sabato 14 giugno 2014

l’Unità 14.6.14
l’Unità in lotta
Cdr

Ancora silenzio assordante. Ingiustificato, inaudito, inaccettabile. A 24 ore dalla decisione della messa in liquidazione della società editrice del nostro giornale, il comitato di redazione non ha ricevuto alcun chiarimento da parte del socio di maggioranza Matteo Fago.
Fago ha preferito fare annunci mirabolanti alla stampa sul futuro de l’Unità piuttosto che confrontarsi con i suoi dipendenti. Stesso silenzio dal comitato di liquidatori. Un comportamento inammissibile, tanto più per un’azienda che edita una testata storica come la nostra, che sempre ha difeso i diritti dei lavoratori. Per ora i giornalisti de l’Unità non hanno ottenuto alcuna rassicurazione, dopo mesi di lavoro nell’incertezza assoluta, che ha paralizzato lo sviluppo del giornale. Oggi di fronte a noi c’è solo la liquidazione della società e il fatto che continuiamo a lavorare senza ricevere lo stipendio. Per questo abbiamo deciso di proseguire lo sciopero delle firme iniziato ormai un mese fa. Ma non ci fermeremo qui. Da oggi avremo a disposizione uno spazio in prima pagina per denunciare le ragioni della nostra protesta, anche con contributi esterni.
Questo è anche il modo più efficace per mantenere un rapporto costante con i nostri lettori, il bene più prezioso che abbiamo, senza i quali non esiste futuro per il più grande giornale della sinistra. La mobilitazione si fermerà solo quando le nostre richieste saranno accolte. Torniamo a chiedere con forza un incontro al collegio dei liquidatori e al socio di maggioranza per aprire immediatamente un tavolo di confronto con la rappresentanza sindacale. Chiediamo inoltre l’immediato pagamento degli stipendi dei redattori, dei collaboratori e dei poligrafici. Senza risposte adeguate, annunciamo fin da ora uno sciopero nella giornata di venerdì 20 giugno e avvertiamo la nostra controparte che i giornalisti sono pronti ad adire tutte le vie legali a difesa della testata.

l’Unità 14.6.14
Fnsi

L’assemblea dei soci de l’Unità ha deciso la liquidazione dell’attuale società (la Nuova iniziativa editoriale spa) nominando un collegio di liquidatori, che divengono, così, a tutti gli effetti, il punto di riferimento aziendale. Il momento, nella vita de l’Unità, è delicatissimo.
Si tratta di un passaggio che va gestito coinvolgendo tutti coloro che vivono quotidianamente la produzione del giornale. Occorre dire, con chiarezza, che si è partiti subito malissimo. Nessuna comunicazione formale è stata data alle rappresentanze sindacali. Giustamente il Comitato di redazione ha usato parole durissime per qualificare un simile inaccettabile comportamento.
I liquidatori devono chiarire quale è il loro mandato, i termini con i quali si intende gestire la liquidazione, verso quale società si transita, con che caratteristiche e con quale progetto. E questo deve essere fatto con urgenza mettendo fine ad incertezze e rinvii. Il Sindacato dei giornalisti ha già più volte dichiarato la propria disponibilità a discutere, ma dentro precisi confini: salvaguardia dell’occupazione escludendo qualsiasi traumatica gestione dell’organico in un’ottica di rilancio del prodotto sulla base di un chiaro progetto.
I giornalisti de l’Unità hanno attuato più giornate di sciopero per rivendicare chiarezza e progetto, oltre che i loro stipendi, e stanno attuando uno sciopero delle firme che per durata non ha precedenti.
I collaboratori attendono da lungo tempo il pagamento delle loro spettanze. È ora di attuare una svolta anche nelle relazioni sindacali. Questo significa aprire rapidamente un tavolo di confronto: la salvezza di questo giornale storico della sinistra e dell’editoria italiana non può avvenire che con la convinta partecipazione di coloro che vi lavorano.
Assai gravi sarebbero le responsabilità di chi non comprendesse questo e continuasse a sottrarsi ad un confronto trasparente.

l’Unità 14.6.14
Stampa Romana

Il futuro de l’Unità è sempre più a rischio. L’assemblea dei soci, che si è svolta nella giornata di giovedì, non è riuscita a dar seguito all’aumento di capitale e ha nominato due commissari liquidatori.
Sia il socio di maggioranza Matteo Fago sia il Pd, cui la testata fa riferimento, hanno assicurato la continuità aziendale e che l’Unità continuerà a vivere. Sarebbe un paradosso, invece, che dovesse chiudere proprio nel novantesimo anniversario della sua fondazione da parte di Antonio Gramsci. Ma le dichiarazioni non bastano. Sono necessarie scelte urgenti e chiare che assicurino un futuro alla testata e a chi vi lavora da tempo senza stipendio. Un serio piano di rilancio che consenta a l’Unità di continuare a svolgere il suo compito con autorevolezza e completezza.
L’Associazione Stampa Romana non solo esprime solidarietà ai colleghi e alle colleghe della redazione, ma chiede chiarezza e impegni precisi da parte di tutti i soggetti chiamati in causa: dai soci della società editrice Nie ora in liquidazione, ai commissari liquidatori, allo stesso Pd perché alle dichiarazioni di impegno e interesse seguano i fatti. E perché il percorso di liquidazione sia funzionale esclusivamente ad un rapido rilancio della testata. L’Asr auspica l’apertura di un confronto immediato tra i rappresentanti dell’azienda, il comitato di redazione de l’Unità, la Fnsi e le Associazioni di stampa territoriali coinvolte, e chiede un’assunzione precisa di responsabilità da parte del Pd nonché di intraprendere adeguate iniziative da parte del governo a tutela dell’editoria e del pluralismo dell’informazione.
L’Associazione Stampa Romana, infine, non può non stigmatizzare l’atteggiamento della proprietà che non ha avuto neanche la sensibilità di comunicare direttamente alla rappresentanza sindacale la decisione di avviare le procedure di liquidazione.

l’Unità 14.6.14
Rsu Slc-Cgil

Ieri si è svolta l’assemblea dei lavoratori poligrafici de l’Unità. In tale ambito è stata manifestata una forte preoccupazione per la decisione presa dall’Assemblea dei soci in merito alla messa in liquidazione della Nuova iniziativa editoriale.
La nomina del Collegio dei liquidatori ha provocato sgomento e irritazione per il percorso seguito, senza quasi nessun coinvolgimento della rappresentanza dei lavoratori interessati. Inoltre, non vi è alcuna chiarezza sul futuro della testata e non ci rassicurano le parole del socio di maggioranza de l’Unità Matteo Fago, perché ad oggi non troviamo nessun riscontro di un piano editoriale sostenuto da un piano industriale e finanziario; soprattutto non abbiamo nessuna informazione in merito ad una presunta «nuova squadra» che possa guidare l’Azienda a superare l’attuale crisi e a rilanciare la testata. In questo contesto, l’assemblea dà mandato alla Rsu e alla Slc-Cgil di attivare un percorso in raccordo con il Cdr di confronto, sia con l’azionista di maggioranza, sia con il Tesoriere del Pd Bonifazi, anche alla luce delle dichiarazioni intervenute all’interno della Direzione nazionale del Pd. Resta inteso che non escluderemo neanche il Collegio dei liquidatori, nel momento in cui si ufficializzerà il loro insediamento, per affrontare tutte le tematiche inerenti la gestione della società e della testata, a partire dalla situazione economica che vede i lavoratori poligrafici senza il pagamento degli stipendi e di altre spettanze, oltre la gestione degli accordi sindacali in essere, relativamente all’uscita dei lavoratori. In ultimo, nel valutare negativamente la gestione dell’ultimo anno e mezzo in cui tutte le promesse e gli impegni presi di rilancio della testata sono stati regolarmente disattesi, l’assemblea dei lavoratori si riconvocherà a breve per decidere nell’ambito dello stato di agitazione ulteriori iniziative a fronte del percorso sopra delineato.

il Fatto 14.6.14
Giornale in assemblea
La redazione dice no alla liquidazione, il sindacato chiama in causa il Pd


UN’ASSEMBLEA durata tutto il pomeriggio da parte dei giornalisti e dei lavoratori dell’Unità per ribadire tutta la propria contrarietà alla liquidazione della società decisa dal Consiglio di Amministrazione del 12 giugno. Liquidazinoe che nelle intenzioni societarie prelude a un nuovo rilancio e che invece preoccupa fortemente i lavoratori. Ma anche il sindacato che ieri ha preso posizione sia con l’associazione Stampa Romana che con la Federazione nazionale (Fnsi). “Occorre dire, con chiarezza, che si è partiti subito malissimo - dicono i vertici di quest’ultima -. Giustamente il Comitato di redazione ha usato parole durissime per qualificare un simile inaccettabile comportamento”. Il sindacato chiede di chiarire quali siano “il mandato dei liquidatori, i termini con i quali si intende gestire la liquidazione, verso quale società si transita, con che caratteristiche e con quale progetto”. A chiamare direttamente in causa il Pd, invece, è l’associazione Stampa Romana, con il suo segretario Paolo Butturini che, oltre ad auspicare “l'apertura di un confronto immediato tra i rappresentanti dell'azienda, il comitato di redazione de L'Unità, la Fnsi e le Associazioni di stampa territoriali coinvolte”, chiede “un'assunzione precisa di responsabilità da parte del Pd” ma anche del governo. Bacchettate alla proprietà, infine, che non ha avuto neanche “la sensibilità” di comunicare direttamente alle rappresentanze dei lavoratori la messa in liquidazione del giornale.

Corriere 14.6.14
Il renzismo e una certa idea dell’Italia
di Paolo Franchi


Una volta si chiamava l’analisi del voto, e durava settimane. Da un pezzo ha ceduto il campo a commenti a caldo e interpretazioni last minute. Ma sulle implicazioni delle ultime tornate elettorali, in particolare per il Pd e per il governo, può essere utile soffermarsi ancora.
Tre brucianti sconfitte a Livorno, Perugia e Padova, e qualche rovescio minore, in un mare di vittorie. Per pesanti che siano (in specie, per il loro valore anche simbolico, quelle subite in tradizionali roccaforti della sinistra), non si può certo dire che il voto amministrativo di domenica scorsa contraddica, ad appena quindici giorni di distanza, il trionfo del Pd di Matteo Renzi alle europee. Tutto sta a stabilire, però, se sia giusto porre così la questione. O banalizzarla ad arte, mettendo in conto i (molti) successi al «nuovo che (ri)avanza» con Renzi, e i (pochi) insuccessi al «vecchio che non vuole morire» incarnato da quel che resta nel Pd dell’antico ceppo Pci – Pds – Ds. Sarebbe meglio, per cominciare, chiedersi se sia possibile, di questi tempi, individuare dentro un risultato elettorale, nel nostro caso quello del voto europeo, delle tendenze politiche di fondo destinate a reggere nel medio periodo. Il mondo è cambiato, i raffronti con il passato valgono quello che valgono. Ma resta vero che c’è quaranta per cento e quaranta per cento.
Per dire. La Dc superò questa fatidica soglia solo tre volte, due con Alcide Gasperi (nel ’48, ovviamente, e poi, ma solo di un soffio, nelle elezioni del ’53, quelle della sconfitta della «legge truffa»), e una con Amintore Fanfani, nel ’58: ma poi per trent’anni e passa, pur attestandosi su percentuali più modeste, restò il partito-Paese per antonomasia. Incarnando assieme, nonostante le sue feroci lotte intestine, la stabilità e un prudente rinnovamento (il «progresso senza avventure»). Renzi questa soglia l’ha varcata di getto oltre ogni aspettativa, alla sua prima prova, il 25 maggio. Nulla esclude, naturalmente, che restino a lungo, lui e il suo partito, a simili livelli, e persino che vadano oltre. Ma probabilmente non gli capiterà più di avere di fronte un leader politicamente finito come Silvio Berlusconi e, soprattutto, uno sfidante che le ha sbagliate tutte, fino a trasformarsi involontariamente nel suo migliore propagandista, come Beppe Grillo: non era poi tanto difficile prevedere, tra un (quasi) quarantenne che presentava se stesso e il suo governo come l’ ultima spiaggia e un sessantacinquenne che minacciava sfracelli, a chi sarebbe andato il voto della maggioranza degli italiani. Non basta. A differenza della vecchia Dc, vivente elogio della lentezza, il segretario-presidente Renzi è chiamato (verrebbe da dire: è costretto) a correre. Perché lo stato del Paese lo richiede, naturalmente. Ma pure perché l’elettorato, rimasto tutto sommato stabile nei suoi comportamenti persino nel ventennio della cosiddetta Seconda Repubblica, si è fatto a dir poco volatile: se ieri in linea di massima premiava chi era al governo, oggi, se solo gli si presenta l’occasione, tende a disarcionarlo. Le antiche appartenenze non ci sono più, nemmeno sotto mentite spoglie, e nei pochi casi in cui resistono portano più guai che voti. E appartenenze nuove e diverse, sempre che siano davvero possibili (ed è lecito dubitarne), bisogna costruirle.
Per farlo, anche nel tempo di Twitter, serve tempo, e il tempo a disposizione è poco. Ma soprattutto, pure nell’età della politica illustrata per slides , servirebbe quella che, parafrasando De Gaulle, potremmo chiamare «una certa idea dell’Italia», con tutto ciò che ne consegue in termini di azione di governo e di partito. La Dc e, se è per questo, anche il Pci, lo stesso Psi post frontista, e partiti pure elettoralmente modesti come il repubblicano e il liberale, ce l’avevano, o almeno a lungo dettero l’impressione di averla, e di essere in qualche modo capaci di rielaborarla in rapporto ai bisogni e ai cambiamenti non solo della loro base elettorale, ma della società italiana nel suo complesso: se, alla fine, scomparvero è anche perché da un pezzo avevano smesso, chi più chi meno, di coltivarla.
E Renzi, chiamato addirittura a trasformare il conglomerato denominato Pd in un «partito della Nazione», ce l’ha, «una certa idea dell’Italia», anche se espressa, almeno sin qui, pressoché solo tramite annunci? O il messaggio di fiducia che manda agli italiani è ancora e sempre il classico «io speriamo che me la cavo», seppure in versione Terzo Millennio? A questo interrogativo, meno retorico di quanto immaginino, nella loro infondata supponenza, tanti praticoni vecchi e nuovi della politica, il voto europeo non dà e non può dare risposte; e nemmeno quello amministrativo, che pure segnala come, scendendo tra le (poche) gioie e i (molti) dolori della vita reale degli italiani nelle loro comunità, le cose inevitabilmente tendano a complicarsi. La risposta, per nulla scontata, deve darla Renzi. Continuando (o meglio, riprendendo) a correre, si capisce. Ma senza pretendere che quel quaranta per cento lo abbia incoronato re. E soprattutto chiarendo — sempre che la politica possa ancora farlo — dove è diretta la corsa.

il Fatto 14.6.14
La svolta decisionista
Salvatore Settis: “Renzi è un figlio padrone”
di Antonello Caporale


Matteo Renzi appartiene alla schiera dei “figli-padroni”. Un figlio-padrone fa più simpatia di un padre-padrone, non è mica Andreotti? È giovane, teorico di quella che si chiama la grande sveltezza. È infatti sveglio e svelto, ma resta che simpaticamente comanda come un padrone.
Un renziano le risponderebbe così: Salvatore Settis è pura archeologia, è il simbolo della sinistra chic, elitaria e perdente.
Ho dispiacere di non apprezzare la speranza che cova in così tanti animi. Purtroppo quando guardo alla sostanza delle cose mi convinco che la mia diffidenza affonda in un terreno fertile.
Iniziamo allora a dire che il continuo, insopportabile richiamo alla volontà popolare è il frutto di una possente alterazione della realtà. Ha lo stesso stampo del trucco berlusconiano sul mandato del popolo. Ho fatto due conti: il 40,8 per cento degli italiani ha votato Pd. E pure ammesso che siano tutti voti per Renzi, dal primo all’ultimo, verifico che il primo partito è di chi si è rifiutato di votare: ha il 41,32 per cento. Se aggiungo astenuti e nulle, assisto al miracolo rovesciato. Renzi ha ottenuto il 40,8 per cento del 50 per cento che ha votato. Dunque possiede tra le sue mani il favore del 20,62 per cento degli italiani. È questo venti per cento una maggioranza strabiliante? Una moltitudine senza pari? A me appare molto più drammatico per la democrazia che la maggioranza degli italiani si sia rifiutata di consegnarsi a questa politica.
Nonostante i suoi calcoli siano corretti le si
potrebbe opporre che la cifra assoluta è comunque elevatissima, mai toccata finora.
Resta che in termini reali non raggiunge il 21 per cento. E resta che questa concezione dell’investitura come di un mandato a fare quel che si vuole è la limpida proiezione dell’idea berlusconiana del comando.
Salviamo qualcosa a questo Renzi.
Ottimo comunicatore, ha l’anagrafe davanti a sè. Ma con tutto il rispetto la giovane età non sembra coniugata a una competenza straordinaria. E da quel che vedo anche i suoi collaboratori , malgrado l’anagrafe, non paiono godere di conoscenze particolari, non mostrano attitudini portentose.
E dove mette la speranza, il governo della speranza, la possibilità che questo giovane premier cambi l’Italia e lo faccia per il meglio?
Invidio chi ha speranza e chi la ripone in lui. Trovo che sia poco per costruire tutto questo palazzone di fiducia. Trovo che finora i fatti non esistano, ma solo slogan. Che i problemi più duri per l’Italia, la corruzione e l’evasione fiscale, siano lì nella loro dolorosa integrità. Penso che questo consenso trasversale non sia un esclusivo merito di Renzi quanto il frutto della nullità dei suoi antagonisti. Il premier è veloce e scattante. E qui mi fermo. Siamo alla teoria della grande sveltezza, dizione molto appropriata
Anche molto determinato il premier. Ha visto come ha fatto fuori i dissidenti del Senato?
Renzi dovrebbe ricordarsi con quale agilità e spregiudicatezza la sua parte politica promosse la riforma del titolo V della Costituzione. La cambiò di fretta e furia e s’è visto com’è andata a finire: mi pare che adesso siano decisi a rimetterci mano. La Costituzione può essere cambiata. Ma ha bisogno di una prudenza maggiore, un equilibrio superiore e un garbo istituzionale, un’attenzione alle minoranze indispensabile perchè la Carta fondamentale sia sentita da tutti come la tavola su cui fondare la convivenza civile. Ma qui e di nuovo siamo al concetto berlusconiano dell’investitura popolare. Mi hanno votato e faccio come mi pare. Un falso doppio.
Il Pd sembra vicino al suo premier.
Lei dice? A me pare di no. Magari lo teme. È un atteggiamento silente, non un sostegno convinto, nè noto una condivisione della strategia. La sinistra dovrebbe fare quel che non ha mai fatto: autocritica vera e dura. Dalla caduta del muro di Berlino in poi ha sbagliato ogni previsione. Ed è stata dentro alla cultura del ventennio berlusconiano. Ricordiamoci gli otto inutili anni del governo di centrosinistra. Ha mai sentito un pensiero autocritico? Una riflessione su quel che è successo? Nulla.
Adesso hanno vinto
Infatti dicono soltanto questo: ma Renzi ci fa vincere! E che te ne fai di una vittoria se non hai idee da promuovere, uno stile da affermare, una visione della vita da illustrare?

il Fatto 14.6.14
Renzi, il bulletto che fa il premier
di Alessandro Robecchi


Chissà cos’hanno pensato i dirigenti del più grande Partito Comunista del mondo quando hanno visto Matteo Renzi occuparsi di Corradino Mineo. Abituati a leader occidentali che vanno lì a parlare dei dissidenti loro, vederne uno che da Pechino si occupa dei dissidenti suoi li avrà divertiti un bel po’. Poi, appena tornato in patria, il premier ha fatto tutta la classifica delle sue proprietà. Mio il 41%, miei i voti delle europee, mio il partito, e mio anche il paese, che “non si può lasciare in mano a Corradino Mineo” (che è un po’ come sparare alle zanzare con un lanciamissili, diciamo).
Tipica sindrome del possesso: è tutto suo, ce ne sarebbe abbastanza per uno studio sul bullismo. Studio già fatto, peraltro, perché pare che il paese proceda di bulletto in bulletto. Prima quello là, il Bettino degli “intellettuali dei miei stivali”, che Renzi ha voluto rivisitare con i “professoroni”, con contorno di gufi e rosiconi (al cicca-cicca manca pochissimo, prepariamoci). Poi quell’altro, Silvio nostro, parlandone da vivo, che rombava smarmittato dicendo che “dieci milioni di voti” lo mettevano al riparo dalla giustizia. Non diversissimo dal nuovo venuto, secondo cui “dodici milioni di voti” (suoi, ça va sans dire) sono un’investitura per fare quello che vuole senza se e senza ma. Insomma, che le elezioni europee fossero un voto per la riforma del Senato era meglio dirlo prima, non dopo.
Ora, si trema all’idea di cosa, ex-post, tutti quei voti possano giustificare, dallo scudetto alla Fiorentina alla riforma della giustizia, dalla rimozione dei senatori scomodi alla renzizzazione selvaggia del partito. Come sempre quando si va di fretta, non mancano i testacoda.
IL “LO CAMBIEREMO al Senato” (il voto della Camera sulla responsabilità dei giudici), detto da uno che il Senato lo vuole abolire. Oppure il famoso lodo “Daspo e calci nel sedere” ai politici corrotti, che si è tramutato in silenzio di tomba quando il sindaco di Venezia è tornato, dopo un patteggiamento, al suo posto. Se n’è andato lui, Orsoni, e sbattendo la porta, senza nessun Daspo e nessun calcio nel sedere (pare che intenda tirarne lui qualcuno al Pd, piuttosto). Ora, forgiata una falange di fedelissimi (persino i giornali amici e compiacenti ormai li chiamano “i colonnelli”) è bene dire che nessuno si sente al sicuro. Ne sa qualcosa Luca Lotti che per zelo ebbe a dire che Or-soni non era del Pd: Renzi lo sbugiardò a stretto giro, come dire, va bene essere più realisti del re, ragazzi, ma ricordiamoci chi è il re.
Tanto, che uno sia del Pd oppure no è irrilevante: quel che conta è si è di Renzi oppure no. Perché Giggi er bullo vince sempre . Se il Pd va bene è il suo Pd. Se va male è quello vecchio e mogio di Bersani. Un po’ come il Berlusconi padrone del Milan, che si intestava le vittorie e scaricava le sconfitte sugli allenatori. Lo stile è quello.
L’avesse fatto Bersani, di levare da una commissione un senatore sgradito (magari renziano, toh) avremmo sentito gemiti e lezioncine di democrazia fino al cielo, perché anche nel “chiagni e fotti” le similitudini non mancano. E qui c’è un po’ di nemesi, a volerla dire tutta. Perché se fino a qualche tempo fa si poteva sghignazzare sulla gesta di Renzi, “Ah, l’avesse fatto Silvio”, ora siamo arrivati al punto di dire: “Ah, l’avesse fatto Pierluigi!”. Che è poi la storia di come procede a passi rapidi l’uomo solo al comando: si teorizzava qualche mese fa da parte renziana che come alleato Berlusconi fosse meglio di Grillo. Oggi si teorizza (anche coi fatti) che come socio per le riforme Berlusconi è meglio di alcuni senatori Pd, eletti per il Pd da elettori del Pd.
Quanto ai soldatini, ai pasdaran e ai guardiani della rivoluzione renziana, che sgomitano per farsi notare dal capo, devono per ora limitarsi all’arte sublime del benaltrismo. Ad ogni nota stonata del loro conducator sono costretti ad argomentare: e allora Grillo? Come se davanti a una bronchite un medico intervenisse dicendo: e la polmonite, allora? Nel merito, niente. Poveretti, come s’offrono.

La Stampa 14.6.14
Lezione cinese
di Mattia Feltri


Matteo Renzi è rientrato in Italia dalla Cina  per ributtarsi nelle riforme istituzionali. E proprio in Cina ha tratto qualche spunto. Parlando all’Assemblea nazionale del popolo, davanti al presidente Xi Jinping, Renzi ha elogiato «la vostra capacità di programmazione e realizzazione».
Grandi apprezzamenti dal comitato centrale del Partito comunista cinese. Un solo piccolo contrattempo: non si hanno più notizie dell’unico gerarca titubante sull’analisi, un certo Myn Heo.

La Stampa 14.6.14
Dai palchi di Craxi al nuovo Pd
La sindrome Torre di Babilonia che esalta le manie di grandezza
La scenografia Oggi sul palco dell’assemblea nazionale del Pd campeggerà una scenografia che rimarca il risultato ottenuto alle ultime elezioni europee
di Mattia Feltri


La grandeur può essere una percentuale: il 40,8% sarà trionfalmente esteso, sullo sfondo del palco all’Ergife, a dare la dimensione della potenza e dell’enfasi piddina ai tempi di Matteo Renzi. Il riflesso classico ci ha imposto il ricordo di Bettino Craxi e dei suoi congressi anni Ottanta affidati all’architetto Filippo Panseca, con la gradinata ottagonale e il palco montato su gradoni a specchio e incorniciati dal neon (Verona 1983), con il tempio greco (Rimini 1987), con gli stracitati maxischermi sulle facce di una piramide (Milano 1991), col fondale a restituire il Muro di Berlino appena caduto (Bari 1991). La sindrome della Torre di Babilonia, che doveva toccare il cielo a maggior gloria degli uomini, non ha ancora trovato cura: da Craxi in poi e soprattutto nella Seconda repubblica, i partiti hanno curato minuziosamente l’allestimento della vanagloria. Craxi ebbe una grandezza, ma Pierferdinando Casini autocelebrò la propria - già più discussa - con un palco immodestamente lungo sessantacinque metri (Roma 2007), con imponenti rampe laterali e un fondale di 300 metri quadrati (un attico) a suggerire che «l’alternativa c’è, costruiamola al centro» - e guardiamola nei sei schermi al plasma da 42 pollici disseminati in sala.
Siccome è sempre complicato stupire coi fatti e le idee, ci si prova con la scenografia, e da Panseca in poi è stato un lavoro per archistar. Lo studio di Vittorio Gregotti (Roma 1997) restituì il rosso al Pds - che ingegno! - dopo l’azzurrino berlusconiano di due anni prima, ma soprattutto un podio centrale e circolare, con cinque gradini a sfumare verso il bianco e il rosso per un’aspirazione patriottica; «il futuro entra in noi molto prima che accada», diceva lo slogan preso da Rainer Maria Rilke. Massimiliano Fuksas offrì la sua arte a Fausto Bertinotti (congresso di Rifondazione comunista, Rimini 2002) e ne cavò un’ambientazione minimalista con l’eccezione tel tavolo di presidenza, lungo 44 metri a testimoniare che nel luogo della riflessione politica c’è una sedia per tutti, e di due maxischermi da 250 metri quadrati l’uno. Mario Catalano studiò l’atmosfera del congresso costitutivo del Popolo della libertà (Roma 2009), e dunque un ampio palco bianco su cui fu montato un ponte con lo scopo di simboleggiare il passaggio dal vecchio al nuovo. Come in una gara di virilità, Catalano volle maxischermi imparagonabili a quelli dei concorrenti: due laterali, da quattrocento metri quadrati l’uno, su cui scorrevano le immagini - poi riproposte ferocemente a ogni evento successivo - della compiaciuta storia berlusconiana.
A sinistra si viene da qualche anno di sobrietà, o di depressione, proporzionata ai risultati elettorali. Forse l’ultimo sussulto di orgoglio estetico si era avuto al Lingotto (2007) per il lancio della leadership di Walter Veltroni, che volle uno sfondo dorato, il rosso soltanto per il kennediano «I care», il motto stampato in bianco a ricordare che «è il tempo della sinistra nuova». E in fondo il meno megalomane di tutti è stato proprio Silvio Berlusconi, forse perché di congressi non ne ha quasi fatti, giusto qualche convention per l’acclamazione, e la costante implacabile dello sfondo celeste macchiato al massimo da un paio di soffici nuvolette bianche. Uno stile quasi new age sottolineato (Milano 1998) dall’arpista svizzero Andreas Wollenveider.
Tutte manie di grandezza che non hanno portato bene ai nostri campioni recenti, e auguriamo a Renzi che gli vada meglio. In fondo nemmeno la ostentata modestia si è tramutata in un’assicurazione di sopravvivenza: nel 1997, a Milano, la Lega mise in piedi un palco che doveva sembrare una piazza e, siccome era dicembre, il Centro di Milanofiori fu tappezzato dalle foto di un Babbo Natale (il consigliere comunale milanese Guido Tronconi) che distribuiva caramelle ai bambini: argomento politico di rivedibile presa.

Repubblica 14.6.14
Riforme, l’affondo di Renzi “La sostituzione di Mineo l’ho voluta fortemente io”
Patto segreto tra Renzi e la Lega
di Francesco Bei


SE IL buongiorno si vede dal mattino, l’assemblea nazionale del Pd non sarà una passeggiata per i 14 senatori che si sono “autosospesi” dal gruppo in solidarietà a Corradino Mineo. Il segretario-premier infatti non solo ha iniziato a sommergerli di accuse, ma pare intenzionato a rivendicare di essere il “mandante” politico di quanto accaduto in commissione.
LA SOSTITUZIONE di Mario Mauro e Corradino Mineo - ammette infatti nelle conversazioni private della vigilia - le ho volute fortissimamente io. Se non l’avessimo fatto ci avrebbero consegnato nelle mani di Berlusconi».
Questo dirà dunque Renzi parlando all’Ergife, con dietro un gigantesco «40,8» a far da quinta. Un fondale scelto «non come trofeo» ma per «indicare una responsabilità ». E quale sia questa «responsabilità » sulle riforme il premier l’ha ribadito ieri sera in conferenza stampa a palazzo Chigi: «Arriva un punto in cui non c’è da mediare, c’è da decidere. Il tempo delle mediazioni è terminato nel Pd». Forte anche di quel «fracco di voti» preso alle Europee - «forse se ne sono accorti anche i dissidenti» - Renzi ha deciso la linea di dura. «Con questo mandato così forte di fare le riforme ci blocchiamo perché un senatore non vuole? Ci prendono per matti. Basta vivacchiare, fare le riforme è un dovere morale». Il comportamento di Mineo e degli altri “dissidenti” chiama in causa anche il tema dello stare insieme, delle regole di una comunità politica. Il Pd non può essere un «partito anarchico», avverte il segretario, perciò «si discute fino alla morte dentro di noi, ma poi fuori la linea è uguale per tutti. Non è immaginabile che, per un quarto d’ora di celebrità di un senatore, si blocchino le riforme di tutti». In ballo resta ovviamente il rapporto con il partner che Renzi ha scelto per le riforme: Silvio Berlusconi. Al momento il patto del Nazareno resta in piedi e non sembra esserci bisogno di un nuovo faccia a faccia. «Se ci sarà da incontrare Berlusconi volentieri lo farò, ma non mi pare sia all’ordine del giorno».
L’improvvisa cautela del premier nel rapporto con il leader forzista è dovuta anche al nuovo rapporto instaurato con il Carroccio. In gran segreto sono giorni che Renzi, attraverso il ministro Boschi, Delrio e Finocchiaro, ha aperto una trattativa parallela con la Lega. E la discussione - condotta da Roberto Calderoli per conto di Salvini - è arrivata alla stipula di un accordo. Lo conferma lo stesso Calderoli: «Se mantengono quello che hanno detto, per noi l’accordo è soddisfacente. Noi ci stiamo». Cosa prevede la “scrittura privata” tra Pd e Carroccio? Calderoli si limita a dire che l’intesa comprende sia il nuovo Senato che, soprattutto, il nuovo federalismo. «Diciamo che si abbandona la controriforma del governo - anticipa Calderoli - per tornare al Titolo V del 2001, migliorandolo nelle cose che non hanno funzionato». E se il “patto” rosso-verde taglia fuori Forza Italia, a Calderoli poca importa: «Qualcuno ci ha convocato quando è andato al Nazareno? No. E sulla legge elettorale Forza Italia ci ha coinvolto? No. Io penso ai cittadini e al paese, non mi interessa altro».
È evidente che essersi coperto le spalle con un accordo segreto con il Carroccio serve a Renzi per rafforzarsi sia verso Berlusconi che sul fronte dei ribelli Pd. Non a caso Massimo Mucchetti, uno dei 14 autosospesi, chiede di vederci chiaro: «Prima ancora dei senatori renziani, a manifestarmi preoccupazioni per l’iniziativa dell’autosospensione sono stati alcuni senatori leghisti. “Ma come”, mi hanno detto, “voi commettete questo errore proprio mentre noi stiamo raggiungendo un accordo con il Pd sul Titolo V?». Mucchetti non lo dice, ma il sospetto dell’ala sinistra del Pd è che Renzi abbia accettato di tornare a un modello iper-regionalista in cambio del voto della Lega sull’abolizione del Senato.
Questo clima di scontro nel Pd si riflette anche sugli assetti interni e torna in alto mare il nodo della presidenza del partito. I Giovani turchi hanno proposto Matteo Orfini mentre Area riformista (che fa capo a Gianni Cuperlo e Roberto Speranza) sostiene Paola De Micheli. Tra i due litiganti la palla è tornata nelle mani di Renzi che potrebbe indicare un nome di garanzia. Si parla nuovamente di Guglielmo Epifani, l’ultimo segretario pre-primarie.

La Stampa 14.6.14
Ora il premier è pronto allo scontro finale
di Federico Geremicca


Sembravano solo slogan buoni per vincere delle elezioni primarie, ma adesso che Matteo Renzi è segretario del Pd da poco più di sei mesi e presidente del Consiglio da poco meno di quattro, forse si capisce meglio cosa si nascondeva dietro l’allarme verso l’«uomo solo al comando» e l’annuncio – al contrario – che era finalmente giunta l’ora di «cambiar verso». Infatti, il conflitto che si è aperto all’interno del Partito democratico – una disputa che per la violenza che la caratterizza sembra davvero uno scontro finale – ha ormai definitivamente assunto un profilo che va molto oltre il dissenso politico o l’obiezione nel merito, per trasformarsi in qualcosa di assai diverso, e che mette in discussione non solo la natura del Pd ma – si potrebbe dire, «filosoficamente» – la questione del rapporto tra consenso e decisione.
Solo così può esser spiegata l’asprezza dello scontro in corso e perfino il frasario di cui si nutre. «Sembra di essere in un regime stalinista» (Mucchetti); «Non diventeremo un partito anarchico» (Renzi); «Non è un bene adottare il metodo delle espulsioni del M5S» (Chiti). L’oggetto del contendere quasi sparisce, e il conflitto si trasferisce su tutt’altro livello: chi assume le decisioni, in nome di quale mandato, che spazio (dignità) hanno le voci in dissenso. Il tema è del tutto nuovo per un partito «assembleare» come il Pd: ma non sfugge che altri movimenti e forze politiche di più recente costituzione (dalla Forza Italia di Berlusconi al M5S di Grillo fino alla Lega versione Bossi) avevano del tutto risolto i quesiti delegando pieni poteri ai rispettivi leader.
Se anche il Partito democratico si stia definitivamente incamminando su quella via e in quella direzione, è presto per dire: appare però evidente – per la natura stessa del Pd e per le tradizioni politiche da cui origina – che la trasformazione da partito «assembleare» a partito del leader è destinata a incontrare opposizioni e resistenze non paragonabili con quelle registrate nei movimenti prima citati. La metamorfosi – se è davvero questo il progetto di Matteo Renzi – non è però impossibile: processi analoghi sono andati avanti in altri Paesi europei (e non solo). E costituisce certamente un precedente in Italia la trasformazione che Bettino Craxi impose nella seconda metà degli Anni 70 ad un Psi perennemente rissoso e ridotto ad una somma di tribù e di correnti.
È uno scontro nel quale ognuna delle parti in causa (il leader e gli oppositori del leader) può accampare delle buone ragioni. Con un’ironia stavolta velata di rammarico, per esempio, ieri Matteo Renzi confidava: «Non pensavo che andare all’estero da presidente del Consiglio fosse così pericoloso... Del resto, non potevo immaginare che prendi il 40% alle elezioni e ti fanno la fronda appena vai fuori. Con il voto di tre settimane fa, i cittadini ci hanno lanciato un segnale forte: vogliono governo e cambiamento, ed è ciò che faremo. Non accetterò la palude: il tempo delle mediazioni è finito».
Analogamente, si può ipotizzare che né Mineo né Chiti immaginassero che opporsi ad aspetti della riforma del bicameralismo perfetto li riducesse a «sabotatori», «disfattisti» e nemici della volontà popolare. Sorte simile era toccata precedentemente (e certamente su altri temi tornerà ad accadere in futuro) a chi aveva manifestato dubbi e perplessità in materia di riforma del mercato del lavoro: il che dovrebbe rendere ancor più chiaro che la durezza dei conflitti (quello presente, quelli passati e quelli futuri) prescinde dal merito delle questioni per andare a investire il tema dei temi, e cioè la possibilità per un leader democratico di decidere in maniera solitaria, pur «mettendoci la faccia» a assumendo in pieno le proprie responsabilità.
Il resto, a dirla tutta, è contorno: e nemmeno particolarmente edificante. Il «cerchio magico fiorentino», l’infedeltà dei gruppi parlamentari, la debolezza – in alcuni casi la pochezza – dei più stretti collaboratori del leader e le accuse di «tradimento» sono armamentario tradizionale applicato ad uno scontro che, per il Pd, non ha davvero nulla di già visto e – appunto – tradizionale. È di questo che l’Assemblea nazionale dei democratici dovrebbe discutere stamane. E discutere davvero. Perché non conta solo, burocraticamente, il numero delle riunioni svolte: contano l’onestà e la densità del confronto. Che non sono sempre risolte attraverso un voto a maggioranza schiacciante.

La Stampa 14.6.14
Il partito diviso e l’eredità di Berlinguer
di Marcello Sorgi


Matteo Renzi affronta oggi la direzione del Pd cercando di costruire un assetto unitario del partito che gli consentirebbe di affrontare meglio di quanto è accaduto nell’ultima settimana - tra franchi tiratori e dissidenti espulsi e auto sospesi al Senato - le scadenze che lo attendono. Finora lo scontro tra il premier e i suoi oppositori interni è stato rappresentato come una prosecuzione della lunga battaglia che lo ha portato alla segreteria al posto di Bersani e poi a Palazzo Chigi. In sintesi, il braccio di ferro finale tra il giovane leader cattolico e post-democristiano e quel che resta degli ultimi post-comunisti. Uno schema fin troppo chiaramente semplificatorio, dal momento che gran parte degli ex-Pci sono schierati con il segretario e Renzi stesso non può essere considerato erede diretto della tradizione Dc. A una rappresentazione del genere hanno contribuito anche alcune superficialità (poi corrette dal segretario) dei renziani sulle distinzioni tra vecchio e nuovo nel Pd. Renzi avrebbe invece una carta importante da giocare, proprio recuperando alcune delle più innovative - e inascoltate - proposte fatte dal Pci nella seconda fase della segreteria berlingueriana, dopo la fine del compromesso storico e prima del corpo a corpo, negli anni della presidenza socialista, tra Craxi e il leader comunista. Le ha ricordate Emanuele Macaluso, commemorando alla Camera il leader scomparso trent’anni fa. Ai post-comunisti della commissione lavoro di Montecitorio, schierati contro la riforma del lavoro del ministro Poletti, e pronti alla resistenza al «Jobs Act», Renzi potrebbe opporre il Berlinguer che proponeva «la riforma della struttura del salario, per stabilire un legame più diretto delle retribuzioni con la professionalità e la produttività». E ai senatori contrari alla riforma del Senato potrebbe rammentare il Berlinguer favorevole al «superamento del bicameralismo», al rafforzamento «dell’efficienza e dei poteri dell’esecutivo», e al cambiamento «dei criteri di nomina negli enti pubblici per por fine alla lottizzazione». Per concludere con il Berlinguer della «questione morale». Un allarme rivolto a tutti, Pci compreso: «La questione morale s’è aperta in Italia perché gli interessi di partito sono diventati così predominanti da correre contro l’interesse generale. Questo è lo stato delle cose da cambiare, per evitare una rivolta contro tutti i partiti». Queste cose diceva Berlinguer nell’83: dieci anni prima di Tangentopoli e trenta prima di Renzi, Grillo e del gorgo che, dopo la Prima, sta inghiottendo anche la Seconda Repubblica.

La Stampa 14.6.14
Renzi ai dissidenti: “È finito il tempo delle mediazioni”
L’avviso alla minoranza interna: se ci mettiamo a cincischiare, il Pd è morto
di Fabio Martini


All’Ergife, l’albergone che ospitò i congressi dei partiti morenti della Prima Repubblica, il leader emergente della Seconda Repubblica Matteo Renzi questa mattina alle 10 indicherà ai mille quadri del suo partito la mission del «nuovo» Pd, il Pd partito della nazione, il Pd che per dirla con le parole confidate in queste ore ai pochissimi amici, «sarebbe morto, se si mettesse a cincischiare», a dividersi su questioni di lana caprina, o su inesistenti violazioni della Costituzione, come denunciano la minoranza civatiana e i 14 senatori autosospesi. Matteo Renzi lo ha detto nella fiammeggiante conferenza stampa che ha seguito il consiglio dei ministri di ieri: «Non ho preso il 40% per stare a vivacchiare. Quel risultato serve per cambiare l’Italia, non come quando si dicevano “parole parole parole” e si facevano zero riforme». Concetti espressi anche con espressioni magniloquenti: «Mentre qualcuno passa la giornata a vedere cosa fa un senatore, noi stiamo rivoluzionando l’Italia!». E ancora: «Accetto ogni discussione ma non mi rassegno che vinca la palude», «il tempo delle mediazioni è finito».
Dunque, la mission che Renzi indicherà questa mattina al Pd è quella tracciata con maggiore evidenza nel Consiglio dei ministri di ieri: un partito e un governo che rompono le vecchie gabbie della consociazione e dei “garantiti”, con un filo rosso che nelle intenzioni di Renzi unisce il dimezzamento del monte-ore sindacali, le facilitazioni per le piccole e medie imprese, le 15 mila assunzioni di giovani in una Pubblica amministrazione che prova a recuperare produttività.
E quanto alla dissidenza dei senatori Pd autosospesi, confermando la sua ipersensibilità alle critiche, il presidente del Consiglio ha letteralmente investito i 14, con una raffica mozzafiato: «Se utilizzi il tuo voto decisivo in commissione per affossare un progetto del governo, non stai esercitando la tua libertà di coscienza ma stai cercando di affossare la legge costituzionale», «se davanti agli elettori delle primarie e delle europee, non andiamo avanti con le riforme per un senatore, ci prendono per matti e ci ricoverano tutti...». Ha rivendicato la sostituzione di Corradino Mineo nella commissione Affari costituzionali con svariate argomentazioni: «Non è epurazione né espulsione ma coerenza», «la sostituzione di singoli parlamentari da commissioni dove la maggioranza ha un voto di scarto non può essere considerata come esercizio di un potere dittatoriale: se stai in commissione e non segui la linea del tuo partito, hai il dovere di farti da parte rispettando la linea».
Ma a sorpresa Renzi ha anche lanciato una sfida ai dissidenti: «Se ci sono alcuni senatori che vogliono esprimersi in libertà di coscienza facciano pure, i voti ci sono anche senza di loro». Da questo punto di vista Renzi gioca d’azzardo. Se per un caso, i 14 senatori dissidenti dovessero lasciare il Pd e collocarsi stabilmente all’opposizione, a quel punto il governo rischierebbe di ritrovarsi senza maggioranza a palazzo Madama. Rischio calcolato? I quattordici non sono una falange unita: cinque appartengono alla componente di Pippo Civati, che è intenzionato a battersi a viso aperto nella Assemblea di oggi, mentre altri sono battitori liberi (Mucchetti, Chiti, Corsini), difficilmente assimilabili in operazioni scissionistiche o in ipotetici gruppi parlamentari assieme ai fuoriusciti del Cinque Stelle.
Il «parlamentino» del Pd di oggi, oltre a registrare un dibattito politico che si preannuncia vivace, è chiamato anche a nominare il nuovo presidente dell’Assemblea, impropriamente definito il presidente del partito. Una partita resa molto complessa dalla clamorosa divisione che si è manifestata dentro la minoranza ex Ds, tra i giovani turchi di ascendenza dalemiana e l’area raccolta attorno a Pier Luigi Bersani. Nelle settimane scorse, Renzi aveva ribadito la sua offerta alla minoranza di assumere la presidenza, ma ieri i bersaniani hanno posto il veto alla candidatura a presidente di Matteo Orfini. A quel punto è riemersa la candidatura dell’ex reggente segretario Guglielmo Epifani, in questi mesi diventato organico alla corrente bersaniana e proprio per questo destinato ad essere impallinato. Della questione si è iniziato ad occupare nel corso della notte Matteo Renzi assieme a Lorenzo Guerini e sarà il segretario-presidente a risolvere la querelle.

l’Unità 14.6.14
Riforme, Renzi chiede al Pd mandato pieno
Caso Mineo e nuovo presidente al centro dell’Assemblea nazionale
Il leader vuole una votazione
Fassina: «No a prove di forza» . Zanda evoca la fine del governo Prodi
Caso Mineo e nuovo presidente al centro dell’Assemblea nazionale


Il capogruppo al Senato, Luigi Zanda, per mettere in guardia dai pericoli dell’autolesionismo, arriva a evocare il suicidio-omicidio del governo Prodi, che cadde per mano di Mastella ma che fu parecchio indebolito dalla scissione di 12 senatori dall’allora Ulivo. Un parallelismo probabilmente esagerato visto che la crisi del governo Renzi oggi non è all’ordine del giorno. Riccardo Nencini, segretario del Psi e viceministro ai lavori pubblici, esclude ripercussioni sulla tenuta dell’esecutivo che anzi, dice, è uscito rafforzato dal voto delle europee. Ma sicuramente il timore di Zanda è un elemento da non sottovalutare alla luce del tafazismo che a sinistra vanta una certa tradizione. E forse sarà anche per questo che anche dalle parti dei cosiddetti dissidenti non tutti pensano che lo strappo non potrà essere ricomposto. Ad esempio il senatore Sergio Lo Giudice, che fa parte degli autosospesi dal gruppo Pd, ci tiene a far sapere che lui comunque voterà a favore del testo del disegno di legge costituzionale che arriverà in aula e anzi si dice convinto che nessuno dei suoi colleghi dissidenti avrà voglia o intenzione di «arrivare a fare lo sgambetto in aula». Certo, determinante, sarà la riunione del gruppo del Pd al Senato che si svolgerà martedì alla presenza di Renzi e in cui tutti i senatori saranno chiamati a sostenere o respingere la decisione dell’ufficio di presidenza del gruppo di sostituire Corradino Mineo e Vannino Chiti nella commissione affari costituzionali. In quella sede verrà spiegato perché non è possibile accettare che ci sia qualcuno dei senatori dotati di potere di veto sulle riforme. E che non si tratta di una questione sensibile e quindi dove è previsto e possibile un voto di coscienza in difformità a quello del gruppo, ma di una delle riforme fondamentali per il governo e la maggioranza. Una di quelle scelte che cioè possono dare o togliere un senso all’intera legislatura.
Tutti concetti che in maniera assai più diretta oggi Renzi nella sua veste di segretario del Pd spiegherà all’assemblea nazionale convocata all’Ergife di Roma. L’appuntamento doveva avere uno scopo tra il celebrativo, subito dopo il trionfo delle europee e delle amministrative, e il burocratico: mettere il bollo sulle nomine di Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani alla vicesegreteria, e l’elezione del nuovo presidente dell’assemblea in sostituzione al dimissionario Gianni Cuperlo.
Operazioni che ovviamente verranno fatte. Per la presidenza, ad esempio, i renziani attendono che gli venga fornito il nome da votare dalle ex minoranze. Al premier piacerebbe il leader dei Giovani Turchi Matteo Orfini su cui però Area Riformista, la componente bersaniana guidata dal capogruppo alla Camera Roberto Speranza, non è convinta e infatti vorrebbe da Renzi un nome slegato «da logiche di corrente» in grado di abbattere «i recinti congressuali». Da qui il tam tam su figure istituzionali come i presidenti di Lazio e Piemonte Nicola Zingaretti e Sergio Chiamparino o sull’ex leader Cgil Gugliemo Epifani che da segretario Pd ha traghettato (senza traumi) il partito da Bersani a Renzi. Anche se poi potrebbe essere Renzi a scegliere una figura (femminile) a sorpresa. Un colpo ad effetto come quello con cui decise di mettere 5 donne capolista alle europee. Il presidente infatti sarà chiamato a rappresentare la nuova larga maggioranza nata dall’accordo per la gestione unitaria del partito. Intesa che pesa per oltre l’88% in assemblea, visto che s’è tenuta fuori solo la componente di Pippo Civati, e su cui la prossima settimana dovrebbe basarsi la nuova segreteria e anche il nuovo ufficio di presidenza del gruppo alla Camera dove comunque andranno sostituiti i tre componenti (Antonello Giacomelli, Silvia Velo e Teresa Bellanuova) entrati al governo come sottosegretari.
E però l’assemblea di stamani non sarà una formalità. Il caso Mineo e gli autosospesi hanno fatto venire alla luce infatti un problema che sia le primarie dello scorso dicembre che le elezioni del 25 maggio avevano coperto ma non risolto. Almeno completamente. E cioè il grado di corrispondenza fra la linea del Pd e quella dei suoi gruppi parlamentari. Una linea che agli elettori, ha fatto non a caso notare lo stesso Renzi, è piaciuta, «visti gli 11 milioni di voti e il 41% incassato dal partito». Ecco perché Renzi ha deciso di chiedere al parlamento del Pd la conferma di un mandato pieno e senza distinzioni a portare in fondo il processo delle riforme. Se poi questo sarà formalizzato in un apposito documento o con l’approvazione della sua relazione è solo un aspetto tecnico.
Stefano Fassina ad esempio ritiene che sarebbe una forzatura un ordine del giorno o un voto: «inutile prova di forza» la definisce. Una richiesta destinata a cadere nel vuoto perché stamani Renzi andrà dritto («come un treno» assicurano i suoi) sia sul tema delle riforme che sulla necessità che governo, partito e gruppi parlamentari remino nella stessa direzione. «Nella sua relazione Renzi parlerà anche di riforme: con la consueta pacatezza», annota Guerini. Probabilmente la stessa «pacatezza» con cui affronterà il tema degli autosospesi che per Renzi hanno volutamente drammatizzare la situazione. Il premier lo considera un attacco non tanto a se stesso o al governo quanto al Pd perché ha cercato di riproporre l’immagine di un partito immobile per le sue divisioni e quindi incapace di scegliere e di portare avanti in Parlamento le proprie decisioni: l’esatto contrario di quel partito che ha preso il 40,8%. E quella percentuale farà infatti da sfondo all’assemblea.

La Stampa 14.6.14
Riforme, i ribelli del Pd all’attacco
Ma Renzi: “Non affosseranno riforme”
Dopo le 14 autosospensioni di protesta per il caso Mineo, non si placa il caos.
Sabato all’assemblea la resa dei conti. Anche i Popolari si appellano a Grasso

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La Stampa 14.6.14
Caos Pd, le riforme spaccano il partito
di Andrea Malaguti

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Corriere 14.6.14
Partito in subbuglio. La vera offensiva è quella del leader
I 14 senatori autosospesi accusano ma Renzi chiude tutti gli spazi
di Massimo Franco

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Corriere 14.6.14
Chiti: un nuovo gruppo? Così il Pd non va
Matteo rischia, se si maschera da destra
di Monica Guerzoni


ROMA — «Sono deluso, il Pd non è quello che sognavo».
Vannino Chiti deluso dal Pd? Lei è stato presidente della Toscana, ministro delle Riforme, vicepresidente del Senato...
«E sono stato sempre leale. Sono amareggiato sul piano personale, per quanto sereno e a posto con la coscienza. Sono stato sostituito in commissione in modo preventivo, senza che Zanda mi avesse detto nulla. Non si sono fidati di me e questo mi offende».
Il Pd rischia la scissione per una questione personale?
«La scissione sarebbe sbagliata. Ma un partito non può essere l’attendente che segue un governo. Io non ho mai visto, nella storia repubblicana, una cosa così grave. È stato calpestato l’articolo 67 della Costituzione, dove è scritto che ogni parlamentare rappresenta la nazione senza vincolo di mandato».
Per Zanda l’articolo 67 non c’entra e i senatori possono essere sostituiti.
«La lettura che stanno dando, secondo cui l’assenza di vincolo di mandato vale per l’Aula e non per le commissioni, è un irresponsabile arrampicarsi sugli specchi. Invece di scherzare si leggano lo statuto del Parlamento europeo che, come la Costituzione italiana, difende la libertà di dissenso di ogni parlamentare. In commissione e in Aula».
Per questo vi siete autosospesi in 14?
«Io penso che dove i parlamentari sono meno liberi, è meno libero anche il Paese. Purtroppo devo dire che il peggiore apporto del Movimento 5 Stelle sta condizionando il Pd».
Renzi ha detto che lui non è Grillo.
«Per i Cinquestelle ogni eletto è di proprietà del partito. O fa quello che dice il capo, o viene buttato fuori. È una visione gravemente sbagliata e sta penetrando nel Pd».
Lei e Mineo non siete stati epurati, secondo Renzi.
«Un dimissionamento autoritario è una epurazione. Hanno una visione della politica solo come comando e non come confronto, nel Pd non ci si ascolta più e si fanno scattare subito i numeri».
Al Senato i numeri sono risicati e Renzi ha promesso agli italiani le riforme. Perché bloccarle?
«Io non mi sento un conservatore. La limitazione dell’articolo 67 rende le commissioni una sorta di sezione di partito, dove si attuano gli ordini di quella forza politica e questo snatura le istituzioni. Berlinguer parlava del rischio di una degenerazione dei partiti, di una occupazione partitica delle istituzioni...».
Farete anche voi ricorso?
«Sì, un ricorso può certamente essere fatto. Mario Mauro lo ha presentato al presidente del Senato. Ma prima di tutto vorrei che venisse ripristinato il punto costituzionale fondamentale dell’articolo 67. Su questo vado fino in fondo».
In fondo, fino a lasciare il gruppo?
«Sul valore della Costituzione io non posso, non posso, non posso cedere di un millimetro. Nella storia non ho mai visto un popolo libero se il Parlamento è poco libero. Perché contestiamo i Cinquestelle se poi il nostro partito controlla gli eletti? Mi piace vincere, anche a calcetto con gli amici. Ma non si può vincere tradendo i propri ideali».
È un’affermazione forte, senatore. Perché il premier, conquistando il 40,8 avrebbe tradito i propri ideali?
«Se la sinistra vince, deve farlo con i valori della sinistra e non mascherandosi da destra. Perché la destra ha metodi differenti, che non sono i nostri. Attenzione a non lasciare margini di ambiguità, perché se lo facessimo pagheremmo caro il successo di un giorno».
A quali condizioni ritirerete l’autosospensione?
«Rientra solo se ammettono l’errore sull’articolo 67. Non chiedo mea culpa, ritrattazioni o scuse, chiedo che il Pd dica che l’articolo 67 è sacro e inviolabile e che mai più accadrà quel che è successo a noi. Altrimenti la controriforma della Costituzione è già stata fatta. Mi aspettavo una levata di scudi di tutto il Parlamento, invece i miei colleghi fanno finta di non sentire, come le tre scimmiette».
E se Renzi non ci ripensa? Lascerete il Pd?
«Oggi esiste solo quel che ho detto. Io ci tengo a questo partito e mi sembra inverosimile che la forza politica fondata per diventare la casa comune della sinistra plurale attui dimissionamenti autoritari. Il governo sappia che sulla riforma costituzionale non potrà procedere a colpi di fiducia. Non è mai successo e sarebbe grave».
Niente espulsioni, ha detto Renzi.
«Mi auguro che non accada, ma se vogliono arrivare all’espulsione lo facciano. Se fosse questo, si può vincere una volta però alla lunga si perde, perché si staccherebbero pezzi di consenso. A Renzi il Pd così com’è sta bene, a me no. E lo dice uno che ha maggiori responsabilità di lui, essendo tra coloro che glielo hanno consegnato così».
Allora è vero... State progettando un nuovo gruppo?
«A nome dei 14 senatori le dico che, qualunque cosa succeda, non toglieremo la fiducia. Voteremo con il Pd, anche se dovessero buttarci fuori».

l’Unità 14.6.14
Diario di un autosospeso
Abbiamo riflettuto su come si sta distorcendo il meccanismo delle garanzie democratiche?
di Massimo Mucchetti


IL DIRETTORE MI CHIEDE DI SCRIVERE I PENSIERI DI UN AUTOSOSPESO IN ATTESA DI ASCOLTARE che cosa dirà, reduce dalla Cina e dal Kazakstan, Matteo Renzi all’assemblea del Pd. Eccomi qua.
Immagino che il premier dedicherà alla vicenda del Senato uno spazio breve, come usano i condottieri. Ben più importanti, d’altra parte, sono le misure della Bce sui tassi e sul quantitative easing, il rischio di una manovra da 20 miliardi per finanziare le deduzioni fiscali a lavoratori, partite Iva e pensionati, i rapporti con Putin sull’energia, Al Qaida alla conquista dell’Iraq, la preghiera del Papa, del patriarca e dei leader di Israele e Palestina. E tuttavia è probabile che due parole Renzi le dirà sulla questione della democrazia e della responsabilità nell’azione del partito, dei gruppi parlamentari e dei singoli deputati e senatori.
Se ben dette, anche due parole possono esprimere una leadership vera, diversa dalla riedizione alla fiorentina del celodurismo lumbard. Ascolteremo. Nel frattempo, mi chiedo se una leadership di governo possa esprimersi nella manipolazione delle posizioni altrui, con la complicità dei mass media che dipendono ormai dai sussidi erogati o negati dallo Stato (Palazzo Chigi, Dipartimento dell’editoria), dal contratto di servizio (Rai), dagli interessi di padron Silvio (Mediaset). Forse sì, mi dico: se davvero siamo entrati nell’era della postdemocrazia.
Certo è che questa manipolazione l’ho sentita già tante volte quando dallo scranno più alto si dipingono come frenatori e nemici delle riforme quanti vogliono le stesse riforme ma più forti, coerenti, trasparenti e democratiche. È un frenatore chi vuole dimezzare il numero dei deputati e ridurre a un terzo quello dei senatori, eletti assieme ai consigli regionali riducendo in proporzione il numeri dei consiglieri? Il Senato che ci prospetta il testo del governo è un dopolavoro di governatori e sindaci che tuttavia elegge, assieme alla Camera dei deputati, il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, i membri laici del Csm e i collegi delle Authority. Abbiamo riflettuto su come stiamo distorcendo il meccanismo delle garanzie democratiche? Berlusconi è d’accordo; non a caso l’attacco più velenoso agli autosospesi è venuto ieri dal Giornale. Il resto del Parlamento invece ha dubbi. Noi con chi stiamo? Con Denis Verdini, famoso per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino e per i suoi collegamenti con la massoneria toscana, che, oltre tutto, è ormai una massoneria di paese? Usiamo Verdini contro Chiti?
Quella stessa manipolazione la colgo ora nel tentativo di ridurre il problema delle riforme istituzionali e della responsabilità personale di ogni singolo parlamentare a un presunto caso Mineo, reo di non assicurare la disciplina di partito nella Commissione Affari Costituzionali e perciò rimosso. E la ritrovo nella distinzione gesuitica tra aula e commissione laddove il novello Principe concede libertà di voto al singolo parlamentare nell’aula (fino a quando?), mentre la nega in commissione. Personalizzare la polemica politica, ridurre a fantoccio l’interlocutore per aizzare i seguaci è un brutto vizio. Ed è anche un segno di debolezza, se praticato da chi sta in cima alla piramide del potere. Nel mio blog (www.massimomucchetti.it) ho scritto che equivale a sparare con il cannone contro le rondini. Uno spreco: le rondini non le colpisci, le fai solo volare via.
Come ha scritto Lucia Annunziata sull’Huffington Post, le elezioni europee hanno dato a Renzi un fortissimo consenso di carattere generale, non carta bianca su tutto. Meno che mai sulla formazione del Senato e sulla legge elettorale. Su tali questioni la discussione è aperta. In Parlamento e nel Paese. Ma nel partito non ha ormai carta bianca, mi è stato chiesto? Non sta a me dirlo. Non ho la tessera del Pd. Il partito mi chiese di lasciare il mio lavoro per fare il capolista al Senato in Lombardia garantendomi autonomia di giudizio e di azione necessarie a utilizzare al meglio la mia storia professionale. Se certe competenze non interessano più, chi di dovere lo dica. Vorrà dire che aveva ragione Ferruccio de Bortoli a considerare un errore lasciare il Corriere per prestare servizio civile in parlamento. Nessuno è indispensabile.
Diversamente, continuerò a esercitare la funzione parlamentare come prevede l’articolo 67 della Costituzione, e cioè senza vincolo di mandato. Una forma di libertà, in rappresentanza della Nazione, che la Carta non limita all’aula o alle commissioni. Perché si tratta di libertà indivisibile. D’altra parte, l’articolo 2 del regolamento del Senato, comma 5, recita: «Su questioni che riguardano i principi fondamentali della Costituzione repubblicana e le convinzioni etiche di ciascuno, i singoli senatori possono votare in modo difforme dalle deliberazioni dell’Assemblea del gruppo». Anche la norma interna del gruppo, che è la casa nella quale sono entrato il 25 febbraio 2013, non distingue tra aula e commissione. La stessa filosofia ispira il regolamento del Parlamento europeo, vedi l’articolo 2.
L’epurazione di Mauro da parte del rude Casini, di Mineo e quella preventiva di Chiti pongono un problema di democrazia. La parola epurazione disturba, lo so. Ma non facciamo i farisei e abbiamo almeno il coraggio di dire pane al pane e vino al vino. Chi scrive ha osservato la disciplina di gruppo anche quando è stata richiesta in modo surreale. Ricordate la riforma dell’Opa a ruota del caso Telecom Italia? L’intero Senato era d’accordo.
L’emendamento che l’avrebbe introdotta recava, fra le altre, le firme dei quattro vicepresidenti del Senato. Palazzo Chigi chiese che l’emendamento fosse considerato inammissibile per estraneità di materia. Avevo chiesto aiuto a Renzi, neosegretario del Pd, per convincere il già traballante Enrico Letta ad avere il coraggio di salvaguardare le capacità di investimento di una grande impresa italiana e gli interessi dei risparmiatori contro gli interessi particolari di Mediobanca, Intesa e Generali. Renzi si voltò dall’altra parte. Così come fece con il pateracchio delle quote di Banikitalia.
Me ne feci una ragione senza frapporre ostacoli nel momento in cui gli ostacoli avrebbero messo in crisi il governo e il segretario che lo appoggiava. Lo ricordo per dire che non ci sono irresponsabili. Ma sulla difesa dei valori costituzionali non possibile lasciar perdere. Non sono disposto ad accettare di essere ridotto a portavoce della direzione del partito come se fossi un parlamentare pentastellato. Per questo mi sono autosospeso. Renzi potrà anche dare della palude a chi su un punto specifico gli dice di no, ma qualcuno un giorno ricorderà il significato delle parole. La palude è fatta dai molti che agiscono per un vantaggio personale. Non da chi, scegliendo la minoranza, si esclude dalle prossime liste elettorali e dunque non teme la minaccia di elezioni anticipate, una pistola scarica anche perché Renzi dovrebbe giustificarle con la pretesa di un Senato non elettivo. Sarebbe meglio che oggi l’assemblea del Pd fosse informata delle trattative riservate in corso con la Lega che hanno per oggetto il titolo V: ritorno al federalismo, che il governo vorrebbe invece correggere, in cambio della rinuncia del Carroccio all’elezione diretta del Senato.
Alcuni amici mi avvertono che per gli italiani queste questioni sono noiose, inutili. Hanno ragione. Il Senato lo abolirebbero tutto e subito. Dico loro: ok, a me sta bene pure una repubblica presidenziale, purché il gioco sia chiaro e sia riformato il sistema delle garanzie costituzionali, a cominciare dal Quirinale. La crisi dei partiti ha prodotto una diffusa stanchezza per la democrazia. Lo so bene. Non sono un politico di professione, a differenza di taluni nuovisti che vent’anni fa erano già deputati liberali e ora scoprono il centralismo democratico. Vivo tra la gente. Ma gli eletti dal popolo hanno il dovere della pazienza e della tenacia. Un Parlamento meno libero non ci regalerà un Paese più democratico e nemmeno più efficiente.

il Fatto 14.6.14
Affari Costituzionali
Mario Mauro si appella a Grasso
I dissidenti Pd ci stanno pensando


ILLEGITTIMA e illegittimi i suoi atti, compresa evidentemente la riforma istituzionale”. Così rischia di essere la commissione Affari Costituzionali, secondo il senatore Mario Mauro. L’ex-ministro della Difesa, dopo la sua rimozione dalla commissione lo ha messo nero su bianco in una lettera inviata al presidente del Senato Piero Grasso, con la richiesta esplicita di impugnare la decisione. Nella missiva Mauro sostiene di essere stato rimosso a sua insaputa, a differenza della prassi che prevede la rimozione solo dopo l’accettazione o la richiesta del componente di commissione. Poi cita l’articolo 21 del regolamento di Palazzo Madama in cui c’è scritto che “si limita a pochi casi la possibilità di sostituire un componente di una commissione permanente” oppure se “chiamato a far parte del governo o eletto presidente della XIV commissione” e l’articolo 31 in cui si legge che è prevista la sostituzione soltanto “per un determinato disegno di legge o per una singola seduta”. Anche i dissidenti del Pd starebbero pensando di fare lo stesso e valutano di scrivere una lettera anche al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Quando ci siamo visti, ieri mattina alle 8 – spiega l’ “epurato” Mineo – qualcuno ha avanzato queste due proposte, il ricorso a Grasso e la lettera a Napolitano. Al momento non abbiamo ancora deciso se andare avanti su questa strada. Il punto, prima che di livello costituzionale, è politico”. E la parte politica della questione sarà affrontata lunedì con un incontro previsto tra i dissidenti e il capogruppo Luigi Zanda. La frattura sembra difficile da ricomporre, anche visto il tenore delle dichiarazioni di Mineo che ha definito Renzi “un ragazzino autistico che vorresti proteggere perché tante cose non le sa” e il ministro Boschi una “secchiona che si è convinta che poteva fare tutto, ma non è in grado”. Secondo il regolamento del Senato, citato nella lettera da Mauro, spetta al gruppo parlamentare le decisioni sulla rimozione di un componente di commissione per un determinato disegno di legge o singola seduta.

Corriere 14.6.14
La ramazza renziana, le ambiguità dei suoi
Le dimissioni di Orsoni e l’Ipocrisia dei Democratici
di Antonio Polito


La ramazza renziana ha spazzato via dalla sua poltrona il sindaco di Venezia. Ma il semplice fatto che Giorgio Orsoni abbia potuto anche solo pensare di restarci, dopo aver patteggiato una pena a quattro mesi di reclusione per illecito finanziamento, ci fa chiedere come ci sia arrivato su quella poltronaPer come l’ha ricostruita lui stesso, sembra la storia di un sindaco a sua insaputa. Dal punto di vista del potere reale, il vero sindaco di Venezia era infatti il Mazzacurati, patron del Consorzio Venezia nuova, una cosa a metà tra l’Azione parallela e una Cassa depositi e prestiti per politici bisognosi (il sindaco finto, con devozione, chiamava il sindaco vero, che aveva appena ottenuto 230 milioni dal Cipe, e implorava: «Non è che in quei milioni ci sia qualche spazio?»). Per quanto si dichiari un colpevole non informato dei fatti, da un punto di vista politico Orsoni ha tradito la fiducia dei veneziani: l’avevano preferito a Brunetta, e invece lui non era all’altezza.
Però il nuovo Pd renziano non può credere di poter vendere la pelle dell’Orsoni prima di aver ucciso la bestia che lo manovrava come un burattino, la macchina da soldi dei Democratici che mandava il povero finto sindaco in giro per Venezia col cappello in mano. «Le pressioni per avere soldi si sono fatte sempre più forti, quasi esclusivamente da parte di esponenti del Pd — racconta Orsoni ai magistrati per tornare libero — il segretario Mognato (all’epoca segretario provinciale), e poi attorno c’erano un po’ tutti, in particolare Zoggia (allora presidente della Provincia) e tanti altri minori della segreteria». E lo sventurato rispose: «Pur ponendomi problemi di opportunità accettai che il finanziatore fosse Mazzacurati, quindi lo sollecitai».
Dunque «Orsoni — scrivono i pm — si è prestato, non opponendosi, a una strategia di finanziamento occulto elaborata dai vertici del partito». Dunque il problema è il partito e il suo sistema di finanziamento. E invece la nota con cui Debora Serracchiani, vicesegretario nazionale del Pd, ha licenziato Orsoni, trasuda ipocrisia. Si dichiara «umanamente dispiaciuta della condizione in cui si trova Orsoni», come se fosse una malattia, un accidente, un lutto. «Ma dopo quanto è accaduto ieri abbiamo maturato la convinzione che non ci siano più le condizioni perché prosegua nel suo mandato di sindaco di Venezia».
Siccome «quanto è accaduto ieri» è che Orsoni ha confessato ciò che i vertici del partito gli hanno fatto fare nel passato, di che cosa veramente il Pd accusa Orsoni: di averlo fatto o di averlo detto? E, soprattutto, ora che succede a tutti quelli che gli hanno detto di farlo?

Repubblica 14.6.14
La pista dei fondi al Pd “Così truccavano le gare per finanziare il partito”
di Fabio Tonacci


Venezia. Lino Brentan, chi è costui? Chi è questo pensionato di 64 anni, con un passato nella Cgil e in tasca una tessera strappata del Partito Democratico, che ha appena ottenuto i domiciliari dopo l’udienza del Riesame? Non è uno qualunque, in questa storiaccia di tangenti, di contributi ai partiti leciti e non, di favori dati e ricevuti sul proscenio dell’appalto più ricco d’Europa, il Mose. «È il mazziere dei soldi», mette a verbale Piergiorgio Baita, l’ex amministratore delegato della Mantovani. È qualcosa di più, in realtà. «È il perno di un sistema - spiega un investigatore - il “sistema Pd” per il finanziamento alla politica».
Brentan ne ha fatta di strada, pur appoggiandosi al solo diploma di terza media «e tre anni - specifica ai pm - alla scuola professionale ». Un trascorso breve nella Cgil, poi tutta la trafila Pci, Pds, Ds, Pd. Nel 1976, da segretario locale del Partito comunista, è stato pure condannato, «una cosa piccola, avevamo chiesto l’autorizzazione per il palco per la festa dell’Unità, è arrivata in ritardo e i vigili…». Poi l’approdo nell’amministrazione pubblica, consigliere provinciale di Venezia prima, assessore poi. Siamo alla fine degli anni Novanta. Il suo partito lo fa sedere in decine di consigli di amministrazione, il più importante dei quali è quello nella Società delle Autostrade di Venezia e Padova. Ruolo che gli vale il titolo di Cavaliere del lavoro. Cavaliere e compagno.
IL SISTEMA
L’uomo, però, sembra essere, per così dire, facile alla mazzetta. È stato arrestato una prima volta nel 2012 per corruzione, per aver intascato 170 mila euro per un appalto. «Sono basito, non c’erano avvisaglie», commentò allora al Sole 2-4 Ore,Giampietro Marchese, vicepresidente del Consiglio Regionale, che farà la stessa fine due anni dopo. Consegnò una dichiarazione alla stampa anche Davide Zoggia, in qualità di presidente provinciale: «Non credo si possa parlare di questione morale per il Pd». Sono gli stessi soggetti che, insieme a Michele Mognato (ora deputato), hanno spinto il candidato sindaco Orsoni per ottenere finanziamenti da Giovanni Mazzacurati, burattinaio del Consorzio del Mose. «Era quasi obbligato ad accedere alle consuetudini funeste dei finanziamenti neri - scrivono i pubblici ministeri - adeguatamente rappresentategli dai tre responsabili del partito (Zoggia, Marchese e Mognato), come unico mezzo per conseguire il successo finale».
Ma torniamo al 2012. Già allora gli inquirenti cominciarono a mettere insieme un mosaico, di cui si intravedevano i contorni, ma la figura centrale non appariva. Ora le tessere sono state messe tutte insieme dai pm veneziani Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini. «C’è un “sistema Pd” in Veneto, ideato negli anni per sostenere campagne politiche e singoli candidati ». E la chiave è un complesso sistema di gare taroccate, appalti e subappalti sulle opere infrastrutturali della regione. La rappresentazione plastica di ciò che sarebbe successo col Mose si era avuta già otto anni fa.
GLI APPALTI MANOVRATI
La società Autostrade Vene- zia Padova, di cui Brentan era amministratore delegato, aveva bandito una gara da 30 milioni di euro per i lavori di riduzione dell’impatto ambientale sulla terza corsia. Partecipano diverse società, tra cui la Sacaim di Pierluigi Alessandri e una associazione temporanea composta dalla Mantovani e dalla Fip di Mauro Scaramuzza, che presenta un’offerta con un ribasso del 41 per cento. La Sacaim del 31 per cento. «Brentan - ragiona la fonte investigativa - è riuscito però a escludere per motivi formali i vincitori, convincendoli a non fare ricorso al Tar promettendo loro un subappalto della stessa cifra». In questo modo l’appalto va alla seconda classifi- cata, nonostante la commissione tecnica di Autostrade Ve-Pd avesse giudicato l’offerta della Sacaim «incongrue su tre voci di prezzo e con un anomalia di 92 mila euro». Scaramuzza, davanti ai pm, non ci gira intorno: «Brentan mi disse che la Sacaim doveva vincere perché questo permetteva a lui di predisporre… di procurare una scorta per il partito democratico dell’area veneziana, tramite quella stessa azienda». La cifra non è specificata, si parla di centinaia di migliaia di euro. L’imprenditore sarà costretto poi a consegnare a Brentan anche 65mila euro in due tranche, nel 2007 e nel 2009, gli anni in cui - non è un caso - si sono tenute le primarie del Pd e le amministrative di Venezia.
E c’è un passaggio, nell’interrogatorio di garanzia di Brentan di una settimana fa, che racconta uno dei tanti epiloghi di tutto questo vorticoso affaccendarsi del Cavaliere compagno per raccogliere soldi per il suo partito. «Venne da me Scaramuzza, mi dice: “ti vorrei dare qualcosa per…come contributo alla compagna elettorale. Prima della cena (una cena di imprenditori locali per raccogliere contributi, ndr ) mi ha portato una busta con dentro 12 mila euro, che io consegnai a Marchese». Così, una busta in mano.

il Fatto 14.6.14
Mose&mazzette, il sistema Pd
Nuovi avvisi di garanzia in arrivo per i politici veneziani. Il faccendiere rosso: “ho dato soldi al candidato”. L’investigatore: “abbiamo messo le mani sulla gestione dei Dem”
di Antonio Massari e Davide Vecchi
inviati a Venezia


Per il Pd si annunciano nuovi avvisi di garanzia: la procura è convinta di aver individuato il sistema delle mazzette destinate ai democratici del Veneto. E il primo a svelare il “sistema” - era il 20 novembre 2013 - fu l'imprenditore Mauro Scaramuzza: “L’appalto doveva essere assegnato alla società Sacaim, perché questo permetteva al dottor Brentan di predisporre... di procurare una scorta per il Partito Democratico dell’area veneziana”. “Abbiamo messo le mani sul sistema Pd”, dice ora l'investigatore, sempre più convinto che - per quanto abbia negato dinanzi a giudici - a rafforzare la pista sia stato proprio questo oscuro e antico dirigente di partito: Lino Brentan. Ex amministratore delegato di Autostrade Venezia Padova, classe 1948, Brentan viene arrestato nel blitz dell'inchiesta Mose, e, durante l'interrogatorio, si descrive come “un pensionato”. Racconta di aver studiato fino “alla terza media, più tre anni di corso a Mestre, con diploma di disegnatore meccanico”. Precedenti penali? “Nel 1976, siccome ero segretario del partito comunista, abbiamo fatto il palco per la festa dell’Unità… avevamo chiesto l’autorizzazione, è arrivata in ritardo e i Vigili… mi hanno fatto una contravvenzione”. Ora l'accusa è diversa: per la procura – e ben tre testimoni - Brentan è il “mazziere” che smista tangenti al Pd, tra il 2007 e il 2009, quando, tra gli appalti che la procura ha messo nel mirino, c'è anche la “mitigazione” della terza corsia della tangenziale Venezia–Mestre. Un “sistema”, quello adottato da Brentan, che potrebbe essere stato replicato anche in altre occasioni.
PER I LAVORI della terza corsia, si presentano tre società, ma quella che vince, la Mantovani, con un ribasso del 41 per cento, viene esclusa per motivi formali. Brentan riesce a evitare che le altre due società presentino ricorso e, in questo modo, l'appalto viene aggiudicato alla seconda classificata, la Sacaim, che aveva presentato un ribasso del 31 per cento. A quel punto Brentan comunque “promette l’esecuzione dei lavori in subappalto alla Mantovani” per di più “fissando il prezzo del subappalto”. L'imprenditore della Sacaim, Mauro Scaramuzza, dice di avergli poi versato 65mila euro e spiega che Brentan si muoveva per creare una “scorta per il Pd veneziano”. Brentan dinanzi a giudici nega ma - ed è proprio questo il punto – racconta un dettaglio inedito, che riguarda sia Gianpietro Marchese, consigliere regionale del Pd, sia l'imprenditore Scaramuzza. Brentan, infatti, nega di aver ricevuto soldi da Scaramuzza, tranne che in un'occasione: “Prima della campagna elettorale delle provinciali, è venuto da me... e mi ha detto... ti vorrei dare qualcosa … come contributo alla campagna elettorale”. Brentan racconta di aver proposto a Scaramuzza di versare la somma sul conto corrente del partito e che l'imprenditore gli ha risposto così: “Mi ha detto che non era d’accordo, e dopo qualche giorno... mi ha portato una busta con dentro 12 mila euro che ho consegnato a Marchese... li ha portati in una busta…”. Soldi dati in occasione di una cena alla quale partecipavano molti altri imprenditori. Il giudice domanda: “Marchese le ha chiesto se c’era una delibera formale?”. “No, assolutamente”, è la risposta. “Quindi – continua il giudice - sembra un finanziamento in nero...”. “Certo”, conferma Brentan. In quella campagna elettorale, per la provincia di Venezia, era candidato Davide Zoggia, fedelissimo di Pierluigi Bersani, oggi parlamentare, che Brentan non nomina mai nell'interrogatorio in questione. Ma il dettaglio non sfugge agli investigatori che, proprio nei giorni scorsi, hanno messo a verbale le dichiarazioni dell'ex sindaco Giorgio Orsoni, che ha parlato di “insistenze reiterate e pressanti del Partito Democratico, avanzate dai suoi responsabili politici e contabili, Zoggia, Marchese e Mognato”, per incassare i finanziamenti di Giovanni Mazzacurati, ormai noto come Mister Mose. E
- revocando gli arresti domiciliari a Orsoni - la Procura scrive: “Quanto alla decisione di accettare finanziamenti provenienti dal Consorzio, Orsoni l'attribuisce a reiterate e pressanti insistenze del Pd, avanzate dai suoi responsabili politici e contabili, Zoggia, Marchese e Mognato...”. Dopo la chiamata in correità di Zoggia e Michele Mognato – e con il contorno delle dichiarazioni di Brentan – i tre pm titolari dell'inchiesta – Stefano Ancilotto, Stefano Buccini e Paola Tonini – stanno valutando se iscrivere i due parlamentari nel registro degli indagati. I tre pm sono infatti sempre più convinti di trovarsi di fronte a un vero e proprio “sistema” del Pd. Pio Savioli, che smistava bustarelle per conto di Giovanni Mazzacurati, racconta che per il Pd, il soldi – che transitavano attraverso il consorzio “rosso” Coveco – venivano dati “in bianco, tramite regolare fattura”. Ma il racconto dell'imprenditore Scaramuzza e il ruolo di Brentan delineano un ulteriore sistema : “I soldi a Brentan – dice Scaramuzza - li ho consegnati sempre io. Venivano consegnati nell’ufficio che aveva in Autostrada. Ricordo che, nel trasferimento dalla borsa al dottor Brentan, il dottor Brentan li posizionava in una cassettiera, che aveva alla sua destra in ufficio. Quindi questo è un dettaglio che ricordo, le date forse posso sbagliarmi, ma il dettaglio della cassettiera è un dettaglio che ricordo”. E aggiunge: “Verso la fine dell’appalto... il dottor Brentan , visti i rapporti che avevamo, mi manifestò tutta la sua, diciamo così, amarezza per la mancata riconoscenza che il partito dimostrò nei suoi confronti dopo che lui gli aveva procurato questo finanziamento. Lì, alla fine dell’appalto, fu estremamente esplicito, nel senso proprio mi disse chiaramente che lui si lamentava perché il partito non gli aveva.. non gli era stato grato di questo finanziamento che lui gli aveva procurato...”.

Corriere 14.6.14
I verbali
«Ci servono amici». Sfida tra coop sui lavori
di Giusi Fasano e Andrea Pasqualetto


VENEZIA — Venti aprile del 2012, le nove meno un quarto del mattino. Nell’ufficio di Franco Morbiolo, presidente del consiglio d’amministrazione del Coveco (che riunisce le cooperative rosse legate al Consorzio Venezia Nuova), c’è Giampietro Marchese, all’epoca presidente di Rinascita, la fondazione che gestisce il patrimonio provinciale del Pd, ed ex vicepresidente del Consiglio regionale. Le cimici della Guardia di Finanza registrano. E ieri quella conversazione è stata depositata al Tribunale del Riesame. Dalle centomila e più carte della Procura i magistrati l’hanno ripescata per sostenere la loro ipotesi d’accusa: finanziamento illecito.
«Come sta andando questa baracca... male?» esordisce Marchese quella mattina. «Beh — sospira Morbiolo — siamo sotto all’acquisito rispetto all’anno scorso (...) l’anno scorso eravamo sui novanta milioni, quest’anno siamo sui cinquanta...».
La conversazione decolla subito verso il lamento: i lavori grossi che non arrivano al Coveco, il Pd nazionale che non lo considera, le cooperative emiliane che si accaparrano il meglio...
La fame è tanta
«La fame è tanta in questo momento in giro», dice Morbiolo. Che aggiunge: «Il nostro vecchio, Mazzacurati, ha fatto una roba da galera in questi giorni. Ma io non sono stato al gioco ed è venuto fuori un pandemonio... Vabbe’... Se non vengono fuori cose nuove... il mercato è complesso...». Non è chiaro, né viene specificato da chi trascrive la chiacchierata, quale sia la «roba da galera» fatta dall’ex re del Mose Giovanni Mazzacurati. Mentre in un passaggio successivo sono gli stessi inquirenti a «tradurre» la conversazione fra i due intercettati: «Morbiolo — scrivono — si lamenta che le cooperative sono ferme a dieci anni indietro rispetto al mercato. Parla dei problemi della CCC (il potente consorzio delle cooperative rosse emiliane, ndr ) e del suo presidente Piero Collina, indagato per la partita dei treni ad alta velocità. Si lamenta del fatto che la CCC ricatta le cooperative emiliane alle quali impone di non lavorare con il Coveco».
«Sembra che ci sia solo il CCC», se la prende il presidente del Coveco. E Marchese gli dà corda: «Adesso faccio partire una lettera... alle cooperative, ai consorzi...».
La disfida dei consorzi
Insomma: è la guerra delle coop rosse per accaparrarsi appalti importanti in un periodo di piena crisi economica. Emiliani contro veneti. Con Morbiolo che fa il quadro della situazione e Marchese che riesce a malapena a replicare qualcosa. Per quasi tutta la conversazione è il capo della Coveco ad argomentare: quelli dell’Emilia si prendono tutto e agli altri solo le briciole. Nonostante siano poco professionali e molto spendaccioni secondo la visione di Morbiolo. «Oggi — dice — la CCC ha una marea di gente dentro, un costo del personale oltre i 15 milioni di euro l’anno...». E ancora: «Commercialmente parlando — precisa Morbiolo — in Friuli non conta più un c... (la CCC, ndr ). Chiama attraverso Roma e hanno gli uomini che fanno solo politica... noi invece abbiamo professionalità sennò non terremmo botta, tanto per essere chiari. In Lombardia sono in difficoltà, in Piemonte sono in difficoltà (...) sono scoperti in maniera incredibile...».
L’archivio del Pci
Il presidente del Coveco suggerisce la strada giusta per uscire dallo stallo. Dice a Marchese: «Qui da noi (...) abbiamo bisogno degli amici. Cos’è che ci manca? (...) Qua bisogna che decidiamo (...) o abbiamo un rapporto con il Pd.... a livello nazionale (...) o siamo costretti a trattare col CCC, ma è la soluzione peggiore». C’è da far capire al Pd che serve essere «considerati in qualche maniera rispetto a quello che sono le opportunità», è la sintesi di Morbiolo. «Qualcosa anche a noi, no?». L’intercettazione finisce con Marchese che si preoccupa di reperire 100 mila euro. «Il patrimonio — spiega — il partito, si è trasformato in fondazione, adesso noi abbiamo fatto una scuola di politica... un progetto d’archivio... recupero dell’archivio del Pci di Venezia, per questo domandiamo un contributo».
La giornata al riesame
eri è stato il giorno della scarcerazione sia per Morbiolo sia per Marchese: i giudici del Riesame hanno deciso di mandare ai domiciliari tutti e due dopo un’udienza fiume durante la quale si è discusso anche dell’ultimo interrogatorio (pochi giorni fa) di Lino Brentan, uomo storico del Pci-Pds-Pd ed ex ad dell’autostrada Venezia-Padova, già condannato in primo grado a quattro anni per concussione e corruzione e adesso coinvolto nell’inchiesta sul Mose. Viene da lui il racconto di un finanziamento di 12 mila euro «consegnati a Marchese durante una cena» nel 2009 come sostegno per la sua campagna elettorale. Una faccenda che non è penalmente rilevante (per le lezioni provinciali non c’è obbligo di rendicontazione) ma che i tre pm dell’inchiesta — Stefano Ancilotto, Stefano Buccini e Paola Tonini — ritengono dica molto sulle modalità dei finanziamenti al Pd. Brentan racconta che a dargli «i soldi in nero» da consegnare sarebbe stato l’imprenditore Scaramuzza, a capo della Fip (società del gruppo Mantovani, il colosso del Consorzio Venezia Nuova).

Corriere 14.6.14
Zoggia, l’ex astro nascente finito in disgrazia per i fondi al sindaco
di M. Ima.


VENEZIA — E poi non ne rimase nessuno, o quasi. Giorgio Orsoni non basta. «La grandissima maggioranza del Partito democratico non ha nulla a che fare con quanto sta emergendo purtroppo ogni giorno dall’indagine sul Mose». Simonetta Rubinato, parlamentare veneta e componente della direzione nazionale del Pd, renziana di nuovo conio, aziona la ghigliottina. «Non possiamo aspettare che sia la segreteria nazionale ad intervenire. Deve farlo quella regionale, invitando tutti coloro che in qualche modo sono coinvolti direttamente o indirettamente con questo “sistema opaco” a fare un passo indietro. Dobbiamo dimostrare che il Pd ma anche il Veneto, la cui immagine è stata duramente colpita a livello nazionale, sono in grado di reagire». La campana sta suonando per Davide Zoggia. Al deputato che in un tempo non lontano fu astro nascente del Pd targato Bersani stanno fischiando le orecchie. Chiamato in causa, il segretario regionale conferma che la lista dei candidati all’epurazione è capeggiata dall’ex responsabile organizzativo del partito. «Lui, e non solo lui», assicura minaccioso un Roger De Menech in versione Robespierre. I giorni felici di Zoggia sembrano lontani. L’ex sindaco di Venezia lo cita nell’elenco dei consiglieri del Pd che lo hanno spinto tra le braccia dell’ingegner Mazzacurati, il grande corruttore. Il suo nome spunta, per altro in nutrita compagnia, anche nel brogliaccio che riporta i beneficiati delle elargizioni ufficiali fatte dalla Coveco, una delle aziende del Consorzio Venezia Nuova. «Smentisco categoricamente di aver preso parte a riunioni o incontri nel corso dei quali si sia anche solo ipotizzato di ricevere finanziamenti di natura illecita », ha fatto sapere lui. «Ho seguito la campagna elettorale di Orsoni in maniera non continuativa e il mio ruolo era di natura politica, non mi sono mai occupato di soldi». Cosa vuoi che sia una smentita, nel clima da Termidoro che si respira nel Partito democratico veneto, segnato anche da discrete guerre per bande. Ieri ad esempio il capogruppo del Pd al Comune di Venezia, Claudio Borghello, ammetteva che nella decisione di sfiduciare il sindaco ha avuto un peso determinante la sua chiamata a correo di Zoggia. «Una tesi non credibile», ha detto. Vallo a spiegare agli assatanati democratici veneti, che in questi giorni si sono scoperti giacobini come pochi, soprattutto per garantirsi una sopravvivenza politica. Zoggia è un bersaglio facile, come tutti i potenti caduti in disgrazia. Appena un anno fa, anche per via dei suoi cinquant’anni portati molto bene, l’ex sindaco di Jesolo ed ex presidente della Provincia di Venezia era l’astro nascente e mediatico del Pd di Bersani, del quale era e resta un fedelissimo. Responsabile degli enti locali, membro della segreteria nazionale, e infine deputato nella fatali elezioni politiche del 2013, che segnano l’alfa e l’omega della sua parabola. L’avvento di Guglielmo Epifani risulta indolore e porta con sé il premio della nomina a responsabile nazionale dell’organizzazione politica del Pd, ma si tratta di una breve stagione. Arriva Matteo Renzi. E tutto finisce. Gli resta qualche incarico sparso, come quello di membro della Giunta per le autorizzazioni a procedere, che a breve dovrà decidere proprio sulla richiesta di arresto per Giancarlo Galan. Un verdetto che non riserverà sorprese. Come la sorte di Zoggia.

il Fatto 14.6.14
Pisa, gli amici del premier regalano l’aeroporto all’argentino indagato
Anche Vegas (Consob) nella partita
La regione svende le azioni nascondendo il rischio di una penale
di Giorgio Meletti e Alessio Schiesari


Prima il tribunale di Firenze, poi la Consob e infine il Tar. Il governatore della Toscana Enrico Rossi esibisce tre pronunciamenti favorevoli e annuncia l’uscita della Regione del patto di sindacato tra enti pubblici che controlla l’aeroporto di Pisa con oltre il 50 per cento delle azioni. Consegnerà un decisivo 12 per cento della società di gestione quotata in Borsa, la Sat, alla Corporacion America del magnate argentino Eduardo Eurnekian, che sulla Sat ha lanciato un’offerta pubblica di acquisto (Opa).
LA MOSSA del governatore – per anni rivale di Matteo Renzi sulle scene granducali – spiana la strada a un disegno caro al cerchio magico del premier: fondere l’aeroporto di Pisa con quello fiorentino di Peretola (già consegnato a Eurnekian) e dare finalmente a Firenze quel grande aeroporto internazionale (pagato dallo Stato) che la nuova capitale d’Italia sogna da anni. Lo squilibrio delle forze in campo è chiaro. Da una parte il governatore, il sindaco di Firenze Dario Nardella, il presidente dell’aeroporto di Firenze Marco Carrai e Riccardo Nencini, sottosegretario alle Infrastrutture e segretario fiorentino del partito socialista. Tutti schieratissimi con il plenipotenziario in Italia di Eurnekian, il fiorentino Roberto Naldi. Eurnekian vanta anche l’amicizia con Vito Riggio, presidente dell’Enac, e con Giuseppe Bonomi, consulente per gli aeroporti del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Tutti uniti contro l’unico vero oppositore, il sindaco di Pisa Marco Filippeschi, che si batte a colpi di carta da bollo contro una privatizzazione assurda: mai discussa, mai decisa, si è dispiegata come utile e indifferibile solo di fronte all’offerta argentina, alla quale la mano pubblica può solo dire sì o no, senza porre alcuna condizione.
Ma sull’operazione rimane una pesante incognita giudiziaria. Secondo la legge, la regione Toscana, rompendo il patto di sindacato per aderire all’Opa, rischia di pagare agli altri enti azionisti una penale doppia del ricavo ottenuto. Rossi, che affida all’operazione le residue speranze di ottenere da Renzi la ricandidatura nel 2015, per scongiurare la contestazione del danno erariale ha chiesto un via libera alla Consob, sapendo di avere un alleato sicuro nel presidente Giuseppe Vegas, un altro che vede la poltrona traballare – a causa dell’inchiesta sull’affare Unipol-Sai – ed è alla ricerca di benemerenze renziane. Ma sulla sua strada si sono messi i tecnici della Consob, che si sono rifiutati di firmare tesi compiacenti per stilare un parere gelido: se Rossi dovrà o no pagare la penale lo deve dire il giudice civile, la materia non è di nostra competenza.
Ma una via d’uscita è stata trovata. Il testo è stato trasmesso alla Regione molte ore prima della pubblicazione, consentendo a Rossi di annunciare un “parere positivo”, prima che altri potessero leggerlo. Un falso, sostiene il presidente dell’Adusbef Elio Lannutti, che ha già presentato un esposto alla procura della Repubblica: “Il presidente Rossi, se non vuole essere chiamato a rispondere di tasca propria dei 35 milioni di euro a titolo di danno erariale dovrà trovare un altro modo per accedere a buon diritto nel ristretto club degli Amici di Matteo.” Intanto però il ritardo nella pubblicazione ha dato modo alla giunta regionale di deliberare la vendita, anche se con una clausola preoccupante: “Pur non potendo escludere in modo categorico una diversa evoluzione del contenzioso”.
IL CLIMA DI FUOCO è reso da una dichiarazione di Nardella contro Filippeschi: “La politica la smetta di mettere i bastoni tra le ruote alle imprese che vogliono investire sul nostro territorio”. Sembra non fare velo al sindaco di Firenze il fatto che il curriculum di Eurnekian come investitore prezioso per la Toscana offra il fianco a qualche dubbio.
Eurnekian e Naldi sono già sotto processo per la bancarotta della compagnia aerea Volare. Le ipotesi dell’accusa vedono Eurnekian comprare delle azioni di Volare dal fondatore Gino Zoccai, che per sdebitarsi fa comprare da Volare una compagnia uruguaiana di Eurnekian. la Bixesarri. “Peccato soltanto che ormai Bixesarri avesse soltanto un aereo e per di più sotto sequestro perché utilizzato per il traffico della droga”, scrissero gli inquirenti.
L’ultima ombra sulla sua Aeropuertos Argentina 2000 arriva dal procuratore federale di Buenos Aires, Eduardo Taiano. La settimana scorsa ha aperto un fascicolo bomba che vede tra gli indagati, oltre a Eurnekian, il ministro dell’Economia, Axel Kicillof, e il presidente della compagnia di bandiera Aerolíneas Argentina, Mariano Recalde. Secondo l’accusa, Aa2000 non avrebbe realizzato le opere di messa in sicurezza dell’aeroporto Jorge Newbury previste dalla concessione. Un’indagine parallela riguarda Gustavo Lipovich, passato dai consigli di amministrazione di Aa2000 e Aerolinas Argentinas alla presidenza dell’Orsna, l’organismo di controllo del sistema aeroportuale: il controllato diventato controllore.
EURNEKIAN è abituato agli scenari dove Stato e imprese sono una cosa sola, come piace a Nardella. Non a caso da tempo in Argentina si parla di ri-nazionalizzare gli aeroporti. La stampa locale ha attribuito agli altalenanti rapporti di Eurnekian con la “presidenta” Cristina Kirchner la nomina alla presidenza di Aa2000 di Rafael Bielsa, fino al giorno prima capo dell’organizzazione per la lotta al narcotraffico, ma in passato già al servizio di Eurnekian.

Repubblica 14.6.14
Gli ex Ds sfrattano i circoli del Pd uno su tre non paga l’affitto
di Giovanna Casadio


ROMA. Con 10 milioni di buco nel bilancio 2013, il flop già previsto del 2 per mille ai partiti che nella direzione dem di venerdì il tesoriere Francesco Bonifazi ha ammesso - sulla testa del Pd arriva la tegola dello sfratto ai circoli. Non è solo l’ennesima botta, in tempi di vacche magre. È la vecchia ferita politica che si riapre. A sfrattare i circoli morosi sono infatti le Fondazioni dei Ds, cassaforte del patrimonio che fu dei comunisti, proprietarie degli immobili.
Il compagno Ugo Sposetti, alla guida dell’Associazione Berlinguer che le raccoglie, non vuole sentire parlare del vecchio e del nuovo: «Ma quando mai!». E diffida chiunque pensi che sfrattare i circoli del Pd morosi dai locali di proprietà delle Fondazioni Ds sia uno sgambetto politico al PdR, il Pd di Renzi.
Mille e ottocento sono i circoli dem ospitati negli immobili delle Fondazioni diessine di tutt’Italia. E almeno 500 sono sotto sfratto. O lo saranno. Non pagano e hanno accumulato un bel po’ di debiti. Ora le Fondazioni passano all’incasso. Una ripicca? «Se non pretendessimo il pagamento degli affitti saremmo accusati di finanziamento illecito al partito», replica Sposetti. E va da sé, che lui, il tesoriere dei Ds - cioè degli eredi del Pci scomparsi politicamente, ma vivi e vegeti patrimonialmente - non finanzierà, illecitamente o meno, il PdR. D’altra parte quando avvenne il matrimonio Ds-Margherita, il compagno Ugo valutò con D’Alema e Bersani che sarebbe stato un matrimonio in separazione di beni. Da qui le 57 Fondazioni con i loro 2.400 immobili.
A Napoli, quartiere Stella, 12 mila euro di morosità: sfrattati. A Ercolano i debiti ammonterebbero a 20 mila euro, e lo sfratto è dietro alla porta. A Pomigliano l’arretrato di affitto è di un anno: neppure tanto male. Sposetti stesso, che è presidente della Fondazione napoletana “Gerardo Chiaromonte” racconta di quei dem che non hanno pagato il condominio, hanno avuto l’ingiunzione e alla fine l’immobile è stato messo all’asta. Franco Cazzaniga, responsabile della Fondazione milanese “Elio Quercioli”, sta cercando di attutire il colpo: evitare traumi e polemiche. Quindi ha concordato con dieci circoli - da Cologno monzese a quello cittadino di Porta Genova - un percorso di rientro con dilazioni di pagamento: «Ci sono situazioni di sofferenza e certo c’è una certa tensione». Su 72 circoli ospitati, quaranta sono in difficoltà. E con Imu, Tasi eccetera - spiega Cazzaniga - non si può sgarrare. Quindi lui ha adottato il metodo di chiamare a rapporto dopo tre mesi i morosi: le ultime lettere di sollecito partite qualche settimane fa sono venti. Ma dalle parti di Monte Brianza si è dovuto vendere. Cazzaniga si è inventato anche il circolo doubleface: attività politica e poi un locale affittato a un privato. Così le cose si tengono in bilico.
Un paio di mesi fa le Fondazioni hanno stabilito insieme un tariffario degli affitti: oscilla dai 20 ai 26 euro a metro quadro all’anno. Prezzo politico, però niente morosi. A Genova Ubaldo Benvenuti ironizza: «I compagni credono che ci sia l’Oro di Mosca». La strategia è quella di non esasperare le situazioni ma il circolo “Centro storico” deve darsi una mossa. Caotica a Roma la situazione. Carlo Cotticelli, buon emulo di Sposetti, preferisce valorizzare le cose che funzionano. Ad esempio la Casa del popolo di Ostia che fa un sacco di iniziative e non ha problemi finanziari. È allora Roberto Morassut, deputato romano, a vuotare il sacco: «A Roma c’è un disordine totale, le iscrizioni sono talvolta opache e molti circoli non sono finanziariamente liberi ».
Anche se i circoli emiliani e romagnoli sono sempre meglio messi degli altri, Mauro Roda, a capo della Fondazione 2000, invita a comportarsi come «il buon padre di famiglia». E mette le mani avanti («io sono del Pd, eh»). Ma sulla sede del Pd di Bologna in via Rivani si trascinano le polemiche: costa 100 mila euro all’anno tra tasse e costi di gestione e per Roda sono troppi. Sandra Zampa, portavoce di Prodi, deputata dem, dice che loro militanti avevano chiesto uno sconto d’affitto. Niente. «Bisognerebbe finirla. Al Pd dovevano andare onori e oneri da Ds e Margherita».

La Stampa 14.6.14
Garanzia Giovani, l’Ue bacchetta l’Italia
Via libera ai fondi, ma Bruxelles chiede al governo di risolvere in fretta cinque problemi sul lavoro
di Marco Zatterin

qui

l’Unità 14.6.14
Ex Cinquestelle e Sel Prove di intesa a sinistra
I 12 espulsi grillini pronti a un nuovo gruppo al Senato
Contatti con vendoliani e civatiani
Oggi Vendola tenta di ricucire la spaccatura dentro il partito


C’è grande fermento a sinistra del Pd. E per sinistra intendiamo l’area che comprende sia Sel che i fuoriusciti dal Movimento 5 Stelle, i senatori espulsi nel corso dell’ultimo anno che la settimana prossima, dopo molte fatiche, daranno vita al nuovo gruppo a palazzo Madama. Un gruppo che avrà inizialmente 12 iscritti, ma che punta da subito ad allargarsi. E a diventare il braccio parlamentare di un nuovo movimento di ex grillini (ci sono anche Valentino Tavolazzi e Giovanni Favia) che domenica scorsa a Roma ha tenuto la sua prima assemblea, ospite Antonio Ingroia. E che potrebbe presto trovare in Pizzarotti il leader.
A sentire fonti del Senato, altri 5 del M5S potrebbero unirsi, e fin dall’inizio gli ex grillini (il nome più probabile «Democrazia attiva», per il capogruppo sono in ballottaggio Adele Gambaro e Lusi Orellana) puntano a una forte collaborazione con i 7 senatori di Sel, che invece restano nel Misto. «Tra noi e gli ex M5s è in corso una discussione politica, e c’è anche una sintonia, visto che molti di loro vengono da esperienze di sinistra», spiega Peppe De Cristofaro di Sel. «Io vorrei costruire qualcosa insieme, e anche con un pezzo della sinistra Pd, ma è prematuro parlare di scenari organizzativi. Per ora siamo fermi a un forte interesse a una collaborazione ». Difficile per ora capire cosa succederà nel Pd: dei 14 senatori autosospesi, la grande maggioranza resterà nel Pd anche nel caso, probabile, in cui non si trovi una mediazione sulla riforma del Senato. Ma Mineo e un altro paio di senatori, alla fine potrebbero uscire. Destinazione gruppo Misto. Anche per loro, a quel punto, si aprirebbe lo scenario di una collaborazione con Sel e ex M5s, ma senza una confluenza.
Per Sel oggi è una giornata decisiva. Dopo le dure discussioni interne e lo schiaffo di Barbara Spinelli (che è rimasta all’Europarlamento e ha scelto di escludere l’unico eletto di Sel, Marco Furfaro), nel partito di Vendola tira una brutta aria. Oggi l’assemblea sarà a chiamata a decidere il futuro del partito e a scongiurare una scissione. Vendola, durante la riunione della segreteria giovedì, ha deciso di puntare sul rilancio di Sel e sulla sua autonomia, lasciando in freezer una eventuale costituente di sinistra con i partner della lista Tsipras ed escludendo anche una fusione col Pd, proposta dall’ala del capogruppo Gennaro Migliore. Una linea che punta a ricostruire il partito, con una grossa conferenza programmatica in autunno. È possibile dunque che questa proposta, già esaminata dalla segreteria, trovi il consenso dell’assemblea, senza arrivare ad una conta su documenti contrapposti. Ma non è scontato. Anche perché sulle scelte future le tesi restano distanti. Nicola Fratoianni e Giorgio Airaudo restano convinti della necessità di costruire «uno spazio politico plurale e unitario» alla sinistra del Pd, e non lesinano dure critiche alle politiche del governo, compreso il decreto sugli 80 euro. Fratoianni vede nel caso Mineo una fotografia del Pd a trazione renziana. «Altro che “campo largo e democratico”, il governo e il Pd tendono a rinchiudersi nel recinto delle piccole intese».
Sull’altro fronte Titti Di Salvo, vicecapogruppo alla Camera, insiste per ripartire «dalla cultura politica di una sinistra di governo, utile al Paese e non testimoniale». «La lista Tsipras è stata solo un cartello elettorale, così ha stabilito il nostro congresso. Dobbiamo rispondere a una domanda: “Quale ruolo deve avere Sel in questa fase politica?”. Per me non può essere quello di costruire una sinistra alternativa al centrosinistra. Il decreto sugli 80 euro a mio parere è l’inizio di una politica redistributiva che non ci può vedere contrari. Dall’assemblea non possiamo uscire senza una decisione o con una mediazione politicista. Il tema è troppo serio...».
Per Vendola non sarà facile tenere insieme queste due anime. E il rischio è che, se una delle componenti dovesse presentare un proprio documento, si arrivi almeno a tre testi differenti. Con in mezzo la linea “ricostruire Sel” a cui lavorano i pontieri guidati da Peppe De Cristofaro, Artuto Scotto e Celeste Costantino. Vendola sembra aver fatto propria questa linea di mediazione. Ma non è detto che accontenterà tutti. «L’autonomia di Sel è fondamentale, ma bisogna passare dagli slogan ai fatti concreti», avverte Di Salvo.

Repubblica 14.6.14
La doppia anima dei cinquestelle
di Piero Ignazi



IL M 5 STELLE è come la Gallia di Giulio Cesare: divisa in partes tres: il suo elettorato, la sua embrionale classe dirigente di militanti locali e di eletti, e la sua leadership. Tutte e tre queste parti hanno caratteristiche, visioni e strategie contrastanti. Ed ora, con la scelta europea, le differenze vengono in superficie.
Fin qui Beppe Grillo e il suo movimento hanno veleggiato sull’onda del successo, senza troppi sforzi: la strada è stata spianata dagli errori, dalle inconcludenze e dalle malefatte degli altri partiti. Oggi il quadro è cambiato. Se torniamo all’origine dell’avanzata grillina, alle regionali del 2010, allora il M5S pescava nell’insoddisfazione di un elettorato di sinistra che non ne poteva più di un partito anchilosato, velleitario e incapace di mettere all’angolo un avversario screditato come Silvio Berlusconi. Non per nulla gli iniziali successi elettorali del M5S si sono registrati in Emilia Romagna, terra rossa per eccellenza, tra persone con alto livello di istruzione, attente alla politica e spesso coinvolte in prima persona in associazioni e movimenti. In questa fase iniziale i meet up( anglicismo un po’
snobistico per indicare gruppo organizzato) e gli iscritti, hanno una chiara connotazione ecologista-alternativa, dove la critica alla partitocrazia e alla classe politica si declina soprattutto in critica alla sinistra per le sue deficienze. Della destra non ci si cura nemmeno perché è considerata “altra”. Questo stadio fondativo si riflette tuttora nelle attività dei meetup (1.450 in 1.167 città, con 172.134 iscritti e 61.710 simpatizzanti) che continuano a lavorare sulle questione ambientali e sulla partecipazione di base. Da questo humus originano gli attivisti e gli eletti che rappresentano quindi il lato di sinistra dei 5Stelle.
Ma ad essi ora si affiancano gli elettori, che hanno tratti diversi. Mentre fino al 2013 erano pochissimi, e quindi irrilevanti, e comunque avevano caratteristiche omologhe agli attivisti, l’incremento alle politiche dell’anno scorso ha fatto affluire anche elettori di destra: costoro hanno trovato nei 5Stelle un nuovo e più potente canale di espressione del loro malcontento anti-sistemico. Mentre in precedenza il populismo forzaleghista sollecitava in maniera più o meno latente l’animus antipolitico di questa fascia di elettori - basti ricordare le tirate di Bossi contro “quelli di Roma” o espressioni berlusconiane come “il teatrino della politica” - la crisi della destra e il montare della polemica anti-partitica a 360 gradi di Grillo li ha indirizzati verso i 5Stelle. E, come evidenziano tutte le ricerche, oggi nell’elettorato grillino le provenienze di destra e di sinistra si equivalgono quasi. Quindi la prima contraddizione latente riguarda un elettorato - che è suddiviso anch’esso in partes tres tra destra, sinistra e non identificati - e una classe dirigente prevalentemente orientata a sinistra e socializzata in ambienti e su tematiche dell’ecologismo e della partecipazione. Questa divaricazione non è ancora emersa perché è tenuta sottotraccia dalla preponderanza della leadership la quale riassume su di sé, superandole, tutte le contraddizioni. O, almeno così è stato fin qui. Vale a dire fintantoché Grillo poteva non decidere, e rimanere sul filo dell’ambiguità e della alterità a tutto e a tutti. Le elezioni europee hanno posto fine a questa comoda rendita di posizione e hanno obbligato per la prima volta ad operare delle scelte “politiche”. Stare a destra con Nigel Farage o a sinistra con i Verdi? In realtà, nel referendum tra gli iscritti pentastellati essi dovevano scegliere solo tra l’euroscettico Farage o i conservatori britannici di Cameron (ma come è anglofilo Grillo!….), mentre l’opzione di sinistra dei Verdi è stata esclusa in partenza. Questa decisione sposta l’asse del Movimento verso destra e lo pone in connessione diretta con l’elettorato più protestatario e anti- sistemico di origine forzaleghista. Uno spostamento che lascia però “scoperta” la componente dei quadri e di molti degli eletti più orientati a sinistra. La divaricazione tra le parti costituenti del triangolo pentastellato non può che portare a tensioni interne, ma forse anche all’inizio di un vero dibattito politico all’interno di quel partito. Oppure può indirizzarsi verso la capitalizzazione del suo ruolo di oppositore al governo e alle larghe intese per guidare un inedito fronte “di destra” alternativo al nuovo pivot della politica italiana, il partito democratico.

Repubblica 14.6.14
Cronaca e diffamazione
di Alessandro Pace



IL DETTO « Ne uccide più la penna della spada » è noto. Pochi sanno però che costituisce una variante di un proverbio della Bibbia, nel quale è la lingua ad uccidere più della spada (Siracide, 28). Ma Benjamin Constant, sensibile agli aspetti positivi della stampa per la libertà dei moderni, sottolineava paradossalmente, in un saggio del 1814, la maggiore importanza della libertà di stampa rispetto alla stessa libertà personale, perché senza la libertà di stampa le garanzie della libertà della persona rischierebbero di venir annullate. Di qui la distinzione della libertà di critica dalla libertà di cronaca, ancorché entrambe costituiscano aspetti della libertà costituzionale di manifestazione del pensiero, e quindi i minori limiti che la libertà di critica incontra, nella illustrazione dei fatti, rispetto alla cronaca, secondo la giurisprudenza.
Invece, sulla gravità dei pregiudizi che l’esercizio scorretto della libertà di cronaca può arrecare all’onore delle persone, con effetti irrimediabili sulla vita di relazione, sembrerebbero non aver sufficientemente meditato gli autorevoli rappresentanti dell’Ocse, del Consiglio d’Europa e dell’Onu che, in una lettera pubblicata sul Corriere della sera l’8 giugno, hanno tra l’altro denunciato che il progetto di legge in materia di stampa, attualmente in discussione dinanzi al Senato, non depenalizzerebbe completamente la diffamazione.
Ma la totale depenalizzazione dei reati di stampa non si rinviene né nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) né nella giurisprudenza della Corte Edu, la quale da un lato riconosce la legittimità delle “multe” (che sono “pene pecuniarie”, diverse e più gravi delle “contravvenzioni” amministrative), dall’altro riconosce la legittimità delle stesse pene detentive nel caso dell’incitazione all’odio e alla violenza. Del resto, che la Corte Edu non neghi aprioristicamente la legittimità delle pene detentive, anche con specifico riferimento alla diffamazione a mezzo stampa, è comprovato dal recente caso Belpietro v. Italia ( 2013).
In tale sentenza la Corte Edu, nonostante abbia ritenuto che la condanna a quattro mesi di detenzione non violi di per sé l’art. 10 della Cedu (che proclama la libertà di espressione), ha ciò non di meno accolto il ricorso di Belpietro in quanto il reato per il quale era stato condannato non era la diffamazione a mezzo stampa (per il quale la condanna sarebbe stata congrua), bensì l’omesso controllo come direttore responsabile del quotidiano.
La libertà di espressione non è quindi un “assoluto”. Dopo l’atroce esperienza del nazismo, è invece la dignità della persona - e quindi l’onore individuale - a porsi come un assoluto, e quindi a limitare la stessa libertà di manifestazione del pensiero. Il che è scolpito nell’articolo 1 della Legge fondamentale tedesca, nell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e nell’articolo 3 della nostra Costituzione. D’altra parte il rispetto dell’altrui reputazione costituisce, nella Cedu, un esplicito limite della stessa libertà d’espressione.
Di qui il rilievo, del tutto opposto a quello degli autorevoli rappresentanti dell’Ocse, del Consiglio d’Europa e dell’Onu. Sono contrario alla generale depenalizzazione della diffamazione (che lascerebbe del tutto privo di tutela l’onore dei più deboli), ma sono favorevole, in linea di massima, alla sostituzione della multa alla pena detentiva nei reati contro l’onore. Non così con riferimento all’»offesa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato falso».
In questa ipotesi non si può dire che vi sarebbe un “bilanciamento” tra due beni costituzionalmente tutelati. A parte quanto detto in precedenza sull’assolutezza della tutela dell’onore, c’è di più nel caso dell’attribuzione di un fatto determinato falso.
Un’affermazione soggettivamente falsa non costituisce mai, per definizione, la manifestazione di un “proprio” pensiero (come prevede l’articolo 21 della nostra Costituzione), e quindi non c’è alcun valore costituzionale che si contrapponga alla tutela dell’onore. D’altra parte, la giurisprudenza della Corte europea è ferma, dal canto suo, nel ritenere che «il diritto dei giornalisti di comunicare affermazioni su questioni d’interesse generale è tutelato a condizione che essi agiscano in buona fede, in base a fatti esatti, e forniscano informazioni - affidabili e precise - nel rispetto dell’etica giornalistica ». Inoltre la pena detentiva per la diffamazione aggravata è attualmente prevista non solo in Italia ma, tra l’altro, anche in Germania, Francia e Spagna.
Infine, mentre la pena detentiva non si pone in contrasto con la Cedu, è invece la sua eliminazione che determinerebbe una vera e propria irrazionalità nel nostro ordinamento. Nel quale il reato di falso (sia personale che documentale) è sempre - dico sempre - punito con la pena detentiva; e quindi sarebbe ben strano che tale pena non fosse prevista nell’ipotesi dell’»attribuzione di un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità».

l’Unità 14.6.14
Viaggio fra i sikh «dopati» per lavorare
A Latina una delegazione di parlamentari Pd alla comunità immigrata
Fino a 10 ore nelle aziende agricole pontine: «Ci lasciano senza acqua»
Sostanze stupefacenti per sopportare la fatica
di Khalid Chaouki


A pochi chilometri dalla capitale d’Italia trentamila braccianti di origine indiana lavorano, per la maggior parte, in regime di semi schiavitù. Storie di cui pochi parlano, storie che mi hanno portato qui, stamattina, insieme ai colleghi Davide Mattiello e Pippo Civati, per vedere, capire, ascoltare.
Tra le fertili terre dell’agro pontino, tutta quella zona che gira intorno alla provincia di Latina e lambisce il litorale del Circeo, vive una numerosa comunità di indiani sikh che da anni le coltiva, rendendole famose in Italia per la mozzarella di bufala e la produzione agroalimentare.
Sono terre incredibilmente belle, enormi campi coltivati con granoturco, ortaggi, verdure o frutta; un lavoro duro e quotidiano che dipende dai braccianti agricoli, per lo più di origine indiana. Quella dell’agro pontino è la seconda comunità sikh d’Italia per dimensioni e rilievo.
Quasi un mese fa è uscito il dossier «Doparsi per lavorare come schiavi» a cura dell’Associazione In Migrazione, vi si raccontava la drammatica condizione che vivono molti uomini della comunità Sikh dell’agro pontino, che vedono scorrere tutta la propria vita nei campi, piegati per ore a raccogliere le verdure che poi arrivano nei nostri piatti. Sono un esercito silenzioso, che lavora senza pause. «Dobbiamo portarci l’acqua da casa - ci spiega Gurjeet Singh - perché il padrone che ci chiede 10 e più ore nei campi non ce la passa». Il dossier denuncia soprattutto una grave abitudine che stanno prendendo questi lavoratori che è quella di doparsi con sostanze stupefacenti e antidolorifici in grado di inibire la sensazione di fatica e stanchezza. Pratica che si rende necessaria quando si lavora per 10-12 ore piegati sui campi.
Colpisce inoltre il clima di omertà, la paura di parlare di questa gente, di denunciare lo sfruttamento inumano al quale sono sottoposti. Una comunità, quella Sikh, che per cultura, indole e religione è particolarmente docile, pacifica e dedita al lavoro. Questo li porta però spesso a subire in silenzio, a tollerare il ricorso continuo a pesanti farmaci con gravi ricadute sulla salute, sulla dignità personale, sulla identità e integrità dell’intera comunità.
Oltre a questo c’è il problema - gravissimo - della malavita organizzata legata al traffico di permessi di soggiorno, per cui queste persone sono spesso tenute «in ostaggio» dai loro padroni che, non di rado, arrivano a sottrarre loro il documento di identità.
Nel nostro viaggio tra sfruttati e sfruttatori siamo accompagnati da Marco Omizzolo, giovane attivista del luogo, tra gli autori del dossier, che da anni studia questo fenomeno e lo racconta attraverso la sua attività di giornalista e da alcuni sindacalisti della Flai Cgil che svolgono anche il ruolo di mediatori culturali, spiegano ai lavoratori indiani quali sono i loro diritti e chiedono loro di denunciare le violenze e lo sfruttamento.
E proprio Marco ci spiega che molti lavoratori non percepiscono la paga da mesi, e come sia in uso, da parte del datore di lavoro, di farsi chiamare «padrone « e pretendere che il lavoratore indiano faccia tre passi indietro e abbassi la testa quando si rivolge a lui. «Il padrone è molto muscoloso e si innervosisce se qualcuno sbaglia», spiega Gagandeep Singh. «È anche capitato che qualcuno venisse picchiato».
Non siamo nel sud est asiatico, non siamo in Sudamerica... a pochi chilometri da Roma c’è uno sfruttamento sommerso e purtroppo ben consolidato che chiede di essere raccontato. È compito della politica, della buona politica, non solo verificare e incontrare queste persone, ma fare in modo che si spezzi questa catena di omertà e di criminalità che piega e umilia i lavoratori. Come diceva un canto popolare di altri tempi «nessuno più al mondo dev’essere sfruttato».

Repubblica 14.6.14
Il Vietnam infinito
Gli errori degli Usa e i ricorsi storici così la Mezzaluna diventa jihadista
di Bernardo Valli



IN QUESTI casi è inevitabile tirare in ballo la storia. È vero che non si ripete, poiché tempi e situazioni mutano, ma capita spesso che si assomigli troppo per non evocarla.
NEI primi giorni del 1973 i soldati combattenti americani lasciano il Sud Vietnam convinti, almeno ufficialmente, che il regime resisterà, e nell’aprile 1975 il Nord Vietnam inghiotte tutto il paese, e i bodoi comunisti entrano a Saigon. Nel 2011 gli americani abbandonano l’Iraq, dichiarando che il regime è abbastanza solido per sopravvivere, e nel 2014 Bagdad è minacciata dalle forze jihadiste dello “Stato islamico in Iraq e nel Levante”. Nei suoi fallimenti la superpotenza rispetta i tempi: più o meno gli stessi mesi di intervallo passano tra il ritiro e il collasso dell’alleato al quale riteneva di avere insegnato a camminare da solo. La carica del robot ha la stessa durata. Poca. Vedremo tra poco in Afghanistan.
In Medio Oriente, come nel Sud Est asiatico quarant’anni fa, le forze armate addestrate, dotate di materiale moderno e finanziate dagli Stati Uniti si stanno rivelando inefficienti sul piano militare e deludenti nelle motivazioni indispensabili a qualsiasi esercito nazionale. A Mosul e a Tikrit, conquistate da poche migliaia di guerriglieri con le bandiere nere dell’Islam, quattro delle quattordici divisioni che compongono l’esercito iracheno hanno abbandonato i loro posti, si sono stracciate di dosso le divise, hanno gettato le armi, lasciandole all’avversario, e si sono disperse. Per creare le forze armate della Repubblica irachena nata dalle rovine della dittatura di Saddam Hussein, in seguito all’invasione americana del 2003, gli Stati Uniti hanno speso circa venticinque miliardi di dollari. E l’Iraq stesso, uno dei maggiori produttori di petrolio del mondo, ha sborsato miliardi per avere dei caccia F-16, dei carri armati M-1, degli elicotteri Apache, dei missili Hellfire. Non poco di questo materiale è adesso in mano ai guerriglieri (che non sarebbero più di cinquemila) la cui offensiva è cominciata con piccoli camion, a cassone scoperto, e con armi leggere. Con pochi mezzi dunque, ma con l’esperienza acquisita nella vicina Siria, da dove provengono in gran parte, richiamati dalla comune fede jihadista che fa di tanti fanatici volontari di diversa provenienza una brigata internazionale efficace.
Benché più numerose e più dotate di mezzi (900 mila uomini: dei quali 271 mila militari e 650 mila poliziotti, che costano più di 14 miliardi) le forze di sicurezza irachene sono indebolite, inquinate dai contrasti comunitari. Nelle divisioni, che si sono disperse più che arrese nelle regioni di Ninive, di Anbar e di Salaheddin, c’erano sunniti, sciiti e curdi, vale a dire esponenti di comunità in aperta lotta. Inoltre esse presidiavano province con una popolazione sunnita, quindi favorevole ai guerriglieri che sono sunniti integralisti. L’esodo in massa dal conglomerato urbano di Mosul non è stato motivato tanto dalla paura dei guerriglieri quanto dal timore della repressione, in particolare aerea, del governo centrale sciita in più occasioni rivelatasi spietata, in particolare nelle zone a maggioranza sunnita. L’odio per Al Maliki, il primo ministro sciita, viene anche dal suo scarso rispetto per la minoranza sunnita che ha governato a lungo il paese senza troppi riguardi per la maggioranza sciita. Adesso le antiche rivalità spesso più di origine comunitaria che religiosa, la rivalsa sciita per le umiliazioni subite e la frustrazione sunnita per il potere perduto, impediscono la convivenza. E Al Maliki non fa nulla per favorirla. Questa sua incapacità lo indebolisce.
Per ora i guerriglieri si sono mossi nelle province sunnite, su un terreno amico, comunque ostile al governo centrale. A Bagdad, dove si alterano quartieri sunniti e sciiti, la situazione sarà un po’ diversa. Anche perché i civili sciiti sono stati nel frattempo armati. Il generale John N. Bednarek, capo della sicurezza nell’ambasciata americana di Bagdad, non è tuttavia ottimista. A una commissione del Senato ha spiegato che non pochi soldati di guardia alla Zona Verde sotto la divisa indossano abiti civili. Sono così pronti a disperdersi nel caso di un attacco. E in quell’area della capitale sono barricati i ministeri, il Parlamento, quel che conta della società politica e le rappresentanze diplomatiche.
Qui si ferma il paragone. Le conseguenze del conflitto nel Sud Est asiatico stanno ormai passando dalla memoria alla storia, mentre quelle del conflitto mediorientale non sono ancora definibili. Là è infatti in corso un terremoto geopolitico che sconvolge la regione. Promuovendo l’invasione dell’Iraq, nel 2003, George W. Bush, allora alla Casa Bianca, ha tolto la trave portante che sosteneva l’impalcatura della regione. Ha dato un calcio alla storia. Ha messo a rischio il disegno che inglesi e francesi, vincitori della Prima guerra mondiale (1914-1918) avevano applicato sui resti dell’Impero ottomano. Sull’ampio territorio azzittito per secoli i diplomatici avevano creato un Medio Oriente a loro convenienza. Quei confini adesso sono minacciati, vengono modificati o rischiano addirittura di essere cancellati.
I guerriglieri dello Stato islamico in Iraq e nel Levante stanno tentando di creare un futuro stato sunnita che comprenda il Nord-Est siriano e l’Ovest e il Nord iracheni. Alcune di quelle zone hanno importanti giacimenti di petrolio, ma hanno soprattutto un’unità religiosa, o comunitaria, sunnita. Approfittando del confronto tra le due principali correnti dell’Islam, quella sciita e quella sunnita, che domina la vita mediorientale, l’ala radicale sunnita cerca di scavare uno Stato jihadista, di cui si profila già una continuità territoriale, in quella che si chiamava un tempo la Mezzaluna fertile. Uno Stato che si stende, appunto, su parte dell’Iraq e su parte della Siria. Di fatto sulle province sunnite dei due paesi. Se il progetto si concretizzasse verrebbe favorita anche l’unità del Kurdistan, i cui pezzi sono dispersi nei paesi della regione. E dove il livello delle autonomie è in continua crescita.
Invocando la lotta al terrorismo, gli americani hanno invaso undici anni fa l’Iraq portandoci i marines e attirandovi i jihadisti. È il folle risultato dell’operazione di George W. Bush. Inseguiva Al Qaeda, allora assente sulle rive del Tigri e dell’Eufrate, e ha finito col provocare, dopo una lunga guerriglia e un atroce terrorismo, l’approdo di una forma assai più intraprendente di jihadismo. Il movimento dello Stato islamico in Iraq e nel Levante, di cui l’iracheno Abu Bakr Al Baghdadi è il capo, si sta infatti rivelando assai più efficace e risoluto della vecchia Al Qaeda. In Iraq, attraverso le elezioni, l’America ha favorito l’ascesa al potere della maggioranza sciita, la quale invece di cercare una riconciliazione ha perseguitato le comunità sunnite, spingendole ad allearsi con i jihadisti di Al Baghdadi. Al tempo stesso si è creata un’intesa tra le capitali sciite: la Teheran degli ayatollah, la Bagdad del rancoroso Al Maliki e la Damasco dove prevale la setta alauita di Assad. Per Barack Obama è una situazione angosciosa. Si tratta anzitutto di aiutare (senza impegnare soldati) il governo di Bagdad suo alleato. Ma così facendo si trova a fianco di Teheran, una capitale non particolarmente amica. La quale è solidale con Bagdad, nel nome della comune religione. In quanto a Damasco, sostenuta da Bagdad e da Teheran, è sotto accusa per la repressione feroce e per l’uso facile di gas tossici. Inoltre là governa Assad, raìs detestato di cui Washington auspica la destituzione.

Corriere 14.6.14
Spariti nel nulla tre ragazzi israeliani «Sono stati rapiti»
Netanyahu: palestinesi responsabili
di Cecilia Zecchinelli


Li hanno visti l’ultima volta giovedì sera, che facevano l’autostop lungo l’arteria 60 che collega Gerusalemme alla città di Hebron nella Cisgiordania meridionale. Tre coloni ebrei adolescenti spariti in una delle zone più calde dei Territori occupati, in un momento di rinnovata tensione dopo la recente formazione del governo d’unità palestinese che Israele rifiuta per la partecipazione degli islamici di Hamas. Ai tre ragazzi di ritorno dalla loro scuola rabbinica nella colonia di Kfar Etzion era certo capitato qualcosa, hanno lanciato l’allarme a notte fonda le famiglie non vedendoli ancora arrivare, quasi di certo un rapimento. Uno di loro era riuscito a chiamare il centralino della polizia, ma dopo poche parole concitate la comunicazione era stata interrotta. Poi i cellulari avevano squillato a vuoto. E le ricerche erano scattate immediatamente: esercito, polizia, Shin Bet ovvero l’intelligence interna. Venivano messi in azione perfino i droni.
Per molte ore i media ieri non avevano diffuso la notizia del rapimento, termine che ancora ieri notte l’esercito non usava ufficialmente «per non generare inquietudini», come ha spiegato un portavoce militare alla France Presse . Ma poi i dettagli erano iniziati a trapelare, seppure a volte confusi, confermando l’ipotesi del sequestro dei tre studenti, tra i 16 e i 19 anni, di cui si conoscono i nomi propri: Yakoov, Ghilad e Eyal. La rivendicazione dell’azione arrivata in serata da parte di un gruppo salafita poco noto, Dawlat Al Islam (Stato dell’Islam), non veniva ritenuta credibile ma le autorità continuavano a cercare i responsabili nelle file palestinesi. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, riunito a Tel Aviv un consiglio d’emergenza con il ministro della Difesa Moshe Yaalon, il capo di Stato maggiore generale Benny Gantz e i responsabili dello Shin Bet, ha perfino dichiarato di «ritenere l’Autorità nazionale palestinese responsabile della sorte» dei tre coloni. Un’accusa che il capo dei servizi di sicurezza dell’Anp, il generale Adnan Dmeiri, ha definito «folle», replicando che la scomparsa dei tre adolescenti era avvenuta in una zona dei Territori sotto totale controllo militare israeliano.
Secondo le informazioni circolate, Yakoov, Ghilad e Eyal avevano lasciato la yeshiva , o scuola talmudica, della colonia vicina a Betlemme, per dirigersi a Nord verso Gerusalemme o forse, secondo altre versioni, verso Sud. Ma comunque proprio a Sud sarebbero stati portati, nell’area di Hebron, la più grande e turbolenta città palestinese in Cisgiordania, dove vive asserragliata una piccola comunità di coloni ebrei oltranzisti. Qui, e più precisamente nel quartiere di Dura, non solo sarebbero stati tracciati i segnali dei cellulari dei tre scomparsi, ma è stata trovata un’auto carbonizzata con targa israeliana mostrata anche in tv. Il sospetto è che sia stato l’automezzo usato per il rapimento. L’area è stata così chiusa ermeticamente per impedire un trasferimento dei tre in Giordania, o forse a Gaza, con rastrellamenti casa per casa e rafforzamento dei posti di blocco. Intanto, veniva informato l’ambasciatore Usa in Israele, Dan Shapira, che uno dei dispersi ha passaporto americano, come molti coloni ebrei soprattutto più giovani.
Se ufficialmente non si parla di «rapimento», è chiaro che tutti in Israele ne sono però convinti e ricordano il passato: dal più celebre caso Shalit, il soldato sequestrato da Hamas nel 2006 e liberato nel 2011, a quello del militare israeliano ucciso l’anno scorso in un villaggio della Cisgiordania da un palestinese che ne voleva scambiare il corpo con il fratello in carcere.

il manifesto 13.6.14
«In Tunisia la rivoluzione non è finita»
intervista a Lina Ben Mhenni di Valentina Porcheddu


Tunisia . La «blogger» Lina Ben Mhenni descrive la puzza dell’integralismo dopo i «gelsomini». Nel 2011 il rogo di un disoccupato innescò la cacciata di Ben Ali. Quello di una ragazza di 13 anni, oggi, cade nel silenzio generale

Il 4 gen­naio del 2011, il gio­vane disoc­cu­pato Moha­med Boua­zizi si dà fuoco davanti alla pre­fet­tura di Sidi Bou­zid, nella Tuni­sia cen­trale. Un gesto for­te­mente sim­bo­lico, che lo ren­derà «mar­tire» e resti­tuirà al popolo tuni­sino il corag­gio di uscire in strada all’urlo di la khaoufa baada al’yaoum («mai più paura»), fino a rove­sciare – dopo ven­ti­tré anni di soprusi – il regime di Zine El-Abidine Ben Ali.

Il 28 mag­gio scorso, Eya – una tre­di­cenne della peri­fe­ria di Tunisi – viene bru­ciata viva dal padre e muore dieci giorni dopo in ospe­dale. Le cir­co­stanze del delitto non sono chiare ma secondo il sito d’informazione Kapi​ta​lis​.com l’uomo si sarebbe infu­riato con­tro la figlia per averla vista pas­seg­giare con un amico all’uscita di scuola. Nono­stante l’efferatezza del cri­mine, la Tuni­sia post-rivoluzione – che con il governo di Enna­dha ha bru­sca­mente virato verso l’integralismo reli­gioso – non sem­bra accu­sare il colpo. Lina Ben Mhenni,candidata nel 2011 al Nobel per la Pace per il suo atti­vi­smo durante la «pri­ma­vera araba», prova a spie­garci le ragioni.

È la prima volta che abbiamo noti­zia di un simile omi­ci­dio in Tunisia.

Que­sto è il primo caso d’immolazione con il fuoco che coin­volge un’adolescente. Ma anche se la stampa uffi­ciale non ne parla, in certe regioni dell’interno, alcune ragazze ven­gono uccise dai fami­liari per­ché «col­pe­voli» di aver perso la ver­gi­nità prima del matrimonio.

Come spie­ghi l’assenza di rea­zioni nella società?

Ulti­ma­mente tutto suc­cede nell’indifferenza. La gente è stanca e occu­pata dai pro­pri pro­blemi, il costo della vita ogni giorno più alto, la sicu­rezza minata dai gruppi ter­ro­ri­stici che cre­scono nel paese. La cosa più grave è che nem­meno le asso­cia­zioni fem­mi­ni­ste e quella per la pro­te­zione dell’infanzia, così come i par­titi poli­tici, si sono pro­nun­ciate al riguardo. Per il pros­simo 19 giu­gno, io e altri rap­pre­sen­tanti della società civile, abbiamo orga­niz­zato una mar­cia silen­ziosa in memo­ria di Eya che par­tirà dalla Piazza per i Diritti dell’Uomo a Tunisi.

Qual è il tuo giu­di­zio sulla nuova Costi­tu­zione in vigore da gennaio?

Dall’estero si con­gra­tu­lano con noi per que­sto tra­guardo e si dice sia una Costi­tu­zione moder­ni­sta, pro­gres­si­sta e rivo­lu­zio­na­ria. A un’attenta let­tura, però, ci si rende conto delle trap­pole lin­gui­sti­che di cui è infar­cita e delle dif­fe­renti maniere in cui può essere inter­pre­tata. Per me resta inchio­stro su carta. Anche durante il regime di Ben Ali – ecce­zion fatta per qual­che arti­colo che gli per­met­teva di eser­ci­tare il potere a vita – ave­vamo una Costi­tu­zione che era quasi accet­ta­bile sul piano teo­rico. Il pro­blema, ieri come oggi, è quello di una cor­retta appli­ca­zione dei princìpi.

Per quel che con­cerne i diritti delle donne, ci sono stati miglio­ra­menti o regressioni?

C’è un arti­colo che san­ci­sce l’uguaglianza tra cit­ta­dini di sesso maschile e fem­mi­nile davanti alla legge ma ciò non cor­ri­sponde a un’effettiva parità. Quando si parla di cit­ta­di­nanza, infatti, si taglia fuori la sfera pri­vata. La situa­zione non è peg­giore di prima ma dipende, appunto, da come ven­gono inter­pre­tate le norme.

Cos’è cam­biato, invece, nella strada?

Viviamo nell’insicurezza. Gli scon­tri tra ter­ro­ri­sti e poli­zia sulle mon­ta­gne, le aggres­sioni e le rapine in città sono all’ordine del giorno. Da quasi un anno, dopo l’assassinio del lea­der poli­tico Moha­med Brahmi, anch’io sono sotto scorta. Il mio nome è stato tro­vato in una «lista di liqui­da­zione» redatta da un gruppo ter­ro­ri­sta e c’è un video nel quale il capo dell’organizzazione isla­mi­sta Ansar al-Sharia, pro­nun­cia una con­danna a morte nei miei confronti.

È lecito par­lare di fal­li­mento della rivoluzione?

Non direi. Per me la rivo­lu­zione è ini­ziata nel dicem­bre 2010 e non si è ancora con­clusa. Non siamo riu­sciti a rea­liz­zare gli obiet­tivi prio­ri­tari che ci era­vamo posti e ora biso­gna affron­tare altre sfide. Io, però, non sono pre­oc­cu­pata per­ché – mal­grado sia dimi­nuito il numero delle per­sone che con­fi­dano nel cam­bia­mento – coloro che hanno gio­cato un ruolo chiave nella caduta di Ben Ali sono ancora attivi.

I blog­ger, del cui movi­mento sei una capo­sti­pite, sono ancora in grado di dare un con­tri­buto decisivo?

I blog­ger pos­sono ancora «distur­bare». Prova ne è il recente arre­sto di Aziz Amami, che ha denun­ciato le per­se­cu­zioni ai danni dei gio­vani rivo­lu­zio­nari, i quali ave­vano a loro volta cri­ti­cato la libe­ra­zione dei cri­mi­nali di regime. Io stessa subi­sco una cam­pa­gna di dif­fa­ma­zione da parte degli ex espo­nenti del Rcd (il par­tito di Ben Ali, ndr), che sono tor­nati in forza, par­te­ci­pano ai dibat­titi in Tv e si spac­ciano per i veri rivo­lu­zio­nari. Il mio lavoro gior­na­li­stico, però, è com­pro­messo per­ché le per­sone sanno che sono sotto scorta e non mi par­lano più spontaneamente.

Senti di avere un ruolo diverso rispetto a quando eri la blog­ger sim­bolo della «rivo­lu­zione dei gelsomini»?

Ora sono più attiva sui social net­work che sul blog, per­ché una comu­ni­ca­zione imme­diata e alla por­tata di tutti è spesso più effi­cace. Vengo invi­tata a par­lare del mio paese in tutto il mondo e nei pros­simi giorni sarò in Ita­lia per riti­rare il Pre­mio Ischia Inter­na­zio­nale di Gior­na­li­smo. Eppure, in Tuni­sia, c’è chi mi accusa di auto-promuovermi e chi, per i miei tra­scorsi negli Stati Uniti, mi reputa una spia al soldo dei ser­vizi segreti internazionali.

Tuo padre Sadok – lea­der sto­rico della sini­stra – ha con­tato molto per la costru­zione della tua coscienza poli­tica. I gio­vani della tua gene­ra­zione, invece, con quali punti di rife­ri­mento sono cresciuti?

Molti si sono for­mati all’interno dell’Unione Gene­rale degli Stu­denti, altri sono entrati nei par­titi poli­tici in gio­vane età. La par­te­ci­pa­zione poli­tica è senz’altro mino­ri­ta­ria nei gio­vani tuni­sini ma non total­mente assente.

La demo­cra­zia in Tuni­sia: uto­pia o possibilità?

Non mi piace per­dere la spe­ranza. Biso­gna con­ser­varla. Mi sono bat­tuta con pas­sione e per amore verso il mio paese. Anche se la mia vita è a rischio a causa di tutto que­sto, credo più che mai nel valore della libertà.

Repubblica 14.6.14
Mio padre si chiamava Karl Marx
Il comunismo, il rapporto con Engels, gli amori sfortunati e la militanza
In una biografia uscita in Inghilterra la storia di Eleanor detta “Tussy”
di Siegmund Ginzberg


Poco prima delle 10 del 31 marzo 1898, Eleanor Marx, allora poco più che quarantenne, inviò la fedele cameriera Gertrude in farmacia a comprare del cloroformio e una piccola quantità di acido di cianuro. “Per un cane”, aveva scritto nel bigliettino indirizzato al farmacista. La trovarono morta, vestita con un abito tutto bianco fuori stagione. Sulla scrivania dello studio c’erano i giornali con deprimenti notizie sugli scandali di corruzione in tutta Europa, che lambivano anche la sinistra, la corrispondenza con il sindacato dei minatori e altri esponenti socialisti.
C’erano poi le bozze di Valore, prezzo e profitto , l’opuscolo del padre che lei aveva scoperto e si accingeva a pubblicare con una propria prefazione (“da Sonnenschein, che è un ladro, ma tutti gli altri editori con cui ho provato non l’hanno voluto”), e i lavori preparatori per una biografia del padre che non era mai riuscita a completare. “Tutto sommato Marx il politico (Politiker) e il pensatore (Denker) possono andare, ma dal punto di vista umano forse un po’ meno” aveva scritto alla sorella maggiore Laura. Era stato durissimo per lei scoprire che Freddy, il figlio della cameriera di sua madre, Helene Demuth, era invece figlio di Karl Marx.
“Eleanor, non sposata, suicidio per ingestione di cianuro, sotto stress mentale”, scrisse il medico legale. In realtà non era “single” ma aveva convissuto per quasi vent’anni con Edward Aveling, mantenendo la sua vita dispendiosa e tollerando le sue continue scappatelle. Lui era già sposato, ma non le aveva mai detto che la prima moglie era deceduta da tempo e lui aveva incassato e sperperato l’eredità. Solo il giorno prima del suicidio lui le aveva confermato quello che già tutti gli altri sapevano, che si era risposato un’altra volta ancora, in segreto, con un’attricetta. Lei finalmente lo aveva diseredato in extremis, ma il codicillo era stato fatto sparire. Si disse dallo stesso Aveling, che aveva frugato tra le sue carte in presenza del cadavere. Anzi, corse voce che addirittura fosse stato lui ad assassinarla. Lui morì l’anno seguente, dopo aver sperperato in pochi mesi anche l’ingente patrimonio che lei aveva ereditato dal suo “secondo padre”, il “vecchio generale” come lo chiamavano in famiglia, Friedrich Engels.
La stampa si buttò a pesce sulla notizia. Scrissero che era la dimostrazione del fallimento morale dello stile di vita del “libero amore” socialista. Scrissero che lei si era suicidata perché lui aveva deciso di tornare a vivere con la prima moglie e i figli e voleva imporle un mènage a tre. Questo era pura invenzione, la prima moglie era morta da tempo. A prendere le difese del “buon nome” del socialismo fu Eduard Bernstein, il leader riformista e “revisionista” della socialdemocrazia tedesca. Scrisse un opuscolo sull’“enigma psicologico” di una donna in preda ad un “malessere morale”, simile a quello di “ Frau Alving”, la protagonista degli Spettri di Ibsen.
Quello della figlia più piccola e preferita (“Tussy - questo il nomignolo di Eleanor - è me” soleva dire il vecchio Karl) non fu l’unico suicidio in casa Marx. Anni dopo, nel 1911, si sarebbero uccisi anche Laura e il marito parlamentare Paul Lafargue, iniettandosi cianuro nelle vene. Ma erano ormai vecchi (si avvicinavano alla settantina) e malati, è un caso diverso, la si potrebbe definire auto-eutanasia. Quella volta, a difendere la loro scelta, al posto di Bernstein, fu Lenin. In modo alquanto agghiacciante: “Comprensibile quando si sente di non poter più lavorare per la rivoluzione”. Ma certo i grandi padri spesso sono ingombranti. Sigmund Freud non era stato un modello di padre, anche se 4 delle sue 5 sorelle non morirono suicide ma nei campi nazisti. Gandhi era stato un pessimo padre e marito. Il figlio di Einstein, Eduard, morì in manicomio. Per non parlare dei figli che Mao abbandonò durante la Lunga marcia e di Svetlana, figlia di madre suicida, che per sottrarsi al padre Stalin dovette scappare in America.
Eppure Eleanor non era affatto una donna sprovveduta. Era la più intellettuale e politicamente attiva della sorelle Marx. Era una femminista combattiva in un’epoca in cui le donne non avevano accesso né al voto né agli studi. È sua la prima traduzione in inglese di Madame Bovary e la messa in scena di diversi dei drammi di Ibsen (fu lei a recitare Nora alla prima londinese di Casa di bambola ). Come il padre adorava Shakespeare e Balzac. Ancora adolescente scriveva lunghe lettere di “consigli politici” ad Abraham Lincoln (che Marx naturalmente si guardava bene dallo spedire). Assieme ad Aveling aveva scritto un libro sul “Socialismo di Shelley” e partecipava a tutte le iniziative sindacali e politiche in tutta Europa. Aveva fatto da segretaria e assistente di ricerca del padre. Alla morte di Engels fu lei a tentare di trascrivere il Quarto libro del Capitale e mettere insieme il suo carteggio. Fu lei a recuperare l’ebraismo con cui il padre aveva chiuso con la giovanile Questione ebraica rivendicando con orgoglio le proprie origini e mettendosi addirittura a studiare lo yiddish: “Mio padre era ebreo …la lingua degli ebrei ce l’ho nel sangue… in famiglia dicono che assomiglio a mia nonna paterna, che era figlia di un dotto rabbino”. Lasciando perdere il fatto che la nonna si era arrabbiata moltissimo quando Karl aveva deciso di sposare l’aristocratica prussiana Jenny Von Westphalen, anziché una brava ragazza ebrea.
È fresco di stampa Eleanor Marx. A Life di Rachel Holmes (già autrice di successo di una biografia della Venere Ottentotta), pubblicata per i tipi di Bloomsbury. Mi sono chiesto anch’io se servisse un nuovo libro sull’argomento dopo The Life of Eleanor Marx: A Socialist Tragedy di Chusichi Tsuzuki (1967) e il monumentale lavoro di Yvonne Kapp (1972). Ebbene, è diverso. Un’interpretazione più “moderna”, se così si può dire, più rispondente forse ai gusti dell’epoca dei pettegolezzi da tabloid, dei sitcom, reality e teleromanzi, anche se fondati su ricerche meticolose nelle lettere, nei diari e nei “sentiti dire” dei protagonisti. L’autrice confessa di sperare che possa essere trascinato dal successo editoriale del Capitale nel X-XI secolo di Piketty (80.000 copie solo nelle prime settimane, mentre il primo libro di Das Kapital nel 1867 aveva trovato pochissimi lettori). Glielo auguriamo. Anche Il Capitale di Marx era, a modo suo, un romanzo. La struggente telenovela su Eleanor tocca tasti ancora più universalmente umani.

l’Unità 14.6.14
Abusi
I figli divisi in due
Quelli che assistono alle botte tra i genitori ossia le vittime della «violenza assistita»
di Luigi Cancrini


Un tema drammatico e di grande attualità affrontato nel libro di Carla Baroncelli «Storie sui fili»
Cancrini riflette sulla gravità dei danni che provoca nei minori e sull’ancor più grave assenza di una legislatura che li tuteli

IL TEMA SU CUI IL LIBRO DI CARLA BARONCELLI, «STORIE SUI FILI», PONE UN’ATTENZIONE INTELLIGENTE E APPASSIONATA è il tema della violenza «assistita», della violenza, cioè, subita dal minore (la protagonista della storia) costretta ad assistere, senza poter intervenire, al modo in cui la madre viene picchiata dal suo nuovo compagno. Perfino nel momento in cui, terrorizzata dal sangue che scorre sul viso della madre, la bimba chiede aiuto ai carabinieri, infatti, questi non faranno nulla perché la madre non conferma il suo racconto e perché nessuna legge c’è (e, dunque nessun carabiniere) che si occupi, soccorrendola, della bambina terrorizzata che chiede aiuto. Per lei e per sé.
Assurdo? Per il senso comune, sì. Per la legge, tuttavia, no perché la violenza assistita non è considerata reato dalla nostra legge. Avendo conseguenze, in alcuni casi, sulla potestà e venendo considerata, a volte, come un'aggravante nei (pochi) processi penali che si celebrano in queste situazioni ma restando un gesto di cui il violento non è considerato «colpevole» quando non c'è danno grave o denuncia da parte di una vittima che, per amore o per paura, spesso (troppo spesso) la denuncia non fa.
Perché? Perché un residuo di cultura (o di incultura) maschilista continua a considerare sostanzialmente lecita la violenza del pater familias? Perché l’unità formale della famiglia è ancora oggi più importante, di fronte alla legge di quella, sostanziale, basata sull’amore e sul rispetto?
Troppo poco si parla e si ragiona, in effetti, di abuso psicologico sui minori, di cui la violenza «assistita» è una delle forme insieme più vistose e più comuni. Abuso di cui, nel caso specifico, sono responsabili insieme, drammaticamente, l'aggressore e la vittima che sembra abitualmente non rendersi conto del male che fa, sopportando, ai figli prima e più che a sé stessa.
Senza rendersi conto, cioè, del modo in cui proprio loro, i figli, rischiano di restare segnati nel profondo da quella che per lei è una scelta ma che per loro è una costrizione. Violenta. Di fronte a cui non c’è scampo possibile se non quello legato all’intervento che viene dall’esterno: quando condizioni si creano, di fronte per esempio allo sviluppo sintomatico del bambino, in cui uno spiraglio si apre, senza carabinieri, per la richiesta d'aiuto dei più piccoli.
Considerata da questo punto di vista, a mio avviso, la violenza assistita (che non è fatta solo di botte ma anche di parole e di silenzi, di tradimenti e di disprezzo dell’uno verso l'altro) costituisce la forma più comune e più grave di abuso psicologico.
Cui naturalmente molte altre se ne collegano a livello soprattutto delle separazioni più conflittuali (o francamente «disperanti» per chi è chiamato a occuparsene) quando lo scontro fra padre e madre coinvolge vere e proprie tribù familiari e in cui il figlio deve imparare, diventando in breve tempo più adulto (e più sofferente) dei suoi genitori a destreggiarsi come può nel tentativo di non ferire né l'uno né l’altro, o in quello, spesso ancora più pesante, di schierarsi dalla parte di quello che sente il più debole. Il più indifeso o il più ferito.
«Puoi dire a mia madre, per favore, dottore, di non parlare di mio padre quando sono con lei e puoi dire a mio padre, dottore, per favore, di non parlare di lei quando sto con lui? Se non lo fanno io sto bene con tutti e due ma quando lo fanno io sto male e non so come difendermi», mi dice il bambino di sei anni dal divano dello studio in cui si confida con me mentre con tanta fatica e tanto poco successo io sto tentando di aiutare i suoi genitori a controllare l’odio da cui sono animati, quello furioso e scomposto di lei e quello lucido e freddo di lui che a lungo si sono sovrapposti, rinforzandosi l'un l’altro, nella parte di seduta dedicata a loro due. In cui mi era sembrato di capire molto bene, sentendolo sulla mia pelle, l’abuso che i loro litigi facevano quotidianamente da anni su quel povero bambino.
Giorno verrà forse, mi dico a volte, mentre la vita mi mette di fronte a questo continuo inseguirsi di situazioni di sofferenza degli adulti che non riescono a capire il male che fanno ai loro bambini agendo in modo così violento, irresponsabile ed infantile, in cui accetteranno finalmente, i professionisti della salute e l’opinione pubblica più vasta che delle loro parole si nutre ancora tanto, l’idea per cui sta proprio nel prodursi di questa forma di abuso psicologico e di violenza assistita di tutti i tipi, l’origine lontana di tutte quelle manifestazioni di sofferenza (dalla depressione all’abuso di sostanze, dai disordini del comportamento alimentare ai disturbi di personalità) su cui così spesso si interviene con i farmaci invece che con lo sforzo di comprendere quello che sta accadendo: proteggendo il bambino dall’abuso che subisce. O ancora, un passo più in là, quanto pagheranno in termini di ripetizione di quegli abusi psicologici i figli di quelli che non vengono protetti oggi.
Faremo un grande passo in avanti verso una umanità migliore, mi dico, quando idee di questo tipo saranno più diffuse e ispireranno più comportamenti.
Contrastare e curare abusi materiali o psicologici di cui sono vittime ogni giorno troppi bambini, penso, è la strada maestra per la prevenzione dei disturbi psichiatrici e per la interruzione delle catene intergenerazionali di violenza di cui dovremmo avere una coscienza un po’ più chiara.

Corriere 14.6.14
Jhumpa Lahiri:
«Il privilegio di scrivere resta per molte donne un atto rivoluzionario»
di Manuela Pelati

qui

Corriere 14.6.14
Come uscire da rabbia e disgusto
Ritornare dallo stato di sudditi a quello di cittadini sovrani
Il popolo e gli dei di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo: uno sguardo impietoso sull’Italia di oggi
di Carlo Vulpio


C he l’Italia fosse al penultimo posto in Europa (dopo, c’è solo la Romania) per il livello di istruzione della popolazione e del numero di laureati è uno dei tanti dati negativi che ci umilia e ci fa rabbia; ma non ci sconvolge, non solo perché siamo quasi assuefatti alle statistiche negative che ci riguardano, ma anche perché, forse, non abbiamo perso definitivamente la voglia di rimboccarci le maniche e di riscattarci. Ma che ogni settimana nel nostro Paese, nonostante la Grande crisi e le imprese che muoiono come mosche, aprano quattro nuove aziende di tatuaggi, mentre siamo saldamente al terzo posto (dopo Corea del Sud e Grecia e davanti agli Stati Uniti) per interventi di chirurgia estetica in rapporto alla popolazione, è — pur non essendoci nulla di male — uno di quei diabolici dettagli rivelatori dello stato di salute (anche mentale) di un’epoca, di un’economia, di un popolo.
I dati e le statistiche però, che sono spesso opinabili e a volte anche «truccati», bisogna saperli «leggere» e ricondurre a una visione d’insieme, che sia d’aiuto a capire per poter poi agire. Compito per niente facile, che Giuseppe De Rita e Antonio Galdo — con un volume agile e «tutta polpa», Il popolo e gli dei , edizioni Laterza (pp.112, e 14) — riescono a svolgere con onestà intellettuale, poiché chiamano ogni cosa con il proprio nome e non risparmiano critiche a nessuno: alla «politica» e al suo contrario, il «disprezzo per la politica», seguito all’operazione Mani pulite e al suo strabismo; alla «dittatura del capitalismo finanziario» e dei «mercati», a loro volta governati dalla téchne di algoritmi che ne sono diventati i veri sovrani (Emanuele Severino); alla forbice, che ormai è un abisso, tra i ricchi e i poveri e tra i lavoratori dipendenti e i top manager, e persino alla presunta immacolatezza della «società civile».
La critica di De Rita e Galdo è serrata, impietosa, ma non è disperante e sfascista, così come non è «contro l’Europa» un altro libro a cui questo assomiglia molto, Il mostro buono di Bruxelles , di Hans Magnus Enzensberger. La tesi di fondo de Il popolo e gli dei , sempre più lontani l’uno dagli altri, è la medesima: la progressiva perdita di sovranità degli Stati nazionali e quindi dei popoli, che gli autori non esitano a definire «furto di sovranità» da parte di pochi dei, con la conseguente riduzione dei cittadini allo stato di sudditi, degli individui in pubblico per la tv — e per il web, con la sua idiota logica binaria — dei politici in «una compagnia di giro per i talk show». Sono dunque i risultati di questi processi a essere disperanti, non le analisi e le critiche. È per esempio disperante, sostengono gli autori, constatare che mentre la riunificazione della Germania è stata compiuta, il Sud e il Nord d’Italia sono tra loro più distanti di prima, con relativo corollario di una nuova ondata di emigrazione di giovani non più rimpiazzata, come in passato, dalla crescita demografica, perché fare un figlio costa e di politiche per le famiglie (vogliamo aggiungerci anche la scuola, le infrastrutture, la sanità, le imprese, l’ambiente e il paesaggio?) non se ne scorgono nemmeno all’orizzonte. «La fiducia è ai minimi storici» avvertono De Rita e Galdo e i sentimenti oggi prevalenti sono rabbia e disgusto. Invertire la rotta al più presto è dunque indispensabile. Già, ma come? Prima di tutto, bisogna «uscire dalle politiche di rigore e di austerity» decise altrove e poi, ecco la proposta coraggiosa, se non altro perché in controtendenza rispetto alla infatuazione del «tutti a casa», riscoprire il gusto e la funzione della politica, che non è né una brutta cosa né una brutta parola. Solo la politica, dicono gli autori, può rilanciare la partecipazione democratica. E a questo scopo occorre rilanciare i partiti. Sì, i «famigerati» partiti, quelle «organizzazioni ancorate a un progetto e a un territorio», magari pensati in una forma nuova, ma di certo migliori sia degli attuali comitati elettorali, poco turbati dal «furto di sovranità» perché sono i primi a praticarlo, sia di quegli dei lontani e avversi.

Corriere 14.6.14
Tutti gli intrighi e le vendette dietro l’urlo disperato di Psycho
Quando Hitchcock fece sparire il libro che ispirò il film
di Giuseppina Manin


Rivista oggi, con gli occhi usi a qualsiasi orrore, la scena della doccia di Psycho potrebbe sembrare roba da bambini. Hitchcock non ci mostra nulla, nemmeno i seni di Janet Leigh, inquadrati sempre e solo entro i margini della più vittoriana decenza. Non si vedono nudità, né il coltello che penetra le carni, né il volto dell’assassino. Solo un’ombra dietro la tendina di nylon, una strana creatura nascosta dai vapori caldi… Tutto accade così rapidamente, 70 brevissime inquadrature nell’arco di 45 secondi, che l’occhio non fa in tempo a registrare il dettaglio. Ma l’orrore sì. Quel sangue che scivola via con l’acqua (il bianco e nero scelto per non enfatizzare l’effetto, in realtà lo rende ben più spaventoso), quello sguardo di Janet che si spegne attonito su un abisso di terrore danno brividi raramente comparabili sullo schermo.
E farsi la doccia non sarà mai più come prima. Janet Leigh, dopo una settimana di tormenti e getti gelidi ideati dal sadico Hitch per strapparle il necessario urlo iperrealistico, giurò che per il resto della vita avrebbe fatto solo il bagno. Ma il pubblico andò in estasi, il film, costato 800 mila dollari, ne incassò 40 milioni e Psych o divenne quel capolavoro di culto che tutti conosciamo. Quanto a Hitchcock, fino allora considerato dalla critica solo un abile artigiano, si ritrovò di colpo promosso a grande artista del cinema.
L’unico a restarci male fu Robert Bloch, l’autore del libro da cui il film è tratto, scrittore di talento cresciuto alla scuola horror di Lovecraft. Il successo planetario di Psycho anziché rilanciarlo, offuscò in breve la fama del suo romanzo. Hitch, che ne aveva acquistato i diritti per 9 mila dollari, angosciato che qualcuno svelasse il finale, aveva fatto sparire dalle librerie tutte le copie. In più non perdeva occasione per sminuirne il valore: un raccontino da poco, genialmente reinventato da lui.
E così tra il re del brivido di carta e quello di celluloide nacque un rancore destinato a trasformarsi in una faida senza esclusione di colpi. A raccontarcene i retroscena è Loris Tassi, autore della postfazione che accompagna la nuova uscita di Psycho , il romanzo, che Il Saggiatore propone insieme con Marnie di Winston Graham, primi due titoli di una collana dedicata alle fonti narrative del mago del brivido.
«Il successo del film mise in atto il processo di rimozione del libro. Psycho fu un vero spartiacque per entrambi — assicura Tassi —. L’assassinio nella doccia e la cura con cui Norman Bates, alias Anthony Perkins, cancella le tracce del delitto sono quasi la metafora del rapporto tra il film e il romanzo. Il secondo è stato letteralmente distrutto dal primo».
Bloch naturalmente non la manda giù. Il cinema e la tv però si accorgono di lui. Il suo nome circola a Hollywood e lui partecipa ad alcuni episodi di «Hitchcock presenta», scrive sceneggiature per molti altri registi. Ma quando sir Alfred gli propone di collaborare con lui a un nuovo film, Bloch gli dice no. «Un lusso che pochi potevano permettersi — prosegue Tassi —. Hitchcock non glielo perdonerà mai. Approfitta di un giornalista per levarsi il sassolino: “Bloch? Ha scritto troppi film per William Castle”». Castle regista di B-movie horror, un Hitchcock dei poveri. «Una battuta sarcastica in puro stile Hitch. Per lo scrittore una coltellata degna di Norman Bates».
Ma il trionfo di Psycho segna un crinale anche per il suo regista. «Nessun altro suo film successivo riscuoterà più tanto successo. Hitch tenta di riproporre il carattere vincente, lo psicopatico della porta accanto, in Marnie e in Frenzy . Ma nessuno riuscirà a eguagliare Norman Bates e le sue ossessioni proibite, il travestitismo, il matricidio, la necrofilia. Quel mondo oscuro magistralmente tratteggiato nel romanzo».
Nel 1982, Hitchcock già morto, Bloch pareggia i conti. Dà alle stampe Psycho II . La vendetta. «Il suo romanzo più sorprendente, secondo tassello di una trilogia che si chiuderà nel 1990 con Psycho House . Ma a suscitare orrore stavolta più che un psicopatico vestito per uccidere è piuttosto Hollywood, vero bersaglio dell’autore. Un mondo del cinema losco e corrotto, che gli aveva dato fama ma gli aveva rubato l’anima come scrittore».
Nessun riferimento è casuale. Forse neanche quello a Hitchcock. «Norman Bates torna di scena, invecchiato, sfatto, pingue, pelato. Sempre più nevrotico, represso, impacciato con le donne, terrorizzato dal sesso. Tutti tratti che ben sappiamo corrispondere a quelli di Hitchcock. Uno sberleffo finale sferrato per mano d quel mostro che tanto aveva segnato le vite di entrambi».

Corriere Fiorentino 13.6.14
Le nuove frontiere della cultura
Imparare a mangiar sano (in un liceo)
di Ferdinando Maida


Caro direttore,
da alcuni mesi sempre più costantemente su molti quotidiani si leggono articoli e si pubblicano interviste a numerosi e importanti personalità della scuola e del settore scientifico «nutrizionale» circa l’importanza dell’educazione alimentare da inserire nella didattica della scuola, soprattutto in riferimento ai disturbi alimentari e alla prevenzione delle patologie legate all’alimentazione.
L’educazione alimentare nelle scuole è un tema dibattuto in Europa e negli Stati Uniti, dagli anni Novanta. Tante esperienze, numerosi progetti che oggi possono realizzarsi perché le spese per la salute potrebbero essere contenute educando ad una sana e corretta alimentazione. Fino a qualche tempo fa, erano le famiglie a raccontare le stagioni attraverso i prodotti e ad insegnare il rispetto nei confronti del cibo. La trasmissione di questa conoscenza oggi è invece affidata al caso, o forse al web. Di tale lacuna non si è mai fatto carico nessuno. Scomparsa la cultura del sapere «contadino», il cibo è diventato negli anni, purtroppo, terreno di conquista per marketing e pubblicità.
In Inghilterra, nel 1988, l’Education Act introdusse un piano di studi nelle scuole dell’obbligo dai 5 ai 16 anni, che prevedeva l’insegnamento dell’educazione alimentare attraverso materie diverse. In Francia, dal 2000, esiste un Programma Nazionale Nutrizione e Salute (Pnns) e un Piano Nazionale Alimentazione (Pna). In America, nel 1998, nello stato di New York fu introdotta la cucina in classe, per avvicinare i ragazzi al gusto per prodotti integrali e verdure, ed educarli alla scelta degli alimenti sulla base dell’impatto sulle risorse ambientali, con Michelle Obama che oggi è la migliore testimonial di tutto questo.
In Italia, sia per l’imminenza di Expo 2015 che per il cambio di governo, qualcosa si sta muovendo. La proposta del Ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina è stata prontamente raccolta dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini, che ha dichiarato: «Se il cibo è cultura, allora è giusto insegnare ai ragazzi come mangiare bene. E l’Expo, dedicata all’alimentazione, sarà l’occasione giusta per inserire questa nuova materia nei piani scolastici».
A Firenze il liceo classico Michelangiolo propone già da quattro anni, all’interno dell’offerta formativa un progetto curato nei più piccoli particolari denominato appunto «Progetto Salute» che oltre ad offrire un servizio di consulenza psichiatrica e psicologica, con professionisti qualificati, ha deciso di estendere l’offerta, dimostrando quindi grande lungimiranza, anche a quello di consulenza e informazione sulla nutrizione e l’alimentazione. L’intero progetto è rivolto naturalmente, a tutti gli studenti, ai genitori, ai docenti, al personale Ata e si svolge presso l’istituto nell’aula del centro informazione e consulenza ogni quindici giorni dagli inizi di novembre e fino alla fine di maggio, in pratica per tutta la durata dell’anno scolastico tra le 13 e le 15.
Come si vede le «nuove idee» non mancano e grazie alla disponibilità degli operatori della scuola e di professionisti qualificati, qualche piccola soddisfazione si realizza anche nella nostra comunità fiorentina.
*Dottore nutrizionista