sabato 12 aprile 2014

l’Unità 12.4.14
Bersani: «L’Italicum non va, se resta così esplodono problemi»
L’ex segretario Pd: «Grillo? È inutile ha sprecato il consenso»
«Renzi? Buon piglio ma è troppo sbrigativo»
di Marcella Ciarnelli


«Mi è tornata la voglia di partecipare e dire la mia per il partito e per il Paese». Pacato, sorridente anche quando accenna alla malattia ormai alle spalle, «un periodo di riposo in cui mi sono occupato d’altro», Pier Luigi Bersani, per più di un’ora e mezzo, intervistato da Enrico Mentana nel programma de La7 Bersaglio mobile, ha affrontato i temi di stretta attualità politica. Il governo Renzi impegnato nella riforma dell’architettura istituzionale e su una legge elettorale, su cui, più che su altro, l’ex segretario avanza critiche nette. «L’Italicum non va». E non solo per il nome che riecheggia una delle gradi tragedie del nostro Paese. Ha parlato Bersani dei rapporti con Grillo, che sta sprecando il consenso ricevuto mostrando di essere «inutile» ricordando a conferma del concetto il tanto discusso streaming in cui dai 5Stelle arrivò il rifiuto di qualunque apertura verso qualunque ipotesi di governo. E Berlusconi che «in fondo un po’ l’abbiamo smacchiato...» e che è il testimone di come un partito che ha la sua forza solo nel leader rischia di dissolversi se incontra difficoltà e per questo si augura che «Renzi non commetta l’errore di mettere il suo nome nel simbolo del Pd che è nato per essere la medicina alla malattia dei partiti personali». Che deve restare una forza politica «capace di sopravvivere al suo leader» nel nome dell’interesse collettivo. Poi la necessità di dare stabilità ai giovani attraverso un lavoro che non sia precario per troppo tempo. Ed anche qui qualche correttivo alle nuove norme va apportato.
Uno sguardo costruttivo al futuro con un occhio al passato recente. A quel dopo voto segnato dalla difficoltà di riuscire a fare un governo, dati i risultati usciti dalle urne. Dai 101 che nel segreto dell’urna dissero no a Romano Prodi al Quirinale (e quindi anche all’allora segretario). Dalla decisione, ad un certo punto necessaria, di chiedere la disponibilità ad un secondo mandato a Napolitano che è stato ripagato in questi mesi «con molte volgarità » che lo hanno costretto a «ingoiare troppe amarezze anche se rimane l’apprezzamento generale». «Sono andato a riposarmi che c’era il governo Letta e sono tornato che c’era il governo Renzi. A me nessuno ha detto niente comunque è andato tutto bene, ora siamo qua e si ricomincia » anche se quel «passaggio inelegante, per dirla con un eufemismo» l’ex segretario del Pd non ha nessuna difficoltà a confermare di non aver condiviso tempi e modalità del passaggio di testimone tra Enrico Letta, «una persona perbene» e Matteo Renzi di cui è «positivo il piglio» ma che in certe situazioni «è troppo sbrigativo». A Renzi, a cui ha detto di «stare a posto così», di non avere pretese di ruolo se non quello di contribuire alla buona salute della «ditta», riconosce il merito di aver messo in moto un processo di riforme per cui «va aiutato, in qualche caso corretto ma non scoraggiato o indebolito » ma è anche necessario ricordargli che l’essere veloci non è sempre una qualità. E che il confronto resta indispensabile all’interno del Pd avendo la consapevolezza che bisogna parlare «al cuore e alla testa del Paese» e non «alla pancia» con il rischio di tirare la volata al populismo.
Le riforme, allora. «Lo dico serenamente e pacatamente: così com’è la nuova legge elettorale non va» ha detto Bersani. «Il combinato tra legge elettorale e riforma del Senato ci consegna un prodotto che dobbiamo assolutamente correggere». Discutendo con tutte le forze politiche ma non lasciando a Berlusconi l’ultima parola. Attenzione, dunque, a meccanismi simili a una pentola a pressione. Per Bersani «è impensabile un monocameralismo con una legge elettorale nella quale i deputati sono nominati, che prevede un premio di maggioranza molto consistente a cui possono concorrere liste civetta che fanno i portatori d’acqua e non prendono neanche un seggio». Uno schema inaccettabile tanto più se si pensa che «il giorno dopo quel Parlamento dopo nomina il presidente della Repubblica, i membri della Corte costituzionale e quelli del Csm, tutto...Non mi metto di traverso, ma non ci si sottragga ad una significativa modifica dell’impostazione della legge elettorale, che deve essere comparabile a quella di una democrazia occidentale».

La Stampa 12.4.14
Riforme, Bersani sposa  la protesta dei professori
L’ex segretario: “Scelte non comparabili con le democrazie”
di Jacopo Iacoboni

qui

Repubblica 12.4.14
Bersani punge sull’Italicum “È una pentola a pressione”
di Giovanna Casadio


ROMA. Il giorno della verità sarà martedì, quando il Pd si riunisce per sciogliere il braccio di ferro nel partito sulla fine del Senato e, nel pomeriggio, prova del nove in commissione Affari costituzionali. Ma che niente possa restare com’è e che il patto tra Berlusconi e Renzi sulle riforme vada riscritto, sembra inevitabile. Lo è per Pier Luigi Bersani, l’ex segretario che torna pubblicamente ad attaccare il “pacchetto riforme”. Non gli piace «la sbrigatività» di Renzi. Capisce la necessità di cambiare la proposta del governo sul Senato trasformato in Camera delle autonomie, però a Vannino Chiti, compagno di lungo corso, suggerisce di ritirare il “controtesto” che ha presentato con altri 22 senatori dem e che diventa giorno dopo giorno attraente per molti, a cominciare da 12 ex grillini.
Chiti non ci sta. Tanto da mandare subito a dire a Pierluigi che non accetta «moniti all’obbedienza», casomai ci si confronta. E poiché si sta parlando della Costituzione, non è che si possano immaginare emendamenti sparsi: il progetto deve essere complessivo. Su un punto però Bersani, Chiti e i dissidenti delle diverse correnti del Pd concordano, ed è sulla modifica della nuova legge elettorale, dell’Italicum così com’è uscito dalla Camera. Bersani nei giorni scorsi ha detto che il meccanismo messo in piedi introduce «elementi corruttivi», perché si formano listarelle dell’1% che però concorrono a formare il premio di maggioranza. «Qualcosa in cambio gli devi dare, bisogna ristabilire criteri di rappresentanza», aveva insistito. Ora rincara: «Così com’è sembra una pentola a pressione, e non va». L’ex segretario prevede inoltre che al ballottaggio potrebbe vincere Grillo e il M5S. In casa democratica le tensioni non hanno fine. Stamani Gianni Cuperlo ha organizzato una convention, molta criticata dai renziani anche per la coincidenza di data, dal momento che a Torino Renzi oggi inaugura la campagna per le europee. Cuperlo ha invitato tutti, da D’Alema a Bersani, Speranza e Epifani, correnti e correntine e aspetta un pubblico numeroso tanto da avere spostato la location al teatro Ghione. E Bersani nega di volere riorganizzare attorno alla sua leadership una alternativa a Renzi nel Pd, al quale ha risposto: «Non voglio incarichi, sto bene così». Un promemoria sulle riforme arriva dal presidente Napolitano: vanno fatte.

l’Unità 12.4.14
Economisti di sinistra bocciano il Def
di Rachele Gonnelli


Di professori, o «professoroni», non ci sono solo i costituzionalisti. Ci sono anche gli economisti. Ieri nel seminario organizzato alla Camera insieme a parlamentari di Sel e del Pd per una analisi al microscopio delle 1.300 pagine fresche di stampa del Documento di economia e finanza, hanno mostrato di non gradire di più le idee - e in questo caso i numeri - messi in campo dal governo Renzi.
L’appuntamento era organizzato da due associazioni – Re-vision che fa capo a Stefano Fassina - e Le Belle Bandiere di Giorgio Airaudo e Giulio Marcon, deputati di Sel. Contestate non solo le coperture ma lo stesso impianto della manovra. E non meno criticato il Jobs Act per come si sta delineando con il decreto Poletti. Gli economisti hanno smontato, slide e simulazioni alla mano, le previsioni di crescita del governo, parlando di «errori econometrici», «sottovalutazione del quadro macroeconomico», costi e voci di spesa nascosti o sottostimati, coperture della spending review troppo elastiche e ottimistiche. «Per farla breve - sintetizza Mario Pianta di Sbilanciamoci - si immagina un’Italia come fosse la Bassa Baviera ». «Si schiaccia la politica economica italiana su quella della Germania, cosa che Federico Caffé pensava fosse il principale errore da evitare», conferma Roberto Schiattarella, allievo di Caffè. L’Italia ha tutt’altre prospettive e problemi rispetto a un Land tedesco. Nel documento di Renzi si prevede una ripresa che prenderà quota nei prossimi anni, altissima quota: in cinque anni nel Def si ipotizza un balzo del Pil del 7,4, tutto trainato dall’export, oltre che dalle riforme tra cui quella del mercato del lavoro. Ma, secondo gli studi del bocconiano Fedele De Novellis, tanto ottimismo è mal riposto. Altrimenti non si spiegherebbero le forti preoccupazioni di Draghi per l’aumento della deflazione nell’Eurozona. Inoltre è probabile che i Paesi emergenti per mantenere competitività sui mercati procedano a svalutazioni monetarie, mettendo in difficoltà l’export europeo, ancor più se di prodotti di bassa qualità come l’Italia, nel suo declino industriale senza ricerca e innovazione, sembra votata. Il problema principale per il sinedrio degli economisti è invece di ridurre il costo del lavoro, quello di rafforzare la domanda interna, con politiche neo-keynesiane. Ma è proprio quello che imputano come assenza nel Def di Renzi.
«L’unica terapia d’urto che si vede nel Def è la fiducia che si ripone negli effetti delle riforme strutturali, dal riordino delle Province, al Senato, al Titolo V, un atto di fede che non tiene conto dei costi della riorganizzazione. Altro che riforme mancanti siamo alle riforme continue », sostiene Massimo D’Antoni, che pure vede di buon occhio alcune misure di contorno come l’attenzione al credit crunch e al potenziamento dei servizi all’infanzia per stimolare il lavoro femminile. «L’ottica è sempre quella di inseguire la competitività svalutando il lavoro, ma l’austerità espansiva è un ossimoro», fa notare Felice Pizzuti, candidato per la lista Tsipras. «Ma non è che Padoan abbia perso lucidità, è una linea imposta dall’Europa che Renzi non è riuscito a forzare», dice Stefano Fassina. «Serve un modello alternativo e perciò uno spazio di riflessione a sinistra», conclude.

il Fatto 12.4.14
Le Camere non si vogliono tagliare gli stipendi
Il governo ha chiesto ai segretari generali di Montecitorio e Palazzo Madama di adeguare i loro compensi a quello di Napolitano (238 mila euro), ma gli uffici hanno fatto muro: “Abbiamo l’autonomia costituzionale”
di Wanda Marra


Trovo strano che il segretario generale della Camera e del Senato prendano le cifre che prendono. Spero abbiano l'intelligenza, la forza, la lungimiranza e il coraggio di tornare in sintonia con il Paese. Spero che gli organi costituzionali si adeguino”. Così Matteo Renzi durante la conferenza stampa di presentazione del Def martedì scorso. Un affondo non casuale. Il segretario generale della Camera, Ugo Zampetti (in carica da 15 anni) percepisce 479 mila euro lordi, ai quali va aggiunta un’indennità netta mensile di 662,02 euro. Il segretario generale del Senato, Elisabetta Serafin (in carica da tre) 427 mila. Cifre che superano il tetto attuale per i manager di Stato, fissato a 311,658 euro (equiparato al primo presidente della Corte di Cassazione) e sono quasi il doppio di quello che vorrebbe stabilire il premier. Ovvero i 238 mila euro lordi, equivalenti all’indennità percepita dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ora, il governo non può interferire con gli organi costituzionali, che godono di una loro autonomia. Però, sta cercando di fare pressione, attraverso la moral suasion. Tant’è vero che il sottosegretario a Palazzo Chigi, Graziano Delrio, qualche giorno fa ha posto la questione a Zamparini e Serafin. I due - almeno a parole - si sono mostrati disponibili. Tanto a fare muro ci hanno pensato le strutture delle Camere. Ovvero i funzionari. Perché poi Zampetti e Serafin - sorta di amministratori delegati di Montecitorio e Palazzo Madama - non sono i soli a guadagnare cifre esorbitanti. Intanto, la Camera ha due vicesegretari, Guido Letta (340 mila euro annui) e Aurelio Speziale (328 mila). Ma in generale i consiglieri al massimo della carriera possono arrivare a prendere 400 mila euro. Come stupirsi, dunque, della barriera fatta dagli uffici? Se i vertici finiscono a guadagnare meno, crolla la retribuzione di tutti gli altri, come un castello di carta. Davanti alle pressioni del governo si è fatta valere l’autonomia degli organi costituzionali: per abbassare gli stipendi - dicono - ci vorrebbe una legge costituzionale. Eppure, quando si tratta di stabilire degli aumenti bastano le delibere dell’ufficio di Presidenza della Camera interessata. Soldi che poi vanno a pesare sul bilancio dello Stato.
IL GOVERNO non ha nessuna intenzione di mollare. Venerdì prossimo insieme alla misura che restituisce i famosi 80 euro al mese agli italiani, dovrebbe essere varato il nuovo tetto per i manager. È certo che rientreranno quelli delle aziende quotate. Sulle non quotate è ancora tutto da vedere. È in corso un’indagine conoscitiva, che dovrebbe tener conto dei risultati raggiunti dalle varie società. L’esecutivo - dunque - punta sul fatto che la casta non si può arroccare più di tanto, in momenti come questi di spending re- wiew, crisi e sacrifici per tutti. Spiega il questore della Camera, Paolo Fontanelli: “È una questione di sensibilità, anche rispetto all’opinione pubblica”. Lo stesso Fontanelli ricorda che è in corso un’altra partita, quella sui vitalizi. Nell’ultima legge di stabilità, c’è stato un intervento straordinario sulle pensioni che ha tagliato del 5% gli assegni compresi tra centomila e 150.000 euro, del 10% quelli compresi tra 150.000 e 200.000 e del 15% oltre questa cifra. Intervento che riguardava anche i vitalizi dei parlamentari. La norma è stata applicata? Non ancora. Dovrebbe essere recepita nel bilancio rispettivamente di Camera e Senato, che si vota tra giugno e luglio. Condiziona- le d’obbligo, ovviamente. Sempre per restare in tema di casta, l’Espresso ha rivelato ieri che la figlia di Laura Boldrini, presidente della Camera, quando torna in Italia (vive a Londra) è sotto scorta. E così le scorte della Boldrini salgono a tre: la sua, quella del marito e quella della figlia. “I dispositivi di scorta e tutela nei confronti di persone esposte a rischio sono disposti in modo autonomo dagli Uffici competenti”, si è sentito di precisare il Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Lei stessa intanto ci ha tenuto a “ringraziare” Renzi per l’impulso alla spending review: “Io mi sono autoridotta lo stipendio del 30%”. Un impegno che vale per tutta Montecitorio?

il Fatto 12.4.14
Statali, il governo: “Aumenti dal 2015”
Ma i soldi non ci sono
di M. Pa.


Volendo maramaldeggiare si potrebbe dire: #statalestaisereno. Espressione che, da quando Renzi l'ha usata per tranquillizzare Enrico Letta, non invita affatto alla serenità. Non ci sarà alcun blocco dei contratti del pubblico impiego fino al 2020, dice il governo. Ci tiene a ribadirlo più volte dopo le minacce di sciopero generale arrivate dai sindacati: di prima mattina il sottosegretario competente, Angelo Rughetti, via Twitter, poi il ministero dell’Economia con tanto di nota ufficiale. La sostanza è la seguente. Nel Documento di economia e finanza la spesa in stipendi è data sostanzialmente stabile a 162 miliardi di euro per il prossimo quinquennio. Tradotto: in quelle previsioni i contratti degli statali - bloccati dal 2009 con un danno medio di 9mila euro a testa e un risparmio all’ingrosso di 2,3 miliardi annui per l’erario - restano fermi. Niente rinnovi. Non è il Def la sede per fare questo genere di operazioni, dice il Tesoro: “Il finanziamento delle risorse per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego è effettuato con la legge di Stabilità” e visto che quei soldi non sono stati stanziati per il prossimo triennio “non è tecnicamente possibile considerare i corrispondenti importi nello scenario di previsione a legislazione vigente”, ma questo non è affatto un vincolo a procedere ai rinnovi. Spiega una fonte di via XX settembre: “È evidente che da gennaio, quando scade il blocco dei contratti prorogato da Letta, partiranno i tavoli di confronto”. Riassumendo: l’impegno politico a concedere gli aumenti almeno per recuperare l’inflazione c’è, i soldi ancora no. Andranno trovati in autunno, in quella che un tempo si chiamava Finanziaria: essendo, però, i saldi di bilancio bloccati alle cifre scritte nel Def, ogni euro in più per gli statali andrà trovato tramite tagli di spesa corrispondenti (o aumenti di tasse). Un po’ improbabile visto che il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, già così deve trovare per il 2015 la bellezza di 17 miliardi.

il Fatto 12.4.14
Una sforbiciata alla Sanità
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, il 4 aprile scorso, nel lancio di notizie di Sky Tg 24 ho ascoltato con un soprassalto questa frase: “E non è esclusa una sforbiciata alle spese della Sanità”. Fino a quando continuerà l'improvvisazione e il tenere i cittadini col fiato sospeso?
Muzio

DUBBIO, COSTERNAZIONE e ansietà sono le tre reazioni che molti provano, e che io provo, di fronte ad annunci come questi. Non mi riferisco alla frase di Sky Tg 24 così come è stata enunciata nel consueto stile giornalistico di quella testata. Mi riferisco al fatto vero che c'è dietro quell'annuncio. Il dubbio è inevitabile. Ti domandi: ma non c'è un piano che non venga improvvisato di giorno in giorno, e che abbia già previsto modi, tempi e limiti per intervenire, se necessario, sulla spesa sanitaria del Paese? Meglio sarebbe un buon governo capace di assicurare che nessun aspetto o trattamento del Servizio sanitario nazionale sarà toccato, salvo il continuo e indispensabile tentativo di diminuire sprechi e passaggi inutili, che ogni amministratore è tenuto a fare nel doveroso tentativo di migliorare sempre il rapporto fra ciò che ricevi, ciò che spendi e ciò che dai. È possibile che, come in un flash stroboscopico, il costo della salute (così come quello delle pensioni) entri ed esca in momenti diversi, dalla stessa mutevole lista dei salvati e dei sommersi? La costernazione riguarda la meraviglia che non ci sia già, al principio di tutto, una serie di linee guida che, anche senza essere un piano dettagliato e completo, orientino i cittadini e li liberino dal gioco sadico dell'annuncio spot di fatti che generano immediata tensione. L'ansia è l'esito inevitabile del dubbio e della costernazione. Ma ha anche un senso politico, vuol dire che non ti fidi. Vuol dire che ti aspetti di tutto. Non è il contrario del grande successo che il nostro giovane premier è sicuro di meritare? È vero che finora i suoi indici di gradimento restano alti. Ma non dovrebbe dimenticare che non esiste e non è umana una fiducia illimitata. E che finora ciò che trattiene molti in un'area di attesa disciplinata è il buio oltre la siepe.

il Fatto 12.4.14

416 TER
Voto di scambio prova impossibile

di Antonio Ingroia

Se è questa la lotta alla mafia promessa da Matteo Renzi siamo davvero lontani dalla meta. Il primo banco di prova era offerto dalla nuova versione del 416 ter, e sta miseramente per fallire. Il governo si è arreso supinamente al ricatto di Forza Italia e non ha mosso ciglio quando ieri, al Senato, senza modifiche, è stata riproposta la stessa formulazione uscita dalla Camera, migliore della norma in vigore, ma decisamente più attenuata rispetto a quella che lo stesso Senato aveva licenziato qualche mese fa. Se la lotta alla mafia la si vuole fare sul serio, servono strumenti più efficaci, il 416 ter non lo era in passato e non lo sarà in futuro se il testo licenziato dal Senato sarà quello uscito dalla Camera.
Nella formulazione originaria, varata subito dopo la strage di Capaci, il voto di scambio era punibile solo se il politico avesse promesso denaro mentre saltò l’espressione “altre utilità”. Anche un bambino capisce che se esiste un voto di scambio non avviene quasi mai attraverso denaro. Sono altre le richieste: appalti, favori, appoggi, finanziamenti, assunzioni, autorizzazioni. Insomma, “altre utilità”. Giovanni Falcone lo aveva capito benissimo e per questo voleva una legge sul voto di scambio. Una legge vera però, non una legge inutile.
Ci sono voluti 22 anni e la pressione delle associazioni antimafia perché il 416 ter fosse rivisto. La Camera aveva reintrodotto l’espressione “altre utilità” ma aveva anche abbassato le pene (da 4 a 10 anni invece che da 7 a 12) introducendo una condizione impossibile da verificare, che cioè il candidato sapesse del metodo mafioso usato per procurargli i voti.
NOTIZIE POSITIVE giungevano, invece, dal successivo passaggio al Senato, che prevedeva, oltre all’aumento della pena da 7 a 12 anni, anche la sanzione per il politico che dava la “disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associa - zione” mafiosa. Ma il successivo ritorno alla Camera e l’op - posizione di Forza Italia (ma com’è che quando l’opposizione si fa a favore della criminalità organizzata riesce sempre a portare a casa risultati?) hanno fatto tornare tutto al punto di partenza. La norma è stata di nuovo modificata, riportando la pena fra i 4 e i 10 anni ed è stata soppressa la frase sulla disponibilità a soddisfare gli interessi e le esigenze dell’associa - zione mafiosa. Col risultato che la riduzione della pena consente al politico di non andare in carcere ma di essere affidato ai servizi sociali se condannato con il minimo della pena, e così la “casta” si perdona preventivamente sanzionando il politico con una pena inferiore del “picciotto”. Come se fosse un marziano capitato per caso in campagna elettorale in contatto con le organizzazioni criminali.
E non è un caso che sia stata proprio Forza Italia, creata dal latitante per mafia Marcello Dell’Utri, a porre il veto. Peccato che Pd e tutte le altre forze politiche, M5S escluso, abbiano accettato il diktat del partito di Berlusconi.
In somma, il tentativo di depotenziare la norma è riuscito. La nuova versione, a parte l’immagine distorta che offre del politico condannato, produce effetti negativi sul piano dell’efficacia. Una volta abrogata con un emendamento la parte in cui il politico offre la propria disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze della mafia, infatti, diventa punibile solo chi promette in cambio denaro o altre utilità, senza spiegare cosa siano queste ultime. Occorre la prova di un accordo preventivo su uno specifico appalto o favore? Allora sarebbe una prova impossibile. Ovvero basta la prova della disponibilità a favorire l’associazione, da attivare volta per volta nel corso del mandato parlamentare? Ma allora come distinguerlo dalla “disponibilità a soddisfare gli interessi mafiosi” che si è voluto perdonare? Ovvero affidarsi all'interpretazione della magistratura? Ma non diventa così una norma generica e di incerta applicazione, cosa che si dice di voler evitare?
INSOMMA, a parte l’introduzione di “altre utilità”, non mi pare vi siano sostanziali miglioramenti. E la “ghigliottina” scattata al Senato è lo strumento più idoneo per soffocare il dibattito. Hai visto mai che chi si oppone al provvedimento possa spiegare ai cittadini la truffa che si sta ancora una volta perpetrando? Invece, per la tenuta delle larghissime intese, utile per le pessime riforme istituzionali in cantiere, si mantiene inefficace il 416 ter, come negli ultimi 22 anni. L'ennesima occasione mancata dal nostro ceto politico per farsi rispettare.

La Stampa 12.4.14
Il M5S presenta esposto contro tg Rai
“Renzi favorito, la sua presenza al 45%”
I grillini nella denuncia all’Agcom: «vergognosa violazione del plurarismo».
Il presidente Roberto Fico: «si rispetti la par condicio in vista delle europee»

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Il Sole 12.4.14
Società pubbliche. Verso un ampio rinnovamento in tutte le grandi controllate
Stretta finale sulle nomine Renzi: lunedì la lista dei nomi
Largo spazio alle «quote rosa» ma restano ancora alcune incertezze
di Gianni Dragoni


ROMA Il governo Renzi arriva in ritardo all'appuntamento con le nomine nelle grandi società pubbliche. Segno dell'affanno nel decidere una partita che porterà al ricambio di quasi tutti i vertici. «Aspetto il rientro del ministro Padoan da Washington e lunedì il governo presenterà i nomi», ha detto ieri il premier, Matteo Renzi, all'Ansa.
Se così sarà, il governo depositerà in ritardo di un giorno la lista dei candidati al nuovo consiglio di amministrazione dell'Eni. Lo statuto dell'Eni (articolo 17.3) dice che le liste dei candidati al cda, da sottoporre al successivo voto dell'assemblea degli azionisti, «dovranno essere depositate presso la sede sociale (...) entro il venticinquesimo giorno precedente la data dell'assemblea, in unica o prima convocazione (...)». L'assemblea Eni è convocata per l'8 maggio, e il venticinquesimo giorno precedente è appunto il 13 aprile.
L'interpretazione al ministero dell'Economia, che rappresenta l'azionista-Stato, è che siccome il termine scade la domenica può slittare di un giorno. Lunedì è l'ultimo giorno per depositare le liste dei candidati al vertice di Finmeccanica, per Enel e Terna ci sarebbe più tempo, ma verrà fatto un pacchetto unico. Anche le Poste Italiane potrebbero essere decise in questo giro.
Nel merito delle scelte, pur essendoci ancora divergenze, si delinea un generale rinnovo degli amministratori delegati, i capiazienda, a partire da Eni ed Enel: sono in uscita Paolo Scaroni e Fulvio Conti dopo nove anni. I sostituti più accreditati sono due interni: all'Eni Claudio Descalzi, direttore generale esplorazione e produzione, all'Enel Francesco Starace, a.d. di Enel Green Power. Non hanno smesso però di circolare i nomi di altri interni Enel, Luigi Ferraris o Andrea Brentan.
Renzi intende dare ampio spazio alle quote rosa nelle posizioni di vertice, ma non avrebbe ancora trovato tutte le candidature adeguate. E questo sarebbe tra i motivi del ritardo. Anche perché i cacciatori di teste del Tesoro (Spencer Stuart e Korn Ferry) nel raccogliere le disponibilità dei candidati richiedono la firma di un impegno ad accettare l'eventuale nomina: questo per evitare che dopo l'annuncio della candidatura ci siano dei ritiri. Contrariamente a quanto circolato finora, Monica Mondardini proseguirà il suo impegno come a.d. di Cir-Espresso e non andrà quindi a Poste Italiane. Patrizia Grieco, presidente di Olivetti (gruppo Telecom), potrebbe essere collocata alla presidenza di Terna o forse di Enel, mentre Marta Dassù va verso il cda di Finmeccanica.
Ieri sera ha preso quota l'ipotesi, riferita dalla Repubblica di una candidatura dell'ex ministro della Giustizia, l'avvocato Paola Severino, per la presidenza dell'Eni. Secondo lo stesso quotidiano Emma Marcegaglia, ex presidente Confindustria, potrebbe essere in corsa per un incarico, forse la presidenza Enel. Per le stesse posizioni sarebbero in corsa due diplomatici, per la presidenza Eni Giampiero Massolo, direttore del Dipartimento informazioni per la sicurezza (i servizi segreti), per quella Enel Giovanni Castellaneta, ex ambasciatore negli Stati Uniti e presidente della Sace. Renzi pochi giorni fa a «Otto e mezzo» ha detto che «l'Eni è un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera e della nostra intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti».
Finmeccanica è un altro gruppo delicato perché opera nell'industria militare e della sicurezza. Dovrebbe essere confermato presidente l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, in carica dal 4 luglio 2013, appoggiato dal Quirinale. Il nuovo a.d. potrebbe essere Giuseppe Giordo, a.d. di Alenia, l'uscente Alessandro Pansa verrebbe destinato a Fintecna. In corsa anche l'a.d. di Invitalia Domenico Arcuri, appoggiato da Massimo D'Alema e Gianni Letta, che punterebbe anche su Terna. In questa società potrebbe arrivare anche Aldo Chiarini, a.d. di Gaz de France Italia. Francesco Caio è papabile per Poste o Terna. I nomi sono più numerosi delle poltrone: alla fine più d'uno verrà scontentato.

l’Unità 12.4.14
«Tra crisi e paure, ci resta solo il nostro sindacato»
I delegati Fiom parlano delle difficoltà del lavoro e di vivere in un’ Italia ingiusta
«Basta litigare» «Gli 80 euro sono come la sociale card di Silvio»
di Massimo Franchi


Se tutti gli iscritti Fiom avessero le unghie di Tatiana, i problemi interni della Cgil sarebbero risolti. Su due dita della mano sinistra - «quella del cuore» - ha tatuato il simbolo della Fiom e il motto della resistenza contro i tagli nella sua fabbrica - «Resisteremo un minuto in più dell’Electrolux». Su due dita della mano destra - «quella della testa» - ha il simbolo del Pd e della Cgil. Invece il caleidoscopio dei 725 delegati del congresso di Rimini è fin troppo variopinto: «testa» e «cuore» non vanno quasi mai d’accordo. Ci sono i «riformisti » che difendono la posizione della Confederazione e il Testo unico sulla rappresentanza, ci sono quelli che vorrebbero una Fiom ancora più di rottura. In mezzo il grande mare della maggioranza che appoggia Maurizio Landini. Sono passati quattro anni, ma le posizioni sono le stesse del congresso di Montesilvano: tre documenti che si misureranno oggi, dopo aver ascoltato «i duellanti »: Susanna Camusso e poi Landini.
I punti fermi sembrano due: uno interno e uno politico. Nessuno si sogna di lasciare la Cgil, che è «la nostra casa, l’abbiamo fatta noi». E tutti diffidano di Matteo Renzi: «Gli 80 euro sono benvenuti, ma se mai arriveranno poi ce lo toglieranno in un altro modo». Tatiana. 39 anni, ed Elisa, 47 anni, hanno due cose in comune. Due figli e un posto di lavoro nello stabilimento Electrolux più combattivo: Forlì. I figli, nei 62 giorni di presidio fuori dalla fabbrica per evitare che l’azienda svuotasse i magazzini, «li abbiamo visti poco». Se Tatiana per loro paga «463 euro di nido e 153 di materna », Elisa ne spende di più per le rate dell’università. Sugli80 euro di Renzi rispondono: «Non è ancora chiaro come arriveranno, ma se li vedremo diremo “Grazie, ma non ci cambia niente nei conti mensili”». Da lunedì il presidio «è allentato» grazie al risultato ottenuto: «La nostra lotta ha portato l’azienda a cambiare il piano, gestiremo gli esuberi con i contratti di solidarietà». Per Francesco, figlio d’arte e giovane delegato dell’Ilva di Genova gli 80 euro sono «un limoncino per farci digerire tutto il resto, i tagli che l’Europa ci imporrà». Lui non teme «l’abbraccio mortale di Renzi » a cui chiede «di lasciare in pace il sindacato che è nato con il sangue dei lavoratori ». Sul tema del Testo unico la sua è una posizione sui generis: «Non c’è stata passione nel voto contrario nelle fabbriche semplicemente perché fuori ci sono tre milioni e mezzo di disoccupati».
Più dura è Adriana, 47enne delegata dell’Alcatel. «Lo spettacolo delle contrapposizioni fra noi e la Cgil i lavoratori non lo capiscono. Nelle fabbriche c’è una domanda fortissima di unità. Mi sento dire spesso: “Chiudeteli in una stanza e fateli mettere d’accordo, sennò facessero tutti e due un passo indietro per il bene dei lavoratori”». Su Renzi la critica è molto motivata: «Dei 600 esuberi iniziali di Alcatel, 300 verranno riassorbiti da un’azienda italiana, la Siae Microelettronica. Ma sull’Agenda digitale il cambio di governo è stato nefasto: tutto bloccato, mentre Obama investe e proprio per questo la Alcatel voleva andarsene dall’Italia, lasciando a piedi 140 lavoratori a Vimercate».
Spostandoci a Sud, il congresso ha festeggiato i delegati di Pomigliano, «quelli da cui tutta la battaglia Fiat è iniziata». Ma la vittoria della sentenza della Corte Costituzionale non è completa. Nonostante i contratti di solidarietà - cavallo di battaglia della Fiom - non tutti i lavoratori sono coinvolti. Mimmo, 33 anni, ad esempio: «Il 14 aprile tornerò in fabbrica dopo due anni e mezzo in cassa a zero ore a 750 euro al mese. Ma solo per fare il corso di sicurezza e se va bene lavorerò cinque giorni al mese». Il tutto mentre i 2.100 lavoratori che già lavorano continueranno a farlo a pieno ritmo. Lui Renzi vorrebbe «farlo cadere con uno sciopero generale».
Iole invece ha 43 anni e lavora alla Stm di Catania. Chiusa Termini Imerese, la sua è la fabbrica più grande della Sicilia: 3.800 dipendenti. Che aumenteranno di 127 unità grazie all’accordo sugli esuberi in Micron, la multinazionale che voleva licenziare 419 addetti. «Ma quei 127 - spiega Iole - li consideriamo nostri colleghi, visto che Micron li ha presi da noi nel 2007 quando ha deciso di comprare i nostri brevetti con cui si è arricchita. Una cosa del genere potrebbe capitare anche a noi. E presto perché ormai anche in Stm si pensa solo alla finanza e non si investe più, anche se siamo di proprietà pubblica». Per lei gli 80 euro di Renzi sono «come la social card di Berlusconi: mia nonna quando andava a fare la spesa diceva che usava la carta di Berlusconi, ora diranno che quegli 80 euro sono il regalo di Renzi. Solo che ce li daranno con una mano, mentre con l’altro ce li toglieranno fra Tasi e addizionali».

il Fatto 12.4.14
La Fiom di Maurizio Landini, un sindacato nel sindacato

di Salvatore Cannavò

Nelle due ore e mezzo di introduzione al congresso della Fiom, a Rimini, di cose da dire Maurizio Landini ne ha avute molte. Dalla battaglia contro la Fiat all’invito a Renzi a “non stare sereno”. Ma, soprattutto, sulla Cgil. Perché il leader dei metalmeccanici ha parlato da leader generale, da anti-Camusso rinfocolando lo scontro interno. Che non è di natura personale, come ha chiarito nella conclusione del suo intervento, ma riguarda due concezioni di intendere il sindacato. In questo senso, il futuro della Fiom è il futuro di un sindacato che cerca di difendere un’idea conflittuale della lotta sindacale, che mantiene “l’indipendenza” dai partiti e dai governi e che propone al Parlamento, alle altre forze sociali, non solo una lista di rivendicazioni, ma una visione generale. Tra i riferimenti nella relazione, Landini si è soffermato su Pio Galli, segretario generale dal 1977 al 1985, erede di Bruno Trentin, dirigente comunista e riformista. E anche su Enrico Berlinguer. Lo sguardo rivolto al Pci, dunque, rimane così come il fascino per il “paese nel paese” come ebbe a dire Pier Paolo Pasolini. Parafrasando quel concetto, la Fiom oggi è un “sindacato nel sindacato”, un insieme coeso – con una maggioranza omogenea di oltre il 70% – che osanna Gino Strada e don Luigi Ciotti, che applaudirà oggi Stefano Rodotà, che si batte contro la guerra e per l’intervento pubblico nell’economia. L’ultima ridotta di una sinistra che fu o l’unica risorsa per resistere al presente? Lo diranno i fatti. Certamente, Landini nella sua relazione ha avuto gioco facile a chiedere a Susanna Camusso cosa ne è stato di quella strategia di collaborazione che i sindacati ancora oggi rivendicano insistentemente: “Non abbiamo più le pensioni, l’articolo 18 è andato, i salari scendono, a cosa ci è servita la concertazione?”.
QUI SI CAPISCE meglio anche il rapporto, strumentale, con Matteo Renzi. Con il #matteononsta resereno , Landini ha di fatto preso le distanze dall’esecutivo, soprattutto in materia di lavoro: “Se il contratto unico si aggiunge ai 46 già presenti e diventa il 47°, è una presa in giro”. Ma, allo stesso tempo ha invitato a non farsi distrarre dalla domanda se “Renzi è di destra o di sinistra” perché “noi 80 euro di aumento non li abbiamo mai portati a casa”.
Renzi, allora, costituisce una sfida per cambiare davvero, per cambiare innanzitutto il sindacato. L’utilizzo del premier come puntello per stringere d’assedio l’attuale segreteria è probabilmente quello che brucia di più al gruppo dirigente attuale. Più degli attacchi sulla Rappresentanza e più dello scontro sulla composizione dei gruppi dirigenti, la polemica verte sulla legittimità dell’attuale strategia e quindi della leadership. Camusso, ha ricordato con perfidia Landini, non è la stessa che si faceva rappresentare il 4 agosto 2011 da Emma Marcegaglia per chiedere a Berlusconi di mollare il governo e inserire il pareggio di bilancio in Costituzione?
Occorre cambiare tutto, quindi, mimare la rottamazione renziana per cambiare un sindacato in cui oggi, tranne la natura confederale “non c’è più niente da conservare”. Serve un altro sindacato “che faccia della democrazia, al suo interno e nel rapporto con i lavoratori, il proprio rigoroso metodo d’azione”. In questa prospettiva Landini esibisce i risultati della sua Fiom: la categoria con il numero più alto di attivi, con il 54% di partecipanti al congresso contro una media del 20. Quella che, sul Testo unico, ha svolto un referendum autogestito sui luoghi di lavoro che ha coinvolto 4.850 aziende, 333.324 lavoratori con i No all'86,6%. “Questo è il risultato che ci vincola” non certo quello deciso dalla Cgil.
Nell’immediato futuro sembrano esserci due opzioni per questo progetto: cercare di battere il gruppo dirigente attuale strappandogli alcuni degli attuali alleati (Cantone dello Spi?). Ma resta l’opzione B, l’assoluta autonomia della Fiom anche dentro la Cgil. Un “sindacato nel sindacato” che si cautelerà anche dal punto di vista statutario e che non ha nessuna intenzione di mettersi a tacere. Le due ore e mezza di Landini stanno a dimostrarlo.

l’Unità 12.4.14
Il Pd e la vera sfida della sinistra
di Claudio Sardo


IL GOVERNO RENZI HA BISOGNO DI UN PARTITO DEMOCRATICO VIVO, plurale, radicato nella società. L’Italia, per risalire la china, ha bisogno di una sinistra pensante. Il Pd, se vuol essere davvero «partito della nazione», ha bisogno anzitutto di ridare un senso alla parola «partito». Ecco perché è importante l’assemblea, convocata oggi a Roma, da Gianni Cuperlo. Non si tratta meccanicamente di organizzare una minoranza, o una parte di essa. Ovviamente l’organizzazione ha un suo valore: il Pd non può permettersi il disimpegno, o addirittura l’abbandono silenzioso, di quegli iscritti che faticano a riconoscersi nel linguaggio, nei modi e in alcune scelte del premier. Ma un’impresa vive solo se il suo fine è visibile oltre gli strumenti usati. E il fine è l’Italia, la sua rinascita: non ce la farà il governo ad affrontare i momenti difficili che verranno, se il grosso della sinistra politica di questo Paese non si ritroverà nel suo progetto.
La prima condizione è non avere la testa rivolta all’indietro. Non solo il congresso è finito. È finito anche il dopo-congresso. E con la nascita del governo Renzi si è aperta una nuova stagione politica: non capirlo, vuol dire chiamarsi fuori dalla battaglia reale. Al Pd non serve un’opposizione interna. Neppure una minoranza separata. La vera sfida è comune all’intero Pd: come guidare il Paese fuori dalla secche nelle quali si è arenato, come riscrivere il patto democratico dopo il collasso della cosiddetta seconda Repubblica, come far cambiare rotta all’Europa perché, al di là delle demagogie, non si ricostruirà più l’idea di nazione azzerando la prospettiva dell’unità del continente. È un’impresa che fa tremare le vene ai polsi. Ma è anche un’occasione storica. Non possiamo permetterci di fallire. Anche perché al fallimento potrebbero non sopravvivere il Pd e la sinistra italiana. Matteo Renzi esprime una grande forza comunicativa. Parla a settori della società con cui la sinistra non riusciva più a dialogare .E interpreta a suo modo quella domanda di rinnovamento radicale, che è cresciuta nelle viscere del Paese fino travolgere tutti i precedenti equilibri. La leadership di Renzi contiene rischi enormi ma è la chance concreta che la sinistra ha davanti a sé. Peraltro Renzi è davanti al bivio, come ciascuno di noi. Può essere la risposta democratica al populismo, ma può anche rappresentare la resa alla deriva oligarchica e autoritaria. Può aiutare la ricomposizione del quadro costituzionale, ma può diventare strumento di uno scardinamento definitivo. Può avviare un cambiamento sostanziale delle politiche economiche e sociali, ma può portarci rapidamente dove hanno sempre voluto i sacerdoti del liberismo depressivo.
Il governo da solo non basta per vincere questa partita cruciale. Non basta anche se ha un premier giovane ed energico. Alle sue spalle serve un partito. Serve una società vitale. Servono corpi intermedi. Servono creatività, soggettività. Servono cultura, saperi. Compito di un governo è guidare. Ma è la democrazia partecipata, sono i partitiche danno senso e direzione alle scelte, che coltivano la visione del domani. La politica, in questi anni, è stata demolita dalla riduzione dei suoi orizzonti. Tutto schiacciato sul presente. Tutto schiacciato sul governo del breve periodo. Anzi, sull’ultimo sondaggio. La conseguenza non è stata solo il discredito dei cittadini, ma anche la dipendenza crescente da poteri e istituzioni esterne al circuito democratico. Non c’è vero rinnovamento se non si rompe questa gabbia.
È la missione del Pd e della sinistra. È il vero interesse nazionale. La sinistra che non condivide i toni e certe scelte di Renzi non può incrociare le braccia e pensare al giorno della rivincita. Così rischia di restare sugli spalti nella partita più importante. Non si tratta soltanto di emendare i testi che escono da Palazzo Chigi. Non si tratta di presidiare un nucleo di sinistra dentro il Pd. La partita è fare della sinistra il traino politico e culturale di una ricostruzione nazionale (e quindi europea). Con Renzi, attraverso Renzi, in dialettica con Renzi. A partire dalle riforme istituzionali: sono necessarie - chi gioca per farle fallire è un pazzo -ma così non vanno. Servono cambiamenti non marginali e dai gruppi parlamentari Pd è lecito attendersi molto di più di quanto non abbiano fatto finora: non crederanno davvero che l’intesa Renzi-Berlusconi sia il vangelo?
Comunque, la cosa peggiore che le minoranze congressuali di ieri possono fare oggi è rinchiudersi nel confronto parlamentare. Riaprire il libro del Pd vuol dire rianimare il partito nella società. Da chi verrà la forza di idee nuove, di spinte nuove, di sguardi sul futuro, se non dai cittadini che vivono fuori dal Palazzo? Le riforme dello Stato sono importanti ma solo nella società, quella che soffre per le fratture provocate dalla crisi, può ricomporsi un compromesso democratico. La crisi della destra e lo sfascismo di Grillo sono pericoli seri, da fronteggiare con un di più di politica e non con la lingua dell’antipolitica. Guai se nel Pd dovessero prevalere le logiche correntizie e le ipoteche sugli organigrammi di domani. Già il Pd sta pagando prezzi molto alti alla logica perversa delle fazioni legate al «partito degli eletti». Serve aria nuova. Voglia di partecipare alla battaglia senza complessi. Voglia di radicalismo democratico, che per la sinistra vuol dire battere la cultura individualista e ritrovare un primato sociale. Questa è la sfida. Non può essere delegata solo a Renzi. Non può bastare il «mi piace» o il «non mi piace».

il Fatto 12.4.14
Mea culpa seriale 
Anche Francesco chiede perdono per i preti pedofili
di Alessio Schiesari


Chiedo perdono per i sacerdoti che hanno abusato sessualmente dei bambini. Saremo forti, non faremo passi indietro”. Papa Bergoglio ieri ha parlato di pedofilia e, oltre a essersi scusato apertamente come già Joseph Ratzinger nel 2008, potrebbe avere imboccato la linea della tolleranza zero inaugurata dal suo predecessore. Che Francesco si stesse preparando ad affrontare questo tema era nell’aria. Ad agitare le acque era stata la dura relazione dell’Onu di febbraio, che accusava il Vaticano di avere coperto i sacerdoti pedofili e invitava ad aprire gli archivi. La Santa Sede ha risposto in modo poco conciliante, accusando l’Onu di interferenze “nell’esercizio della libertà religiosa”. Già da mesi le associazioni delle vittime tiravano Bergoglio per la talare, chiedendogli un confronto sugli abusi. Papa Francesco ha tirato fuori il coniglio dal cilindro lo scorso 22 marzo, quando ha nominato l’irlandese Marie Collins – violentata da un prete all’età di 13 anni – tra gli otto membri della neonata Commissione per la protezione dei fanciulli. Nelle intenzioni del Santo Padre quest’organismo dovrebbe occuparsi non solo di accertare e perseguire gli abusi, ma soprattutto di prevenirli. Stando agli annunci, infatti, stabilirà le linee guida per diventare sacerdoti e fornirà una sorta di attestato di idoneità ai seminaristi.
Questa è la linea sposata da Bergoglio fin da quando era “solo” vescovo di Buenos Aires. Dopo essere stato criticato per la scarsa loquacità sul tema degli abusi, ha affidato una prima risposta al libro Il Cielo e la terra. Qui il futuro papa spiega il suo silenzio, sostenendo di non avere mai avuto a che fare con casi di pedofilia nella sua diocesi, anche se “una volta un vescovo mi ha telefonato per chiedermi cosa fare in una situazione di questo tipo. Gli ho detto di togliere all’interessato le licenze, di non permettergli di esercitare più il sacerdozio e di avviare un giudizio canonico”. In un altro testo, Il gesuita, Francesco espone la sua linea basata sulla prevenzione: “Bisogna stare attenti nella selezione dei candidati al sacerdozio. Nel seminario di Buenos Aires ne ammettiamo il 40 per cento”. Eppure il suo pontificato non inizia con la stessa determinazione con cui si era concluso quello di Ratzinger che, tra il 2011 e il 2012, aveva ridotto allo stato laicale 400 sacerdoti accusati di abusi. La prima volta che Francesco accenna al problema è durante un angelus del marzo 2013, quando si dice “vicino alle vittime degli abusi” e invita la Chiesa a “difenderli”. Poi molti silenzi e tantissime foto a fianco dei bambini, almeno fino al mea culpa di ieri. Il vero banco di prova sarà però il processo della Congregazione per la dottrina della fede a carico dell’ex nunzio apostolico in Repubblica Domenicana, Jozef Wesolowski. Il prelato polacco è stato una figura di peso all’interno della diplomazia vaticana. Potrebbe essere l’occasione giusta per passare dalle intenzioni ai fatti.

Corriere 12.4.14
Il papa. Perdono per i preti pedofili
“I bambini crescano con madre e padre”

dall’articolo di Gian Guido Vecchi sul Corsera dal titolo
“Francesco chiede perdono per gli abusi del clero”:


(...) E poi passa al «diritto dei bambini a crescere in una famiglia», ovvero «con un papà e una mamma capaci di creare un ambiente idoneo allo sviluppo e alla maturazione affettiva».
Il Papa non accenna esplicitamente al tema delle adozioni a coppie gay ma parla della «maturazione» dei bambini «in relazione alla mascolinità e alla femminilità di un padre e di una madre». Del resto le sue parole contro le «sperimentazioni educative» sembrano riferirsi anche a un tema che in Italia è stato sollevato dai vescovi («no alla dittatura dell’ideologia gender») dopo il caso dei tre opuscoli sull’«Educare alla diversità a scuola» che sconsigliavano di leggere le fiabe ai bambini perché promuoverebbero solo la famiglia tradizionale. Il Papa ha scandito: «Con i bambini e i giovani non si può sperimentare, non sono cavie da laboratorio! Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti; conservano la loro attualità sotto vesti diverse e proposte che, con pretesa di modernità, spingono i bambini e i giovani a camminare sulla strada dittatoriale del “pensiero unico”».
Ma non basta. Parlando al «Movimento per la vita», Francesco ha ripetuto che «la vita umana è sacra e inviolabile» e «ogni diritto civile poggia sul riconoscimento di questo primo e fondamentale diritto», è tornato sul tema della «cultura dello scarto», di una «economia che uccide» in una società che «considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo». E ha ribadito «la più ferma opposizione ad ogni diretto attentato alla vita, specialmente innocente e indifesa», ricordando che «il nascituro nel seno materno è l’innocente per antonomasia» con le parole del Concilio: «L’aborto e l’infanticidio sono delitti abominevoli». Fino a raccontare di un medico che gli consegnò gli strumenti abortivi: «Pregate per quest’uomo bravo!». Esortazioni nello stile di Francesco, senza mai dimenticare la «tenerezza»: «Vi incoraggio a proteggere sempre la vita con lo stile della vicinanza: che ogni donna si senta considerata come persona, ascoltata, accolta, accompagnata».
Inconfondibile, lo stile di Francesco, anche nel telegramma per la Pasqua ebraica che ieri ha inviato al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. Un gesto di per sé tradizionale, che il rabbino ricambierà. Ma il Papa invita sempre a pregare per lui ed è notevole che lo abbia fatto anche nello scrivere alla comunità ebraica: «Volgendo il pensiero a Gerusalemme, che avrò la gioia di visitare prossimamente, chiedo di accompagnarmi con preghiere».

Repubblica 12.4.14
Quel “perché” fa la differenza
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, ho letto giorni fa in questa rubrica la lettera sulle differenze tra cristianesimo e marxismo a proposito della povertà e la sua appropriata risposta. La mia opinione al riguardo è che al di là delle conclusioni, la differenza fondamentale, sostanziale e assolutamente inconciliabile tra le due posizioni, sta in una parolina magica (così la definiva una mia grande maestra alle elementari), vale a dire “perché”. Tra il pensiero religioso che si basa sul dogma, che ha solo certezze e nessun dubbio, e il pensiero laico, la differenza è proprio quella del “cercare le cause” di un fenomeno tentare di darsi una risposta, non limitandosi alla “volontà inconoscibile” di Dio. Come lei ha scritto Marx non guardava ai poveri, ma agli sfruttati e si chiedeva il perché, cercava di individuare l’origine della disuguaglianza, nel tentativo di eliminarne le cause. Il cristianesimo si limita a prenderne atto cercando solo di alleviarne il peso. Non mi sembra differenza da poco. Forse potrei estendere il principio per applicarlo all’intero atteggiamento intellettuale che riassumiamo sotto la formula “illuminismo”.
Franca Rosselli


Per una di quelle combinazioni che a volte felicemente accadono, le osservazioni della signora Rosselli sulla parolina “perché”, coincidono con le parole che lo scrittore e teologo brasiliano (appartiene all’ordine dei domenicani) Frei Betto ha pronunciato durante il recente colloquio con papa Francesco. Citando una battuta dell’arcivescovo Hélder Camara, Betto ha ricordato al Papa: «Se do un pane a una persona affamata, la gente dice che sono un santo. Se chiedo perché questa persona ha fame, mi dicono che sono un comunista». Frei Betto è considerato uno degli esponenti di punta della teologia della liberazione che papa Wojtyla aveva nettamente escluso dal suo orizzonte pontificale. Papa Francesco sembra al contrario molto interessato e se ne possono capire le ragioni considerata in particolare la sua provenienza e le dure esperienze fatte a Buenos Aires. Il timore del papa polacco era tra l’altro che la teologia della liberazione, diffusa soprattutto nell’America Latina, potesse provocare uno scisma della chiesa cattolica. Betto ha ribattuto che questo pericolo in realtà non esiste dal momento che “gli scismi della Chiesa” sono arrivati per lo più da destra come dimostra il caso del vescovo Lefebvre. Di particolare interesse la richiesta avanzata da Betto di riabilitare finalmente due grandi figure di pensatori. Il filosofo Giordano Bruno, che il cardinale Bellarmino volle bruciato vivo a Roma (17 febbraio 1600), e il grande maestro di mistica Meister Eckhart condannato da una bolla papale nel 1329. Francesco non ha respinto la richiesta; potrebbe essere un buon segno.

Repubblica 12.4.14
Riscopriamo il tesoro nascosto dei beni culturali
di Giovanni Valentini


OLTRE al valore in sé che è un suo carattere assolutamente pre-minente, la cultura possiede anche un valore che le viene dall’utilità. (da “La cultura si mangia!” di Bruno Arpaia e Pietro Greco – Guanda, 2013 – pag. 153).
ALL’ATTO della sua nomina a ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini aveva esordito con un’impegnativa dichiarazione programmatica, affermando che il suo è «il ministero economico più importante del Paese». Ora sarà proprio in forza della spending review che Franceschini metterà mano alla riorganizzazione della struttura ministeriale, tagliando 32 dirigenti di seconda fascia. E magari promuovendo nel contempo un auspicabile ricambio generazionale. Il neo-ministro si riserva di decidere se procederà a un accorpamento delle competenze per ambiti territoriali oppure per materie. Sta di fatto, comunque, che un intervento del genere è destinato a incidere sul ruolo e sulle funzioni delle Soprintendenze, in modo da renderle più snelle e forse anche più efficienti. È proprio quello che abbiamo più volte sollecitato, contestando disfunzioni e ritardi burocratici che spesso compromettono l’attività di questo apparato statale.
Nel frattempo, Franceschini ha attuato la normativa anticorruzione, in base alla legge 190 del 2012 contro l’illegalità nella pubblica amministrazione, confermando anche Antonia Pasqua Recchia nel ruolo di segretario generale. E ne prendiamo atto volentieri. Ma in questo Piano 2014-2016, ultimo aggiornamento 7 aprile, la rotazione triennale dei dirigenti - prevista come misura cautelare da una circolare del Segretariato generale del ministero e ritirata dall’ex ministro Massimo Bray - viene rinviata entro giugno prossimo ad atti successivi che la gradueranno in rapporto alla gravità e alla ricorrenza del rischio, per gli appalti, le autorizzazioni e in particolare per le mostre.
Si può accogliere, comunque, come un segnale importante che Franceschini consideri il “Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo”, secondo la denominazione ufficiale, un ministero “economico”. Anzi, testualmente, «il più importante». Questo è, infatti, il principale caveau dell’Italia; il maggiore deposito di risorse - naturali, storiche, artistiche e culturali - a nostra disposizione. E oltre a salvaguardarlo, è doveroso valorizzarlo anche a fini turistici, occupazionali e appunto economici.
È vero, ed è sbagliato, che l’Italia investe troppo poco in questo campo: nell’ultimo decennio, il bilancio del ministero s’è quasi dimezzato, passando dai 2,7 miliardi del 2001 (pari allo 0,37% del bilancio totale) al miliardo e mezzo del 2013 (appena lo 0,2). E si tratta di un settore che vale almeno 80 miliardi di euro all’anno e corrisponde a circa il 5,8% del Pil. Bisogna quindi spendere di più, anche perché un euro investito nella cultura ne può rendere statisticamente da due a sei.
Va in questa direzione l’incontro che s’è svolto tra il ministro Franceschini, il presidente dell’Anci Piero Fassino e i sindaci di alcune importanti città d’arte, per favorire la partnership pubblico-privato e la valorizzazione del patrimonio culturale. Lo Stato, con le sue risorse, non riuscirà mai a gestirlo interamente da solo. E occorre perciò fissare una scala di priorità, in modo da concentrare pragmaticamente i fondi disponibili sui beni di maggiore interesse e rilevanza.
Altrimenti, il rischio è quello di disperdere risorse scarse in mille rivoli, frenando o paralizzando di fatto lo sviluppo turistico ed economico. Dobbiamo tenere tutti alla Bellezza del nostro Paese, ma al di fuori di una visione puramente conservativa o contemplativa, quasi sacrale dei beni artistici e culturali. L’Italia non si può trasformare in un museo della memoria, un magazzino proibito di reperti storici.
Ben venga, allora, la partnership tra pubblico e privato, a patto che rispetti una gerarchia di valori fondamentali: a cominciare dall’identità nazionale che racchiude il nostro passato e il nostro futuro. Ma, nel pieno di una crisi come quella che attraversiamo, è tempo di uscire dalla retorica del protezionismo fine a se stesso per interpretare correttamente l’articolo 9 della Costituzione, dove si parla al primo comma di “promozione” della cultura e al secondo di “tutela” del paesaggio, del patrimonio storico e artistico della Nazione. È una grande operazione culturale che richiede, anche sul piano mediatico, un impegno e una mobilitazione collettivi.

Repubblica 12.4.14
I bilanci falsi di Alemanno “Un buco da 500 milioni” Ma Marino non si salva
La relazione della Ragioneria generale dello Stato mette sotto accusa il precedente sindaco e i conti attuali
di Giovanna Vitale


ROMA. Quando, appena eletto, il sindaco Ignazio Marino chiese agli ispettori della Ragioneria generale dello Stato di calcolare l’esatta entità del buco lasciato dal suo predecessore, tutto si aspettava tranne che la due diligence sui conti del Campidoglio gli si sarebbe ritorta contro. E invece la “Relazione sulla verifica amministrativo-contabile a Roma Capitale”, 326 pagine che Repubblica è in grado di anticipare, non solo alza il velo sul Sistema Alemanno – che, a colpi di bilanci aggiustati e spese folli, ha trasformato l’amministrazione comunale in una gigantesca vacca da mungere – ma denunciano come la giunta di centrosinistra abbia finora operato in assoluta continuità con quella di centrodestra. «Anche a seguito dell’insediamento dell’attuale consiliatura», scrivono infatti gli ispettori nelle conclusioni finali, «la situazione non appare migliorata, essendosi ripetuti i medesimi comportamenti registrati negli anni precedenti».
Un atto di accusa durissimo che, oltre a interessare la magistratura contabile, rischia di finire dritta alla procura della Repubblica. Basta aprire la relazione a pagina 317: «I documenti contabili» relativi al periodo 2009-2012 «espongono dati che non rappresentano in maniera veritiera la condizione in cui versa l’ente. La presenza di debiti fuori bilancio, la conservazione di resi- dui attivi non supportati da titolo giuridico e l’inadeguato accantonamento di somme dal fondo di svalutazione crediti» ha creato «un effettivo disavanzo di amministrazione di quasi 500 milioni di euro». Il dato che balza subito agli occhi degli ispettori è l’incoerenza dissipatrice di Alemanno che, una volta eletto, con una mano chiede aiuto al governo Berlusconi per coprire il buco ereditato da Veltroni (9 miliardi e rotti), con l’altra spende e spande oltre le sue possibilità, arrivando a triplicare i trasferimenti alle municipalizzate. Dove, nel frattempo, aveva piazzato i fedelissimi a furia di assunzioni facili e commesse sospette. «L’esame dei dati di bilancio», osservano gli ispettori «ha dimostrato come l’ente, nonostante le difficoltà finanziarie che hanno indotto nell’anno 2008 lo Stato ad accollarsi il debito pregresso del Comune di Roma, abbia continuato ad aumentare progressivamente la spesa corrente». Schizzata dai 3,2 miliardi del 2007 ai 4,1 del 2012 e perennemente superiore alle entrate. Fra le voci «che più hanno inciso sull’incremento» si cita «il costo del contratto di servizio di trasporto», ovvero i soldi dati all’Atac, l’azienda di Parentopoli, «passato dai 198 milioni del 2007 ai 576 del 2009 (271 milioni al netto del trasferimento regionale), per poi crescere ulteriormente sino a raggiungere nel 2012 l’importo di 668 milioni (480 milioni al netto del trasferimento regionale)». Ma c’è dell’altro. «Evidenti irregolarità» sono state rilevate «nelle procedure di affidamento degli appalti di servizi e nella corresponsione del trattamento accessorio al personale dipendente, in palese violazione del contesto normativo e contrattuale vigente ». Significa centinaia di milioni elargiti a pioggia per incentivi e premi. Mentre «criticità molto significative » presentano «le procedure di reclutamento del personale », fisso e a termine. Tra i beneficiari, «un gran numero di soggetti privi dei requisiti», spesso titolari di stipendi «doppi rispetto al trattamento tabellare». Un vizio contagioso, dal momento che «le medesime irregolarità » sono state rilevate sui «contratti sottoscritti nella seconda parte del 2013» da Marino. Non l’unico: «Anche le procedure di affidamento degli appalti dei servizi relativi al sociale e al global service nelle scuole si sono mantenuti fuori dal perimetro della legalità». E a riprova che la differenza con Alemanno è sottile, gli ispettori concludono: «L’attuale amministrazione, in linea con i comportamenti precedenti, ha dimostrato una notevole celerità nell’avanzare richieste di supporto finanziario allo Stato, mentre ben poco ha fatto per attivare entrate proprie».

Il Sole 12.4.14
Enti locali. Somme erogate nel 2008-13 e da recuperare
Comune di Roma, 600 milioni pagati per stipendi irregolari
di Gianni Trovati


MILANO.
C'è anche Roma fra le città che hanno sforato i vincoli per la contrattazione integrativa dei dipendenti, e che sono incappate nelle censure della Ragioneria generale dello Stato. Il documento di Via XX Settembre, frutto di una due diligence chiesta dalla stessa Giunta Marino, è arrivato in Campidoglio ieri mattina, passa al setaccio gli anni 2008 e 2013 e parla di spese di personale irregolari erogate negli anni per 529 milioni di euro (più 76 milioni di troppo ai dirigenti). Una cifra pesante, che nasce anche dall'effetto trascinamento di contratti del passato (nel 2009 gli ispettori della Ragioneria avevano contestato una serie di clausole risalenti al 2004, ma senza risultato), e dipende naturalmente anche dalle dimensioni del Comune: 24mila dipendenti, 1,1 miliardi di euro di spesa del personale ogni anno. Ma che cosa accade ora?
La vicenda si intreccia alle novità previste dal «salva-Roma» approvato giovedì alla Camera, e ora all'esame del Senato. Con le regole in vigore oggi, le contestazioni della Ragioneria generale portano all'obbligo di recupero individuale delle indennità illegittime a carico di chi le ha percepite, o al rischio di condanna erariale per gli amministratori che restano indifferenti alle indicazioni dell'Economia e vengono poi messi sotto esame dalla Corte dei conti. Un percorso di questo tipo è già stato imboccato a Firenze (50-60 milioni di euro contestati a causa di un contratto firmato nel 2003: l'udienza in Corte dei conti è in programma per il 7 luglio), a Vicenza, a Reggio Calabria e in molti altri Comuni.
Proprio il diffondersi di questi casi ha mosso la mano del Parlamento, che nella legge di conversione del «salva-Roma» ha provato prima a "sanare" i vecchi contratti stoppando le sanzioni e poi, dopo varie riformulazioni, ha approvato un compromesso ricco di incognite. La nuova regola (si veda anche Il Sole 24 Ore di ieri) cancella la nullità degli atti fuori regola, a meno che non sia già stata riconosciuta la responsabilità erariale, ma impone di recuperare le somme spese di troppo dai fondi attuali per la contrattazione decentrata, cioè quelli che servono a pagare le indennità di posizione e le altre voci accessorie dei dipendenti. L'applicazione di una dieta di questo tipo impone tagli ai fondi decentrati fra il 10 e il 30% a seconda delle città, e se cancella il problema delle restituzioni sul passato mette però a rischio il mantenimento dei livelli retributivi attuali: ieri sia il sindaco Ignazio Marino sia il suo vice, Luigi Nieri, si sono affrettati a spiegare che «gli stipendi dei dipendenti non saranno toccati», ma la partita è delicata e comincia ora.

l’Unità 12.4.14
A Roma i «carbonari» del Quadraro ricordano la Resistenza
la borgata romana fu teatro della violenza nazifascista Quasi mille deportati


TRE PRANZI NEL SEGNO DELLA MEMORIA NELLA BORGATA ROMANA CHE 70 ANNI FA FU TEATRO DELLA VIOLENZA NAZI-FASCISTA. Quasi mille deportati mai raccontati nei libri si storia. I nazisti lo chiamavano «il nido di vespe». È il Quadraro, un quartiere popolare di Roma tra la Casilina e la Tuscolana. Più che un luogo, un simbolo. Simbolo di dignità, solidarietà e Resistenza. Un paese nella città, medaglia d’oro al valor civile.
La rappresaglia si scatenò dopo l’agguato che Giuseppe Albano, detto il Gobbo del Quarticciolo, tese ai soldati tedeschi a Cinecittà. Con la sua banda ne uccise tre. Era il 10 aprile del 1944. La reazione, durissima, arrivò una settimana dopo. Alle 4 del mattino il comandante Kappler diede il via all'Operazione Balena. Il quartiere fu circondato dalla Gestapo, dalle SS e dagli agenti della Banda Koch. Perquisirono casa dopo casa, portarono via quasi mille uomini tra i 18 e i 50 anni, li spedirono nei campi di concentramento della Germania e della Polonia come «operai volontari », i cosiddetti «schiavi di Hitler». Ne ritornarono meno della metà.
La storia qui, in questo paese nella città, è cosa viva. E rivive grazie alla memoria degli anziani e alla tenacia dei giovani. Il Quadraro è un quartiere in movimento. Tra gli ultimi progetti c’è il Muro, iniziativa di arte urbana ideata da Davide Vecchiato, museo all’aperto che ospita i graffiti degli street artist di tutto il mondo. Qui, oggi, si terranno i pranzi carbonari, un’idea bellissima. A partire dalle 14 in tre luoghi segreti - cantine, garage, giardini o cucine della gente del Quadraro che aprirà le proprie case - sono a disposizione altrettanti menu. Per ognuno c'è un «capo mastro», una sorta di griot che racconta, riannoda i fili anche attraverso il cibo. Il primo è Alessandro Portelli e il pranzo è dedicato alla «Borgata Ribelle» fatto dalle donne del quartiere, quelle che cercavano la cicoria e i cardi nei prati nei giorni della guerra, quelle senza più fedi al dito requisite dai fascisti. Crostoni di pane nero e crema di ceci, le favette e le patate, la misticanza e le briciole di pecorino. Sarà proprio Portelli, che ha conosciuto i partigiani di Roma e ha incontrato i familiari degli uccisi alle Fosse Ardeatine, a raccontarci ciò che non è scritto sui libri di storia. Come gli eventi di quell’aprile del ’44.Come ha sempre fatto.
Il secondo menu è quello organizzato da Cucine In Lotta, i lavoratori del servizio di ristorazione del Policlinico Umberto I di Roma. Un mestiere, quello dei pasti in corsia, che si scontra con le scelte dell’azienda. Scrivono: «È successo qualcosa, niente di nuovo, niente di buono. Anzi quello che c’era di buono hanno deciso che fosse da eliminare. Per cucinare la resistenza di oggi, tutti questi elementi vanno dosati, misurati; va creata un’alchimia delicata e fragile, ma imprescindibile per mettere sapore e senso in tavola. Soprattutto nella mensa di un ospedale. Quando ci è permesso. Perché la Rivoluzione non si ammali, bisogna nutrirla di umanità. Hanno provato a impedircelo, ma noi ci incaponiamo, come le melanzane». E quindi semola e baccalà, finocchi e uova e un dolce a sorpresa per lottare contro le ingiustizie e la tristezza.
Terzo menu dedicato alle Resistenze Naturali con Jonathan Nossiter e Donpasta. Il primo è il regista del documentario Mondovino del 2004, passato a Cannes. Il secondo è un gastro filosofo emigrante che per l’occasione prenderà il controllo dei fornelli insieme alla brigata «The Guancials». Per appetiti importanti: le ricette sono a base di strutto, lardo, aliciotti, puntarelle e aglio.
Ogni menu costa 25 euro a persona e il ricavato sosterrà gli ex lavoratori delle mense del Policlinico. Organizzano i tipi di Soul Food che da anni mettono insieme pietanze e musica di strada, racconti e passioni. Sul sito soulfood. it le indicazioni per partecipare alla riunione carbonara. L’appuntamento è 70 anni dopo sempre lì, nel nido delle vespe.

l’Unità 12.4.14
Opg, il silenzio non serve a nessuno
Occorrono veri interventi per la messa in sicurezza di pazienti operatori e comunità
di Maria Antonietta Farina Coscioni


LUOGHI DI «ESTREMO ORRORE» CHE «UMILIANO L'ITALIA RISPETTO AL RESTO DELL'EUROPA »;COSÌ IL PRESIDENTE GIORGIO NAPOLITANO definì i sei ospedali psichiatrici giudiziari esistenti. Era il luglio 2011, la tragica realtà degli Opg era esplosa in tutta la sua drammaticità, il Parlamento ne aveva disposto la chiusura, prevedendo che i circa mille malati venissero assistiti in strutture adeguate che dovevano essere approntate dalle regioni. A dire il vero gli Opg erano stati dichiarati dichiarati illegittimi già dal 2003, ma come spesso accade in Italia si era fatto finta di nulla, proseguendo a colpi di proroga.
Così quei malati hanno continuato a restare rinchiusi in strutture-galera fatiscenti, con assistenza ridotta al minimo, spesso vittime di vere e proprie torture. Regioni ed enti locali si sono sempre giustificate dicendo che mancavano i fondi per realizzare strutture residenziali alternative non più gestite dall'autorità giudiziaria, poiché la legge prevede un passaggio di competenza alla sanità pubblica. Certo, abbiamo poi visto in Lazio e in Lombardia, in Piemonte e in Sicilia che fine ha fatto il denaro a disposizione delle regioni! Fatto è che le Regioni sono inadempienti: dovevano occuparsi della gestione e del mantenimento di queste strutture e le Aziende Sanitarie Locali dovevano avviare progetti di riabilitazione e reinserimento sociale per le persone che sarebbero dovute essere dimesse. E invece nulla di tutto ció.
In questi giorni, sia pure con rammarico, il presidente Napolitano ha firmato l’ennesima proroga e quelli che sono stati definiti «un oltraggio alla coscienza civile del nostro Paese, per le condizioni aberranti di vita» sono ancora in funzione. Molti degli attuali internati che hanno scontato la pena e sono stati giudicati non socialmente pericolosi, quindi «dimissibili», restano all' interno di queste strutture proroga dopo proroga. Indubbiamente va scongiurato il rischio che le nuove strutture regionali ricalchino il modello dei vecchi Opg, e che quindi psicologi, psichiatri e altri operatori si debbano occupare più di contenzione che di cura. Occorre insomma scongiurare la creazione di mini Opg/manicomi regionali e realizzare servizi di salute mentale 24 ore su 24 integrati con i servizi territoriali, che promuovano formazione lavorativa e inclusione sociale.
Occorre certo tener presente che sono necessari interventi tali da garantire per esempio la messa in sicurezza sia dei pazienti sia degli operatori e della comunità. Mentre oggi i reparti non sono assolutamente preparati a gestire, in assenza di una rete coordinate alle spalle, la situazione che si è venuta a creare. Ora è vero, come è stato osservato, che chiudendo gli Opg oggi molti degli internati potrebbero confluire in carceri già sovraffollate e se la situazione cambierà potrebbe davvero diventare esplosiva. Edè verissimo che il superamento degli Opg e il pieno passaggio dell’assistenza psichiatrica nelle carceri al sistema sanitario nazionale devono procedere parallelamente nell’ambito della più ampia riorganizzazione della Sanità penitenziaria e delle nuove competenze dei Dipartimenti di Salute mentale. Ma è accettabile che un Paese civile non sappia, non voglia, non possa assicurare un’assistenza degna di questo nome a circa mille persone, condannate anno dopo anno, proroga dopo proroga, a vivere in condizioni unanimemente riconosciute come vergognose e disumane? Presidente Renzi, un twitter, per favore su questa drammatica urgenza.

il Fatto 12.4.14
Savona, disabili denudati e costretti a picchiarsi
Il personale della clinica umiliava e maltrattava i malati psichici oltre 100 casi di violenza. Nei guai tutto lo staff: 12 arresti e 4 indagati in ospedale
di Carlo Di Foggia


Picchiarli non bastava. E così hanno anche trasformato una delle vittime in aguzzino. La perversione della violenza: denudato, e costretto a sua volta a picchiarne un altro. “Io con quello non ci voglio stare: mi massacra”, implorava un paziente ai propri familiari. Nel girone degli orrori di Vado Ligure non ci voleva tornare.
È IL PADIGLIONE “3D” del “Centro Vada Sabatia”. Da lì provenivano le urla, i pianti e i lamenti dei malati. Disabili psichici “accuditi” brutalmente nella struttura sanitaria gestita dalla Segesta di Milano e convenzionata con la Regione Liguria, che da ieri ha sospeso i pagamenti e il rinnovo della convenzione. Umiliazioni, schiaffi, calci e pugni sferrati ai pazienti dagli “angeli custodi” trasformatisi in demoni. 12 di loro (su 16 lavoratori totali) sono finiti agli arresti: nove in carcere, tre ai domiciliari. Gli altri quattro sono indagati. Tutto documentato dalle microcamere installate dagli investigatori. “Man mano che visionavamo il materiale, non potevamo credere ai nostri occhi”, raccontano. Oltre 100 episodi di violenza in 50 giorni di registrazioni. Disabili presi a schiaffi, sbattuti con violenza contro il muro o buttati a terra a colpi di karate. In molti casi si vedono gli operatori afferrare i pazienti per le orecchie e trascinarli fuori dalle stanze. Anche quando, terrorizzati, si accasciano a terra immobili, arrivano calci e pugni. Manca l'audio. “Lì si sentono le urla e i pianti disperati”, assicurano i finanzieri. Da ieri, le fiamme gialle e la Corte dei conti stanno verificando se oltre ai soprusi ci sia stato anche un danno per le casse dell'Asl, che versa una retta di 160 euro al giorno per ogni paziente della struttura, che arriva a 240 posti letto. Un grande edificio colorato sulla riviera ligure di ponente. Dentro, l’in - ferno. Tutto era partito dalla segnalazione del padre di uno dei degenti arrivata al 117, il figlio non voleva più restare nella struttura perché, spiegava piangendo, chi lo accudiva lo picchiava selvaggiamente. Per montare le microcamere e i microfoni, gli investigatori si sono finti tecnici dell’elettricità. “Abbiamo trovato una situazione di agghiacciante gravità con una prepotenza e violenza di portata inaudita”, spiega il pm, Giovanni Battista Ferro. Nessuno si era mai accorto di nulla. “Siamo attoniti - spiega la direttrice, Maria Rosaria Siffredi - Ci costituiremo parte civile. Abbiamo sempre garantito la formazione del personale”. I dipendenti arrestati hanno tutti tra i 23 e i 59 anni, italiani e stranieri di Equador, Marocco, Perù e Romania. In carcere, con l'accusa di maltrattamenti e concorso in lesioni sono finiti Stellina Cirillo, Mirco Burattini, Marco Cichero, Mauro Gaetano, Vincenzo Cirillo, Elisabetta Cerisola, Eugenio Lucente, Daniel Negrea, Luis Fernando Arevalo, Tatiana Coronel Hernandez, Mohammed Benerras e Flores Zegarra. Poi c’è il danno erariale. “Investi - gheremo anche su quello - spiega un finanziere - badando al bilancio dello Stato: per ogni degente si spendono circa 5 mila euro al mese di soldi pubblici, pagati da tutti noi”. Andrà verificato se quei soldi sono stati effettivamente spesi per le cure. L'accreditamento della struttura con l'Asl locale, doveva essere rinnovato a giorni, ma ieri la Regione ha fermato tutto in attesa di “una piena valutazione dell'accaduto”. “Quello che è successo è gravissimo, dicono gli assessori regionali alla Sanità e al Welfare Claudio Montaldo e Lorena Rambaudi. “Non avevamo mai sentito voci su maltrattamenti”, assicura il sindaco di Vado Attilio Caviglia. Ma violenze e soprusi in Residenze di questo tipo non sono nuove in Liguria. Due episodi sono emersi solo nel 2012. Il 18 gennaio, un blitz della Guardia di finanza nella casa di riposo Borea di Sanremo, ha portato all’arresto di sette operatori. L’inchiesta si è poi allargata e dieci persone sono finite sotto indagine.
NEI GIORNI scorsi nell’udienza preliminare al tribunale d’Imperia, in 5 hanno patteggiato pene di poco superiori a tre anni, due sono stati rinviati a giudizio, mentre tre saranno processati con rito abbreviato. E la scorsa settimana la procura di Genova ha chiesto il rinvio a giudizio di 11 tra dirigenti, medici e operatori sanitari per i maltrattamenti sui disabili assistiti nella Residenza terapeutica “I Cedri” a Reppia nel comune di Né.

La Stampa 12.4.14
Maltrattamenti a malati psichici
dodici arresti a Vado Ligure
Blitz della Guardia di Finanza: nove persone in carcere, tre ai domiciliari
Uno dei malati: “Io con quell’operatore non ci voglio stare: mi massacra”
Riprese con telecamere nascoste per cinquanta giorni
di Claudio Vimercati

qui

La Stampa 12.4.14
Padova. Immigrato denuncia:  “Massacrato dai vigili”
L’uomo irriconoscibile per i pugni presi in faccia
di Massimo Guerretta

qui

La Stampa 12.4.14
Silvio Viale,: «Ma non c’è alcun nesso con la Ru486»
intervista di Beppe Minello


«Guardi, il mio primo pensiero va a quella donna e alla sua tragedia. Ma se mi chiede qual è il rapporto fra quella morte e la pillola Ru486 le rispondo che è nullo. E’ come se dicessero che è colpa sua, visto che è al telefono con me, se, ora, mi venisse un infarto». Silvio Viale, radicale e medico che s’è battuto più di tutti per l’uso della «pillola» abortiva, oggi dirige il principale servizio di interruzione volontaria della gravidanza al Sant’Anna di Torino, e non ha dubbi.
Perché?
«Perché anche se sarà l’autopsia a dare maggiori chiarimenti su questa morte improvvisa in gravidanza per complicazioni cardiache, sin da ora posso affermare che non vi è alcun nesso teorico di causalità con il mifepristone, cioè l’Ru486, perché non ci sono i presupposti farmacologici e clinici. E respingo ogni strumentalizzazione»
Lei come la spiega la tragedia dell’ospedale Martini?
«L’episodio ricorda la prima e unica morte in Francia nel 1991, agli inizi del suo uso, che indusse a modificare il tipo di prostaglandina per tutti gli interventi abortivi introducendo il misoprostolo (Cytotec). Sono gli altri farmaci, gli stessi che si impiegano per gli aborti chirurgici, i maggiori sospettati di un nesso con le complicazioni cardiache. Sono decine di milioni le donne che hanno assunto la Ru486 nel mondo e 40.000 in Italia».
E al Sant’Anna, il suo ospedale?
«Sono 5.128 le donne che hanno assunto la “pillola” abortiva, 429 in questi primi mesi del 2014. La Ru486 ha rivoluzionato tempi e modalità degli aborti rendendoli, senza l’intervento chirurgico, meno traumatici. Ogni anno al Sant’Anna 2-3 donne debbono subire un intervento addominale come complicazione di una interruzione di gravidanza chirurgica. A differenza del mifepristone sono gli altri farmaci utilizzati negli aborti, sia medici sia chirurgici, che possono avere effetti cardiaci, seppure raramente»
Cosa bisognerebbe fare?
«Questa tragica fatalità dovrebbe favorire la creazione di servizi specialistici adeguati, dove le donne possano avere le migliori informazioni e i migliori trattamenti. I rischi di eventi eccezionali sono inevitabili e non rassicura di certo che siano inferiori a quelli che si corrono con la gravidanza».

La Stampa 12.4.14
I Merloni escono da Rcs
Venduto lo 0,51% del gruppo


La famiglia Merloni dice addio a Rcs Mediagroup, vendendo la quota residuale dopo la diluizione seguita alla mancata adesione alla ricapitalizzazione. Da Hanoi, dove ha inaugurato uno stabilimento di Ariston Thermo, il gruppo di cui è presidente, Paolo Merloni spiega così la scelta: «Avevamo deciso di non partecipare all’aumento di capitale e da quando mi sono dimesso dal Cda non ho seguito più le vicende del gruppo». Ma, precisa Merloni, «non condividevo le modalità della ricapitalizzazione e avevo riserve sul piano», così «abbiamo venduto sul mercato lo 0,51%» in portafoglio. A proposito del direttore del Corriere della Sera dice: «Io de Bortoli lo terrei». Alla trasferta in Vietnam partecipa anche Francesco Merloni, padre di Paolo, ex ministro, nonché ultimo presidente del patto di sindacato di Rcs, prima del suo scioglimento. Intanto ieri a Piazza Affari il titolo del gruppo editoriale ha chiuso in rialzo del 5,19%. [R.E.]

Il Sole 12.4.14
Viaggio in Europa/Il fronte del «no»
Il laboratorio dell'austerity rilancia la sinistra radicale
di Vittorio Da Rold


ATENE. La novità delle elezioni europee in Grecia si chiama "To Potami", il fiume, una formazione politica creata dal nulla dal giornalista televisivo di successo, Stravos Theodorakis, omonimo del famoso musicista, Mikis, la colonna sonora della Resistenza al regime dei colonneli.
"To Potami", che è dato al 5%-7% nei sondaggi, raccoglie la marea degli scontenti dei vecchi partiti tradizionali. Una formazione apolitica, né di destra né di sinistra che sta aumentando il clima di demagogia delle prossime elezioni europee tenendo conto che il 77% dei greci non ha fiducia nella Ue rispetto alla media Ue del 58%, ma che, paradossalmente, il 62% è a favore dell'euro. Inoltre solo il 42% dei greci si sente europeo contro una media Ue del 59 per cento.
La neoformazione di "To Potami" si è costruita sulle rovine proprio del Pasok, il partito socialista che aveva il 44% dei consensi e oggi viaggia al 6%, e raccoglie gli scontenti di venti anni di politica clientelare e soldi facili che ha portato il paese alla rovina. Il movimento si ispira al filosofo greco Eraclito (è sempre lo stesso fiume, ma mai la stessa acqua, tutto scorre). Ma secondo i sostenitori della sinistra radicale, Syriza e il quotidiano Avgi, vicino al movimento, si tratta di una formazione creata apposta per disperdere voti e bloccare le chance della sinistra di vincere le prossime elezioni. «To Potami non dice niente di concreto per non scontentare nessuno», accusa Syriza che ne teme la concorrenza tra la massa dei disoccupati (26,7%) e degli scontenti.
Petros, per esempio, è un broker assicurativo con uffici ad Atene. Tratta ogni giorno con colossi europei come le Generali, Allianz e Axa. Gli affari languono, ma le cifre dell'economia greca, dopo sette anni di recessione, volgono al cauto ottimismo: crescita del 2,9% nel 2015, surplus primario di 3,54 miliardi nei primi mesi di quest'anno, clamoroso ritorno sui mercati ieri con un bond di tre miliardi al 4,95% dopo quattro anni di esilio. Secondo il governo sono state create 41mila nuove società nel 2013, di cui almeno 144 sono start up in settori di punta secondo la società non profit Endeavor Greece.
A preoccupare il broker Petros è la tenuta del Governo Samaras, che oggi ha soli due deputati di maggioranza (152 su 300), un esecutivo sfiancato dalle politiche di austerità volute dalla troika (Ue, Bce e Fmi).
Senza contare, dice Andreas, titolare di un bar vicino a piazza Syntagma dove vende yoghurt greco ai turisti, che il Pasok, l'altro partito che sostiene la maggioranza pro-Europa, e che si presenta come Ulivo, rischia l'implosione con la guerra intestina tra il ministro degli Esteri, Evangelos Venizelos e l'ex premier George Papandreou, che si dice stia pensando a fondare a sua volta una nuova formazione politica.
La sinistra radicale sente odore di sorpasso alle elezioni europee grazie anche all'erosione a destra degli estremisti di Alba dorata, che nonostante le decine di arresti rimane forte nei sondaggi. «L'Europa è dominata dalle politiche neoliberiste della Germania - dice Vassilis Primirikis, 62 anni, membro della segreteria esecutiva di Syriza -. Berlino accetterà il dialogo solo se costretta. Proponiamo una conferenza europea sul debito sul modello di quella del '53 che cancellò gran parte del debito della Germania post-bellica. Oggi le politiche della Merkel stanno facendo sparire le borghesie nazionali degli altri paesi europei che dicono basta con l'euro dominato dai tedeschi. Quando arriverà l'ora delle elezioni anticipate in Grecia, che si sta avvicinando, allora cercheremo alleanze con questi settori della borghesia contrari alle politiche di austerità ed egemonia della Merkel». «Non vogliamo diventare la nuova Mosca ed esportare il nostro modello politico, ma certamente il centro-sinistra in Grecia ha fallito, è stata una catastrofe per il paese e per la Sinistra», conclude Primikiris.
Nella nuova e più modesta sede del Pasok, il partito socialista che oggi rischia l'estinzione dopo i fasti dell'era di Andreas Papandreou, Tsipras invece è la "bestia nera": «Vende illusioni da anni '80 mentre oggi dobbiamo fare i conti con una reltà di recessione, il suo è un partito professionale elettorale» - mi dicono davanti a una tazza di caffé gli stretti collaboratori di Nikos Androulakis, 35 anni, brillante segretario generale del Pasok e candidato all'europee per "l'Ulivo", la nuova formula scelta dal Partito socialista per cercare il rilancio alle europee.
Chi è dunque davvero Tsipras? Ed è davvero un populista anti-europeo? «Sì, la retorica di Tsipras è dominata dalla denuncia rituale del neoliberismo, dei poteri stranieri che hanno scelto la Grecia come terreno dei loro esperimenti disumani e dei loro servitori», dice ironico Manos Matsaganis, professore all'Università di Economia di Atene che alle elezioni del 2012 si era candidato nelle liste del partito di Sinistra democratica di Fotis Kouvelis, oggi all'opposizione perché contrario alla brutale chiusura della tv pubblica Ert, e in crisi di consensi per aver sostenuto la coalizione pro-euro e l'austerity.
«Le radici della crisi possono riassumersi così: Atene ambiva a un tenore di vita nordamericano con una cultura imprenditoriale balcanica, tradizioni lavorative medio orientali e un'amministrazione pubblica oscillante tra spreco e corruzione», spiega Matsganis, sicuro che solo se i greci diventeranno un po' più rigorosi come i tedeschi e i tedeschi un po' più prodighi come i greci si troverà la strada verso un equilibrio europeo.

l’Unità 12.4.14
Israele Palestina
Il falso rituale chiamato trattative
di Moni Ovadia


APPENA MI SVEGLIO, GRAZIE AI PRODIGI DELLA TECNOLOGIA, COMPIO IL RITO di scaricare sul tablet i quotidiani. È un eccellente sistema per farsi del male. Il primo giornale che scarico è l’israeliano ha’aretz, nell’edizione internazionale. Autorevole foglio progressista dello Stato ebraico, ha’aretz è scritto in un eccellente inglese e si avvale della collaborazione di giornalisti, editorialisti ed opinionisti di prim’ordine. I miei preferiti sono Gidon Levy e Amira Hass. Apprezzo e condivido il loro approccio critico alla questione israelo-palestinese e a quella mediorientale in genere. Ma ha’aretz gode anche dell’apporto di altre firme di grande livello.
Due giorni fa accingendomi alla lettura della sezione opinioni, sono stato colpito da un titolo: «Per favore signor Kerry, ci lasci perdere». L’articolo a firma di Avirama Golan, iniziava così: «Per favore, signor Kerry ci lasci soli, lasci che i nostri veri colori splendano. Se riusciamo a vederli in tempo forse c’è ancora la possibilità di cambiarli. Per favore la smetta di fare la spola fra noi e i palestinesi. Basta! Si prenda una vacanza, si riposi. Avremmo dovuto essere lasciati per conto nostro sin dal principio - senza l’America, l’Ue e tutti i benintenzionati del mondo -, fra il mare a cui diamo le spalle e le montagne che idolatriamo, con tutti i vicini intorno a noi, inclusi quelli della porta accanto che abbiamo imprigionato all’interno di muri, su una terra solcata dalle cicatrici delle tangenziali che solo a noi è permesso usare, il cui paesaggio è asfissiato da case dai tetti rossi in cui noi soli possiamo abitare, le cui strade sono bloccate da check point sorvegliati dai “nostri” ragazzi di modo che i “loro” ragazzi non possano passare. Forse se veniamo abbandonati da soli con il falso rituale chiamato negoziati e che è diventato fine a se stesso, lo faremo finire (...). Lo stato degli ebrei che si proponeva di offrire rifugio a profughi perseguitati e di essere un’entità sovrana e libera per tutti i suoi cittadini, è diventato uno stato ebraico isolazionista, che esclude e gestisce le vite della sua cittadinanza secondo una visione del mondo, razzista, conservatrice, ortodosso- religiosa colorata di crudo nazionalismo».
Così la vede Avirama Golan, giornalista israeliana, così da «lontano» appare anche a me. E per contorno a tutto questo l’attuale governo israeliano si segnala per l’apoteosi della prepotenza che esercita nei confronti dei «vicini della porta accanto». Ad ogni atto che l’Autorità palestinese compie per accedere alle grandi istituzioni internazionali per la tutela dei diritti, Netanyahu reagisce con rappresaglie che sarebbero infantili se non fossero tragicamente brutali.

La Stampa 12.4.14
I re cinesi dell’acciaio fanno rotta sull’Italia
Blitz a Genova del presidente del colosso Baosteel
di Teodoro Chiarelli


Prima una vista agli uffici operativi della società che controllano in joint venture nella city genovese, poi un lungo incontro a Portofino. Al centro dei colloqui le opportunità nel settore acciaio italiano ed europeo e un’analisi approfondita del mercato siderurgico. Ieri ha fatto tappa nel capoluogo ligure Xu Lejiang, presidente operativo del gruppo cinese Baosteel, secondo produttore siderurgico mondiale dopo Arcelor Mittal. Quotato alla Borsa di Shanghai, 120 mila dipendenti e un fatturato che supera i 31 miliardi di dollari, il gruppo guidato da mister Xu produce oltre 45 milioni di tonnellate di acciaio l’anno. La sua specializzazione, a dispetto di una percezione comune che vede la Cina votata a produzioni di massa a basso costo e scarsa qualità, sono gli acciai al carbonio, speciali e inossidabili di alta qualità e a elevato contenuto tecnologico.
Il colosso siderurgico di Shanghai ha una consuetudine di rapporti con la famiglia genovese Malacanza (azionista, tra l’altro, al termine di un burrascoso rapporto con Marco Tronchetti Provera, della Pirelli con il 7%) che risale alla fine degli Anni Novanta, con la costituzione della joint venture (51% i cinesi, 49% gli italiani) Baosteel Italia. La società, che dispone anche di un centro servizi a Modena, ha fatturato lo scorso anno 120 milioni di euro, commercializzando acciai di qualità verso clienti del settore automotive (fra i quali Fiat), dell’elettrodomestico, dell’imballaggio alimentare e delle costruzioni. Negli ultimi 14 anni Baosteel Italia ha importato oltre 2,6 milioni di tonnellate di acciaio per un giro d’affari superiore a 1,6 miliardi di euro.
Con Vittorio Malacalza e i figli Mattia e Davide, mister Xu, che è anche membro del comitato centrale del Partito comunista cinese, ha discusso degli scenari di mercato dell’acciaio e dei settori a questo limitrofi e delle eventuali opportunità di investimento nel nostro Paese che potrebbero aprirsi per il secondo produttore di acciaio al mondo. In Italia, non è certo una novità, la siderurgia vive un momento a dir poco difficile: la crisi della Lucchini, il commissariamento dell’Ilva (che a Taranto controlla l’impianto più grande d’Europa), la complicata situazione della Terni. Difficoltà che per un gruppo delle dimensioni e della potenza economica di Baosteel potrebbero anche rappresentare un’opportunità. La Cina, e Baosteel in particolare, vogliono premere l’acceleratore della crescita puntando sullo sviluppo tecnologico e quindi guardano alle occasioni che possono presentarsi in Italia e in Europa (il loro quartier generale per il Vecchio Continente è ad Amburgo). Per questo motivo con i Malacalza mister Xu ha discusso anche di scenari di cooperazione su temi tecnologici e del risparmio energetico. I cinesi sono in particolare interessati alle tecnologie superconduttive sviluppate dalla famiglia genovese con le controllate Asg, Columbus Superconductors e Paramed (cavo Mgb2, risonanza magnetica di nuova generazione, limitatori di corrente e trasformatori superconduttivi) e che potrebbero essere utilizzate in ottica di «green production».

l’Unità 12.4.14
Essere marxista secondo Bobbio
I testi inediti dello studioso radunati in un volumetto
I curatori - Cesare Pianciola e Franco Sbarberi - hanno selezionato dall’archivio scritti tra il 1949 e il 1991 incentrati sul filosofo tedesco
di Bruno Gravagnuolo


QUATTROCENTOTRENTA FALDONI E QUATTROMILA UNITÀ ARCHIVISTICHE. E I FALDONI NUMERATI HANNO UN NOME RICAVATO DAL POSTO IN CUI STAVANO IN ORIGINE: «stanza corridoio, stanza laboratorio» etc. Scarne note da catasto, che ci parlano però di qualcosa di vitale. Sono i numeri e i luoghi dell’archivio di Norberto Bobbio, oggi al centro Gobetti, e proveniente da un primo archivio: casa Bobbio in Via Sacchi a Torino (perciò le stanze e i corridoi). Dal coacervo ben ordinato, Cesare Pianciola e Franco Sbarberi hanno tratto per Donzelli un volumetto. Di eminente valore filologico e non solo: Norberto Bobbio, scritti su Marx. Dialettica, stato e società civile (pp.128, Euro, 19,50). Val la pena di possederlo, nonché di leggerlo. Poiché si tratta di testi inediti del filosofo scomparso nel 2004. Conferenze, scalette, appunti per saggi e lezioni, lettere, in un arco di tempo dal 1949 al 1991. Una scelta che tralascia foglietti più minuti e corrispondenza varia. E si concentra su un certo asse strutturato del laboratorio inedito di Bobbio. L’asse si chiama Karl Marx, gioia e tormento del filosofo, che con Marx si misurò tutta la vita, e ancor di più allorché le sue dottrine si inabissarono (dopo il 1989). Proviamo a isolare qualche punto. Bobbio fu socialista liberale ed azionista. Il primo a tradurre in Italia Popper ma anche il primo fin dal 1949 a misurarsi con il giovane Marx e a curarlo per Einaudi. Siamo ben prima del pur grande Della Volpe, che agli «scritti giovanili» si dedicò con dottrina e genio. Quel Della Volpe marxista che con Togliatti fu avversario di Bobbio, sull’autonomia della cultura dalla politica.
Tutto questo ritorna nella fucina del libro, e alla radice dei problemi. Marx, scriveva Bobbio, prima di uscire allo scoperto, è dapprima filosofo anti- filosofo dell’«autocoscienza». Che inclina verso il messianismo e il finalismo. E che però in seguito accede a un punto di vista sociologico e critico contro una ben precisa «alienazione»: non più solo hegeliana o speculativa. Alienazione capitalistica e incarnata dalle merci. Ecco il nesso già intravisto da Lukàcs tra umanesimo e critica del capitalismo. Senza finalismo e necessità intrinseca altresì. E senza voler essere scienza esatta o fatalistica, scrive Bobbio. Si gettano così le basi negli inediti di una feconda distinzione: il Marx profetico e il Marx critico. Il Marx quasi scienziato e quello biblico e totalizzante. Tutti temi che torneranno in fine anni 60 nel famoso Da Hobbes a Marx di Bobbio stesso, o nella celebre querelle di Colletti del 1974 sulla pseudo scienza in Marx, viziata appunto dalla «dialettica» (non scientifica, né logica per definizione). Bobbio però, al contrario di Colletti, fin dall’inizio tiene ferme alcune distinzioni. Primo: il finalismo non inficia la critica all’alienazione. Secondo: la dialettica è scienza dell’argomentare in virtù del «principio di non contraddizione ». Che funziona bene in Marx nella denuncia dell’alienazione della coscienza, rivelando scarti, conflitti e ineguaglianze in cerca di riscatto. E non funziona però come rovesciamento totalizzante dei conflitti.
Dunque, «Né con Marx né contro Marx», per citare il titolo di una raccolta bobbiana curata da Carlo Violi. A conferma di una vocazione critica che vide Bobbio accanto alla sinistra storica. E in perenne funzione di pungolo. Sulla democrazia, sulla libertà, sull’assenza di una teoria dello stato in Marx. Fomite di totalitarismo oltre le intenzioni marxiane. Un tema quest’ultimo, giocato contro Althusser, Guastini e Poulantzas e che divenne cavallo di battaglia della polemica tra comunisti e socialisti di fine anni ’70 (Quale socialismo?). Bobbio «revisionista» quindi, ma mai post-azionista velleitario o decisionista. Anzi, difensore di partiti, parlamento e corpi intermedi. Dentro le regole della democrazia. Contro populismo e carismatismo. E con una certa idea di socialismo, vicina a Rosselli e non a La Malfa: il socialismo come «via» alla libertà della persona. Come mezzo e non «fine» chiuso. Insomma, socialismo non «liberal», né posticcio «liberismo sociale». E con chiara distinzione destra/sinistra. Idea ben compendiata dalla citazione di Jon Elster, apposta nel 1997 da Bobbio alla prefazione della raccolta di Violi: «Non è possibile essere marxisti nel senso tradizionale... io credo sia possibile essere marxisti in un senso differente del termine... la critica dell’alienazione e dello sfruttamento rimane centrale».

Repubblica 12.4.14
In edicola con “Repubblica” il nuovo iLibra Zagrebelsky svela i rischi autoritari delle nostre democrazie
La tirannia occulta dei “giri” di potere
di Gustavo Zagrebelsky


NON basta parlare di oligarchie. La scienza politologica d’impostazione elitista ha scavato nel concetto, ha elaborato tipologie, ha studiato nascita, sviluppo, conflitti e morte delle oligarchie. Oggi questa tematica, almeno nella vulgata, si identifica e si semplifica, anzi si annebbia, parlando di casta. Se ne parla certamente in un senso molto generico. Ma nessuno immagina che le trasformazioni oligarchiche della democrazia odierna possano spiegarsi ricorrendo alle caste indiane, ai mandarini cinesi o alla società per ceti dell’Antico Regime. Le oligarchie cambiano, si adattano alle condizioni sociali, adottano simboli e metodi conformi alla condizione spirituale del tempo e del luogo, producono cultura legittimante che risponde alle mutevoli aspettative di massa.
Ora, il punto fondamentale da considerare è che ogni sistema castale comporta una stratificazione sociale per piani orizzontali paralleli, sovra e sotto ordinati, più o meno relativamente impermeabili. A ciascuno di questi piani corrispondono stili di vita, gusti, culture, letteratura, musica, teatro, talora lingue, abitudini alimentari, leggi particolari. Le oligarchie odierne, in società d’individui sciolti da appartenenze e liberi di fare di sé quel che vogliono e di legarsi a chi vogliono, si costruiscono, si modificano e si distruggono su moti circolari ascendenti e discendenti, dove tutto si confonde. Per comprendere questa differenza dobbiamo partire da un po’ più lontano, per far luce su una divisione latente che oggi sembra sul punto di diventare conflitto esplicito. È il conflitto tra chi appartiene e chi non appartiene a un qualche “giro” o cerchia di potere. Intendo con questa espressione - il “giro” - esattamente ciò che vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalle comun petenze e dai meriti incerti, o dai demeriti certi e dalle carriere improbabili, che occupano posti difficilmente concepibili per loro, ci domandiamo: a che giro appartengono? [...] Nei “giri” ci si scambia protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo scambio ha bisogno di “materia”. Occorre disporre di risorse da distribuire come favori: per esempio, denaro facile e impieghi (Cimone e Pericle insegnano), carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre, dall’altra parte, qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto “di scambio”), all’organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per ragioni di corporazione, di corruzione, di criminalità; alla disponibilità a corrispondere al favore ricevuto con controprestazioni, personali o per interposta persona - oggi soprattutto per sesso interposto. L’asettico “giro”, in realtà, è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta. Lo Stato si trasforma in bottino su cui mettere le mani, per dare e per avere. L’infezione, tempo riservata a chi stava in alto nella scala sociale dove si trovava, concentrata la disponibilità della “materia prima” della corruzione, cioè la ricchezza e il potere, si universalizza, potendo estendersi a tutti i circuiti in cui ci si scambiano favori reciproci.
Qual è la forza che lo muove? Poiché la protezione e i favori stanno su e la fedeltà e i servizi giù, dietro le apparenze delle allegre comunelle e della combutta innocente, si annidano sopraffazione e violenza. Il ricatto è il cemento. Si entra se si è ricattabili, e tutti, se sono dentro, per qualche ragione lo sono. [...] A parte gli eufemismi (comunità al posto di collusione; associazione al posto di reclutamento), il sistema ricattatorio raggiunge, dalle “classi dirigenti” (altro eufemismo), la base del sistema che, in democrazia, è il corpo elettorale. Non è vero ch’esso sia l’arbitro imparziale d’ultima istanza, nei momenti elettorali: anch’esso, per quote, è imbrigliato nel sistema dei “giri” attraverso i mille modi in cui si manifesta il voto di scambio. Di qui non solo segretezza, ma anche omertà. [...] Questa struttura del potere mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva. Se potessimo sollevare il velo e avere una veduta d’insieme, resteremmo probabilmente sbalorditi di fronte alla realtà nascosta dietro la rappresentazione della democrazia. Catene verticali di potere, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell’economia e della finanza, dell’università, della cultura, dello spettacolo, dell’innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni, eccetera, che, secondo i propri principi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità.

il Fatto 12.4.14
Le 120 Giornate di Sodoma di nuovo a Parigi
di Luana De Micco


Il marchese de Sade trascorse quasi trent’anni della sua vita in prigione. Ed è tra le mura della sua cella della Bastiglia nel 1785 che in poco più di un mese, all’insaputa dei suoi carcerieri, scrisse il più scandaloso e perverso dei suoi testi, forse il più scandaloso e perverso romanzo del XVIII secolo, Le 120 giornate di Sodoma. Il rullo di fogli di carta incollati tra loro, su cui Sade scrisse febbrilmente, fronte retro, con una calligrafia fittissima e microscopica, lungo 12 metri e largo 11,5 centimetri, è ora conservato in una vetrina blindata della Aristophil, una società specializzata nella perizia e compravendita di manoscritti antichi, con sede a Parigi. Il suo fondatore, Gérard Lhéritier, che è anche il presidente del museo delle Lettere e Manoscritti del bouvelard Saint-Germain, lo ha acquisito di recente per la somma di 7 milioni di euro. “Questo manoscritto straordinario, rubato nel 1982, segnalato all’Interpol e conteso tra due famiglie, finalmente torna in Francia, alla fine di una storia rocambolesca. Sono stati necessari tre anni di trattative”, ha confidato alla stampa transalpina il fortunato proprietario, che riporta a casa il prezioso manoscritto (ormai assicurato per 12 milioni di euro dai Lloyds) dopo una querelle giudiziaria trentennale tra Ginevra e Parigi. Il manoscritto sarà in bella mostra al Salone del libro antico che il Grand Palais ospita questo fine settimana. A settembre sarà esposto nel museo che Lhéritier dirige.
Ma la Francia, che ha tentato di acquisirlo tramite la Biblioteca nazionale, vorrebbe che venisse catalogato come patrimonio nazionale: un riconoscimento a 200 anni dalla morte dell’autore dagli scritti (e la vita) scellerata per i quali fu sempre perseguitato. Nelle 120 giornate di Sodoma, il “divin marchese” dette in effetti sfogo ai suoi pensieri più osceni. Si tratta di un catalogo di 600 torture, mutilazioni, crimini, umiliazioni, che quattro uomini fanno subire per quattro mesi a giovani donne e ragazzi, chiusi in un castello della Foresta Nera.
GENIALE PER ALCUNI, insopportabile per altri. Pasolini vi si ispirò nel 1975 per Salò o le 120 Giornate di Sodoma. Lo stesso marchese ne parlò come del testo più “impuro” di tutti i tempi. Quando, a qualche giorno dalla presa della Bastiglia, fu deciso di trasferire lo scrittore libertino nel manicomio di Charenton, Sade fu costretto ad abbandonare sul posto tutti i suoi oggetti personali. Anche il manoscritto restò lì, in una crepa del muro della cella, dove il marchese lo aveva nascosto. Per tutta la vita Sade pensò che il testo era andato distrutto quel famoso 14 luglio 1789. Fino alla sua morte, nel 1814, si disperò e pianse “lacrime di sangue”. Ma i fatti andarono diversamente. Il manoscritto si salvò alle distruzioni della prigione e fu acquisito da una famiglia nobile. Più volte venduto, passò di mano in mano fino a che fu acquistato, nel 1929, dal visconte Charles de Noailles e dalla moglie, Marie-Laure, una discendente diretta di Sade. Nel 1982, la figlia dei due collezionisti, Nathalie, confidò il manoscritto all’editore Jean Grouet che disse di volerlo studiare. Ma che alla fine lo vendette a un uomo d’affari svizzero, Gérard Nordmann. Da allora, gli eredi di madame de Noailles, tra cui il figlio di Nathalie, l’editore italiano Carlo Perrone, e la famiglia Nordmann si contendono il manoscritto. Dopo una lunga causa, nel 1990, la giustizia francese ne ordinò la restituzione agli eredi. Otto anni più tardi, i giudici elvetici dichiararono l’acquisizione di Nordmann legale. Nel 2011, entrò infine in scena Gérard Lhéritier, intenzionato a sciogliere l’intricata matassa, pervenire a un accordo e riportare in Francia l’opera. Ci sono voluti tre anni e un grosso assegno. È in jet privato che il manoscritto ha fatto il viaggio tra Ginevra e l’aeroporto parigino di Le Bourget.

il Fatto 12.4.14
Nove, che male ti ha fatto San Francesco?
di Elisabetta Ambrosi


ALTISSIMU, onnipotente bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria e l’honore. Ma che ho fatto di male io, San Francesco, per meritare che la mia storia sia raccontata nel libro di un certo Antonio Centanin (che però in realtà si fa chiamare Aldo Nove), Tutta la luce del mondo, Bompiani, che c’ha pure una copertina new age dove sembro un mezzo extraterrestre? “Miracoli. Santi. Demoni. Mostri. Orchi. Monaci”: l’epoca in cui vivevo – cioè il Medioevo, dove “i vivi e i morti vivevano insieme” – sembra un’ambientazione di The Walking Dead, anzi c’è qui accanto a me Le Goff che proprio non si capacita. Passi poi che io sono descritto così – “Era troppo pazzo. Troppo santo. Troppo tutto” – ma quando mi arrivano le stimmate (non proprio una cosa leggerina), c’era proprio bisogno di dire che “Il sangue è un grido. Forte che spaventa. È la nostra voce oscena, che nessun altro sovrasta”? Per non parlare di Chiara – “Chiara era bellissima. Chiara era un fiore” – e della scena del nostro bacio che speriamo non legga Muccino (“Una danza lacerante e perfetta. Pure avanzavano. Pure si avvicinavano”). Ma soprattutto mi chiedo, mentre la perfetta letizia va scemando: quelle frasi sparse qua e là le avrà prese da un volantino dei Testimoni di Geova – “Il male è il dolore dell’assenza. Il Male è la sua stessa mancanza – o da una vostra editorialista di fama (“L’amore non capisce niente. L’amore capisce tutto”)? E che vuol dire, qui i serafini sono perplessi, che gli angeli “sanno che l’abisso non è veramente”? Perché, in soldoni, il succo è questo: “Quello che doveva succedere, accadeva”. Non proprio una profezia. Specie col senno di poi.

Repubblica 12.4.14
Da Bergson a Zizek, il cinema continua a parlare ai filosofi

Ed è tutto merito di Aristotele
Critica della ragion filmica
di Maurizio Ferraris



DA BERGSON a Zizek, passando per Sartre, Deleuze Cavell, il cinema è un riferimento importante per i filosofi. Lo confermano libri molto recenti come Filosofia del film di EnricoTerrone, Filosofia del cinema, di Daniela Angelucci (entrambi pubblicati Carocci)e Microfilosofia del cinema( Marsilio) di Paolo Bertetto. Tre lavori molto diversi per impostazione teorica e metodologia, ma che dimostrano la ricchezza delle riflessioni che il cinema offre alla filosofia, anche nel momento in cui si è sulla soglia della fine
della forma classica del film.
E NON è da escludersi che un nuovo Nietzsche scriverà una Rina-scita del cinema dallo spirito del web, proprio come per il vecchio Nietzsche la tragedia, morta con Euripide, era destinata a rinascere nella musica wagneriana.
Fosse dipeso da Platone, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile. Nella sua filosofia le immagini sono copie degli oggetti che si trovano nel mondo, che a loro volta copiano le idee. Dunque sono imitazioni di imitazioni, e gli schiavi incatenati nella caverna di cui Platone ci parla nella Repubblica, che guardano le ombre di statue e oggetti proiettate su una parete da una luce che sta alle loro spalle, sono gli antenati degli spettatori cinematografici, e sono il male assoluto, a cui il filosofo deve reagire uscendo dalla caverna, cioè dal cinema.
Fra le tante cose per cui dobbiamo essere grati ad Aristotele, c’è anche la possibilità di un discorso filosofico sul cinema. Platone diceva che l’arte scatena i sentimenti e dunque deve essere bandita o limitata? Aristotele risponde che, al contrario, genera catarsi, libera, tranquillizza, ossia è un sistema di ordine invece che di disordine. Platone diceva che i poeti mentono sempre? Aristotele, che nella Metafisica aveva trattato l’intera teoria delle idee come una pura fantasia poetica, nella Poetica dice che il racconto ( mythos) è più universale della storia (historìa), perché narra eventi universali e necessari, mentre la storia si limita a raccontare fatti particolari e contingenti.
Ovviamente, si potrebbe obiettare che a prendere le cose tanto alla lontana tutto è possibile. In fondo (è stato ricordato in Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’Immagine, a cura di Luigi Russo, Aesthetica 2002) se al Concilio di Nicea non fosse stata condannata l’iconoclastia l’arte visiva occidentale avrebbe preso tutto un altro corso. Ma il caso di Aristotele è a mio avviso più intrinseco, perché nella contrapposizione tra myhos e historìa abbiamo a che fare non solo con due modi per intendere l’arte in generale ma anche, nel concretissimo, quello che viene fabbricato dal cinema e dai suoi successori. Sostenere il primato del mythos sulla historia significa, al tempo stesso, sostenere la prevalenza della trama (l’universale necessario) sul personaggio (l’individuo contingente).
Questo primato è in generale il carattere della tragedia antica rispetto al dramma moderno. Edipo è un uomo ricco, di buona fama e di buon carattere, con il solo difetto, fatale, dell’irruenza, che lo porta prima a uccidere uno straniero durante una rissa, poi a sposarsi con una donna appiù pena conosciuta. Sono i suoi due tragici errori. Di colpo, attraverso un processo di agnizione, Edipo scopre quello che veramente ha fatto, viene bandito dal regno e, soccombendo alla vergo- gna, si acceca. Diversamente da Edipo, l’uomo senza qualità rovinato da un errore fatale, l’eroe del dramma moderno, tipicamente Amleto (o individui storici quali Agostino, Rousseau, Nietzsche) porta il suo male in sé, e anzi è quel male e quell’errore, sin dall’inizio. Se Edipo esiste solo per eseguire la trama, Amleto esiste letteralmente per dar senso a una trama che dipende completamente dalla sua persona, proprio come il senso di una biografia dipende interamente dalla vita che narra.
Questa differenza la ritroviamo con esattezza nel cinema, dove è anche comune distinguere fra teorie della sceneggiatura aristoteliche perché “plot driven”, e teorie “character-driven”. Prendiamo due film recenti La grande bellezza di Sorrentino e The Counselor di Ridley Scott. Il primo è molto italiano, il secondo è molto hollywoodiano. Il primo, che potremmo ricondurre al genere della historia, è tutto costruito intorno all’individualità del protagonista, Jep Gambardella. Il secondo, invece, è tutto basato sulla implacabilità della trama, che segue (esattamente a norma di tragedia greca) dall’errore fatale del protagonista del film, che entra in un gioco più grande di lui con i narcos messicani, e determina la propria e altrui catastrofe.
Cosa scegliere, tra historìa e mythos? Personalmente (al netto, ovviamente, della qualità artistica degli oggetti) c’è un argomento intrinseco che mi fa preferire, nelle narrazioni, l’ historia al mythos. E cioè il fatto che la prima sorprende sempre del secondo, e questo è talmente vero che la prima sta all’origine del secondo. Se l’Iliade ha potuto sfidare vittoriosamente i secoli sarà pure merito del “genio del popolo greco” che se l’è tramandata e poi ha incominciato a scriverla, ma anche dai fatti veri, cruenti e implacabili che si sono svolti a Troia, una città che Schliemann ha trovato non trasponendosi medianicamente nella mente di Omero ma scavando in Turchia. All’inizio non c’era il logos, questo lo sospettavamo da tempo, ma nemmeno il mythos, bensì, appunto, historia.
Questa historia racconta di individui accidentali e accidentati in un mondo reale, che diventano esemplari non per i loro meriti, come i santi e gli eroi, ma per i loro errori e le loro debolezze. Che si tratti di Nietzsche, di Gonzalo Pirobutirro o di Jep Gambardella, il pasticciaccio brutto è avvenuto prima, coincide con l’individualità del personaggio, e lo rende esemplare. Il fatto che sia un errore a rendere esemplare l’eroe può sembrare un paradosso o un refuso, ma non è più forte del paradosso della tragedia, per cui cerchiamo nell’arte l’orrore che fuggiamo nella vita. Ed è anche più facile da spiegare: si riassume nella allocuzione al lettore nei Fiori del male di Baudelaire: “Ipocrita lettore – mio simile – mio fratello”.

Corriere 12.4.14
Ceronetti-Quinzio: epistolario eterno alla ricerca del segreto della laicità 


«Il mio diarietto privato tratta le tue stesse cose. Su un binario diverso» Anticipiamo due lettere inedite tratte dall’epistolario tra Guido Ceronetti e Sergio Quinzio che Adelphi manderà in libreria mercoledì 16 aprile (Un tentativo di colmare l’abisso. Lettere 1968-1996 , Adelphi, pp. 446, e 34, a cura di Giovanni Marinangeli, prefazione di Guido Ceronetti). «Adelphiani» della prima ora, Ceronetti e Quinzio si confrontano da posizioni contrapposte sui grandi dibattiti sociali e civili (l’aborto, il conflitto israelo-palestinese) fino ai problemi della vita quotidiana (la salute, il cibo)
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La Stampa 12.4.14
Grace Kelly
Il lato oscuro della principessa
La biografia di Robert Lacey (come il film di Dahan) racconta intemperanze giovanili e depressione adulta
di Fulvia Caprara


Al ballo delle debuttanti , nel circolo più ambito di Filadelfia, Grace Kelly, icona di classe e altera bellezza, non mise mai piede. Le regole per l’ammissione erano chiare: «niente neri, niente ebrei, niente cattolici e niente nouveaux riches... non c’era spazio, quindi, per muratori irlandesi che avessero fatto fortuna, nè per le loro figlie». Con quel marchio, nascosto sotto la candida pelle, la ragazza aveva affrontato il cammino di una vita da favola. Ma era proprio da quella cicatrice indelebile, che vennero prima le intemperanze giovanili e poi le infelicità di donna matura. Fasi che comunque durarono poco. La giovinezza fu presto travolta dall’avventura hollywoodiana e l’età del tramonto svanì in un attimo, il 13 settembre 1982, quando Grace, a soli 52 anni, rimase vittima di un incidente automobilistico sulla strada che da La Turbie porta a Monaco. Dalla biografia di Robert Lacey (Grace Kelly La principessa americana Frassinelli) vien fuori il ritratto di una donna che aveva sempre pensato di scegliere il meglio per sè e alla fine, si era ritrovata tra le mani un gioiello prezioso, ma non di suo gusto. Non a caso, nella prefazione, si legge che la famiglia non ha voluto dare informazioni nè rilasciare interviste e, nel racconto che segue, si avverte che l’ottica è simile a quella adottata da Olivier Dahan nel film Grace (con Nicole Kidman) che aprirà il Festival di Cannes e che, già dal primo annuncio, ha provocato polemiche e prese di distanza ufficiali.
Come Alfred Hitchcock aveva subito capito, Grace Kelly era un effervescente frullato di contraddizioni, incarnazione perfetta del suo ideale di «donna del mistero, bionda, esile e nordica», e naturalmente dotata di quello che per il grande autore era un pregio fondamentale: «Non mi sono mai piaciute le donne che si appendono al collo la sensualità come un pendente». Grace era provocante senza esserlo, disponibile senza mostralo, arrendevole solo fino al limite che aveva deciso di non superare: «Riuscire a manipolare un maschio autoritario dava a Grace fiducia in se stessa, mentre il calore dell’ossessiva devozione di Hitchcock faceva sbocciare il suo talento d’attrice». In passato, ai tempi della Steven School, aveva collezionato flirt con allegra disinvoltura, primo fra tutti quello con Charles Harper Davis, figlio del concessionario Buick di Germantown. Poi, approdata all’American Academy of Dramatic Arts, era stata la volta dell’insegnante Don Richardson «giovane intenso e volubile col viso da gitano» che, nonostante il suo ruolo, perse la testa per quella studentessa che «sembrava una scultura di Rodin». Finì male, il ricordo della rottura rimase legato alla bruttissima immagine di lei che cerca di recuperare un braccialetto gettato da Richardson nella vasca dei pesci. Motivo? Sapevano tutti che era il tipo di cadeau riservato dal playboy Aly Khan alle sue conquiste, dopo che gli si erano concesse.
L’angelo dallo splendido incarnato aveva ormai spiccato il volo, i fidanzati erano puntualmente celebri, da Clark Gable a William Holden, le rotture accompagnate dalle notizie sui nuovi amori, un girotondo che culmina con l’Oscar per La ragazza di campagna, secondo molti scippato alla «veterana coraggiosa» Judy Garland. Eppure la carriera di Kelly aveva gli anni contati, sull’orizzonte della diva ecco stagliarsi la figura, non particolarmente aitante, di Ranieri III di Monaco: «Interessante - commentò pensosa Grace dopo il primo incontro». Alla luce dei mille riflettori sparati sul matrimonio fiabesco, seguì l’addio alla carriera voluto dal neo-marito e subìto dalla neo-moglie che, anche se sognava famiglia e figli, in fondo sperava che un giorno sarebbe tornata sul set. Ma il tempo che restava era maledettamente poco. Vennero gli eredi, con grandi gioie, ma vennero anche gli aborti, i litigi con il Principe, la morte del padre adorato e i primi accenni di depressione. Girare Marnie con il maestro del brivido l’avrebbe riportata a galla, ma il Principato fu subito, apertamente, contrario. A quel punto, tra le mani di Grace, restarono la delusione per un compagno «che dedicava il meglio delle sue energie al suo Paese delle meraviglie di cemento», la consolazione del cibo («sto ingrassando terribilmente»), le noie della menopausa che influiva sull’umore, ma anche sul peso («Ho questo seno tremendo... - si lamentava - è enorme, devo contenerlo») e le ansie legate alle avventure di Caroline e di Stephanie, la «bambina disobbediente» che sedeva al suo fianco la mattina della tragedia. Se anche fosse continuata, l’esistenza di Grace non avrebbe mai più avuto lo scintillio di quando, nell’agosto del ’51, si era presentata a Fred Zinnemann, con i guanti bianchi da ragazza perbene, una splendida creatura precipitata nel Far West di Mezzogiorno di fuoco.

La Stampa 12.4.14
Due astronauti gemelli
La relatività di Einstein alla prova della Nasa
Scott in orbita, Mark sulla Terra: chi invecchierà di più?
di Vittorio Sabadin

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