sabato 17 ottobre 2009

l’Unità 17.10.09
«Oggi tutti in piazza perché vogliamo vivere in un’Italia felice»
A Roma la manifestazione nazionale per dire no a razzismo e omofobia Contro la «cultura preistorica» di chi aggredisce le persone per il colore della pelle o solo perché le accusa di essere diverse. Per un paese migliore
di Igiaba Scego


Capello, sciarpa, guanti, la bandiera della pace e un ombrello. Le previsioni meteo minacciano pioggia. Ma non sarà certo questo a fermarmi. Il mio ombrello è verde quindi ci sta anche bene, ha il colore della speranza. È proprio la speranza (insieme a una sana voglia di cambiamento) che mi spinge verso la piazza. Questa di oggi non è solo una manifestazione contro il razzismo e l’omofobia, per me è soprattutto una manifestazione di persone che sono stufe di essere tristi nell'Italia disillusa che ci vogliono propinare in Tv e nei talk show urlanti. L'Italia non è il luna park dei reality, l'Italia per me è una realtà plurale che sogna e ama.
Io e tanti altri scenderemo in piazza per la nostra felicità, per la felicità di tutti coloro che amiamo e ameremo. L'idea di un'Italia preistorica, fobica, che non fa ricerca, che aggredisce persone per il colore della pelle o la religione, che non investe sulla cultura, che fa marcire i suoi monumenti storici (vedi Pompei), che taglia la scuola, che taglia i salari, che arricchisce solo i più ricchi, che ingrassa la mafia, a me non piace.
Manifesto per la felicità di tutti e per i bambini. La polemica sui bambini figli di migranti nelle scuole è un segno nefasto dei nostri tempi tristi. Bambini stranieri? Ma se molti sono nati in Italia, di quali stranieri stiamo parlando? E a quelli davvero venuti da fuori come fai ad insegnare la lingua se hanno tagliato tutti i fondiper l’italiano? Invece di potenziare la scuola, di dare una mano agli insegnanti che devono fronteggiare sfide sempre nuove, di istituire corsi di formazione, si fa la propaganda antistraniero perché è più facile aizzare la gente attanagliata dalla crisi e dai problemi.
Questo governo taglia le nostre vite, ci toglie ossigeno e ci fa respirare l'anidride carbonica dell'odio che non ci porterà tanto lontano.
L'Italia plurale, di italiani, migranti, figli di migranti è una sfida che il nostro paese deve vincere per essere nel futuro alla pari, competitivo ed europeo.
Dobbiamo creare un paese che investe sulla conoscenza reciproca, che crea servizi, che affronta le problematiche non con fatalismo ma con professionalità. La convivenza non è facile. Non è facile in una coppia che si ama, come non lo è in una città, in un paese. Ma chi soffia sul razzismo vuole solo vederci tristi, poveri e soli. Io non ci sto. Il razzismo è davvero una brutta storia come ho letto su una maglietta giorni fa. Questa volta non facciamoci fregare. ❖

l’Unità 17.10.09
Il Consiglio dei diritti umani approva il rapporto di Goldstone
Gerusalemme protesta, i palestinesi esultano: è la nostra rivincita
Guerra di Gaza Primo sì dell’Onu alla condanna di Israele e Hamas
di Umberto De Giovannangeli


Con 25 voti a favore, 6 contro tra cui l’Italia e 11 astenuti, il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha adottato il rapporto Goldstone sulla guerra a Gaza. Israele si ribella, i palestinesi plaudono.

Il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha adottato ieri il rapporto Goldstone che accusa Israele e Hamas di aver commesso crimini di guerra nell'operazione «Piombo fuso» nella Striscia di Gaza. Dei 47 membri del Consiglio, 25 hanno votato a favore della risoluzione che critica Israele per non aver cooperato con la missione dell'Onu guidata dal giudice sudafricano Richard Goldstone che ha indagato sulla guerra, in 6 hanno votato contro Italia, Stati Uniti, Olanda, Ungheria, Slovacchia e Ungheria mentre 11 si sono astenuti.
ACCUSE RECIPROCHE
Con l'adozione della risoluzione, il Consiglio dei Diritti Umani passa «urgentemente» la questione all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, che potrebbe raccomandare il coinvolgimento della Corte internazionale di giustizia dell'Aja. Durissima la reazione dello Stato ebraico. Il rapporto Goldstone è «iniquo» e incoraggia «le organizzazioni terroriste in tutto il mondo», denuncia una nota ufficiale del ministero degli Esteri israeliano. «L'adozione di questa risoluzione pregiudica tanto gli sforzi per proteggere i diritti umani secon-do il diritto internazionale, come gli sforzi per promuovere la pace in Medio Oriente», si legge ancora nella nota. «Israele conclude il comunicato del ministero degli Esteri di Gerusalemme continuerà ad esercitare il suo diritto all'autodifesa e a prendere le azioni necessarie per proteggere la vita dei suoi cittadini». Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite «affosserà» la decisione della Commissione Diritti Umani dell'Onu sul Rapporto Goldstone: ne è certo Avi Pazner, ex ambasciatore di Israele a Roma e portavoce del governo di Gerusalemme che spiega: «Non siamo sorpresi afferma in questa commissione c'è una maggioranza di Paesi contro Israele, molti Paesi hanno votato contro, come l'Italia, o si sono astenuti. E così hanno fatto tutti i Paesi democratici. Da questo punto di vista è una vittoria israeliana. Ora il testo andrà al Consiglio di Sicurezza e sono sicuro che gli amici di Israele useranno il diritto di veto per affossare questa decisione. Il voto di oggi (ieri, ndr) è solo l'ennesima manifestazione d'odio nei confronti di Israele da parte di questa commissione che più volte si è distinta per un atteggiamento anti-israeliano».
L’ANP SODDISFATTA
Di segno opposto la reazione palestinese. «La decisione del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu di adottare il rapporto Goldstone è una rivincita del popolo palestinese», commenta Nabil Abu Rudeineh, portavoce dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). La decisione del Consiglio, prosegue il portavoce dell'Anp «dimostra il sostegno internazionale alla causa palestinese» ed è un gesto di «incoraggiamento da parte comunità internazionale per rafforzare la fiducia popolo palestinese nella giustizia e nei diritti». Infine, per Rudeineh, si tratta di un «precedente che può aiutare il popolo palestinese a difendersi da qualsiasi attacco futuro da parte di Israele». Ora, gli fa eco Yasser Abed Rabbo, segretario del comitato esecutivo dell’Olp, «è bene che il rapporto sia discusso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu». Da Gaza parla Hamas: «Ci auguriamo che il voto di Ginevra costituisca il primo passo per arrivare a processare i criminali di guerra israeliani», dichiara Fawzi Barhum, portavoce del movimento integralista palestinese.❖

Corriere della Sera 17.10.09
Consiglio per i diritti umani Accuse a Israele per l’operazione «Piombo fuso» e ad Hamas
L’Onu: «crimini di guerra» a Gaza
Approvato il rapporto Goldstone. Usa e Italia votano contro
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — Criminale di guerra. E contro l'umanità. Per avere fatto un uso sproporzionato della forza. Per le violenze a Gerusalemme Est. E aver inflitto una punizione collettiva ai palestinesi di Gaza.
Venticinque palline bianche impallinano Israele, al Consiglio per i diritti umani dell'Onu. Venticinque sì che adottano le 575 pagine del Rapporto Goldstone e, dopo nove mesi, mettono al mondo la prima sentenza su quei 22 giorni di bombe dell'operazio­ne Piombo Fuso: «Una grave violazione del diritto umanita­rio internazionale».
Il pronunciamento, del tut­to scontato, stabilisce che i 10 mila documenti allegati, le 1.200 foto, le 200 interviste, i cinque mesi d'indagine del giudice sudafricano Richard Goldstone e dei suoi collabora­tori, un'inglese, un irlandese e una pakistana, tutto questo è credibile. E dice che Israele de­ve presentare una sua inchie­sta altrettanto credibile, entro sei mesi. Altrimenti, il Consi­glio di sicurezza discuterà d'un vero processo internazio­nale per crimini di guerra e contro l'umanità.
Il Rapporto per la verità con­tiene accuse anche a Hamas, per le violazioni dei diritti nel­la Striscia, l'uso di scudi uma­ni e gli oltre 10 mila razzi Qas­sam lanciati in dieci anni sulle città del Sud israeliano. Ma di questo, la sessione ginevrina dell'Onu s'è occupata solo a margine: il documento d’azio­ne punta il dito soprattutto sui 1.300 morti della guerra, indicando per Hamas un gene­rico obbligo d'indagare. Lo stesso Goldstone, che è d'ori­gine ebraica e ha ricevuto vio­lenti attacchi dalla destra israe­liana, se n'è lamentato: «Que­sta risoluzione mi rattrista: si riferisce solo alle accuse con­tro Israele. Non c'è una frase che condanni Hamas, com'è invece nel mio rapporto».
Giustizia è quasi fatta, esul­tano i palestinesi: «L'impor­tante è che queste parole si tra­ducano in maggior sicurezza per noi» (Nabil Abu Rdeneh, portavoce di Abu Mazen); «speriamo che questo voto porti a un processo degli occu­panti sionisti» (Taher Al Nou­nou, Hamas). È un premio al terrorismo mondiale e una mi­naccia al processo di pace, av­verte il governo Netanyahu: «L'esercito israeliano ha usato i guanti di velluto sui civili di Gaza» (Eli Yishai, ministro dell'Interno); «Chi ha votato sì sappia che la prossima vol­ta toccherà alla Nato in Afgha­nistan o ai russi in Cecenia».
Numeri e dichiarazioni non spiegano ogni cosa, però. In­nanzi tutto perché Netanyahu temeva un risultato peggiore: le febbrili consultazioni degli ultimi giorni hanno evitato che ai 25 scontati sì di Cina e Russia, Paesi arabi e islamici, s'aggiungessero anche i voti di tutta l'Unione europea, del Giappone, della Sud Corea. Invece, oltre ai 6 no traghettati da Stati Uniti e Italia, so­no spuntate 11 asten­sioni, e pure da Paesi tradizionalmente anti­sraeliani come Norve­gia o Belgio.
«Che si schierassero contro di noi Djibuti o il Bangladesh — confida l'amba­sciatore israeliano a Ginevra, Aharo Leshno-Yaar —, lo sape­vamo. La nostra paura era che si schierassero anche gli al­tri ». Non è accaduto. O me­glio, non in misura massiccia. Un po' perché solo gli Usa ave­vano criticato apertamente il Rapporto, ma solo Londra l'aveva difeso. Un po' perché la stessa Autorità palestinese aveva spinto per un rinvio del voto (c'è in ballo il processo di pace e la mediazione di Oba­ma), salvo ripensarci per le proteste di piazza. E poi per­ché a Ginevra sapevano benis­simo tutti che questo voto non porta a granché: in Consi­glio di sicurezza, basterà il ve­to Usa a farlo rimanere un'im­pallinata a salve, o poco più.
«È vero, sono solo 25 palli­ne — dice Ahmed Tibi, depu­tato arabo della Knesset —. Ma servono a contare il no­stro onore».

Repubblica 17.10.09
Volontà di potenza
di Carlo Galli


Il nuovo discorso bulgaro di Berlusconi è solo apparentemente più conciliante del diktat che sette anni fa attuò una prima pulizia etnica del video. Anzi, contiene elementi per certi versi ancora più inquietanti.
Si ammette, certo, la facoltà della stampa, e dei media in generale, di criticare il potere politico; ma questo è immediatamente personalizzato nella figura del premier, e nella sua asserita volontà d´amore e di giustizia, una volontà talmente universalistica da consentirgli di accettare (viene da dire ‘tollerare´) anche le critiche, purché, naturalmente, restino "nei confini della moderazione"; in questo caso possono essere "usate per colmare le mancanze" dell´azione di governo. Se vanno oltre, però, se cioè non sono "moderate" – se non condividono le cose che il governo fa, anziché limitarsi a criticare il modo in cui le fa – allora diventano calunnie, che "non fanno piacere a chi è calunniato"; e che per di più si ritorcono provvidenzialmente contro il calunniatore, data l´istintiva simpatia che un popolo di grande intelligenza e saggezza come l´italiano prova per i perseguitati. La critica o è ‘costruttiva´, e accetta il terreno concettuale e valoriale del potere, o è una cattiveria, e lede il vincolo sentimentale che unisce la società, e che trova espressione nell´amore (ricambiato) del leader per la "gente".
A fronte di ciò, nel discorso bulgaro si parla di «preoccupazione per l´opposizione che ci ritroviamo in Italia», motivo non ultimo, insieme alla condivisione di valori e programmi, perché l´alleanza di governo sia salda. Il nemico è alle porte, insomma, e anzi sta per entrare: da qui l´esigenza di una compatta unità delle forze nostre. Improvvisamente l´immagine della società amorevole è sostituita da accenni di guerra e di oscuri fantasmi. Il che significa, anche se a Sofia non è stato detto esplicitamente, che le riforme – della giustizia, e forse della Costituzione – si hanno da fare da soli, e non dialogando con l´opposizione, tranne che questa non accetti obiettivi e metodi del governo, limitandosi a proporre qualche variante in uno schema già definito (da altri).
Da una parte, insomma, Berlusconi propone l´immagine di una società omogenea, coesa, sostanzialmente pacificata, perché condivide – grazie a un rapporto affettivo col capo – valori e stili di pensiero, senza voci dissonanti e fuori dal coro. Una società in cui il conflitto non esiste, né quello di classe né quello ideale, né quello – aperto e proclamato – degli interessi; una società in cui le voci della critica, dei media e delle altre istanze che costituiscono la pubblica opinione, non portano altro contributo che qualche variazione su un unico tema. Una società che si compiace delle stesse evidenze, che si turba per le stesse inquietudini; una sfera pubblico-sociale anestetizzata, e certamente assai diversa da quelle che storicamente sono state le società liberali e democratiche, caratterizzate da intensa e vivacissima dialettica di posizioni, dalla violenza della polemica nella stampa, nelle accademie, nelle case editrici, nei salotti intellettuali. Una società omogenea, insomma, e una stampa allineata o molto prudente.
A ciò si contrappone una visione della politica come combattimento contro estranei o nemici, come una lotta tanto aspra che non trova moderazione e neutralizzazione neppure nelle istituzioni, nei poteri dello Stato. Queste, anziché essere interpretate come sistemi di regole intrinsecamente neutrali, la cui finalità è di lasciare sussistere il conflitto fra le parti senza essere esse stesse ‘parte´ – tranne il caso del potere esecutivo, che può essere ‘parte´, ma soltanto secondo precisi limiti –, paiono a Berlusconi sempre attraversate dall´energia della polemica, dalla partigianeria. Una sorta di iper-politicismo per cui la politica esce dalle istituzioni, le eccede continuamente, le travolge come la piena inarrestabile di un fiume, gonfio di polemicità. Tutte le magistrature sono necessariamente parziali e mai neutrali, la politica è sempre faziosità, la dismisura non può non travalicare la misura.
Sembra a volte di avere a che fare con un´applicazione domestica e in tono minore del celebre ‘politico´ di Carl Schmitt, il teorico secondo il quale la politica consiste essenzialmente nel rapporto amico-nemico. Oppure possono venire alla mente interpretazioni della politica come volontà di potenza, come grandioso e tragico destino di conflitto; una visione terribile, certo, ma anche nobile, che sta fra Nietzsche e Lenin. Ma lo sembra soltanto. Infatti, queste concezioni della politica la vedono come un´energia pubblica, che emana da un popolo, come una forza collettiva rivoluzionaria che mobilita ogni ordine giuridico-istituzionale. Berlusconi, invece, pensa alla politica come alla sua personale volontà di potenza, come a un eccesso privato che dilaga nel pubblico. In mano a lui, insomma, quello che in altri contesti è la rivoluzione che travolge le istituzioni, diventa più banalmente tentativo di prevaricazione, unito a un continuo sospetto della prevaricazione altrui.
Tutto ciò non è né rassicurante né innocuo, soprattutto se è diventata la nuova costituzione materiale del nostro Paese, e se diventerà – come sostengono e auspicano esponenti della maggioranza – la nuova costituzione formale. Infatti, lo scenario che prevede istituzioni politiche ‘calde´ percorse da spasimi di polemicità, e la società civile ‘fredda´, libera da conflitti e unificata semmai nel tepore pacificante dell´amore, è un´inversione quasi perfetta dell´Abc della moderna democrazia: è l´immagine, non rassicurante ma inquietante, di una democrazia autoritaria.

Repubblica 17.10.09
Guerre di carta e libertà di stampa
di Giovanni Valentini


Non è forse vero che la democrazia di un Paese si misura dalla possibilità che viene concessa ai suoi cittadini di conoscere tutto ciò che accade all´interno dei "palazzi"?
(da "Troppi farabutti" di Oreste Flamminii Minuto – Baldini Castoldi Dalai editore, 2009 – pagg. 171-172)
Che significa «esposizione mediatica»? E a che cosa allude il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito, quando dichiara che proprio in ragione di questa il presidente del Consiglio potrebbe «essere oggetto di contestazioni in occasione di eventi pubblici» e anche di «gesti violenti di mitomani isolati»? Qual è, insomma, il nesso fra l´esposizione mediatica, gli eventi pubblici e questi eventuali gesti violenti?
In risposta a un´interrogazione presentata al "question time" della Camera dal deputato del Pd Emanuele Fiano, membro del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che vigila sui servizi segreti, il ministro Vito ha rivelato l´esistenza di un´informativa dei nostri 007 sui rischi di possibili mitomani. Era stato lo stesso Silvio Berlusconi, del resto, a parlare recentemente di minacce alla sua persona. Mentre la settimana scorsa il settimanale Panorama, di cui è proprietario attraverso la Mondadori, aveva pubblicato addirittura una copertina intitolata Kill Silvio (in inglese, Uccidere Silvio), riferendosi agli attacchi mediatici contro di lui.
Diciamo subito che, al di là di ogni polemica, qualsiasi rischio, pericolo o minaccia per l´incolumità del presidente del Consiglio, si tratti di Berlusconi o di chiunque altro, merita senz´altro la massima allerta da parte degli apparati di sicurezza, delle forze dell´ordine, della magistratura e dell´opinione pubblica. Non c´è contrapposizione politica che possa mai giustificare il ricorso alla violenza. E a volte, anzi, progetti o atti del genere finiscono solo per rafforzare ulteriormente le figure che si vorrebbero colpire.
Nel buio degli anni di piombo, l´Italia ha già dovuto subire troppe vittime per non prendere oggi in seria considerazione il minimo allarme. Il terrorismo rosso e nero che ha insanguinato il nostro Paese non può e non deve tornare per nessuna ragione. Né vogliamo dimenticare che spesso in passato il mondo politico s´è ritrovato solidale e compatto, all´indomani di un attentato o di una strage, per difendere, celebrare o rivalutare – come eroi nazionali, servitori dello Stato o statisti – personaggi considerati fino ad allora da una parte o dall´altra nemici del popolo e della democrazia.
Torniamo, allora, alla domanda iniziale: che cosa c´entra l´«esposizione mediatica» di Berlusconi, come l´ha chiamata il ministro Vito, con il rischio di contestazioni o di gesti violenti contro di lui? Se questa espressione vuole riferirsi (impropriamente) alla partecipazione del capo del governo a manifestazioni o eventi pubblici, per invitarlo «ad evitare contatti ravvicinati con il pubblico, soprattutto in circostanze occasionali e non pianificate», non si può che essere d´accordo: la prudenza non è mai troppa, soprattutto in certe situazioni. Se invece per «esposizione mediatica» qualcuno intende la visibilità sui mass media, le polemiche o gli attacchi di cui il premier è oggetto da parte dei giornali, italiani e stranieri, il discorso sarebbe necessariamente diverso.
Le "guerre di carta" non hanno nulla a che fare con le guerre civili o incivili che lo stesso presidente del Consiglio ha innescato e alimentato intorno a sé, con i suoi comportamenti, le sue azioni e omissioni, le sue dichiarazioni intimidatorie e le sue iniziative giudiziarie contro la libertà d´opinione e di critica. E con l´assalto sistematico alla Rai o meglio a quel poco che resta del servizio pubblico. Fino all´assurda accusa ai giornali stranieri di «sputtanare» (testuale) l´Italia o di calunniare la sua persona.
È vero che formalmente la libertà di stampa non è stata ancora abolita nel nostro Paese. Ma è altrettanto vero che ormai è ridotta ai minimi termini, sottoposta a censure e autocensure. Oggi è una libertà vigilata, a rischio, in pericolo. E proprio per questo occorre difenderne la sopravvivenza. Non tanto per ciò che attiene al dovere dei giornalisti di informare, quanto per ciò che riguarda il diritto dei cittadini a essere informati.
Ai politici, ai nostri colleghi e a tutti coloro che ritengono infondato o eccessivo l´allarme, si raccomanda il libro di Oreste Flamminii Minuto, avvocato di professione e d´impegno civile, citato all´inizio di questa rubrica. Contiene un inventario completo delle limitazioni e dei condizionamenti che gravano sulla libertà di stampa: dalle vecchie norme del Codice Rocco mai abrogate alla disciplina dei segreti o a quella della diffamazione, dalle pubblicazioni oscene alla satira. Per arrivare, infine, al giro di vite sulle intercettazioni telefoniche, alla stretta sulla cronaca giudiziaria e al minaccioso annuncio di una riforma della giustizia da realizzare a furor di popolo.
Su questo terreno scoperto, occorre fare fronte comune. Non solo all´interno della nostra corporazione professionale, mettendo da parte magari divisioni editoriali tanto strumentali quanto pretestuose, come se si trattasse di due eserciti contrapposti. Ma soprattutto fra i giornalisti e i lettori, fra chi fa informazione e chi la riceve, fra produttori e destinatari delle notizie. La libertà di stampa, come ammoniscono i classici del pensiero liberale, è un bene tanto prezioso che bisogna sopportarne anche gli eventuali abusi.
sabatorepubblica.it

Repubblica 17.10.09
Ru486, via libera senza aspettare l'inchiesta
L’Aifa: in Gazzetta ufficiale entro il 19 novembre. L'indagine del Senato si chiuderà il 25
Il direttore dell'Agenzia del farmaco: lunedì l'ultimo sì, non si tornerà più indietro
di Michele Bocci


Il via alla pillola abortiva sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale entro il 19 novembre, l´indagine del Senato sulla Ru486 non bloccherà l´iter ormai concluso dell´organo tecnico, cioè dell´Aifa. Dopo settimane di silenzio, ieri il direttore generale dell´Agenzia italiana per il farmaco Guido Rasi è uscito allo scoperto a margine del congresso della Federazione medici di famiglia a Santa Margherita di Pula, in Sardegna. Lo ha fatto per dire che non si torna indietro, che il Parlamento non può più fermare l´approvazione del farmaco: «Il 19 ottobre il consiglio di amministrazione confermerà la delibera del 30 luglio». Cioè l´atto che ha deciso l´ingresso nel nostro sistema sanitario della pillola abortiva. Lunedì prossimo il Cda darà dunque mandato al direttore generale di inviare la determina alla Gazzetta Ufficiale. Tra l´altro Rasi non potrà apportare alcun cambiamento a quel testo. E anzi, se dovesse ritardarne la trasmissione potrebbe incorrere in un´omissione di atti di ufficio.
«Il passaggio del 19 - ha spiegato ieri Rasi - è formale, si leggerà il verbale di una decisione già presa il 30 luglio. Dopodiché la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale avrà i tempi tecnici, 20-30 giorni». L´Aifa in queste settimane è stata sottoposta a enormi pressioni politiche per spingere i vertici a bloccare, o rallentare, la già lentissima procedura che porterà all´utilizzo del discusso farmaco negli ospedali italiani. Il 22 settembre è stata istituita una commissione di indagine in Senato che ha invitato a parlare Rasi e il presidente Sergio Pecorelli nei primi giorni di ottobre. Quando il Cda dell´Agenzia, dopo l´ennesima sofferta riunione sulla Ru486, ha deciso di aspettare quelle audizioni in segno di rispetto istituzionale e rivedersi il 19 per la determina, la commissione del Senato ha posticipato l´incontro con Rasi al 21 ottobre. «Lo spostamento è stato proposto dal senatore Pd Lionello Cosentino e votato all´unanimità», precisa Antonio Tomassini (Pdl), che presiede la commissione e annuncia per il 25 novembre le ultime audizioni e la relazione conclusiva.
Il cambiamento della data, visto come un ennesimo tentativo di rimandare l´atto definitivo, la determina, avrebbe creato più di un mal di pancia dentro l´Aifa. Non senza malessere si è deciso per la rottura: la riunione del 19 è stata confermata. «Con tutto il rispetto che si deve alla commissione - ha detto ieri Rasi - noi procederemo, anche perché di fatto prima della pubblicazione in Gazzetta avrà tutto il tempo di sentire e approfondire tutti gli aspetti». È vero, ma a determina già scritta i senatori non potranno più fermare la procedura tecnica. «L´Aifa stabilisce le modalità di erogazione - prosegue Rasi- dopodiché il Parlamento o gli organi che hanno il potere di farlo stabiliscono le modalità di somministrazione e la compatibilità con la 194. Noi abbiamo fatto alcuni passaggi obbligati per il mutuo riconoscimento. La nostra delibera ha fatto in modo che invece di importarla legalmente ma in maniera scoordinata e fuori dalla legge 194 adesso la Ru486 venga canalizzata nell´ambito della legge sull´aborto».
L´uscita del direttore dell´Aifa è stata commentata, in modo piuttosto cauto, da Raffaele Calabrò (Pdl) componente della commissione sanità del Senato. «Non erano presenti speranze, né da parte mia né da parte del senatore Tomassini di rimandare il lavoro dell´Aifa. Quello che stiamo facendo è l´indagine conoscitiva, su quali sono le caratteristiche, le funzioni, le complicanze, i rischi di questo farmaco, e soprattutto su come questo farmaco può essere utilizzato senza andare contro a ciò che la legge 194 prevede. La nostra preoccupazione è che una serie di precauzioni che la 194 prevede, e che vogliamo che si mantengano, siano invece superate dalla Ru486».

Repubblica 17.10.09
Eugenia Roccella, sottosegretaria alla Salute: l´Agenzia deve fornire indicazioni precise
"Il Parlamento non può intervenire ma la pillola va data solo in ospedale"
di Mario Reggio


Il passaggio della delibera non è un puro atto formale. Ci sono pareri del Consiglio superiore da rispettare
L´indagine conoscitiva servirà a capire se la terapia farmacologica contrasta o meno con i principi della legge 194

ROMA - «Non è vero, come dice il direttore generale dell´Aifa Guido Rasi, che il passaggio della delibera nel Consiglio d´amministrazione è un puro atto formale. Aspettiamo di leggere cosa dirà. Ci sono i due pareri del Consiglio superiore di sanità che parlano di terapia della Ru496 da seguire solo in ospedale. É su questo che l´Agenzia italiana del farmaco deve dare un´indicazione». Eugenia Roccella, sottosegretaria alla Salute con delega alle questioni bioetiche, non sembra avere dubbi. Anche se mostra meno sicurezza rispetto ai mesi scorsi, quando sparava a zero sulla pillola Ru486.
L´indagine conoscitiva decisa dalla maggioranza ha allungato i tempi delle audizioni, ma l´Aifa ha deciso di andare avanti nelle procedure che autorizzano la commercializzazione del farmaco.
«Le procedure dell´Aifa seguono il loro iter. Il Parlamento non può intervenire. Ma l´indagine conoscitiva serve per capire se la terapia farmacologica contrasta o meno con i principi della legge 194 sull´aborto».
Che giudizio dà sulla 194?
«La legge ha dato buoni risultati proprio perché, gestita dalle strutture pubbliche a differenza di Spagna e Inghilterra, ha ridotto il numero degli aborti. Resta il problema delle donne immigrate che oggi costituiscono il 40 per cento delle donne che in Italia ricorrono all´interruzione di gravidanza. Serve, anche per loro, una campagna di prevenzione che eviti il ricorso all´aborto ad ogni costo».
Se l´Aifa decidesse che la Ru486 può essere assunta non solo in ospedale?
«Sarebbe in contrasto con due pareri, in tempi diversi, del Consiglio superiore di sanità ed anche con la legge 194, che parla chiaramente dell´insostituibilità della struttura pubblica».
La Chiesa, nei giorni scorsi, ha lanciato il suo decalogo contro la Ru486 assieme alla consueta condanna dell´aborto come abominio.
«La posizione della Chiesa cattolica non è nuova. Ma è anche vero che l´uso della Ru486 comporta una serie di rischi seri. A partire dall´aborto a domicilio. È una procedura che dura 15 giorni ed è fuori dal controllo medico. In questi 15 giorni è la donna che deve decidere se un improvviso afflusso di sangue necessita di un ricorso in ospedale. Una realtà che ritengo estranea alla legge 194, che parla dell´ aborto come di un problema che si deve assumere a livello sociale. In questa maniera la Ru486 sarebbe sottoposta a una forma di privatizzazione in rotta di collisione con la legge. E su questo l´indagine conoscitiva sarà sicuramente utile».
Lei sarebbe stata contenta se la Ru486 con fosse mai arrivata in Italia.
«In Italia la 194 ha prodotto una significativa diminuzione degli aborti; in Francia, con l´uso domiciliare della Ru486, è successo il contrario. Per non parlare di Spagna e Inghilterra dove la crescita è stata esponenziale».

Repubblica 17.10.09
La Ru486 tra scienza, fede e ideologia
risponde Corrado Augias


Caro Augias, ho letto della disputa tra il teologo Kung e Benedetto XVI. Se la Chiesa Cattolica è contraria, e lo è, all'aborto e all'uso della pillola RU486 fa bene a dirlo, e i suoi fedeli ne facciano tesoro. Mi sembra deprecabile che personaggi politici avallino l'affermazione di parte cattolica sulla pericolosità della pillola RU486. L'aborto è stata una vera iattura sociale quando a effettuarlo era una mammana, ma ora che viene praticato in strutture ospedaliere la pericolosità è rientrata nella norma delle operazioni semplici. Il sen. Gasparri che cerca di ritardare, e ci riesce, l'approvazione dell'uso della RU486, a mio avviso rinvia l'utilizzo di un metodo per l'interruzione della gravidanza più scuro e molto meno cruento. La sua pericolosità è stata giudicata una fanfaluca dai sistemi sanitari di tutti i Paesi europei. Naturalmente questi impacci stanno facendo slittare i tempi di approvazione prevaricando il volere di quei cittadini che non si ritengono tenuti a osservare i precetti della Chiesa. Noi atei infatti non diciamo che le donne incinte debbano abortire chirurgicamente o con la RU486, ce ne guardiamo bene e quindi ci aspettiamo che anche i vertici della Chiesa cattolica o di qualsivoglia religione, si comportino nello stesso e identico modo.
Arturo Martinoli arturo.martinoli@alice.it

Il punto di vista della Chiesa è lampante. Chiaro per esempio che la natura chimica e non chirurgica dello strumento abortivo, non cambia la sostanza del gesto. Su questo siamo tutti d'accordo. Il timore è che il gesto si banalizzi proprio perché meno cruento e meno doloroso, quindi che un maggior numero di donne vi ricorrano. L a logica è analoga a quella che ha impedito i Pacs o Dico, come nel resto d'Europa, perché avrebbero potuto banalizzare il matrimonio. L'altra affermazione è che la RU486 non è un farmaco, al contrario di quanto si afferma per la nutrizione forzata artificiale che sarebbe invece un farmaco. Nel primo caso quindi i medici possono non prescriverla, nel secondo sono invece costretti a praticarla anche a costo di violentare la volontà del povero paziente. La Chiesa tratta i temi medici da un profilo solo ideologico, ignorando l'opinione del mondo scientifico, arrivando al punto di dichiarare la RU486 molto pericolosa al contrario di quanto stabiliscono numerose aggiornate statistiche cliniche. «Il Papa riporta la Chiesa al medioevo», ha affermato Hans Kung uno dei massimi teologi cattolici (dissidente) nell'intervista a Stern . Ha anche precisato che Benedetto XVI agisce «sulla base della sua fede bavarese» ovvero «in modo premoderno e populistico». Non ci sarebbe da preoccuparsi troppo se non fosse l'ansia di servizio di alcuni parlamentari che si mettono a disposizione al fine di acquisire meriti per sé o per altri.

Repubblica 17.10.09
Dal mito alla realtà "Il vero labirinto non era a Cnosso"
di Enrico Franceschini


Una spedizione di archeologi anglo-greca ha scoperto tunnel e stanze segrete trenta chilometri più a sud Il re di Creta Minosse avrebbe rinchiuso il Minotauro, mostro metà uomo e metà toro, nelle grotte di Gortyna
Ladri avevano piazzato esplosivi sotto terra per far affiorare la "stanza del tesoro"

Londra. Ci siamo perduti, per qualche millennio, nel labirinto sbagliato. Quello originale non era a Cnosso, sede del palazzo mitologico di re Minosse, bensì a Gortyna, una trentina di chilometri più a sud, la capitale dell´isola di Creta durante la dominazione romana.
È la tesi di una spedizione archeologica anglo-greca, che scavando in un complesso di caverne nella nuova località ha scoperto una rete di tunnel, stanze e complicati passaggi sotterranei e lo ha identificato come il più probabile sito del labirinto. Le 600mila persone che ogni anno visitano Cnosso immaginando di trovarsi nel luogo del mito, afferma il professor Nicholas Howart, geografo della Oxford University, potrebbero essersi recate dunque nel posto sbagliato.
L´esistenza delle caverne di Gortyna era nota da secoli. Sono quasi quattro chilometri di tunnel sotterranei, evidentemente frutto di un lavoro umano, collegati da stanze, cunicoli, passaggi. Fin dal Medioevo giungevano visitatori interessati a esplorarle. Ma poi, tra il 1900 e il 1935, un ricco archeologo britannico, sir Arthur Evans, diresse un´imponente ricerca a Cnosso, annunciando al mondo di avere ritrovato il labirinto in cui Minosse aveva rinchiuso il Minotauro, lo spaventoso mostro metà uomo e metà toro. Da allora, per gli storici come il turismo di massa, non ci sono stati dubbi su dove fosse il labirinto di Cnosso: a Cnosso, per l´appunto. Ossia nel luogo menzionato da Omero.
«Il problema è che oggi la gente va a Cnosso per soddisfare il romantico desiderio di connettersi con l´era degli eroi della mitologia», dice il professor Howart, «senza domandarsi abbastanza se quello sia davvero il labirinto di Minosse. E così facendo si escludono altre ipotesi che sono altrettanto o più credibili. Un´altra possibilità indagata dagli studiosi, per esempio, è che il labirinto fosse a Skotino, dove è stata scoperta un´altra serie di caverne collegate tra loro. E questa estate noi abbiamo approfondito per la prima volta le ricerche a Gortyna, che dai nostri studi risulta forse la sede più probabile».
Gli archeologi anglo-greci hanno trovato tracce della presenza di ladri, che avevano piazzato perfino esplosivi sotto terra nella speranza di aprire una breccia nel labirinto e fare affiorare una presunta "stanza del tesoro" di Minosse. «È un luogo pericoloso», avverte il ricercatore, e del resto fu proprio lì che i nazisti nascosero un deposito di munizioni durante la seconda guerra mondiale, che secondo alcuni non fu completamente rimosso dopo la fine del conflitto.
Non tutti gli specialisti della materia sono convinti dall´annuncio del docente di Oxford, naturalmente. «La tradizione classica indica Cnosso come il sito originale del labirinto», osserva Andrew Shapland, curatore dell´era del bronzo greca al British Museum, «ed è lecito supporre che il labirinto originale, quello che ispirò il mito, fosse lì. Ammesso che sia mai esistito».
Lo stesso scopritore del nuovo labirinto, il professor Howart, precisa che secondo lui il labirinto era a Gortyna, «se il mito era davvero basato su un labirinto reale». Il rebus del labirinto, predice il curatore del British Museum, «è destinato a continuare». Bisognerebbe trovare il filo di Arianna, per risolverlo.

Corriere della Sera 17.10.09
«L’Altro di Sansonetti dovrà cambiare nome»


MILANO — Sansonetti e l’editrice Big dovranno cambiare nome all’ Altro . È la decisione del tribunale di Roma nella causa civile promossa dalla Gecem, editrice de l’Altro quotidiano, e dal direttore Ennio Simeone. Il giudice ha accolto la tesi dei legali della Gecem (tra i quali figura Romano Vaccarella che difende la Fininvest nel processo Sme) sul «pericolo di confondibilità tra le due testate» creato da Sansonetti e dalla Big per la denominazione scelta— dopo la registrazione di quella della Gecem — e la «sussistenza di violazione del diritto d’autore e concorrenza sleale» di un quotidiano, l’Altro , che reca sotto la testata la scritta 'la sinistra quotidiana'». Sansonetti e soci dovranno pagare 5mila euro per ogni violazione e inosservanza del provvedimento e un’ulteriore penale di 500 euro al giorno per l’eventuale ritardo nel cambio di testata. Oggi il giornale sarà in edicola. I legali della testata: «La redazione sta cercando di trovare il modo di rispettare la decisione del giudice».

Corriere della Sera 17.10.09
Socialisti riuniti a Volpedo Nasce il Manifesto dei valori


MILANO — Si riuniranno nella patria di Pellizza da Volpedo, oggi, i socialisti che si ritrovano nell’idea di creare una sinistra riformatrice e moderna. Il progetto è lanciato dal Gruppo di Volpedo (costituito lo scorso anno da una quindicina di circoli socialisti e libertari di Piemonte, Liguria e Lombardia). Ci saranno i socialisti del progetto di Sinistra e libertà (Riccardo Nencini, Claudio Fava, la presidente dell’Internazionale socialista donne Pia Locatelli), parteciperanno anche esponenti del vecchio Psi ora nel Pd: da Giusi La Ganga a Nerio Nesi. Quanto ai contenuti, sarà approvato il manifesto dei valori.

Corriere della Sera 17.10.09
Il «cupio dissolvi» dei democratici
La sindrome del nemico in casa
di Francesco Verderami


Ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice che «il più anti berlusconiano sarà chi manderà a casa Silvio Berlusconi» .
Ma se nel Pd non cessa la logica del nemico in casa, l’idea cioè che l’avversario da battere è il compagno di partito, il rischio è «diventare un’involontaria quinta co­lonna del Cavaliere». Un timore che non appartiene solo a Follini. Perché finora la sfida per la segreteria, invece di esaltare la competizione politica e culturale «ha fatto emergere — sono parole del filosofo De Giovanni — uno scontro per bande, una sorta di guerra civile interna. Spe­cie al Sud si avverte una perdita di etica politica: l’avversa­rio è dentro, e viene combattuto con tutti, ma proprio tut­ti i mezzi. Non vedo luce, solo una lotta intestina del vec­chio ceto politico». Così, mentre il premier si appresta a presentare la squadra dei candidati alle Regionali, il Pd resta bloccato fino al 25 ottobre dalla sfida per la segrete­ria, senza aver definito ancora le alleanze.
E le primarie, invece di offrire l’immagine di un partito capace di presentare tesi innovative, hanno mostrato — secondo il sociologo Ricolfi — «timidezza e assenza di progettualità dei candidati». L’opinione è frutto di uno studio che sarà pubblicato a breve: «Dal confronto si nota che non hanno la minima idea di cosa farebbero se fosse­ro al governo. Nei mesi scorsi, giustamente, i Democrati­ci avevano lanciato il tema della riforma degli ammortiz­zatori sociali, ma hanno pensato bene di dividersi». Per il resto il Pd si mostra contraddittorio, «perché — continua Ricolfi — se è giusto criticare lo scudo fiscale, poi non si può tifare per la sanatoria delle badanti. Non esistono sa­natorie buone e cattive». Ecco il motivo per cui definisce «patologica» la condizione di un partito che — come ha scritto Battista sul Corriere — non riesce a essere «polifo­nico », e si scaglia contro la Binetti per le sue posizioni sui temi etici. Sarà perché i dirigenti sono disabituati al con­fronto o perché non ci sono abituati? «Può darsi — com­menta De Giovanni — che qualcosa del vecchio centrali­smo democratico sia rimasto nel Pd. Quella però era una co­sa seria, sebbene fui tra i primi a criticarlo nel Pci».
Insieme alla voglia di epurazione, sono i segni di disaf­fezione al progetto l’altro fatto grave. Chiamparino dice di vivere da «estraneo», Rutelli scrive un libro sul «parti­to mai nato», e Bettini in un saggio sull’«Anno zero» del Pd descrive il passato per azzannare il presente: «Una vol­ta, dopo una sconfitta elettorale, si salvavano i partiti e si cambiava il gruppo dirigente. Oggi per salvare la classe dirigente si cambiano i partiti». L’assenza di tensione ai vertici si riflette anche nella base. Pagnoncelli lo racconta attraverso i suoi sondaggi: «La nascita del Pd — spiega il capo di Ipsos — aveva alimentato una forte aspettativa. Ma dopo la sconfitta elettorale sono riapparsi i vecchi ma­li. Non so se i dirigenti siano consci della distanza che li separa dal loro elettorato, che tuttavia si mostra per ora comprensivo. Attende l’esito delle primarie, ma per il do­po chiede scelte coraggiose: non solo una forte opposizio­ne al governo ma anche un freno alle minoranze interne. Temi etici a parte, vuole che il partito abbia una sola voce sulla politica economica e sociale, sulla legge elettorale, sull’immigrazione».
Sarà così, o la logica del «nemico in casa» continuerà a dilaniare il Pd, chiunque sarà il nuovo segretario? Perché le Regionali sono dietro l’angolo, e una sconfitta va mes­sa nel conto. «In quel caso — sospira Macaluso — penso e spero che non si riapra la questione della leadership. Sarebbe la fine». Polito concorda con Macaluso, ma il di­rettore del Riformista teme il «cupio dissolvi», perché «la conflittualità interna e il sistema correntizio sopravvi­vranno al 25 ottobre. E se il Pd perderà le elezioni si riac­cenderà lo scontro». Serve un patto tra i Democratici, per non venire ricordati come «quinta colonna» del Cavalie­re.

Corriere della Sera 17.10.09
Distrutto nei bombardamenti, ora vuole sfidare il Louvre
Berlino: riapre il Museo chiuso da settant’anni, ecco Nefertiti (e le critiche)
di D. Ta.


Il restauro del britannico Chipperfield bocciato dai tradizionalisti
233 Milioni di euro, la cifra spesa per la ristrutturazione del Museo egizio: i lavori sono durati 11 anni

BERLINO — Non è impossi­bile celebrare anniversari na­zionali con qualcosa di notevo­le. Vent’anni dopo la caduta del Muro, per esempio, oggi riapre a Berlino il Neues Mu­seum, chiuso da 70 anni. Non è solo una ristrutturazione straordinaria, non è solo la col­lezione egizia della città, Bu­sto di Nefertiti in testa, che tor­na nella sua casa: è il quinto e definitivo degli edifici museali neoclassici a riapre le porte sull’Isola dei Musei, ex parte Est della città, oggi pieno cen­tro. Un complesso che vuole ri­valeggiare con il Louvre, nelle intenzioni esplicite della Fon­dazione per il patrimonio cul­turale prussiano, un progetto che ha a che fare con un Paese che sa di dovere realizzare co­se importanti.
La ristrutturazione — 233 milioni di euro — pensata e ge­stita dall’architetto britannico David Chipperfield è partita dal presupposto che la storia dell’edificio non potesse esse­re cancellata o nascosta.
Il problema era che il mu­seo, costruito nel 1847, fu pe­santemente bombardato nel 1943 (era già stato chiuso e svuotato delle opere nel 1939) e da allora abbandonato a se stesso perché, dopo la guerra, la Germania Est non aveva il denaro per rimetterlo in fun­zione. Negli Anni Novanta, quando il governo e la città— riunificati — decisero di ri­strutturarlo, molti pensavano si dovesse semplicemente fare tornare l’edificio com’era set­tant’anni fa. Chipperfield, inve­ce, ha inserito elementi moder­ni dove c’era da ricostruire, ha recuperato gli originali recupe­rabili e ha lasciato visibili le tracce della storia, che è poi quella tedesca, cioè i danni del­le bombe e dell’incuria dei de­cenni della Ddr. La grande scalinata, che è il cuore del museo, è stata rifatta con disegno e materiali moder­ni. Gli affreschi sono stati recu­perati nelle parti visibili, men­tre il resto è stato lasciato bian­co. Una serie di archi sono sta­ti ricostruiti con mattoni a vi­sta. Alcune colonne sono nuo­ve ma restano molti capitelli originali.
I buchi fatti dai bombarda­menti sono ovviamente stati chiusi ma rimangono ricono­scibili. Le pareti scrostate, alcu­ne rosse alcune verdi, sono sta­te restaurate ma i segni dell’in­tonaco caduto lasciati bianchi. Il risultato, a opinione di gran parte dei berlinesi che hanno visitato l’edificio vuoto duran­te due giorni di apertura la scorsa primavera, è straordina­rio. Quando l’ha inaugurato, ieri, la cancelliera Angela Me­rkel sembrava sinceramente impressionata. «È un progetto del quale i nostri figli non po­tranno non essere felici», dice Dietrich Wildung, il direttore della collezione egizia che — assieme all’arte preistorica e a un pezzo di filo spinato del Muro di Berlino — è ospitata nelle sale del Neues Mu­seum.
Non che tutti siano sod­disfatti. Anzi, durante gli 11 anni di ristrutturazio­ne le polemiche sono state feroci. Nel 2007, un gruppo di cittadi­ni tradizionalisti raccolse firme su una petizione — «Salviamo l’Iso­la dei Musei» — che però ricevette solo seimila adesio­ni. Poi, la Società per l’antica Berlino accusò Chipperfield, un altro britannico, di continuare la di­struzione iniziata dai bombar­damenti e ora ha scritto al­l’Unesco per invitarla a mette­re l’Isola dei Musei nella lista dei Siti patrimonio dell’umani­tà a rischio di perdere questo titolo. Anche perché, sempre sulla Museumsinsel, Chipper­field dovrebbe ora costruire un nuovo edificio che funzio­nerà da reception per i cinque musei.
Poi, tra il 2011 e il 2026, sa­ranno ristrutturati anche il Per­gamonmuseum e l’Altes Mu­seum, il che porterà il costo dell’intervento sull’intera Iso­la a un miliardo. Si può fare.

Corriere della Sera 17.10.09
Nel suo romanzo Massimo Nava racconta, oltre all’eroe, i due fratelli meno noti
La saga dei Bixio senza Garibaldi
Non solo il patriota: ci furono anche un politico e un missionario
di Matteo Collura



Tre fratelli, un cognome celebre: Bixio. E subito viene in mente il ge­nerale elogiato da Garibaldi come «primo dei Mille». Ed è comprensi­bile che sia lui, Nino (Girolamo all’anagrafe) a essere ricordato come il più importante dei Bixio. Ma i suoi due fratelli, Alessandro e Giuseppe, meritano di essere conosciuti non meno del loro congiunto più famoso. Lo dimostra una biografia di Massimo Nava, giornalista, corrispondente del «Corriere della Sera» da Parigi, che intreccia le tre vite con un racconto romanzesco non ascrivibile alla tipica narrativa di casa nostra, a partire dall’originalità d’impianto e dalla resa espressiva: La gloria è il sole dei morti (Pon­te alle Grazie).
È il generale garibaldino, già un vec­chio a cinquant’anni, ad aprire e chiu­dere il romanzo, ma, grazie a ben congegnati flashback , le rispettive vi­te dei tre fratelli s’impongono come esperienze memorabili degne di es­sere raccontate autonomamente.
Nel 1872, quando Nino Bixio en­tra nella casa di Rue Jacob, a Pari­gi, dove il fratello Alessandro è morto da sette anni, è come se per lui si aprissero le porte di un museo (le stesse che si schiudo­no alla fantasia del lettore). Il ge­nerale non sa più quante cicatri­ci ha in corpo, si sente vecchio e stanco. Ma un ambizioso pro­getto lo tiene ancora in piedi: far­si costruire una nave, armarla, e con essa solcare le acque dell’Estremo Oriente, laggiù tra le isole dell’Indonesia.
Cosa ne penserebbe il fratello «france­se »? Muovendosi in quella che ormai gli ap­pare come una casa-museo, accolto da un nipote che ne conosce le gesta dai racconti del padre, ora può misurare la distanza che lo separa da Alessandro, ma riconoscere an­che l’ammirazione che ha sempre avuto per lui.
Nato a Chiavari nel 1808, terzogenito di sette fratelli (Nino, di tredici anni più giova­ne, era ultimo), Alessandro aveva studiato a Parigi, dove aveva intrapreso una brillante carriera politica, divenendo, tra il 1848 e il 1851, membro dell’Assemblea Costituente e della Legislativa. Un francese illustre, «Alexandre» Bixio, la cui agiata casa era di­venuta sede di riunioni conviviali talmente importanti per la cultura e la politica da pas­sare alla storia come i Dîners académiques.
Vi partecipavano funzionari di governo, de­putati, banchieri, diplomatici, intellettuali, artisti; lo scrittore Dumas padre tra i più as­sidui.
Alessandro aveva aiutato il fratello mino­re, finanziandone imprese e pagandone i de­biti. Lui aveva ricambiato con l’ingratitudine del suo orgoglio. Sempre. Ma ora, reduce da troppe avventure, sazio di vita, il generale sa in che parte del cuore custodire la memoria del fratello, trarre dai suoi consigli un viati­co. Con questa convinzione può partire per l’Inghilterra dove, accumulando debiti su de­biti, riuscirà a farsi costruire la nave dei so­gni e a prendere il mare, primo comandante italiano ad attraversare il canale di Suez.
Anche un altro fratello, pure lui staccatosi ragazzo dalla famiglia, sarebbe bello sapesse della sua nuova impresa. Ma Giuseppe Bixio si trova da qualche parte negli Stati Uniti, missionario gesuita. E qui Nava apre un al­tro capitolo che ha dell’incredibile per la va­rietà di avventure di cui è protagonista il ge­suita «Joseph» Bixio. Basti dire che, come cappellano, si trovò a partecipare alla guerra di secessione e che, anche lui spinto dal ca­rattere ardito, viaggiò in Australia, facendo poi ritorno negli Usa, dove fu tra i fondatori dell’università cattolica di San Francisco.
Una triplice biogra­fia, dunque, il romanzo di Massimo Nava. Ma è anche altro. Soprattut­to un modo diverso di raccontare la vita di uno dei nostri eroi na­zionali, per farne risal­tare la vocazione mari­nara, fin da quando, ra­gazzo scacciato da una scuola di Genova per motivi disciplinari, Ni­no si era imbarcato co­me mozzo, destinazio­ne i mari d’Oriente. Sfuggito agli squali e ai pirati malesi, dopo es­sere stato venduto co­me schiavo e poi libera­to, aveva iniziato la car­riera di avventuriero pronto ad accorrere, classico eroe dell’Otto­cento, al richiamo della patria.
E siamo all’epopea garibaldina di cui Nino Bixio fu protagonista in­discusso.
Anche per i noti fatti di Bronte, in Sicilia, dove il generale ligure, dopo un pro­cesso sommario, fece sbrigativamente fucila­re cinque imputati ritenuti capi della sangui­nosa rivolta (due di loro, tra cui lo scemo del paese, innocenti). Ma quell’episodio, sem­bra volerci dire Nava, è piccola cosa nella vi­ta di Bixio. Il generale non se ne sarebbe ne­anche ricordato, quando, divorato dalla feb­bre e prosciugato dalla diarrea, sarebbe mor­to di colera nel 1873, nella cabina della sua nave, nelle acque dell’isola di Sumatra, pro­prio là dov’era naufragato da ragazzo. 


venerdì 16 ottobre 2009

l'Unità 16.10.09
Lo strappo di Fim e Uilm Firmato l’accordo separato
Firmato il contratto dei metalmeccanici è bufera tra i sindacati. La Fiom attacca: «Andremo in tribunale per difendere i diritti dei lavoratori». Per Fim e Uilm si tratta di un successo. Soddisfatto anche Sacconi.
di Giuseppe Vespo

Disaccordi. Sulla base delle nuove regole stabilite dall’accordo separato del 22 gennaio, Federmeccanica, Fim e Uilm hanno rinnovato ieri il contratto nazionale dei metalmeccanici. La Fiom no. Così come, per motivi diversi, in prima battuta Ugl e Fismic. Che poi hanno recuperato.
SOLDI
L’intesa prevede un aumento salariale medio di 112 euro, pari a 110 euro per il quinto livello. Soldi che entreranno lordi nelle buste paga di almeno un milione e trecentomila lavoratori in tre tranche, nell’arco del triennio 2010-2012: la prima più leggera, come richiesto dalle imprese, arriverà dal primo gennaio e sarà di 28 euro; poi 40 euro dal 2011 e 42 euro dal 2012.
Mentre dal primo gennaio 2011 sono previsti, per tutti i lavoratori che non godono della contrattazione integrativa, 15 euro mensili. Col rinnovo è stato istituito un fondo di sostegno al reddito, che dovrebbe aiutare i lavoratori interessati da sospensioni, congedi o malattia. Il fondo verrà gestito da un ente bilaterale, quindi partecipato da lavoratori e imprese, che dovrebbe nascere
I metalmeccanici hanno raggiunto un accordo separato sul contratto
nell’arco di un paio d’anni, utili per costituirlo e raccogliere le risorse. Il fatto che dal nuovo ente siano stati esclusi sia l’Ugl sia la Fismic, ha spinto questi due sindacati a non sottoscrivere l’accordo.
Con l’intesa viene, infine, incrementato di circa cinque euro il contributo a Cometa, il fondo di previdenza complementare delle tute blu. Soddisfatti i metalmeccanici di Fim e Uilm, così come Federmeccanica. Furiose Fiom e Cgil, a partire da Guglielmo Epifani, che annunciano battaglia.
FIOM
«Non escludiamo di portare questo contenzioso in tribunale», dice Fausto Durante, segretario nazionale della Fiom, che aggiunge: «A partire dal comitato centrale del 20 ottobre, metteremo in atto tutte le iniziative per impedire che questo contratto possa essere applicato e produca danni ai lavoratori. È stata una trattativa finta ha aggiunto Durante operata da sindacalisti mediocri che hanno gettato nel fango il prestigio delle loro organizzazioni».
SUCCESSI
Giuseppe Farina, segretario della Fim-Cisl, parla invece di «successo», che verrà premiato dai lavoratori. Innanzitutto per gli aumenti, che «tuteleranno per tre anni i salari dall’inflazione». Mentre, in riferimento alle critiche arrivate dalla Fiom, aggiunge: «Noi siamo un sindacato che porta a casa i risultati». Infine, sul fondo di sostegno al reddito criticato dall’organizzazione di Rinaldini perché «arriverà tra due anni, mentre oggi ci sarebbe bisogno di estendere gli ammortizzatori sociali» i leader Fim annuncia: «Federmeccanica sottoscriverà con noi un avviso al governo per estendere gli ammortizzatori e chiedere la detassazione delle retribuzioni». «Il mio giudizio è estremamente positivo gli ha fatto eco Tonino Regazzi, il segretario Uilm per la quantità di soldi, per il sostegno al reddito e peri tempi rispettati».
«Grande soddisfazione» anche per Emma Marcegaglia, presidente Confindustria, e Pier Luigi Ceccardi. Anche se il presidente di Federmeccanica ha giudicato le critiche della Fiom «molto dure e con accenni di minaccia». Tutto bene per il ministro Sacconi, regista dell’accordo separato del 22 gennaio, per il segretario Cisl Bonanni e per quello Uil Angeletti. Così come per il Pd ed ex Federmeccanica, Calearo. Mentre l’ex Cgil Paolo Nerozzi, senatore Democratico, sostiene la Fiom. Ma i primi ad insorgere per le tute blu Cgil sono stati i lavoratori: a Torino, Milano, Padova, Vicenza e in altre città sono partiti scioperi spontanei. Dalla base al vertice, tutti pronti a dare battaglia all’accordo separato. Si apre una nuova stagione.❖

l'Unità 16.10.09
Intervista a Gianni Rinaldini
«Un colpo di Stato. Sosterremo tutte le vertenze legali»
Il segretario della Fiom: «È l’aumento più basso della storia. Non applicheremo quelle regole Chi parla di coesione sociale ci prende in giro»
di Laura Matteucci

Sosterremo tutte le vertenze legali, ovunque verranno aperte. Le aziende devono pensarci bene ad applicare le parti normative dell’ac-
cordo separato, quando in realtà il contratto scade a fine 2011. Del resto, so che in molte aziende non c’è entusiasmo per un’intesa che deriva solo da un patto politico tra Confindustria e governo. Noi quelle regole non le applicheremo, e che nessuno ci prenda più in giro parlando di coesione sociale». Per il segretario generale della Fiom Gianni Rinaldini quello appena firmato da Fim, Uilm e Federmeccanica si confingura come «un colpo di stato», un accordo su una piattaforma mai convalidata dai lavoratori, e per la quale al massimo si pensa ad un referendum tra i soli iscritti, ovvero il 15-20% dei lavoratori. «Se è un accordo così bello, lo facciano votare a tutti: se finiremo in minoranza, ne prenderemo atto e lo accetteremo».
Nel merito dell’accordo: come giudica la parte economica?
«L’aumento concordato (110 euro al V livello, ndr) è il più basso che i metalmeccanici abbiano mai avuto. Ricordiamoci che l’aumento non vale più per due, ma per tre anni, senza alcuna certezza sui recuperi, e con l’introduzione di un meccanismo che sancisce una costante diminuzione dei salari. Non esiste più, per esempio, il cosiddetto valore del punto: ad ogni punto di inflazione corrispondeva una cifra convenzionale, rivalutata ad ogni contratto. D’ora in poi il riferimento sarà inferiore».
Passiamo alla parte normativa.
«Sono state definite questioni molto gravi, che aprono la strada alle deroghe dal contratto nazionale. Mentre noi avevamo chiesto il blocco dei licenziamenti e l’estensione degli ammortizzatori sociali, l’accordo parla di un fondo di solidarietà operativo dal 2012-2013: come dire, una risposta tempestiva alla crisi. Evidentemente, da qui ad allora l’intenzione è di procedere con altre operazioni, come quella sulla privatizzazione degli ammortizzatori già annunciata da Sacconi». Il ruolo di Fim e Uilm: vuole commentare?
«L’operazione compiuta è di una gravità assoluta, mai accaduta nella storia del sindacato. E non so se abbiano consapevolezza che la legittimazione è la controparte a fornirgliela, certo non i lavoratori. Comunque, quanto è accaduto va oltre la dimensione sindacale: tutti, a partire dalle forze politiche, hanno il dovere di pronunciarsi sul diritto dei lavoratori a votare il proprio contratto. È una questione essenziale, che richiede un atto legislativo».❖

l'Unità 16.10.09
Quel silenzio fastidioso dei candidati del Pd
Il contratto separato non è solo un fatto sindacale, è un atto politico col quale governo e imprese cambiano i rapporti di lavoro. È ora di parlare
di Rinaldo Gianola

La firma separata del contratto dei metalmeccanici tra Federmeccanica e due sindacati minoritari (Fim e Uilm sono ben lon-
tane dalle dimensioni della Fiom) non è solo un importante fatto di relazioni industriali. Questo contratto, per le condizioni economiche e normative che presenta, per le finalità condivise di governo e imprese, per l’impatto che avrà sulle condizioni di vita e di lavoro di un milione e
mezzo di lavoratori, rappresenta un rilevante fatto politico sul quale sarebbe opportuno che anche il Pd facesse sentire la sua valutazione.
Il contratto separato è una grave sconfitta per il sindacato confederale italiano, perché priva ancora una volta una grande categoria dell’industria di un accordo unitario, forte, condiviso, capace di tutelare i diritti dei lavoratori in un momento di gravissima difficoltà. Il Pd, che fino ad oggi è stato in silenzio davanti alle manovre del governo e degli industriali per isolare ed escludere la Cgil e in particolare la Fiom, dovrebbe forse intervenire almeno per quanto riguarda le quesioni attinenti la demo-
crazia sui luoghi di lavoro, tenuto conto che i sindacati minoritari che hanno siglato l’accordo impegnano tutta la categoria dei metalmeccanici i quali non potranno esprimere democraticamente il loro voto. Senza discutere il merito sindacale del contratto “conquistato” (gli operai incasserano circa 15 euro netti nel 2010...), i tre candidati alla guida del Pd potrebbero almeno esprimersi sulla questione del voto dei lavoratori e sulla valenza politica di questo rinnovo. È comprensibile che Bersani, Franceschini e Marino non vogliano aprire polemiche e contenziosi in questa delicata fase, anche perché tutti e tre probabilmente godono di appoggi di iscritti a Cgil, Cisl e Uil nella loro corsa alle primarie. Ma questa partita merita, davvero, che si abbandoni l’inutile, fastidioso bon ton della separatezza tra sindacato e politica, per mettere i piedi nel piatto.
Dietro il nuovo modello contrattuale, dietro la firma del rinnovo separato dei metalmeccanici, dietro le parole del falco Bombassei che dopo il contratto unitario degli alimentaristi invitava a rispettare le nuove regole (cioè a isolare la Cgil), c’è un diverso scenario, un’altra e contrastante concezione dei rapporti tra impresa, governo e sindacato. Anche se gli inviti all’unità fanno sempre bene, è evidente che le tre confederazioni sindacali hanno ormai una visione della loro missione completamente diversa. Cisl e Uil hanno optato per una scelta neoconsociativa e attendono di partecipare, al più presto, alle tavole imbadite degli enti bilaterali. La Cgil è rimasta da sola (se può essere sola una confederazione con 5 milioni e mezzo di iscritti), sola anche sui fronti più caldi e pericolosi della crisi, dove sono spesso gli uomini e le donne della Fiom a metterci la faccia, a prendere i rischi di una situazione sociale incandescente.
La realtà oggi è che Sacconi, Brunetta e Bombassei, con la firma dei sindacati minoritari, hanno ottenuto quello che volevano: escludere la Fiom. Obiettivo raggiunto. La Cgil e la Fiom, attese dai loro congressi, valuteranno se le loro politiche sono adeguate al momento e alla difesa reale degli interessi dei lavoratori. Nel frattempo i tre candidati a guidare il Pd, che sono andati persino dalle Jene, dicano quello che pensano sui metalmeccanici. Cipputi è serio, merita rispetto se si vuole il suo voto.❖

l'Unità 16.10.09
Se i Democratici avessero una posizione coerente sui diritti degli omosessuali, la teodem sarebbe solo un problema bizzarro di eterodossia
Gay e Pd, un caso oltre Binetti
di Luigi Manconi

Il tema che oggi affronto richiede, come premessa, un rito umiliante: quello di esibire, sfacciatamente, le proprie cre-
denziali per evitare fraintendimenti. Dunque, mi tocca ricordare che, fin dalla metà degli anni ’80, ero uno dei rari eterosessuali (pur sapendo già allora che non vanno posti limiti alla Divina Provvidenza), a essere invitato in qualità di sociologo ai convegni dell’Arcigay; da parlamentare, fui l’autore del primo disegno di legge sul riconoscimento delle unioni civili.
Assolta questa degradante procedura, passo subito a dire che sono decisamente contrario all’ipotesi – sostenuta da molti – di espulsione di Paola Binetti dal Pd. Va da sé che ritengo le posizioni della Binetti non solo politicamente rovinose, ma anche in particolare quelle sull’omosessualità risibili sul piano scientifico. E tuttavia non ne voglio l’espulsione. Innanzitutto perché non intendo militare in un partito dove si adotti un provvedimento di esclusione a causa di posizioni ideologiche o politiche o culturali. Non lo ritengo necessario e, dunque, lo reputo dannoso. Si tenga conto poi, che in occasione del dibattito parlamentare sulla legge contro l’omofobia la posizione della Binetti non ha avuto il minimo seguito (mentre il centro destra ha registrato 19 defezioni): perché mai dovremmo averne paura, fino al punto di espellerla? Si pone, piuttosto, un problema diverso: perché Paola Binetti è stata eletta (ovvero nominata, secondo l’attuale legge elettorale) nelle liste del Pd? Quale è la sua base sociale, la sua area culturale, il consenso di cui gode, gli interessi, le ragioni e le passioni che è in grado di mobilitare? La Binetti è diventata parlamentare per il solo ed esclusivo motivo che andava a formare, come usa dire, «una componente del Pd» (quella che allora faceva capo a Francesco Rutelli). Dunque, la sua funzione più che a rappresentare un’area culturale o un orientamento sociale era finalizzata a rafforzare un segmento della leadership del partito.
Ma ora, una volta commesso un tale madornale errore, guai a volerci mettere a tutti i costi una pezza. Se il Pd su un tema come quello dei diritti delle persone omosessuali avesse una posizione coerente, non imbarazzata e subalterna, quello della Binetti si ridurrebbe a poco più che a un caso un po’ bizzarro di eterodossia. Se così non è, lo si deve al fatto che sul tema delle unioni civili, e non solo non si è voluta elaborare una proposta, sulla quale misurarsi e assumere una decisione a maggioranza. E, ancor peggio, si è consentito che si perpetuasse una insensata contrapposizione tra laici e cattolici: quasi che nella domanda di diritti delle coppie omosessuali non fosse presente una motivazione morale e un riferimento a valori, tanto degni quanto quelli propri dell’ispirazione cattolica. È ovvio che, se si va al confronto con atteggiamento rinunciatario e con un radicato complesso di inferiorità, l’esito negativo risulta inevitabile. Correre ai ripari ora, facendo la voce grossa contro chi ha dissentito non è semplicemente inutile: è persino un po’ sciocco. Se vuole andarsene, la Binetti, che se ne vada lei con le proprie gambe.
Su Avvenire del 10 Ottobre, Gianni Gennari replica alla mia rubrica di venerdì scorso dedicata al Testamento biologico. Gennari, pur eruditissimo, sembra ignorare che le conferenze episcopali spagnola e tedesca hanno prima auspicato e poi fattivamente contribuito a elaborare, in una forma interamente condivisibile, intelligenti normative sul biotestamento. E, pur non avendo io mai evocato la parola eutanasia, Gennari insiste tetragonicamente su quella. Lascio volentieri a lui simili artifici polemici e prendo seriamente in esame una sua affermazione: «due anni fa all’Istituto italiano tumori di Milano su 40 000 malati risultavano solo 4 (0,01%) richieste di eutanasia». Giusto. Ma il significato di un tale dato è esattamente opposto a quello richiamato da Gennari. E, infatti, l’eventuale depenalizzazione dell’eutanasia, a condizioni rigorosissime e in casi estremi non significa in alcun modo «suicidio assistito per tutti». Significa, piuttosto, accogliere la domanda di quella, grazie al cielo, esiguissima minoranza (fosse anche lo 0,01%) che non trova altra soluzione alla propria insanabile sofferenza e alla propria irreparabile solitudine. Infine. Con quella alterigia che è propria della fede quando si fa mondana sicurezza di sé, Gennari si chiede: «quanti malati terminali hanno davvero assistito, di persona fino alla fine, certi pur patentati maestri del pensiero?». Detto sommessamente: quando si rivendica l’esclusiva della misericordia si è a un passo dalla blasfemia. ❖

Repubblica 16.10.09
L’aborto delle ragazzine che divide la Spagna
Domani la destra cattolica sfilerà con due milioni di persone contro la legge che consente l’interruzione di gravidanza alle minorenni
di Guido Rampoldi

MADRID. Dal Vaticano sono arrivati inviti alla sobrietà e alla misura, oltre che l´incitamento implicito nella recentissima beatificazione di tre santi monaci, guaritori di neonati affetti da mali incurabili e facilitatori di gravidanze scientificamente impossibili (per mezzo della preghiera, beninteso). Ma quando si consegna alla piazza un argomento delicatissimo come l´aborto, in questo caso permesso anche alle sedicenni, è inevitabile che i toni sommessi siano sopraffatti dai clamori della mischia politica. E infatti la manifestazione di domani a Madrid sarà soprattutto il raduno identitario di una destra cattolica che non riesce più a definirsi se non nei termini di quel che non è, e dunque ha un bisogno assoluto del nemico (Zapatero, i "rossi", i "laicisti", tutti "nemici della vita").
Nei numeri sarà un successo, questo è sicuro. La capitale invasa da uno o due milioni di spagnoli, promettono gli organizzatori. La più grande dimostrazione contro l´aborto mai avvenuta in Europa, anzi nel mondo, proclamerà l´indomani la stampa amica. La riprova visiva che la mobilitazione delle parrocchie e il lavorio della destra simpatetica in sei mesi sono riusciti a spostare una quota di opinione pubblica, quel tanto che basta perché nell´ultimo sondaggio diventino maggioranza gli spagnoli contrari alla nuova legge sull´aborto.

Dal Vaticano sono arrivati inviti alla sobrietà e alla misura, oltre che l´incitamento implicito nella recentissima beatificazione di tre santi monaci, guaritori di neonati affetti da mali incurabili e facilitatori di gravidanze scientificamente impossibili (per mezzo della preghiera, beninteso). Ma quando si consegna alla piazza un argomento delicatissimo come l´aborto, è inevitabile che i toni sommessi appropriati a discuterne siano sopraffatti dai clamori della mischia politica.
E infatti la manifestazione di domani a Madrid sarà soprattutto il raduno identitario di una destra cattolica che non riesce più a definirsi se non nei termini di quel che non è, e dunque ha un bisogno assoluto del nemico (Zapatero, i "rossi", i "laicisti", tutti "nemici della vita"). Nei numeri sarà un successo, questo è sicuro. La capitale invasa da uno o due milioni di spagnoli, promettono gli organizzatori. La più grande dimostrazione contro l´aborto mai avvenuta in Europa, anzi nel mondo, proclamerà l´indomani la stampa amica.
La riprova visiva che la mobilitazione delle parrocchie e il lavorio della destra simpatetica in sei mesi sono riusciti a spostare una quota di opinione pubblica, quel tanto che basta perché nell´ultimo sondaggio diventino maggioranza gli spagnoli contrari alla nuova legge sull´interruzione della gravidanza proposta dal governo socialista. Ma se un raduno così grandioso vuole essere anche il segnale della riscossa cattolica in Spagna e in Europa - così come confida il Vaticano, per nulla estraneo all´iniziativa - allora quelle attese sono eccessive.
Infatti la grande maggioranza degli spagnoli non intende rinunciare alla legge sull´interruzione della gravidanza attualmente in vigore. È scettica sulla riforma progettata dal governo perché permette alle minorenni sopra i 16 anni di abortire senza il consenso dei genitori. Ma questa ed altre modifiche non cambieranno la sostanza delle cose.

Domani la grande manifestazione di Madrid Due milioni in piazza per dire no all´aborto E alla norma che consente alle sedicenni di interrompere la gravidanza senza il consenso dei genitori. Sotto accusa il premier. E così la destra torna ad attaccare la laicità dello Stato
Una grande folla sfilerà per le vie della capitale Grazie al lavoro delle parrocchie
Dal Vaticano sono arrivati ai partecipanti inviti alla sobrietà e alla misura
In prima fila ci sarà anche l´ex leader Aznar, da sempre contrario a questa riforma
Nel Partito popolare la fronda contro il segretario Rajoy giudicato troppo moderato
L´attacco feroce ai socialisti da parte del vescovo di Huesca: "È una legge criminale"

Ogni anno in Spagna si praticano legalmente centomila aborti, oggi come alla fine della scorsa decade, quando la destra di Aznar governava con la maggioranza assoluta e perciò era nelle condizioni di mettere al bando quelle pratiche mediche, se solo avesse voluto.
Eppure Aznar domani sarà in piazza, e con lui tutta la sua corrente, una destra opportunista, all´occasione clericale, che vorrebbe riprendersi il Partido popular detronizzando l´attuale segretario, il moderato Mariano Rajoy.
Quest´ultimo diserterà la manifestazione con il pretesto di "non politicizzarla". Insieme agli aznaristi sfileranno migliaia di ragazze che si sorprenderebbero se sapessero che la loro morale sessuale spartisce poco con i precetti millenari della Chiesa, e assai più con le audacie di quelle anarchiche che ottant´anni fa inventarono il femminismo nel palazzo della Gran Via dove si riunivano le Mujeres Libres, le «Donne libere». Infatti quelle ragazze usano i contraccettivi, hanno rapporti prematrimoniali, divorziano se non ne possono più del marito, e fin quando Zapatero non ha messo mano alla questione, parevano convivere serenamente con quanto oggi alcuni vescovi chiamano «Olocausto», «sterminio», «infanticidio di massa», insomma le interruzioni della gravidanza. Non lo avvertivano come uno scandalo. Se era una strage, non se ne accorgevano.
Forse soltanto i Paesi cattolici riescono ad essere ipocriti in modo così convincente. Nello spettacolo in allestimento, ciascun protagonista adatta la propria maschera alle convenienze. Nel programma con cui i socialisti hanno vinto le ultime elezioni, la riforma dell´aborto non era citata; e interpellato a riguardo alla vigilia del voto, Zapatero aveva negato di progettare un intervento legislativo. Ma se in quel momento gli occorreva mostrarsi moderato all´elettorato moderato, un anno dopo altre esigenze politiche gli chiedevano di atteggiarsi a radicale.
Doveva risucchiare voti alla sinistra rosso-verde (incombevano le europee) e soprattutto evitare che le fasce sociali più colpite dalla crisi insorgessero contro il governo socialista. Per tutto questo, gli occorreva che si materializzasse all´orizzonte un nemico comune, minaccioso e aggressivo.
Nel ruolo è perfetta quella parte della Chiesa non riesce a nascondere un certo rimpianto non tanto per la dittatura di Franco, quanto per il ruolo e per il prestigio di cui le tonache godevano in quella Spagna disciplinata e ubbidiente. Questo clero belligerante detesta i «rossi» con un trasporto sorprendente in pastori di anime. E provocato, non rinuncia mai ad uno scontro in cui possa dare libero corso sia ad un astio inconfessabile in quella intensità, sia ad una travolgente ansia di protagonismo.
Così, all´inizio di quest´anno, Zapatero scopre l´esistenza di «una domanda sociale»: gli spagnoli vogliono una nuova legge sull´aborto. Il premier ha motivato nello stesso modo ognuna delle sue scorribande oltre le mura diroccate della morale tradizionale: c´era sempre una «domanda sociale», in genere mai quantificata. Ma il clero belligerante non è meno insincero quando sostiene che la Spagna rigetta le riforme laiche. Stando ad un sondaggio recente le questioni che più preoccupano l´opinione pubblica sono, nell´ordine: disoccupazione, problemi economici, terrorismo, immigrazione, mancanza di sicurezza, qualità della classe politica, indipendentismo catalano, guerre, razzismo, nazionalismi etnici, corruzione. Matrimoni gay, riforma dell´aborto, l´espulsione del crocefisso dalle scuole, insomma l´offensiva «laicista» attribuita a Zapatero, nulla di tutto questo suscita particolare inquietudine nella maggioranza degli spagnoli. Se ne potrebbe concludere che la religione cattolica ha perso rilevanza.
Oppure che in Spagna distanze siderali ormai dividano i cattolici e il loro clero, i precetti e i comportamenti, i valori professati e le scelte concrete di ciascun fedele.
In apparenza la manifestazione di Madrid aiuterà a ridurre quelle distanze.
Molti vescovi ne sono stati promotori e ne hanno difeso le motivazioni sui giornali, spesso con i toni sanguigni che gli organizzatori, un cartello di formazioni cattoliche, invece hanno cura di evitare. I quotidiani della destra che ospitano le prose di quei prelati spesso le corredano con le foto degli autori, nei cui volti incongruamente ilari non v´è alcuna traccia dell´angoscia dichiarata. La riforma progettata dal governo viene in genere definita «criminale». Comporterà «un infanticidio suicida», afferma il vescovo di Huesca. E monsignor Munilla: mi sentirei più sicuro in una nazione governata da un gangster che da qualcuno che «consideri un diritto ammazzare una creatura nel seno materno». Quel qualcuno peggiore di un gangster ovviamente è Zapatero. Poche pagine più avanti lo stesso quotidiano pubblica colonne di annunci erotici.
L´arcivescovo castrense promette che alla manifestazione verranno anche non credenti («alcuni di loro me lo hanno detto»). Difficile immaginare che una discussione sull´aborto a questi livelli possa interessare tanto i non pochi atei che in argomento hanno più dubbi che certezze, quanto gli elettori socialisti che si dichiarano cattolici praticanti (in percentuale doppia di quelli che si dichiarano agnostici). Se questo è vero, allora il successo di Madrid sarà per la Chiesa una vittoria inutile. Forse convincerà il governo ad apportare ritocchi alla sua legge. Ma non convincerà la Spagna a mettere in discussione l´aborto. In piccola misura potrebbe aiutare Aznar e nuocere a Rajoy e ai liberali del Partido popular. Certo non spaventerà Zapatero. Anzi.
Il premier ha sempre tratto beneficio dal riflesso identitario che percorre la sinistra spagnola ogni volta che egli si scontra con la Chiesa.
Uno o due milioni di spagnoli che scendono in piazza contro il governo e ne chiedono le dimissioni sono un incubo per il premier socailista solo se i dimostranti sono operai, pensionati e disoccupati, le categorie più colpite da una crisi economica che in Spagna morde più che altrove in Europa. Ma se sono preti e destra cattolica, tanto di guadagnato.

Repubblica 16.10.09
La scrittrice e poetessa catalana Angela Vallvey: "Una barbarie far abortire le minorenni"
"Io, intellettuale e femminista dico che questa legge è sbagliata"
di Anais Ginori

«Questa legge non fa progredire i diritti delle donne e provoca uno scontro ideologico che mi spaventa molto». Angela Vallvey è una delle intellettuali femministe spagnole che hanno più criticato la "ley de plazos" che depenalizza l´interruzione di gravidanza fino alla quattordicesima settimana. «Non mi oppongo per motivi religiosi ma per ragioni morali e scientifiche» sottolinea la scrittrice e poetessa catalana, 45 anni, già autrice di "Lezioni di Felicità" e di un nuovo romanzo sull´universo femminile appena pubblicato da Guanda, "Le Bambole sono tutte carnivore".
La Spagna è uno degli ultimi paesi occidentali nel quale abortire è ancora reato. Perché è contraria alla riforma?
«Intendiamoci: la vecchia legge era pessima. Non solo impediva alle donne di abortire liberamente entro i primi tre mesi di gravidanza ma, con la scusa del rischio per la salute psichica della madre, permetteva di commettere delle barbarie. Ci sono donne che hanno potuto abortire feti di otto mesi. Ne conosco altre venute in Spagna perché qui si possono praticare interruzioni di gravidanza fuori tempo massimo».
Dunque concorda sulla necessità di una nuova legge.
«Sulla depenalizzazione dell´aborto c´era già un largo consenso, Zapatero avrebbe dovuto limitarsi a fare quello. La sua riforma mantiene invece gli inconvenienti della vecchia legge, aggiungendone di nuovi. Da un lato sono state confermate clausole che permettono l´aborto oltre i primi tre mesi di gravidanza. Dall´altro, si permette alle minorenni di abortire senza il consenso dei genitori, cosa che considero un´altra barbarie».
Questo è il punto che la disturba di più?
«Significa incoraggiare ragazze di sedici anni a nascondersi dai genitori, senza capire che avrebbero invece bisogno del sostegno famigliare in un momento così difficile».
Cosa pensa della manifestazione di domani?
«Ho paura dell´intolleranza della Chiesa e di certi movimenti anti-abortisti. Considero l´aborto un male necessario. Ma ora temo un approccio altrettanto ideologico del governo. Chi critica questa legge viene additato come un ultra-cattolico o conservatore. Non appartengono a nessuno di questi schieramenti, anche nel partito socialista ci sono persone che non appoggiano questa riforma».
I sondaggi dicono che la società spagnola è ancora divisa.
«Francamente, Zapatero mi sembra più interessato a stimolare uno scontro culturale che a risolvere i problemi delle donne. La prova è che nella legge non c´è un programma per l´educazione alla contraccezione, che pure sarebbe fondamentale. La vera modernità è mettere le donne in condizione di non abortire».

Repubblica 16.10.09
Il ritrovamento di una testa ripropone un tema cruciale per l´archeologia
quei culti per Diana nella roma antica
di Andrea Carandini

Il reperto è stato rinvenuto accanto al luogo nel quale si presume possa essere il tempio dedicato alla dea L´edificio è stato ricostruito grazie alle tecniche geomagnetiche

Come gli individui si capiscono nel loro ambiente, così avviene per le cose, almeno nell´ottica sistemica dell´archeologo. La testa marmorea di Diana, scoperta ai piedi dell´Aventino da Alessandra Capodiferro della Soprintendenza archeologica di Roma ed esposta a Palazzo Altemps, è una rielaborazione della statua di culto del tempio di Artemide a Efeso. È sembrata, a prima vista, una delle tante sculture che il suolo di Roma non si stanca di restituire. Ma l´oggetto rappresenta anche un indizio importante di una realtà più cospicua: il tempio di Diana sull´Aventino, che gli studiosi situano in punti diversi di quel monte.
Consultando il nostro "sistema informativo" su Roma antica ci siamo accorti che una statuetta in alabastro di Diana, del tutto simile, era stata scoperta nel ´700, lì vicino, sulla sommità del monte. Era questo uno degli indizi che, insieme all´iscrizione (D)iana e a una statua femminile arcaizzante - riproduzione della statua di culto? - ci aveva indotto a situare il tempio a sinistra della chiesa di Sant´Alessio.
La chiesa si trova nel punto più alto dell´Aventino ed è stata costruita sopra il tempio di Minerva, che Marziale colloca in arce, quindi sulla sommità del monte. Un frammento della pianta marmorea di Roma degli inizi del III secolo d. C. mostra, accanto al tempio di Minerva, quello di Diana, che secondo Giovenale sorgeva anch´esso in posizione dominante. Il frammento di pianta marmorea bene si ancora ad un muro antico sotto quello perimetrale di Sant´Alessio e anche a una strada basolata. È da notare che i templi pagani si disponevano lungo l´alto ciglio dell´Aventino sopra il Tevere, come poi le chiese.
Per questa nostra scelta topografica siamo stati criticati, ma tutti gli indizi ricollegabili al tempio sono stati trovati nei pressi di Sant´Alessio, per cui già Giovanni Colonna aveva collocato il tempio lì vicino, ma non nel luogo e nell´orientamento da noi scelti. Il recente rinvenimento della testa di Diana conferma la nostra scelta topografica: le due statue della dea - relative probabilmente a statue votive - sono state rinvenute proprio ai lati del sito dove il tempio era stato ricostruito da Daniela Bruno e da me. Sarebbe bene che un cartello in quel punto spiegasse al visitatore cosa ha sotto i piedi.
La pianta marmorea antica rivela anche parte della pianta del tempio di Diana, per cui è stato facile per noi proporne una ricostruzione, tra due portici. Aveva una fila di otto colonne "ioniche" sulle due fronti e due file di quindici colonne sui lati, come il tempio di Efeso, preso a modello dall´ammiraglio trionfatore Cornificio, che aveva il vezzo di girare per Roma su un elefante. Pur trattandosi di una delle meraviglie della Roma augustea, non è stata dedicata al monumento sufficiente attenzione: si potrebbe eseguire in un cortile dell´Istituto di Studi Romani una prospezione geomagnetica, come quella che ci ha consentito di individuare il tempio di Quirino nei giardini del Quirinale (Cercando Quirino, Einaudi 2007). Sempre grazie a onde elettromagnetiche si potrebbe identificare anche il tempio di Cerere, Libero e Libera degli inizi del V secolo a. C., la cui posizione sull´Aventino in senso lato conosciamo (la pendice verso il Circo Massimo), ma anche a questa rovina sepolta si è guardato con insufficiente dedizione. È bene sapere che le prospezioni geomagnetiche costano assai poco.
I templi nominati sono tra i più importanti di Roma, legati entrambi alla plebe, che davanti a essi si riuniva, venendo a costituire una sorta di Stato nello Stato. Il culto di Diana sull´Aventino era stato istituito intorno alla metà del VI secolo a.C. dal re Servio Tullio, amatissimo dal popolo, come contraltare romano del culto ad Aricia (Nemi). Servio aveva imitato Tarquinio Prisco, che agli inizi dello stesso secolo aveva istituito il culto di Giove Re/Ottimo Massimo, contraltare del culto di Giove Laziare sul Monte Albano (Cavo). Sono questi i presupposti teologici dell´egemonia di Roma sui Latini, non più solo lungo la riva sinistra del Tevere, che era stato stato il progetto di Romolo, Tullo Ostilio e Anco Marcio, ma sull´intero Lazio antico, che è stato il progetto dei Tarquini e di Servio, per cui Roma cominciò per la prima volta ad apparire come una potenza mediterranea.
Se continuiamo a procedere per frammenti sparsi che si accumulano, non adeguatamente organizzati e cartografati, non riusciremo a capire, raccontare e mostrare la città nel sistema dei contesti che si succedono nel tempo. Il fine sta dunque nel riguadagnare i singoli frammenti ai contesti per spiegare la storia nello spazio, oltre che nel tempo. Quando spiego Roma a visitatori anche colti, ferfino ad archeologi non specialisti, mi accorgo che Roma non si spiega da sola.

Repubblica 16.10.09
Pollini porta Bach nella hit parade "Felice di averlo fatto capire"
di Leonetta Bentvoglio

ROMA. Prodigi di una popstar suo malgrado, in quanto non ha mai voluto esserlo: il sommo pianista Maurizio Pollini entra con un cd (ha raggiunto il 52simo posto) nella classifica Nielsen italiana degli album più venduti di musica leggera. Era già accaduto coi Notturni di Chopin e coi dischi dedicati a Mozart e a Beethoven. Ora il successo riguarda Bach con cui Pollini ha debuttato in disco, irrompendo negli insondabili meandri del mercato pop col primo libro del Clavicembalo ben temperato.
Perché finora non aveva mai voluto registrare Bach?
«Perché il pianoforte non è uno strumento pensato per la sua musica. Ma ho superato le mie resistenze considerando che lo stesso Bach passava dal clavicembalo all´organo e al violino. In questo modo ha affermato l´idea che l´essenza della sua musica non si perde cambiando strumento».
Stupisce constatare il trionfo anche commerciale di un artista sobrio e schivo come lei, distante da logiche divistiche...
«Per me conta trasmettere qualcosa del mondo di un compositore: questo è al centro dei miei interessi. Il viaggio di appropriazione dell´opera coinvolge nel profondo la personalità dell´interprete, che deve servire l´autore in modo attivo e personale. Senza tale coinvolgimento il mio lavoro non ha senso».
Domenica alla Scala si chiude la puntata milanese del Progetto Pollini (serie di concerti da lei ideate in varie città) con brani di Chopin e Nono.
«Cerco nessi tra autori diversi e lontani nel tempo e nella realtà musicale. Chopin e Nono condividono l´originalità: ascoltando poche note sono subito riconoscibili. Un altro punto di contatto è la vocalità, centrale in Nono e presente in Chopin, dove all´idea pianistica è implicitamente sottesa un´idea vocale».
Ma c´è un baratro di popolarità che li separa.
«Spesso i grandi compositori sono stati incompresi nella loro epoca. Oggi lo scollamento temporale tra creazioni rivolte al futuro e comprensione del pubblico si è aggravato. Ma a dispetto del ritardo penso che ciascuno, anche se non le capisce, possa avvertire a suo modo la necessità e densità di ragioni critiche di certe opere di Boulez, Nono e Stockhausen. A proposito di Boulez: dirigerà la Filarmonica della Scala nei concerti con musica di Bartok in cui suonerò a Milano il 27, 29 e 31 ottobre».
Come vede Pollini, musicista impegnato e dai grandi ideali, quest´Italia odierna?
«Viviamo una delle situazioni peggiori d´Europa. Ma credo che si possa sperare con moderazione in un riscatto da un tale stato di degrado culturale».

il Riformista 16.10.09
In guerra tutti pagano. Il punto è cosa compri

Se ci si limita alla notizia del Times in sé, che i reparti italiani in Afghanistan hanno “pagato” i talebani per non essere attaccati (dimenticandosi poi di avvertire i colleghi francesi che li sostituivano), sembrerebbe la solita storia degli “italiani brava gente”, presi in giro dai più guerreschi inglesi sin dai tempi di el Alamein. Ci dispiace molto per il marziale amor proprio degli alleati britannici, ma questa volta le cose sono leggermente diverse: tutti ricorrono a questa tattica, ma nessuno lo ammette. Vediamo perché.
Cominciamo con il dire che, sin dall’antichità, dare una qualche compensazione materiale ai nemici non è mai stato considerato disdicevole. Né l’Impero di Alessandro il Grande né quello di Roma si reggevano solo sulla forza delle spade e sul coraggio dei loro soldati. Anzi comprarsi il nemico e farselo alleato era considerata una mossa astuta. L’atteggiamento è cambiato con la comparsa degli stati nazionali, quando lo scontro è diventato più ideologico e quindi meno si presta ad una soluzione monetaria. Ma se in Europa, gli stati preferiscono risolvere le loro differenze con sanguinose battaglie sul campo, stile Waterloo, nelle guerre coloniali, l’atteggiamento è diverso. Tribù potenzialmente ostili sono tenute sotto controllo con qualche tipo di emolumento. Oppure a volte si tratta di pagare un pedaggio per attraversare una certa zona. Solo con i duri e puri si va allo scontro.
Dopo il 1945, quando le guerre non convenzionali e le operazioni di counterinsurgency sono diventate la regola, la compensazione finanziaria, sotto varie forme, è tornata ad essere prassi comune. Per non parlare poi di ciò che avviene nelle peacekeeping.
Poi c’è il Vietnam (e prima l’Indocina francese), dove la quantità di denaro sprecata dagli americani lascia senza parole. E in Afghanistan, persino i sovietici non disdegnavano intrattenere rapporti finanziari con il nemico. Magari in cambio di intelligence. Oppure semplicemente perché i soldati di guardia in uno sperduto avamposto volevano solo essere lasciati in pace a finire il loro servizio. Per questo prendevano contatto con gli anziani del vicino villaggio e cercavano di comprare la loro tranquillità con il baratto o regali, non escluse armi e munizioni che poi finivano per essere usate contro qualche altro avamposto o colonna sovietica.
L’errore più grande dell’articolo del Times è quello di non spiegare che oggi, in Afghanistan, esistono diversi tipi di gruppi irregolari armati e solo alcuni di essi sono talebani irriducibili: ci sono poi le milizie locali, quelle dei signori della guerra (che magari hanno anche incarichi ministeriali a Kabul) e i narcotrafficanti (come il fratello di Karzai) e chi più ne ha più ne metta. Tutti questi uomini armati, un giorno sono insorti e quello dopo semplici “businessmen” e viceversa. Oppure il pagamento potrebbe essere stato fatto ad un gruppo, che poi ha girato il denaro direttamente ad un altro gruppo, come si farebbe con un assegno circolare.
Qualche giorno fa, il New York Times riportava una storia interessante. Investigatori dell’esercito Usa hanno scoperto che i fondi per pagare l’astronomica cifra di 700 dollari ad un attentatore (“talebano” dovrebbe dire a questo punto il Times di Londra) erano stati prelevati da una somma molto più consistente che un ufficiale americano aveva versato al governatore locale, il quale ha poi girato a qualche gruppo armato, semplicemente per essere lasciato in pace. Quest’ultimo gruppo, a sua volta, ha organizzato un attentato con un ordigno improvvisato. Chi ha fatto detonare l’ordigno era un povero pastore e nell’esplosione sono morti tre fanti Usa (un quarto gravemente ferito). Ora possiamo solo immaginare con quale stato d’animo le famiglie dei caduti abbiano appreso una notizia del genere, di quale sia stata l’utilizzazione finale del denaro pagato dal contribuente americano.
Nel caso delle forze italiane riportato dal Times, è difficile stabilire a chi sia stato versato il denaro e, soprattutto, a quale scopo. Anche se poi è servito a comprare una certa tranquillità, potrebbe essere stato dato ad un capo locale in qualità di stipendio, semplicemente per evitare che quest’ultimo appoggi con troppo entusiasmo i gruppi fondamentalisti della zona. Sì, lo fanno gli italiani. Perché i 9mila britannici e 5mila marines nello Helmand no? O i tedeschi a nord?
Ovviamente nessuno lo ammette troppo apertamente, perché quelli della Nato sono eserciti nazionali, eredi di quella tradizione che avrebbe considerato troppo disdicevole giungere ad una compensazione finanziaria prima di Gettysburg o di Verdun. E poi apparirebbero meno marziali o aggressivi e questo potrebbero non piacere all’opinione pubblica nei loro paesi. Il premier Berlusconi, sempre secondo il Times, vorrebbe ora accreditare la tesi secondo cui, in realtà, è stato il (breve) governo Prodi ad agire così. Già, perchè il precedente (lungo) governo Berlusconi no, vero?

giovedì 15 ottobre 2009

Liberazione 15.10.09
17 ottobre: contro il razzismo per la civiltà
di Alessandro Dal Lago



L e avventure e la disavventure mondane e giudiziarie di Berlusconi stanno assorbendo gran parte della cronaca politica in Italia (e non solo). Con ciò, l'aspirante Presidente del consiglio a vita ha realizzato almeno uno dei suoi obiettivi: deviare l'attenzione pubblica dai contenuti dell'azione del governo. In realtà, in poco più di un anno e mezzo, il governo ha parlato molto e fatto poco, rincorrendo più che altro le emergenze (spazzatura, terremoti, alluvioni), il solo terreno utile per fare propaganda a favore del Cavaliere in una fase in cui la sua figura è ampiamente screditata all'interno e all'estero.
C'è una sola eccezione, il pacchetto-sicurezza o, se vogliamo, il pacchetto anti-immigrati. Se c'è un terreno in cui la Lega dimostra di tenere saldamente in mano il timone, almeno per il momento, si tratta delle misure sull'immigrazione. Qui, l'azione del governo non è casuale e sgangherata, ma premeditata e in tutto e per tutto coerente con la cultura della destra italiana. Facendo dei migranti dei criminali virtuali e nemici potenziali o, nel caso migliore, dei servi tollerati, il governo consegue un certo numero di obiettivi politici di lungo periodo.
Il primo è certamente soddisfare un elettorato che ha trovato nella xenofobia, più o meno esplicita, uno sfogo alle sue paranoie e una risposta all'incertezza provocata dalla globalizzazione e dalla crisi economica. Il secondo è molto più prosaico: un migrante perennemente sul chi vive, pauroso della polizia e delle denunce, oltre che vincolato alla benevolenza del suo datore di lavoro, è prima di tutto, agli occhi del legislatore, un lavoratore che accetta qualsiasi condizione di lavoro senza protestare. In questo senso, l'azione del governo ha soddisfatto quelle migliaia di padroncini che al nord, ma non solo, strepitano contro i migranti, ma sono i primi ad avvalersene.
Esemplare in questo senso è la sanatoria delle badanti, una misura adottata in spregio a qualsiasi senso di giustizia e di uguaglianza, che ha il solo scopo di non danneggiare, in nome della mera xenofobia, gli interessi delle famiglie con anziani. Se finora le regolarizzazioni delle badanti sono state di gran lunga inferiori alle aspettative, non è solo perché i datori di lavoro non vogliono sborsare il relativo contributo, ma perché probabilmente molte straniere semplicemente non si fidano di questo governo e di questo stato, preferendo rimanere nell'ombra dell'irregolarità.
Ma c'è stato probabilmente un altro obiettivo da parte del governo: con il pacchetto-sicurezza, l'equazione immigrazione uguale criminalità, scioccamente favorita nell'ultimo decennio anche dal centro-sinistra, riceve una sanzione ufficiale e definitiva. D'ora in poi, qualsiasi discorso sui diritti dei migranti si scontrerà contro il ricatto dell'insicurezza. Così, la xenofobia trova una giustificazione pubblica che sarà difficilissimo criticare e contrastare.L'effetto di tutto questo è che in Italia alcuni milioni di persone vivono prive di garanzie giuridiche e di diritti civili e sociali, in preda all'ansia per qualunque accidente possa minacciarne lo status di stranieri a malapena tollerati. D'altronde, hanno perfettamente ragione, se è vero che il destino degli irregolari è finire nei Cie e, dopo l'espulsione, nelle mani di Gheddafi, il nuovo e grande amico di Berlusconi.Per tutto questo, la manifestazione di sabato contro il razzismo e per i diritti dei migranti è un'occasione per contrastare una deriva xenofoba e autoritaria in cui il governo Berlusconi svolge un ruolo d'avanguardia.


Repubblica 15.10.09
Il voto di religione
di Adriano Prosperi


Alla democrazia ci pensa il Cavaliere, alla religione ci pensa la ministra Gelmini. Una divisione dei compiti in un lavoro comune: marciare divisi e colpire uniti. La questione è la stessa. Non ci può essere un sistema di garanzia democratica dei diritti individuali dove non c´è libertà di religione. Norberto Bobbio ricordava spesso la passione con cui Francesco Ruffini, lo studioso dei diritti di libertà, tornava sul punto ricordando che storicamente e idealmente la libertà di religione è stata la madre di tutte le libertà. Ma qualcuno penserà che sia eccessivo allarmarsi per le intenzioni ribadite a ogni passo dalla ministra e stavolta aggravate dall´intenzione, dichiarata ieri all´VIII Giornata europea dei genitori e della scuola, di far presto concorrere alla pari con gli altri voti anche il voto sull´insegnamento della religione.
Si dirà che la libertà religiosa non è in pericolo nel nostro paese: la Costituzione ha accolto e ribadito questo diritto, in Italia accanto ai cattolici abbiamo anche noi i nostri protestanti, insediati storicamente nelle valli alpine dove resistettero nei secoli lontani agli eserciti sabaudi guidati da inquisitori e predicatori gesuiti. E ci sono tante minoranze religiose non cattoliche e non cristiane. Ma l´attacco alla libertà di religione che sta minando passo dopo passo quelle affermazioni teoriche e quelle eredità storiche conquistate dalle minoranze è aperto e grave, svuota di contenuto il dettato costituzionale e impone in materia uno stato di fatto che viola il diritto scritto e poggia solo sulla prepotenza di un potere politico in cerca di favori vaticani. Avviene insediando nella scuola pubblica, vera cittadella della democrazia, una religione dominante insegnata al di fuori del controllo pubblico da insegnanti a cui è richiesto solo il permesso del vescovo. Religione dominante ed esclusiva di fatto: sia perché manca la possibilità concreta di scegliere altri insegnamenti di altre confessioni cristiane o di altre religioni sia perché l´insegnante di cattolicesimo concorre alla formazione del giudizio conclusivo sul rendimento scolastico e – come la ministra adesso si impegna a garantire – disporrà di un vero voto di profitto, con lo stesso peso dell´insegnante di matematica o di inglese.
Si tratta di un attacco portato nel cuore di quella scuola pubblica alla quale hanno accesso tutti i cittadini italiani con tutte le differenze culturali e ideali che si portano dietro. A loro, quale che sia la loro base di partenza personale e familiare, quale che sia la loro volontà di aprirsi nella scuola e grazie alla scuola alla conoscenza del mondo, inclusi i grandi testi fondanti delle religioni dell´umanità dalla Bibbia al Corano, da Confucio a Budda, sarà impartita la visione cattolica del mondo da insegnanti direttamente formati e controllati dalla gerarchia cattolica. Insegnanti, si badi bene, che se perdono il permesso vescovile, passano nel ruolo di docenti di filosofia. Filosofia a braccetto con la religione, dunque, non più col marxismo come denunciava anni fa una preoccupatissima Comunione e Liberazione. Certo, tra gli studenti ci saranno quelli che si asterranno dalle lezioni. Alcuni, una minoranza, rinunceranno eroicamente al voto aggiuntivo dell´insegnante, che alzerà la media dei loro compagni. Ma, anche se l´opportunismo delle famiglie e la corruttibilità di giovani ancora incerti di se stessi non finiranno per avere la meglio, costoro resteranno confinati nel vuoto di una negazione, saranno i "non avvalenti", refrattari all´usignolo della Chiesa cattolica, ma incuriositi e attirati da quei grandi discorsi sul mistero di Dio che è in realtà il mistero che ogni uomo è per se stesso: e la loro refrattarietà sarà sterile, genererà un´inquietudine che potrà un giorno dare luogo a quella "conversione" che la sapienza secolare della Chiesa si aspetta e dalla quale ha raccolto storicamente grandi frutti, fin dai tempi di Sant´Agostino di Ippona. Ma lasciamo che la Chiesa faccia i suoi calcoli e nutra le sue attese. Non è a lei, storicamente avversa alla democrazia e ai diritti di libertà, in lotta perenne col grande nemico, quell´Illuminismo definito "turpe" e "torvo" da autorevoli ecclesiastici, che si rivolge il pensiero del cittadino italiano ma allo stato: lo stato che svende i diritti sacrosanti dei cittadini, primo fra tutti quello alla libertà di coscienza e di religione, sul mercato dei consensi del clero. È vero che questo diritto è stato riconosciuto solennemente dai padri conciliari cattolici del Concilio Vaticano II. Ma quando i concili si chiudono la parola torna alla Curia romana. E qui si ha l´impressione che l´aria che tira nei conflitti religiosi del mondo abbia riportato in auge un clima che sembrava tramontato. Viene in mente quello che disse papa Pio XI a Mussolini nell´incontro dell´11 febbraio 1933, che sancì le intese sull´educazione cattolica degli italiani: il totalitarismo fascista poteva andare d´accordo col "totalitarismo cattolico"; al primo il governo dei corpi, al secondo le anime. L´importante era affermare i principi di ordine, autorità, disciplina, contro il pericolo di una ragione individuale libera di decidere. Eppure c´è stata tanta storia dopo di allora. C´è stata anche la crescita di un mondo cattolico italiano che si è mostrato spesso all´altezza degli appuntamenti culturali e politici del mondo moderno e ha contribuito fin dai tempi dell´assemblea costituente a garantire il rispetto dei diritti di tutti – l´unico modo per tutelare i deboli, le minoranze culturali e religiose e l´indifesa e ancor molle coscienza di bambini e di giovani. È dunque a chi, credente cattolico o diversamente credente, agnostico o ateo, crede però nel diritto di ognuno a elaborare in libertà le sue scelte nel contesto di un´offerta informativa e formativa libera e non coartata, che si rivolge l´appello a non tollerare questa nuova prepotenza, a non lasciar passare questo modo furbesco e prepotente di offrire privilegi a una sola religione e chiesa da parte di una classe di governo autoselezionata, in cambio dell´avallo di una politica che continua a scoraggiare e impoverire le famiglie, a colpire i dannati della terra, a strumentalizzare l´immagine e il corpo femminile, a esaltare miti e a proporre etiche diametralmente opposte a ogni autentica riflessione morale, religiosa o meno.

Repubblica 15.10.09
La democrazia delegittimata
di Gustavo Zagrebelsky


Si annuncia, anzi è in corso, una crisi istituzionale di vasta portata. A che cosa sia e a che cosa essa chiami coloro che occupano posti di responsabilità nel nostro Paese, sono dedicate le considerazioni seguenti, esposte in quattro punti concatenati tra loro, dall´astratto al concreto.
1. Che cosa sono e a che cosa servono le istituzioni. Il genere umano ha scoperto le istituzioni per mettere a freno l´aggressività e l´istinto di sopraffazione che allignano – in uno più, in altro meno – in ognuno di noi, per diffondere fiducia e cooperazione, garantire un po´ di stabilità e sicurezza nelle relazioni umane e proteggere quel tanto di libertà che è compatibile con la vita associata. In una parola: per allontanare sempre di nuovo, ancora di un giorno, le "prove di forza" che accompagnano, come fantasmi che possono materializzarsi, i contatti tra gli esseri umani. Le istituzioni servono innanzitutto a questo: a neutralizzare i nostri istinti distruttivi e a civilizzarci. Poiché nel fondo siamo animali selvatici, possiamo anche dire: servono ad addomesticarci, incanalando e indirizzando le nostre energie in strutture, procedure, garanzie e controlli, così trasformandole, da distruttive, in costruttive di opere durature.
Non sembri eccessivo che, per parlare delle opere e dei giorni del nostro Paese in questo momento, si proceda così da lontano e da fondo, cioè da questa piccola sintesi del celebre scritto di Sigmund Freud sul "disagio della civiltà" (1929). È una messa in guardia a proposito di ciò che accade quando le istituzioni s´indeboliscono o scompaiono, inghiottite dall´ego di coloro che le impersonano e le usano per i loro propri interessi. Oppure – ed è lo stesso – è un ammonimento circa i pericoli di quando si diffonde l´idea che esse siano impacci, o abbiano tradito la loro funzione e siano diventate semplicemente coperture della lotta politica. In breve, si tratta dello scatenamento delle energie peggiori, che le istituzioni e il "senso delle istituzioni" non riescono a controllare. Questo è esattamente il nostro rischio, la china su cui siamo messi a causa di ciò che, con un´espressione abusata di cui non si coglie più la drammaticità, chiamiamo "delegittimazione". Senza istituzioni, tutto diventa possibile. La "prova di forza" pre-politica, cioè fuori delle regole che ci siamo dati per "istituzionalizzare" il fisiologico conflitto politico, è alle porte.
2. Conflitto pre-politico. Guardiamo quello che accade. Lasciamo da parte i troppi che, come sempre accade, aspettano senza scoprirsi di capire come vanno le cose per schierarsi dalla "parte giusta". Accanto ai molti indifferenti, presi dell´assillo d´altri problemi, coloro che si sentono parti in causa sono divisi da una frattura che non possono o non vogliono colmare. Da una parte, c´è chi giurerebbe sulla convinzione che è in corso una congiura contro il presidente del Consiglio e la sua maggioranza, condotta con metodi criminosi da oligarchie irresponsabili e magistrature corrotte politicamente, per un fine antidemocratico: contraddire il risultato di libere elezioni e mettere nel nulla la volontà di milioni di elettori. Sul fronte opposto, si giurerebbe sulla convinzione che, invece, il metodo criminoso è quello di un presidente del Consiglio che, per evitare di rispondere in giudizio di accuse penali assai gravi e infamanti, vuol porsi al di sopra della Costituzione e della legge, cambiandole a suo uso e consumo. Così, due accuse si fronteggiano: di attentato alla democrazia, da una parte; di attentato allo stato di diritto, dall´altra. Questa spaccatura è pre-politica. Non riguarda il come agire dentro le regole della politica che sono date dalla Costituzione, ma addirittura se starci dentro, o uscirne fuori. Vola, infatti, nei due sensi, l´accusa di tentare una forzatura. Qualcuno parla di "golpe", senza rendersi conto di ciò che dice o forse rendendosene ben conto. Quando questo veleno entra in circolo, tutto – atti e parole che, nella normalità, sarebbero inimmaginabili o apparirebbero disgustose intimidazioni e prepotenze – diventa lecito, anche a fini preventivi.
Gli storici diranno di chi è la responsabilità della stasis, del punto morto al quale siamo arrivati. Ma noi ora vi siamo dentro e non possiamo consolarci pensando, ciascuno sulle proprie posizioni, che la storia ci darà ragione. Abbiamo il dovere di districarci nella difficoltà, per noi e i nostri figli, ai quali vorremmo consegnare un Paese pacifico e civile. Non serve a nulla, a questo punto, la ricerca della responsabilità originaria. Serve solo ad attizzare il conflitto. Non serve a nulla lo scambio di accuse tra due fronti che sembrano non ascoltarsi più. Anzi, serve a scavare ancora il fosso e a dare spazio all´avventura. Nessuno ha da rinunciare alle proprie idee, al giudizio su sé e su gli altri. Ma ora si tratta di prendere atto che la spaccatura esiste come "dato", come "cosa" che minaccia le istituzioni e, con esse, la convivenza ch´esse devono assicurare.
3. "Delegittimazione democratica" delle istituzioni. La minaccia alla convivenza va di pari passo con l´indebolimento delle istituzioni, con la loro "delegittimazione". È una storia che viene da lontano, che si ripete ogni volta, con l´affermarsi nella pratica e nel senso comune di un´idea di politica come immedesimazione di un capo nel suo popolo ("voglio essere uno come voi") e di un popolo nel suo capo ("vogliamo essere come te"). Quest´immedesimazione ha assunto nella storia molte forme e molti nomi: democrazia plebiscitaria, demagogia, cesarismo, bonapartismo, peronismo, ecc. Altre forme e altri nomi assume oggi e assumerà in futuro, in conseguenza dei mezzi tecnici di quell´immedesimazione. In ogni caso, però, chi governa immedesimandosi nel popolo sale sul popolo e da lì guarda tutto dall´alto in basso, non concependo che possano esistere limiti e controlli. In nome di che, del resto? Di qualche giudice o giurista parruccone che non rappresenta che se stesso? La politica come immedesimazione o "identitaria" non ha bisogno d´istituzioni; le sono d´impaccio, anzi nemiche. Esse non possono che raffreddare un rapporto che si vuole invece caldo, tra capo e corpo, leader e seguaci. Nascono movimenti, simboli, inni, motti e frasi fatte, eventi e opere, ricorrenze, spettacoli, esempi, che celebrano e rafforzano quel rapporto e quella vicinanza, facendo appello indifferentemente, secondo che occorra, a nobili slanci altruistici o gretti sentimenti egoistici; ora adulando supposte virtù patriottiche, ora stuzzicando nascosti impulsi volgari. Si tratta di rappresentare il "paese reale" per impiantarvi una cosa che viene chiamata democrazia, anzi "vera democrazia", in contrapposizione a quella "falsa", "formale", "vuota", cioè quella mediata dalle istituzioni.
Noi assistiamo a questo processo. In nome della "vera democrazia" (posso fare quello che voglio perché ho il popolo dalla mia parte: vero a falso che sia), le istituzioni che non si adeguano sono indicate come nemiche. Non s´immagina neppure che possano fare onestamente il loro dovere che non è di tenere bordone a questo o quello ma, per esempio, di applicare la legge e di difendere la Costituzione oppure, per le istituzioni dell´informazione, semplicemente di pubblicare notizie. Devono essere necessariamente alleate del nemico. Se il potere è "di destra", le si accuserà d´essere "di sinistra". Se mai il potere fosse di sinistra, la stessa concezione della democrazia le farebbe accusare d´essere "di destra". Ma le istituzioni della democrazia pur esistono e non è pensabile di eliminarle, a favore di una demagogia pura e semplice. Bisogna pur salvare le forme, anche per non essere banditi dal consorzio delle nazioni civili. Allora, via alle intimidazioni o – ed è lo stesso – alle seduzioni e, se non basta, via alle riforme per ridurre l´autonomia e l´indipendenza delle istituzioni non allineate. Così, si cambia regime dall´interno, lasciando l´involucro ma svuotato della sostanza. Così è per il governo, da rendere obbediente al "primus inter pares", per il Parlamento, da ridurre a esecutore passivo del governo; del presidente della Repubblica, per l´intanto da rendere inquilino remissivo, perché non eletto dal popolo (una coabitazione impari, in attesa del presidenzialismo); della Corte costituzionale e della magistratura, da riformare per toglierle dalla sfera del diritto e spostarle in quella della (subordinazione) politica.
4. Tra l´incudine e il martello. La costituzione, da luogo della pacificazione, è così diventata terreno di scontro, lo scontro, per definizione, più distruttivo che possa immaginarsi. Chi assiste con sgomento al volgere degli eventi e ai segni premonitori ch´essi contengono resta sorpreso nel non veder sorgere una forza che, mettendo momentaneamente da parte le legittime diversità di posizione sui tanti e pur urgenti problemi del Paese, non si ponga responsabilmente, come compito prioritario e condizionante tutto il resto, quello di uscire dalla morsa che si sta chiudendo. In quelli che potrebbero, sembra mancare la consapevolezza o abbondare l´indifferenza. Occorre ben altro che la rituale "solidarietà" alle persone che ricoprono funzioni messe sotto tiro. Non basta l´invito al rispetto del galateo. Scadenze importanti incombono. Nel 2011 dovrebbe celebrarsi l´unità nazionale, cioè le istituzioni dell´unità. Che cosa troveremo, di questo passo, quando ci arriveremo?
Quando due fazioni si affrontano con rischio generale, per coloro che avvertono la propria responsabilità autenticamente politica quello è il tempo di mettere provvisoriamente da parte ciò su cui ordinariamente sarebbero portati a dividersi, e di operare insieme nell´interesse superiore alla pace. La nostra è una repubblica parlamentare. Non è, almeno per ora, un regime d´investitura popolare d´un sol uomo. Per quanto si sostenga il contrario, scambiando il desiderio per un diritto acquisito, sono le forze politiche rappresentate in Parlamento a disporre legittimamente del potere di coalizione, per fare e disfare governi, secondo necessità. Un potere al quale, in un momento come questo, corrisponde una grande responsabilità.

Repubblica 15.10.09
Ru486 , il Vaticano detta il suo Decalogo
"Aborto delitto abominevole, pillola pericolosa per le donne"
di Mario Reggio


ROMA La Chiesa sferra un altro attacco alla pillola abortiva Ru486. Ed elenca un decalogo di «buone ragioni» per dire no all´aborto chimico. «La modalità, chimica o chirurgica, non cambia la sua natura di delitto abominevole. La Ru486 non è una medicina ma un veleno, ha solo lo scopo di determinare la morte di un embrione umano». Parola dell´Osservatorio internazionale cardinal Van Thuan sulla dottrina sociale della Chiesa, diretto da monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste.
E il vademecum della Chiesa continua: «La pillola banalizza l´aborto e quello chimico non è meno pericoloso di quello chirurgico. La Ru486 pone la donna sola nella gestione dell´aborto. Non essendo un farmaco non si può imporre ai medici di prescriverlo, quindi ogni medico deve essere libero di dissociarsi e rifiutare la prescrizione, la quale sarebbe un´attiva e consapevole cooperazione ad un atto reputato ingiusto e illecito».
Perché questa violenta offensiva che pochi si aspettavano, dopo le polemiche dello scorso luglio e la decisione della Commissione Sanità del Senato di aprire un´indagine conoscitiva malgrado l´Agenzia Italiana del Farmaco fosse sul punto di dare il via libera alla pillola, forte del parere del Consiglio Superiore di Sanità e dell´autorizzazione alla commercializzazione dell´Emea, l´agenzia europea che autorizza i farmaci? La bagarre scatenata dalla destra, in particolare dal capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri, ha poi portato alla ufficializzazione di una commissione di indagine del Senato che avrebbe dovuto verificare eventuali contrasti con la legge 194 sull´aborto. Nonostante fosse ad un passo dalla delibera il Consiglio di amministrazione dell´Aifa ha deciso di non creare problemi, con l´accordo che la commissione senatoriale avrebbe concluso le audizioni entro il 19 ottobre 2009. Invece il presidente della Commissione Sanità, il senatore Pdl Antonio Tomassini, decide di far slittare i tempi. Le audizioni partiranno dal 21 ottobre. Dall´Aifa, comunque, non si registra alcuna marcia indietro: «Il Consiglio di amministrazione si riunirà il 19 ottobre, nessun rinvio». Cosa succederà lunedì prossimo? Due gli scenari: accettare un ulteriore rinvio o arrivare alla firma della delibera che dà il via libera alla Ru486, farmaco che viene utilizzato da anni in tutti i Paesi europei.

Repubblica 15.10.09
Il teologo tedesco contro il Papa: la sua politica sarà un fiasco
Kung, attacco a Benedetto XVI "Riporta la Chiesa al medioevo"


ROMA «Il Papa riporta la Chiesa al medioevo», dice il teologo Hans Kung chiamando in causa Benedetto XVI. In un´intervista al settimanale "Stern", Kung, al quale nel 1979 la Congregazione per la dottrina delle Fede revocò la "missio canonica", l´autorizzazione all´insegnamento della teologia cattolica, afferma che sulle questioni della fede, il Papa «sulla base della sua fede bavarese» si esprime in modo «sorprendentemente ingenuo, a volte premoderno e populistico». Kung, che ha 81 anni, prosegue nelle sue critiche spiegando che «l´attuale politica del Vaticano è un fiasco. Il tentativo di costringere la Chiesa a tornare al medioevo la svuota. Non si può tornare ai vecchi tempi».
Nel 1966 era stato Kung a chiamare Joseph Ratzinger ad insegnare all´università di Tubinga e nell´intervista si rammarica che il Pontefice «non ha proseguito sulla via della riforma come ho fatto io. Adesso non ci troveremmo con questa spaccatura della Chiesa cattolica dall´alto e dal basso. Io rappresento quella dal basso, lui quella dall´alto». Nell´intervista, il teologo rivendica il diritto per ogni persona di decidere sulla propria morte. «Non vorrei mancare il momento giusto spiega e questo momento dipende dalla mia responsabilità, non da quella della Chiesa, del Papa, di un prete, di un medico o di un giudice». Kung aggiunge di guardare con serenità alla morte e si dice «curioso di vedere cosa succederà nell´aldilà. Non credo a queste raffigurazioni semplicistiche del cielo, come quella di sedere su una sedia dorata cantando alleluia». Kung dichiara di non credere alla resurrezione della carne, anche se in cielo avrebbe voglia di incontrare volentieri qualcuno, «di preferenza Mozart, invece che Willy Brandt».

l’Unità 15.10.09
I gollisti l’avversarono ferocemente. Ora introducono la comunione dei beni e la reversibilità
La legge pensata per i gay è ora usata da tutti. Nel 2008 le nuove unioni sono state 145mila
Francia, i Pacs 10 anni dopo È boom ma più etero che omo
di Luca Sebastiani


Più solido delle nozze
Il 47% dei matrimoni fallisce, contro il 16% delle unioni civili

L’annuale Fiera dedicato ai matrimoni quest’anno è stato chiamato «Salone del Matrimonio e del Pacs». Non solo abiti bianchi, pizzi e veli, ma anche abbigliamento più sobrio o estroso per un’unione civile in Comune.

PARIGI. Segno del grande successo sociale dei Patti civili di solidarietà, che da un paio di giorni hanno compiuto il loro decimo anno d’età regalandosi un altro record, l’ennesimo. Non c’è stato anno, infatti, in cui il numero di pacs non abbia superato quello dell’anno precedente. Il 2008 non è stato da meno e con un exploit del +45 per cento, ha toccato quota 145mila nuove unioni civili.
Una tendenza ormai consolidata che la dice lunga su come i francesi vivono i pacs. I politici, loro, come sempre sono un poco indietro. Quando il 13 ottobre 1999 il testo che introduceva i patti venne varato dopo un lungo e combattuto percorso parlamentare, sia i fautori, sia gli oppositori del provvedimento non seppero valutarne la portata.
SUCCESSO IMPREVISTO
I socialisti allora al governo con il dream team della gauche plurielle, (guidata da Lionel Jospin), pensarono una legge per inscrivere attraverso i patti le coppie omosessuali nel codice civile invece di introdurre un contratto specifico, considerato discriminatorio. Se è vero che i pacs sono stati uno strumento di visibilità per gli omosessuali, per sconfiggere l’omofobia, oggi si scopre però che riscuotono un grande successo tra gli eterosessuali. Se all’inizio, nel 1999, le coppie omosessuali pacsate erano più del 50%, oggi sono solo il 6.
Se la sinistra sbagliò le previsioni, la destra «passò completamente a lato della questione», confesserà sconsolato Nicolas Sarkozy anni dopo. Allora i gollisti organizzarono una guerriglia parlamentare senza precedenti, depositarono 2161 emendamenti e la loro capofila Christine Boutin, una teodem ante litteram, pronunciò un discorso di cinque ore e mezzo brandendo la Bibbia sotto il naso dei socialisti. Per loro si trattava di un matrimonio per omosessuali, di un mezzo per far saltare il sacro istituto del matrimonio e della famiglia. Insomma, la «fine della civiltà», come urlarono dai banchi dell’Assemblea. Invece oggi si scopre che non solo il pacs non è una minaccia per il matrimonio, ma anzi un trampolino verso le unioni tradizionali. Solo nel primo semestre di quest’anno sono state 3mila le coppie pacsate che hanno fatto il passo ulteriore. Se si guardano le statistiche poi, si vede che la cifra dei matrimoni negli ultimi dieci anni è rimasta pressoché stabile, intorno ai 270mila. Con un paradosso: che il sacro vincolo matrimoniale viene dissolto nel 47 per cento dei casi, contro il 16 nel caso delle unioni civili. Pacs più solido del matrimonio in chiesa? Forse, di certo una forma coniugale sempre più adatta alle esigenze delle coppie di oggi: meno sacrale e soprattutto meno impegnativo da dissolvere.
Il provvedimento è stato un tale successo che negli anni è stata la destra a incaricarsi di migliorarne l’attrattiva. Indotta dalla spinta nella società (6mila i pacs nel 1999, 25mila nel 2002, 77mila nel 2006, 102mila nel 2007), l’Ump ha parificato il regime fiscale di pacs e matrimonio e introdotto la comunione dei beni anche per le unioni civili. L’ultima riforma, quella per introdurre le pensioni di reversibilità per i pacsati, è stata una promessa elettorale di Sarkozy. La prova che le mentalità possono evolvere.

Corriere della Sera 15.10.09
A sorpresa. Insieme nei giardini di Villa Madama. L’ex leader ds scherza sul sottosegretario
Stretta di mano Berlusconi-D’Alema
Letta favorisce l’incontro. Il Cavaliere: ci vorrebbero più occasioni così
di Marco Galluzzo


ROMA — Gianni Letta pren­de per mano Massimo D’Ale­ma. Per un attimo. Gianni con­duce e Massimo lo segue. Fra le aiuole appena potate dei giar­dini di Villa Madama Berlusco­ni è circondato da una decina di persone. Spunta Letta e con lui il suo sorriso, il cordone si apre: il sottosegretario di Palaz­zo Chigi si fa da parte e l’ex lea­der dei Ds si trova davanti al ca­po del governo. Il Cavaliere ha un attimo d’esitazione, il corpo si sbilancia impercettibilmen­te, i tratti del volto tradiscono la sorpresa di un incontro inat­teso.
Ieri mattina all’ora del pran­zo. D’Alema e Berlusconi si stringono la mano. Agli occhi soddisfatti di Gianni Letta si ag­giungono quelli dei presenti: fra gli altri il consigliere Rai Alessio Gorla, il presidente del­l’Enac Vito Riggio, il presidente di Adr, Fabrizio Palenzona, la senatrice del Pdl Cinzia Bonfri­sco. A rompere il ghiaccio è l’ex premier: «Sono qui perché si discute dell’interesse comu­ne, sulle cose importanti per il Paese io ci sono...». Risponde il Cavaliere, i tratti del viso non più contratti: «Ci vorrebbero più occasioni di trovarsi insie­me per cose simili, nell’interes­se dell’Italia».
Fotografi e giornalisti sono lontani. Perdono i sorrisi reci­proci, l’ironia della conversa­zione, la stretta di mano. È ap­pena terminata la presentazio­ne congiunta degli investimen­ti finanziari che Aeroporti di Roma e Sea, la società aeropor­tuale milanese, compiranno nei prossimi anni. Poco distan­te ci sono anche i sindaci delle due città, Gianni Alemanno e Letizia Moratti, il segretario ge­nerale della Farnesina, Giam­piero Massolo, che ha fatto gli onori di casa.
È Palenzona dal palco a intro­durre l’argomento: «Ho un pic­colo sogno nel cassetto — dice rivolto ai presenti, fra i quali i ministri Altero Matteoli (Infra­strutture) e Sandro Bondi (Be­ni culturali) — e cioè che con l’aiuto della minoranza, alme­no quella responsabile, si pos­sa fare un piano nazionale del­la mobilità per uomini e merci per sbloccare questo benedetto Paese » .
Intorno all’interesse del Pae­se, a quella convergenza strate­gica che finora è mancata nella legislatura, per pochi attimi, a beneficio dei presenti, D’Alema e Berlusconi si trovano d’accor­do.
Nessun accenno alle pole­miche degli ultimi giorni. «Dobbiamo fare altre cose di questo tipo — aggiunge il Cava­liere —, io sono il primo a esse­re felice quando in questo Pae­se si riesce a lavorare insieme, spero in altre occasioni». D’Ale­ma: «Io sono sempre pron­to... ». Poi, scherzando, rivolto a Palenzona, «e con te sono of­feso, guarda che tutta l’opposi­zione, non solo una parte, è fat­ta di gente di buon senso».
Pochi istanti dopo D’Alema si congeda citando ancora Pa­lenzona: «Ora vado a bere un po' d’acqua... di Letta». Il presi­dente di Adr poco prima ha pa­ragonato proprio il sottosegre­tario all’aqua: «Come l’acqua ti accorgi quanto vale quando ti viene a mancare». D’Alema ri­corda che il concetto è una pa­rafrasi di Baudelaire, il poeta lo diceva a proposito dell’amore: «Anche se nel tuo caso — dice rivolto al sottosegretario — il paragone con l’amore mi sem­bra esagerato». Risate. Riggio: «Figuriamoci se non è esagera­to parlare di amore oggi, visto che trattiamo di aeroporti». Chiude la riunione una battuta del premier: «Quando si parla di Letta ormai vivo una crisi di identità. È sempre più bravo di me... » .
D’Alema è già lontano, anco­ra poco e Berlusconi rientrerà a Palazzo Grazioli, dove l’attende il ministro della Giustizia e tut­ti quegli affari, correnti e straor­dinari, che fino a oggi non so­no mai stati trattati da governo e minoranza, «nell’interesse del Paese», di comune accordo.

il Riformista 15.10.09
«Ora basta con questo Pd schizofrenico»
Nicola Latorre. Il vicepresidente dei senatori democratici si dice contrario alla cacciata della deputata teo-dem e chiama in causa la gestione Veltroni-Franceschini
di Stefano Cappellini


«Oscilliamo tra il partito all'americana e il ricorso a strumenti sovietici». Sulla querelle iscritti-elettori: «Discussione astrusa. Evitiamo un doppio voto sul leader e cambiamo lo statuto, che è un mostro». Dario anti-D'Alema? «Se è così, ha già perso».

Senatore Latorre, nel Pd è di nuovo tempo di espulsioni. Anche lei vuol cacciare Paola Binetti?
Non ho condiviso l'atteggiamento di Paola Binetti. Il suo è un errore spiacevole e gravissimo. Ma in questo momento adottare provvedimenti disciplinari non serve a nulla.
Il problema sui temi etici resta. Come se ne esce?
Costruendo davvero il partito e una sua identità definita. Strutturandolo nei suoi aspetti organizzativi, di discussione e confronto. E disciplinando le modalità della nostra presenza nelle istituzioni per tutelare gli interessi collettivi, e non solo la rispettabile coscienza individuale. Ogni qual volta ci si trova a constatare che l'effetto del partito leggero all'americana è il caos si ricorre all'utilizzo di strumenti sovietici. Una schizofrenia cui dobbiamo porre fine con l'elezione del nuovo segretario.
Paola Concia, relatrice della proposta di legge anti-omofobia, rimprovera al gruppo del Pd di aver favorito l'affossamento definitivo del provvedimento anziché il suo ritorno in commissione. Ha prevalso la logica del "tanto peggio, tanto meglio"?
Può essere che qualche comportamento accrediti questa interpretazione, ma se così fosse verrebbe meno uno dei tratti fondamentali di un grande partito di opposizione riformista. Sarebbe un'aberrazione culturale.
A giudicare dalla qualità del dibattito congressuale del Pd l'impressione è che non manchino gli sfascisti.
C'è una differenza impressionante tra la qualità dei congressi di circolo e la rappresentazione che si dà. Posso testimoniare che nelle sezioni, pardon, nei circoli, si sono affrontate due grandi questioni. La prima è come uscire dalla crisi che stanno attraversando tutte le forze di progresso in Europa.
Superando il confine del campo socialista, suggerisce Rutelli.
Ora che i socialisti hanno vinto in Grecia, cosa dovremmo dire, che la socialdemocrazia è risorta? Usciamo da questo modo semplicistico di declinare la discussione, per cui basterebbe cancellare la parola sinistra o la parola socialista per venire a capo della situazione.
E la seconda grande questione?
Come sopravvivere alla crisi della democrazia, cioè al fatto che oggi scontiamo la tendenza a una sempre maggiore prevalenza del ruolo degli esecutivi. Sulla base di questi punti dovremo essere in grado di indicare al paese un progetto percepito come credibile alternativa di governo. E da soli, perché non sarà George Clooney o i giornali anglo-americani a consentirci di sconfiggere il centrodestra. Intanto, smettiamola di crogiolarci in discussioni astruse.
Del tipo?
Se continuiamo a discutere se devono pesare di più gli elettori o gli iscritti ci sono buone possibilità che ci mandino le autoambulanze.
Fassino dice che se vince Bersani non si faranno più le primarie.
Innanzitutto, gli ricordo che se vince Bersani si faranno per la prima volta le primarie per indicare i candidati alle elezioni politiche. Dopodiché, bisogna evitare di replicare situazioni che non hanno senso: non si può votare due volte per il segretario, esponendosi al rischio di avere due esiti diversi. Resto convinto che lo status di un iscritto in termini di diritti e doveri non può esser equiparato a quello di un elettore.
Perché non si è opposto quando è stato votato lo statuto?
Quello statuto è stato frutto del compromesso tra due concezioni del partito che non possono essere riassunte. Il risultato è un piccolo mostro. E dopo il 25 ottobre dobbiamo modificare le regole. Tutti insieme, perché le regole vanno condivise e su questo Bersani è stato chiaro.
Scalfari propone di abolire il quorum alle primarie: vince chi ha un voto in più.
La sua proposta conferma che il meccanismo è letale.
Statuto, Di Pietro, alleanze. Ma com'è possibile che voi dirigenti del Pd vi accorgiate sempre in differita degli errori?
La verità è che abbiamo tutti abbassato la guardia mentre il Pd si costruiva su basi plebiscitarie, producendo spesso tra le varie conseguenze anche un unanimismo di facciata.
Detta così, è colpa di Veltroni. Per Franceschini, però, è colpa di D'Alema e del suo «boicotaggio» interno.
Se la scelta di Franceschini è trasformare le primarie in uno scontro con D'Alema ha già perso, perché il candidato è Bersani, che con la sua onestà e determinazione non si fa condizionare da nessuno. Ma la mossa di Franceschini
mi pare un modo non troppo arguto per sorvolare sulle responsabilità di chi ha effettivamente ha governato il partito in questi due anni. Aggiungo che D'Alema si è preso le sue responsabilità, quando le ha avute, mentre c'è chi ha sempre la capacità di scrollarsele di dosso un minuto prima di doverne dare conto.
Ce l'ha con Veltroni?
Non penso male di Veltroni, ho solo opinioni diverse da lui. Punto e basta. Per il resto contano i risultati: c'è stata una stagione in cui la sinistra è cresciuta ed è andata al governo e una stagione in cui il centrosinistra è crollato. Poi c'è l'immagine dei leader. In questi anni si sono costruiti degli stereotipi dai quali non si è più usciti. C'è chi ha una capacità di trasmettere un immagine di sé di un certo tipo anche quando la realtà va in direzione opposta.
Molti ce l'hanno con lei per la vicenda del "pizzino" passato in diretta a Bocchino.
Ho commesso un gravissimo errore, di cui ho chiesto sinceramente scusa. Ma trovo incomprensibile l'uso che si continua a fare di quella vicenda. Nel merito, io su quel fogliettino ho scritto quel che avevo detto ad alta voce pubblicamente e cioè che tutta la gestione della vicenda Rai da parte del gruppo dirigente era sbagliata. E mi pare che, forse, oggi i risultati mi diano ragione. Quanto al pizzino,personalità più autorevoli di me si son esercitate nel passaggio di fogliettini, con Berlusconi, con Casini, ma in quel caso, chissà perché, nessuno parlò di "pizzini".
A proposito di Casini. Se Binetti sbaglia sull'omofobia, cosa dire dell'Udc con cui volete allearvi?
Sulle questioni economico-sociali l'Udc è spesso vicina alle nostre posizioni, sui diritti civili e la laicità dello Stato siamo ancora distanti. Ma questi temi non sono dirimenti sul piano locale e ci consentono di partire da alleanze già alle regionali. Certo, se dovessimo proporci domani al governo del paese, avremmo dei problemi. Ma per fortuna non è una questione di domattina.
Vi si accusa di voler riportare il trattino tra centro e sinistra.
Sciocchezze. Vale il contrario. Se tu assumi il tema delle alleanze come asset strategico diventi formazione capace di espanderti, perché diventare catalizzatore anche di altre forze è un elemento che consente al Pd di conquistare consensi diretti. Franceschini invece dice di volere un partito a vocazione maggioritaria. E che significa? Significa che quando inevitabilmente scopri di non essere arrivato al 51 per cento, vai a fare shopping in cerca di alleati. Questa concezione sì che produce una tendenza a restringerti e ci espone al rischio di tornare ad alleanze raccogliticcie.

il Riformista 15.10.09
«Espellere la Binetti non sarebbe da laici»
Marramao e i guasti dell'infinito Sessantotto
di Alberto Alfredo Tristano


«Posto che la Binetti per me ha posizioni del tutto imbarazzanti, non mi sembra una decisione propriamente laica immaginare di metterla fuori dal Pd. La laicità comprende, non esclude». Dell'ultima tormenta in casa democratica parla il filosofo Giacomo Marramao, in questa conversazione col Riformista su politica e laicità.
L'Italia è un paese laico? «No, e non lo è mai stato. La laicità nasce dal conflitto religioso, dalla pluralità delle visioni della morale. Noi invece siamo vissuti nel contesto che tratteggiò già Machiavelli, con Santa Madre Chiesa che ripara l'Italia dalle guerre religiose, tenendola però in una incubatrice storica. Peraltro in questo periodo la stessa idea di Unità d'Italia, operazione laica che insegnò Francesco De Sanctis si era realizzata sul piano della letteratura e della cultura molto prima che su quello della politica, mi sembra messa in stato di revoca, non dico nelle intenzioni ma senz'altro nella suggestione, dalle logiche convergenti della Santa Sede e della Lega Nord. Anche in questo occorre una risposta laica, che si concentri sulla tenuta dello spirito nazionale, e che reincanti la politica. Io, nel tempo delle ideologie, sostenevo la necessità del disincanto. Ma oggi, in epoca post-ideologica, quel disincanto rischia di scivolare nel cinismo, in un velo relativistico che copre lo sguardo, quando invece ci sarebbe bisogno del ritorno alle passioni. Certamente non penso che la politica debba consegnare alla società le chiavi della felicità, perché questa è una tipica ambizione totalitaria, ma di sicuro deve indicare un orizzonte di senso. In un recente articolo per Libération scrivevo che il vero nome della fratellanza, per come fu indicata dalla Rivoluzione francese, oggi è responsabilità».
Eppure, su molti temi, dal biotestamento ai diritti per le coppie omosessuali fino al recente affondamento della legge contro l'omofobia, la politica non sembra agire con spirito di responsabilità. «Per restare al caso più recente, e cioè l'omofobia, stiamo semplicemente scontando almeno venticinque anni di deculturalizzazione, di desertificazione della sfera pubblica. È assolutamente necessario riattivare una relazione tra le generazioni, le quali sono passate dal conflitto all'indifferenza. E se vanno individuate delle responsabilità, esse si trovano nei molteplici errori del lunghissimo, infinito Sessantotto italiano, troppo dilatato rispetto al brevissimo omologo francese perché producesse davvero un ricambio. In Italia hanno trionfato i reduci: iper-politicizzati, pervertiti dalla logica dei gruppi, rumorosi in maniera inversamente proporzionale alla loro reale incidenza storica. È ora di voltare pagina».
Marramao ieri ha accompagnato al Teatro Quirino di Roma il premio Nobel portoghese Josè Saramago che ha presentato il suo Quaderno, edito da Bollati Boringhieri dopo il rifiuto a pubblicarlo da parte dell'Einaudi, di proprietà della berlusconiana Mondadori, per via delle critiche dirette al premier italiano: «Un altro atto non proprio laico». Sabato e domenica prossimi sarà a Pescara per il secondo Festival mediterraneo della laicità, di cui è direttore scientifico. Il tema di quest'anno è «Creatività, invenzione, pluralismo. Le sfide del mondo laico all'immobilismo del XXI secolo». «Non c'è dubbio che i laici oggi devono portare la croce che un tempo portavano i cristiani. Per di più in anni come questi nei quali la speculazione filosofica rischia di stagnare rispetto alle evoluzioni della tecnica e della scienza, che modificano non più solo la natura esterna ma anche quella interna, e dunque l'identità stessa dell'individuo. Torniamo dunque a interrogarci su questione ultime. Senza steccati. Un laico deve conoscere la teologia politica, non essere estraneo alla religione. Pur sapendo che quel che determina le scelte oggi è l'appartenenza, il belonging, molto più che la fede, il believing. Un bisogno disperato di riconoscersi, soprattutto tra i giovani, non importa che essi siano in una moschea, una sinagoga o una discoteca».

il Riformista 15.10.09
Contro D'Alema e Bersani e le loro provocazioni
di Marco Pannella


Da diversi giorni Massimo D'Alema lancia deliberatissime provocazioni politiche, che nessuno mostra di raccogliere, men che mai dall'interno del Pd (dove Ignazio Marino è silenziato), dal Partito degli editori in fallimento, e assai comprensibilmente dai resti delle cosiddette "Sinistre Radicali".
Dunque, D'Alema, in meno di una decina di giorni, dichiara: 1) di essere «per una politica laica, non di tradizione comunista ma democristiana»; 2) che l'obiettivo del Pd deve essere quello un po' ultradipietrista di unire "tutte le opposizioni" attuali al Governo Berlusconi, dall'Udc all'Italia dei valori e a Sinistra e Libertà (non nomina, beninteso, al solito i Radicali; e, ora… i Verdi?); 3) che «Nichi Vendola, cui riconosco una leadership indiscussa» dovrebbe chiamare per le elezioni regionali e discutere e lanciare nuove alleanze con «Udc e il Sud di Adriana Poli Bortone; con i quali Vendola dovrà eventualmente discutere la scelta del candidato presidente alla Regione, se non dovesse esserlo lui».
Per conto… suo, il candidato designato per vincere, Pierluigi Bersani completa e precisa questo "progetto" insistendo sulle due radici del suo Pd (quella del cattolicesimo democratico e quella del socialismo riformista) e sulla scelta di una legge elettorale proporzionale, con preferenza "tedesca" cioè Casiniana. Intanto il Pd resta il coautore, con Berlusconi, di leggi elettorali che hanno di fatto, ormai sempre più dal 2005, tolto i diritti politici e civili ai cittadini italiani che non siano acquisiti al selvaggio monopartitismo ("bipolare!") e alle sue due componenti del Regime antidemocratico, populista e antipopolare. Ma, quel che ci appare ancor più grave e chiaro è il non detto dalemian-bersaniano; che riguarda la politica estera e quella comunitaria di piena loro coincidenza "strategica" con le tappe del quotidiano rotolare, per mera forza di gravità, nella totale subalternità al "G1" berlusconiano.
Così «la Libia è strategica» e si fa da anni a gomitate con il Silvio nazionale nella tenda di Gheddafi, si vota "unanimi" e bipolari gli accordi con lui; non si fa una piega sulla politica fraterna con il democraticissimo Putin e i suoi gasdotti; con la sua politica caucasica, non ci si occupa troppo di tibetani, uiuguri, laotiani, delle minoranze vietnamite, cambogiane, mongole e dintorni; di federalismo spinelliano nemmeno più l'ombra, continua ad imperversare la linea dalemian-berlusconiana inaugurata al tempo della "pericolo Bonino".
In Rai si fa fuori Corradino Mineo colpevole solo di aver quadruplicato gli ascolti; e si ottiene senza mostrare di accorgersene che nel periodo che va dal primo settembre a oggi i Radicali non siano andati nemmeno un secondo in voce nei principali tg…
Per finire, l'osservazione più grave: D'Alema conosce benissimo l'origine del "successo" del sanguinario Dittatore libico. Fu quando, nel marzo 2003, operò, letteralmente, come killer del presidente Bush per tentare di impedire la liberazione pacifica dell'Iraq con l'esilio ormai accettato di Saddam Hussein. Quella guerra fu scatenata da Bush, con la collaborazione essenziale di Blair e di Berlusconi, per impedire la liberazione dell'Iraq con la pace, ormai praticamente assicurata. La democrazia e la suprema legge degli Usa, del Regno Unito, della Repubblica italiana furono in quella occasione e a lungo letteralmente tradite. Crimine massimo in qualsiasi Paese civile.
Per questo la nostra e mia responsabilità è chiara e obbligata, e l'assumiamo senza riserve. D'Alema, Bersani, il Pd?

il Riformista 15.10.09
Comunque vada il "caso Binetti" è un guaio per il Pd
di Rina Gagliardi


Se il partito non fa niente rinuncia a esistere, se la caccia lancia un messaggio repressivo di ritorno a liturgie del passato

Esiste davvero un "caso Binetti" o, invece, quel che esiste è piuttosto un "caso Pd"? L'interrogativo non è polemico, ma analitico. E anche la più sommaria delle analisi ci rivela aporie quasi insolubili.
Intanto, questa vicenda ci rinvia, per l'ennesima volta, all'insostenibilità di un progetto il veltronismo che aveva un solo contenuto politico-strategico: vincere. In nome di questo nobile obiettivo, esso aveva cercato di sostituire al logoro contenitore novecentesco il Partito con il suo naturale corredo di valori, interessi sociali, posizioni generali e posizioni programmatiche una sorta di aggregato ecumenico e indistinto, a fortissima leadership personale. Da qui quella che Niccolò da Cusa avrebbe definito l'incarnazione pratica della sua "coincidentia oppositorum": nel Pd veltroniano, c'era proprio tutto e il suo contrario. Imprenditori e operai (in omaggio alla conclamata fine di ogni visione classista della società), neofiti liberisti e vecchi socialdemocratici (in omaggio all'esaurimento delle ideologie del XX secolo), industrialisti e ambientalisti (in omaggio alle teorie confuciane sull'armonia). E, naturalmente, non laici e cattolici, ma laici e clericali, cattolici "adulti" e cattolici fondamentalisti. Perché mai Paola Binetti, donna di chiara collocazione progressista (per esempio su questioni dirimenti di politica sociale), persona schietta e, a suo modo, "impolitica", non avrebbe dovuto collocarsi nelle file della nuova formazione politica? Le sue posizioni di intransigente anti-laicità, così come il suo "posizionamento" vaticano, non solo erano ben note, ma erano precisamente la "dote" che la fondatrice di Scienza e Vita portava al Pd. Non è stato in virtù di questo patrimonio di idee che è stata eletta senatrice nel 2006 e deputata nel 2008? E, soprattutto, non c'era alla base il sottinteso che la soluzione di tutte le contraddizioni che potevano nascere, il compito di dipanare le matasse intricate, il potere, insomma, di decidere, alla fin fine, spettava solo a lui, al leader? Un non-partito in cui sono presenti, allo stato "puro", tutti gli umori, gli interessi, le idee e le gramsciane "credenze" in cui si articola la società. Un capo che si occupa di politica e che, in quanto tale, ne incarna la sintesi. Ma è proprio questo lo schema che non ha funzionato, e non poteva funzionare, perché trascurava una legge essenziale della politica: la scelta. Si può rinviare, si può cercare una "buona mediazione", si può tergiversare, ma un certo punto viene il momento in cui bisogna decidere e scontentare qualcuno.
Seconda e più concreta aporia: l'indisciplina dell'onorevole Binetti. Già nel dicembre 2007 la senatrice teodem votò contro la fiducia al Governo Prodi, sulla base di una motivazione identica (identicamente omofobica) a quella che l'ha condotta, l'altro giorno, a votare in compagnia della destra e dell'Udc. Un anno e mezzo dopo, non ha cambiato idea. Viene da dire: dov'è la notizia? Forse, la notizia è che per strappare qualche voto a Ignazio Marino alle primarie del 25 ottobre Dario Franceschini scopre il centralismo democratico, con connessa voglia di espulsione, e perfino una intransigente laicità. Forse, la notizia è che questa storia della "coscienza" e delle questioni "eticamente sensibili" non regge, è un'altra delle tante insostenibilità della politica attuale. Poiché i confini della "coscienza" in politica sono ben difficili da definire, e poiché nella Weltanschaung dell'onorevole Binetti vi rientrano, nientemeno, che l'intera sfera delle relazioni sociali, i collanti valoriali che ad essa debbono presiedere, nonché lo statuto effettivo della scienza e della libertà della ricerca scientifica; il risultato finale rischia di essere un pasticcio epocale. Insolubile quanto il cubo di Rubik. Se l'indisciplina dell'onorevole Binetti, alla fine, non sarà in alcun modo sanzionata, si sancirà il principio che, nel Pd, nel nome della "coscienza", ognuno potrà fare semplicemente quel che gli pare un principio disgregativo bello e buono per un partito che non pare averne bisogno. Se, all'opposto, l'onorevole Binetti fosse cacciata, non ci saranno soltanto i prevedibili contraccolpi interni, sul fronte cattolico e Vaticano, ma prevarrà un messaggio repressivo, un ritorno alle liturgie del passato. In ogni caso, ahimé, il Pd pagherà un prezzo di credibilità.
Infine, l'ultima aporia riguarda proprio lei, Paola Binetti (che a me, forse lo si è capito, è davvero simpatica). Ieri, in un'intervista al Tg3, ha spiegato con calma il suo diritto a rimanere nel Pd, giacché, ha detto, «la diversità è una ricchezza», non un problema, né tanto meno un problema riducibile a questione disciplinare. Parole sagge. Ma com'è che la parlamentare teo-dem non riesce, non si dirà, ad apprezzare, ma in qualche modo a capire, il valore della diversità di orientamento sessuale? Come è che non sia sfiorata dal dubbio che la sua propria evidente e tenace "diversità" politica, culturale, religiosa non sia la sola titolata a esistere e a godere di diritti pieni? Misteri dell'animo umano, diceva un mio zio molto scettico.

il Riformista 15.10.09
Economisti sul lettino
Tremonti torna e parla di crisi e Rivoluzione
Partecipa con Guido Rossi a un convegno degli psichiatri italiani
di Marco Innocente Furina


Da posizioni diverse, per entrambi la politica deve prevalere sui bilanci. Il ministro, alla prima uscita dopo il litigio con Berlusconi, dice: «Passati "globalité, marché, monnaie", torniamo a "liberté, egalité e fraternité"».

La prima uscita di Giulio Tremonti dopo il gran litigio con il Capo non ha il sapore del pentimento. Anzi. Sembra un affondo. Un altro convegno. E sempre dal titolo, diciamo così, equivocabile. Dopo l'incontro organizzato dall'Aspen Institute, di cui Tremonti è presidente, sui criteri di una moderna leadership, che Berlusconi, notoriamente poco incline a pensare a una successione, aveva interpretato come un atto di lesa maestà, il superministro dell'Economia ha partecipato ieri a un convegno, organizzato questa volta dalla società italiana di psichiatria, intitolato «Antinomie della crisi: fiducia/sfiducia, paura/speranza, competizione/isolamento». Per carità, saremmo in campo neutro: parliamo dei legami tra psiche e economia, un tema molto dibattuto in questi mesi di «crisi percepita», e non certo di fiducia e sfiducia parlamentari. E neppure di competizione-isolamento di un leader. Ma alle volte, si sa, il contesto vale più delle parole. E le compagnie ancora di più. Perché a dibattere con Tremonti c'era un uomo, come Guido Rossi, che non gode esattamente delle simpatie berlusconiane. Segno, se non altro, che il titolare di via XX settembre delle interpretazioni si cura poco.
Giulio Tremonti e Guido Rossi. Due professori, certo. Entrambi di formazione giuridica, ed entrambi convinti della superiorità della norma sulla pratica, del diritto sull'economia. «Il mercato fin quando è possibile, e il governo quando è necessario», è il loro motto. Rossi si batte (da sempre) contro«l'integralismo di mercato», Tremonti sferza (da qualche tempo), il «mercatismo». Due diverse espressioni per dire la stessa cosa: la politica prevalga sull'economia. Ma le analogie finiscono qua.
Perché al di là della simpatia che c'è tra i due, gli uomini non potrebbero essere più diversi. Uno, Guido Rossi, laico e di sinistra, è l'uomo delle regole (senatore per la Sinistra Indipendente nella X legislatura, fu promotore della legislazione antitrust sulle opa sull'insider trading) e poi commissario straordinario della Federcalcio in seguito allo scandalo Calciopoli; l'altro, il superministro berlusconiano dell'Economia, l'uomo dei miracoli contabili, da ultimo convertito a un'economia etica, e col compito difficile di far quadrare i bilanci ai tempi della crisi. Quasi due mondi. Due universi paralleli (che sembravano) destinati a non incontrarsi mai. Sembravano.
Fino a ieri. Quando hanno discusso per un'ora e mezzo con accenti convergenti, delle correlazioni tra psicologia e crisi economica, globalizzazione e mercato. Dove? All'Hotel Marriot, nelle stesse sale dove domenica scorsa si è consumato il frettoloso congresso democratico.
Venendo al dibattito, Rossi ha messo in dubbio una dei paradigmi dell'economia moderna, sostenendo l'irrazionalità dell'homo aeconomicus. Valga per tutti Isaac Newton: «Posso calcolare la velocità degli astri ma non la follia dell'uomo». Ma ha anche sconfessato Marx citando Keynes: «Sul lungo periodo prevalgono le idee non gli interessi consolidati».
Tremonti non è da meno. Riprende Keynes e strappa l'applauso: «Saremmo capaci di spegnere il sole e le stelle perché non producono dividenti». Attacca i contratti derivati, vera causa della crisi, e spiega agli psichiatri che il tonfo, innanzitutto psicologico, dell'economia mondiale è iniziato con le immagini del fallimento di Lehman Brothers. Esalta la funzione regolatrice del diritto («Lo sforzo che stiamo facendo con la Germania è il tentativo di definire una tabula mundi contenente le tavole fondamentali globali, le regole generali»). Ovvero i global legal standards. Rassicura sul debito dell'Italia: «Siamo a medio rischio». Difende l'operato del governo: «Abbiamo mantenuto la coesione sociale". E ripete la messa funebre del liberismo selvaggio: «Finito il periodo di globalité, marché, monnaie (cioè globalità, mercato, moneta, ndr) forse è il caso con spirito laico e civile di tornare a ideali quali liberté, egalité e fraternité».

Repubblica 15.10.09
Piano carceri, ecco l'indulto nascosto
Prevista la modifica al codice penale. In programma 24 nuovi penitenziari
di Giovanna Vitale


Il ritocco alla norma consentirà a tutti i condannati a pene fino a 12 mesi di uscire e scontarle nelle proprie abitazioni

ROMA È una sorta di indulto mascherato il Piano per l´emergenza carceri che, su proposta del guardasigilli Angelino Alfano, verrà approvato oggi in consiglio dei ministri. Oltre alla costruzione di 24 case circondariali tra nuovi edifici e ampliamenti di quelli già esistenti, per la cifra monstre di 1,3 miliardi in tre anni (tutti peraltro ancora da individuare), il programma per decongestionare i penitenziari italiani messo a punto dal capo del Dap Franco Ionta prevede infatti la modifica dell´articolo 385 del codice penale. Un ritocco che consentirà a tutti i condannati a pene fino a 12 mesi di uscire di prigione e di scontarle «nella propria abitazione o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza, e accoglienza».
Evidente il beneficio, dal momento che «secondo stime dell´amministrazione», nel settembre 2009 circa il 32% dei reclusi doveva espiare «pene residue non superiori a un anno». E poiché «a oggi sono presenti nei 206 istituti penitenziari 64.859 detenuti con un inarrestabile trend di crescita» calcolato in circa 800 nuovi "ospiti" al mese, significa che una volta varato il provvedimento torneranno a casa quasi 21mila carcerati. Più o meno gli stessi posti che il Piano di edilizia penitenziaria si prefigge nel contempo di aumentare: 2.372 in più entro quest´anno; 8.804 per il 2010 (grazie alla costruzione di 9 nuove carceri e 8 istituti flessibili; più 5 nuovi padiglioni); 5.596 nel 2011 (25 padiglioni, compreso quello maxi di Rebibbia); 7.029 per il 2012.
E a poco servirà l´altra modifica introdotta a corredo, ossia l´inasprimento delle pene in caso di evasione (raddoppiata nel minimo e triplicata nel massimo) nonché l´esclusione dei reati di mafia, ovvero il 41 bis. La discrezionalità dei Tribunali di sorveglianza sarà pressoché azzerata: «La prosecuzione della pena presso l´abitazione o altro luogo, pubblico o privato, dev´essere concessa, salvo che risulti l´insussistenza dei presupposti di legge», recita il documento.
Ma questa non è l´unica novità. L´altra riguarda le procedure da seguire per l´attuazione del Piano. «Nelle carceri c´è una situazione davvero da dimenticare e incivile», aveva detto ieri Silvio Berlusconi a proposito del sovraffollamento in cella, che ha ormai superato i livelli pre-indulto. Un´affermazione che prelude alla dichiarazione di "emergenza" che verrà deliberata oggi dal consiglio dei ministri, su proposta del premier. Il modello evocato nel Piano è la ricostruzione dell´Aquila. Delegato a gestire l´urgenza sarà con ogni probabilità Franco Ionta, già nominato prima dell´estate commissario straordinario per l´edilizia penitenziaria. Il quale, come già Guido Bertolaso per il terremoto in Abruzzo, avrà le mani libere: potrà «agire in deroga ad ogni disposizione vigente», nominare consulenti esterni e soprattutto godere di quel regime speciale che trattandosi di materie attinenti alla sicurezza nazionale come le carceri «legittima la secretazione delle procedure di affidamento dei contratti pubblici». In sostanza potrà fare tutti gli appalti che vuole, come vuole: tanto l´intera documentazione verrà classificata come "riservatissimo".

Corriere della Sera 15.10.09
In Consiglio dei ministri
Il piano: 24 nuove carceri da Torino a Catania entro la fine del 2012
di D. Mart.


ROMA — Riveduto e corretto, il piano carceri arriva (oggi o la prossi­ma settimana) in consiglio dei mini­stri. Molte le novità: oltre i numeri — 21.479 nuovi posti (80 mila totali a regime) entro il 2012 divisi in car­ceri «leggere» e padiglioni tradizio­nali — c’è la previsione dello «stato di emergenza» e i poteri assoluti, «in deroga ad ogni disposizione vi­gente », per il commissario straordi­nario, Franco ionta (Dap). Che agirà sul modello della Protezione civile in caso di calamità naturale: potrà far coprire con la classificazione «se­gretissimo » gli atti relativi alla «sele­zione degli operatori economici in­teressati agli appalti» e «proteggere la documentazione relativa». Oltre il piano c’è un’ipotesi che deve anco­ra avere il placet della Lega: allarga­re gli arresti domiciliari aprendo le porte del carcere ai detenuti con un residuo pena inferiore a un anno.
Il piano, in premessa, ricorda che la Ue nega i fondi per le carceri e che «la decisione quadro sul trasfe­rimento dei condannati (stranieri, ndr ) del 2008 non inizierà a produr­re effetti prima del dicembre 2011». Ecco la rimodulazione: 9 carceri leg­gere (450 posti, per il costo di 22-24 milioni a modulo, «con l’edi­ficazione di strutture flessibili dota­te di misure di sicurezza e di con­trollo sostitutive rispetto all’azione del personale di Polizia penitenzia­ria ») a Milano, Napoli, Bologna, To­rino, Firenze, Roma, Genova, Cata­nia e Bari. Costruiti «alla stregua della positiva esperienza compiuta nel post terremoto», serviranno ad assorbire il sovraffollamento nelle metropoli «gravate dal notevole af­flusso di detenuti arrestati in fla­granza che spesso permangono nel­le case circondariali per pochi gior­ni ». Altre 8 strutture leggere per la reclusione a Pordenone, Pinerolo, Paliano, Bolzano, Varese, Latina, Brescia: 374-408 milioni di spesa per 7.650 posti. Costruzioni tradi­zionali per Roma, Milano, Nola, Sciacca, Sala Consilina, Venezia e Sa­vona: 613 milioni per 4.429 posti. Ci sono poi 47 padiglioni (200 po­sti) nelle carceri esistenti (9.684 po­sti).

Repubblica 15.10.09
Così tristi e aggressivi il 4,2% dei ragazzi è a rischio bullismo


ROMA Sono come "le due facce opposte della luna": i ragazzi "timidi rabbiosi", con sintomi come ansia, depressione e aggressività, e gli "aggressivi tristi", apparentemente in guerra con il mondo ma che nascondono tristezza e solitudine. Entrambi sono a rischio di manifestare un disturbo psicologico e potrebbero diventare potenziali bulli. Lo conclude una fotografia del disagio giovanile scattata dalla ricerca "La scuola per la vita: promozione della salute mentale in preadolescenza", condotta da Gabriel Levi, direttore del Dipartimento di Scienze neurologiche, psichiatriche e riabilitative dell´età evolutiva della Sapienza. Lo studio che ha coinvolto 2045 studenti e 204 insegnanti delle medie aiuta a valutare i segnali di crisi nel comportamento. Agli studenti è stato chiesto di autovalutarsi (il loro giudizio è stato poi confrontato con quello degli insegnanti), e raccontarsi attraverso temi. Risultato: il 4,2% del campione presenta problematiche sia di tristezza-solitudine che di rabbia-aggressività.

Liberazione 15.10.09
Protagonista nel '22 della difesa della sua città dalle camicie nere, morì in Spagna
Storia di Guido Picelli, ardito del popolo a Parma
di Daniele Barbieri



«Guido Picelli è caduto sul fronte di Madrid, alla testa del battaglione che porta degnamente il nome di Garibaldi». Così Milicia Popular (quotidiano del Quinto reggimento) lo ricorda: «Nell'agosto '22, quasi tutte le bande fasciste del Nord, sotto il comando del generale Balbo, si concentrano su Parma per far cadere questa città che Picelli con i suoi Arditi del popolo ha reso invincibile. Dopo un duro combattimento, le orde fasciste vengono respinte e messe in fuga».
Madre portinaia, padre cocchiere: Picelli nasce a Parma il 9 ottobre 1889, cresce nei borghi dell'Oltretorrente, covo di un popolo ribelle. Fa le medie e poi va a lavorare come orologiaio. La sua passione è il teatro. Ha 17 anni quando dice in casa: «Metti giù il riso che torno». Lo rivedono 6 anni dopo; con la battuta pronta chiede se il riso è cotto, poi racconta le sue avventure di attore girovago. Si trova un lavoro da orologiaio. Tranquillo per un po' ... finché all'orizzonte si affaccia la guerra. Sin da giovanissimo iscritto al Partito socialista, Picelli è contro. Quando inizia la guerra, coerente antimilitarista, si arruola volontario nella Croce Rossa. Ma viene richiamato in fanteria, allora fa domanda da ufficiale. Finisce la guerra da tenente, medaglia di bronzo al valore e zoppicante per una ferita.
Più socialista che mai, capisce il grave problema dell'aiuto a chi è stato colpito dalla guerra e diventa dirigente della "Lega proletaria mutilati, invalidi e vedove dei caduti". Ma sulla scena è apparso il fascismo. Picelli intuisce subito il pericolo.
Quando nasce il Partito comunista, Picelli è in carcere. Ne esce pochi mesi dopo perché eletto deputato (col Psi). Nel '21 in varie città si formano, in modo spontaneo, gli Arditi del popolo, Picelli è da subito in prima fila. Si lagnano le camicie nere che fra l'ottobre 1920 e la marcia su Roma (due anni dopo) cadono 300 fascisti ma le vittime dello squadrismo sono 10 volte tanto, 3mila. Mentre Turati e altri dirigenti invitano alla calma, Picelli scrive: «Occorrono metodi nuovi. Di fronte alla forza armata occorre la forza armata (...) La borghesia per attaccarci non ha creato un partito ma un organismo armato, il fascismo. Noi dobbiamo fare altrettanto».
Nel '22 il terrore fascista dilaga. La risposta è debole, le sinistre divise quasi ovunque ma Parma non cede. «E' l'ultima roccaforte in mano delle forze anti-nazionali» scrive Italo Balbo, uno dei capi fascisti. In agosto parte un attacco in grande stile, guidato da lui. Ma l'Oltretorrente di Parma è pronto a resistere: l'organizzazione difensiva è stata avviata 14 mesi prima. «Per la prima volta», è di nuovo Balbo, «il fascismo si trovava di fronte a un nemico agguerrito, organizzato e deciso a resistere»: e alla fine le camicie nere si ritirano, lasciando 30 morti sul terreno. Non sono riusciti a passare in 20 mila ben addestrati (venuti da mezz'Italia) contro poche centinaia di combattenti ma sostenuti da quasi tutta la città.Vorrebbero ritentare quasi subito ma Mussolini blocca Balbo: la "marcia su Roma" è prossima, la vendetta su Parma può aspettare.
Nel dicembre '22 gli Arditi del popolo si sciolgono, in realtà molti tentano di iniziare, con scarso successo, un'attività clandestina. Intanto Picelli si è avvicinato ai comunisti e alla fine del '23 si iscrive al partito ma è escluso da incarichi direttivi per il suo "libertarismo". Nel '24 sarà rieletto nelle liste di "Unità proletaria" (comunisti e terzinternazionalisti). Il primo maggio 1924 è autore di una beffa clamorosa: issa una bandiera rossa con falce e martello sul palazzo del Parlamento. Dal '26 il regime lo confina a Lipari. Nel novembre '31 è rimesso in libertà, il partito gli ordina di espatriare. Scappa in Francia, poi arriva a Mosca.
Nel luglio '36, con l'aiuto di Hitler e Mussolini, il generale Franco attacca la Repubblica spagnola. Molti italiani accorrono volontari. La parola d'ordine è "Oggi in Spagna, domani in Italia".
In modo fortunoso, senza neanche una valigia, Picelli arriva da solo a Barcellona. Addestra i suoi uomini con passione: «dovete essere disciplinati e coraggiosi». Un volontario (il tipografo Canonica) lo ricorda così: «Picelli è come il correttore di bozze in tipografia: corregge gli sbagli». Finito l'addestramento si va a combattere: il 5 gennaio 1937 Picelli, al comando di due compagnie garibaldine, cade sull'altura di El Matoral.
Diverse le versioni sulla sua morte. C'è chi dice che, spinto dalla sua generosità, disobbedisce alle regole secondo cui chi comanda una compagnia non deve esporsi in azioni d'avanguardia. C'è chi parla di un proiettile alle spalle come accade per altri militanti "non ortodossi" che vengono considerati dagli stalinisti più pericolosi dei fascisti. Di un mistero non risolto - lo ha ricordato Alias-il manifesto , in luglio - parla Gustav Regler, uno dei comandanti delle Brigate internazionali in La grande crociata , scritto nel 1940 (con prefazione di Ernest Hemingway) ma ancora inedito in Italia.
E' in uscita un documentario di Giancarlo Bocchi su Picelli ma intanto chi si recasse in libreria faticherebbe a trovare testi sugli Arditi del Popolo. Le fonti di questo articolo sono soprattutto in Barricate a Parma (Libreria Feltrinelli di Parma, 1972) di Mario De Micheli e Gli Arditi del popolo (Galzerano, 2002) di Luigi Balsamini. Ma è interessante anche Arditi non gendarmi (Bfs edizioni, 1997) che indaga sulla complessa storia che si dipana «dall'arditismo di guerra agli arditi del popolo». Istruttivo confrontare la vittoriosa resistenza di Parma con la sconfitta di Novara del mese precedente, come l'ha raccontata Cesare Bermani in Novara 1922, battaglia al fascismo (Sapere, 1972). E sulla resistenza a Sarzana - con gli Arditi del popolo in prima fila - Luigi Faccini gira nel 1980 Nella città perduta di Sarzana .
Particolarmente significativa, considerando le sue posizioni moderate, la presentazione di Giorgio Amendola (allora dirigente di primo piano del Pci) al libro Barricate a Parma , uscito nel cinquantenario della battaglia dell'Oltretorrente. Amendola scrive che se gli Arditi del Popolo non si sviluppano «dipende anche dal settarismo del Pci» mentre invece la sua «base unitaria» diventa «un'anticipazione di quel movimento che dovrà costituire la base della Resistenza e della vittoria». Pochi mesi prima, esce il quotidiano Lotta continua e come sfondo del titolo sceglie proprio le barricate di Parma: il riferimento non è casuale, perché dopo le stragi e le aggressioni fasciste fra il '69 e il '72, in Italia tira aria di golpe e parte della sinistra (extra-parlamentare e non solo) ritiene che una nuova Resistenza sia necessaria.


Repubblica 15.10.09
Agente Benito al servizio di Sua Maestà
Dagli archivi del capo dell'MI5 a Roma spuntano le ricevute: 100 sterline a settimana
di Enrico Franceschini


LONDR. Il curriculum vitae di Benito Mussolini finora elencava tre professioni: giornalista, uomo politico, dittatore. Adesso ne è saltata fuori una quarta: agente segreto al servizio di Sua Maestà britannica. Nel 1917, mentre dirigeva il quotidiano Popolo d´Italia, il futuro capo del fascismo fu reclutato dall´MI5, il servizio di spionaggio britannico, che gli passava 100 sterline alla settimana per i suoi servigi: una grossa somma di denaro per quell´epoca, equivalente a circa 6.000 sterline d´oggi, e pari a circa 25 mila euro odierni al mese. Il suo lavoro consisteva nel fare opera di propaganda a favore dell´interventismo, ovvero assicurare che l´Italia, alleato di Regno Unito e Francia nella Prima guerra mondiale, non cedesse alle pressioni pacifiste, ritirandosi dal conflitto. Mussolini si impegnò ad adempiere il compito in due modi: pubblicando sul suo giornale articoli favorevoli allo stato di belligeranza; e offrendo di mandare i suoi "ragazzi" a "persuadere" i dimostranti a restare a casa, in occasione di manifestazioni pacifiste contro la guerra.
A scoprire il suo ruolo di agente dell´MI5 è stato un autorevole storico britannico, Peter Martland, docente della Cambridge University, rovistando negli archivi personali di sir Samuel Hoare, capo del servizio segreto di Sua Maestà a Roma negli anni del primo conflitto mondiale. Hoare aveva 100 agenti alle sue dipendenze in Italia in quel periodo. In un libro di memorie pubblicato nel 1954 accennò al reclutamento di Mussolini, ma in mancanza di prove documentate l´affermazione non ricevette rilievo. Le ha trovate ora Martland: le ricevute dei pagamenti a favore di Benito Mussolini.
«Dopo l´abbandono della guerra da parte della Russia, nel 1917 l´Italia era l´alleato di cui la Gran Bretagna si fidava di meno», commenta lo storico, interpellato dal quotidiano Guardian di Londra. «Mussolini fu pagato 100 sterline alla settimana dall´autunno del ‘17, per almeno un anno, per condurre una campagna pro-guerra». La sua disponibilità a usare le maniere forti, oltre agli articoli di giornale, per far restare a casa i pacifisti, osserva il Guardian, sembrava una prova generale per lo squadrismo delle camice nere che sarebbe seguito qualche anno dopo. «L´ultima cosa che la Gran Bretagna voleva erano scioperi pacifisti che tenessero chiuse le fabbriche di Milano», dice Martland.
Nel 1912 Mussolini era diventato direttore dell´Avanti, dalle cui colonne si schierava sulle posizioni dei non-interventisti. Ma poi cambiò idea, fondò il Popolo d´Italia, con il quale sostenne la guerra, e venne espulso dal Psi. Nel 1919 fondò i Fasci di Combattimento, trasformati nel 1921 nel Partito Fascista. L´anno dopo, con la marcia su Roma, prese il potere. Senza che nessuno immaginasse che il Duce era stato un agente di Sua Maestà.

Corriere della Sera 15.10.09
Lo «stipendio» pagato dagli 007 di Londra
Le amicizie inglesi di Benito Mussolini
di Fabio Cavalera


Benito Mussolini fra il 1917 e il 1918 fu messo a libro paga dai servizi segreti britannici: cento sterline alla settimana, versate in contanti da sir Hoare, il capo della sezione che l’intelligence aveva aperto a Roma, affinché l’allora direttore del «Popolo d’Italia» sostenesse la campagna bellica contro Austria e Germania. La notizia è suggestiva e il «Guardian», quotidiano di Londra, ha deciso di rilanciarla in prima pagina innescando una catena di titoli e di interpre­tazioni. La vicenda va però rico­struita per intero e integrata perché, così come è stata divul­gata, presenta alcune lacune che è corretto colmare.
Fonte delle rivelazioni è l’ar­chivio che sir Samuel Hoare ha lasciato in eredità e che dal 1960 è conservato nella bibliote­ca di Cambridge sotto il nome di Templewood Papers. Sir Sa­muel Hoare, visconte di Tem­plewood, aveva lavorato dappri­ma alle dipendenze del capita­no Mansfiel Cumming, diretto­re del controspionaggio inter­no, poi era passato a collabora­re con il capitano Vernon Kell, che invece comandava la sezio­ne estera. E proprio da questi era stato spedito a coordinare le attività della Missione Milita­re Britannica a Roma. Nell’ulti­mo anno della prima guerra mondiale, due mesi dopo la di­sfatta di Caporetto, sir Hoare aveva concentrato le sue atten­zioni su due fronti: le divisioni in Vaticano e la possibilità di organizzare in Italia la propa­ganda in favore degli Alleati, cercando di reclutare quanti fossero in grado di opporsi al­la voce dei pacifisti. E fra que­sti «agenti» di supporto, in cambio di un contributo setti­manale di 100 sterline, Hoare agganciò Benito Mussolini, sia nella veste di giornalista sia nella veste di agitatore e prossi­mo fondatore dei Fasci di com­battimento.
Sir Hoare spediva a Londra regolari rapporti, direttamen­te al suo superiore, capitano Kell. Per quanto riguarda il Vaticano, il capo degli 007 annotava, grazie a un informatore nella Santa Sede, che fra i favorevoli alle potenze nemiche c’era monsignor Pacelli, futuro papa Pio XII, un convinto «sostenitore» della Germania. Per quanto riguarda Mussolini, invece, ne sottolineava l’opera di fiancheggiamento all’Impero. Addirittura in una relazione Hoare spiegava che Mussolini gli aveva promesso di muovere una squadra di veterani per «persuadere a restare a casa» i manifestanti riuniti a Milano contro il conflitto bellico.
Il responsabile del servizio segreto britannico a Roma conservò copia dei documenti e gli eredi ne fecero dono all’università di Cambridge dove sono catalogati minuziosamente per «parti »: la parte terza è titolata «Vaticano e Mussolini». A quasi 50 anni di distanza due professori, entrambi di Cambridge, sono andati a rileggerli. A quanto pare, ognuno a insaputa dell’altro, visto che ne hanno dato annuncio in forme e tempi diversi. Uno, Peter Martland, ha parlato diffusamente coi giornalisti della sua «scoperta». Il secondo, Christopher Andrew, ha scritto un libro di oltre mille pagine (The defence of the realm , che è la «storia autorizzata» del MI5). Un bestseller, uscito da pochi giorni.
Rivalità fra studiosi? Comunque sia, nella poderosa opera di Andrew, si trova traccia del Mussolini «agente degli inglesi » alle pagine 104 e 105. Poche righe. Alle quali però vanno collegate altre due rivelazioni contenute alla pagina 124 e di cui vi deve essere riscontro negli ar­chivi dei servizi segreti britanni­ci che lo storico ha potuto con­sultare. Christopher Andrew so­stiene che fra i politici inglesi non pochi negli anni Venti espressero ammirazione per Mussolini. Cita due frasi. Win­ston Churchill che lo definì: «Il salvatore del suo Paese». E il conservatore Austen Chamber­lain, ministro degli Esteri dal 1924 al 1929, che parlò di «un uomo sincero e di un patriota». Gli eventi presero poi la piega conosciuta ma per un certo peri­odo Londra guardò Mussolini con sguardo tutt’altro che preoc­cupato. C’era chi sapeva che era stato un confidente della «perfi­da Albione».

Corriere della Sera 15.10.09
Da domani a Palazzo Ducale di Genova esposte per la prima volta insieme più di 400 opere, in parte inedite, che documentano la vita di un artista eclettico e sempre in bilico fra «ragione e sentimento»
Hofmann, le geometrie del colore
di Erika Dellacasa


In nome del Bauhaus sfidò ogni totalitarismo Otto Hofmann è nato nel 1907, è morto nel 1996: una lunga vita come una cavalcata attraverso quello che è stato definito il «secolo breve». E questa coincidenza estrema dell’ar­te di Hofmann con la Storia è amplifi­cata dall’essere nato in Germania: l’artista che è stato allievo e protago­nista del Bauhaus è stato censurato dal nazismo, mandato al fronte nella campagna di Russia, fatto prigionie­ro a Leningrado, ha vissuto nella neo­nata Germania dell’Est e ne è fuggito negli anni Cinquanta in piena Guer­ra Fredda, ha vissuto a Parigi nello studio vicino a Giacometti, è tornato in Germania e alla caduta del Muro ha potuto ritrovare le sue opere «pri­gioniere » oltrecortina, ha amato l’Ita­lia dove ha vissuto gli ultimi vent’an­ni.
Genova gli dedica ora a Palazzo Ducale, in collaborazione con il Goe­the Institut — in occasione dei no­vant’anni del Bauhaus — la più com­pleta e ricca retrospettiva, una mo­stra (che si inaugura domani) che do­cumenta la vita e l’arte di Hofmann in ogni sua tappa. Più di quattrocen­to opere, riunite per la prima volta e in parte inedite, dai primi passi al Bauhaus di Dessau, dove arrivò fre­sco studente del Politecnico di Stoc­carda infiammato dagli ideali di quel­la scuola che rivoluzionava il concet­to di Arte, fino ai quadri degli ultimi anni ispirati dalla luce della Riviera Ligure. In Riviera, in una grande casa nel centro storico di Pompeiana, con una terrazza sul mare e gli ulivi, Hof­mann ha lavorato e vissuto con la moglie Marianne.
Otto Hofmann. La Poetica del Bahuau s è un titolo semplice per una mostra complessa, un titolo che con poco dice molto: la Poetica — lo spirito, e una tensione etica che lo porterà a scontrarsi con il nazismo prima e con il regime della Germania dell’Est poi, che avrebbe gradito me­no astrattismo e più realismo sociali­sta — percorre tutta l’opera di Hof­mann.
Fra Giovanni Battista Martini, ge­novese e curatore della mostra del Ducale (e di altre in Germania, nella culla del Bauhaus), e l’artista è nata negli anni un’amicizia. Molto può es­sere raccontato, ma Martini ha nel cuore soprattutto un episodio: «La mia emozione più forte — racconta — è quando Hofmann mi ha conse­gnato la scatola in cui conservava le lettere che aveva inviato alla moglie e agli amici dal fronte, dalla campa­gna di Russia. In quella scatola c’era una pesante parte della sua vita, del­la sua arte, della sua sofferenza e del­le sue speranze, riceverla dalle sue mani mi ha veramente colpito». Nel­le lettere — esposte in una delle sale — Hofmann non ha solo dato parole al suo pensiero ma ha ritagliato uno spazio per il suo primo linguaggio dell’anima, la pittura, tracciando pic­coli acquarelli, grazie ai colori che gli spediva al fronte un amico pittore. Alle lettere si aggiungono almeno cinquanta fotografie di guerra scatta­te da Hofmann con l’occhio di un ar­tista del Bauhaus e di un uomo che odiava quel massacro in una terra, la Russia, patria dell’amico Kandinskij. Anche le foto fanno parte dell’esposi­zione che dedica alle testimonianze dalla Russia un’intera sezione.
Così come è documentata l’attivi­tà di Hofmann nel design, dalla cera­mica ai tessuti. L’artista ha firmato note collezioni di porcellane e cera­miche di Rosenthal e Hutschenreu­ther e ha creato tappezzerie destina­te in particolare al mercato Usa: que­ste sono state riprodotte dai disegni originali conservati nello studio ligu­re, in bianco e nero, poiché non è sta­to possibile recuperare le scale cro­matiche.
«Quello che mi ha sempre colpito di Hofmann — dice Martini — è la sua coerenza, il modo in cui non ha mai perso se stesso e la sua strada ini­ziata al Bauhaus, da quando nel 1933 il nazismo dichiarò la sua arte dege­nerata e gli proibì di dipingere a quando rientrò dalla Svizzera in Ger­mania per amore, per sposarsi, e fu inviato al fronte, fino agli anni ’50, e davanti a ogni rivolgimento che riser­vasse la Storia sul suo cammino. È stato uno spirito libero».
L’astrattismo di Hofmann — che ebbe come maestri Klee e Kandinskij — non è mai freddo ma sempre in bilico, tra «ragione e sentimento», e non è un caso che sia stata la luce par­ticolare del Ponente ligure, amata da tanti artisti, ad averlo infine fermato nel suo pellegrinaggio da artista.

La Repubblica 15.10.09
Intervista ad Angelo Bonelli: "La lezione è servita ci vuole il nuovo Ulivo"


I verdi ricominciano daccapo. Hanno scelto a scrutinio segreto e con un risultato che ha sovvertito il pronostico della vigilia (la favorita era Loredana De Petris, candidata dal presidente uscente Grazia Francescato) di affidare al mite Angelo Bonelli la guida del partito.
In questi due anni è dimagrito molto il Sole che ride.
«Quasi quanto me. Ho perso infatti quindici chili».
La forma si ritrova allora lontano dal Palazzo?
«Il Palazzo spesso ti rende immobile e inconsapevole delle aspettative, delle delusioni e delle speranze di chi è fuori e attende fatti concreti, visibili, certi».
È allora meglio essere lontani dal potere?
«Un ambientalista deve sempre puntare al governo del territorio. È una condizione imprescindibile, un luogo necessitato. Ma è altrettanto vero che il Potere desertifica l´anima, a volte disumanizza. Abbiamo capito la lezione. Cambiamo passo e postura e anche modo di agire in politica. Quando serve coraggiosi, e sempre liberi come delfini in mare aperto».
Ripartite per andare dove e con chi?
«Se col centrodestra è improponibile immaginare qualcosa, col Pd è decisivo chiarirsi. Non esiste più l´idea dell´autosufficienza. È l´ora di un nuovo Ulivo».
Avete pochi voti. Dunque, poca voce.
«I voti? Da qualche tempo non ci presentiamo e non li contiamo. Dovremo riprendere quest´abitudine».
Il nuovo Ulivo come dovrebbe essere?
«Un luogo in cui esiste una forza che raccolga tra gli altri gli ambientalisti del Pd, se decideranno di uscire da quel partito, insieme ai tanti (intellettuali, associazioni) che hanno bisogno di un nuovo riferimento. Sarà una forza essenziale la Costituente ecologista».
Sarà l´ennesimo cantiere nella sinistra?
«Per parte nostra punteremo a interloquire col mondo tumultuoso, disorientato ma vivo dei "grillini". Far capire che l´ecologia è il fondale dove si specchia la nostra anima».
Verdi e francescani.
«Dobbiamo ritornare a occupare una posizione centrale nel dibattito, non mischiarci tra le mille banderuole».
E avanzare come formichine operose...
«Dovremo emulare gli ambientalisti francesi. Il risultato straordinario della loro ripresa elettorale è segno che le nostre battaglie sono dentro la società».