l’Unità 11.5.13
Le mille anime dei «ribelli»: ora si faccia un congresso aperto
Militanti, giovani, iscritti e non, saranno oggi davanti alla Fiera
Il tam tam sulla rete: «Siamo più di 101»
di Mariagrazia Gerina
ROMA Lo slogan che hanno stampato sulle magliette scandisce, per ora, un obiettivo più simbolico che numerico: «Siamo più di 101». E quanti saranno davvero si vedrà solo stamattina, quando la galassia variegata che si è raccolta sotto le insegne di Occupy Pd si radunerà fuori dall’assemblea nazionale del Pd. Dentro i mille delegati chiamati a eleggere il segretario pro-tempore in vista del congresso. Fuori loro, che promettono di non mollare il pacifico assedio scattato nei giorni dell’elezione del presidente della Repubblica, con occupazioni simboliche, a macchia di leopardo, fin qui rivolte a obiettivi “minori”, circoli, vecchie sezioni, federazioni cittadine. Un tam tam che sull’onda dell’indignazione per le larghe intese ha attraversato in ordine sparso la penisola.
«Molti di noi si sono incontrati per la prima volta negli studi televisivi», si schermisce Elly Schlein, ventottenne bolognese, uno dei volti degli Occupy diventati “noti” in queste ore. Nella vita praticante avvocato e assistente alla regia. «Non sono iscritta spiega -, ma come tanti da militante in questo anno ci ho messo la faccia perché credevamo nel cambiamento e ci siamo ritrovati davanti il governissimo».
Dentro la costituenda rete Occupy, c’è un po’ di tutto. Iscritti, non iscritti, giovanissimi, “nativi” del Pd. Accomunati dalla rete, ovvio. E dall’aver vissuto il tradimento dei 101 parlamentari che nel segreto dell’urna hanno fatto fuori Prodi come una sorta di trauma fondativo. «Ero all’università in quel momento», racconta Lorenzo Rocchi, 26 anni, di Prato, come se davvero le convulse giornate dell’elezione del presidente della Repubblica fossero l’11 settembre di una generazione politica. Ad ascoltarlo, nel circolo Woody Allen di Roma, una trentina di sedie in cerchio, a mo’ di seduta di autocoscienza. E alcuni giovani parlamentari del Pd che hanno firmato la lettera aperta «ai ragazzi e alle ragazze di #occupypd». C’è Fausto Raciti, l’emiliana Giuditta Pini, passa Marco Meloni, fa un salto anche Pippo Civati («Giusto il tempo per rilasciare un’intervista», maligna Raciti, ideatore dell’iniziativa). Sarebbe dovuta essere una sorta di prova generale in vista dell’assemblea di oggi. «Un incontro per capire e per capirci», come spiega Raciti. Anche se pochi hanno risposto all’invito. «Molti di noi logisticamente non si sono potuti organizzare», spiega Lorenzo. Il grosso partirà stanotte o domani all’alba. Obiettivo far sentire la loro richiesta all’assemblea: «Congresso subito e aperto prima che si può».
Hanno stampato anche una sorta di volantino-manifesto in quattro punti. Chiedono un «reset» del gruppo dirigente, un congresso aperto, un partito che non li escluda e una data di scadenza che dica quando finirà il governo Letta-Alfano.
«Lo abbiamo mandato giù con l’alkaseltzer: che faccia una nuova legge elettorale e si torni a votare», scandisce Fabio Malagnino, blogger e giornalista, uno degli animatori della «Pallacorda» torinese. Costola giacobino-piemontese degli Occupy. «La ghigliottina mediatica ha funzionato se tutto il gruppo dirigente si è dimesso», rivendica: «Però dopo la rivoluzione vogliamo la ricostruzione e non il terrore». Non a caso ieri sera era a Torino a partecipare al primo Forum degli elettori e degli elettrici del Pd. Una iniziativa molto poco giacobina. Lanciata dalla giovane consigliera comunale Fosca Nomis, lei stessa eletta ma non iscritta. Obiettivo: far vivere il Pd e quanto previsto nello statuto del partito a proposito dell’albo degli elettori e delle elettrici. «Non c’è solo la rabbia degli iscritti ma anche la voglia di partecipazione dei non iscritti a cui il Pd deve dare risposta: gli elettori non possono essere convocati solo al momento del voto, dobbiamo trovare strumenti per coinvolgerli», avverte Fosca. Un messaggio che punta dritto all’assemblea di oggi.
Quelli di Occupy si preparano a ripeterlo a modo loro ai delegati del Pd che parteciperanno oggi all’assemblea. Altro che segretario eletto solo dagli iscritti: «Dovete spalancare le finestre, gli elettori sono là fuori inferociti e loro devono sentirlo», scandisce Elly, la bolognese. «Non siamo quelli che bruciano le tessere, noi il Pd lo vogliamo far rinascere, ma non si può ricostruire nulla senza sapere chi sono questi 101 che l’hanno affossato», avverte dalla Calabria Renzo Russo, laureando in Giurisprudenza e segretario del Circolo Pd di Saracena, in provincia di Cosenza. «Vogliamo guardarli in faccia quei 101», dicono gli Occupy. E però: «Sappiamo anche che in quella assemblea ci sono anche molti delegati che la pensano come noi e che in qualche modo porranno dentro l’assemblea le nostre istanze», ripetono gli Occupy. La gara è già partita. «Comunque, sia chiaro, non siamo una corrente e certo non abbiamo finito di essere dalemiani e veltroniani per diventare racitiani, civatiani o renziani», scandisce con linguaggio un poco consumato il pratese Lorenzo.
il Fatto 11.5.13
“Fate male al Paese” La delusione dei militanti
L’accordo con Berlusconi e la base dei giovani “occupanti”
“Volevamo cambiare il Paese, e ci ritroviamo assieme al Pdl”
di Enrico Fierro
Vogliono rottamare la vecchia nomenklatura del Pd. Preparano la madre di tutte le battaglie, quella dell’Assemblea di oggi che dovrà eleggere un segretario già scelto dai “facilitatori”, ma sono pochi, divisi tra di loro e straordinariamente moderati. Prudentemente contestatori. Una trentina in tutto, venuti da Prato, Torino, Benevento, Napoli, giovani dirigenti allevati nelle stanze del movimento giovanile e generosi militanti che in fatto di banchetti, volantinaggi e porta a porta hanno poco o nulla da invidiare ai coetanei grillini. Trenta facce giovani, contesi da giornalisti e telecamere, che si perdono tra parabole dei network satellitari e taccuini dei reporter, riuniti nel circolo Pd intitolato a Woody Allen. Ci sono i deputati under 35 che vogliono confrontarsi, e c’è uno che giovane lo è stato, David Sasso-li, capo dei parlamentari europei democrat. È un “facilitato-re” e porta subito la buona novella. Il segretario che dovrà traghettare il partito al congresso di ottobre c’è, certo il dibattito è aperto e altre candidature sono possibili, ma un nome lo hanno trovato: Guglielmo Epifani. Gelo in sala, neppure un accenno di applauso, indifferenza totale.
IL CLIMA si riscalda solo quando Sassoli diventa più realista del re e si avventura in una difesa a spada tratta del governo di pacificazione. “Non possiamo permetterci che un governo presieduto dal Pd fallisca. È presieduto dal vicesegretario del Pd: non è un governo che abbiamo voluto ma adesso lo stiamo dirigendo. Dobbiamo esserne fieri. Non abbiamo consegnato tutto il Paese nelle mani di Berlusconi”. I ragazzi si guardano un po’ stupiti, sui loro volti è difficile leggere la fierezza invocata dall’ex mezzobusto del Tg1. Qualcuno si alza ed esce, ma nessuno contesta. Solo un avvocato 55enne, Antonio Manca Graziadei (il suo bisnonno fu uno dei fondatori del Partito comunista d’Italia, fastidiosissima età della pietra per gli under 35). “Ma cosa stai dicendo – dice rivolto al facilitatore Sassoli – come fai a dire queste cose. Siete la classe dirigente che ha fallito, ve ne dovete andare: stai dicendo cose che non stanno in piedi, mi fanno star male. Dovete sentirvi delle merde: io lo voglio far cadere questo governo perché fa male al Paese”. Sassoli incassa, l’avvocato si siede, ma a questo punto accade una cosa che la dice lunga sul Pd, quello dei vecchi e quello dei nuovi. Un ragazzo di Prato lo interrompe, anche a lui non piace il governo, ma vale la pena difenderlo, si facciano delle cose e poi si vada al voto. Riunione fiacca, forse oggi all’Assemblea andrà meglio. Parlano i ragazzi venuti da lontano. Luca Bosoletto, è partito da Torino. “La verità è che noi le elezioni le abbiamo perse, abbiamo detto che volevamo cambiare il Paese e ci ritroviamo con Berlusconi”. “Ci sentiamo delusi, traditi da un gruppo dirigente che ha scaricato sul momento più alto della vita politica, l’elezione del Capo dello Stato, tensioni congressuali e miserabili giochi di correnti”, dice Antonella Pepe, segretaria dei giovani democrat della Campania. “Vengo dalla militanza di base, dove si decide insieme e invece in 101 hanno deciso di affossare Romano Prodi, il fondatore del partito. Il Pd deve decidere chi vuole rappresentare”. È Valentina Paris, giovane deputata di Avellino. Fausto Raciti è il leader nazionale dei giovani democratici, postura e modo di parlare ricordano il D’Alema giovane della Fgci. Getta acqua sul fuoco. Occupy non è un movimento contro il partito, ma “un momento di discussione”, e dietro questi ragazzi “non ci sono correnti”, ma ammette la sconfitta elettorale e i disastri delle settimane successive al voto. Di Epifani Lorenzo Proto non parla. Lui ha occupato le sedi del Pd in Toscana nei giorni del voto per il Quirinale. “Questo non è il nostro governo, qui ci vuole un congresso, bisogna ricostruire identità e linea politica del partito”. E Pippo Civati dov’è?, si chiedono in tanti. Civati ha esaurito tv e taccuini (“non c’è il rischio di morire democristiani, ma di morire e basta”), ed è andato via.
il Fatto 11.5.13
Un partito senza
di Antonello Caporale
La malattia del Partito democratico si chiama autismo. L’ambizione di offrire un orizzonte unico a chi vi milita o soltanto simpatizza pare destinata a perire sotto il peso dell’irresponsabilità della sua classe dirigente. Si ha l’impressione che la testa del partito non conosca il proprio corpo, non ne capisca più le necessità, le speranze, le domande, le urgenze. È come se avesse paura di ascoltare perché se lo facesse troverebbe avanti a sé un’altra idea e un altro Paese e altri bisogni e altri doveri e altri diritti.
Questo partito, che oggi chiama Guglielmo Epifani a farsi largo tra le macerie e tenere in vita una casa senza più fondamenta, resta però ancora l’unica formazione che ha luoghi in cui dibattere, ritrovarsi.
È l’unica sigla politica che in ogni capoluogo abbia un indirizzo, un portone, un campanello dove bussare e qualcuno che apra. Ha ragazzi preparati, capaci, vogliosi di contribuire alla fatica, desiderosi soltanto di essere ascoltati. È l’ascolto, l’integrazione tra vertice e base che non sembra possibile.
Due mondi non comunicanti, realtà prossime ma differenti, visioni distinte, passioni lontane. Basta solo mettere piede in un circolo per annotare il patimento di questa nuova classe di afflitti, chiamati a difendere una bandiera che non riconoscono più, che non è più loro. Il grido di dolore che si leva in queste settimane arriva a Roma come suono lontano e forse persino ostile. Rubricato, al meglio, come un guaio passeggero di un partito che alla fine inghiotte ogni schifezza, qualunque atto immorale in ragione della realpolitik.
Se le proteste saranno destinate alla irrilevanza – guarnizione colorata di un piatto già preparato in cucina – il Pd scolorirà piano piano, e ai suoi fianchi nasceranno movimenti che ne succhieranno ogni capacità attrattiva. Gli resterà in mano la foto di gruppo con Berlusconi e poco altro.
C’è al fondo una questione seria di lealtà dei comportamenti e di limite alla democrazia delegata: un voto chiesto per il cambiamento quanto può essere reinterpretato e infine deviato verso un esecutivo della restaurazione? Questo dovrebbe essere il tema dell’assemblea di oggi. Ma la domanda – immolata sull’altare della necessità – resterà senza risposta.
Repubblica 11.5.13
Toni duri nell’incontro tra gli Occupy Pd e una delegazione di parlamentari dell’ultima generazione. “Questa classe dirigente ha fallito”
“Noi giovani in mezzo a una guerra per bande”
di Tommaso Ciriaco
ROMA — Da una parte una delegazione di OccupyPd, dall’altra un gruppo di giovani parlamentari dem. Si annusano, a poche ore dall’assemblea nazionale. E si piacciono, a sentire la deputata Anna Ascani: «La vostra sofferenza è la nostra. Stando dall’altra parte avremmo occupato anche noi. C’è sintonia». Eppure il freno a mano resta tirato, la rabbia non tracima e i ragazzi sparano sulle correnti, ma si guardano bene dal tirare in ballo direttamente i big.
Si incontrano nel circolo democratico “Woody Allen”, quartiere San Giovanni. Sui muri le foto di Gramsci e Berlinguer, sui ripiani della libreria Kerouac, don Giussani e tantissime riviste di Italianieuropei. Dicono sia una sezione dalemiana. Modera il deputato
Fausto Raciti, che subito mette in chiaro: «Dobbiamo superare la logica delle correnti, del patto di sindacato. Vogliamo darvi una mano». Per farlo, promette di consegnare simbolicamente il documento degli “occupanti” al tavolo di Presidenza dell’assemblea Pd. Si chiede un reset delle faide correntizie e un congresso «vero». «Che coinvolga i nuovi iscritti, quelli incavolati», propone il toscano Andrea Giorgio.
Ci sono le deputate Valentina Paris, Laura Coccia e Chiara Gribaudo. Tutti parlano un linguaggio che si assomiglia. Come la beneventana Antonella Pepe: «Questa classe dirigente ha fallito. Davanti all’assemblea noi non contesteremo, ma si eviti che diventi un’operazione tanto per...». Le fa eco la deputata Giuditta Pini: «Ci siamo trovati in mezzo a una guerra tra bande antiche. Vi chiedo di aiutarci nelle battaglie parlamentari, se serve tornando a occupare. Costruiamo assieme una piattaforma, poi al congresso ognuno voterà chi vuole».
Si incontreranno stamane di fronte alla nuova Fiera di Roma. Cercando di capire quanto monterà la protesta. Gli “occupanti” a volantinare, qualche parlamentare a sostenere lo sforzo. E si vedranno di nuovo a Prato, il 19 maggio, per il raduno nazionale di OccupyPd.
Chi ieri si aspettava uno sfogatoio, però, è rimasto deluso. Zero intoppi, se si esclude l’isolata contestazione a David Sassoli, ambasciatore inviato dal partito per ascoltare le ragioni dei cinquanta presenti. Quando l’eurodeputato difende “l’operazione Letta” viene interrotto da un avvocato cinquantacinquenne pronipote di Graziadei, uno dei fondatori del partito comunista: «Andatevene. Dovete sentirvi delle merde».
Sassoli va via veloce, come Pippo Civati. Prima però il deputato rilascia qualche intervista televisiva - tra l’ironia dei presenti - salutando la candidatura Epifani con una previsione: «Ci sarà una epifania di candidati». «Non però di OccupyPd», chiariscono i promotori. Poi Lorenzo, giovane occupante di Prato, sfiora il nodo governo: «È necessario, ma non è il nostro». Nessuno, però, chiede di staccare la spina. Tranne un giovane di Sel, felpa e scarpe rosse, che raccoglie applausi e quasi implora: «Parliamoci!».
il Fatto 11.5.13
Caos Pd: si affida a Epifani e rischia di perdere Roma
Tregua armata tra le correnti: segretario reggente l’ex leader Cgil che non fa ombra a nessuno
Civati: “Vince il vecchio, cerchiamo un altro candidato”
Intanto, nella Capitale, i sondaggi danno il sindaco Alemanno in rimonta su Ignazio Marino
Per l’elezione serve il 50 per cento più uno
L’ASSEMBLEA nazionale del Pd si apre oggi alle 10. La presentazione delle candidature a segretario dovrà essere sotto-scritta da 95 delegati (pari al 10% degli aventi diritto al voto) e dovrà avvenire entro le 13. Le votazioni procederanno a scrutinio segreto dalle 14 alle 16. Qualora nessuno dei candidati abbia ottenuto il 50% più 1 dei voti validamente espressi, si procederà al ballottaggio tra i primi due. Introdurrà i lavori il presidente del gruppo alla Camera, Speranza. L’Assemblea annuncerà anche il congresso in autunno. Gli eventuali cambi di Statuto per distinguere tra candidato premier e segretario saranno affidati ad altra Assemblea.
l’Unità 11.5.13
Pd, Epifani verso la segreteria. Ma c’è un candidato di Occupy
L’area di Civati potrebbe proporre Puppato
Emiliano leader Occupy: «Epifani? serve candidato meno grigio»
di Simone Collini
ROMA Guglielmo Epifani guiderà il Pd fino al congresso e Gianni Cuperlo già si candida come segretario per la sfida di ottobre. L’intesa per il dopo-Bersani viene raggiunta alla fine dell’ennesima giornata caratterizzata da faccia a faccia, telefonate, riunioni delle diverse anime del partito. La convergenza registrata sul nome dell’ex segretario della Cgil è ampia, ma dopo quanto successo alle votazioni per il Quirinale bisognerà aspettare oggi pomeriggio per capire se tutto filerà liscio. Pippo Civati parla di scelta «in totale continuità con il gruppo dirigente precedente» e annuncia una candidatura espressione di Occupy Pd (c’è anche l’ipotesi Laura Puppato), ma non è da questo fronte che potrebbero arrivare grosse sorprese. Piuttosto bisognerà vedere, primo, se l’Assemblea avrà il numero legale (il nazionale ha chiamato i 950 delegati sparsi in tutt’Italia e registrato circa duecento forfait espliciti) e, secondo, se il voto segreto rispecchierà gli accordi presi o se verrà utilizzato come sfogatoio da parte di chi non ha condiviso la scelta del governo insieme al Pdl.
Sulla carta, la scelta di Epifani è condivisa da tutte le componenti del partito. Per Dario Franceschini «ha l’autorevolezza, il buonsenso, l’esperienza che servono adesso per sostenere il governo e rilanciare il partito tenendolo unito». Per il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza, che aprirà oggi i lavori, «è la persona giusta per guidare il partito in questo passaggio difficile». Parole positive arrivano anche da Sergio D’Antoni, Pierluigi Castagnetti, Enrico Gasbarra, Flavio Zanonato. E Massimo D’Alema ha mandato all’ex leader Cgil un sms per garantirgli pieno sostegno: «Torno da Barcellona per votarti».
Bersani aveva pensato a Epifani già una decina di giorni fa, e il via libera alla sua candidatura era arrivato anche da Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze, che oggi sarà all’Assemblea di Roma (e che conta di ottenere, probabilmente con Luca Lotti, l’Organizzazione del partito) in tutti questi giorni di trattative non ha posto veti ma ha chiesto che chiunque sia a guidare il Pd nel post-Bersani assuma l’impegno a non ricandidarsi al congresso di ottobre. Sarà così per Epifani? Un passo per volta, dicono al quartier generale del Pd invitando a evitare fughe in avanti.
È però significativo che fin d’ora Cuperlo si sia detto pronto a candidarsi al congresso: «Mi candido a segretario perché penso che il Pd sia l’investimento più importante che abbiamo fatto in questi anni dice in un’intervista a Zeta, su La7 una candidatura che presenterò al congresso, non per una reggenza. So di non essere un leader politico, però voglio dare una mano. E lo faccio anche con qualche violenza a un carattere che mi avrebbe spinto a rimanere dov’ero». Non solo. Se l’Assemblea di oggi potrebbe dare mandato alla commissione statuto di modificare la carta fondamentale del partito, e tra le ipotesi c’è anche quella di scindere la figura del segretario Pd da quella del candidato premier (il che potrebbe portare a far eleggere il primo dagli iscritti e il secondo dagli elettori), Cuperlo mette in chiaro fin d’ora di essere contrario ad abolire la chiamata ai gazebo: «Le primarie per eleggere il segretario del Pd sono un fatto indiscutibile. Studieremo le modalità, ma la base non capirebbe un segretario scelto dagli iscritti».
L’uno-due arrivato ieri Epifani fino al congresso e Cuperlo candidato segretario non è casuale. Il neopresidente della commissione Attività produttive aveva risposto sì alla richiesta di Bersani di guidare il partito, salvo poi decidere un passo indietro quando aveva capito che l’operazione sul nome del presidente del Centro studi Pd era già in fase avanzata.
Dopo giornate caratterizzate da veti incrociati e ipotesi di ricambio generazionale finite nel nulla, si è arrivati a ieri, quando sul piatto sono rimasti i nomi di Piero Fassino e di Epifani. Il sindaco di Torino ha però risposto a Bersani, Franceschini e agli altri che lo hanno chiamato per sondare la sua disponibilità a guidare il partito fino al congresso (D’Alema gli ha mandato un messaggino per dirgli che avrebbe appoggiato qualunque decisione avesse preso) che non avrebbe posto fine all’impegno preso di fronte ai torinesi (concetto che oggi ribadirà intervenendo all’Assemblea).
A questo punto Bersani è tornato a lavorare sulla candidatura di Epifani, registrando l’assenza di veti sul suo nome e giocando sull’entusiasmo suscitato nei giorni scorsi dall’ex leader Cgil con l’intervento di fronte al gruppo dei deputati Pd. A quella riunione Epifani aveva sottolineato la necessità di «puntare sul lavoro» e di «andare al passaggio più difficile mettendoci la faccia, non subendolo». Un riferimento al governo guidato da Enrico Letta, che pure ha avuto un ruolo nelle trattative e che oggi interverrà all’Assemblea per esprimere il suo apprezzamento per la scelta di Epifani. Ma a giocare a favore del presidente della commissione Attività produttive della Camera sono stati anche altri fattori. A cominciare dalla considerazione del fatto che come ex segretario della Cgil ha esperienza di governo di organizzazioni complesse. O del fatto che, sempre come leader sindacale, ha già giocato il ruolo di controparte nei confronti di Silvio Berlusconi. Basterà questo profilo perché oggi ci sia un ampio via libera alla sua candidatura? Fino alle 13 di questa mattina si potranno raccogliere le firme necessarie (95, pari al 10% dei membri dell’Assemblea) per presentare altri nomi. Bersani ostenta ottimismo, e ai giornalisti che incrocia davanti alla sede del partito dice con un sorriso: «Abbiate fiducia nel Pd, non è così caotico, vedrete».
il Fatto 11.5.13
Democratici, è arrivata l’Epifania
Accordo in extremis, vince Bersani
Civati annuncia altre candidature
Riunione blindata, ma in arrivo contestazioni sul governo
di Wanda Marra
“Sono stanco. Mi sono svegliato alle 5 e 45 e ho cominciato a lavorare”. David Sassoli, europarlamentare, nella veste di “sondatore” del Pd alla ricerca di un segretario ha il tono basso e gli occhi a fessura. Sono le 16 e 30 e lui, Amendola e la Sereni, altri due membri dell’ultima nata tra le “componenti” del Pd, la task force che deve gestire l’Assemblea di oggi, si aggirano per il Transatlantico. Ultimi momenti di fatica. “Il gruppo indicato dal coordinamento ha registrato un’ampia convergenza sulla figura di Guglielmo Epifani”. Con queste parole, alle 18 e 44, il Pd manda una nota ufficiale per comunicare al mondo che s’è messo d’accordo. Aveva detto Sassoli, un paio d’ore prima: “Nomi non ne faccio, perché possono ancora cambiare. Però, è tramontata l’idea del “giovane”. Sceglieremo una figura di garanzia, una persona di esperienza, uno autorevole, uno che ha già fatto tutto e che quindi traghetterà il partito fino al congresso, senza pretese di essere il futuro segretario”. Siamo agli sgoccioli di una trattativa andata avanti per settimane. Una ridda di nomi peggio d’una lotteria, che cominciava tanto ad assomigliare a quella per la Presidenza della Repubblica. Con tanto di deflagrazione pubblica del Pd. L’ultimo passaggio, con Cuperlo. Che è già candidato al Congresso, quello vero. A Montecitorio parla con Amendola. Nel frattempo, il borsino fa registrare gli ultimi sali e scendi. Tra giovedì sera e venerdì mattina si brucia Speranza. Veti di D’Alema e Giovani Turchi, perplessità sue di andare a “suicidarsi” politicamente. Torna in ballo la Finocchiaro. “Il rischio che Renzi ci mettesse in difficoltà era troppo alto”, commenta il franceschiniano, Giacomelli. In tempi recentissimi, lui ha detto che lei era inadatta alla presidenza della Repubblica, e lei in cambio gli ha dato del “miserabile”. A un certo punto, pare proprio sia Fassino. Qualche perplessità, si dice da parte dei dalemiani. Alla fine, è lui che si dichiara indisponibile: fa il sindaco di Torino. Torna Claudio Martini. Ma in pole position c’è Chiti. Una scelta troppo antica. Poi, in extremis arriva di nuovo la carta Epifani. Lo voleva Bersani, dall’inizio. D’Alema e i Giovani Turchi avrebbero preferito Cuperlo.
NEL BRACCIO di ferro, ha vinto l’ex segretario. D’altra parte, i numeri sono dalla sua parte: l’Assemblea è quella uscita dalle primarie che lo hanno eletto. Le regole d’ingaggio sono ancora nel comunicato ufficiale: “risulta il più idoneo a condurre il Pd verso la stagione congressuale e nelle nuove e impegnative responsabilità che spettano al Partito democratico nella difficile fase politica del Paese”. In un linguaggio astruso e indiretto, si dice che Epifani sarà tecnicamente un segretario, ma di fatto un reggente, uno che deve garantire tutti e non dar fastidio a nessuno. E che non si ricandiderà. Accordi impliciti. Il futuro del Pd è un’ipotesi. Per molti “il male minore” è una vittoria. Franceschini, che ci tiene a far passare che è lui che gestisce il Pd insieme a Bersani, affida a Twitter la sua sintesi: “Epifani ha l’autorevolezza, il buonsenso, l’esperienza che servono adesso per sostenere il governo e rilanciare il partito tenendolo unito”. Notare l’adesso. Bersani si lascia andare a un (blando) entusiasmo: “Abbiate fiducia, il partito non è così caotico”. “Matteo viene e ha già detto che qualsiasi nome gli va bene”, dicono i renziani. Se “Matteo” parla e cosa dice è ancora da capire. D’Alema ci tiene a far sapere che lui non ha messo veti, anzi ha mandato da Barcellona sms sia a Fassino che a Epifani garantendo il suo pieno sostegno. Torna apposta per votare l’ex segretario della Cgil. “Sono preoccupato dello spettacolo offerto dal Pd e dall’idea che possa esistere solo nell’accordo tra correnti”, un amaro Matteo Or-fini. Non è tutto così semplice. “Vince il vecchio”: così Civati annuncia un’“epifania” di candidature. Gli Occupy Pd tentano l’assedio. La Puppato ha pronto un documento contro le larghe intese. Sassoli: “All’ordine del giorno metteremo solo il voto sul segretario. Ogni discussione politica sarà rimandata”. A ogni giorno basta il suo affanno. Parlerà Enrico Letta, ma cercherà di evitare non solo la conta, ma anche la discussione sul governo, sottolineando però che se l’esecutivo raggiungerà dei risultati sarà un bene per il Pd. Si temono reazioni. “Segretario? Aspettiamo”, si schernisce Epifani. Fidarsi è bene. Ma del Pd non fidarsi è meglio.
il Fatto 11.5.13
Svolta, il Pd si consegna a un socialista
di Giorgio Meletti
Quale partito voglia Guglielmo Epifani lo sappiamo da tempo: “Una forza politica espressione dei valori e dei bisogni, con una idea moderna della solidarietà, in lotta contro il localismo, il corporativismo e il privilegio”. Parole sante pronunciate esattamente vent’anni fa, alla convenzione del Psi riunita dal segretario Ottaviano Del Turco per rianimare il partito devastato dalla caduta di Bettino Craxi. Un altro socialista di punta, Maurizio Sacconi, replicò che “nessun opportunismo può indurre il Psi ad attenuare la propria autonomia in favore di un rapporto debole con una sinistra allo stato dei fatti incompatibile con i nostri valori e i nostri programmi”.
LA DIASPORA socialista è un’altra storia, ma qui possiamo senz’altro dire che Epifani ha il fisico. Non solo ha già un’esperienza specifica in tema di salvataggi disperati; non solo è favorito dalla circostanza che stavolta il partito che gli chiedono di sollevare non ha i vertici inseguiti da mandati ci cattura; ma soprattutto, non sembri un paradosso, il Pd è l’organizzazione più piccola e meno complessa tra quelle che ha guidato nella sua vita. Basti ricordare che ha guidato il potente sindacato dei poligrafici della Cgil per tutti gli anni ‘80, epoca difficilissima di passaggio delle tipografie dal piombo al computer, una svolta epocale con la scomparsa di un mestiere, che è qualcosa di più drammatico della perdita di migliaia di posti di lavoro: una tragedia esistenziale molto simile alla morte di un partito.
A 63 anni, Epifani fa parte di quella generazione di sindacalisti che hanno percorso una carriera sempre strettamente intrecciata con la politica. Laureato in filosofia con una tesi sull’eroina socialista Anna Kuliscioff, nel mondo socialista è cresciuto. Craxiano quando era l’unico modo possibile di essere socialista, Epifani entra nella segreteria Confederale della Cgil nel 1990 per uscirne vent’anni dopo. Il capo è il comunista Bruno Trentin, e la pattuglia socialista conta, oltre che su di lui, sul segretario aggiunto Ottaviano Del Turco e su Giuliano Cazzo-la. Il primo, dopo il naufragio socialista, si accaserà a sinistra e diventerà presidente della Regione Abruzzo prima di finire sotto processo per tangenti. Il secondo farà politica con il Pdl (insieme a Sacconi), per candidarsi alle ultime elezioni con la Lista Monti (trombato).
EPIFANI, dopo l’uscita di Del Turco, diventa il numero due di Trentin prima e di Sergio Cofferati poi, perdendo per strada il marchio socialista. Una mano gliela dà proprio Craxi, che al processo per le tangenti Enimont, spiega come il Psi finanziasse la corrente socialista della Cgil proprio attraverso Del Turco. E racconta che, chiamando Epifani per il passaggio delle consegne, lo trova ignaro: “Cadde dalle nuvole dando mostra di non essere al corrente di questo rapporto tra il partito e la corrente sindacale socialista, almeno nei termini che gli stavo esponendo”.
Epifani spalleggia Cofferati per tutti gli anni ‘90, soprattutto durante i governi dell’Ulivo (1996-2001, Prodi, D’Alema, Amato) quando la Cgil detta le condizioni all’esecutivo con le fluviali interviste del lunedì del capo. È al suo fianco al Circo Massimo (23 marzo 2002), nella grande manifestazione contro la modifica all’articolo 18 tentata da Berlusconi e Sacconi. Quando Cofferati lascia per fine mandato, Epifani diventa nel 2003 il primo segretario socialista della storia centenaria della Cgil.
UNA STAGIONE contraddittoria, che si caratterizza per la rottura con Cisl e Uil, sancita dal segretario della Cgil il 14 luglio 2004, quando abbandona il tavolo di trattativa con il presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. Senza dialogo con Cisl e Uil, e incalzato a sinistra dalla sempre più aggressiva Fiom, Epifani vede sfumare lentamente forza e potere della Cgil. Ma rivela la qualità che da oggi potrà sfruttare alla guida del Pd: capacità organizzativa unita a un accanito spirito accentratore. La Cgil di Epifani è stata, aldilà dell’apparenza dettata dai suoi modi cortesi, il sindacato di un uomo solo al comando. Che ha saputo abilmente tirare su e imporre come delfino l’altra socialista di razza Susanna Camusso. Cosa che avverte gli aspiranti alla leadership: con il transitorio Epifani dovranno fare i conti.
Corriere 11.5.13
Il padre nobile Cofferati non c’è. Nessun invito all'altro ex Cgil
di Marco Imarisio
Tutti i padri nobili tranne uno. Al netto delle personalità provenienti dalla società civile, naturalmente mitica, di qualche evidente errore di casting, vedi alla voce Lamberto Dini, già da qualche anno ritornato alla casa di Arcore, e di defezioni varie, gli inviti all'Assemblea di oggi sono stati spediti a quel che resta dei quarantacinque fondatori del Pd ancora in possesso di tessera del partito. A Sergio Gaetano Cofferati, no. All'ex segretario della Cgil, l'uomo dei tre milioni in piazza, per intenderci, uno che a molti elettori evoca ancora notevoli ricordi, non è arrivato nulla. Eppure in occasione di tutte le altre assemblee, dal 2007 in poi, il postino aveva sempre citofonato per tempo, convocando l'attuale eurodeputato e i suoi colleghi di stanza a Bruxelles. Per oggi, evento di una certa importanza per le sorti future del partito, niente convocazione, neppure di serie B, quella da spettatore semplice.
C'è sempre una prima volta. Tra i reduci di quei quarantacinque che furono, Cofferati è l'unico non ortodosso all'attuale linea. Più del grande futuro dietro le spalle conta un presente da dissidente dichiarato, contrario alle larghe intese e in cerca di una nuova sinistra. Ma forse questi sono soltanto pensieri cattivi e ingiusti sul Pd, partito diverso, «dove si discute», a sventolata vocazione pluralista. Deve essere senz'altro colpa dei disservizi delle nostre Poste.
il Fatto 11.5.13
Se in un giorno di crisi un lettore
risponde Furio Colombo
Caro Furio Colombo, fate attenzione quando parlate di “attrazione fatale” fra Pd e Pdl. Ciò che è accaduto riguarda i vertici, non gli elettori che dimostrano la loro rabbia con proteste e occupazioni delle sedi di partito, e domani lo dimostreranno nelle urne. Considero contro natura l’immagine dell’abbraccio Bersani-Alfano e un inciucio il governo delle larghe intese.
Stefano
LA LETTERA, che è molto più lunga, pone una questione esplicita e una meno evidente, ma altrettanto importante. La questione esplicita è di tenere ben presente l’evidente e drammatica divisione, che sta segnando il Pd, fra il comportamento di cui sembrano andare fieri i leader (il governo di “larghe intese”, la spartizione quasi alla pari di poltrone di prima e seconda fila, ministri e sottosegretari, la spartizione delle commissioni parlamentari) e il sentimento diverso e distante della base, sia militanti che elettori. Si chiarisce sempre di più che stiamo assistendo a uno spettacolo grande (governo di “larghe intese”) clamoroso (la sinistra con Berlusconi) e osteggiato dalla massa dei militanti e degli elettori, la cui voce però o non arriva, nella presunta calma ovattata del salotto buono (quello dove siede Letta con Alfano, e Nitto Palma con la Finocchiaro) o viene pericolosamente sottovalutata come un irritante mormorio della folla, senza peso politico. La seconda questione è posta dalle parole “abbraccio contro natura”, ovvero una “pacificazione” che nessuna base che abbia votato a sinistra può condividere. Le risposte “pacifiste” (“si fa dappertutto, serve al Paese, è già accaduto fra Pc e Dc”) sono fuori posto perché non tengono conto di un fatto grave ed evidente. Per andare all'incontro il Pd ha rinunciato a tutto (valori, identità, battaglie). Per quell'incontro il Pdl non ha rinunciato a niente. E ti fa capire chiaramente che se non fili dritto, ovvero se non rispetti le “legittime richieste” di Berlusconi (tipo Nitto Palma alla Giustizia) loro se ne vanno. È per questo, non per una fobia inguaribile, che il lettore Stefano può dire (come leggiamo in moltissime altre email) che “l’abbraccio Bersani-Alfano è contro natura”. La frase è corretta e precisa. E dice quanto aspra e quasi impossibile sarà la prossima campagna elettorale per il Pd, non appena Berlusconi darà il via. Che Dio salvi i giudici.
il Fatto 11.5.13
Volti nuovi
Speranza, ambizioni senza inibizioni
di G. Me.
Sono innamorato del mio lavoro, e non ho altre ambizioni”. A 34 anni il capogruppo a sorpresa del Pd alla Camera, Roberto Speranza, ha spiegato così la sua indisponibilità alla segreteria del partito. Con buona pace di Fabrizio Barca, che ritiene di dove insegnare ai giovani che il partito “non è un ufficio di collocamento”, Speranza parla come un dirigente di banca a colloquio con un cacciatore di teste. Non parla di politica, ma di sé, della sua carriera, del suo attuale impiego (“l’esperienza più bella che mi sia capitata”). Dare una mano per far uscire il suo partito dalle peste non fa parte dei suoi programmi, punto. Chi ha scelto la politica come professione questi ragionamenti li ha sempre fatti, lo sappiamo, ma mai nelle interviste. Invece sembra che i giovani virgulti della politica abbiano perso i freni inibitori, e parlano. Diventando, forse senza accorgersene, i veri profeti dell’antipolitica.
l’Unità 11.5.13
Comunicato del CDR de l’Unità
Appello al Pd
Oggi i giornalisti e i poligrafici de l’Unità saranno presenti all’assemblea del Pd per sostenere il giornale, contrastare la chiusura delle cronache di Firenze e Bologna, difendere la qualità del prodotto cartaceo. Sosteniamo il progetto di sviluppo del web, ma questo non può avvenire a costo del prodotto in edicola. I cittadini, le forze politico-sindacali, le istituzioni di Toscana e Emilia Romagna si stanno ribellando al piano di ridimensionamento. Ci auguriamo che l’assemblea possa discutere del valore del quotidiano nella sua autonomia, degli obiettivi che il partito si pone sul fronte della comunicazione, dell’importanza del contributo pubblico all’editoria come tutela del pluralismo. Speriamo in un confronto aperto, che contribuisca alla crescita del popolo di sinistra. Il Cdr
Repubblica 11.5.13
Il Pd subisce il sorpasso del Pdl gli elettori chiedono le primarie
di Roberto Biorcio e Fabio Bordignon
ROMA — Unità, apertura verso la base, leadership forte: sono queste le richieste che il popolo democratico sembra inviare al partito che si riunisce oggi per l’Assemblea Nazionale. Nelle stime dell’Atlante politico di Demos, il Pd si conferma sui (deludenti) livelli delle recenti Politiche (25%), e subisce il sorpasso del PdL. Resta molto forte l’idea di mantenere unito il partito e scongiurare scissioni, ma sono molto visibili, anche nell’elettorato, i segni delle divisioni che hanno lacerato il gruppo dirigente.
Gli elettori del Pd si dividono esattamente a metà sulle scelte per la presidenza della Repubblica, fra chi ritiene Napolitano la scelta preferibile, e chi invece avrebbe preferito un’altra soluzione. Il governo Letta gode naturalmente di un largo consenso tra gli elettori democratici (69%). Ma si manifestano idee divergenti sulla sua azione ed i suoi effetti. Quasi metà degli elettori si aspetta una buona collaborazione fra le sue componenti (47%), mentre gli altri prevedono contrasti su tutto (51%).
Il complicato dibattito sui possibili candidati alla segreteria riflette le difficoltà nel formulare proposte condivise, in grado di superare le spaccature e rilanciare il partito. Due leader sono ai primi posti tra i politici più apprezzati dalla base elettorale: il neo-premier e il sindaco di Firenze Matteo Renzi, indicato da oltre la metà degli interpellati come segretario preferito (54%). Più controverso è invece il giudizio sul segretario uscente Bersani. Ridotto appare, d’altra parte, il consenso per altri possibili “nomi” circolati nelle ultime settimane — da Chiamparino a Barca, da Civati a Epifani.
Oggi, molto probabilmente, un nuovo segretario sarà votato dall’Assemblea. Tuttavia, dagli elettori emerge con forza la domanda che la parola torni il prima possibile alla base, con la pratica delle primarie aperte (69%), mentre solo il 27% pensa a una selezione attraverso le tradizionali procedure congressuali. Questa domanda di partecipazione è sentita come molto importante perché scritta nel dna dell’elettore democratico. Esiste inoltre la percezione che la posta in gioco abbia a che fare non solo con la scelta del futuro leader, ma anche con la stessa identità di questo soggetto politico. Con la convinzione che il Pd debba rimanere “un” partito (89%), mentre le spinte alla disgregazione coinvolgono una frazione minoritaria (5%).
l’Unità 11.5.13
Il Pd e la vera posta in gioco
di Emanuele Macaluso
In questi giorni sul Pd si è detto di tutto, non solo da parte dei media di ogni colore, ma anche, e forse è meglio dire soprattutto, con il contributo attivo, caotico e personalistico di quasi tutti gli ex dirigenti del partito, di notabili, di giovani virgulti che sputano sentenze in tv e sui giornali per prenotarsi a qualche cosa.
Lo spettacolo è veramente avvilente. Io, che non ho aderito al Pd, per motivi politici che ho più volte spiegato, osservo con preoccupazione l’autodistruzione di una forza che comunque si identifica con quel centrosinistra che esprime anche il presidente del Consiglio.
Oggi l’Assemblea nazionale del Pd dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) eleggere un segretario, il quale dovrebbe guidare un partito che verificherà la sua politica, e forse la sua stessa esistenza, in un congresso. Faccio i miei auguri a chi sarà eletto. Ma, come ho scritto più volte, chi dirige il Pd dovrebbe tentare un’analisi veritiera di cosa è, regione per regione, questo partito e quali sono le ragioni reali, di fondo, della sua crisi.
Quando nacque il Pd Scalfari scrisse su Repubblica che l’unificazione tra Ds e Margherita era necessaria perché i due partiti erano al capolinea. C’era del vero. Ma già allora osservai che prima dell’unificazione era necessario fare un’analisi della cause per cui i due partiti erano al capolinea, e aprire un grande dibattito per verificare se la nuova formazione avesse avuto un asse portante politico-culturale su cui costruire un programma, un modo d’essere, una organizzazione con regole di convivenza e comportamenti condivisi. Il nuovo partito rifiuta giustamente il centralismo democratico, rifiuta anche la formazione aperta e regolata delle correnti, ma tollera le cordate, i caporali e i caporalicchi. Soprattutto fra i giovani, ma anche fra qualche anzianetto, ci sono tante risorse che vogliono e sono in grado di impegnarsi in una lotta politico-culturale, ma non trovano il terreno per farlo.
Le primarie sembravano aver dato la soluzione a tutti i problemi, ma adottarle senza regole e senza un’autodisciplina politica ha prodotto, soprattutto in periferia, guasti dovuti anche a incursioni di piccoli e grossi poteri, di finanziamenti e soccorsi occulti. Un asse politico-culturale avrebbe dovuto essere la base anche per compartecipare al dibattito che anima le forze della sinistra e di progresso in Europa.
Non è stato così e non voglio recriminare, ne parlo solo per dire che oggi il tema si ripropone tutto, e con persino con maggiore acutezza: tutti si interrogano su cosa è il Pd e cosa vuole essere. Non stupisca questa osservazione fatta a un partito che ha già una storia e ha esercitato un ruolo rilevante nella vita politica degli ultimi anni. Ma ci sono momenti in cui tutti i grandi partiti, di fronte a fatti politico-sociali rilevanti, si sono posti lo stesso interrogativo: l’hanno affrontato i laburisti, i socialdemocratici tedeschi, il partito socialista francese e altri. La questione oggi ha rilievo anche per il fatto che Sel e altri, profittando anche delle difficoltà del Pd, hanno promosso, con piattaforme demagogiche, un’aggregazione di sinistra radicale. Il riferimento non è all’antico radicalismo operaio, ma a quello dei cosiddetti «ceti medi riflessivi» e al ritorno di forme di giustizialismo becero.
La recita di Vendola da Santoro è in questo senso un segnale da non sottovalutare. Dire, come ha fatto Nichi, che non bisognava fare nessun compromesso col Pdl e Berlusconi, e al tempo stesso tacere sull’alternativa di tornare alle elezioni con il Porcellum, per di più nella situazione economica e sociale che viviamo, è demagogia allo stato puro. E anche nel Pd c’è chi suona la stessa musica. È noto a tutti che con nuove elezioni svolte con il Porcellum si ripeterebbe in Parlamento lo stesso quadro paralizzante, con l’aggravante di pesanti reazioni in Italia, in Europa e nei mercati mondiali.
Al punto in cui siamo, in gioco è la stessa vita democratica. Storicamente, se la sinistra non è in grado di porre come pregiudiziale la difesa dell’assetto democratico non ha ruolo. Non è necessario che lo dica Vendola quali sono i comportamenti del Cavaliere: la scomposta e strumentale reazione alle decisioni e alle sentenze della magistratura non stupiscono, anche se dallo stesso Berlusconi è stato detto che il governo non è in discussione. Soprattutto, siamo certi che il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia sapranno tutelare l’autonomia della magistratura e le ragioni dello Stato di diritto. La questione che oggi si pone ha un’altra dimensione. Il governo in cui si ritrovano ministri del Pd e del Pdl ma anche la radicale Bonino e personalità indipendenti non sospende la lotta politica, semmai gli dà un temporaneo riferimento: competere per creare le condizioni minime per un sistema equilibrato che consenta le alternative destra-sinistra come in tutti i Paesi. È una vera sfida, disertata dalla sinistra radicale.
Ma se il Pd non sarà in grado di reggere l’urto e cimentarsi su questo terreno, rinnovando se stesso, metterà in discussione la prospettiva di una sinistra di governo. La posta in gioco quindi è alta, e francamente non so se il personale politico che attualmente dirige il Pd ne abbia coscienza e sia all’altezza del compito. Me lo auguro.
Repubblica 11.5.13
Pd. La sociologia smarrita
di Marc Lazar
L’ASSEMBLEA del Pd si svolge nel pieno della crisi seguita alle elezioni di febbraio, con il fallito tentativo di Pierluigi Bersani di costituire un governo, la sua incapacità di imporre per il Quirinale il candidato da lui designato e infine le sue dimissioni da segretario.
Iscritti e simpatizzanti sono disorientati dalla scelta di governare con il Pdl. I sondaggi danno esiti sconfortanti, le divisioni sono profonde e c’è il rischio reale di un’esplosione del partito. Questa drammatica situazione costituisce certo una specificità italiana, ma al tempo stesso rispecchia le turbolenze che scuotono tutta la sinistra europea. In Francia, François Hollande ha battuto molti record di impopolarità; la sua maggioranza si sta lacerando e le critiche dei settori più a sinistra si fanno più incalzanti. In Gran Bretagna il Labour è sempre in quarantena; in Germania, almeno per ora l’Spd non sembra in grado di colmare il suo distacco da Angela Merkel. Si ripropone così nuovamente la domanda che aleggia da tempo sull’Europa: la sinistra è condannata a scomparire?
In termini elettorali la sua situazione appare più contraddittoria: nel 2012 ha infatti conosciuto una lieve schiarita, che sembrava porre fine a un lungo ciclo favorevole alla destra. Dopo il disastro del Pasok in Grecia, la sinistra, già all’opposizione, ha vinto in
Slovacchia, in Francia, in Olanda e in Lituania, e in modo assai particolare in Romania. Ma si è trattato di successi ambigui, generalmente risicati, spiegabili più con la volontà di punire i governi uscenti che con l’adesione alle proposte, peraltro assai timide, delle formazioni di sinistra. Il caso francese è emblematico. La stentata vittoria di François Hollande, col 51,6% dei suffragi al secondo turno delle presidenziali, non ha suscitato slanci né speranze. Nel 2013 la piccola ondata di sinistra che sembrava profilarsi sembra ormai esaurita. Se a Malta i laburisti, prima all’opposizione, hanno avuto la meglio, a Cipro è avvenuto il contrario: il candidato di destra, che era all’opposizione, ha battuto il suo rivale di sinistra. Ma è stato soprattutto il caso italiano, col risultato deludente della coalizione di centro-sinistra, a costituire un vero e proprio trauma, dato che la sua vittoria era data per certa. Bisognerà ora attendere le elezioni di domani in Bulgaria, e quelle di settembre in Germania e in Austria per sapere se la fragile dinamica della sinistra si sia veramente arenata, o se è in grado di ripartire.
Di fatto, dopo il crollo del muro di Berlino, la globalizzazione sempre più accelerata, le profonde mutazioni delle nostre società e gli sconvolgimenti delle mentalità indotti dalle trasformazioni antropologiche in atto hanno gravemente destabilizzato la sinistra riformista. Negli ultimi decenni, la sua strategia in materia di alleanze è apparsa esitante, e i suoi capisaldi in campo sociologico vacillano. Le sue organizzazioni si vanno decomponendo, la sua identità appare indistinta, la sua cultura è sempre più evanescente. E i suoi leader, tranne poche eccezioni, non danno prova di possedere una statura adeguata. L’impatto delle nuove sfide l’ha colpita in pieno. Mentre dall’opposizione ha criticato le politiche di austerità e di rigore adottate in risposta alla crisi finanziaria, una volta al potere le ha fatte proprie, riducendo così notevolmente la portata delle azioni sociali che si sforza di promulgare, a fronte della disoccupazione in aumento, delle crescenti disuguaglianze e della povertà sempre più diffusa. Colpita in profondità dalle metamorfosi della politica, fatica ad adattarsi alla «democrazia del pubblico», che esige leader forti, in contrasto con i suoi valori classici. I suoi elettori di origine popolare, disgustati dalla politica, si astengono o votano per gli schieramenti populisti. Chi aspira a una democrazia diversa censura l’oligarchia di partito, assimilata alla destra. Se nel corso della storia la sinistra ha progressivamente adottato l’europeismo, fino ad erigerlo a un’identità sostitutiva del socialismo, divenuto indefinibile, e della nozione di sinistra sempre più vaga, oramai l’Europa ha deluso i suoi elettori, a volte fino al rifiuto. Fuori dai partiti, ma anche al loro interno, le correnti radicali della sinistra rilanciano la critica al capitalismo e denunciano il liberismo, sognano il ritorno alle utopie, e si riempiono la bocca di termini come rottura e alternativa, dai contenuti mai ben precisati.
Se accade che le circostanze politiche costringano la sinistra, come avviene in Italia, a governare con i suoi avversari, essa deve però al tempo stesso riaprire i cantieri del rinnovamento. Per ricostruire le sue fondazioni, il suo progetto, la sua identità, la sua organizzazione, la sua leadership. Per confrontarsi con la realtà, facendo fronte all’immane crisi sociale. Per ridefinire i termini del compromesso tra le forze del lavoro e quelle del capitale, nell’era della globalizzazione e di un capitalismo finanziario spietato, ma al tempo stesso foriero di continue innovazioni. Per ripensare i contenuti di quella politica dell’uguaglianza che costituisce, come già ha dimostrato Norberto Bobbio, la sua virtù cardinale. Per rifondare una democrazia onesta, partecipata, innovativa, di cui le primarie hanno costituito un primo tentativo, a un tempo interessante e problematico. E infine per rilanciare un progetto europeo più democratico ma anche più efficiente in campo economico, fiscale e sociale.
Proseguire la navigazione a vista, praticata spesso dalla sinistra, vuol dire spalancare le porte alle forze di protesta già in piena ascesa, che al loro passaggio rischiano di spazzar via tutti i partiti di governo. Sia di destra che di sinistra.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Corriere 11.5.13
Luciano Violante, 71 anni, è stato presidente della Commissione parlamentare antimafia (1992-1994) e della Camera (1996-2001)
«Il governo faccia il primo passo Senza maggioranza sì al ballottaggio»
di Daria Gorodisky
ROMA — «L'idea della Convenzione per le riforme, associata al voto del Parlamento in seduta comune e al referendum finale, nasce dal fallimento di tutti precedenti tentativi. Ed era nel programma sul quale il governo ha ottenuto la fiducia. Comunque, se c'è un'intesa per superarla, si deve prenderne atto. In ogni caso è assolutamente necessario modernizzare il sistema costituzionale rendendolo capace di decidere». Luciano Violante, lunga esperienza parlamentare e giuridica e uomo del Pd nel gruppo dei dieci saggi nominati da Napolitano a fine marzo per occuparsi di modifiche istituzionali, economiche ed europee, deve avere qualche rimpianto per quella che era la sua creatura. Ma ormai preferisce guardare avanti: «La priorità è il cambiamento, non le modalità per attuarlo».
La via per le modifiche costituzionali è indicata dalla stessa Costituzione, all'articolo 138, e prevede un percorso tutto parlamentare.
«Possiamo provare, spero che serva a ottenere un risultato… Ma è un percorso incerto, come abbiamo già verificato in passato. Comincerei dall'interrogativo di fondo: abbiamo bisogno del cambiamento, o si tratta di una specie di gioco intellettuale? A mio parere, le attuali condizioni del sistema politico istituzionale sono esse stesse un handicap per il Paese. Perciò bisogna cambiare quanto prima».
Su questo tutti i partiti si dichiarano da lungo tempo d'accordo. Si dibatte, si fanno sedute, si rilancia, però alla fine non accade nulla.
«Potrebbero partire da un pronunciamento serio sul documento dei saggi. In Parlamento l'innovazione generazionale si accompagna a una grave mancanza di esperienza. Un dibattito di questo tipo aiuterebbe a maturare la consapevolezza dei problemi e a costruire una saldatura generazionale che eviti dilettantismi».
Dunque, passo numero uno?
«Il governo deve indicare chiaramente e rapidamente qual è l'indirizzo. Elabori una proposta e la presenti in Parlamento. L'esecutivo e la sua maggioranza devono sciogliere i nodi di fondo: parlamentarismo razionalizzato o semipresidenzialismo? Come riformare a fondo il bicameralismo paritario?»
Non crede che il Paese sia un po' stanco di sentire che il Parlamento si occupa — e finora invano — di queste materie e che piuttosto abbia voglia, e soprattutto necessità, di interventi rapidissimi in materia di lavoro, sviluppo, ripresa?
«Senza un cambiamento profondo e rapido il sistema crolla sotto il peso della sua inefficienza».
E la legge elettorale? E' una priorità anche questa?
«Va riformata subito. Non sappiamo quando torneremo a votare e non possiamo rischiare di trovarci di nuovo con la palude».
Quale modello propone?
«Richiamerei la legge Mattarella, eliminando lo scorporo e introducendo una novità: se alla Camera e al Senato ci sono maggioranze diverse, le due coalizioni vincenti in ciascuna delle Camere vanno al ballottaggio; chi ottiene più voti prende un premio di maggioranza che gli assegna il 55 per cento dei seggi in entrambi i rami del Parlamento. Poi, una volta portate a compimento le riforme, si adatterà al nuovo sistema anche la legge elettorale».
Tutto questo prevede comunque che l'attuale maggioranza regga, nonostante le enormi diversità su molti temi sensibili. Lei cosa pensa, per esempio, delle manifestazioni del Pdl contro i giudici? Tempo fa davanti al Tribunale di Milano, oggi a Brescia...
«Una importante forza di governo manifesta contro un potere dello Stato. Non si può non essere preoccupati. Non accade né è mai accaduto in nessun Paese democratico. In Israele hanno condannato il capo dello Stato, ma nessuno è sceso nelle strade. Anche questo ci fa capire che va superato il disordine di questo sistema».
Che cosa dice dello ius soli?
«Non può essere applicato indiscriminatamente. Ma va garantito a chi è nato e cresciuto in Italia, anche se è figlio di cittadini stranieri».
L'Imu? Come si esce da questo scontro fra alleati di governo tanto diversi tra loro e senza ricorrere all'ingannevole metodo di togliere da una parte e far pagare dall'altra?
«Stupisce che non si dica con chiarezza che abolirlo significa ridurre fortemente i servizi offerti ai cittadini, dai trasporti agli asili. Si potrebbe eliminare sugli immobili invenduti e sulla casa unica — cosa diversa dalla prima casa — per i ceti meno abbienti. Insomma, serve ragionevolezza, non ideologia».
il Fatto 11.5.13
Movimento 5 spine. Soldi e ribelli, pronte 20 espulsioni
Grillo torna a Genova deluso e arrabbiato per la fronda di chi vuol tenere la diaria
Polemica sullo ius soli e minacce alla stampa
di Emiliano Liuzzi e Paola Zanca
A un certo punto, Adriano Zaccagnini prende la parola in assemblea: “Vorrei avere a disposizione lo stesso tempo che ha avuto Beppe”. Nella sala cala il gelo. Grillo ha appena finito la sua invettiva sulla diaria da restituire e questo 31enne romano esperto di permacultura, oggi deputato Cinque Stelle, dice che anche lui vuole mezz’ora per spiegare perchè quei soldi, adesso, sono roba sua. Basterebbe questa scena per raccontare che cosa si è consumato, giovedì pomeriggio, nell’aula dei gruppi di Montecitorio. La prima rivolta contro il capo. Che non finirà così. Sono una ventina quelli che affrontano il leader a muso duro. “Arroganti”, li descrivono. “Pezzi di merda”, aggiungono, parafrasando l’epiteto che Grillo ha riservato ad Antonio Venturino, il siciliano espulso per non aver rendicontato lo stipendio. Uno a uno spiegano perchè non se la sentono di restituire quello che avanza. Alessio Tacconi, residente in Svizzera, argomenta: “Lì le tasse sono più alte”. Un altro sostiene che avrebbe bisogno di un “margine” per vivere dignitosamente. Grillo ribatte: “Si chiama cresta!”. Una senatrice parla della baby sitter che deve pagare ora che sta a Roma. Francesco Campanella difende il collega siciliano. Grillo lo interrompe: “Basta parlare di soldi: tu cosa stai facendo?”. Vorrebbe discutere di contenuti, chiede notizie da portare in piazza, ai comizi che ricominciano lunedì. Ma non si riesce a venirne a capo. Soldi, soldi, soldi. Riccardo Nuti, vicecapogruppo dei deputati, alla fine interviene e ai colleghi fa un discorso, applauditissimo: “Fate schifo”. Per questo Grillo torna all’hotel Forum, vicino al Colosseo, piuttosto sconsolato. È arrabbiato, deluso dall’atteggiamento degli attivisti che sono finiti in Parlamento. “L’avete votato voi, nei meet up, il tetto dei 2500 euro - si sfoga - Io non ho deciso niente!”. Appena il problema dei soldi aveva cominciato a montare, nelle settimane scorse, lui aveva scelto la linea morbida: “Fate quello che volete”. Poi, ha capito che i militanti non avrebbero capito: “Io ci metto la faccia - ha detto agli eletti - Fuori questa cosa è una bomba, i giornali non vedono l’ora! Voi adesso siete qui, ma dovete sempre rimanere con un piede fuori, dovete capire che le vostre azioni hanno delle conseguenze . Anche le mie, lo so. Per questo giuro che d’ora in poi mi darò una calmata. Mi metto a parlare come il Papa”.
NON VA COSÌ. Ci dorme su, Grillo. E quando si sveglia e ritrova i cronisti appostati fuori dall’albergo, torna subito quello di sempre. Dice che il governo Letta è frutto di “un golpe” (anche Stefano Rodotà, più tardi, dirà “mi sembra eccessivo”). Avverte la stampa: “State molto attenti a fare dossier su famiglie e mogli, perchè li faremo anche noi” (poi, cerca di stemperare il clima: “Non è un consiglio - dice ridendo - è proprio una minaccia...”). Scivola sulla questione della cittadinanza ai figli degli immigrati: “Serve un referendum: una decisione che può cambiare nel tempo la geografia del Paese non può essere lasciata a un gruppetto di parlamentari” (Vendola gli dice che “sembra La Russa”; il deputato Cinque Stelle Alessandro Di Battista precisa: “Ciò che scrive Grillo sul suo blog equivale a quello che può scrivere Scalfari su Repubblica”, poi spiegherà di essere comunque d’accordo sulla consultazione). Poi torna sull’annosa questione della diaria: “Chi vuole restituirla, la restituirà, chi no, si prenderà le sue responsabilità. Io sono abituato che se firmo un accordo e mi impegno, lo porto a termine, altrimenti vado da un’altra parte”.
Sono passati i giorni in cui, mascherato sulla spiaggia di Marina di Bibbona, Beppe si divertiva a farsi rincorrere dalle telecamere. Il “gioco” dell’apriscatole è più impegnativo di quanto sembrasse. E a lui, raccontano, ogni tanto sembra di essere un po’ più solo.
PER QUESTO da lunedì bisogna rimettere le cose in fila. La ventina di dissidenti, se non cambia idea, finirà dritta nella lista nera. Non ci sarà nessuna votazione o almeno così sperano che succeda nello staff. Se, sulla questione dei soldi, si dovesse arrivare alla conta, significherebbe che il messaggio di Grillo non è stato recepito. Ieri, chi ha cariche istituzionali (il questore Laura Bottici, il vicepresidente Luigi Di Maio e così via) hanno ripubblicato su Facebook le lettere in cui rinunciano alle indennità aggiuntive. Nel fine settimana, i personaggi più influenti del gruppo (da Vito Crimi in giù), proveranno a discutere al telefono con i ribelli. Se insistono, adios.
La Stampa 11.5.13
M5S. Trenta dissidenti pronti a un nuovo gruppo
Dalla diaria allo ius soli: “Beppe deve smetterla di trattarci come servi”
di Andrea Malaguti
qui
l’Unità 11.5.13
Rodotà contro il M5S:
«Golpe e sgombero, linguaggio sbagliato»
Il giurista contro il candidato dei grillini a sindaco di Roma: idea da Ventennio mandare la polizia al Teatro Valle
di Alessandra Rubenni
ROMA Prima degli scricchiolii. Poi una reprimenda bella tosta. E in poche ore l’idillio tra Stefano Rodotà e Grillo è rotto. «Tutte le decisioni possono essere criticate in maniera franca, ma quando vengono seguite le procedure costituzionalmente legittime, a usare parole come golpe mi sembra si passi un po’ il segno», ha tuonato ieri il Professore contro il leader del Movimento, che lo aveva scelto come proprio candidato al Quirinale.
Una presa di distanza preceduta da altri segnali. Come la scomunica che, dalla vertiginosa pendenza del palco del Teatro Valle, il Professore ha lasciato rotolare giù pesante come un macigno sulla testa del candidato sindaco dei Cinque Stelle. Fin troppo pesante, si direbbe, per l’incauto Marcello De Vito, che in una intervista a Micromega aveva fatto intendere che quel teatro da due anni occupato e al centro della vita culturale della città con un cartellone fittissimo di serate, laboratori e attività aperte a tutti lo farebbe sgomberare senza esitazioni nel caso diventasse primo cittadino. Ma ieri, sulla scia della polemica e dopo il rimbrotto di Rodotà, De Vito è tornato su suoi passi e attraverso Facebook ha smentito: «Il Valle rappresenta un’esperienza diversa (dalle altre occupazioni, ndr), con delle specificità importanti da difendere e discutere a 360 gradi con i suoi protagonisti e i cittadini». E pure lui, come pare succeda spesso ad altri grillini, si è detto quantomeno incompreso, perché «tutte le volte che mi vengono poste domande sulle occupazioni presento sempre le mie perplessità sul confine tra legalità e diritti, che tuttavia vengono spesso travisate rispetto al mio reale pensiero».
È così che si è iniziata a incrinare la felice corrispondenza che si era instaurata fra i Cinque Stelle e il noto giurista. Rimettere ordine nel canovaccio è presto fatto. Macello De Vito, interrogato su cosa pensi delle esperienze di cultura indipendente in spazi occupati della città, come il Valle o l’ex Cinema Palazzo, con Micromega taglia corto: «Ci può essere sicuramente un dialogo ma noi siamo per la trasparenza quindi faremo dei bandi pubblici e affideremo il posto a chi presenta la proposta più credibile». E alla domanda se voglia sgomberare il Valle risponde lapidario: «Difendiamo la legalità».
Parole che fanno scattare il cortocircuito sul proscenio del Valle, il teatro più antico di Roma e probabilmente anche quello in cui la scena si offre nella più spettacolare e insidiosa inclinazione dove Rodotà, è giovedì pomeriggio, apre i lavori della «Costituente dei beni comuni». Insieme a un nutrito gruppo di giuristi e studiosi, fra loro Gaetano Azzariti, Ugo Mattei, Maria Rosaria Marella e Paolo Maddalena, l’obiettivo è quello di formulare una nuova disciplina dei beni pubblici e della loro tutela da parte dello Stato. Proprio lì, da quel teatro che ormai è diventato simbolo di bene pubblico, il giurista bastona De Vito. Lo sgombero? Pensieri da Ventennio, che rimandano alla «cacciata di massa vissuta molti anni fa, quando deportarono le persone in periferia per fare posto alla via dell’Impero, oggi via dei Fori Imperiali». Impietoso il giudizio sul candidato sindaco dei Cinque Stelle: «Questo non ha capito proprio nulla, perché non riconosce la necessità di pratiche sociali peri beni comuni e tratta questioni così delicate come un affare di ordine pubblico, da governare con la polizia». Certo, Rodotà non manca di sottolineare come questo non gli sembri un atteggiamento condiviso dal Movimento, e del resto non risparmia qualche stilettata al Pd. Ma qualcosa, nel rapporto con i 5 Stelle, ha già iniziato a traballare.
E pensare che appena un giorno prima, in un incontro (registrato e diffuso online) con i parlamentari grillini, parlando della formazione del governo, lo stesso Rodotà aveva detto: «Se fossi stato al posto di Napolitano avrei dato un incarico per formare un governo che prendesse in parola il Movimento 5 Stelle per le dichiarazioni fatte». Giù applausi, mentre le agenzie di stampa traducevano: «Fossi stato Napolitano avrei dato l’incarico al M5S», e a poca distanza Rodotà precisava: «Nessun riferimento a quel che ha fatto o avrebbe dovuto fare il presidente Napolitano»; prendendo in parola il M5S lui intendeva dire che l’incarico l’avrebbe dato «ad una personalità diversa dagli appartenenti a quel Movimento». Tanto per essere chiari.
Poi il caso del Valle, con una scia di reazioni a seguire, contro il candidato grillino. «Non solo De Vito ritiene che vada immediatamente sgomberato. Colpisce in particolare il tono questurino, ma anche l’assoluta inconsapevolezza del progetto strategico che intorno a quel teatro si è creato nei due anni di occupazione», contestava ieri mattina Sandro Medici, candidato sindaco di Repubblica Romana, Sinistra per Roma e Roma Pirata. In direzione contraria l’attacco di Federico Mollicone, capogruppo di Fratelli d’Italia in Aula Giulio Cesare e presidente della Commissione Cultura di Roma Capitale, che bacchettava: «Peccato, il candidato del Movimento Cinque Stelle ha perso un’occasione importante, smentendo le sue dichiarazioni in merito allo sgombero del Tetro Valle. Chi occupa da anni l’edificio del Rione di Sant’Eustachio, il più antico teatro della Capitale, lucra sulle spalle dei romani. Il palinsesto a senso unico promosso dall’autogestione non giustifica in alcun modo i soldi che Roma Capitale continua a erogare per pagare le bollette di acqua e luce del teatro». Polemica in mezzo alla quale s’inseriva pure Francesco Longo, capolista per Marchini sindaco, che biasimava i grillini: «Benché si riempiano la bocca di termini come “Bene comune” non ne comprendono il significato».
Repubblica 11.5.13
L’amaca
di Michele Serra
Ogni volta che vedo e sento parlare il deputato delle Cinque Stelle Alessandro Di Battista (24 anni; suo l’eccellente intervento alla Camera sul caso dei marò) o leggo sue dichiarazioni, mi faccio la stessa domanda: perché non è del Pd o di Sel? La domanda, sia chiaro, non è rivolta a lui, che ha tutto il diritto di stare dove ha scelto di stare. È rivolta alla sinistra italiana, che evidentemente ha perduto, insieme a buona parte del proprio appeal politico, la capacità di attrarre e selezionare una nuova classe dirigente laddove questa nuova classe dirigente si manifesta, vive, lavora, produce idee ed esperienze.
Una nuova leva giovane ed energica, nel Pd e in Sel, è già reperibile, anche se ancora poco distinguibile e udibile, forse per sudditanza generazionale. Ma l’impressione è che tra i grillini sia fluita una parte rilevante della leva politica nata attorno a questioni (come i beni pubblici, i diritti individuali, le nuove forme di partecipazione e di rappresentanza) che segneranno profondamente il futuro della società italiana. Perché questo sia accaduto, è una delle domande cruciali che dovrebbe farsi il Pd, piuttosto che scannarsi sulle tattiche congressuali e sull’agenda (tutta interna) della sua manutenzione straordinaria.
il Fatto 11.5.13
Il laboratorio Teatro Valle, dove nasce la nuova sinistra di Rodotà
In attesa di un nuovo partito a Roma la “Costituente” dei beni comuni
di Salvatore Cannavò
Ugo Mattei che lo conosce bene e che, con lui, ha fondato la Commissione per i beni comuni, non ha dubbi: “L’impegno prioritario di Stefano Rodotà è questo, nato con la Commissione che porta il suo nome e oggi proiettato verso la Costituente dei beni comuni”. Mattei è anch’egli giurista, insegna a Torino e fa parte di questo gruppo che, con il mancato presidente della Repubblica, sta costruendo un’esperienza originale nata al Teatro Valle di Roma ma che vuole diffondersi in tutta Italia. La sua prima iniziativa pubblica “esterna” è stata a L’Aquila lo scorso 4 maggio.
IL PROGETTO MATTEI lo spiega così: “È il primo tentativo di dare traduzione politica a un’esperienza come il referendum dell’acqua”. In realtà, una traduzione c’è già stata ed è il movimento di Beppe Grillo. Ma la Costituente di Rodotà e compagni, affonda le radici nel pensiero della sinistra democratica, costituzionale e, da questo punto di vista, riformista. I beni comuni sono quelli “funzionali a rendere effettivi i diritti fondamentali”, ha spiegato lo stesso Rodotà ieri nella diretta streaming sul Fattoquotidia no.it . Parliamo della vita, della salute, dell’acqua e dell’aria, ma anche della cultura e della conoscenza.
Logico che il Teatro Valle sia il luogo originario di questo progetto che punta, spiega ancora Mattei, “a ripensare la struttura del diritto privato nel quadro della crisi e delle trasformazioni indotte da liberismo”. Il Valle è stato occupato il 14 giugno 2011 dai lavoratori e dalle lavoratrici rimasti senza lavoro. Da allora si sono impegnati per costruire una Fondazione, né pubblica né privata, ma “comune”, per scardinare “il meccanismo di ingerenza partitica“ e sia principio ispiratore di “nuove politiche culturali pensate dal basso. Da chi la cultura la ama e la produce”. In questi due anni hanno allestito circa 500 serate con 2000 artisti, prodotto 1400 ore di formazione, ricevuto 4 premi italiani ed europei ma, soprattutto, raccolto i soldi necessari a far nascere la fondazione, circa 160 mila euro, con l’adesione di quasi 6000 soci. Il 1 maggio, prima di esibirsi in piazza San Giovanni al concerto di Cgil, Cisl e Uil, i 100 violoncelli di Giovanni Sollima hanno suonato qui, dove del resto sono nati. “Il Valle, continua Mattei, è un’istituzione-rastrelliera, un magnete che è capace di attivare e attirare energie e talenti altrimenti dispersi e canalizzarli in una volontà unitaria”.
I DISSIDI con il Comune, quello vero, gestito da Gianni Alemanno, non sono mancati. Il sindaco di Roma ha definito l’esperienza “un centro sociale mascherato” provando a far passare un progetto pubblico-privato in cui gli occupanti hanno visto lo spettro della privatizzazione. Da parte loro, il mese scorso si sono recati dal notaio per predisporre uno statuto che possa consentire la flessibilità per gestire un progetto come quello descritto.
La candidatura di Rodotà al Quirinale ha offerto un’eco inaspettata e ha posto anche il problema di scadenze politiche. Oggi ci sarà la manifestazione di Sel e sabato prossimo quella della Fiom. Rodotà parteciperà a entrambe. “Costruire un codice dei beni comuni – conclude però Mattei – significa fare una grande operazione sul senso comune e non creare una lista. Non stiamo lavorando per portare i beni comuni nel quadro della rappresentanza o rifondare una sinistra vecchia. La nostra è una nuova costruzione di democrazia. Ci vorrà il tempo che ci vorrà”.
La Stampa 11.5.13
Rodotà sempre più distante “Lo ius soli è un atto di civiltà”
“Tutte le decisioni in democrazia possono essere criticate ma senza passare il segno”
di Flavia Amabile
È uno Stefano Rodotà come sempre lucido e coerente quello che si presenta davanti alle telecamere di Sky Tg24 che non lesina critiche a nessuno, né al Pd né al Movimento Cinque Stelle che pure lo ha sostenuto nella candidatura alla Presidenza della Repubblica.
Beppe Grillo ha accusato il governo di aver fatto un golpe? Rodotà non è d’accordo. «Tutte le decisioni in democrazia possono e debbono essere criticate in maniera franca ma quando vengono seguite le procedure costituzionalmente legittime, usare parole come golpe mi sembra che si passi un po’ il segno. Che poi tutto questo provochi anche battibecchi è segno della tensione che esiste. Mi auguro che si esca dalle battute e dal linguaggio aggressivo e si lavori sulle questioni concrete da tutte le parti».
Rodotà la pensa in modo del tutto diverso anche sulla questione dello ius soli. Mentre Grillo è contrario il giurista sostiene che l’attribuzione dell diritto di cittadinanza si tratti di «un atto dovuto, un atto di civiltà e di inclusione che consente di avere anche un’identificazione di queste persone con l Paese in cui vivono», e quindi crede che sia «un passo da fare pur con i minimi aggiustamenti necessari». Perché inchiodarli in un’identità che non è la loro? Sono cittadini di questo Paese e va riconosciuto con una certa franchezza».
Governo debole quello di Letta? «Pur avendo in prima battuta anche dato riconoscimenti giusti a Letta, penso che il vincitore di questa partita sia Berlusconi. I dati dei sondaggi lo confermano, dieci punti di distacco sono tanti. Quello che decide giorno per giorno e decide se il governo potrà reggere è Berlusconi, depositario del potere di vita o di morte di questo governo». E a proposito delle sentenze di condanna a Silvio Berlusconi, poco commentate dai democratici, Rodotà ha detto: «Mi è sembrato strano non vedere tante reazioni da parte del Pd. Una cosa mi ha molto preoccupato fra i commenti, la magistratura intralcia pacificazione». Si chiede alla magistratura «un ruolo politico» che non deve avere.
Al Pd chiede di porre fine al «gioco affannoso dei candidati». Al Movimento Cinque Stelle dice che un movimento entrato in Parlamento non sarà senza effetti, il lavoro parlamentare richiede decisione e responsabilità continua. «Ritenere che ci sono esclusi e barbari che vanno isolati? Li ho incontrati e ho detto loro i miei punti di dissenso come sull’esercizio della loro funzione senza vincoli di mandato. Sono contrario perché è importante per la responsabilizzazione del parlamentare. Quando ho detto queste cose non c’è stato un rifiuto e quindi deve esserci sempre grande possibilità di discussione». Sulla sua candidatura al Quirinale gli ha dato fastidio solo una «di veder falsificata» la sua identità nonostante la sua storia fosse «molto chiara».
Corriere 11.5.13
Come l'Uomo di Fumo di Palazzeschi: Ro-do-tà futurista alla Pe-re-là
di Luca Mastrantonio
Strano idillio quello tra Stefano Rodotà, il più intellettuale tra i parlamentari di sinistra, prolifico assai di appelli vibranti, e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, il più anti-intellettuale dei leader italiani, convinto che gli uomini di cultura di sinistra siano servi. I preliminari, tra l'altro, erano stati pessimi. Nel 2010 l'ex comico maledisse sul blog il giurista per la pensione parlamentare d'oro, mentre Rodotà nel 2012 su Left indicava Grillo come un pericoloso populista della Rete. Poi, con la fumata bianca via Web che ha candidato Rodotà alla Presidenza della Repubblica per l'M5S, è scoppiato l'amore (con qualche scaramuccia, quando Rodotà boccia la marcetta su Roma e l'idea di sgomberare il Teatro Valle).
Ma sarebbe riduttivo spiegare il fenomeno come un riposizionamento tattico, un matrimonio d'interesse politico. Né basta evidenziare i punti di contatto: la battaglia a difesa dei beni comuni come l'acqua, la linea dura contro il Cavaliere o il condiviso spirito di rivincita che infiamma Rodotà contro il (suo) Pd e Grillo & Casaleggio contro altre strutture di potere (televisivo e non solo). C'è qualcosa di mistico in questa unione, tra un popolo senza un progetto reale (Grillo e Casaleggio regnano stando nell'ombra) e un profeta senza patria che ricorda, non solo nell'assonanza, Perelà, il protagonista de Il codice di Perelà di Aldo Palazzeschi.
Il romanzo (del 1911) racconta di un uomo di fumo fuggito dal camino dove ciarlavano tre vecchine: Pena, Rete e Lama. Dalle loro sillabe iniziali deriva il nome Perelà, scandito in maniera contagiosa e suggestiva, come una formula magica (un po' come i grillini quando invocano il loro uomo di fumo: Ro-do-tà). Grazie alla sua carismatica affabilità, al suo candore ondivago, Pe-re-là conquista il popolo e il Re gli chiede un nuovo Codice per il Regno. L'ammirazione però si tramuta in idolatria e un pazzo, volendo emulare l'uomo di fumo, si dà fuoco. Perelà, imprigionato, fugge ancora una volta attraverso il camino. E il Codice promesso si rivela per quello che è: fumo negli occhi. Sarà così anche per Ro-do-tà?
l’Unità 11.5.13
Sel in piazza a Roma Vendola lancia «La cosa giusta»
Si chiama «La cosa giusta» la manifestazione promossa oggi da Sinistra Ecologia Libertà a Roma, in piazza Santi Apostoli. Dal palco, prima delle conclusioni di Nichi Vendola, si alterneranno momenti musicali, testimonianze, appelli da parte di intellettuali, esperienze sociali, associazioni dei precari, esponenti della sinistra.
L’evento coordinato da Tosca, avrà inizio alle ore 14. Tra gli altri intervengono Maria Pia Pizzolante (ass.ne Tilt), Monica Pepe, il giornalista Maso Notarianni, Tiziana Drago, l'ambientalista Gianfranco Bettin, Paola Ricciardi, lo scrittore Nicola La Gioia, la senatrice del Pd Lucrezia Ricchiuti (che non ha votato la fiducia al governo), il sindaco di Cagliari Massimo Zedda, Gad Lerner, la ricercatrice Azeb Lucà Trombetta della Rete Seconde
Generazioni, per la Rete degli Esodati Salvatore Carpentieri, Cristina Tajani, Concita De Gregorio, Stefano Rodotà. Conclude Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà. Nelle ultime ore, ha riferito Sel, sono arrivati numerosissimi messaggi di adesione. Fra i quali quelli di Maurizio Landini, Salvatore Settis, Nadia Urbinati, Gianluca Felicetti.
«A tutti coloro che pensano che nel Paese ci sia bisogno di una sinistra, a tutti quelli che non vogliono arrendersi chiediamo di partecipare a questo primo appuntamento. Chi non potrà esserci di persona o che vuole dire la sua lo potrà fare scrivendoci a lacosagiusta@sxmail.it Mandateci delle frasi brevi (entro le 140 battute) per suggerirci come fare. Vogliamo dare voce a tutte a tutti». Questo l'appello lanciato da Vendola. «Riempi di “Cose giuste” prosegue l’hashtag di Twitter #lacosagiusta. Partecipa all’evento su Facebook».
l’Unità 11.5.13
Vorrei un governo che punti tutto su cultura e ricerca
di Moni Ovadia
IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO ENRICO LETTA, NEL CORSO DI UNA RECENTE PUNTATA DELLA TRASMISSIONE «CHE TEMPO CHE FA» in onda su Rai3, si è lanciato in un’affermazione tanto sorprendente quanto insolita sulle labbra di un politico, soprattutto su quelle di un primo ministro: «Se ci saranno tagli all’università e alla cultura...mi dimetterò». Una dichiarazione davvero coraggiosa. Mi sembra di ricordare che solo un altro primo ministro europeo abbia pronunciato parole tanto impegnative e vi abbia fatto seguire dei fatti: la cancelliera della Germania, signora Angela Merkel. Il premier italiano, Enrico Letta per il momento si ferma a livello delle parole, del resto non si può pretendere troppo, diamogli tempo.
Premetto che non sono un fan di questo governo e non ho nessuna aspettativa riguardo alla sua azione. Devo tuttavia constatare che ci voleva un ex democristiano perché si sentisse sentire pronunciare dal capo dell’esecutivo italiano un aut aut impegnativo in merito a cultura, istruzione e suppongo ricerca. Non ricordo che Pierluigi Bersani nell’intera campagna elettorale impostata sulla smacchiatura del giaguaro abbia mai pronunciato la parola cultura, né che lo abbiano fatto altri autorevoli esponenti del Pd. Ma forse ero distratto io. Lo ha fatto con passione solo Nichi Vendola e per quanto mi riguarda gliene ho sempre reso merito sulle pagine di questo giornale e non solo. Ma mettere la cultura come priorità politica al punto da ipotecare la propria permanenza in carica in base ad essa è altra cosa. Resta da vedere se Letta avrà il coraggio di passare dalle parole ai fatti.
Se posso permettermi un modesto suggerimento: «Lo faccia, ci provi, esageri! Appena possibile convochi un Consiglio dei ministri tutto sulla cultura, sull’istruzione e sulla ricerca. Lo convochi magari ai Musei Capitolini, all’università la Sapienza, o che so, a Cinecittà. È probabile che non serva assolutamente a nulla perché parlare di cultura, università e ricerca con il partito di Berlusconi, Brunetta e Gelmini è come chiedere a Dracula di indossare il crocefisso, ma almeno avrà costituito un precedente destabilizzante e forse, in un futuro governo Letta II, formato con una coalizione più «divisiva» magari ma meno insensata, potrà perfino osare pensare di dare avvio al risanamento del Paese e al rilancio del suo sviluppo a partire dalla leva del sapere, della bellezza e della valorizzazione del territorio in ogni sua potenzialità. Potrebbe anche pensare di fare del merito culturale e scientifico la risorsa principale di un nuovo futuro». D’accordo, d’accordo, ho esagerato. Adesso mi sveglio!
il Fatto 11.5.13
Commissioni
Galan alla Cultura: aiuto!
di Tomaso Montanari
Salvatore Settis ha scritto che una serie di ministri per i Beni culturali come Sandro Bondi, Giancarlo Galan e Lorenzo Ornaghi, “fosse stata a Firenze nel Quattrocento, sarebbe riuscita a insabbiare il Rinascimento”. Ottimo motivo per eleggere uno di questi tre draghi (Galan, nella fattispecie) alla presidenza della commissione Cultura della Camera, no? Se tra le macerie del Pd qualcuno avesse ancora a cuore le sorti della cultura, tuttavia, avrebbe potuto ricordare che esiste un motivo ben più grave e specifico per ritenere il nome di Galan davvero impresentabile e radicalmente incompatibile con ogni responsabilità in fatto di cultura: ancora più incompatibile, se possibile, di quanto sia quello di Nitto Palma con la commissione Giustizia.
QUEL MOTIVO è il saccheggio della Biblioteca dei Girolamini a Napoli. Del quale saccheggio Galan non ha responsabilità penale: ma ha tutta intera la responsabilità politica, pesante come un macigno. Nell’ordinanza del Gip di Napoli, Francesca Ferri, che ha confermato la detenzione in carcere del direttore-ladro Marino Massimo De Caro (condannato a sette anni in un primo processo, e ora rinviato a un secondo giudizio) si legge che la nomina dello stesso De Caro alla direzione dei Girolamini è avvenuta “ad onta di ogni regola e grazie all’influenza politica correlata all’incarico fiduciario di consigliere dell’ex ministro per i Beni e le attività culturali, Gianfranco Galan”. La nomina a direttore (non fatta da Galan, ma resa possibile solo dal fatto che De Caro era consigliere di Galan al Mibac) fu dunque il decisivo punto di partenza di “un piano criminale studiato in ogni dettaglio”, facilitato dalla “perdurante assenza di controllo e vigilanza da parte degli organi del ministero a ciò deputati” (così sempre il Gip).
GALAN ha chiesto pubblicamente scusa per la sua parte di responsabilità in questa storiaccia, ma poi si è appreso che un altro consigliere ministeriale (Franco Miracco) dette l’allarme sulla figura e l’opera di De Caro fin dall’estate del 2011: perché, allora, né Galan né il suo staff ne tennero conto? Perché De Caro era il braccio destro di Marcello Dell’Utri (anche lui indagato perché in possesso di alcuni volumi rubati ai Girolamini), ex capo di Galan in Publitalia. E quando è stato chiesto a Galan perché avesse nominato proprio consigliere uno come De Caro (senza alcun titolo: non è manco laureato), Galan ha risposto candidamente: “Me lo aveva presentato un uomo al quale devo tutto nella vita: Marcello Dell’Utri”. C’è dunque solo da sperare che Dell’Utri non abbia più nulla da chiedere al novello presidente di commissione.
PARTICOLARE grottesco, anche Galan aveva ricevuto in dono un libro rubato ai Girolamini da De Caro: ma l’attuale presidente della commissione Cultura è così interessato alla cultura da aver gettato quel volume a casaccio nella sua anticamera ministeriale, dove la Procura di Napoli l'ha rinvenuto. Ora nessuno chiede la gogna mediatica o l’esilio, ma in quale paese ad appena un anno dall’esplosione dello scandalo dei Girolamini uno con le responsabilità di Galan avrebbe la faccia di tornare a occuparsi di cultura? E in quale paese il partito (ex) antagonista del suo lo voterebbe per una simile posizione, umiliando e offendendo Napoli, e tutto il mondo della cultura italiana? Irresponsabilità, amnesia, incompetenza, impudente arroganza: una perfetta costellazione per illuminare le magnifiche sorti e progressive della cultura italiana nell’era Letta-Letta.
il Fatto 11.5.13
Il fascino indiscreto della bibliofilia
Dal cardinal Mazarino a Umberto Eco
Storie di ordinaria follia. Per i libri
di Silvia Truzzi
A un un certo punto del Quijote, Cervantes ci racconta di un suo viaggio a Toledo, dove incontra un ragazzo che vende scartoffie. E siccome lui ha una passione per carte e cartacce, le compra accorgendosi solo dopo che si tratta del Don Chisciotte di Cide Hamete Benengeli. E allora nel Quijote si apre una storia di “libro nel libro”: ecco dove porta l’amore per le scartoffie. Che talvolta diventa una passione borderline, ai limiti dell’ossessione. Comunque, un grande amore. Lo racconta in Lo scaffale infinito, storie di uomini pazzi per i libri Andrea Kerbaker (sì, il grande linguista dell’Ottocento, Michele, è il suo bisnonno), classe 1960: vive a Milano con la moglie e tre figli “che leggono di tutto, tranne i libri scritti dal padre”. Ma stavolta è imperativo cambiare abitudine, perché il libro non è solo una raccolta di episodi sugli uomini pazzi per i libri, ma anche una confessione. “Amo i libri” è il sottotesto di tutti i capitoli, dove incontriamo Francesco Petrarca nell’inedita veste di bibliotecario, ma anche Federigo Borromeo e il professor Eco (no, Marcello Dell’Utri non c’è). C’è un Leopardi, ma non è Giacomo, bensì Monaldo, il padre burbero che l’autore prova a riabilitare: fu lui a costruire la famosa biblioteca degli anni di studio “matto e disperatissimo” , per Giacomo. Ma non fu affatto un papà-aguzzino: Kerbaker ci racconta di aver trovato una lettera in cui il premuroso Monaldo cerca un trattato di astronomia per Giacomo ed è disposto a pagarlo qualunque prezzo. C’è il cardinal Mazarino, che qui non è ricordato per le gesta dumasiane ma per aver fondato la Bibliothèque Mazarine. Il cardinale era nato a Pescina, borgo di montagna in provincia de L’Aquila, dove ha trascorso l’infanzia anche il nonno di Andrea Kerbaker, che con Ignazio Silone aveva condiviso anni di amicizia e il triste destino di aver perduto la mamma nel terremoto del 1915: e questo è uno dei capitoli più riusciti. La chiave del libro sta proprio nel “frullato” di aneddoti sui grandi bibliofili e gli inserti – leggeri e molto godibili – di storie personali.
E POI C’È un grande tema di fondo, che è quello del senso delle raccolte di libri nell’età del libro digitale. Hanno ancora una ragion d’essere? La risposta per l’autore – folgorato dalla celebre frase di Marguerite Yourcenar: “Fondare biblioteche è come costruire granai pubblici. Ammassare riserve contro l’inverno dello spirito” – naturalmente è sì. “Se la Parodi finisse in eBook non sarebbe una grave perdita”, ha dichiarato Kerbaker in un’intervista. Ma come la mettiamo con l’Encyclopédie di Diderot? O con Il nome della rosa di Eco? Ci sono libri che vanno toccati, soppesati, sfogliati, “perfino fiutati”. E tuttavia il tema del “dove mettere i libri” è tremendamente attuale. Non solo per i comuni mortali, noi che abitiamo in case sempre più piccole, ma anche per i professori che si preoccupano di dove finiranno le loro collezioni. È quel che capita a Umberto Eco, che ha già deciso di donare i suoi volumi all’Università di Bologna, a patto che il procedimento d’accettazione non duri più di un anno. Il professore ha decine di migliaia di libri, disseminati tra la sua casa milanese, quella parigina e un ritiro in campagna. Sono troppi, “come spesso accade agli uomini di lettere contemporanei”, racconta Kerbaker. Ma Eco ha trovato il modo di farli andare nel mondo: li manda all’Università di Bologna, dove i suoi assistenti li espongono su un grande tavolo. Gli studenti li possono portare a casa, con la formula “prendi un libro e scappa”.
l’Unità 11.5.13
Anna Canepa
La vicepresidente dell’Anm: «I toni usati in questi giorni dal Pdl sono inaccettabili e smentiscono qualunque intento di pacificazione»
«Dopo gli attacchi del Cav un assordante silenzio»
intervista di Claudia Fusani
Berlusconi convoca la piazza contro la magistratura. Che fine fa il clima di pacificazione?
«I toni degli ultimi giorni e ore smentiscono di per sé qualunque intento di pacificazione. Stiamo di nuovo vivendo una situazione e un clima che speravamo di non dover più vedere. C’è un atteggiamento complessivo di totale aggressione e delegittimazione nei confronti della magistratura che conferma la pretesa di un cittadino che, per quanto leader politico, vuole sottrarsi alle decisioni della giustizia. Detto questo, la pacificazione è condizione evocata dalle parti politiche protagoniste di questa complessa stagione. La magistratura non ne ha bisogno perché esercita sempre la sua funzione secondo legge e coscienza».
Questa volta il Cavaliere fa le cose in grande, una vera e propria campagna televisiva per dire la sua verità. Che non è quella dei tribunali. Come giudica questa progressione mediatica? «Ricorrere al mezzo tv è una scorciatoia pericolosa, ancora una volta per difendersi al di fuori da aule di giustizia. Tra l’altro scorciatoia intrapresa da chi è proprietario di alcune di quelle tv in una condizione di palese conflitto di interessi. Il miglior modo di onorare la giustizia, che viene amministrata questa sì in nome del popolo, sarebbe quello di rispettare le decisioni dei giudici, di impugnarle qualora non si condividano e secondo i rimedi previsti dalle procedure. Si fa un pessimo servizio alle istituzioni e a tutti i cittadini delegittimando proprio quella istituzione che ha il compito di attuare il principio costituzionale di uguaglianza».
L’attacco è contro Milano e la corrente di Md, siete «un’associazione segreta». Altre volte «un cancro». «Rispondo all’associazione segreta, il resto è un ritornello logoro tante sono le volte che lo abbiamo sentito. Md è una libera associazione cui possono aderire tutti i magistrati della repubblica, i nostri congressi sono aperti al dibattito e al più ampio confronto. Md è tutto tranne che segreta».
Oggi Brescia, lunedì si parla di una nuova marcia al tribunale di Milano mentre sarà in corso il processo Ruby...
«L’attacco alle istituzioni delegittima le istituzioni. Ma solo le istituzioni possono e devono trovare la soluzione a questa inaccettabile modalità di aggressione. Certo non possiamo essere noi. Noi siamo dentro i tribunali e dobbiamo amministrare la giustizia stando là dentro. Noi dobbiamo e possiamo continuare solo con serenità e professionalità». Berlusconi si definisce un perseguitato. Descrive «una guerra lunga vent’anni».
«Sentenze e provvedimenti hanno queste coincidenze anche perché è sempre stato fatto di tutto per dilatare i tempi dei processi. È chiaro che poi, esauriti i rinvii e le dilazioni, le scadenze finiscono per coincidere».
Nel governo delle larghe intese voi magistrati vi sentite un po’ più soli?
«Soli non mi piace. Non si è soli né in compagnia. Avverto però intorno in questo momento un silenzio assordante».
Berlusconi torna a parlare di separazione delle carriere e di responsabilità civile dei magistrati. Invoca e programma queste riforme. Teme che il governo delle larghe intese possa favorire questo sbocco? «Noi magistrati non possiamo sapere cosa ha intenzione di fare la politica. Vediamo che c’è molta attenzione ma non nella direzione auspicata dai cittadini che è quella di una riforma per una giustizia più veloce ed efficace. Ma uguale per tutti».
Individua buoni interlocutori nel nuovo governo della strana maggioranza?
«Gli interlocutori si provano sul campo. Abbiamo un ministro preparato, un’ottima persona, una donna delle istituzioni. Certo siamo rimasti tutti sorpresi della nomina a sottosegretario del collega Ferri e sorpresi per il passaggio diretto dai vertici dell’Anm, anche se all’opposizione, a incarico di governo: non era mai accaduto. Così come mai era accaduto che dal Csm si passasse direttamente ad Anm e da qui direttamente al governo. Siamo certi che il sottosegretario Ferri è a conoscenza dei gravosi problemi della giustizia. Gli auguriamo buon lavoro nell’intesse delle istituzioni».
Berlusconi cita sempre il suo giudice a Berlino, la Cassazione. Come giudica questa continua evocazione?
«È un altro modo per delegittimare la magistratura e il supremo organo di legittimità. E poi, proprio mentre era in corso la nomina del nuovo primo presidente. Qualunque fosse stata la scelta è inaccettabile rappresentare quella votazione come un’ipoteca sull’esito delle future decisioni della Cassazione».
il Fatto 11.5.13
Ruby, punita la pm che smentì Maroni
Non credette alla storia della nipote di Mubarak, e non affidò Karima alla consigliera Minetti
Adesso dice: ”Mi aspettavo la condanna, ma lo rifarei”
di Antonella Mascali
Silvio Berlusconi potrebbe essere assolto al processo Ruby dall’accusa di concussione anche grazie al fatto che il reato è stato annacquato dalla legge sedicente anti-corruzione.
Annamaria Fiorillo, pubblico ministero minorile di Milano, invece, ieri è stata condannata dal Csm alla censura, in sede disciplinare, per aver difeso il suo onore di magistrato dicendo la verità alla stampa: la notte del 27 maggio 2010 (come pm di turno) non ho mai autorizzato la Questura ad affidare Ruby all’ex consigliera regionale Nicole Minetti (come si evince anche dalla registrazioni delle telefonate, ndr). Se la condanna sarà confermata dalle sezioni unite civili della Cassazione, avrà ripercussioni sulla carriera del magistrato. Ma lei rivendica la sua scelta: “Non sono stupita, lo avevo messo in conto. Rifarei quello che ho fatto”.
NEL 2010 si è decisa a rompere il silenzio, durato sei mesi, solo dopo l’intervento del ministro dell’Interno Roberto Maroni in Parlamento. Il 9 novembre Maroni riferisce che la polizia ha operato “sulla base delle indicazioni del magistrato. La correttezza della Questura è stata confermata anche dell’autorità giudiziaria”. Il riferimento è a una nota pubblica del procuratore Edmondo Bruti Liberati.
Fiorillo, circondata dai cronisti fuori dalla procura minorile, risponde: “Voglio si sappia che non ho mai autorizzato l’affido alla Minetti anche perché se Ruby è la nipote di Mubarak io sono Nefertiti regina del Nilo”. La pm minorile chiede pure tutela al Csm. Riceve un due di picche: “Nella vicenda non vi è spazio per l’intervento, pur legittimamente richiesto”. Nell’atto di incolpazione si insiste sulla sua partecipazione alla trasmissione In 1/2 ora di Lucia Annunziata: Maroni potrebbe aver dato quella versione dei fatti “per una ragione di Stato che non può essere così assorbente da consentire la violazione della legalità”. Ieri, la sezione disciplinare del Csm ha condannato Fiorillo alla censura per “violazione del riserbo”. Accolta, dunque, la richiesta del sostituto pg della Cassazione Betta Cesqui. La richiesta di giudizio era stata avanzata il primo ottobre 2012 dall’ufficio guidato dal pg Gian-franco Ciani.
Fiorillo, ieri, si è difesa fino a commuoversi: “Sono capitata in questa vicenda come Forrest Gump”. Nel 2010 decise di parlare per “un intento di natura etica”. Sull’affidamento di Ruby “diedi indicazioni assolutamente difformi” da Maroni. “Se fossi stata zitta avrei prestato acquiescenza a quella ricostruzione”. La pm ha ricordato che “per 10 giorni sono stata bombardata. Nelle trasmissioni televisive e sui giornali si metteva in discussione il mio operato”.
“Orgogliosa di essere un magistrato”, con le lacrime gli occhi, ha raccontato di aver parlato pensando a suo padre, magistrato come lei. Persino Cesqui, che ha chiesto la condanna, perché “il riserbo” innanzitutto, ha riconosciuto il clima di “elusività e ambiguità” che c’era rispetto a quanto accaduto in Questura.
Appassionata l’arringa del difensore, il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, che ha espresso un concetto fondamentale in merito all’accusa: Fiorillo non è malata di protagonismo, poteva difendersi solo parlando. Non c’è, infatti, alcun atto giudiziario che avrebbe potuto farlo al posto suo. “Nel riferire del suo intervento da magistrato ha detto solo la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. So bene che in questa sede non si discute direttamente della verità di ciò che ha detto il magistrato incolpato, ma delle forme... La verità è sempre importante in sé, ma in questo caso la verità è il fondamento del diritto che noi invochiamo a difesa: il diritto a ristabilire la verità sull’operato di un magistrato a fronte di rappresentazioni inesatte del suo modo di agire professionale”.
MA LA SEZIONE disciplinare del Csm, evidentemente, ha ritenuto, come il pg della Cassazione, che Fiorillo dovesse stare zitta anche di fronte alla “ricostruzione nociva” di Maroni, sia pure “in buona fede”. In conclusione, Rossi aveva chiesto l’assoluzione facendo un parallelo con Mani Pulite: “Il magistrato Fiorillo è sotto procedimento disciplinare. Un dato malinconico ma non nuovo. È già accaduto all’epoca di Mani Pulite a Davigo, Colombo, Greco... ”. Furono assolti. A quell’epoca proprio Rossi era giudice disciplinare: “Con lo stesso spirito con cui scrissi quelle sentenze ho difeso Anna Maria Fiorillo”. Ieri, a giudicare la pm sono stati due consiglieri laici del Pdl, Annibale Marini e Nicolò Zanon; Paolo Auriemma, togato di Unicost; Francesco Vigorito, togato di Area; Tommaso Virga, togato di Mi; Nello Nappi, togato indipendente (ex Area). Chissà se sulla sentenza abbia pesato la contemporaneità del processo a carico di Berlusconi. Anche se, come sottolineato dal difensore, il Csm non doveva emettere un verdetto sul merito dei fatti legati al caso Ruby (lunedì ci sarà la fine della requisitoria) ma solo sulla violazione del riserbo. Evidentemente ha pensato che Fiorillo non avrebbe dovuto smentire pubblicamente Maroni nonostante il silenzio, per usare le parole del difensore, l’avrebbe fatta apparire come “un magistrato poco scrupoloso e credulo verso la notizia” di Ruby nipote di Mubarak.
il Fatto 11.5.13
Giustizia e libertà, presidio davanti al tribunale
UN PRESIDIO davanti al Tribunale di Brescia dalle 10 alle 12 di oggi, per “esprimere solidarietà nei confronti della magistratura e contro gli attacchi del Pdl e di Berlusconi rispetto alle ultime due sentenze”. Lo ha organizzato il circolo bresciano di Giustizia e Libertà, che rimarca “la continua delegittimazione di magistrati” da parte del Pdl e la necessità di “difendere la loro indipendenza”. Al presidio hanno aderito anche Sel, la lista ’Marco Fenaroli - Al lavoro con Brescia’, che sostiene alle elezioni comunali del 26 e 27 maggio il candidato sindaco del centro sinistra, il capogruppo in Comune del Pd Emilio Del Bono. Lo stesso Del Bono questa mattina sarà davanti al Tribunale. Adesione, infine, dalla Cgil. “In un Paese normale, dopo una sentenza per un reato così grave, - si legge in un comunicato della Camera del lavoro bresciana - un politico si sarebbe già messo in disparte da tempo. In Italia così non è: anzi, dopo l’appello si fa la prova di forza di piazza. Noi non ci rassegniamo alla ’pacificazione normalizzatrice’ che tutto giustifica”.
il Fatto 11.5.13
Olivero: “Il Pd ci ha fatto votare Nitto Palma”
Il senatore montiano e il patto “segreto” con i democratici che hanno optato per la scheda bianca
di Sara Nicoli
Un conto è farlo, un altro è dirlo. Ma la cosa, alla fine, deve essere sembrata davvero in-digeribile al senatore Andrea Olivero, coordinatore dei montiani di Scelta civica, per continuare a tenerla per sé. Una questione di coscienza. Meglio vuotare il sacco. “Siamo arrivati al punto – ha raccontato in un'intervista al Secolo XIX – in cui il Pd mercoledì chiama noi di Scelta civica e ci chiede di votare per il pdl Nitto Palma. Precisando che loro però si sarebbero astenuti ufficialmente. Hanno detto: ‘voi votatelo e poi noi nel segreto dell’urna spostiamo qualche voto per farlo eleggere’. Insomma, l’hanno fatto eleggere senza votarlo. Così non si fa, non è serio: sono giochini da Prima Repubblica”. Cioè: il Pd non poteva rompere il patto con il Pdl di nominare Nitto Palma in commissione Giustizia, ma un voto come quello avrebbe spaccato il gruppo del Senato, dove alcuni esponenti di spicco come Felice Casson avevano già detto che non lo avrebbero votato.
COSÌ ha scelto di fare “il giochetto da Prima Repubblica”, dichiarando l’astensione, ma obbligando Scelta civica a sostenere Nitto Palma con quei voti che sarebbero mancati anche alla quarta votazione (quando basta la maggioranza assoluta dei voti). E infatti è finita esattamente così. Eppure, di via per uscire dal guado, il Pd ne aveva anche un’altra, che però avrebbe fatto saltare l'accordo con il Pdl. L’M5s, infatti, aveva proposto ai democratici di votare insieme Felice Casson. Ovviamente Luigi Zanda ha risposto di no, che “i patti dovevano essere onorati”. Sì, però poi bisogna vedere in che modo. “Se si va avanti così – ha proseguito Olivero – potrebbe arrivare il momento in cui non saremo più in maggioranza. Ma finché c’è, rispetteremo i patti; poi, non si capisce perché questa alzata di scudi su Nitto Palma, che non è mai stato indagato e ha gestito nella sua carriera processi delicati e importanti, Ghedini, non lui, sarebbe stato ‘una provocazione’”. Quindi non si capisce perché il Pd non l’abbia votato mentre “non ha sollevato alcun problema di coscienza per Formigoni, che è inquisito”. “Pdl e Pd si sono accordati sul metodo di spartizione informandoci a cose fatte. Noi abbiamo espresso il nostro disaccordo, anche perchè sono emerse scelte divisive per il Pdl” come “Damiano al Lavoro e Epifani allo Sviluppo economico, due ex Cgil”. Ma i patti, ha incalzato, “si rispettano o non si fanno”. Invece il Pd “prima ha piazzato i suoi e poi ci ha chiesto aiuto”, ma “non è che prendi quello che ti conviene e sollevi un problema di coscienza per il resto”. La rivelazione, com’era ovvio, ha costretto la presidenza del Pd al Senato a smentire ogni virgola delle parole di Olivero. “Non abbiamo imposto nessun vincolo a nessun senatore – ha replicato, inviperito, Luigi Zanda – abbiamo sempre e solo ricordato che quella presidenza era stata attribuita al Pdl che aveva indicato il senatore Nitto Palma. La ricostruzione del senatore Olivero è totalmente priva di fondamento! ”.
il Fatto 11.5.13
Capezzone in vita grazie a una flebo chiamata tv
di Paolo Ojetti
Nessuno saprà mai in base a quale criterio di competenza l’onorevole Daniele Capezzone è assurto alla presidenza della commissione Finanze della Camera dei deputati. Per fortuna, non si tratta né della commissione Bilancio né di quella degli Affari Costituzionali, che sono indispensabili per varare le leggi: la prima deve dire se qualcuno ha trovato i soldi per le nuove norme, la seconda se le stesse sono – a occhio e croce – costituzionalmente legittime.
D’altra parte, Capezzone non avrebbe avuto alcun pedigree né per l’una né per l’altra. Liceo classico in una scuola privata cattolica e romana, il San Giuseppe De Merode (upper class, benestanti, molta destra, nessun grillino) e qualche esame di giurisprudenza, Capezzone si è poi arreso, come recita la sua biografia buonista, al “fascino della politica”. E quel richiamo fascinoso non ha più abbandonato né lui e neanche chi ha dovuto, per anni, subire i suoi moniti televisivi, tutti uguali, tutti recitati come i bambini delle elementari ripetono le poesie: “La nebbiaglirticolli…”. Nell’ultimo quinquennio, Daniele Capezzone ha dato la dimostrazione tangibile che non facendo niente di memorabile per la politica, il costume, la cultura, si viene premiati in ragione inversamente proporzionale allo zero. Capezzone, che lo riconosca o meno, è stato tenuto in vita da quella flebo chiamata televisione. Apparire via via come “portavoce” di Forza Italia prima, del Polo e del Popolo delle Libertà poi, è sufficiente a garantire l’esistenza in vita del nulla ben pettinato. Anche quando le voci da portare erano finite e per lui si era aperta una fase di inesistenza, nessun microfono gli è stato negato per le inesauribili difese ad personam di Berlusconi: “giustizia a orologeria”, “magistratura politicizzata”, “clima persecutorio”, “sinistra giacobina”. Nelle giornate di magra, Capezzone ha fatto sempre gran comodo al giornalismo televisivo imbolsito. In fondo, le capezzonate passano ormai per geniali invenzioni linguistiche, moduli lessicali sublimi. L’ultima sua dichiarazione è, in questo senso, rivoluzionaria: “Bisogna ridurre la pressione fiscale”. Nessuno ci aveva pensato. Se per una qualche ragione, al neopresidente Capezzone le televisioni compiacenti avessero tolto i microfoni, sarebbe sparito senza lasciare tracce. Sarebbe però stata una grave perdita per le nuove generazioni che ora, guardandolo, sanno che si può conquistare un posto al sole con molte chiacchiere e un distintivo.
il Fatto 11.5.13
Campidoglio
Incubo su Roma. Alemanno resuscita grazie ai guai del Pd
Large intese e beghe di correnti, la sfida azzoppata per la Capitale
di Luca De Carolis
La rimonta del sindaco che ne ha fatte e sbagliate di tutti i colori è possibile, secondo i sondaggi. La paura del Pd romano è certa, stando a dichiarazioni ufficiali e ufficiose. Perché nella partita del Campidoglio, con primo tempo il 26 maggio, Gianni Alemanno guadagna metri su Ignazio Marino, giocando di contropiede sui mille guai dei Democratici: dalle correnti che non smettono di farsi la guerra ai dirigenti che diffondono perplessità sul chirurgo “troppo di sinistra e troppo civico”, sino ai ricaschi del governissimo su una base infuriata. E allora, invertendo o meno i fattori il prodotto resta quello: il rischio concreto di regalare di nuovo il Comune ad Alemanno. Lo stesso candidato che un paio di mesi fa sembrava bollito anche a Berlusconi, tanto che l’ex premier pensava di lanciare al suo posto Giorgia Meloni. Ma ora tutti i sondaggi raccontano che l’ex missino è a pochi passi da Marino. Ieri Datamonitor su Affaritaliani.it dava l’esponente Pd al 35 per cento e Alemanno al 32,4. Distanza identica per Euromedia sul Messaggero.it , con Marino al 37,4 per cento e il sindaco al 34,8. Le cifre parlano anche di un calo di Marcello De Vito (Cinque Stelle) e di una crescita di Alfio Marchini: convinto di poter salire ancora, per il voto disgiunto.
MA A COLPIRE è soprattutto un dato: in tutti i sondaggi, Marino prende minori consensi della sua coalizione (in media, il 2,5 per cento in meno). Segnale fosco in vista delle amministrative, dove l’obiettivo è sempre avere il candidato più alto della somma di partiti e liste che lo sostengono. “Il Pd al 26 per cento a Roma non è neanche male, a fronte delle stime che danno il partito nazionale al 22: è il candidato che non marcia” cannoneggiava ieri un anonimo dirigente. Eppure sino a una settimana fa il distacco tra Marino e Alemanno era di 6-7 punti. Cosa è cambiato? Forse hanno inciso anche gli annunci in puro stile Berlusconi di Alemanno: che prima ha lanciato un referendum anti-Equitalia (in sintesi: “Preferite che sia questa società a riscuotere i tributi o il Comune? ”), sancendo poi l’affidamento della riscossione al Campidoglio con una delibera. Poi ha riempito Roma di manifesti per annunciare la cancellazione dell’Imu per 376 mila famiglie, “grazie alla revisione delle rendite catastali”. Certo, il passaggio della riscossione al Comune dal 1° luglio era già previsto da una legge statale, e la revisione delle rendite catastali è tutt’altro che certa (“Potrebbe approvarla solo l’assemblea capitolina” sostiene Alessandro Onorato, Lista Marchini). Ma l’effetto annuncio paga. Il volano di Alemanno però rimane la tendenza del Pd a farsi del male, sempre e comunque. Anche a Roma, dove il partito è acefalo da fine aprile, dopo che il Comitato dei garanti ha dichiarato “decaduto” il segretario Miccoli: ufficialmente, perché parlamentare. Il resto lo stanno facendo dichiarazioni e spifferi in serie contro Marino, fortemente voluto da Goffredo Bettini e Nicola Zingaretti. Marco Follini l’ha detto chiaramente: “Voterò Marchini”. Al renziano Paolo Gentiloni, sconfitto alle primarie per il Comune, il Corriere della Sera attribuiva la seguente formula: “A Marino potremmo dare un sostegno distaccato”. Sempre il Corsera, ieri, ha disseminato aneddoti su un comitato Marino chiuso a doppia mandata ad aiuti esterni. Il portavoce di Zingaretti, inviato a supporto dal governatore, avrebbe lasciato perdere dopo una sola riunione. C’è chi ha scritto di una rissa interna.
DAL COMITATO replicano: “Siamo aperti a tutti, pochi giorni fa qui si è tenuta una riunione convocata da Eugenio Patanè (il reggente del partito romano, ndr) a cui c’erano Zingaretti, il segretario regionale Gasbarra, dirigenti e candidati. Non siamo affatto isolati. Per il resto, non commentiamo indiscrezioni anonime”. I sondaggi però sono nero su bianco: “I nostri danno Marino avanti sempre con un margine tra i 5 e gli 8 punti”. Ma la preoccupazione rimane. Ieri sul Messaggero Roberto Morassut, ex assessore con Veltroni, lamentava “asfitticità”, chiedendo a Marino di “allargare il respiro del suo messaggio”. E il comitato Alemanno ha subito infierito: “Marino è asfittico, lo dicono anche esponenti del suo partito”. Controreplica di Morassut: “Comitato Alemanno ridicolo”. Al Fatto, il deputato precisa: “Il mio non era un giudizio su Marino, parlavo della proposta politica del centrosinistra, che deve essere più incisiva”. Sullo sfondo, la nota dei segretari dei circoli Pd romani: “Nel partito le regole sono frequentemente aggirate e ignorate, e la lotta tra correnti e cordate ha raggiunto livelli patologici: da parte di iscritti ed elettori c’è sfiducia e distacco”.
il Fatto 11.5.13
Lavoro. Sei morti in un giorno, ma ormai non fa più notizia
La strage silenziosa troppo spesso ignorata dai media
Dall’inizio dell’anno sono morte oltre 170 persone
di Elisabetta Reguitti
Se un lavoratore subisce un infortunio sul lavoro, magari poteva stare più attento. Se muore, se l’è cercata. Diciamo come stanno le cose: i morti sul lavoro non interessano. A cominciare dai giornali che spesso non hanno spazio per scriverne su quelle stesse pagine tracimanti di chiacchiere dell’ultimo/a parvenu della politica. Morire lavorando è una “non notizia”.
A CHI POTREBBE mai interessare la vita dell’operaio di 45 anni di origine albanese rimasto folgorato dai cavi elettrici della linea che costeggia una strada in provincia di Alessandria? E la storia di Giovanni Cornacchia, travolto a 54 anni da un convoglio ferroviario di Monfalcone, o di Massimo Vianello conducente del taxi acqueo schiantatosi contro la darsena delle fondamenta nuove di Venezia? Chissà cosa stanno passando i familiari di Piergiuseppe Zanesi, l’elettricista 53enne deceduto a Cremona cadendo da una scala o ancora quale sarà stato l’ultimo pensiero di Fernando Belli (55 anni) di Roccamontepiano ucciso dalla pressa alla quale stava lavorando e infine come sarà la vita della famiglia di Giuseppe Mastrullo di 49 anni, agricoltore di Cerignola schiacciato dal suo stesso trattore? Sei lavoratori morti nello stesso giorno in cui a Genova si ricordavano le vittime dello speronamento della Jolly Nero. Dall’inizio dell’anno i decessi sul lavoro sono stati 172, di cui: 33% in edilizia, 31% in agricoltura, 17,5% nei servizi, 6,5% nell’autotrasporto e 5,5% nel-l’industria percentuale apparentemente bassa che risente delle molteplici chiusure. Per le stime se a questi 172 si aggiungono i decessi stradali per raggiungere il posto di lavoro, si raggiunge tranquillamente quota 300.
Il sacrario virtuale dei caduti sul lavoro nella home page dell’Osservatorio indipendente di Bologna attivo dal primo gennaio 2008, è inesorabile. Da quel giorno ha infatti contato oltre 5000 morti di cui 2553 sul lavoro e i rimanenti sulle strade. I cosiddetti “in itinere” nel perenne paradosso in cui chi muore durante il trasferimento da e per il posto di lavoro viaggio stenta a essere riconosciuto dalle percentuali ufficiali. Beppe Giulietti, portavoce di Articolo21, da sempre in prima linea sulla questione è chiaro: “Stiamo parlando di un argomento che diventa interessante solo se può essere risolto con espressioni quali tragica fatalità, destino cinico e baro, riassunto con le inquadrature delle lacrime dei familiari, ma sempre che si tratti di un incidente in cui muoiono almeno cinque persone. Viene derubricato invece, quando si tratta di affrontare temi come lavoro in subappalto, irregolare e di mera organizzazione e impiego di persone”. Nel 2012 sono morti 1180 lavoratori. Molte vittime non avevano alcuna assicurazione e lavoravano in nero.
E SE LA POLITICA sulla sicurezza sul lavoro risulta non pervenuta, i sindacati talvolta assumono comportamenti come quelli denunciati da un portuale a Genova: “Ci dicono di continuare a lavorare nello stesso posto dove stanno ancora cercando i nostri compagni”. L’unico ricorso alla Commissione europea in tema di salute sul lavoro è stato presentato da Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico, che conduce la sua battaglia in solitaria dalla quale è scaturita l’ennesima procedura di infrazione per l’Italia. Ma ogni Governo fa spallucce. Secondo alcune indagini si muore anche quando le fabbriche sono chiuse durante i lavori di manutenzione che vengono spesso affidati a lavoratori improvvisati che pur di raccattare due soldi sono pronti a svolgere mansioni che, al contrario, richiederebbero specifiche competenze. Ma il peggio arriva dopo, sia per le famiglie che per i superstiti. Solo ieri una donna di 42 anni si è incatenata davanti al Tribunale di Bari. Da oltre 7 anni attende l’esito della sua causa di invalidità per l’incidente in cui rimase schiacciata da un carrello di 10 quintali. Si salvò riportando danni fisici permanenti. Tre mesi in terapia intensiva avevano costretto il marito a lasciare il lavoro per accudire i tre figli. Lui è ancora disoccupato, lei attende giustizia.
Corriere 11.5.13
Quel «normale» giovedì con 8 «morti bianche»
Calleri (Cgil): «Sicurezza sul lavoro, emergenza per il governo Letta. Occorre finanziare servizi ispettivi e prevenzione»
di Alessandro Frulloni
qui
Corriere 11.5.13
Che cosa spinge a colpire volti e corpi delle donne
Così la sofferenza dura nel tempo
di Isabella Bossi Fedrigotti
La terza donna che in pochi giorni è stata sfregiata con l'acido non è grave ed è già uscita dalla rianimazione. Ora gli inquirenti indagano su come è accaduto davvero. È andata peggio alle altre due, colpite agli occhi e con la vita sconvolta. Famiglia, amicizie, studi, lavoro, progetti, speranze: tutto demolito per anni o anche per sempre. I loro corpi devastati non li vedremo, ma abbiamo visto quelli delle loro tragiche consorelle pachistane, indiane, afghane che hanno subito lo stesso trattamento: non da parte di sconosciuti, ma dei loro uomini, ex fidanzati, ex amanti, ex mariti che hanno scelto questa punizione, la più crudele di tutte probabilmente, perché intesa a colpire il profondissimo cuore della femminilità.
Ma cosa spinge un uomo, nato e cresciuto in Occidente, non figlio di interminabili guerre, né di malintesi fondamentalismi religiosi e neppure di nera miseria o di atavica ignoranza, a voler annientare in questo modo barbaro l'esistenza di una donna che magari un tempo ha abbracciato, accarezzato, baciato, amato e desiderato?
Quale odio feroce, quale rancore infinito, quale perversione inguaribile lo porta a distruggere il volto o il corpo di una donna, il che per qualcuna potrebbe rappresentare un destino peggiore della morte?
È sempre la solita, un'antica storia secondo la quale lei va punita perché se ne è andata, perché è innamorata di un altro, perché di lui non ne vuole più sapere? C'è chi ammazza per questo, già tristemente lo sappiamo, e da anni ne scriviamo senza che ancora si sia trovato l'antidoto giusto. Anzi ce ne sono moltissimi di quelli che ammazzano. Adesso vi si aggiungono quelli che sfregiano con l'acido. Pensano di essere meno assassini? Oppure è una questione di danaro nel senso che assoldare un lanciatore di acido costa meno di un vero killer?
Più probabilmente su tutto vince la crudeltà: preferiscono sfigurare perché se l'ammazzassero la loro vittima, l'odiata femmina macchiatasi del peccato di lesa maestà, non soffrirebbe più, non potrebbe più disperarsi, ed è proprio questo che bramano nel loro terrificante delirio di vendetta.
Non scrivetene più, ci suggeriscono i lettori, perché è un fenomeno di emulazione. Potrebbero avere ragione: ma davvero basta un fatto di cronaca nera letto su un giornale o sentito in tv per svegliare dentro qualcuno un animale così feroce?
Forse, per fermarli, alla pari di assassini dovrebbe trattarli la legge, esattamente come quelli che sparano o accoltellano.
Repubblica 11.5.13
Il marchio indelebile del maschio
di Michela Marzano
LA VIOLENZA è sempre distruttiva e sempre ingiustificabile. E anche quando si cerca di spiegarla, arriva il momento in cui le parole non servono, non bastano, non ci aiutano. Forse perché le parole servono per mettere ordine nel mondo e diminuire la sofferenza degli esseri umani, come spiegava Albert Camus, mentre la violenza sfida l’ordine e impone il disordine delle pulsioni. Tutte quelle pulsioni distruttive che si scatenano quando vengono meno le dighe psichiche della civiltà e del rispetto reciproco. Come trovare allora le parole giuste per qualificare questi nuovi atti di barbarie contro le donne che si stanno diffondendo nelle ultime settimane e che portano alcuni uomini ad utilizzare l’acido per sfigurare le donne?
Certo, utilizzare l’acido per sfigurare una donna è una forma di violenza, esattamente come quando si utilizza un coltello o un’arma da fuoco. Ancora una volta, si tratta molto probabilmente di imporsi a chi, in situazione di fragilità, non è capace di difendersi. Ancora una volta, è un modo, per alcuni uomini, di rinviare le donne alla propria insignificanza. Ma quando si usa l’acido, forse c’è anche altro. Come se la donna dovesse portare con sé, fino alla fine, il segno indelebile e visibile della violenza subita. Come se quell’acido che corrode dovesse diventare il simbolo della sottomissione.
La società sta regredendo. Non solo tornano in auge vecchi pregiudizi e vecchi stereotipi, ma torna anche in superficie qualcosa che, per utilizzare il linguaggio della psicanalisi, si credeva ormai sublimato: la violenza delle tracce e delle cicatrici. Mostrare e rendere visibile quella che alcuni pensano essere l’inferiorità femminile. Lasciare il segno di quella che, forse, alcuni uomini considerano una colpa, ossia il semplice fatto di essere donna. È come se gli uomini, incapaci di trovare un proprio posto nel mondo, accusassero la donna di danneggiare la propria virilità e volessero vendicarsi. Non si tratta più solo di affermare il proprio “diritto” a trattare le donne come oggetti, come cose, come mercanzie, come prodotti. Si tratta anche di costringerle a portare su di sé il marchio della propria inferiorità.
L’acido corrode, rovina, distrugge a piccole dosi. L’acido lascia un segno permanente. L’acido cancella i contorni e le forme. È per questo che il fatto di utilizzarlo sembra indicare la volontà di cancellare la specificità di “questa” o “quella” donna, costringendola all’anonimato dell’informe.
Repubblica 11.5.13
Anna Costanza Baldry, psicologa, è responsabile di uno sportello antistalking:
“Viviamo ogni giorno la delusione di campagne fumose”
“È una punizione della bellezza e dell’identità giusto parlarne, ma c’è il rischio emulazione”
di Maria Novella De Luca
ROMA — «È come uccidere una persona lasciandola in vita, perché non possa dimenticare, costretta con quello sfregio a ricordare ogni giorno l’uomo che l’ha rovinata, soltanto, magari, perché lei voleva lasciarlo». Oggi è l’acido, ieri era il coltello: la violenza cambia forma ma la ferocia è la stessa, spiega Anna Costanza Baldry, psicologa, responsabile degli sportelli anti-stalking dell’associazione “Differenza donna”. E visto che oggi mogli, figlie, madri e fidanzate denunciano, la reazione degli uomini è più acuta che mai.
Perché con l’acido, professoressa Baldry?
«Cinicamente si può dire perché è un mezzo facile da usare, costa pochissimo, non ha bisogno di contatto fisico, e lascia la vittima sfigurata per sempre. Ma un tempo i maschi usavano il coltello per arrivare allo stesso criminale risultato».
Lei crede che ci possa essere un meccanismo di emulazione?
«Purtroppo sì, ma non si può smettere di denunciare. Anche se in soggetti aggressivi, disturbati, ad esempio maschi che vedono le donne come possesso, si possono innescare comportamenti di imitazione».
Colpiscono al viso, precisi, feroci...
«Il viso è la bellezza, l’identità, ci caratterizza, è ciò che mostriamo. Nel pensiero dell’uomo che sfregia c’è il desiderio di distruggere l’armonia, di rendere indelebile quella punizione. È una esecuzione senza morte».
Lei ha lavorato nelle carceri. Ha incontrato violentatori pentiti?
«Quasi mai. Ho visto stupratori condannati con sentenza definiva che continuavano a proclamarsi innocenti, mistificavano la realtà e avevano una rabbia tremenda contro colei che li aveva denunciati, la ex, la fidanzata, la moglie, o anche la vittima sconosciuta. Il problema è che questi uomini poi escono. E si vendicano».
I casi aumentano. Il femminicidio è una strage continua.
«Più le donne denunciano, più la rabbia maschile diventa forte. Però se da una parte c’è una escalation di violenza, dall’altra questi numeri testimoniano il coraggio femminile di rompere il silenzio».
Ma come difendersi? Task force, braccialetto elettronico, maggiore repressione?
«Va tutto bene, purché non siano soltanto spot politici. Noi che lavoriamo nei centri antiviolenza, che sono gli unici rifugi delle donne in pericolo, viviamo sulla nostra pelle la delusione di queste campagne che poi non si traducono in fondi, risorse, cose concrete ».
Ad esempio?
«Per combattere la violenza sessuale bisogna investire nell’educazione, nelle scuole, per proteggere le donne e i bambini ci vogliono soldi per i centri, stanziamenti per le battaglie legali, supporti per aiutare chi è stato vittima di stupro, di abusi domestici a reinserirsi nella società. Altrimenti sono soltanto parole».
Corriere 11.5.13
Addio Internazionale socialista: l'Spd si prepara a lanciare una nuova Alleanza progressista
di Paolo Lepri
L'Internazionale socialista ha i giorni contati, almeno nella sua versione storica, che si identifica soprattutto con l'immagine, e la forza, di Willy Brandt, suo presidente dal 1976 al 1992. Erano altri tempi, e proprio dalla Spd, che ha avuto nell'architetto della Ostpolitik il suo leader carismatico, viene l'impulso ad aprire una pagina nuova.
I dirigenti socialdemocratici tedeschi sono spesso divisi su molte questioni — ultimamente, perfino, sul limite di velocità di 120 chilometri all'ora nelle autostrade — ma su questo argomento la pensano allo stesso modo. A parlare per tutti è stato il presidente Sigmar Gabriel, in un'intervista a Focus: «Bisogna rendersi realisticamente conto che l'Internazionale socialista non ha saputo negli ultimi anni dare un contributo sostanziale per limitare gli eccessi del mercato finanziario o per affrontare le altre sfide globali». Gli ha fatto eco Hans-Jochen Vogel, candidato cancelliere nel 1983, deplorando il «silenzio» dell'organizzazione fondata nel 1889 che riunisce oggi ben 150 partiti.
C'è anche già una data per promuovere questo cambiamento: è quella del 23 maggio, quando la Spd festeggerà a Lipsia il proprio centocinquantesimo anniversario alla presenza del presidente francese François Hollande e di decine di leader socialisti di tutto il mondo. Sarà l'occasione giusta — si pensa al Willy-Brandt-Haus, il quartier generale berlinese del partito — per promuovere a tutti gli effetti una nuova «cosa» che si chiamerà «Alleanza progressista». D'accordo, anche se con qualche prudenza, i socialisti francesi. Molto interessato il Partito democratico italiano, che ha promosso a Roma in dicembre una riunione internazionale per la quale era stata scelta proprio quella etichetta. Il Pd, tra l'altro, non ha aderito dopo la sua fondazione all'Internazionale socialista. Coinvolti nelle discussioni di queste settimane anche i laburisti britannici.
La percezione di un logoramento del ruolo dell'Internazionale socialista era ben chiara da tempo. Non è un caso che i dirigenti della Spd abbiano deciso all'inizio di quest'anno di ridurre il contributo annuale da 100.000 a 5.000 sterline (il segretariato dell'organizzazione è a Londra) e di «retrocedersi», come il partito di Miliband, ad osservatori. Ma già due anni fa Gabriel aveva toccato il tasto più delicato, quello riguardante la presenza di forze politiche e di leader che niente avevano a che fare con la tradizione del socialismo democratico. È stato il caso del raìs egiziano Hosni Moubarak, del presidente tunisino Ben Ali, del numero uno del Nicaragua Daniel Ortega. Un'etichetta buona, insomma, per dare copertura a tiranni.
I socialdemocratici tedeschi vogliono invece costruire una «rete» che possa rafforzare l'elaborazione collettiva dello schieramento progressista. Aperta al mondo, ma senza nostalgie e concessioni al passato. Il successo o meno di questo progetto, però, non può non essere determinato anche e soprattutto da una forte prospettiva europea, in cui le idee siano il punto di partenza per un dialogo a tutto campo sulle soluzioni più efficaci per superare la crisi. Un'alleanza per l'Europa, senza contrapposizioni schematiche, potrebbe essere il risultato più importante della svolta di Lipsia.
Le Monde 10.5.13
Les violences révèlent les crispations des ultra-orthodoxes en Israël"
par Manon Rescan
qui
Israël : échauffourées devant le mur des Lamentations
un video Reuters qui
l’Unità 11.5.13
Vincono le donne del Muro: preghiere sotto scorta
di U.D.G.
Donne contro al «Muro della discordia». Diverse centinaia di donne ebree «haredi» (timorate) hanno manifestato ieri davanti al Muro del Pianto per impedire alle «Donne del Muro» di pregare come gli uomini, così come previsto da una decisione di una Corte di Gerusalemme. Secondo i media, le fedeli ortodosse che hanno risposto all’appello diffuso dai rabbini della congregazione come Ovadia Yosef a e altri hanno lanciato spazzatura e acqua contro le donne emancipate intenzionate ad avvicinarsi al Muro per pregare indossando indumenti sacri riservati dalla tradizione ai maschi. È intervenuta la polizia per dividere i due gruppi e si sono verificati alcuni scontri. I rabbini del movimento riformato, del quale fanno parte «Le Donne del Muro» hanno sostenuto che i rabbini ortodossi nonostante questi avessero chiesto una protesta senza alcuna violenza con i fatti avvenuti ieri hanno «dissacrato la santità del posto».
SFIDA LAICA
Le femministe hanno cercato di avvicinarsi al luogo più sacro dell’ebraismo: chiedono di poter pregare come gli uomini, indossando i tallit (lo scialle da preghiera), i tefillin (scatolette di cuoio legate con le cinghie, contengono versetti sacri) e di poter recitare la Torah ad alta voce (t’fila in ebraico vuol dire preghiera). Sono le quattro «T» simbolo della protesta che gli haredim leggono come una sola parola: tradimento dell’ortodossia.
Secondo il portavoce della polizia Micky Rosenfeld, mille ultraortodossi sono stati allontanati dalla manifestazione delle «Women of the Wall», che ogni mese si danno appuntamento al Kotel (Muro del Pianto o Muro occidentale) per la rituale preghiera, ma questa volta legalmente. Gli ultraortodossi hanno tentato di forzare il passaggio, alcuni insultando i poliziotti, altri attaccando le attiviste. I dimostranti hanno lanciato bottiglie d'acqua, sacchi di immondizia, sedie di plastica o uova, sia sugli agenti, che sulle donne. La polizia ha arrestato cinque ultraortodossi con l’accusa di aver creato «disordine pubblico». Ad aprile, un tribunale ha concesso alle donne di pregare davanti al Muro e di indossare il talled, uno scialle riservato agli uomini. Circa 400 le attiviste che si sono presentate ieri: «Siamo orgogliose e felici di avere pregato in tutta libertà e in pace», ha spiegato una responsabile, ringraziando la polizia per l’aiuto. «È un momento storico», afferma una portavoce delle Donne del Muro, Shira Pruce, aggiungendo che «la polizia ha fatto un lavoro meraviglioso proteggendo le donne per permettere loro di pregare liberamente al Muro occidentale. Questa è la giustizia». La polizia, ha riferito la portavoce, ha poi accompagnato le donne in autobus, i quali sono stati colpiti con pietre da manifestanti mentre stavano lasciando la Città vecchia di Gerusalemme.
Shmuel Rabinowitz, un rabbino che in passato aveva definito le iniziative delle donne come «una provocazione», ha cercato di allentare le tensioni. «Nessuno in Israele vuole che ci sia una disputa al Muro occidentale», ha detto in un’intervista alla radio dell’esercito. Il Muro, il luogo più sacro dell’ebraismo, è attualmente diviso in sezioni separate per uomini e donne. Ad aprile le autorità israeliane avevano proposto di creare una nuova sezione, in cui uomini e donne potrebbero pregare insieme. La proposta dovrà essere approvata dal governo.
il Fatto 11.5.13
Le donne accapigliate del Muro del Pianto
Scontri a Gerusalemme tra ultraortodosse ed “emancipate” per la preghiera nel luogo più sacro dell’ebraismo
di Roberta Zunini
Gerusalemme Armate dei sacchetti della spazzatura che intasano per giorni i vicoli del loro quartiere, Mea Sharim, rigorosamente abitato da Haredim (timorati in lingua ebraica, ebrei ultraortodossi), un gruppo di ragazze con le gonne lunghe e i capelli nascosti nella cuffia, prima di lanciarli contro “le emancipate”, hanno guardato i loro padri dritti negli occhi spiritati, sgranati sotto il cappello nero a falde larghe o largo e piatto, un disco ricoperto di pelliccia, ricordo della diaspora in Polonia. Ricevuto il consenso, le giovani studentesse delle scuole ultrareligiose di Gerusalemme, non hanno esitano a scagliarli, rinforzati da sputi, bottiglie d'acqua e lattine vuote e anatemi contro le Donne del Muro.
L'associazione di donne religiose ebree, definite anche “emancipate”, seguaci del movimento ebraico riformato, che lottano da decenni per poter pregare davanti al Kotel, il Muro del Pianto, indossando i paramenti concessi agli uomini e seguendo gli stessi riti: leggere la Torah, portare il talled (il mantello bianco a strisce blu), il tefillin (astuccio con le scritture che si legano sulla testa durante la preghiera) e il kippah (copricapo).
La disputa, anche sotto il profilo giuridico, va avanti dal 1988. Ma ieri mattina nel luogo più sacro dell'ebraismo, è andata in scena la prima di una pièce inedita: l'aggressione fisica da parte di giovani, fomentate dai loro padri e dai rabbini più retrivi. Mentre i genitori, dentro i loro cappotti neri da corvi pazzi, le incitavano, saltando e sbraitando, all'odio fisico contro le loro coetanee e le loro madri, colpevoli di volere la parità con gli uomini nell'invocare l'Altissimo, le piccole “timorate” sono state raggiunte da una squadra di poliziotte sgomente. “Ma siete impazzite del tutto”,? urla la più nerboruta mentre due adolescenti esagitate la scalciano da tutte le parti.
Alla fine solo un lungo cordone formato da decine di divise riesce a frenare padri e figlie. Il bilancio ufficiale parla di tre poliziotti feriti mentre due Haredim sarebbero stati portati dritti in cella di sicurezza.
La pièce, sembra fosse stata provata a lungo dalle scuole ultraortodosse, con tanto di “scouting” tra le ragazze più osservanti e plagiabili, per debuttare proprio ieri, primo giorno del mese, secondo il calendario ebraico. Quando le Donne del Muro vanno in pellegrinaggio al Kotel, nonché prima data disponibile dopo la sentenza del 25 aprile, giorno in cui la Corte distrettuale di Gerusalemme aveva stabilito che alcune donne non avevano violato i “costumi locali” né “disturbato la quiete pubblica”, pregando secondo la ritualità maschile nella sezione femminile del Muro.
IL 6 MAGGIO inoltre, il procuratore generale israeliano, Yehuda Weinstein, aveva annunciato che lo Stato non dovrebbe fare ricorso contro la decisione della Corte, deludendo le scuole rabbiniche ultraortodosse che non esitano a strumentalizzare la fede delle adolescenti. Ora il problema rimbalzerà davanti al nuovo ministro del Commercio e degli Affari Religiosi, il 40enne rampante Naftali Bennet.
Il leader di Habayit Hayehudi (Focolare ebraico), il partito nazionalista che ha preso moltissimi voti alle elezioni del 22 gennaio scorso e che, grazie alla coalizione con Yesh Atid ( C'è futuro), il partito centrista dell'ex giornalista televisivo Yair Lapid - vero trionfatore e ora ministro delle Finanze - sta ribaldando gli equilibri politici, e per questo è accusato dai dirigenti del partito ortodosso Shas di averlo fatti fuori dal governo, dopo ben vent'anni di inciuci con i partiti vincenti per la formazione dei classici governi israeliani di unità nazionale. Tempi duri per i “timorati”.
La Stampa 11.5.13
Dietro lo scontro culturale la lotta fra due idee di Israele
I “fondamentalisti della Torah” fuori dal governo per la prima volta da 30 anni
di Francesca Paci
Il ruolo della donna è regolato dalla «Tzanua» il concetto di modestia nei costumi
Il gruppo delle «Donne del Muro» durante la preghiera al Muro del Pianto
Si ispirano a un ebraismo «liberal» che si è sviluppano specie negli Stati Uniti
Gli ortodossi sono solo il 10% ma vorrebbero imporre norme come i posti separati sui bus
Farà prima Natan Sharansky a sintonizzare le preghiere delle Women of the Wall sulle frequenze dei rabbini ultraortodossi o Tzipi Livni a rilanciare il dialogo con i palestinesi? I bookmakers israeliani puntano sulla ministra della giustizia, perché delle due mission impossible del premier Netanyahu quella assegnata al presidente dell’Agenzia ebraica tira in ballo equilibri precari assai precedenti al 1948.
La battaglia per il Muro del Pianto racconta lo scontro più ampio in corso tra la Start Up Nation proiettata verso il futuro e gli haredim, i fondamentalisti della Torah, che pur rappresentando solo il 10% della popolazione partecipano da trent’anni alle coalizioni di governo assicurandosi una buona fetta del budget tra esonero dalla leva e scuole religiose. Ma se la maggioranza degli israeliani affronta il ruolo politico di Dio al momento del voto, che quest’anno si è risolto in una disfatta per i rabbini massimalisti rimasti fuori dal gabinetto, le Women of the Wall preferiscono la prima linea, il mitico Tempio di Gerusalemme, quella porta del cielo così angusta per loro nonostante l’ebraismo sia una religione che si trasmette di madre in figlio.
La bestia nera dell’emancipazione femminile si chiama Tzanua (che in ebraico sta per modestia), un dogma più che un’auspicata virtù muliebre impresso sui cartelli intimidatori agli incroci di Mea Shearim, enclave ultraortodossa di Gerusalemme. Regola numero uno vestire di scuro, bandire i pantaloni (fascianti) e le maglie col collo a V (rivelatrici di sinuose profondità), indicare il proprio status di maritata coprendo i capelli (con cappello, foulard o parrucca) indossare calze spesse e, a voler strafare, privilegiare le scarpe chiuse. E pazienza se il lungo mare dell’iper liberale Tel Aviv pullula di bikini essenziali come neppure Copacabana: anche lì, dove coppie di militari omosessuali si abbracciano tenendo il mitra in spalla, s’è fatta spazio una spiaggia per religiosi doc con una staccionata protettiva intorno e le bagnanti rilassate nei loro austeri costumi-abiti, castigati al pari dei burqini islamici ma realizzati in sottili tessuti high tech a prova di annegamento.
Anche i rabbini più oltranzisti ammettono che alcuni divieti sono presi forse un po’ troppo alla lettera, specialmente in un paese futurista al punto che non riesce più a chiamare un taxi senza l’applicazione iPhone. L’integerrimo Moshe Feinstein per esempio, ha sempre esecrato ogni promiscuità tra i sessi (compresa la stretta di mano) facendo eccezione però per i luoghi di lavoro, i treni o l’affollatissima metropolitana di New York, situazioni limite perché considerate «contatto fisico non intenzionale». Ciò non ha impedito che una decina di anni fa una compagnia di trasporti privata di Tel Aviv inaugurasse gli autobus con i posti separati nel sobborgo ultraortodosso di B’nai Brak mettendo il governo di fronte al fatto compiuto e le donne ribelli come la soldatessa diciottenne Doron Matalon alla stregua di una Rosa Parks israeliana costretta ad appellarsi alla Corte Suprema. Da allora si sono moltiplicate le proteste ma anche i pullman della discordia e i marciapiedi per soli uomini.
Il problema, come provano le ambizioni «ecclesiastiche» delle Women of the Wall (che vorrebbero pregare più devotamente), non è la religione di per se ma le consuetudini religiose. Soprattutto quando il brand «modestia», come qualsiasi brand identitario nell’indistinta era global, può diventare un business. «Gli autobus separati sono una grandiosa opportunità di fare soldi con gli haredim» racconta la scrittrice ebrea ortodossa Naomi Ragen, riferendo proprio la riflessione di un haredim. Basta vedere la quantità di siti che commercializzano casti abiti femminili khoser ( o quelli per single osservanti). L’ultima parola? La sfida è donna, al Muro del Pianto come nelle cabine del Ye’elat Chen Salon, dove, in un sottoscala a dir poco nascosto, le gerosolimitane più ortodosse (e le musulmane che discretamente arrivano dalla zona araba della città) si fanno belle per il marito ma soprattutto per loro stesse.
il Fatto e The Independent 11.5.13
L’orco di Cleveland e il mito infranto della comunità
La rete relazionale che rappresenta un pilastro della società americana
di Rupert Cornwell
Cleveland (Ohio) Che ne è stato della mitica comunità americana, di quel luogo idilliaco di amicizia e tranquillità dove non v’è problema che non possa essere risolto con spirito comunitario e dove mai nulla di brutto accade? L’inverosimile storia delle tre ragazze rapite e tenute prigioniere per dieci anni in una casa a Cleveland, Ohio, solleva molti interrogativi. È difficile credere che non abbiano mai avuto l’occasione di sfuggire al controllo di quell’unico carceriere, Ariel Castro, ponendo fine al loro tormento. Non sarà che tra Castro e le sue vittime, Amanda Berry, Gina DeJesus e Michelle Knight, si era andata sviluppando una sorta di sindrome di Stoccolma? A dirla tutta, nemmeno la polizia ha fatto una gran figura avendo ignorato persino la segnalazione dei vicini che avevano visto una donna completamente nuda che camminava nel giardino a quattro zampe con un collare da cane al collo.
Ma il mistero più grande è quello dei vicini. Possibile che in così tanti anni nessuno abbia avuto il minimo sospetto e abbia fatto scattare l’allarme?
In America cose del genere non dovrebbero accadere. Al limite le si può concepire nei centri urbani, ma certamente non nei quartieri residenziali dove si fa festa in strada, dove d’estate agli angoli delle strade i ragazzini vendono la limonata fatta in casa e dove tutti sanno tutto di tutti. Il concetto di “comunità” è un pilastro portante della società americana.
INOLTRE QUESTO è il Paese nel quale hanno inventato il Neighbourhood Watch, una sorta di vigilanza di quartiere che – come si è visto nel caso del giovane Trayvon Martin ucciso in Florida con un colpo di pistola l’anno passato – qualche volta assume i contorni sinistri e inquietanti degli squadroni di vigilantes.
Comunque sia, il senso di comunità è vivo negli Stati Uniti più che in altri Paesi occidentali. Anche chi abita a Washington crede di conoscere tutti i suoi vicini di casa. Il termine rassicurante e confortante di “comunità” permea l’intera società americana. Chiunque fa parte di una comunità: quella della scuola dei tuoi figli, quella dei disabili, quella dei gay e così via. Una comunità – a parte quella del quartiere in cui vivi – non si nega a nessuno. Spesso nelle comunità vigono regole molto severe. Chi abita in un condominio di villette non può dipingere la sua casa del colore che più gli piace e deve falciare l’erba del prato ogni settimana.
E il sistema vale anche per la vita politica dominata dalle lobby e dai gruppi di interesse. Si parli di assistenza sanitaria o di riforma del sistema bancario o di controllo delle armi, ogni disegno di legge discusso al Congresso, altro non è che uno scontro tra gruppi di interesse, cioè a dire tra “comunità”.
La National Rifle Association è un’organizzazione che mette paura, ma è anche una “comunità di possessori di armi”. Mi sono sempre chiesto se questo aspetto della cultura americana non sia mutuato dalla Germania. Spesso si sottovaluta il fatto che il gruppo etnico storicamente maggioritario negli Stati Uniti è quello tedesco e non quello italiano o irlandese o britannico. Ho vissuto in Germania e ricordo benissimo come fosse impensabile non rispettare le norme non scritte della comunità nella quale vivevi. Cleveland rappresenta in qualche misura la fine di una illusione.
Se scopo delle comunità è quello di garantire la sicurezza dei cittadini, il caso di Cleveland testimonia un tragico fallimento. Nel quartiere abbastanza povero nel quale abitava Castro, nella zona ovest di Cleveland, vivono molte famiglie di origine portoricana. E tuttavia se avessero fatto il loro dovere e se la polizia avesse fatto il suo, gli orrori cui sono state sottoposte le tre ragazze sarebbero durati molto di meno.
Quando ci si trasferisce in un nuovo quartiere si ha la tendenza a pensare che i vicini siano tutte persone perbene. Se vedi qualcuno scavare un buca in giardino non ti passa per la testa che si tratti di un serial killer che sta facendo sparire il corpo della sua ultima vittima. Eppure in America ogni anno vengono rapiti oltre 100 bambini. E non di meno quando vedi una casa con le imposte sempre chiuse, non pensi che dietro quelle persiane potrebbe trovarsi uno dei cento bambini scomparsi e che in quel preciso momento forse lo stanno torturando o abusando.
CHARLES RAMSEY, il cui colorito racconto di come ha tratto in salvo Amanda Berry lo ha fatto diventare una celebrità, sottolinea esattamente questo aspetto. Ramsey era vicino di casa di Castro da un anno e non aveva notato nulla di strano. Qualche volta Ramsey e i vicini avevano intravisto le ragazze, ma avevano dato per scontato che si trattasse delle nipoti.
Quanto al salvataggio, parlando alla tv ha detto: “Non sono un eroe; sono un cristiano e un americano”.
In altre parole, lo spirito di comunità secondo Ramsey è tutt’altro che morto. Parlando a un’altra emittente, Ramsey ha detto: “Ci conosciamo tutti. A Castro davo la posta quando tornava a casa e mi invitava a mangiare con lui quando faceva il barbecue. Non ho mai avuto il minimo sospetto”.
Forse ci aspettiamo troppo dallo spirito di comunità. Anche nelle comunità più unite può accadere qualcosa di impensabile. La storia di Cleveland – orribile, incomprensibile, fortunatamente riscattata da un relativo lieto fine – prova che non possiamo dire di conoscere bene nessun essere umano, nemmeno quello che vive nella villetta accanto alla nostra. Così è e così è sempre stato.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
il Fatto 11.5.13
Francia: Sopprimere il termine razza”
Il gruppo dei deputati del Front de gauche ha presentato una proposta di legge per sopprimere il termine “razza” dalla legislazione francese, ovvero espungerlo dal codice penale, codice di procedura penale e dalla legge del 1881 sulla libertà di stampa. Ansa
La Stampa 11.5.13
“Quando Merkel preferiva la Ddr alla Germania unificata”
Attesa in Germania per la prossima uscita del libro “La vita sconosciuta della cancelliera nella Ddr”. Secondo gli autori avrebbe avuto ruoli politici non secondari nelle file della Sed
di Alessandro Alviani
qui
Corriere 11.5.13
«La Merkel giovane comunista
non credeva nella riunificazione»
Una nuova biografia non autorizzata a quattro mesi dal voto. Corsa in libreria
di Paolo Lepri
qui
La Stampa 11.5.13
Cina, la lotta alla corruzione fa male al lusso
Calano i consumi, colpa della stretta sui burocrati?
di Ilaria Maria Sala
Cala la vendita dei prodotti di lusso in Cina, vittima imprevista della campagna anti-corruzione voluta dal nuovo presidente cinese Xi Jinping, in carica da marzo ma che ha fatto della lotta alla corruzione il suo cavallo di battaglia già dalla sua nomina lo scorso anno. Da quando il Presidente ha deciso di procedere con una campagna, assai mediatica in verità, per limitare le vistose spese di tanti funzionari cinesi (accompagnata però dall’arresto di alcuni attivisti anti-corruzione), i corrotti cinesi si muovono con una malcelata circospezione. Si tratta di rendersi meno individuabili come «sperperatori» di fortune ottenute illegalmente, e mantenere invece un profilo più basso. Il tutto mentre continuano controlli e denunce sul web contro chi vive alla grande con soldi pubblici. Una recente inchiesta della tv «Cctv» mostra come le vendite di alcolici di importazione stiano calando del 24% - pur considerando che dallo scorso anno la Cina è divenuta il primo mercato al mondo per il cognac – per tutti i prodotti che costano più di 150 euro a bottiglia. Fino al 35% di questi prodotti infatti erano per consumi governativi. I ristoranti di lusso, dopo le innumerevoli denunce online contro i banchetti dei funzionari capaci di costare decine di migliaia di euro, registrano invece un calo del 35% a Pechino, e del 20% a Shanghai. Molte delle prelibatezze più ricercate, dalla zuppa di pinne di squalo all’abalone, passando per i nidi di rondine, restano invendute, sollevando la possibilità che la campagna per la frugalità e l’anticorruzione sia più benefica per le specie in via di estinzione che non i periodici arresti o i messaggi pubblicitari in televisione e per le strade. Il daoyu, un tipo di pesce dello Yangtze molto raro, ha subito un calo di prezzo del 94%. Nel clima di sobrietà, chi sta «peggio» sono le «concubine», così vengono chiamate le giovani mantenute cinesi, immancabile accessorio di ogni funzionario corrotto di rispetto: troppo vistose, sono le prime a vedersi negare le carte di credito illimitate dai danarosi protettori, e calano vendite di scarpe e borsette. Ma spendono meno anche i dieci milioni di carte di credito governative, e secondo la Clsa Asia Pacific, solo un terzo dei consumatori del lusso contano di continuare a spendere tanto quanto facevano prima dell’anticorruzione.
Corriere 11.5.13
Londra, sotto il velo le finte emancipate
Hanan al-Shaykh e il paradosso dell'«Islam fashion»
di Fabio Cavalera
LONDRA — La metropoli si avvolge nel velo. A Tower Hamlets, il borough londinese che si allarga oltre la City, ci sono 46 moschee e 13 chiese cattoliche. In quello confinante a est, a Newham, che raccoglie uno spicchio del parco olimpico, le moschee sono invece 41 e le chiese cattoliche 14. A Tower Hamlets, ha rivelato l'ultimo censimento del 2011, 87 mila residenti si dichiarano musulmani e 60 mila cristiani. A Newham il sorpasso non è ancora avvenuto ma l'ufficio statistiche registra 123 mila cristiani e 98 mila musulmani.
Londra è la capitale europea dell'Islam. Tower Hamlets e Newham, i borghi della Greater London orientale, sono la fotografia più nitida della rivoluzione sociale e demografica che avviene lungo le rive del Tamigi. Ma il cambiamento corre alla velocità della luce anche nelle aree «storiche»: a Kensington-Chelsea i musulmani sono 15 mila (86 mila i cristiani) e a Westminster sono già 40 mila (97 mila i cristiani). Nell'intera Londra i fedeli al Profeta sono più di un milione, per la precisione, all'11 marzo, 1.012.823. Mezzo secolo fa erano poche migliaia. I centri di preghiera contati dal sito internet mosques.musliminbritain.org sono 356. La prima moschea, piccolissima, fu costruita nel 1866 a Notting Hill. Adesso se ne progetta una grande dieci volte la cattedrale anglicana di San Paolo.
Le comunità musulmane diventano una città nella città. È un fenomeno che si spiega in tanti modi: con i flussi migratori, con i flussi di capitali e con la finanza, con il fascino londinese e le opportunità di integrazione che la capitale britannica offre. E, negli ultimi tempi, anche con una nuova tendenza: la conversione. Centomila sudditi di Sua Maestà (in tutto il Regno Unito, ma in gran parte a Londra), dal 2001 al 2011, hanno dichiarato ai rilevatori del censimento di avere aderito alla religione musulmana. Il 66 per cento di questo esercito di «ultimi acquisiti» è costituito da donne. La percezione è immediata nelle strade: il numero delle signore, di ogni età, che copre il volto e il corpo con il niqab o con l'hijab (il foulard sulla testa) o con lo chador, il mantello tradizionale iraniano, è in crescita costante.
È un mondo che sembra volersi separare e isolare: chi c'è sotto quel velo? Hanan al-Shaykh lo racconta nei suoi romanzi in modo elegante, ironico e profondo. Nel 2001 scrisse Only in London ed ebbe un successo straordinario. Fu messo al bando nei Paesi arabi, ma fu accolto con entusiasmo dalla diaspora intellettuale ritrovatasi a Londra, premiato dalla critica e dal pubblico. Adesso è nelle librerie italiane per Piemme col titolo Fresco sulle labbra, fuoco nel cuore. Un quadro delizioso e colto della Londra islamica e araba, della Londra sconosciuta che suscita sospetti pur essendo una Londra ordinariamente vivace.
La donna irachena divorziata che s'innamora di un inglese, la prostituta marocchina che raggira gli sceicchi in trasferta, l'eccentrico omosessuale libanese sposato e con un figlio piccolo: tre storie («e due sono vere», quella della prostituta e dell'omosessuale) che si intrecciano nelle vie di Edgware Road (una delle enclave islamiche a due passi da Hyde Park), di Park Lane, di Oxford Street. «Dietro a quel velo ci sono persone normali, con sentimenti, con paure, con vizi e virtù uguali a quelli delle occidentali. Piangono, ridono, amano, rubano, adorano i bei vestiti, i gioielli e i cosmetici, nulla di diverso dalle altre donne. Eppure si nascondono». Ecco, appunto, perché in una città libera e tollerante spariscono dietro a quei loro veli?
Hanan al-Shaykh, libanese, è cresciuta in una famiglia particolare. Il padre era un uomo devoto, pregava ventiquattro ore su ventiquattro, un conservatore. La madre scappò con l'amante, uno scandalo rievocato in Mio signore, mio carnefice, altro bellissimo romanzo firmato da un'artista della scrittura che sa esplorare con sensibilità l'universo etnico e religioso accanto a noi. Lei stessa, Hanan, lasciò Beirut per andare prima a studiare al Cairo, poi per trasferirsi col marito in Arabia Saudita e infine a Londra, anche «affascinata dai Beatles». Il velo lo abbandonò presto.
Un po' di anni fa maturarono la sua scelta e la sua ribellione. Hanan al-Shaykh ha compiuto un percorso coraggioso. Abita a Mayfair, viaggia spesso, sta lavorando al prossimo libro, ancora donne arabe, una trama con tappa anche in Italia: «Ciò che spesso l'Occidente non capisce, e non capisce neppure una città aperta e democratica come Londra, è che molte musulmane non scelgono di annullarsi perché oppresse dagli insegnamenti del Corano e della religione. Le motivazioni sono altre. Ci sono, di certo, l'arroganza e la prepotenza degli uomini che spingono in questa direzione. Ma specie di recente, c'è un abbaglio di moda. Sì, fashion. Se un'amica o una vicina di casa blindano il loro volto, le seguo e le imito, quasi che sia una gara per il migliore vestito di Valentino o di Armani. Magari qualcuna sostiene ipocritamente che così impedisce all'occhio maschile di guardare. Che è il modo di sottrarsi all'invadenza dell'uomo. Ma rispondo io: allora bendiamo gli uomini. La verità è che il velo è il simbolo che avvolge un oggetto sessuale, il corpo. La religione proprio non c'entra. La donna musulmana si mercifica, reprime la sua sensualità, congela i suoi sentimenti, si riduce a dimensione unicamente corporea».
Niqab, hijab, chador, burka «illudono», non sono «rifugi di libertà ma, al contrario, maschere che esprimono una logica sbagliata: quella di sentirci rispettate dai mariti, dai fidanzati, dalla collettività solo se indossiamo il mantello e il foulard per velare il corpo, non piuttosto per la nostra sensibilità o la nostra intelligenza. E quando non è così ci emuliamo, perché fa tendenza». Scrittrice e intellettuale raffinata, Hanan al-Shaykh si dice «sconvolta dal numero crescente di ragazze che si infilano in quel sacco nero, sono giovani che si lasciano lavare il cervello dal maschilismo e dalla moda».
È una realtà, quella delle comunità islamiche e arabe londinesi, che Hanan al-Shaykh ci aiuta a indagare col suo delicato Fresco sulle labbra, fuoco nel cuore. Storie di paradossi, storie di conformismo e di anticonformismo, di antiche tradizioni sfidate e spezzate. Esistono «abissi culturali»: poi però, alla fine, gli amori e le ipocrisie, le passioni e le ironie, le paure e le tensioni sono uguali ovunque, in ogni angolo nella Londra musulmana e nella Londra cristiana. Il problema è che fingiamo di non saperlo, ossessionati dai nostri pregiudizi. E suggestionati da un velo che ci appare come una stanza buia. Sotto ci sono donne e pensieri da scoprire.
Corriere 11.5.13
Le ambiguità del laicismo alla francese
di Francesco Margiotta Broglio
Dopo il «matrimonio per tutti», che ha visto, ancora una volta, le «due France» a confronto, il governo Hollande lancia una nuova sfida alle religioni dando attuazione a quanto annunciato a settembre 2012. In una lunga intervista a Le Monde (23 aprile), il ministro della Educazione nazionale, Peillon, ha comunicato che dal 2015 verrà istituito un insegnamento di «Morale laica» in tutte le scuole — dalle materne ai licei — pubbliche e private «a contratto» (finanziate dallo Stato e in massima parte cattoliche). I propositi dello scorso anno, sottoposti ad un sondaggio Ifop, avevano ottenuto il favore di oltre 9 francesi su 10.
Per definirne i contenuti e le modalità il ministro ha costituito una «missione» di esperti il cui «Rapporto», basato su una serie di audizioni e di studi del dicastero, è ora disponibile. Per Peillon i corsi esistenti mancano di continuità e di chiarezza delle finalità. Di qui la necessità di fissare basi e modalità di un insegnamento di morale laica «comune», non dogmatica o antireligiosa o di Stato, ma rispettosa della libertà di coscienza e di giudizio di ciascuno, fondata sui «valori, i principi e le regole che permettono di convivere, nella Repubblica, secondo il comune ideale di libertà, eguaglianza e fraternità». Un insegnamento che dovrà contribuire «alla costruzione del rispetto, del vivere insieme e della libertà» e trasmettere i fondamenti della cittadinanza.
Nel «Rapporto» si parla di una scuola «inclusiva» che combatte tutte le discriminazioni, si dichiara che da tutte le consultazioni è emerso un consenso quasi unanime per un corso di morale, si ricorda che a fine Ottocento si dava nelle elementari un'educazione in tal senso, che oggi nessuno intende farsi imporre pensieri o credenze, che si assiste alla «fragilizzazione» della morale comune, che moltiplica le richieste alla scuola di una morale sociale «pratica, laica e civica», e che nei programmi di francese per le medie esistono riferimenti al «fatto religioso» in uno spirito di laicità «rispettosa delle coscienze e delle convinzioni». L'insegnamento laico della morale dovrà essere non confessionale, rispettoso del pluralismo e delle coscienze, ma strettamente connesso ai valori e ai principi democratici e repubblicani, e non potrà «prescrivere o imporre la concezione di una vita buona... o di un bene tra gli altri, violando la neutralità laica e mettendo in difficoltà alunni e famiglie». Deve, inoltre, fondarsi sui valori dell'«umanesimo moderno» (il concetto caro alle organizzazioni ateiste) — tenendo conto che oggi si discutono nello spazio pubblico questioni che ancora vent'anni fa restavano essenzialmente private (bioetica, eutanasia o suicidio assistito) — e impegnare gli insegnanti a promuovere i principi e valori della «morale comune» nel quadro di una laicità scolastica che non può diventare una «laicità per astensione» e deve riequilibrare quella neutralità che il divieto del «velo islamico» (2004) ha imposto ai soli studenti e alle loro famiglie. Di qui la necessità di formare, nel prossimo biennio, gli insegnanti nelle previste «Scuole superiori».
Quanto ai contenuti il «Rapporto» rinvia all'istituendo «Consiglio superiore per i programmi», limitandosi a qualche indicazione oraria (da 36 iniziali alle 18 dei licei) e ad alcuni sintetici «orientamenti» per i diversi livelli di scuole e lasciando aperto il problema della «valutazione» formativa (i voti). Nell'insieme un documento abbastanza generico che non risolve l'ambiguità di fondo: «morale laica» come intende Peillon o «Insegnamento laico della morale» come i saggi intitolano il loro documento? Nel corso del quale, però, si parla più della prima che del secondo e si insiste sulla «non confessionalità» di un'etica che deve restare fondata sui valori «umanistici», mentre il ministro afferma che si tratta «della stessa cosa» e che, comunque, non sarà «antireligiosa». Un documento sufficiente, però — anche alla luce delle dichiarazioni di Peillon, della istituzione di un «Osservatorio della laicità» e della intenzione di far affiggere in tutte le scuole (anche religiose) una «Carta della laicità» — a far riprendere la piccola «guerra di religione» provocata dai «matrimoni per tutti», ancora accesa qualche settimana fa.
Repubblica 11.5.13
Guatemala, l'ex dittatore Rios Montt condannato per genocidio a 80 anni di carcere
Riconosciuto colpevole di crimini contro l'umanità
Il generale, 86 anni, è stato riconosciuto colpevole del massacro di 1.771 indigeni maya della comunità Ixil in 15 diverse operazioni compiute dai militari nel dipartimento nord occidentale di Quiche
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Repubblica 11.5.13
Più telefonini che esseri umani
Nel 2014, supereranno i 7,1 miliardi
di Enrico Franceschini
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Corriere 11.5.13
Le ventose di Ippocrate
Dall'antichità alle spa, passando per la tradizione cinese
di Mario Pappagallo
Coppette di vetro in cui si crea il vuoto e che, appoggiate alla pelle, «succhiano» ciò che giace, infiamma o ingolfa il sottopelle. Oggi in auge per «sfiammare» le cellule adipose che contribuiscono alla non gradita cellulite o per drenare laddove lo strato di grasso è eccessivo. Ieri, nel Medioevo, per «estrarre» gli umori neri causa delle più disparate malattie. L'altro ieri, nell'antica Grecia (Ippocrate ne riconosce l'efficacia, ne fornisce le basi teoriche e ne fissa una serie di dettagliate indicazioni) o in Egitto, per dolori vari tra muscolari e ossei, per asma e bronchiti.
In Cina e in Giappone (II secolo dopo Cristo), seguendo i meridiani dell'agopuntura per trarre energie nascoste. In India, Vietnam, Corea, Sud America. Esiste un collegamento tra le zone della pelle e gli organi: un collegamento riflessogeno tra la superficie della pelle e le zone interne come muscoli o organi. In base alle zone corrispondenti, l'antica medicina cinese poteva dedurre lo stato del relativo organo energetico. Metodo diagnostico. Ma ancor prima, tra popoli ancor più antichi, eccole aspirare infezioni da ferite o veleni da morsi di serpenti o insetti. Secondo gli antichi medici, la coppettazione porta gli umori o le sostanze delle malattie in superficie, affinché il corpo possa espellerle meglio.
La prima volta fu descritta 3.300 anni fa, in epoca mesopotamica: «Porta gli umori o le sostanze delle malattie in superficie». Coppe in bronzo, o corna di bufala segate in maniera concava, scaldate per creare il vuoto e applicate. Fino alle metà del IX secolo erano ancora utilizzate in ospedale come metodo depurativo. Una delle cure che ha accompagnato l'uomo attraverso i secoli, evolvendo nei materiali e nella tecnica (dal vuoto «succhiante» creato dal calore a quello ottenuto tramite pompe aspiranti) e nel ruolo. Dagli sciamani alle spa. Dal tempio di Esculapio ai più moderni centri benessere. Dal bronzo o dalle corna al vetro, alla bachelite, alla plastica e al bambù. Ma il nome è sempre lo stesso: coppettazione. O tecnica della ventosa.
Che farsi «succhiare» possa essere di una qualche utilità può anche sembrare grottesco. Così come scioccanti sono quegli aloni bluastri che per un po' rimangono sulla pelle dopo la coppettazione. Eppure sempre più persone si affidano a questo antichissimo metodo, anche perché la coppettazione non è dolorosa e pare sia molto rilassante. Oggi viene impiegata nei trattamenti anticellulite. Dicono i depliant dei centri che la praticano: «Si ottiene un notevole miglioramento delle zone cellulitiche in seguito a questo trattamento». In pratica viene fatta scivolare sulle zone da trattare una coppetta a cui si è tolto ossigeno, in questo modo si provoca un risucchio del tessuto che viene irrorato da un maggior afflusso di sangue con conseguente smaltimento dei liquidi in eccesso, delle tossine e delle scorie. E ci sarebbe anche una sorta di rimodellamento corporeo dovuto alla trazione del muscolo.
E nell'antichità? L'elenco di malattie e disturbi in cui veniva utilizzata la coppettazione è lungo: vertigini, otite, sciatalgia, disturbi della colonna vertebrale, acne, nevralgia, diverse malattie ginecologiche, problemi di stomaco, bronchiti e asma, infiammazioni, dolori muscolari e crampi. Stimolante e rigenerante: il massaggio con coppette porta una maggiore circolazione del sangue e, quindi, un miglior nutrimento del tessuto, una migliore ossigenazione.
Quella stele nel tempio di Esculapio, dio della medicina, non è poi così dissimile dalle ammiccanti immagini dei centri massaggi odierni. Cambia il «male» da succhiare: dagli umori neri al grasso di troppo.
Repubblica 11.5.13
Dante e la lussuria della lince
di Elena Stancanelli
“Ed ecco, quasi al cominciar dell’erta/ una lonza leggiera e presta molto/che di pel maculato era coverta/ e non mi si partìa d’innanzi al volto /anzi impediva tanto il mio cammino/ch’io fui per ritornar più volte vòlto”.
La prima delle fiere che sbarrano il cammino a Dante nella selva oscura è dunque una lonza. Che non è la bestia da cui ricaviamo quell’affettato mutevole con cui facciamo i panini. Ma una lince, forse. Quel gattone con le orecchie a punta, il mantello maculato e una vista tanto acuta da diventare proverbiale. La lince sarebbe in grado di distinguere un topo da 75 metri di distanza, un coniglio da 300 e un capriolo da 500. Linceo, il pilota degli Argonauti, era addirittura in grado di vedere attraverso i muri. Ma non è per i suoi occhi che la lonza sta all’inferno. È lì come simbolo della lussuria, e per lo stesso motivo San Giorgio la esibisce sul suo stemma, impegnato com’era a combattere le cattive abitudini del suo tempo. A cosa deve questo onore il nostro felino occhiacciuto? Non è chiaro, forse al fatto che la stagione dell’accoppiamento delle linci dura da dicembre a marzo, quattro mesi di spasso. Più di quanti ne tocchino alla maggior parte delle bestie, molti meno di quanti ne avremmo a disposizione noi, che però, ahimè, spesso neutralizziamo la lussuria con l’accidia.
Repubblica 11.5.13
Francesco e gli indignati
Le speranze nel nuovo papa e nella riforma della chiesa
Perché il santo di Assisi è diventato il modello di tutti i rivoluzionari
di Hans Küng
È sorprendente come papa Francesco abbia scelto fin dal primo momento della sua entrata in carica uno stile nuovo: a differenza dal suo predecessore, niente mitra trapunta d’oro e gemme, niente mozzetta purpurea orlata di ermellino, niente scarpe e copricapo rossi appositamente confezionati, niente trono e tiara. Sorprendente anche che il nuovo papa abbia di proposito rinunciato ai gesti solenni e alla retorica pretenziosa e parli la lingua della gente, come la possono praticare anche i predicatori laici, oggi come allora vietati dai papi. Sorprendente, infine, come il nuovo papa sottolinei il suo essere uomo tra gli uomini: chiede la preghiera della gente prima di impartire la sua benedizione; paga come chiunque altro il conto dell’albergo; realizza la collegialità con i cardinali in autobus, nella residenza comune, nel congedo ufficiale, lava i piedi a giovani carcerati, anche a donne, perfino a un musulmano. Un papa che si presenta come una persona alla mano. Tutto ciò avrebbe rallegrato Francesco di Assisi ed è il contrario di ciò che al suo tempo rappresentava papa Innocenzo III (1198-1216). Nel 1209 Francesco si era recato da lui a Roma con undici “frati minori” (“fratres minores”), per presentargli la sua breve regola, costituita esclusivamente da citazioni della Bibbia, e ottenere l’approvazione papale per la sua scelta di vivere in povertà e nella predicazione laicale, «in conformità al santo Vangelo». Innocenzo III, conte di Segni, eletto papa a soli 37 anni, era nato per comandare: erudito teologo, sottile giurista, oratore di talento, amministratore capace e diplomatico raffinato. Nessun suo predecessore o successore ebbe mai più potere di lui. Con lui, la rivoluzione dall’alto introdotta da Gregorio VII nell’XI secolo (la “riforma gregoriana”) aveva raggiunto il suo obiettivo. Al titolo di “vicario di Pietro” preferì il titolo, impiegato fino al XII secolo per ogni vescovo o sacerdote, di “vicario di Cristo” (Innocenzo IV lo avrebbe cambiato addirittura in “vicario di Dio”). Da allora, diversamente da quanto era avvenuto nel primo millennio e pur senza mai essere riconosciuto dalle chiese apostoliche orientali, il papa si è considerato un sovrano, legislatore e giudice assoluto della cristianità – fino ad oggi.
Tuttavia, il trionfale pontificato di Innocenzo III fu non soltanto un apogeo, ma anche un punto di svolta. Già sotto di lui si manifestarono i segni di declino che in parte sono rimasti fino ai nostri giorni tratti caratteristici del sistema romano- curiale: nepotismo e favoreggiamento dei parenti, avidità, corruzione e affari finanziari dubbi. Fu però proprio Innocenzo III a cercare di integrare nella Chiesa i movimenti pauperisti evangelico- apostolici, nonostante la sua politica di eliminazione degli “eretici” più ostinati (i catari). Anche Innocenzo era consapevole di quanto fossero necessarie e urgenti quelle riforme della Chiesa per le quali alla fine convocò lo sfarzoso Concilio Lateranense IV. Perciò dopo lunghe raccomandazioni rilasciò a Francesco di Assisi il consenso alla predicazione quaresimale. Sull’ideale di assoluta povertà prescritto dalla regola egli si riservava di interpellare in preghiera la volontà di Dio. Si racconta che il pontefice alla fine approvò la regola di Francesco di Assisi in seguito a un sogno nel quale aveva visto un modesto fraticello salvare dal crollo la basilica papale del Laterano. Egli la rese nota al concistoro dei cardinali, ma non fissò nulla per iscritto.
In effetti, Francesco di Assisi rappresentò e rappresenta l’alternativa al sistema romano. Cosa sarebbe accaduto se già Innocenzo e i suoi avessero di nuovo preso sul serio il Vangelo? Le sue esortazioni in esso contenute, anche se intese non alla lettera, ma nel loro contenuto spirituale, significavano e significano una profonda messa in questione del sistema romano, di quella struttura di potere centralistica, giuridicizzata, politicizzata e clericalizzata, che a partire dall’XI secolo si è impossessata a Roma della causa di Cristo.
Si pone allora la seconda domanda: Cosa significa oggi per un papaadottare coraggiosamente il nome Francesco? Alla luce delle istanze e dei princìpi di Francesco di Assisi oggi si possono formulare opzioni di fondo anche per una Chiesa cattolica la cui facciata risplende in occasione delle grandi manifestazioni romane, ma la cui struttura interna nella vita quotidiana delle comunità di molti Paesi si rivela ormai fragile e fatiscente, sicché molte persone se ne allontanano interiormente e spesso anche esteriormente.
Tuttavia, nessun individuo razionale può attendersi che tutte le riforme vengano realizzate da un solo uomo dall’oggi
al domani. Nondimeno, un mutamento di paradigma sarebbe possibile in cinque anni, come dimostrò nell’XI secolo il papa lorenese Leone IX (1049-1054), che aveva preparato la riforma di Gregorio VII, e come avrebbe poi dimostrato nel XX secolo l’italiano Giovanni XXIII (1958-1963), convocando il Concilio Vaticano II. Oggi, soprattutto, dovrebbe essere chiara la direzione: non una involuzione restaurativa verso i tempi preconciliari come sotto il papa polacco e sotto quello tedesco, ma passaggi meditati, pianificati e ben mediati di una riforma in linea con il Concilio Vaticano II.
Oggi come allora si pone una terza questione: Una riforma della Chiesa non incontrerà una seria resistenza?
Indubbiamente essa susciterà, soprattutto nell’apparato di potere della curia romana, potenti controforze alle quali sarà necessario far fronte. I potenti del Vaticano non rinunceranno spontaneamente a un potere accumulato fin dal Medioevo. Gloria a Francesco: il 3 ottobre 1226 egli muore povero come aveva vissuto, a soli 44 anni. Papa Innocenzo III era morto, in modo del tutto inaspettato, già dieci anni prima, un anno dopo il Concilio Lateranense IV, all’età di 56 anni. Il 16 giugno 1216 il cadavere di colui che aveva saputo accrescere, come nessun altro prima, il potere, il dominio e la ricchezza della Santa Sede, fu trovato nella cattedrale di Perugia, abbandonato da tutti, completamente nudo e derubato dai suoi stessi servitori. Un segnale del rovesciamento della sovranità universale del papa nell’impotenza del papa: all’inizio del XIII secolo il glorioso pontificato di Innocenzo III; alla fine di quello stesso secolo il megalomane
Bonifacio VIII (1294-1303), miseramente fatto prigioniero, al quale sarebbero seguiti l’esilio di Avignone, durato circa settant’anni, e lo scisma d’Occidente, con due e alla fine tre papi. Nemmeno due decenni dopo la morte di Francesco il movimento francescano rapidamente diffusosi in Italia sembra quasi completamente addomesticato dalla Chiesa romana, tanto da porsi ben presto al servizio della politica papale, come un normale ordine monastico, e da farsi addirittura coinvolgere nell’Inquisizione.
Se dunque è stato possibile addomesticare Francesco di Assisi e i suoi compagni nel sistema romano, ovviamente non si può escludere che alla fine un papa Francesco venga catturato nel sistema romano che dovrebbe riformare. Papa Francesco: un paradosso? Potranno mai conciliarsi il papa e Francesco, un contrasto evidente?
Solo con un papa delle riforme ispirato dal Vangelo.
Non dobbiamo rinunciare tropo presto alla nostra speranza in un simile
pastor angelicus!
Infine, una quarta questione: Che fare se ci viene tolta dall’alto la speranza nella riforma?
I tempi in cui il papa e i vescovi potevano contare tranquillamente sull’ubbidienza dei fedeli sono comunque passati. Dunque, non possiamo in alcun modo cedere alla rassegnazione, ma di fronte alla mancanza di impulsi riformatori “dall’alto”, dalla gerarchia, dobbiamo intraprendere decisamente le riforme “dal basso”, a partire dalla gente. Se papa Francesco metterà mano alle riforme troverà un vasto consenso da parte della gente, ben al di là della Chiesa cattolica. Se però alla fine andasse avanti così e non sciogliesse il nodo delle riforme, il grido «Indignatevi! Indignez-vous!» risuonerebbe sempre più anche nella Chiesa cattolica e provocherebbe riforme dal basso che sarebbero realizzate anche senza l’approvazione da parte della gerarchia e spesso addirittura contro i tentativi di impedirle compiuti dalla gerarchia. Nel caso peggiore – l’ho scritto già prima dell’elezione di questo papa – la Chiesa cattolica vivrebbe, anziché una primavera, una nuova era glaciale e correrebbe il pericolo di ridursi ad una grande setta poco rilevante.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
Repubblica 11.5.13
Dan Brown, Beck e Pamuk, è La repubblica delle Idee
“Scrivere per ricominciare”: ecco il festival del nostro giornale dal 6 al 9 giugno a Firenze
di Dario Pappalardo
A Firenze, dal 6 al 9 giugno, torna La Repubblica delle idee.
La festa del nostro giornale riparte dopo le 107mila presenze dello scorso anno a Bologna e dopo le anteprime di Torino e Bari. Riparte con le firme di tutti i giorni, con i protagonisti di oggi e con due grandi autori internazionali come Dan Brown e il Nobel Orhan Pamuk. Da ieri è attivo il sito “in progress” di questa seconda edizione che ha come titolo “Scrivere per ricominciare”: ovvero fare il punto sulle forze da cui l’Italia deve ripartire per uscire dalla crisi. Lo spirito è quello con cui questo viaggio è incominciato nel 2012: uscire dalla redazione, incontrare i lettori, mettere in comune idee e progetti, aprire lo spazio del lavoro giornalistico all’esterno, mostrandone le fasi. Lo spiegava il direttore Ezio Mauro introducendo la manifestazione di Bologna: «Si dice sempre che Repubblica è qualcosa più di un giornale. Noi sappiamo che è una community, formata dal quotidiano insieme con i suoi lettori. A unirli, appunto, c’è un’idea, quella che ripetiamo sempre per spiegare chi siamo usando una formula di Gobetti: una certa idea dell’Italia».
La Repubblica delle idee 2013 — con la collaborazione scientifica di Agorà, col sostegno di Enel, Autostrade per l’Italia e Tim, col patrocinio del Comune di Firenze e il supporto operativo di Mismaonda — si svilupperà nel pieno centro di Firenze con “format” che faranno da guida per orientarsi tra più di sessanta appuntamenti gratuiti proposti in quattro giorni di festa. Nella Sala delle Armi di Palazzo Vecchio, venerdì 7 e sabato 8 giugno, dalla mattina alla sera, sarà attiva “Casa Repubblica”, una redazione dove i lettori potranno assistere in diretta alla “fattura” del giornale: ci saranno riunioni in collegamento con la sede di Roma, laboratori dedicati al quotidiano di carta e alle piattaforme digitali. Alle Oblate, sarà attiva la postazione di Radio Capital. Con “Officina”, poi, nel Salone dei Duecento, i giornalisti racconteranno le specificità del loro mestiere: Attilio Bolzoni, Conchita Sannino e Giovanni Tizian interverranno su “Scrivere di mafia”, per esempio.
La festa di Repubblica non vuole solo aprire la scatola del quotidiano, ma diventare anche una finestra di confronto su idee e temi che si trovano sul giornale: ecco allora i “Question Time” su “beni culturali” (con Andrea Carandini, Roberto Cecchi e Maurizio Ricci), “femminicidio” (con Loredana Lipperini, Michela Murgia e Adriano Sofri), “fare rete” (con Fulvio Conti, Giovanni Castellucci, Marco Patuano, Federico Rampini e Riccardo Luna), “la rassegnazione” (con Francesco Merlo). Protagonisti non saranno solo gli argomenti, ma anche i personaggi. Gli “Straparlando” ospiteranno: Frida Giannini, Natalia Aspesi, Paolo Giordano, Walter Siti, Oscar Farinetti, Altan, Lilian Thuram, che parlerà di razzismo, e Paolo Sorrentino.
I “Dialoghi” si inaugurano il primo giorno (6 giugno) con Dan Brown e Vittorio Zucconi; Carlo Petrini e Ermanno Olmi si chiederanno: “La Terra è un bene comune?”. Ulrich Beck con Wlodek Goldkorn e Riccardo Staglianò interverrà su “L’Europa ha bisogno di un nuovo contratto sociale”; il Nobel Orhan Pamuk con Marco Ansaldo e Elena Stancanelli su “Dall’innocenza e dall’amore”. E ancora ci saranno: Ian Buruma con Angelo Aquaro e Lucio Caracciolo (“Nord Corea, Iran, Siria: la sottile linea rossa di Obama”); Ilvo Diamanti, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky con Lucia Annunziata (“L’Italia post-populista”); Timothy Garton Ash e Gad Lerner con Enrico Franceschini (“Perché diventare europei fa paura ai cittadini d’Europa?”). Il format serale delle 21 è “Assolo” con Alessandro Baricco, Umberto Eco e Stefano Bartezzaghi. Jovanotti chiuderà la manifestazione con Gino Castaldo e Massimo Giannini. “Show”, alle 23, conclude le serate con spazi musicali come “Lezioni di rock: i Beatles” con Ernesto Assante e Gino Castaldo e “I segreti della musica: Giuseppe Verdi” con Corrado Augias e Giuseppe Fausto Modugno.
Mancano meno di quattro settimane perché la festa cominci: sette giorni prima sarà possibile prenotare sul sito parte dei posti agli eventi, tutti gratuiti. La community di Repubblica sta per riunirsi di nuovo.
È online su Repubblica.it la sezione “in progress” dedicata alla festa
Corriere 11.5.13
«Diaz» e Tornatore favoriti ai David. Sconfitto Bellocchio
Bellocchio: «Non mi lamento. Ma il tempo forse mi riabiliterà»
di V. Ca.
ROMA — Ai David di Donatello, la sorpresa è Diaz. Il film di Daniele Vicari sulle violenze al G8 di Genova ha avuto 13 candidature (comprese le due categorie che pesano, miglior film e migliore regista). Anche La migliore offerta di Tornatore ha fatto 13, ma c'è il marchio autoriale oltre che l'exploit al box office: 9 milioni di incasso. Gli altri candidati al miglior film: Viva la libertà di Andò (in totale ne ha 12), Educazione Siberiana di Salvatores (complessivamente sono 11), Io e te di Bertolucci (6). Reality di Garrone me ha 11 ma in categorie più defilate, salvo che per il detenuto-attore Aniello Arena, che deve vedersela con Castellitto, Servillo, Herlitzka, Mastandrea e Marinelli. Il grande assente è Marco Bellocchio, che per Bella Addormentata ha due candidature laterali. «Non mi lamento — dice il regista —, sarebbe patetico. Mi sembrava di aver fatto un buon lavoro. Quando si entra in età più che adulta ci si riconcilia con le istituzioni. A me non è successo. Altri miei film non sono stati premiati, poi nel tempo è venuta la riabilitazione».
Per la premiazione del 14 giugno si passa da Rai Movie alla diretta su Rai Uno. I conduttori saranno Lillo e Greg. Lillo: «Non siamo abituati a fare i conduttori classici, speriamo in una serata non ingessata, ma senza esagerare. Siamo contenti, in genere è tutta spazzatura quello che ci propongono in tv».