mi piace impiegare que-
sta fraseologia da western, visto che Bettini nasce proprio come cinefilo. Che i comunisti fossero un po’ tutti invaghiti del cinema lo dimostrano gli incipit di numerosi futuri leader, da Ingrao allo stesso Napolitano. Se mi è consentita una perfidia, credo che in alcuni casi sarebbe stato meglio per tutti noi se avessero seguito il primo istinto. Di Renzi cosa pensa? Risposta lapidaria: “Non è di sinistra”. Ha un futuro questo Pd, oppure si conferma l’analisi di D’Alema: “Amalgama non riuscita”? È d’accordo, anche se tra i due non sussiste sintonia.
IN POCHI anni Bettini era diventato il capo assoluto del potere romano, prima deputato poi senatore. Ha lanciato due sindaci, Rutelli e Veltroni. Ha costruito l’Auditorium e inventato il Festival del cinema di Roma. Ora ha in serbo nuova linfa per scuotere i compagni dal torpore. Leggendo tra le righe di un suo libro dal titolo profetico Oltre i partiti, si capisce
“Monti è una disfatta della politica. Bersani, Vendola e Di Pietro vanno poco lontano”
che considera il Pd allo sbando, “dominato da correnti, gruppi di potere, intercapedini burocratiche”. Insomma, da risettare. Con un duro attacco alla mediazione degli “oligarchi”, la sua idea è che Bersani, Vendola e Di Pietro, restando dentro i loro rispettivi partiti, insieme possano andare poco lontano. Con l’aggiunta di Casini peggio che mai. Auspica invece un partito che sappia ridare la parola ai cittadini. Renzi si propone come rottamatore del passato, Bettini si pone all’opposto, come elaboratore di una strategia per il futuro. La sua opinione su Monti è tagliente. “Quando un paese è in emergenza non chiama i tecnici, chiama i politici. I tecnici si chiamano quando si deve amministrare, non quando si deve governare il marasma”. E della coalizione Pd-Pdl che fa da stampella a Monti? Mi risponde facendo suo il pensiero di Norberto Bobbio, a proposito del compromesso storico. Avviso per Napolitano: “se un paese viene governato dal 90% delle forze politiche, si ha un regime, non una democrazia. Ecco perché poi vengono fuori i grillini”.
AGGIUNGE: “D’Alema critica la debolezza del loro movimento, io invece penso che dobbiamo guardare ai loro punti di forza, alla voglia di ridare voce alla gente comune, terreno dove abbiamo fallito noi”. Per questo teme per Nicola Zingaretti candidato sindaco di Roma, forse l’unico leader della generazione più giovane di cui ha davvero stima. Il Pd è avvisato.

l’Unità 19.7.12
In piazza contro i tagli: il governo corregga il decreto
Revisione della spesa: oggi si definiscono gli emendamenti mentre manifestano gli statali di Cgil e Uil
Nonostante le proteste è possibile l’inserimento dell’accorpamento delle festività
Il Pd punta a modifiche su sanità, società in house e scuola
Le proposte dell’Anci
di Massimo Franchi

La scadenza per la presentazione degli emendamenti e la prima manifestazione di protesta. Oggi sarà una giornata molto importante per il cammino della Spending review. Se alle 9 Cgil e Uil si raduneranno sotto palazzo Vidoni, sede del ministero della Pubblica amministrazione, per protestare contro i tagli di personale sugli statali, a mezzogiorno a palazzo Madama scade il termine per la presentazione degli emendamenti al decreto sulla revisione delle spesa. I tempi sono strettissimi visto che già giovedì 26 il decreto andrà in Aula e sarà votato. E sarà accorpato, come annunciato martedì, con il decreto dismissioni, che confluirà in un maxiemendamento da presentare all’aula, proposta sulla quale verrebbe poi posta la fiducia. Sempre con il rischio che si unisca anche la norma sull’accorpamento delle festività, se domani uscirà dal Consiglio dei ministri.
Se dal governo non si annunciano emendamenti al testo della Spending review, tra i partiti della maggioranza si annunciano moltissime richieste di modifica. Il Pd è il più attivo e, come spiega il relatore Paolo Giaretta, anche se «il provvedimento ha una sua urgenza per dare un messaggio oggettivo ai mercati, cercheremo di migliorare alcune norme come quelle sui Comuni che stanno dando dei problemi». E modifiche arriverebbero anche su sanità e farmaci. Bisogna poi «dare più tempo e coinvolgere di più i territori per esprimere il loro parere» sull’accorpamento delle Province. Va poi approfondita la questione delle società in house «perchè oltre ai “carrozzoni” ci sono società che supportato seriamente i Comuni».
Sul fronte sindacale, come detto e in contemporanea con i dipendenti pubblici spagnoli, in piazza scenderanno Fp-Cgil, Flc-Cgil, Uil-Fpl, Uil-Pa e Uil-Rua che daranno «il via alla mobilitazione territoriale in tutto il Paese e chiederanno «al governo Monti e al Parlamento profonde modiche del testo» definito nuovamente «una mannaia contro i servizi pubblici». Alla manifestazione non parteciperà la Cisl che ieri ha apprezzato la convocazione di tutti i sindacati fatta dal ministro Patroni Griffi per mercoledì 25 luglio. «Un primo segnale positivo di attenzione del governo», commenta Raffaele Bonanni. La convocazione riguarda comunque la sola gestione degli “esuberi” rispetto al taglio del 10% sulle piante organiche: si partirà dai ministeri, visto che per gli enti locali bisognerà aspettare ottobre. L’unità confederale torna invece sulla richiesta «piena applicazione dell’intesa del 3 maggio tra governo e sindacati».
Tornando alla spending review, Cesare Damiano, capogruppo del Pd in commissione lavoro alla Camera, chiede che con il decreto si affronti il problema degli esodati, allargando il bacino dagli attuali 55mila. Risponde l’altro relatore, Gilberto Pichetto Fratin (Pdl): «se il Governo trova i soldi...».
Ieri intanto l’Anci ha presentato alcune proposte di emendamenti inviandole ai presidenti di tutti i gruppi parlamentari e ai componenti della commissione Bilancio, chiedendo un incontro al Presidente Renato Schifani e al ministro per i rapporti con il Parlamento Piero Giarda. Le principali proposte riguardano l’eliminazione del taglio al fondo di riequilibrio e delineazione di un percorso per la realizzazione di una vera spending review dei Comuni, correzioni alla normativa sul pubblico impiego locale, anche con maggiori garanzie per alcuni servizi essenziali, come quelli scolastici, razionalizzazione del patrimonio pubblico, messa in liquidazione e privatizzazione delle società. Per quanto riguarda la messa in liquidazione e privatizzazioni delle società in house (a totale capitale pubblico), oltre a un «necessario chiarimento degli ambiti di applicazione delle relative norme per salvaguardare società che forniscono servizi particolari e oggetto di specifiche disposizioni di riassetto del settore, distinguendo tra società virtuose e non», l’Anci ritiene «indispensabile tutelare i dipendenti delle società che saranno sciolte o alienate, prevedendo specifici meccanismi di salvaguardia occupazionale». A questo proposito ieri in piazza a Montecitorio sono scesi i lavoratori di Aci Informatica, la società che gestisce i servizi integrati della capostipite, con 500 posti a rischio.
Infine anche Confindustria chiede al governo di rivedere alcuni tagli della spending review. Si tratta di quelli al fondo per il Made in Italy, previsto dalla finanziaria 2004 e utilizzato per le attività di promozione del marchio Italia all’estero. «Per noi spiega il presidente Giorgio Squinzi è di fondamentale importanza preservare le quote di mercato all'estero».

l’Unità 19.7.12
Stralciare il comparto ricerca dalla spending review
di Roberto Gualtieri

FIN DAL 2008 LE CLASSI DIRIGENTI PIÙ AVVEDUTE DEI MAGGIORI PAESI MONDIALI SI SONO DATE l’obiettivo di trovare risorse da investire nella formazione e nella ricerca come risposta a breve e a lungo termine alla crisi economica. Per usare le parole del ministro statunitense dell’istruzione, ci si è impegnati per «tenere i giovani a studiare e i professori a insegnare». L’Italia ha rappresentato un’eccezione a questa strategia generale: fin dal 2005 infatti il nostro Paese ha avviato una lunga opera di ridimensionamento delle risorse pubbliche per la formazione e la ricerca. La decisione è stata giustificata con la teoria del «secchio bucato»: l’inutilità cioè di risorse impiegate in un presunto sistema inefficiente, destinato inevitabilmente a disperderle in sprechi. Questa linea ha caratterizzato governi di opposti schieramenti, sia pure con una differenza fondamentale.
Negli anni del centro-sinistra, tra il 2006 e il 2008, i tagli delle risorse alla scuola, all’università e alla ricerca sono stati parte di una generale strategia di diminuzione del debito pubblico; in quelli del centro-destra invece l’intero comparto ha subìto una fortissima contrazione (la più rilevante dell’intera storia unitaria), mentre il resto della spesa pubblica si è ampliato: si è compiuto in questo modo un trasferimento di risorse pubbliche verso altri settori. Quei tagli si sono rivelati un errore grave: sono stati fatti con l’intento di concentrare la spesa sui segmenti qualitativamente migliori del sistema (di «chiudere i buchi del secchio»). Il risultato è stato il trasferimento di risorse dal Sud al Nord della penisola, dalla provincia ai maggiori centri urbani, dai ceti sociali più deboli a quelli più forti. La teoria del secchio bucato è semplicemente sbagliata.
Ora c’è un fatto nuovo. L’attuale governo tecnico ha posto le premesse per un ripensamento di questa strategia: i provvedimenti di spesa pubblica sono stati preceduti da un rapporto di analisi sull’andamento della spesa negli ultimi 15 anni (il documento illustrato dal ministro Piero Giarda, nel maggio scorso), rapporto in cui la storia che abbiamo fin qui riassunto è esposta lucidamente nei suoi elementi salienti. Al momento delle decisioni, ne è scaturito però un risultato insoddisfacente: è vero che per la prima volta da sette anni una manovra di finanza pubblica non prevede riduzioni al comparto della scuola e dell’università (i 200 milioni di taglio al sistema universitario, inizialmente previsti, sono stati poi cancellati per effetto dei numerosi interventi contrari, tra cui quelli del Pd e della conferenza dei rettori, anche sull’«Unità»). Dall’altra parte però sono proposti tagli molto forti agli enti di ricerca: un provvedimento ingiustificato perché interviene su alcune delle nostre istituzioni migliori, in cui la presenza di un margine finanziario operativo eccedente al mero pagamento degli stipendi è ciò che consente all’Italia di esprimersi ancora in alcuni settori di punta della scienza. Siamo arrivati al paradosso grottesco dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, elogiato al mattino per le sue eccezionali scoperte svolte al Cern in questi giorni, e oggetto la sera stessa del taglio più pesante tra quelli programmati agli enti di ricerca.
È giunto il momento che le forze politiche di maggioranza intervengano per superare l’ambiguità e aiutare il governo a compiere la svolta. Il Pd in particolare può farsi promotore presso il governo di tre azioni: primo, stralciare l’intero comparto della formazione e della ricerca dai provvedimenti di riduzione della spesa (come giustamente è stato proposto in questi giorni dai democratici di Roma). Secondo, impedire l’innalzamento della contribuzione studentesca negli atenei (e dare quindi corso all’ordine del giorno presentato dai Giovani democratici e approvato nell’assemblea nazionale del Pd lo scorso 14 luglio).
Infine, aiutare il governo a trovare risorse nuove da investire sulla scuola e sull’università, risorse che possano «tenere i giovani a studiare e i professori a insegnare», e consentirci così pienamente di fare la nostra parte per superare questa crisi.

l’Unità 19.7.12
«I tagli alla ricerca sono un suicidio» Parla Venter, scienziato del genoma
Il biologo dà un giudizio molto severo sui Paesi che tolgono finanziamenti alla scienza: «Sono nazioni destinate a scomparire»
intervista di Elisabetta Tola

RADIO3 SCIENZA Brani dell’intervista riascoltabili in rete
Questa intervista realizzata a Dublino in occasione dell'Euroscience Open Forum 2012 da Elisabetta Tola per Radio3 Scienza Pubblichiamo il testo integrale mentre l’intervista è parzialmente riascoltabile in podcast sul sito www.radio3.rai.it e parzialmente disponibile online in MP3 a questo indirizzo: http://bit.ly/MI2QQu.

CIÒ CHE NOI CHIAMIAMO PRESENTE, PER LUI È GIÀ IL PASSATO. IL BIOLOGO CRAIG VENTER, TRA I PRIMI SCIENZIATI A SEQUENZIARE IL GENOMA UMANO, RACCONTA LE TECNOLOGIE STUDIATE DAI SUOI LABORATORI PER FARE FRONTE ALLE SFIDE DEL FUTURO. Mentre la popolazione mondiale viaggia verso gli 8 miliardi di abitanti, la biologia si prepara a fornire soluzioni per fronteggiare carestie, pandemie e cambiamenti climatici. Con la biologia sintetica, per esempio, si può sfruttare l'anidride carbonica rilasciata dalle industrie per produrre cibo e carburanti «verdi», mentre lo studio del Dna consentirà di trasformare le informazioni genetiche scambiate via internet in materia vivente.
«Possiamo trasformare questo pianeta ma la ricerca deve avanzare», dice Venter. Che aggiunge: «Le organizzazioni che non si rinnovano sono destinate a diventare un ricordo del passato. E questo vale anche per le università».
La genetica, lei sostiene, rappresenta una promessa per rafforzare la sicurezza alimentare. Quali sono i problemi da affrontare?
«Entro 11 anni si prevede che avremo un miliardo di persone in più sul pianeta Terra. La popolazione è cresciuta in proporzioni preoccupanti e oggettivamente pericolose. Questo ha portato a uno sfruttamento eccessivo delle risorse dei mari, delle terre coltivabili, dell'acqua dolce, che per il 70 per cento è impiegata in agricoltura. Non stiamo vivendo a ritmi sostenibili e servono soluzioni. Stiamo provando a dimostrare che la biologia può offrire risposte a questi problemi. Il Dna sintetico ci potrebbe aiutare a creare processi biologici che possano sfruttare l'anidride carbonica presente in atmosfera. Al momento stiamo sfruttando carbone e petrolio. Bruciandoli immettiamo anidride carbonica in atmosfera. Noi vogliamo provare a riciclare quell'anidride carbonica, una sostanza che è alla base di tutto ciò che mangiamo. Possiamo quindi usarla per produrre idrocarburi e cibo. Ma dobbiamo cominciare presto, prima che l'ambiente sia compromesso per sempre.
L’agricoltura, in questo senso, andrebbe incontro a trasformazioni profonde. Siamo pronti a questi cambiamenti?
«Naturalmente l'agricoltura è uno snodo decisivo nello sviluppo delle civiltà, ma bisogna ammettere che non è cambiata molto nel corso dei centomila anni di sviluppo delle culture umane. La produttività delle attività agricole è molto inferiore rispetto alle possibilità che abbiamo, come la possibilità di progettare nuove cellule. Se si prova per esempio a produrre carburanti dal mais, si ottengono poco più di 65 litri di carburante per ogni acro (0.4 ettari) (insomma ca 120 litri per ettaro). Questo è pochissimo. Stiamo lavorando sulle alghe, per ottenere da 35mila a 50mila litri per acro per anno. Dobbiamo compiere una rivoluzione del nostro modo di intendere l'agricoltura. Non significa gettare via tutte le cose buone e gustose che mangiamo a tavola, dalla frutta alle verdure, ma di intervenire su quell'agricoltura dalla quale proviene il grosso di quello che consumiamo: il mais, la soia, le farine, che occupano gran parte dei terreni. Possiamo ottenere le stesse proteine facilmente, però moltiplicando per dieci l'efficienza delle lavorazioni».
«Come si conciliano questi obiettivi con le posizioni di chi vuole conservare un buon livello di biodiversità?
«La biodiversità è molto importante. Se dovessimo produrre un ambiente geneticamente omogeneo, andremmo a creare una situazione molto fragile, a rischio di immediata scomparsa. Siamo ora in Irlanda, una nazione segnata dalla carestia causata dai raccolti di patate distrutti da una malattia delle piante. Già allora le coltivazioni erano così uniformi da porre a rischio la loro sopravvivenza. Ciascuna varietà vegetale può essere cancellata da un virus e portare le popolazioni alla fame. Non possiamo più permetterci di correre rischi di questo genere».
«A proposito di sicurezza e geni, un’altra minaccia è rappresentata dalle pandemie.
«Serve un metodo per seguire e conoscere esattamente i virus che ci minacciano, ricorrendo agli strumenti della biologia. La possibilità di sequenziare il Dna ci permette di sintetizzare nuovi vaccini più in fretta che in qualunque film di fantascienza. Eppure la ricerca sui vaccini viene fatta ancora sulle uova di pollo! Come se fossimo rimasti indietro di un secolo. Si creano mega-laboratori centralizzati e costosi, quando si potrebbe ricorrere a un sistema distribuito di centri di ricerca, anche grazie alla possibilità di trasferire tutto ciò che è biologico in modelli digitalizzati. Presto si potrà immagazzinare l'informazione genetica nello stesso registratore digitale che stiamo utilizzando per questa intervista e poi convertire quei dati in materia vivente. I laboratori specializzati sono una cosa del passato. In futuro avremo delle stampanti che creano materia vivente».
Lei sembra muoversi tra diverse discipline e si occupa di diversi problemi allo stesso tempo. Quali sono i pregi di questo approccio?
«Cito l'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, che ha detto che ogni organizzazione ha bisogno di almeno un generalista, ed è meglio che quella persona sia il capo. Ho lavorato con una squadra fantastica di 400 ricercatori, molti sono super-specializzati ma per me la scienza è come un'orchestra che ha bisogno di un direttore che metta a frutto il meglio di ciascuno. È stato grazie a questo che un piccolo istituto di ricerca come il nostro è riuscito a compiere più scoperte di grandi organizzazioni con cento volte le nostre dimensioni, i nostri fondi e il nostro personale. Noi non abbiamo barriere, dipartimenti. La gente collabora e si specializza sui problemi che affronta. L'approccio multidisciplinare è cruciale per il futuro. Le organizzazioni che non sono in grado di trasformarsi sono destinate a diventare ricordi del passato».
«La scienza per lei è stata anche una sfida economica. Come si conciliano le attività di ricerca con l’esigenza di seguire anche gli aspetti economici delle attività di ricerca?
«Non ho notizia di scienziati di successo che al tempo stesso non siano in parte imprenditori. Produrre risultati significa mettere in campo un approccio imprenditoriale all'attività di ricerca, non solo per quanto riguarda la ricerca di risorse ma anche nell' elaborazione dei concetti. Nel senso più vasto del termine, la scienza è la disciplina di riferimento per la ricerca della verità, di risposte, di soluzioni ai problemi attraverso la conoscenza. Non è una torre d'avorio popolata da individui irrilevanti per la società. La si può definire un "processo decisionale basato sull'evidenza dei fatti", e in questo senso è il tipo di cose che non piacciono ai politici, i quali preferiscono sempre basare le loro decisioni su presunti dati di fatto creati ad arte. La scienza, invece, più di ogni altra disciplina, è la ricerca della verità. Non interessa molto al sistema giuridico o legislativo. E neanche alla religione. I governi potrebbero avere interesse nella scienza, quanto potrebbero non averne. Resta il fatto che la scienza è l'unica disciplina basata sulla ricerca del vero, della comprensione del mondo che ci circonda, di informazioni che possano rappresentare la base di soluzioni che aiutino tutti a vivere meglio».
Mentre ci sono scienziati che sostengono di non volersi arricchire con la scienza, sentiamo di governi che tagliano i fondi per la ricerca. Pensa si possa fare ricerca anche senza investimenti?
«Purtroppo molti scienziati, se non proprio la maggior parte, sono dei "follower", sono restii a prendere iniziative di cambiamento. Le università hanno interesse ai finanziamenti che ricevono grazie ai ricercatori che ci lavorano e non sembrano interessate a una trasformazione dello status quo. Ma ovunque si assiste all'assottigliamento dei bilanci e questo ci impone di cercare nuove strategie per distribuire le risorse disponibili per realizzare il massimo beneficio per la società. Di recente ho rilasciato un' intervista in Spagna su questo. Ho detto che i governi devono riflettere. Se si taglia la ricerca di base si crea una situazione irreversibile. Se si taglia oggi, sarà inutile tentare di riavviare la ricerca l'anno prossimo perché a quel punto servono almeno 20 anni per tornare al punto di prima. I tagli spazzano via generazioni di ricercatori. Ci sono Paesi dove ormai la ricerca non è più in grado di riprendersi. Quindi i tagli sugli investimenti in ricerca sono falsa economia perché a oggi la nostra società, composta da oltre 7 miliardi di persone, dipende totalmente dalla scienza. Dalla scienza dipende il futuro. Non è un passatempo per aristocratici annoiati. Siamo troppi, consumiamo troppo, dobbiamo trovare nuove soluzioni prima che sia troppo tardi. Ecco perché le nazioni che smettono di investire in ricerca sono destinate a scomparire».

l’Unità 19.7.12
Burhan Ghalioun, il leader dell’opposizione siriana: «Il presidente cercherà di alzare
il prezzo del suo ricatto Lui è pronto a distruggere il suo Paese»
«Il raìs è disperato: intorno a lui ormai c’è il vuoto»
intervista di di Umberto De Giovannangeli

«La rivoluzione è giunta a Damasco. Per Bashar al-Assad la sorte è segnata. È solo questione di giorni. Attorno a lui si sta facendo il vuoto: se in questi giorni c’è stata un’accelerazione sul piano militare è anche perché figure-chiave nell’apparato di sicurezza del regime si sono sfilate o disertando o offrendo dall’interno informazioni fondamentali per portare l’attacco al cuore del regime, colpendo centri nevralgici del suo sistema di sicurezza. Bashar farà di tutto pur di aggrapparsi a ciò che resta del suo potere. È un uomo disperato, braccato, all’angolo. Sa di non avere scampo, ma non vedo in lui uno “shahid” (martire, ndr). Proverà ad alzare il prezzo del suo ricatto verso la comunità internazionale, cercando di estendere il conflitto oltre i confini siriani. È interesse di tutti fermarlo. Noi faremo la nostra parte».
A parlare è una delle personalità più in vista dell’opposizione siriana: Burhan Ghalioun, già presidente del Consiglio nazionale siriano, l'organismo più rappresentativo dell'opposizione a Bashar al-Assad. L’Unità lo ha intervistato in esclusiva.
Attentati, combattimenti strada per strada, uccisioni mirate... Siamo alla resa dei conti a Damasco?
«Siamo alla battaglia finale, all’atto conclusivo di una rivolta trasformatasi col passare del tempo in una rivoluzione popolare. Attorno ad Assad si è creato il vuoto. Coloro che lo hanno abbandonato hanno compreso che per il regime il tempo è scaduto. E se oggi si combatte a Damasco è perché ad abbandonare Assad sono stati anche quei settori sociali che il regime riteneva ancora di avere dalla sua parte. Un errore che costerà caro ad Assad e al suo clan».
Mentre a Damasco si combatte al Palazzo di Vetro si discute e ci si divide sul testo di una nuova risoluzione sulla Siria. «Ognuno dei protagonisti di questa discussione si assumerà le proprie responsabilità davanti al popolo siriano e alla storia. Se Assad ha potuto portare avanti la sua guerra contro il popolo siriano, se le sue squadracce della morte hanno potuto macchiarsi di crimini orrendi, di massa, è anche perché il regime ha potuto contare sulla copertura di potenze che lo hanno sostenuto non solo sul piano politico ma anche fornendogli armi, addestramento militare...Penso alla Russia, alla Cina, all’Iran. Ma questo sostegno non ha arrestato la rivoluzione. Più volte Assad ha affermato di accettare i piani di pace messi a punto dalla Lega Araba e, ultimo, quello predisposto da Kofi Annan. Ma era solo un modo per guadagnar tempo e dividere la comunità internazionale. La verità è che Assad conosce e pratica un unico linguaggio: quello della forza. Nessuna trattativa è possibile con un dittatore che ha dichiarato guerra al suo popolo. Il suo posto è in un'aula di tribunale per essere giudicati dei crimini contro l'umanità di cui si è macchiato. È questa la fine che merita. Nessun salvacondotto, nessuna immunità».
C'è chi sostiene che l'opposizione non è in grado di garantire la transizione, altri temono che il dopo-Assad sia una frantumazione della Siria in diversi «staterelli» etnicoconfessionali ed etero diretti. «Che esistono posizioni diverse è noto, ma non esiste tra di noi alcuna divergenza sulla necessità di mantenere unita la resistenza contro il regime. Quanto poi alla frantumazione della Siria, o il suo diventare una sorta di califfato qaedista, questi sono tutti argomenti utilizzati dal regime per legittimare agli occhi del mondo la sua brutale repressione. Assad ha provato a fare credere che la sua non era la guerra contro il popolo siriano ma una guerra contro il terrorismo. Ha giocato questa carta, ma deve spiegare che terroristi sono i bambini uccisi a centinaia, o le donne stuprate e sgozzate dalle milizie assoldate dal regime. In una rivoluzione popolare convivono varie istanze, che nella transizione potranno trasformarsi in partiti, movimenti politici... Ma la Siria del dopo-Assad sarà uno Stato unitario, plurale, rispettoso dei diritti di tutte le minoranze. Non sarà uno Stato teocratico, anche se l’Islam avrà una sua incidenza». Questo è il futuro, ma il presente è ancora la battaglia di Damasco. Ritiene possibile che Assad decida di far uso delle armi chimiche che fanno parte dell’arsenale del regime?
«Più che un rischio, è una certezza. Lo ripeto: Assad è un uomo disperato, all’angolo, e per questo pronto a tutto pur di mantenere il potere. Pronto anche a distruggere il Paese e a far esplodere la polveriera mediorientale. Per questo va fermato, prima che sia troppo tardi»

l’Unità 19.7.12
È un infinito bagno di sangue del quale siamo tutti responsabili
di Luigi Bonante

CI SONO MOMENTI NELLA STORIA IN CUI NON SI PUÒ TENTENNARE, E DIVENTA MORALMENTE OBBLIGATORIO PRENDERE POSIZIONE. Questo, della battaglia di Damasco è uno di quelli: dopo più di 17 mila morti siamo alla stretta finale. Che sarà un bagno di sangue, del quale diciamolo chiaro siamo tutti responsabili. Le ragioni sono tantissime. Alcune vengono da lontano, e stanno racchiuse nell'isteria con cui gli Usa impostarono il dopo 11 settembre fatto di violenza cieca e assoluta incapacità politica.
L’Iraq è lì vicino, e abbiamo visto che tragedia è stata. Poi iniziò la «primavera araba», e a tutti noi sembrò che il vento della democrazia avesse incominciato a spirare in modo inarrestabile: così in Tunisia, così (più o meno) in Egitto, e poi in Libia, più brutalmente certo, ma Gheddafi era anche peggio degli altri dittatori. L'Occidente, l'Onu, la Nato, e quant'altri, dimostrarono la loro assoluta incapacità, sia da soli sia insieme, di risolvere o pacificamente o con eventuali limitati, ma perentori e definitivi interventi anche armati, le diverse situazioni critiche.
Su questo scenario la crisi siriana si stagliò nella sua paradossalità: per molti anni abbiamo blandito Assad pensando che mostrasse il volto gentile del dispotismo arabo; era moderno, laico, pacifico, e abbastanza taciturno. Dall'inizio della crisi, a lungo, in Occidente, abbiamo creduto che Assad avrebbe concesso un po’ di democrazia, tutti saremmo stati contenti e ci saremmo occupati d'altro. Ma le due classiche e decisive clausole dei problemi internazionali erano rimaste sul tavolo inevase: sono una, la questione politica, l’altra la questione giuridica.
Dal primo punto di vista, si è scoperto che non c'è accordo nel mondo sulle condizioni di intervento degli stati negli affari interni l'uno dell'altro. Se la Russia e la Cina si oppongono a ogni ingerenza, è perché hanno imparato la lezione dalla storia del mondo occidentale che ha sempre sostenuto che ogni Stato è padrone in casa sua (il principio del riservato dominio) e nessuno può imporre alcunché dal di fuori, e poi perché temono che la giustificazione dell'intervento potrebbe un giorno o l'altro essere usata proprio contro di loro, cosicché continuano a ritenere che la soluzione alla crisi siriana debba essere trovata all'interno.
Ma quando si capisce che tale volontà è inesistente e che la situazione sta degenerando, ecco che viene sollevata la leva giuridica: in effetti, sì, dobbiamo intervenire e far cessare questo massacro.
Ma a chi tocca farlo? L'Onu ha le mani doppiamente legate: da una parte, ovviamente, dal potere di veto di Russia e Cina, che difendono improbabili soluzioni pacifiche e negoziali; e dall'altra dal suo stesso Statuto che, nel sempre evocato Capitolo VII, non lascia alcuno spazio di intervento militare.
Per ottenerlo, bisognerebbe dimostrare che la crisi siriana è una minaccia alla pace internazionale, ciò che con tutta la sua gravità essa però non è.
La comunità giuridica aveva elaborato e votato nel World Summit del 2005 un grandioso principio relativamente alla «Responsabilità di proteggere», che scatterebbe in capo a tutta la comunità internazionale nel momento in cui si dimostrasse che un governo è impotente di fronte a una crisi acuta: la si era evocata nel caso libico, ma poi dovettero intervenire gli stati in prima persona e non in quanto tutori dell'ordine mondiale. A questo punto, insomma, il cane si morde la coda e la responsabilità giuridica ritorna nelle mani dei politici...
Assad è condannato: dalla storia e anche dalla politica. È incredibile che non si renda conto della follia di cercare di restare al potere: chi mai potrà ancora amare un dittatore che ha causato la morte di decine di migliaia di persone? E che dire dei ribelli combattenti, patrioti ed eroici? E per favore, non chiamiamoli terroristi; i loro, in questi giorni, non sono attentati ma azioni di guerra che si valgono degli strumenti spietati di cui chiunque si è sempre valso in guerra.
Ma non è finita: anche sul piano meramente strumentale l'Occidente democratico deve interrogarsi: abbiamo davvero fatto qualche di buono e utile a favore della crescita democratica del mondo, abbiamo aiutato le democrazie giovani ed emergenti, senza ambiguità, senza interessi particolari, ma solo per il loro bene?
Perché abbiamo invece sempre venduto armi e tecnologie militari a tutti i dittatori che le chiedevano? Avevamo a cuore i nostri bilanci, o la pace mondiale?
L'unica cosa che possiamo ancora fare è levarci in un grande e possente movimento di opinione popolare e democratico: Assad deve sapere che tutto il mondo lo condanna. Non importa se se ne dovrà andare vivo o morto. Quel che conta è che ceda il potere. Quel che conta è che i siriani possano decidere democraticamente il loro futuro.

il Fatto 19.7.12
“Regime all’ultima spiaggia ma i jihadisti fanno paura”
di Volkhard Windfuhr

Randa Kassis, presidente di un gruppo di opposizione laico, dipinge un quadro a tinte fosche del futuro della Siria. Sebbene l’opposizione popolare sia sempre più decisa, Assad ha dimostrato che è sua intenzione schiacciare il dissenso con ogni mezzo. Secondo Kassis, tuttavia, gli islamisti sostenuti dagli Stati del Golfo stanno operando per dividere l’opposizione indicando come nemici i gruppi di opposizione laici.
Qual è il rapporto di forze tra il regime e i ribelli?
A differenza di quella che era la situazione all’inizio della rivoluzione, oggi oltre l’80% dei siriani vuole il rovesciamento di Assad e della sua cricca. Col tempo l’opposizione si è anche ben armata grazie al Qatar e all’Arabia Saudita. Ma le armi più sofisticate sono ancora in mano alle forze di sicurezza di Assad. Se potranno continuare a usarle impunemente ci saranno altre atrocità.
Le armi fornite al regime di Assad dalla Russia e dall’Iran stanno prolungando il conflitto?
Questo è ovviamente un fattore importante, ma il regime disponeva già di armamenti più
che sufficienti. La ragione per cui l’opposizione non è riuscita a volgere a proprio favore il
conflitto va in parte ricercata nelle insanabili divergenze tra i combattenti jihadisti e la maggioranza della popolazione.I gruppi islamisti, finanziati con ingenti risorse ed equipaggiati dagli Stati del Golfo, stanno combattendo con un solo scopo: la conquista del potere. Per questo rifiutano qualunque forma di collaborazione e intesa con gli altri gruppi di opposizione. I siriani che prendono le armi contro il dittatore ma rifiutano di mettersi al servizio dei jihadisti, vengono bollati come traditori della patria ed eretici.Questa situazione fa sentire le sue conseguenze anche sui soldati e ufficiali che hanno disertato per passare con l’opposizione, ma che non vogliono che una tirannia religiosa prenda il posto del terrorismo corrotto del regime di Assad. Ma non è forse vero che la maggior parte dei siriani è musulmana praticante e molto devota?
Sì, ma la metà dei siriani vuole una netta separazione tra Stato e Chiesa, e personalmente non
ci vedo alcuna contraddizione. Il conflitto tra gli islamisti assetati di potere e intolleranti e i combattenti dell’opposizione che non sono spinti da motivazioni religiose – e ai quali nessuno dà una mano – rende improbabile una rapida fine della guerra. Per non parlare del fatto che le truppe governative stanno facendo terra bruciata dietro di loro in ogni angolo del Paese.
Non c’è alcun modo per fermare il bagno di sangue?
Il regime di Assad deve smettere di uccidere la gente e deve cedere volontariamente il potere. E i combattenti islamisti debbono accettare i gruppi di opposizione laici come alleati con pari diritti e non trattarli più come avversari politici. A quel punto potranno tornare anche i membri del partito Baath che non hanno fatto nulla di male, si sono opposti ad Assad e poi sono stati costretti a rifugiarsi in Iraq.
I membri del partito Baath sono un raggio di speranza in vista di una nuova Siria democratica?
Perché no? In Iraq gli Usa hanno accettato come primo ministro l’ex membro del partito Baath Ayad Allawi. Milioni di iracheni hanno preferito i valori democratici di Allawi a quelli del capo religioso al-Maliki e dei suoi ministri. Le vostre speranze sono affidate per lo più agli Stati Uniti che stanno spingendo per una svolta democratica in Siria?
Nei Paesi nei quali c’è stata la primavera araba, gli Stati Uniti hanno privilegiato i Fratelli Musulmani. Gli americani sono convinti che saranno la forza dominante del futuro e accettano questa realtà.
Assad resisterà a lungo?
posizione laico, dipinge un quadro a tinte fosche del futuro della Siria. Sebbene l’opposizione popolare sia sempre più decisa, Assad ha dimostrato che è sua intenzione schiacciare il dissenso con ogni mezzo. Secondo Kassis, tuttavia, gli islamisti sostenuti dagli Stati del Golfo stanno operando per dividere l’opposizione indicando come nemici i gruppi di opposizione laici.
Spero poche settimane. Ma in termini puramente militari, potrebbe resistere mesi a meno di un miracolo.
Quali sarebbero le prospettive?
I miracoli sono per loro stessa natura imprevedibili, proprio come la rivolta in Tunisia, Egitto e Siria. Non conosco nessuno che avesse previsto i profondi cambiamenti che si sono verificati e si stanno verificando in questi Paesi e che per decenni sono sembrati assurdi e utopistici.

La Stampa 19.7.12
“I ribelli adesso puntano a vincere senza aiuti esterni”
L’analista Majed: anche la borghesia di Damasco sta mollando il rais
di Alberto Mattioli

L’attentato? Non so se per Assad sia la fine. Ma di sicuro è l’inizio della fine. Il regime non controlla più gran parte della Siria e adesso nemmeno molti quartieri di Damasco. Militarmente resta forte: ha le armi e la ferocia per usarle. Magari non ha ancora perso. Però certamente, non è più in grado di vincere». Ziad Majed è un politologo libanese che insegna all’Università americana di Parigi. E le sue analisi su «Le Monde» spiccano per lucidità.
Professore, parliamo del dopo Assad. L’opinione generale, anche in Occidente, è che la dittatura sia sì impresentabile per corruzione e crudeltà, ma almeno garantisca la stabilità di un Paese chiave. Se crolla, il futuro è il Libano o un regime islamista?
«Non sarei così pessimista. È chiaro che quando la rivoluzione vincerà ci sarà una transazione difficile. Però attenzione: in Siria, la coesione nazionale è assai più forte che in Libiano o in Iraq. Il regime si presenta come laico e progressista, ma in realtà ha sempre aizzato i contrasti religiosi in un Paese che è un mosaico confessionale. Nessuno ha una maggioranza schiacciante. I sunniti sono circa il 65 per cento della popolazione e non tutti sono islamisti. No, non credo che la Siria diventerà il Libano, men che meno l’Iraq».
Gilles Kepel dice che la borghesia laica e illuminata delle grandi città, specie Damasco, esita a scaricare il regime perché è terrorizzata dalla sua crudeltà, ma teme anche il salto nel buio.
«Sì, ma non è una classe sociale così compatta. Da un lato c’è una borghesia che vive di clientelismo e di monopoli e che ha tutto da perdere. Dall’altro, una borghesia di commerci, che ha molte relazioni con l’estero, per esempio con la Turchia, e ha iniziato a manifestare il suo malcontento con le serrate, gli scioperi e l’appoggio alla rivoluzione. È questa la classe sociale che è destinata a ricostruire il Paese».
Ormai è chiaro che l’intervento dall’estero non si farà. I siriani possono liberarsi da soli?
«Lo stanno facendo e soprattutto adesso hanno capito di poterlo fare. Questa è la svolta: i ribelli non aspettano più la liberazione da fuori. Si rendono conto che i Paesi della regione, e non solo loro, hanno paura di un vuoto di potere in una zona cruciale, fra Israele, il Libano fragile, l’Iraq a pezzi e la Turchia che ha i suoi problemi».
Però stanno ricevendo aiuti dall’estero.
«Ma le munizioni, i lanciarazzi e i mezzi di comunicazione che arrivano dalla Turchia e dai Paesi del golfo sono poca cosa rispetto ai rifornimenti di armi garantiti al regime da Russia e Iran. L’attentato di Damasco che ha annientato la cellula di crisi del regime dimostra che la rivoluzione ha dei contatti dentro il potere e ha sviluppato le sue capacità di intelligence. Contemporaneamente, ha cambiato la sua strategia militare, evitando di farsi rinchiudere nelle città come a Homs. La rivoluzione è passata dalla guerra alla guerriglia».
Faccia il profeta: ad agosto la Siria sarà libera?
«Il crollo di un regime basato su un clan può essere anche molto rapido, com’è successo in Libia la scorsa estate. Però lì c’era l’aviazione della Nato che bombardava e l’esercito siriano è ancora molto più forte di quello libico. Agosto, magari, è un po’ presto. Ma di una cosa sono certo: il regime non ha speranze».

l’Unità 19.7.12
Israeliani sotto attacco. Morte sul bus dei turisti
Avi Pazner, ex ambasciatore israeliano in Italia: «Quello in atto è un progetto di  destabilizzazione. Per dire ai cittadini israeliani: vi possiamo colpire ovunque»
«È un inquietante salto»
di U.D.G.

Rabbia. Dolore. Indignazione. E volontà di reagire. Sono i sentimenti che permeano le considerazioni di Avi Pazner, presidente mondiale del Keren Hayesod United Israel Appeal (letteralmente «Fondo per le fondamenta»), una delle più importanti agenzie ebraiche, già consigliere di premier israeliani e ambasciatore in Italia negli anni ‘90. «Il vile attentato di Burgas – dice Pazner a l’Unità – segna un salto di qualità nella guerra terroristica messa in atto, non da oggi, contro lo Stato d’Israele, i suoi cittadini, il popolo ebraico. Il messaggio è chiaro, vergato col sangue di civili innocenti: tutti voi, israeliani, siete un obiettivo potenziale, da colpire in qualunque circostanza, ovunque nel mondo».
Dietro la strage di Burgas, insiste l’ex ambasciatore, «c’è un odio senza limiti, che non è legato ad un progetto politico, che non ha rivendicazioni specifiche da portare avanti. Il “progetto” è sempre quello che da sempre ispira i nemici d’Israele: seminare morti e terrore, colpire Israele per quello che rappresenta e che non è accettato da colore che dietro l’antisionismo mascherano un profondo odio antisemita: Israele come focolaio nazionale del popolo ebraico». Questosanguinoso attentato non è un gesto isolato. Spiega Pazner: «Negli ultimi tempi i terroristi e i loro mandanti hanno provato più volte a colpire cittadini israeliani all’estero: in India, in Thailandia, in Georgia, in Kenya, a Cipro... C’è chi porta avanti un progetto di destabilizzazione che fa della guerra a Israele, ai suoi cittadini, un elemento portante, un collante ideologico, una forma estrema di propaganda armata. Le parole speso anticipano gli atti. E chi ha evocato a più riprese la distruzione dello “Stato sionista”; chi non ha esitato ad abbracciare le più aberranti tesi negazioniste dell’Olocausto, non ha remore nell’armare, finanziare, coprire politicamente i gruppi del terrore jihadista. Quel qualcuno siede ancora nel più importante consesso internazionale: l’Onu. Quel “qualcuno” sono coloro che detengono il potere in Iran. «Vi sono numerosi indizi – rimarca Pazner – che ci portano a seguire la pista iraniana». Il modo migliore per onorare le vittime di Burgas,. sottolinea l’ex ambasciatore israeliano, «è quello di non abbassare la guardia nella lotta al terrorismo, e di unire le forze per opporsi a una minaccia che non investe solo Israele». Una minaccia mortale che si nutre anche di simboli: «I terroristi hanno colpito nel 18mo anniversario del sanguinoso attentato contro la comunità ebraica a Buenos Aires. Noi dobbiamo onorare le vittime di ieri e di oggi con il nostro impegno a combattere i seminatori di morte. In nome della giustizia, non della vendetta”.

La Stampa 19.7.12
“La rappresaglia ci sarà Ma solo il dossier nucleare può scatenare la guerra”
di Giodano Stabile

La reazione di Israele ci sarà, sarà molto dolorosa per l’Iran, ma soltanto il dossier nucleare potrebbe innescare una guerra su larga scala fra i due grandi rivali del Medio Oriente». Daniel Pipes, figlio di ebreo-polacco fuggito negli Stati Uniti all’inizio della seconda guerra mondiale, direttore del Middle East Forum e uno dei consiglieri più ascoltati dal presidente George W Bush sulla politica mediorientale fra il 2001 e il 2005, è uno degli analisti statunitensi che più conosce le dinamiche di Israele.
Pensa che sia realistica la pista iraniana, subito additata dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu?
«È del tutto ragionevole. L’Iran ha colpito più volte Israele fuori dai suoi confini. Per la semplice ragione che è molto difficile colpire lo Stato ebraico all’interno. I bersagli all’estero quindi diventano immediatamente privilegiati».
Crede che, se davvero fossero stati gli iraniani, questo attentato possa segnare l’inizio del conto alla rovescia
per una guerra all’Iran?
«Una guerra su larga scala all’Iran è legata esclusivamente al dossier nucleare. Ma è sicuro, che se sarà dimostrata la matrice iraniana nell’attacco in Bulgaria, la reazione di Israele sarà molto dolorosa per l’Iran».
Ma di che tipo, attacco militare o rappresaglia mirata su possibili mandanti, tipo ufficiali dei Pasdaran?
«È troppo presto per dirlo. Non abbiamo sufficienti elementi. Non sappiamo ancora se siano stati gli iraniani, a che livello, eventualmente, è stata presa la decisione. L’Intelligence israeliana di sicuro è al lavoro per stabilirlo. L’entità della rappresaglia, se ci sarà, dipende da questi elementi. Ma ripeto, un attacco militare, con l’aviazione, potrà solo essere legato al pericolo che Teheran acquisisca l’arma atomica. È la priorità nella politica estera israeliana in questo momento».
Ma perché Netanyahu si è mostrato tanto sicuro nell’accusare l’Iran, se questi elementi devono essere ancora vagliati?
«Ci possono essere componenti politiche o psicologiche. È certo nell’interesse di Israele tenere alta la tensione nei confronti dell’Iran».
Può aver contribuito anche l’accelerazione della crisi siriana?
«Non abbiamo elementi per dirlo. Credo che in questo momento le due vicende siano da tenere separate»
Ma, in questo momento, gli Stati Uniti sono pronti a sostenere l’eventuale rappresaglia israeliana?
«In linea generale sì. Sull’eventualità di un attacco in larga scala pesa invece la percezione di quanto siano davvero vicini all’atomica gli ayatollah».

Corriere 19.7.12
Clitennestra dark lady che uccise il marito
di Eva Cantarella

Se non fu la prima dark lady della storia, Clitennestra fu certamente una delle più note. A farle acquistare questa fama, della quale non si sarebbe più liberata, contribuì in modo determinante Eschilo, con la descrizione del modo con il quale uccise il marito Agamennone. Reduce da Troia, questi torna alla reggia, dove la moglie (durante la sua assenza diventata l’amante di Egisto), lo accoglie simulando grande gioia. Ma non appena il marito è immerso in un bagno ristoratore, che gli ha fatto preparare, Clitennestra mette in atto il piano da tempo meditato. E così lo racconta: «Ho fatto in modo che non potesse fuggire né difendersi contro la morte. Gli ho avvolto intorno, come un abito da festa, una rete senza uscita, come per i pesci. L’ho colpito due volte, in due gemiti si sono sciolte le sue membra. Ho inflitto al suo corpo il terzo colpo, offerta ad Ade, re degli Inferi. Così egli ha esalato l’anima: ed espellendo un violento getto di sangue, mi ha colpita con un nero spruzzo, e io ne ho goduto come un campo seminato per il ristoro mandato dal cielo sulle gemme che si schiudono...» Indiscutibilmente, Clitennestra aveva subito molti torti dal marito: se lo odiava, non era senza ragione. Ma, detto questo, difficile negare la sua crudeltà (quantomeno nelle versione eschilea del suo crimine).