sabato 6 settembre 2014

La Stampa 6.9.14
Camusso: “La ricetta è la stessa da sei anni. Da Renzi solo parole”
Il segretario Cgil: “Il falso in bilancio è stato rimandato, i tagli agli statali no”

«Il cambiamento c’è solo nelle parole. Nei fatti, ci sono i tagli lineari, gli interventi sul mercato del lavoro, il blocco dei contratti»
intervista di Roberto Giovannini


Segretario Camusso, dunque concorda con chi dice che siamo tornati all’Agenda Monti? 
«È l’agenda di Monti, ma anche quella di Tremonti nel 2010, quella della lettera della Bce nel 2011, e poi quella di Letta. La solita ricetta: per trovare risorse in fretta taglia dove è facile colpendo “i soliti noti”. Il Paese invoca il cambiamento; a parole se ne offre tantissimo, quando si tratta delle condizioni materiali della gente la distanza è stellare».
Forse anche Renzi si trova come i suoi predecessori spalle al muro, tra vincoli europei e conti pubblici precari. 
«Allora dovrebbe dire le cose come stanno, non fare mille annunci cui non si dà mai seguito. Non si dovrebbe parlare, per il pubblico impiego, di qualità e selezione della spesa, e poi bloccare i contratti, tornare a un taglio lineare della spesa dei ministeri del 3%. Si continua a pensare che è più facile togliere ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, e non mettere mano alle distorsioni del Paese. Si parla di ripenalizzazione del falso in bilancio? Si rimanda di un anno. I contratti pubblici, invece, li bloccano subito. Come se fosse normale pensare che i salari debbano sempre diminuire. Di lotta all’evasione fiscale com’è che non se ne parla più?».
Il premier però assicura: se si continua sulla linea delle riforme, i frutti positivi arriveranno. 
«Sì? Dove, come, quando? La verità è che oggi si prosegue su una politica che fondamentalmente è la stessa seguita dal 2008, e che ha soltanto aggravato la crisi. Va avanti da anni, e i risultati li vediamo, su salari, lavoro, deflazione, recessione. Non è “colpa di Renzi”, visto che va avanti da sei anni; diventa colpa sua se si ostina a continuare sulla stessa linea. Gli 80 euro sono stati un’ottima cosa, ma non possono essere uno specchietto per le allodole che nasconde precarizzazione e impoverimento di lavoratori, pensionati e ceto medio. Se il premier boccia l’austerità in Europa, poi però a casa nostra la pratica in modo impeccabile. Dovrebbe provare, sia pure con gradualità, delle politiche nuove. L’unico cambiamento vero rispetto agli altri governi, pare la scelta di non dialogare più con le parti sociali...».
Escluso il leader Fiom Landini… 
«È una evidente scelta strumentale, non è ovvio?».
Ma il governo incontrerà i poliziotti che protestano, ha annunciato. 
«Se si dice “ti incontro, ma non accetto ricatti”, significa che si considera un “ricatto” la semplice proclamazione di uno sciopero da parte di un sindacato. È bene che il governo incontri i rappresentanti delle forze di polizia; deve far qualcosa anche per gli altri lavoratori però, perché il sindacato difenderà il diritto di tutti alla contrattazione. Non cadiamo nel vecchio giochino della contrapposizione. La conosciamo bene la storia che per aiutare i precari bisogna togliere tutele agli altri. Sono 20 anni che si tolgono diritti, e per i precari non c’è mai nulla. Anche qui bisognerebbe cambiare ricetta. Il presidente del Consiglio pensa che bisogna dare tutele a chi non ne ha? Lo faccia, a cominciare dalla maternità per tutte, dalla retribuzione giusta, dalla non discriminazione. Renda cioè i diritti del lavoro universali».
Il «Jobs Act» vi piace o no? 
«Per ora ci sono solo titoli molto generici, di cui alcuni ovviamente condivisibili. Ma intendiamoci: se si dice contratto a tutele crescenti e progressive, se si tolgono di mezzo le mille fattispecie precarie va bene. Se si vuole - come chiede il Nuovo Centrodestra - eliminare l’articolo 18, togliere il divieto di demansionamento, ammettere il controllo a distanza dei lavoratori, è cosa molto diversa. E noi non ci staremo. È un confronto per noi davvero difficile, mai davvero serio e concreto: sono o decreti legge “chiusi” e intoccabili, oppure deleghe al governo i cui provvedimenti attuativi si vedranno chissà quando. Posso dire che alcune delle intenzioni dichiarate dal presidente del Consiglio sono la semplice prosecuzione di politiche passate. E visto il disastro in cui siamo, è evidente che sono politiche sbagliate». 
Non c’è proprio nulla che salva dell’operato del governo? 
«Bisogna riconoscere che molto è stato fatto per accelerare l’apertura dei cantieri e lo sblocco degli investimenti per infrastrutture. Dopodiché questa è solo la conferma di investimenti già decisi. E il patto di stabilità interno continua a bloccare piccole opere utili dei Comuni. Anche sulle strategie di politica industriale delle imprese pubbliche non si dà alcuna indicazione di sviluppo. In piena continuità con i governi Berlusconi, Monti e Letta».
I dati negativi su Pil e disoccupazione sono stati una bella doccia fredda per Renzi. Vedete un premier in perdita di consensi? 
«Non me lo auguro. Non siamo “gufi”. Il presidente del Consiglio ha rappresentato una novità importante per tanta parte del Paese. Io chiedo solo che faccia davvero il cambiamento che annuncia, che tiri il Paese fuori dalla crisi. La recessione e la deflazione non sono “colpa sua”, che sta lì da pochi mesi. Ma lo diventano se continua le stesse ricette sbagliate che ci hanno portato lì». 

l’intervista è disponibile integralmente in rete qui

il Fatto 6.9.14
Sei miliardi l’anno tagliati dagli ultimi quattro governi


SEI EURO LORDI l’ora. È quanto vale un’ora di lavoro straordinario dei lavoratori in divisa. Un agente in media guadagna 1.300 euro netti al mese. Peggio nel caso del lavoro notturno, pagato quattro euro l’ora, dodici se si ha la fortuna di avere il turno di notte ma nei giorni festivi. Il blocco dei contratti dal 2010 al 2014 così ha prodotto una perdita salariale media di 4.500 euro all’anno, più di 300 euro al mese. Intanto lo Stato, secondo i numeri forniti dai sindacati, spende ogni anno circa 20 miliardi di euro per le cinque forze di polizia: caserme, divise, stipendi e tanto altro. Anche se, negli ultimi quattro governi ci sono stati tagli per circa 6 miliardi l’anno.

il fatto 6.9.14
Landini: “Giusto scioperare”


”Con lo sciopero della polizia si apre la strada al fatto che bisogna rimettere al centro il lavoro e i salari. Credo che i poliziotti abbiano tutti le ragioni per fare questa protesta”. Così il leader della Fiom, Maurizio Landini, alla festa del sindacato di Torino. “Penso – aggiunge – che il governo debba rendersi conto che se vuole davvero cambiare il Paese ha bisogno di investire sul lavoro e di farlo insieme ai lavoratori e alle lavoratrici di questo Paese”. Sulla posizione del premier Matteo Renzi, che ha dichiarato che sarebbe ingiusto fare uno sciopero soltanto per un mancato aumento, Landini ribatte: “È un ragionamento un po’ del cavolo, per una ragione molto precisa: uno dei problemi che il nostro Paese ha è che abbiamo i livelli salariali più bassi d’Europa. Siccome bisogna tendere alla piena occupazione, non è non pagando nessuno che così sono tutti occupati. In questo quadro non è accettabile pensare che si vada su una strada di riduzione ulteriore dei salari e di riduzione dei contratti. È singolare che mentre si annuncia che si vuole premiare il merito, si decide che non si fanno i contratti”.

il Fatto 6.9.14
Salari, Landini (Fiom): ‘Polizia ha ragione. Verso mobilitazione metalmeccanici’

qui

il Fatto 6.9.14
Dal governo Letta Carlo Dell’Aringa
“Caro Matteo, con i sindacati la Merkel tratta”
di Carlo Di Foggia


Se di fronte hai una categoria che ha perso cinque anni di aumenti salariali, e hai deciso di riformarla senza dialogare, il risultato è quello a cui stiamo assistendo”. Carlo Dell’Aringa conosce bene il pubblico impiego, deputato Pd, economista ed ex viceministro al Lavoro del governo Letta, dal ’95 al 2000 ha guidato l’Aran, l’Agenzia che rappresenta la pubblica amministrazione nella contrattazione collettiva. “Capisco il governo che ha poche risorse e magari altre priorità – spiega – ma il metodo è sbagliato”.
A cosa si riferisce?
Quando hai deciso di mettere la riforma della pubblica amministrazione al primo posto della tua agenda politica, allora è normale che la devi fare con il pubblico impiego, non contro. Gli si chiede più mobilità, più efficienza, più sacrifici e non li si consulta? È profondamente sbagliato.
Non c’è stato nessun tentativo?
Non mi pare. È stata fatta una consultazione via mail, ma serviva un confronto vero, fatto con i rappresentanti delle categorie coinvolte. Invocano il modello tedesco, ma in Germania ci si confronta, si dialoga, mica si va allo scontro.
Si poteva fare diversamente?
Certo. Si convocavano i sindacati e si mettevano sul tavolo delle compensazioni. Non dico che si arrivava allo sblocco dei contratti, ma almeno si proiettava tutto in un periodo medio-lungo in cui inserire degli incentivi legati all’efficenza per attenuare il mancato rinnovo.
È possibile continuare con il blocco delle rivalutazioni fino al 2020, come è previsto nel documento di economia e finanza?
No. Piccola premessa: molti Paesi hanno superato il sistema delle indicizzazioni salariali con altri meccanismi. Ma non è pensabile dire a milioni di persone che per i prossimi cinque anni rimane tutto fermo, come ha fatto il governo. Ci vuole un piano, un progetto organico, fare politiche attive e metterci dei soldi. I sindacati non sono stati il massimo dell’efficenza in questi 15 anni, ma mica li si può punire per questo.
Il premier Matteo Renzi ha detto di voler convocare le sigle che hanno annunciato lo sciopero, ma non “accetterà ricatti”.
È quello che si deve, e si doveva, fare.
Cosa non ha funzionato delle tante riforme del pubblico impiego?
Negli anni ’70 la contrattazione collettiva è stata estesa anche al ramo pubblico, pensando che potesse essere una leva per l’efficienza dopo anni in cui i deputati facevano passare leggi e leggine che davano aumenti a determinate categorie di statali, a seconda delle clientele.
È servito?
No. La pubblica amministrazione non è efficiente. Il governo Renzi aveva la possibilità di invertire il meccanismo: dare incentivi dopo, sulla base dei risultati, non prima.
L’obiettivo quale sarebbe?
Recuperare competitività. Sarò sincero, noi dobbiamo ridurre il gap con la Germania, e quindi adeguare i salari alla nostra produttività che è rimasta ferma. Prima efficentiamo, poi si potrà far ripartire la dinamica salariale.
Ma così si deprime la domanda interna.
È verissimo, ma ci sono molti modi per sostenerla: con gli incentivi, dando soldi ai poveri, allentando il patto di stabilità interno e creando una vera agenzia nazionale del lavoro.

Corriere 6.9.14
Polizia: quella minaccia di sciopero non è ricatto
Serve una strategia chiara sulla sicurezza
di Fiorenza Sarzanini

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Il Sole 6.9.14
Anche solo la minaccia di uno sciopero della polizia è un segno di logoramento
di Stefano Folli


In cerca di mediazione (senza «ricatti») per evitare un conflitto dai gravi risvolti
Il malcontento delle forze dell'ordine è un segnale inquietante per il governo. Lo sarebbe per qualsiasi esecutivo che si trovasse a essere sfidato su un terreno al limite dell'eversione. D'altra parte, nella minaccia di sciopero c'è molta disperazione dei singoli agenti e anche parecchia incapacità, da parte dei vertici, di eliminare sprechi e disfunzioni negli apparati, tali da appesantire il conto economico a carico dello Stato senza che i cittadini si sentano più rassicurati.
Si suppone che nei prossimi giorni si troverà una soluzione. Non dovrebbe essere difficile con un po' di buon senso. Qualcuno ha fatto ironia sulla frase del ministro dell'Interno che stigmatizzava, ma con molta cautela, i "toni eccessivi" usati dai sindacati. Eppure è evidente che si sta cercando una mediazione prima che sia troppo tardi. In realtà lo sciopero non è ammesso per le forze dell'ordine dalla legge e dai regolamenti. Il fatto che la componente smilitarizzata (quindi la Polizia di Stato, non i Carabinieri) lo stia ugualmente minacciando dice parecchio circa la gravità della situazione; al tempo stesso rende pressoché obbligato un accordo sul salario, derogando al blocco annunciato per gli stipendi del settore pubblico.
Ecco perché si è stabilito una specie di gioco delle parti fra Renzi che afferma di non voler essere "ricattato" e Alfano che tiene una linea più morbida. Per restare in tema si può dire che il primo si comporta come il poliziotto cattivo e il secondo fa il poliziotto buono. È plausibile che questa tattica produca il lieto fine, dal momento che nessuno sente il bisogno di far precipitare un conflitto con i corpi di polizia il cui prezzo sarebbe pagato dai cittadini più di quanto già oggi avviene. Tuttavia i risvolti politici della vicenda non vanno trascurati e appaiono sconcertanti.
Renzi parla di "cinque forze di polizia che sono troppe", ma così facendo sembra confondere i piani. Che sono almeno tre. Il primo riguarda appunto le rivendicazioni economiche degli agenti, la cui frustrazione è un rischio che le istituzioni oggi non possono permettersi. Il secondo investe il riordino delle sedi, la guerra agli sprechi e in qualche caso il malfunzionamento delle strutture: i sindacati interni, il cui peso è cresciuto negli anni fino a rendere credibile un annuncio di sciopero, non saranno certo altrettanto solleciti quando si tratterà di risparmiare tagliando dove si può tagliare. Ma è proprio su questo terreno, non quello dei banali e ingiusti "tagli lineari", che il governo Renzi dovrà mostrarsi determinato, piuttosto che nel punire in modo indiscriminato persone che guadagnano 1.200-1.500 euro al mese fra infinite difficoltà.
Il terzo livello è toccato di sfuggita dal presidente del Consiglio quando accenna all'esigenza di accorpare e riformare le forze dell'ordine in base al principio, appunto, che del loro numero eccessivo. Questa affermazione è con molta probabilità un errore di comunicazione. Adombra il vecchio tema dell'accorpamento (o "coordinamento" in linguaggio morbido) di Carabinieri e Polizia: argomento complesso, non all'ordine del giorno, il cui unico effetto è quello di scavare un fossato fra il governo e i responsabili della sicurezza pubblica. Quando il progetto sarà pronto e definitivo, se ne parlerà. Fino ad allora questi vaghi accenni servono solo a inasprire gli animi e a mettere in ombra gli altri punti. Quelli su cui serve un'intesa in tempi rapidi.

Corriere 6.9.14
Renzi e la diffidenza (ricambiata)
di banchieri e manager
L’habitué di Cernobbio: «Non parla neanche col governatore Visco, figuriamoci con noi». E l’ex ministro Tremonti: «Matteo mi copia»
di Aldo Cazzullo

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il Fatto 6.9.14
Riforme, economia e sinistra Pd: Renzi sempre più tentato dal ricatto di Berlusconi
A metà settembre in programma nuovo incontro tra il premier e l'ex Cavaliere: all'ordine del giorno Italicum e Senato, ma con le difficoltà del leader Pd sembra configurarsi un patto anche su economia e giustizia. Forza Italia: "Noi siamo pronti"
di Sara Nicoli

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Corriere 6.9.14
Dietro la voce grossa un esecutivo obbligato a trovare mediazioni
di Massimo Franco


Assistere allo spettacolo di un governo e un’opposizione che si dividono sulla protesta delle forze dell’ordine non è esaltante. E ancora più singolare è vedere il centrodestra che difende le ragioni della polizia, e il presidente del Consiglio che dice ai sindacati degli agenti: «Prego, accomodatevi», in segno di sfida per quello che chiama «il ricatto» dello sciopero. La reazione irritata di Matteo Renzi si può capire. Sembra frutto di una certa sorpresa, dal momento che, spiega, c’erano «canali aperti» per trattare alcuni aspetti delle retribuzioni della polizia; e perché i toni scelti sarebbero tali da chiudere qualsiasi spazio di discussione: almeno su questo gli dà ragione anche il ministro dell’Interno, Angelino Alfano.
In realtà, la trattativa rimane aperta, come dimostra l’incontro con i vertici di polizia, carabinieri e Guardia di Finanza avuto ieri da Alfano, che ha definito «legittime» le richieste. In serata, il ministro dell’Interno ha lasciato capire che un compromesso è possibile. D’altronde, né Palazzo Chigi si può permettere di indurre le forze dell’ordine a scendere in piazza; né queste ultime vogliono dar seguito ad una manifestazione anomala. La prospettiva di avere uomini e donne in divisa in sciopero contro lo Stato che sono chiamati a proteggere diventerebbe l’emblema di un sistema a rischio. Il problema, semmai, è il modo in cui alcuni ministri esternano; e la difficoltà di far digerire scelte dolorose a ceti che subiscono più di altri gli effetti della crisi economica.
Non deve meravigliare che il centrodestra soffi sul malessere, anche strumentalmente. A qualcuno, come Pier Ferdinando Casini dell’Udc, non è piaciuta l’«esibizione muscolare» di Renzi nella conferenza stampa di ieri a Cardiff, in Gran Bretagna, alla fine del vertice Nato. «Serve solo a inasprire gli animi», avverte. E invece «una soluzione va trovata». E Lega e berlusconiani, in blocco, ricordano la specificità delle forze dell’ordine e dunque l’esigenza di venire in qualche modo incontro alle loro critiche. Il pericolo è che la vampata delle ultime ore complichi, invece di facilitare i contatti tra il governo e i loro rappresentanti. «Fanno del male a chi veste le uniformi», li ha infatti accusati il premier.
Probabilmente, non aiuta nemmeno l’annuncio di un’ondata di assunzioni nella scuola. L’ex ministro Corrado Passera, oggi a capo del movimento Italia Unica, imputa al governo di «bloccare gli aumenti degli stipendi pubblici per un anno e in parallelo di assumere 150 mila precari nella scuola»: una contraddizione vistosa. Ma oltre a questo, il sospetto del centrodestra è che le scelte riflettano calcoli elettorali destinati a emergere nei prossimi mesi, «premiando» e «punendo» segmenti della società politicamente vicini o distanti. E dire che invece, anche grazie alle scelte compiute giovedì dalla Bce di Mario Draghi, lo spread continua a scendere. Si riduce lo scarto tra gli interessi sui titoli di Stato italiani e quelli tedeschi.
I mercati danno segnali in chiaroscuro, ma giustamente Renzi ha parlato di «elementi incoraggianti», citando l’abbassamento del costo del denaro e il deprezzamento dell’euro sul dollaro, a tutto favore delle esportazioni. Ed è apparso confortato dall’esordio sulla scena internazionale con Federica Mogherini, ministro degli Esteri italiano, ed europeo in pectore. Tra l’altro, il tentativo di non inasprire troppo i rapporti con la Russia di Vladimir Putin sembra stia riuscendo, grazie anche alla sponda della Germania. Non basta, però. Il premier sa che per vincere la sua scommessa è condannato a far prevalere la sua impostazione in Italia: è qui che deve mostrare abilità e duttilità. Le tensioni che riemergono nel Pd, per quanto sterili, sono la spia di un nervosismo non smaltito e diffuso, che può scaricarsi in ogni momento sul governo.

Corriere 6.9.14
Statali, nella riforma spunta il rafforzamento dei poteri del premier
Depotenziate le prerogative dei dicasteri
di Antonella Baccaro


ROMA — Oscurata finora dalle discussioni che stanno caratterizzando lo scontro sullo Jobs Act , la delega della Pubblica amministrazione, approvata dal governo il 10 luglio scorso, dopo un primo varo del 13 giugno, inizia il suo iter martedì prossimo in commissione Affari costituzionali del Senato.
Si tratta di una delle tre riforme-pilastro del governo Renzi, insieme con la delega del lavoro e quella del fisco, e contiene elementi di cambiamento potenzialmente altrettanto dirompenti. Anzi, se la discussione sul lavoro è circoscritta all’articolo 4 (cioè ai contratti) la riforma della P.a. racchiude in quasi ognuno dei 16 articoli e delle 10 deleghe che la compongono una piccola rivoluzione. A partire dalla verticalizzazione dei poteri all’interno della struttura dell’esecutivo, contenuta nell’articolo 7, che costituisce una vera e propria spinta verso un modello di «governo del presidente», realizzando quello che è stato il sogno di tutti i premier allergici alla collegialità. Titolata in modo neutro «Riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato», la delega, che dovrà essere attuata con successivi decreti, si propone di riformare il bilanciamento di poteri e funzioni messo a punto ormai 15 anni fa col decreto 300/1999 dal governo D’Alema. Il risultato è un depotenziamento delle prerogative dei singoli ministeri che sembra porsi nel solco della prassi, sin qui tracciata da Renzi, di dire l’ultima parola su ogni provvedimento dei suoi ministri, a volte ribaltandolo.
Ma ecco le linee-guida. Primo: saranno definiti «strumenti normativi e amministrativi per la direzione della politica generale del governo e il mantenimento dell’unità dell’indirizzo politico», per evitare cioè fughe in avanti da parte dei singoli ministeri. Secondo: verrà rafforzato il ruolo di coordinamento e promozione dell’attività dei ministri da parte del premier. Passaggio che prelude a un consolidamento della struttura centrale di comunicazione. Terzo: sarà rafforzato «il ruolo della presidenza del Consiglio nell’analisi e nella definizione delle politiche pubbliche». La vaghezza della norma permette solo di dedurne il tentativo di evitare protagonismi e fughe in avanti dei ministri. Quarto: verranno definite procedure di nomina da parte del governo, tale da assicurare la collegialità del Consiglio dei ministri. E qui sembra prefigurarsi un’avocazione quantomeno al consiglio di nomine fin qui appannaggio dei singoli dicasteri.
Quinto: riduzione degli uffici di diretta collaborazione dei ministri e dei sottosegretari, con definizione di criteri generali per la determinazione delle relative risorse finanziarie, in relazione alle attribuzioni e alle dimensioni dei rispettivi ministeri, da parte del premier. È un giro di vite sui fondi dei singoli ministeri in vista del loro ridimensionamento. Sesto: eliminazione degli uffici ministeriali le cui funzioni si sovrappongono a quelle delle Autorità indipendenti. Settimo: revisione delle funzioni di vigilanza sulle Agenzie governative nazionali e delle relative competenze, in funzione del rafforzamento del ruolo della presidenza del Consiglio. Qui nel mirino finiscono Aran, Agenzia digitale, Arpa (ambiente), eccetera.
Come si ricorderà, la delega contiene anche un articolo che consente al presidente del Consiglio di risolvere il conflitto tra più ministeri che debbano emanare provvedimento «in concerto». Alla fine sembra saltata però la «norma delle norme»: quella che avrebbe consentito al premier di avocare a sé gli atti omessi dal singolo ministero. Un potere sostitutivo che però potrebbe riapparire nelle pieghe dell’articolo 7, quando questo verrà trasfuso in decreto.

Corriere 6.9.14
Prodi punge sull’Italicum: meglio la legge truffa

Il premio «Alcide De Gasperi: Costruttori dell’Europa» è stato assegnato ieri a Trento a Romano Prodi. Il primo a riceverlo fu nel 2004 l’allora Cancelliere tedesco Helmut Kohl. «Aveva una visione europea fortissima — ha detto Prodi — in questi tempi lo rimpiango». L’ex presidente del Consiglio di due governi di centrosinistra ha toccato anche temi di attualità. È stato pungente sulla nuova legge elettorale, l’Italicum, confrontato con il sistema del 1953: quella — ha detto Prodi — «fu tanto criticata da essere definita “legge truffa”. Essa, soprattutto con gli occhi di oggi era invece altamente rispettosa dei principi di democrazia e certamente molto più efficace e democratica di molte recenti proposte». Per quanto riguarda la crisi in Europa l’ex presidente della Commissione Ue si è rammaricato che la «cooperazione paritaria tra mondo latino e mondo germanico si stia progressivamente indebolendo» con il rischio — ha aggiunto — «di sostituire rapporti gerarchici alla lunga tradizione di solidarietà che aveva caratterizzato l’intera vita dell’Unione». Un vero tributo poi alle qualità di statista del leader democristiano Alcide De Gasperi a cui è intitolato il premio: la sua «eredità» ha concluso Prodi «va ben al di là dell’uso politico della storia e sta nella ricerca ostinata di soluzioni» per «allontanare i miti populisti che sempre corrompono le fondamenta della nostra società».

il Fatto 6.9.14
Il pasticciaccio Giustizia

Guerra sul falso in bilancio
di Wanda Marra


IL DECRETO SUL CIVILE NON È ANCORA ARRIVATO AL QUIRINALE: NEL TESTO ANCHE MENO FERIE PER I MAGISTRATI (MA SI ATTENDE L’ANM). INTANTO IL GOVERNO LITIGA SULLA RIFORMA PENALE

Bologna Il decreto sulla giustizia civile non è ancora arrivato al Colle. Nel perfetto stile dell’esecutivo Renzi è passata una settimana dal Cdm del 29 agosto e il provvedimento è ancora in fase di gestazione. D’altra parte, il metodo ormai è chiaro: vengono approvati “salvo intese” e poi si continua a discutere e a limare. Sulla carta. In realtà, molte cose vengono cambiate completamente e se ne introducono altre che prima non c’erano. Se invece è per i disegni di legge sulla giustizia penale (falso in bilancio, intercettazioni, prescrizione) sono ancora oggetto di trattativa nella maggioranza di governo. E come saranno alla fine è tutta un’incognita. La materia più incandescente resta il falso in bilancio. Durante il Consiglio dei ministri del 29 Federica Guidi, ministro dello Sviluppo economico, aveva cercato di farlo derubricare. Non ci è riuscita, anche per l’opposizione di Andrea Orlando, ministro della Giustizia. Ma su come farlo, il braccio di ferro è ancora in corso.
QUELLO che chiedono dal Mise è di quantificare le soglie della punibilità, di prevedere un trattamento diverso per le società quotate in borsa e per quelle più piccole. Ma è chiaro che il progetto è sempre quello di annacquare il più possibile il provvedimento: è dall’inizio che Forza Italia baratta alcune garanzie sul falso in bilancio con l’appoggio alle riforme. E non a caso Berlusconi in questi giorni ha di nuovo fatto presente a Renzi la sua disponibilità a discutere sull’Italicum. Il nodo non è risolto: a gestire le mediazioni “ufficiali” è il ministro della Giustizia. Ma oltre al tavolo ufficiale di trattativa, tutto corre sull’asse di ferro Verdini-Renzi. Il Guardasigilli è in una posizione scomoda: nel senso che alla fine il presidente del Consiglio potrebbe spingerlo a dover presentare testi diversi da quelli preparati da lui. Non è detto che la reazione a quel punto sarebbe delle migliori. Ma è tutto di là da venire. Per adesso, la partita è apertissima e la riforma di conseguenza lontanissima. Da via Arenula assicurano però che il decreto sulla giustizia civile arriverà al Quirinale lunedì. In questi giorni è stato il Dagl (Dipartimento affari giuridici e legislativi), guidato dalla fedelissima di Renzi, Antonella Manzione, a scriverlo, rimodulando alcune questioni. Ed è pronta una sorpresa: nel testo finale sono state introdotte le ferie dei magistrati. Che da 45 giorni passano a 28. In origine non c’erano: Orlando si era opposto, dicendo che si era confrontato con l’Anm su tutti i punti, ma non su questo. Dunque, farà un passaggio con i magistrati: loro potrebbero cercare di ottenere una mediazione, rispetto alle intenzioni di partenza del governo. A proposito di work in progress. Cambia anche la questione dell’arbitrato (per tagliare l’arretrato dei processi civili si dovrà far ricorso agli arbitri), su cui sono state sollevate una serie di perplessità. Tra le obiezioni poste con più forza: come convincere a pagare un arbitro con il rischio che questi decida di dare torto (e dunque a pagare) a chi magari sta pagando lui? E poi, in genere, chi deve pagare tende sempre a far slittare i tempi, non ad accelerarli. Nel decreto, l’arbitrato (per ora) è rimasto, se non per questioni che riguardano la Pa. Esiste un’altra questione tecnica da verificare: la sospensione feriale, ora fino al 15 settembre, e nel decreto prevista fino al 31 agosto. Se andasse in vigore prima del 15, sarebbe difficile la transizione essendo ora in un periodo di sospensione feriale. Con il rischio di veder scadere i termini di molti procedimenti. Ma è evidente che il testo prima di potersi considerare definitivo deve passare al vaglio del Quirinale e dei tecnici del Mef che ne devono verificare le coperture. Finora passaggi tutt’altro che indolori e formali.
C’È POI un’altra questione nell’aria: martedì sera si riuniscono i gruppi del Pd di Camera e Senato. Si tratta di decidere da dove inizieranno i loro iter i ddl sul penale. Alla Camera la Commissione Giustizia è guidata da Donatella Ferranti (Pd), in Senato da Nitto Palma (Forza Italia). È evidente che il luogo di partenza non è indifferente.

Il Sole 6.9.14
Le divisioni frenano il Jobs act
di Giorgio Pogliotti


ROMA Le divisioni all'interno della maggioranza rallentano l'iter parlamentare del Jobs act. La pausa estiva non è servita per ricomporre la frattura e la commissione Lavoro del Senato ha rinviato a giovedì prossimo l'esame del Ddl che il relatore, Maurizio Sacconi (Ncd), contava di portare in Aula entro metà luglio.
Non è ancora stata fissata una riunione di maggioranza per stabilire una linea comune tra il Pd e l'area centrista (Ncd, Sc, Ppi e Svp) che preme per concedere una delega ampia al governo per riscrivere lo Statuto dei lavoratori, in un Testo unico semplificato che affronti la disciplina dei licenziamento, i demansionamenti, l'impiego degli impianti audiovisivi per i controlli a distanza. «In Italia la prima riforma è quella relativa al mercato del lavoro – afferma Sacconi – il governo è atteso alla prova del nove. Il premier Renzi dimostri di non accettare veti, chieda una delega ampia per la riforma dello Statuto verso la quale tutti i componenti della maggioranza, a partire da quelli del suo partito, dovrebbero esprimere un necessario atto di fiducia». Mentre il Pd intende restringere il perimetro di intervento al tema della mansioni e dei controlli a distanza: «È evidente – afferma il presidente della commissione lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd) – che tanto più si danno deleghe in bianco al governo a cambiare nel profondo lo Statuto e l'articolo 18, tanto più aumentano le difficoltà. Serve una riunione di maggioranza perchè con le divisioni esistenti, diventa difficile rispettare la tempistica fissata dal governo».
Il richiamo del capo dello Stato ad accelerare sulle riforme non ha ancora prodotto effetti. Per rispettare il timing del governo Palazzo madama deve approvare il testo entro settembre, considerando che potranno servire tre passaggi tra Senato e Camera. Nei piani del governo il Ddl va approvato entro l'anno, dopodiché nei sei mesi successivi saranno pronti i decreti legislativi, cioè tra la primavera e giugno 2015 saranno operative le nuove misure, sempreché non servano decreti attuativi. Si tratta di un orizzonte temporale piuttosto lungo, di fronte all'emergenza disoccupazione che tra i giovani ha raggiunto il picco del 42,9 per cento. Per i giovani il governo ha lanciato il 1° maggio il piano Garanzia giovani che, però, ha un impatto piuttosto limitato: si sono registrati in 179mila, quasi 42mila sono stati convocati dai servizi per il lavoro, tra loro oltre 26mila hanno ricevuto il primo colloquio di orientamento. Le occasioni di lavoro sono poco più di 10mila, i posti disponibili circa 15mila. È un bilancio piuttosto magro, quello tracciato dal ministero del Lavoro al 4 settembre, in attuazione del piano da 1,5 miliardi (in prevalenza risorse comunitarie) visto che, secondo la Raccomandazione dell'Ue, ai giovani con meno di 25 anni va garantita un'offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato, tirocinio o formazione, entro 4 mesi dall'uscita dal sistema di istruzione o dall'inizio della disoccupazione. Anche il bonus annunciato dall'ex ministro Giovannini a giugno 2013 per l'assunzione di giovani "svantaggiati" sta dando frutti limitati, con 30mila tra assunzioni e trasformazioni da tempo determinato a indeterminato.
In questo quadro cresce il malcontento dei sindacati scesi sul piede di guerra nel pubblico impiego, tra le forze armate, mentre una novità arriva dalla Fiom, sindacato solitamente assai battagliero. Il leader delle tute blu della Cgil, Maurizio Landini - unico sindacalista ad avere un filo diretto con il premier - lancia una mobilitazione proponendo uno sciopero "al rovescio", con una giornata di lavoro straordinaria destinata ad attività socialmente utili per coinvolgere occupati, cassaintegrati e senza lavoro: «Non è uno sciopero di protesta o di opposizione al governo Renzi – spiega – ma per sollecitare una diversa politica industriale».

il Sole 6.9.14
Riforme costituzionali. A metà mese previsto un nuovo incontro Renzi-Berlusconi
Senato, la riforma stenta a ripartire
di Barbara Fiammeri


ROMA L'11 settembre riparte alla Camera la riforma costituzionale del Senato. Ma come per l'Italicum in coda a Palazzo Madama, anche sulla riforma del Senato la scelta è di procedere senza accelerazioni. Nella prima riunione «verranno svolte solo le relazioni, dopodiché rinvieremo ad un'altra seduta la discussione generale», conferma il presidente della prima commissione Francesco Paolo Sisto che è anche relatore del provvedimento assieme al capogruppo Pd Emanuele Fiano. Prima della riforma del Senato, la commissione sarà impegnata nella conversione del decreto sul contrasto alla violenza in occasione di manifestazioni sportive. «L'importante è partire», aggiunge Sisto che ipotizza anche la necessità di svolgere alcune audizioni perchè «le riforme nella nostra commissione si fanno in un certo modo, non dobbiamo avere alcuna ansia».
Previsioni sui tempi al momento non ci sono. Un po' come sta avvenendo al Senato sull'Italicum. La commissione Affari costituzionali riunirà l'ufficio di presidenza martedì prossimo ma all'ordine del giorno c'è solo la calandarizzazione della riforma della pubblica amministrazione. Anna Finocchiaro ha anticipato che vuole incontrare il premier e il ministro Maria Elena Boschi. «Dopo la ripresa occorre riallacciare i contatti e verificare ogni dettaglio», ha spiegato la presidente della commissione Affari costituzionali, consapevole delle difficoltà di licenziare il provvedimento anche per le divisioni interne al suo stesso partito, il Pd. Dalla minoranza, Pier Luigi Bersani in testa, sono arrivate negli ultimi giorni ripetute bordate contro l'Italicum. L'ex segretario del Pd avverte: «Non c'è ragione di lasciare l'ultima parola a Verdini», facendo esplicito riferimento al Patto del Nazareno. Del resto anche un renziano doc come Giorgio Tononi, vicepresidente dei senatori democratici, pur dicendosi «ottimista» sull'esito della riforma elettorale conferma che il testo uscito dalla Camera dovrà essere modificato. Tonini, indica tre punti che potrebbero essere oggetto di modifica: l'innalzamento della soglia per ottenere il premio di maggioranza dal 37 al 40%, l'abbassamento della soglia d'ingresso, e «la questione del rapporto tra eletto ed elettore».
Tre paletti che rappresentano l'asse portante del patto del Nazareno. Matteo Renzi e Silvio Berlusconi ne riparleranno nell'incontro che si terrà presumibilmente a metà mese. Il Cavaliere e il suo partito per ora sono intenzionati a proseguire nella linea soft di cui si è fatto ieri interprete Giovanni Toti, consigliere politico di Berlusconi. «Stiamo partecipando ad un percorso di riforme che andrà certamente avanti», ha confermato Toti, che ci tiene a mantenere però la distanza dall'esecutivo rivendicando l'opposizione responsabile di Fi. Berlusconi non sembra volersi mettere di traverso su eventuali modifiche all'Italicum. Ma non è detto che lo sarà anche domani. Per il momento il Cavaliere attende di capire anche lui se Renzi riuscirà a uscire sano e salvo dal confronto con i partner europei sulla flessibilità. Nel Pd la minoranza è già partita alla carica annunciando di voler cancellare dalla Costituzione il principio del pareggio di bilancio introdotto ai tempi del governo Monti e votato sia dal Pd allora bersaniano che da Fi allora ancora Pdl.

Corriere 6.9.14
«Alcune ministre sono state scelte perché giovani e belle»
intervista a Rosy Bindi. Presidente Commissione Antimafia di Monica Guerzoni

qui

Corriere 6.9.14
«Ministre scelte anche perché belle»
La frecciata di Bindi agita i democratici
Moretti: smentite dai fatti le accuse su Boschi, Madia e Mogherini
di Monica Guerzoni


ROMA — «Penso che le donne ministro siano state scelte anche perché erano giovani, non solo perché erano brave, ma anche perché erano belle...». Nel dibattito che anima le varie anime del Pd piomba la questione femminile. Rosy Bindi parla del governo Renzi, formato al 50 per cento da donne, come di una «conquista importante», però ritene che in Italia «siamo ancora alle gentili concessioni». E a Maria Elena Boschi, Marianna Madia e alle altre esponenti dell’esecutivo bersagliate dai flash, la presidente della commissione Antimafia suggerisce di «rifiutare qualche intervista sul personale e farne una in più sul merito del loro lavoro».
Intervistata per la video-inchiesta sul potere femminile dal blog «La ventisettesima ora», online sul Corriere.it , la ex responsabile della Sanità risponde sulla spasmodica attenzione per l’aspetto fisico delle esponenti del governo e scherza sulla perfida battuta con cui Berlusconi la attaccò anni fa in tv: «Ritengo sia un grande passo avanti rispetto a quando dovevo rispondere che ero più bella che intelligente... Meglio che vengano considerate nella loro bellezza e nella loro giovinezza». Alessandra Moretti, eurodeputata del Pd che è stata più volte oggetto di attenzioni (e polemiche) per la sua avvenenza, non è d’accordo con l’analisi di Bindi. Per lei «la scelta di Renzi di puntare su giovani donne si è rivelata vincente» e le «osservazioni un po’ maschiliste e misogine» che Marianna, Maria Elena o Federica Mogherini hanno dovuto subire, sono state smentite dai fatti: «Hanno dimostrato sul campo che oltre all’aspetto fisico c’è la competenza. In politica una donna brava, che ha anche un bell’aspetto, fa paura perché ha dei punti in più». Polemica garbata, perché le esponenti del Pd ci tengono a «fare lobby» e, quando possono, evitano i toni aspri tra loro. Madia, ministro della Pubblica amministrazione, dice di aver ascoltato con attenzione l’intervento della presidente dell’Antimafia e di non aver letto tra le righe «alcun intento polemico». E Simona Bonafé, una delle eurodeputate che Beppe Grillo, quando era capolista, apostrofò come «velina», condivide un passaggio dei ragionamenti di Bindi: «L’importante non è essere giovani e carine, ma quanto si incide. Duole constatare che in politica, e non solo, molte posizioni di potere sono ancora appannaggio degli uomini». Domani l’attenzione dei «dem» si sposterà a Bologna, per la chiusura della Festa dell’Unità. Difficile che il leader annunci dal palco la nuova segreteria, anche perché, dicono i suoi, «Matteo non ci ha ancora messo la testa». Renzi vuole rinnovare del tutto la squadra e non ha rinunciato a coinvolgere la minoranza nella gestione collegiale del Pd. Ma il dibattito sul partito resta acceso. «Il doppio incarico è sbagliato — attacca Nico Stumpo — Due lavori insieme non si fanno bene, sarebbe opportuno dare il via libera a un vicesegretario che abbia margini di manovra. Il partito del leader non fa bene neanche a Renzi».

La Stampa 6.9.14
Festa dell’Unità
Orfini a Civati:“Se aveva impegni poteva rinviarli”
intervista di Francesca Schianchi


Sta andando bene, la Festa nazionale dell’Unità di Bologna. Superiore come incassi e come presenze alle aspettative degli organizzatori emiliani, nonostante il tempo spesso inclemente. A chiuderla, domani, l’intervento del segretario-premier Matteo Renzi. E chissà se, su quel palco, dirà qualcosa a proposito delle polemiche di questi giorni sugli inviti mancati o arrivati in ritardo a esponenti della minoranza, spunto per qualcuno per lanciare l’allarme sul rispetto del pluralismo interno nel Pd dell’era Renzi: in particolare, ha denunciato Pippo Civati, un trattamento riservato ai competitor delle scorse primarie, Civati stesso e Gianni Cuperlo. «Sono stato invitato con un sms alla vigilia e in una data in cui non potevo», si è lamentato il deputato lombardo. «Ma ho invitato tutti tramite sms», si sorprende della polemica il renziano Lino Paganelli, storico organizzatore delle feste del partito. «Non c’è stato un trattamento sfavorevole nei confronti di Civati o altri: abbiamo invitato tutti man mano che si componeva il programma». E quanto alla data, sgradita al giovane sfidante delle primarie, sospira Matteo Orfini, il presidente dell’Assemblea: «Anch’io avevo un impegno nel giorno che mi hanno proposto, pure a me via sms. Ma per la Festa nazionale del tuo partito magari l’altro impegno lo rinvii…».
Ma anche Gianni Cuperlo, quest’anno, non ha partecipato ad alcun dibattito della Festa. Non l’hanno invitato, dicono suoi collaboratori; «gravissimo averlo lasciato fuori», ripete l’esponente della minoranza Stefano Fassina, mentre il diretto interessato evita di entrare nelle polemiche. La versione che arriva da Bologna è che una richiesta di disponibilità gli sarebbe stata fatta, a Festa però già iniziata, ma la data possibile per Cuperlo non era disponibile. «Io non so cos’abbiano pensato, non so se Gianni e Pippo abbiano ritenuto che è poco elegante un invito via messaggino o arrivato a Festa cominciata», spiega Paganelli, «ma qui ha trovato spazio tutto il Pd», assicura. E poi, aggiunge, la Festa di quest’anno è stata pensata «non per componenti, ma per funzioni, affrontando i vari temi e lasciando meno spazio alla “politica politicante”». Non è, insomma, una «Festa congressuale», come quella dell’anno scorso, che precedeva di pochi mesi la corsa delle primarie: «I dibattiti sono stati pensati a partire dal programma dei 1000 giorni: abbiamo discusso di lavoro, di economia, di PA, di riforme... Senza nessuna esclusione a priori».

Repubblica 6.9.14
L’amaca
di Michele Serra


IL COMBINATO disposto Twitter/quarantenne renziano è devastante. Nel senso che la forzata sentenziosità di Twitter esalta la spocchia di una nuova classe dirigente che sta mettendo a dura prova la simpatia con la quale è stata accolta. “Dovete stare zitti perché noi abbiamo vinto e voi avete sempre perso” è la modalità di massima con la quale un gruppetto di giovani fenomeni del Pd replica alle critiche di Bersani e D’Alema. Beh, non è una modalità politica. È una modalità agonistica che ricorda molto da vicino il Berlusconi che rinfacciava di avere “vinto molte Champions League” a chi gli stava parlando di tutt’altra cosa. Sulla generazione che ha preceduto l’attuale alla guida della sinistra italiana si può dire tutto il male possibile (l’elenco è lungo); ma tutta questa derisione per lo sconfitto e tutta questa vanteria per il primato sono le cose meno di sinistra che esistano al mondo, comprendendo nella sinistra, naturalmente, anche gli scout. Il lupetto che si vanta di essere tanto bravo e irride il perdente, un bravo Akela lo manda a raccogliere legna nel bosco fino a che non gli passano i bollori. Renzi spieghi ai suoi che Twitter è un balocco da maneggiare con attenzione, se continuano a usarlo così, anche se sono ministri e hanno il 41 per cento, sembrano Balotelli.

il Fatto 6.9.14
Franceschini al bivio
Sblocca Italia, distrugge il Paese
di Tomaso Montanari


“Contrarietà Mibact”: è la formula che punteggia parole, il ministero per i Beni culturali è l'ultimo argine che tenta di impedire un azzeramento senza precedenti delle leggi che tutelano il territorio nazionale. Un argine debole, tuttavia: perché, negli stessi giorni, Dario Franceschini deve ottenere la sospirata firma del presidente del Consiglio in calce alla riforma del suo ministero. Una partita incrociata che rischia di vedere un unico sconfitto: il Paese.
MA COSA STABILISCE il decreto? L'articolo 1 prevede che l'amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, nominato commissario per la realizzazione degli assi ferroviari Napoli-Bari e Palermo-Messina-Catania, possa condividere con le altre amministrazioni coinvolte non una bozza, ma un progetto finale. Nel caso che esse non siano favorevoli, egli potrà decidere se i pareri avversi siano “regolari”, e quindi se tenerne conto o meno. Un potere privo di qualsiasi freno e controllo: se occorrerà bucare una montagna piena di amianto o spianare una città antica, ebbene si potrà fare. E il principio è letale: una soprintendenza non potrà più respingere un progetto perché incompatibile con la tutela del territorio, e dovrà invece comunque accettarlo. L'articolo 5 stabilisce che si possano posare pali per reti a banda ultra larga senza autorizzazione preventiva: anche in aree vincolate paesaggisticamente. L'articolo 10 dimezza i tempi con cui valutare la pericolosità degli inceneritori. L'articolo 12 sancisce la fine della cosiddetta archeologia preventiva: d'ora in poi in caso di ritrovamenti (anche importantissimi) le soprintendenze non potranno più indicare come tutelare e valorizzare le scoperte, ma saranno costrette ad accettare le soluzioni proposte dalle ditte. Che è come chiedere alla volpe come desideri proteggere il pollaio.
L'articolo 13 stabilisce che se in due mesi una soprintendenza non riesce a esaminare una autorizzazione paesaggistica, il silenzio viene interpretato come un assenso: e si procede d'ufficio. Un provvedimento criminale: perché pretende efficienza da un corpo dello Stato che si è dolosamente depotenziato inibendo il turn over e azzerando i fondi; e perché l'inefficienza dell'amministrazione viene fatta scontare ai cittadini, che si vedono distrutto l'ambiente in cui vivono.
L'articolo 14 liberalizza in modo selvaggio gli impianti fotovoltaici e a biomasse, e le torri eoliche: per i quali non sarà necessaria più nessuna autorizzazione paesaggistica. Il che ribalta la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, e una recente pronuncia del Consiglio di Stato per cui “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato”. Insomma, un enorme regalo a imprese in alcuni casi perfino legate alla criminalità organizzata: nonché la fine di quel che resta del paesaggio italiano.
L'articolo 28 bis prevede che chi vuole costruire possa autocertificare che ha fatto tutto secondo le regole, pagare una tassa e aspettare il disco verde: quella che è un’attività di controllo a tutela del territorio, diviene così una compravendita. E, si sa, il cliente ha sempre ragione. Ci si chiede con quale faccia chi approverà una simile porcheria andrà poi ai funerali delle prossime vittime delle frane e delle alluvioni causate dallo stupro edilizio del territorio.
MA NON È FINITA. L'articolo 45 prevede di usare lo strumento del project financing per eliminare ciò che resta del demanio: i privati potranno presentare progetti di valorizzazione di un bene demaniale, che in parte sarà dato loro in concessione per attività for profit, in parte sarà ceduto agli enti locali. E, per finire in bellezza, si dà carta bianca alla costruzioni nei campeggi, dicendo che “non rappresentano nuovi volumi o nuove superfici”. Il che consente di realizzare, senza titolo edilizio, edifici per finalità residenziali, produttive e di deposito, ma destinati alla sosta e al soggiorno dei turisti. Ma che “turisti” sono quelli che abitano e lavorano, o hanno depositi, in aree qualificate come “campeggi”?
Se ci avesse provato Silvio Berlusconi, il Pd avrebbe portato in piazza mezza Italia: e invece ora lo fa un berlusconiano doc come Maurizio Lupi, dentro un governo guidato dal segretario del Pd. “Padroni in casa propria” è il motto delle Larghe Intese al tempo di Matteo Renzi: solo che la casa, e cioè il territorio del popolo italiano, questa volta rischia di uscirne distrutta. Per sempre.

il Fatto 6.9.14
Sardegna bombardata, un caccia distrugge un bosco
Esplode la protesta
di Maddalena Brunetti

ESPLODE LA PROTESTA CONTRO I POLIGONI DI TIRO SUL MARE DOVE ESERCITI DI TUTTO IL MONDO TESTANO LE LORO ARMI. SCONTRO TRA REGIONE E DIFESA

Cagliari Il Tornado tedesco sorvola le bianche spiagge di Cabras e molla la sua bomba da allenamento sul poligono militare di Capo Frasca, 10 chilometri in linea d’aria dalla città di Arborea. L’ordigno centra una roccia e le scintille provocano un incendio che distrugge 32 ettari di macchia mediterranea. Ma stavolta a prendere fuoco è anche la protesta della Sardegna, ostaggio del ministero della Difesa: 37 mila ettari di paradisi terrestri in riva al mare sequestrati per provare armi di ogni genere, il 60 per cento dell’intero demanio militare italiano.
LA DINAMICA dei fatti può sembrare surreale, ma per i sardi è un’abitudine. Tutto inizia mercoledì scorso, quando il Corpo forestale riceve una chiamata dai militari che chiedono aiuto perché nel poligono è scoppiato un incendio. Ci sono i Tornado tedeschi che, come da programma, si stanno esercitando a Capo Frasca, facendo il tiro a segno per testare la precisione del bombardamento. Sganciano bombe, in questo caso inerti, per vedere se riescono a centrare gli obiettivi: il danno è limitato, il fuoco viene domato in poco tempo e la notizia non supera il filo spinato. Il giorno dopo, giovedì, alla stessa ora, il copione si ripete: la Forestale riceve un’altra telefonata, c’è un altro incendio nel poligono. L’autobotte corre a Capo Frasca. I militari, che non hanno nessuna unità di pronto intervento, offrono la “massima collaborazione”, cioè accompagnano i forestali nei pressi delle fiamme. Gli uomini dell’antincendio si trovano davanti un rogo imponente e, mentre iniziano le loro operazioni, sentono a meno di 50 metri da loro una violenta esplosione. Si alza una densa colonna di fumo. Per l’Aeronautica è una banale “fumata da segnalazione che ha sviluppato un lampo e rilasciato una modesta quantità di fumo senza alcuna esplosione”. Punti di vista. Gli uomini della Forestale però scappano, e in costanza di bombardamento, proseguono lo spegnimento dall’elicottero.
Nel frattempo le linee telefoniche tra Cagliari e Roma si sono arroventate. Il presidente della Regione, Francesco Pigliaru, alza la voce e chiede la convocazione straordinaria del consiglio regionale, l’opposizione sollecita le dimissioni del ministro della Difesa Roberta Pinotti e le associazioni antimilitariste si preparano ad affollare la già prevista manifestazione di protesta del 13 settembre. In questo putiferio, l’Aeronautica dirama un tranquillizzante comunicato in cui parla di “piccoli focolai d’incendio sotto controllo”. Sarà. Alla fine Pigliaru - che non aveva ottenuto il prolungamento della pausa estiva fino al 30 settembre - giusto per risparmiare ai turisti di fare gli ultimi bagni in scenario bellico, strappa la sospensione delle esercitazioni fino a che la Difesa non abbia istituito il presidio antincendio a cui finora non aveva pensato. Il dramma delle servitù militari in Sardegna è antico: da anni la Regione chiede che questo peso venga alleggerito e tanti sono già gli accordi firmati e disattesi.
COSÌ IL PARADISO delle vacanze si ritrova con i 37 mila ettari racchiusi in chilometri di filo spinato, senza contare lo spazio aereo e quello a mare bloccati per le esercitazioni. La sola Cagliari si trova con 2 milioni di metri quadrati occupati da strutture militari, compresi gli stabilimentibalnearidiEsercito, Marina e Aeronautica, chiamati “centri elioterapici”. Oltre alla base aerea di Decimomannu, ai tunnel polveriera di Santo Stefano all’isola della Maddalena, dove sono stipati armamenti di tutti i tipi nel cuore di un parco naturale internazionale, la Sardegna è occupata dagli immensi poligoni costieri di Capo Frasca, di Quirra (tra le province di Cagliari e Ogliastra) e di Capo Teulada (Sulcis) più quelli - definiti “occasionali” - di Macomer (Nuoro) e del lago Omodeo (Oristano). Impianti che, messi assieme, costituiscono il fronte interno più vasto d’Europa. Ogni anno le Forze armate propongono il loro calendario di bombardamenti al Comipa, il Comitato paritetico per le servitù militari, che sistematicamente lo boccia. Ma il parere non è vincolante. A Roma storcono il naso e poi, per decreto, danno via libera ai giochi di guerra. Così da decenni nei poligoni sardi si addestrano gli eserciti di mezzo mondo, basta firmare un’autocertificazione – poiché lo Stato italiano si fida – e pagare un canone. I soldi vanno tutti nelle casse della Difesa, all’isola non restano che gli scarni indennizzi – sempre in ritardo - e i danni collaterali.

il manifesto 6.9.14
In Sardegna la guerra è un disastro ambientale
di Costantino Cossu


Sabato della prossima settimana a Capo Frasca, nel cuore del poligono di Teulada, i movimenti pacif- isti sardi hanno convocato una manifestazione contro le servitù militari e per il blocco immediato di tutte le esercitazioni militari nell’isola.
Proprio a Capo Frasca l’altro ieri intorno alle 15, durante uno dei giochi di guerra dell’esercito, lo scoppio di un proiettile di artiglieria ha innescato un grosso incendio che ha distrutto trentacinque ettari di macchia mediterranea di grande pregio. Per spegnere il rogo sono intervenute le squadre a terra del Corpo di polizia forestale con l’aiuto di un elicottero.
Il personale del poligono si è rifiutato di accompagnare le squadre, com’era stato loro richiesto per evitare le aree a rischio. I forestali sono comunque entrati, ma si sono dovuti ritirare quando ci sono state nuove deflagrazioni (proiettili lasciati inesplosi sul terreno) ad appena cinquanta metri dai mezzi di soccorso.
A quel punto, per non correre inutili rischi, il lavoro di spegnimento è andato avanti, ovviamente con ritardo, solo con l’elicottero.La notizia dell’incendio è stata data non
dall’esercito (che anzi ha tentato sino all’ultimo di smentire e di minimizzare) ma su Facebook dal deputato Mauro Pili, ex presidente dirigente di Forza Italia ed ex presidente della Regione, oggi leader di una formazione di centrodestra, Unidos, fuoriuscita dal partito berlusconiano.
Da Roma il governo minimizza
L’episodio ha riacceso la polemica sulle basi (l’isola sopporta il 65 per cento delle servitù presenti nell’intero territorio nazionale). «È inconcepibile — ha detto il presidente della Regione Sardegna Francesco Pigliaru — che la giunta abbia scoperto da fonti non ufficiali che un grave incidente fosse avvenuto a Capo Frasca nel corso di una esercitazione militare. È altrettanto inconcepibile che la conferma reale delle dimensioni dell’incendio sia arrivata solo dopo l’intervento degli uomini del Corpo forestale, e che il ministero della Difesa, da noi interpellato, abbia parlato di un piccolo incen- dio già domato quando invece l’elicottero del Corpo forestale è stato in azione sino alle 18.30, cinque ore dopo che un proiettile aveva innescato il fuoco». Pigliaruha denunciato, come già aveva fatto nel corso della conferenza nazionale sulle servitù militari che s’è tenuta lo scorso 18 giugno a Roma, gli alti rischi con cui i sardi sono costretti a convivere per della massiccia presenza di poligoni militari. E ha ripetuto che tra le richieste presentate alla Difesa «c’è quella di prolungare il blocco delle eser- citazioni, anticipando l’inizio al primo giugno e posticipando la conclusione al 30 settembre. In particolare il problema riguarda proprio il poligono di Capo Frasca, dove il blocco delle esercitazioni è il più breve: solo luglio e agosto».
Troppi silenzi e menzogne
Pigliaru ha poi chiesto al presidente del consiglio regionale una convocazione straordinaria dell’assemblea per discutere del caso.
Dura e allarmata la presa di posizione di Michele Piras, deputato di Sel : «L’incendio a Capo Frasca è la dimostrazione del rischio costante che si corre nelle aree interessate da esercitazioni militari. Mi auguro che sull’accaduto si apra immediatamente un’inchiesta che ne chiarisca le cause e individui
i responsabili. Un danno duplice: quello ambientale e quello all’attività turistica».
Infine, il pressing su Pigliaru: «Chiedo che ora il presidente della Regione sbatta i pugni sul tavolo del ministro Pinotti. La Sardegna dal 1956 ad oggi ha già dato troppo agli interessi della Difesa e dell’Alleanza atlantica. È giunta l’ora di cambiare radicalmente il senso di marcia». L’ex presidente della giunta regionale, Ugo Cappellacci (Forza Italia), ha chiesto le scuse ufficiali del governo e le dimissioni della Pinotti.
Indipendentisti e non solo
La manifestazione di sabato 13 è organizzata da diverse sigle pacifiste e indipendentiste (A manca pro s’indipendentzia, Sardigna natzione, Comitato Gettiamo le basi, Comitato Su giassu e Comitato Su sentidu). «Invitiamo tutto il popolo sardo, le associazioni, i partiti e i comitati — scrivono in un documento diffuso nei giorni scorsi — ad aderire e a partecipare alla giornata di mobilitazione del 13 a Capo Frasca per pretendere il blocco immediato di tutte le esercitazioni militari e la chiusura di tutte le servitù militari, con la bonifica e la riconversione delle aree interessate. L’occupazione mili- tare della Sardegna è un sopruso che dura da sessant’anni e che non siamo più disposti a tollerare. Col passare del tempo lo stato italiano intensifica il ritmo e il peso delle esercitazioni militari. La Sar- degna è ridotta ad un campo di sperimentazione militare in cui diventa lecita qualsiasi soglia di inquinamento e viene testata qualsiasi tecnica di sterminio. È giunto il momento di dire basta».
«Siamo indisponibili»
La manifestazione del 13 chiederà in particolare che siano sospese le esercitazioni dell’aviazione israeliana in programma a Teulada tra un mese. «Vogliamo — scrivono gli organizzatori — che la Sardegna diventi un’isola di pace e che il suo territorio sia indisponibile per le esercitazioni di guerra, di qualunque esercito (compreso quello italiano) e sia interdetto a qualunque attività o pre- senza connesse con chi usa la guerra per aggredire altri popoli o per crimini contro i civili, colpendo case, ospedali, scuole, rifugi per sfollati. Chiediamo che la Sardegna sia immediatamente e per sem- pre interdetta all’aviazione militare israeliana».

il Fatto 6.9.14
Marino lo sceriffo dai bar alla cultura: nessun prigioniero
di Alessandro Ferrucci


IL 44% OTTENUTO DAL PD ROMANO ALLE EUROPEE GLI HA DATO POTERE: CASTIGA I RISTORATORI, ATTACCA CALTAGIRONE, ALZA LE TARIFFE AGLI AMBULANTI, SGOMBERA UN CINEMA OCCUPATO

Roma A Ignazio Marino la risata, non troppo ostentata, è sbocciata il 25 maggio di quest’anno, notte dei risultati nelle ultime elezioni europee: Pd a 40,8 per cento a livello nazionale, il 44 a Roma. No, non è una questione di appartenenza a un partito, non è neanche una vicenda di fedeltà renziana, anzi, quel risultato per il sindaco della Capitale è solo una cambiale da mostrare, sventolare sotto il mento dei democratici e poi sistemarla all’interno della giacca per oggi, domani o chissà quando. “Vede, fino al giorno prima delle consultazioni – racconta un piddino dentro l’aula Giulio Cesare – tra i democratici era un generale prendere le distanze da Marino, tutti certi di una débâcle su Roma, circolavano sondaggi drammatici, eravamo pronti a chiedere le dimissioni”. O meglio: era già allestita una strategia per ottenere le dimissioni, con tanto di campagna mediatica per rinnegare il chirurgo. “Ma quel 44 per cento ha cambiato la storia” e da quel giorno il medico è piano piano diventato uno sceriffo. Lo sceriffo-Marino.
COSÌ, ARMATO di cappellone texano (metaforico, eh), ha iniziato a scardinare alcuni dei gangli atavici della città, gangli talmente integrati sul territorio da non apparire più tali: “Ma vi sembra normale che chi vende le caldarroste a Roma paghi come tassa di occupazione di suolo pubblico tre euro al giorno quando un sacchetto di caldarroste ne costa quattro? Vi sembra normale che un camion-bar che guadagna due-tremila euro al giorno paghi tre euro al giorno di occupazione? ”, Marino dixit. Risultato: fuori alcuni camion-bar da zone di pregio assoluto come il Colosseo, richiesta ai caldarrostai di rispettare il periodo assegnato al commercio (1º ottobre-31 marzo, non sono ancora rispettati), e soprattutto aumento della tassa da tre a dieci euro al giorno, anche se lo “sceriffo” ne pretendeva 30. Soldi, quindi. Come quelli ottenuti per il concerto di giugno dei Rolling Stones, appena 8.000 euro per il Circo Massimo, polemiche annesse, ma non replicabili, perché secondo una delibera la cifra per l’area è passata a 150.000 euro.
“Il bello – spiega un consigliere di maggioranza – è che non ci ascolta, sfrutta le nostre divisioni e va avanti da solo”. Divisioni, beghe politiche.
TRA I DICIANNOVE consiglieri eletti nel Pd, c’è un sottobosco di correnti da riempire un annuario scolastico, come dalemiani (pochi), lettiani (pochissimi), zingarettiani (qualcuno, timido) ; ovvio i renziani e altre sottospecie. Sottospecie azzittite in aula, ma pronte a battagliare sui giornali come sul caso dello stadio della Roma, tra chi lo ritiene prioritario, chi un disastro eco-ambientale, e chi si preoccupa delle ditte appaltatrici, con il deputato del Pd, Umberto Marroni, che ha pubblicamente avvertito: “Garantiremo trasparenza per gli appalti sulle infrastrutture... ”. I maligni hanno pensato a un contentino per Caltagirone, vero re della Capitale, escluso dal business per l’edificazione della casa giallorossa e attaccato frontalmente dal sindaco per le nomine dirigenziali di Acea, azienda-gioiello.
“Sì, bello, bravo, bis. Ma le strisce blu sono una vergogna”, parola di automobilista in zona Prati. Non lo dice, lo urla, e come lui, da lunedì, giorno delle nuove tariffe, è un continuo di proteste: da un euro l’ora, a un euro e 50 e niente più abbonamento giornaliero. “Serve a scoraggiare l’utilizzo della macchina”, spiegano dal Comune. Peccato che i mezzi pubblici sono stati ridotti per questioni di bilancio; la nuova linea della metropolitana non è ancora inaugurata e, complice la crisi, su Roma si sono moltiplicate manifestazioni, sit-in, proteste, cortei: solo l’anno scorso la Questura ne ha certificati quasi 1600, una media di oltre quattro al giorno. “Però a metà ottobre inauguriamo 15 nuove fermate”, sempre dal Comune. Meno delle previste, ma è già qualcosa.
CAPITOLO occupazione di suolo pubblico. Meglio dire occupazioni, plurale. Tavolini, altri tavolini, solo tavolini, camminare a Roma era uno slalom tra una carbonara, un saltimbocca e un’ananas. Ora, non ovunque. Regolamentati nella zona di Campo de’ Fiori, i ristoratori non sono felici, ovvio, parlano di rischio chiusura, di danno non calcolabile, ma erano abusivi, questo è un fatto. Come è un fatto la vicenda dello sgombero del cinema America, punto di ritrovo per la cultura trasteverina, attori, registi, persone comuni impegnate per offrire un’alternativa a pub e movida; Marino non ha ascoltato alcun appello. Nella contea di Roma, lo sceriffo non fa prigionieri.

il Fatto 6.9.14
Il mistero del Museo della Shoah
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, a settembre 2013 abbiamo consegnato un’offerta per la costruzione del Museo della Shoah a Roma, su progetto di Luca Zevi. So che si sono candidate una ventina di imprese. Abbiamo speso tempo e denaro per preparare la gara. Dal Comune di Roma non ci sanno o non ci vogliono dire nulla. Puoi sapere qualcosa di più?
Arch. Giorgio Rosental

LE SOLE NOTIZIE che ho avuto sono quelle delle pagine locali dei giornali nazionali. E sono disorientato perché ci viene detto che alcuni, anche nella Comunità ebraica di Roma, sarebbero contenti della nuova decisione (non costruire un museo, ma adattare un edificio disponibile nella zona dell'Eur) perché almeno si arriverà ad avere a Roma un Museo Nazionale della Shoah, in tempo per ricordare il settantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz e della rivelazione al mondo dell’esistenza di quel campo e del suo orrore. Per fortuna il quotidiano online “Pagine Ebraiche” dice di più e ascolta voci importanti della Comunità, come quella del presidente della Fondazione Museo della Shoah Leone Paserman, che ha detto: “Impossibile combattere con i mulini a vento”, riferendosi, penso, alla burocrazia comunale e/o partitica di Roma. Restano alcune cose che – come molti – non capisco e che, evidentemente, non sono mai state spiegate all'autore del progetto Luca Zevi e ai gruppi di architetti e imprese che si sono preparati alla gara, a partire da un anno prima (dunque del tutto in tempo) come ci dice nella sua lettera l'arch. Giorgio Rosental. Il Fatto Quotidiano (Alessandro Ferrucci) ne ha parlato accuratamente, ma senza poter toccare il fondo, perché evidentemente il Sindaco non è disponibile. Dunque ci sono domande senza risposta. Eccole: 1) Si preferisce, ci dicono, un edificio disponibile subito, per avere la certezza di celebrare in tempo (27 gennaio 2015) l'anniversario di Auschwitz, che è anche la data del Giorno della Memoria. È evidentemente impossibile. In poco più di tre mesi nessun museo, neppure se fosse di cartoline d'epoca, potrebbe essere pronto. Dunque la scadenza non può essere la ragione. 2) Si viene a sapere che l'edificio, a cui adesso si pensa, è all'Eur, quartiere voluto come celebrazione dell'era fascista. È un edificio costruito fra il 1938 e il 1942, dunque esattamente nei tempi della promulgazione e attuazione della prima fase (espulsione degli ebrei da tutto) delle leggi “per la difesa della razza”. Ovvio che si tratta di una soluzione inopportuna e stridente. 3) Il progetto di Luca Zevi era stato fatto per un terreno (già acquistato, già proprietà della città di Roma) intorno a Villa Torlonia, che era stata la residenza di Mussolini. Era dunque una scelta simbolica di grande importanza (le leggi razziste dette “in difesa della razza” sono state votate all'unanimità a Montecitorio al grido di “viva il duce”) tutt'altro che trascurabile, anche per i visitatori stranieri. Tutti i fondi necessari alla realizzazione dell'opera sono già stati approvati e vincolati dalla precedente amministrazione comunale. È inevitabile riconoscere che, su questa materia, tutto ciò che ha fatto la giunta Alemanno risulta tempestivo e puntuale, senza confronti con quanto sta accadendo adesso. 4) Non capisco perché si debba accettare, con sottomessa cortesia verso il Comune, la finzione della data come buona ragione per buttar via la validità architettonica, ma anche la firma e il senso storico del progetto e del nome di Luca Zevi. Ma anche il senso che questo edificio (e non una casa ex fascista in affitto) avrebbe per la città di Roma. Possibile che non ci sia qualcuno, nella giunta di Marino o nel Consiglio comunale della città di Roma, che capisca e dica queste cose, e voglia cancellare questo errore?

il Fatto 6.9.14
Ecco cosa ha fatto davvero Draghi e perché rischia di servire a poco
di Mario Seminerio


Mario Draghi ha annunciato giovedì l’ennesimo e ultimo taglio dell’intera struttura dei tassi ufficiali d’interesse e un nuovo consistente aumento delle dimensioni del bilancio della Bce, attraverso l’acquisto di strumenti finanziari emessi dal settore privato dell’economia. Tali iniziative hanno galvanizzato i mercati azionari e causato un nuovo vistoso (e auspicato) calo dell’euro contro dollaro, oltre a far precipitare i rendimenti nominali dei titoli di Stato a nuovi minimi storici assoluti.
L’OBIETTIVO dichiarato è quello di contrastare la pressione deflazionistica che sta cingendo d’assedio l’Eurozona e che rischia di causare danni fatali, soprattutto ai paesi più indebitati, come il nostro. L’azione di Draghi presenta sia una componente “tradizionale” che una più propriamente innovativa, e come tale soggetta a elevata incertezza negli esiti.
L’acquisto di cartolarizzazioni (asset backed securities, Abs) ad esempio.
Questi sono strumenti finanziari emessi da un apposito veicolo, creato da banche o imprese, e che pagano interesse e capitale contando sul flusso di cassa di un pool di attivi sottostanti, tipicamente crediti (mutui, carte di credito, prestiti personali).
In Europa, dopo la Grande Crisi, gli Abs sono diventati sinonimo di titolo tossico, in modo anche sbrigativo e ingeneroso: tutto dipende in realtà dal modo in cui sono costruiti, e non è un caso che Draghi abbia precisato che la Bce comprerà versioni “semplici e trasparenti” dello strumento.
Altro elemento che ha gelato il mercato degli Abs, in Europa, è il fatto che il loro acquisto obbliga alcuni investitori (le assicurazioni) a forti accantonamenti prudenziali, in funzione anti-rischio, e questo li rende poco appetibili .
Draghi spera che il peso tecnico-politico della Bce possa cambiare anche il quadro normativo. Obiettivo finale è quello di consentire alle banche in una prima fase di ridurre il proprio bilancio, liberando capitale, cosa che (ad esempio) non avviene con i prestiti Tltro, che riguardano solo l’aspetto della liquidità.
L’IDEA DI FONDO di Draghi è che, dopo il crollo dei rendimenti obbligazionari, si inneschi un effetto di ribilanciamento di portafoglio che spinga gli investitori verso gli attivi rischiosi (azioni e debito societario), come accaduto negli Stati Uniti, permettendo alle imprese di rifinanziarsi a costi molto bassi. Il problema è che gli Usa hanno un mercato dei capitali molto sviluppato, mentre noi in Europa continentale siamo ancora fortemente dipendenti dal credito bancario. E noi italiani, per ulteriore penalizzazione, abbiamo imprese mediamente così piccole da non poter accedere all’emissione diretta di obbligazioni.
Ma è del tutto evidente che, senza un ampio stimolo di domanda aggregata – che necessita di politiche fiscali espansive – anche “disotturare” le tubazioni del credito al settore privato servirà a poco.
E qui Draghi può solo contare su forme di moral suasion verso la politica, in particolare quella tedesca.
Quanto alla “terza freccia” della strategia di euro-salvezza, le famigerate riforme strutturali, è del tutto evidente che all’Italia servirà produrre qualcosa di reale e sostanziale, e non solo slide e slogan. La maggiore indiziata resta la riforma del mercato del lavoro, che dovrà fatalmente essere crudele come quella spagnola, e in nessun caso potrà essere “tedesca”, cioè poggiare su un ricco welfare di sostegno, per manifesta mancanza di risorse fiscali. Il momento della verità, per Matteo Renzi, si avvicina.

non solo Hollande!
il Fatto 6.9.14
Guai ai poveri
La sinistra, dal caviale al cafonal, non ha mai sopportato i senzadenti
di Fabrizio d’Esposito


Il punto più alto della sinistra italiana che disprezza i poveri, e quindi gli sdentati, e ossequia il capitale fu certamente l’elezione a senatore dell’aristocratico Mario d’Urso, principe internazionale dei salotti e confidente della Real Casa sabauda degli Agnelli, dotato ovviamente dell’indispensabile e snobistico rotacismo. Era il 1996 e fu proprio l’Avvocato che con una telefonata ai vertici del centrosinistra chiese e ottenne un seggio per l’amico Mario. Al quale Mario, in quota Dini, venne dato il collegio sorrentino-stabiese e lui, l’emissario della Fiat, fece base in albergo extra-lusso nel centro di Sorrento. E ogni mattina, i due poveri militanti del Pds incaricati di portarlo in giro, erano costretti ad aspettarlo dall’ingresso di servizio, come camerieri, mentre il candidato consumava la prima colazione. Una volta eletto, poi, d’Urso andò in giro per il mondo presentandosi come il senatore di Capri, compreso nel collegio, che faceva tanto chic.
Non è un caso, allora, che Mario d’Urso sia diventato in seguito frequentatore e amico di Lella e Fausto Bertinotti, la coppia icona della sinistra al caviale che col tempo si è trasfigurata in sinistra cafonal grazie alle foto e alle cronache di Umberto Pizzi e Roberto D’Agostino. Il disprezzo per gli sdentati sibilato dal socialista francese Hollande non è che l’ultimo tic, il peggiore e il più volgare di tutti, della gauche europea e italica che una volta al potere diventa Casta e si scopre banalmente borghese e amante della ricchezza. La galleria di questi anni è piena di leader ex e postcomunisti che si scappellano coi banchieri e con gli industriali grazie ai voti dei poveri o di quelli che non arrivano a fine mese.
Ecco un altro esempio, che riguarda lo stesso Bertinotti, già leader di Rifondazione comunista che in questi giorni si proclama liberale a tutto tondo. Anni fa, l’ex presidente della Camera andò a una prima teatrale all’Eliseo di Roma. C’era anche Ciampi, all’epoca capo dello Stato, e Bertinotti arrivò a bordo della sua auto blu. Era sera, verso le nove. La berlina accostò, il subcomandante Fausto scese e si avviò all’ingresso. Sul marciapiede c’erano due spazzini al lavoro. Lo videro e gli andarono incontro, festanti: “Fausto, Fausto, fatti salutare”. Bertinotti li gelò crudelmente: “Scusate non è il momento”. C’è poi il vasto, infinito capitolo di Capalbio, laddove la sinistra capitolina trasloca d’estate. Nel 2005, Enrico Mentana, allora a Matrix, ebbe un’idea geniale. Spedì un ambulante senegalese di nome Matar (il ministro Alfano lo chiamerebbe vu’ cumprà) sulla spiaggia dei vip a vendere abiti dalla griffe falsa. Un documento tuttora imperdibile. Gli unici a non respingerlo e a comprare un vestito per 35 euro furono Barbara Palombelli e Francesco Rutelli. Dense come un saggio sociologico, invece, le risposte di Claudio Petruccioli e Franco Bassanini. Il primo, steso sul lettino, con quell’indolenza tipica della gauche romana cui tutto è dovuto, sbuffò: “Non voglio niente, non c’ho una lira”. Matar non mollò: “Allora passo domani? ”. E Petruccioli: “No, neanche domani”. Bassanini, infine, si mostrò irritato e spazientito: “No, grazie. Sto leggendo, mi lasci in pace”.
Bertinotti a parte, la sinistra che non ascolta e disprezza il suo popolo, fino a liquidare la Ditta del fu Pci e a scolorire del tutto nell’attuale renzismo, ha celebrato la sua epifania nel cosiddetto riformismo dalemiano. Fu Claudio Velardi, uno dei Lothar (per la pelata) di D’Alema premier, a rivendicare l’idea di un progressismo aspirante alla ricchezza, nemico giurato del pauperismo e dell’austerità. Sostiene oggi Velardi, dopo l’uscita hollandiana: “La frase sugli sdentati è tipica della sinistra che ha i complessi d’inferiorità e che vuole seppellire le sue origini. È la sinistra che s’innamora dei salotti e che per farsi accettare deve fare battutine contro i poveri. È la parte peggiore, che in Italia frequenta i salotti romani, quella che vuole arricchire solo se stessa. Io ho sempre detestato i salotti”. Ma la frase di Hollande non è in linea con il dalemismo delle barche a vela e delle scarpe costose e con il velardismo accusato da Marco Travaglio di essere entrato a Palazzo Chigi con le pezze al culo uscendosene senza? Conclude Velardi, attualmente lobbista: “Non conosco le origini di Hollande, ma io che nasco piccolo-borghese non ho mai disprezzato i poveri. E mai ho sentito D’Alema disprezzarli. Il nostro approccio era diverso, era quello di far diventare ricchi i poveri. Quando siamo andati via da Palazzo Chigi, ho ripreso il mio motorino e sono andato in giro a cercare lavoro”.
In fondo, è lunghissimo il filo che unisce contraddizioni e gaffe nel rapporto tra sinistra e povertà. Un altro ex dalemiano, Gianni Cuperlo, che sfidò invano Renzi alle primarie dello scorso anno, apre la sua biografia, Basta zercar, con il racconto che Giuseppe Prezzolini fece di un’assemblea di operai della Fiat a Torino nel 1921. Prezzolini era con Antonio Gramsci e Piero Gobetti e annotò: “Perché non domandate di meglio che di mettervi addosso le mode dei vostri avversari? ”. Qui l’aspirazione a migliorare le proprie condizioni si sposa con il poco orgoglio, secondo Prezzolini, mostrato dagli operai nel portare la loro blusa o tuta. In tempi più recenti, il complesso d’inferiorità ha portato Veltroni, nel 2008, a desiderare Veronica Lario nella sua eventuale squadra di governo. In ultimo, Renzi. Quando venne attaccato per il suo amico finanziatore Davide Serra, incline ai paradisi fiscali, l’attuale premier si difese così: “La sinistra non deve odiare la ricchezza ma la povertà”. Ergo, la sinistra deve odiare la povertà. Frase che suona decisamente ambigua dopo l’outing del presidente francese Hollande sugli sdentati che lo hanno votato.

il Fatto 6.9.14
Paolo Ferrero, l’ultimo comunista da talk show
di Fulvio Abbate


Il piemontese Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, o ciò che ne resta in forma di federazione con il Pdci che un tempo avanzava ai cortei con il faccione di Cossutta a scanso di equivoci estremistici, è persona garbata e degna di massimo rispetto plebiscitario, dove il senso della tolleranza che gli viene forse anche dall’appartenenza alla comunità dei Valdesi, così averlo visto l’altra mattina in affanno tra gli ospiti di Agorà, Raitre, ci è sembrata cosa non buona né giusta. Ci ha ricordato addirittura la crudele barzelletta dell’ossobuco narrata, un tempo, dal compianto Gino Bramieri: c’è un signore che scommette di vincere anche la porzione dell’amico, alla fine è sua, peccato però quel giorno l’ossobuco non sia previsto nel menu, oh, maledizione!
Già, il punto non riguarda l’attendibilità degli argomenti offerti dal comunista Ferrero, (nei talk-show ciò che conta è la prontezza, non certo il ragionamento, il pubblico a casa, anzi, ricorderà soprattutto la battuta, meglio se grossolana, se così non fosse d’altronde un’ospite di scarsa consistenza politica come Alessandra Mussolini non avrebbe seguito e pacchi di ammiratori), temi che scrutano innanzitutto ciò che marxianamente, sia detto senza offesa, definiremmo la “struttura”, ossia lavoro, salario, capitale, e ancora occupazione, sindacato, pensioni, costo della vita, parametri economici, ecc.
COSÌ, come nel caso dell’uomo cui viene negato il premio dell’ossobuco della barzelletta in bianco e nero di Bramieri, allo stesso modo a Paolo Ferrero si negava d’esistere sul piano inclinato della discussione, nonostante l’evidente discrepanza qualitativa tra lui e alcuni suoi dirimpettai lì in studio: non penserai mica che possa esserci spareggio possibile tra Ferrero e Michel Martone, o con il pur amabile per maschera e contegno Ignazio Abrignani di Forza Italia, no? D’altronde anche la concretezza delle obiezioni del giornalista tedesco Udo Gumpel trovavano scarsa attenzione, un po’ per antipatia diffusa verso ogni forma di invito al senso di responsabilità e un po’ perché chi fa troppo il serio in televisione può essere visto perfino come zampirone caccia ascolti, peggio se straniero: e che cazzo ci vuole dire questo che viene da fuori?
Il mite Ferrero, a un certo punto, si è trovato perfino costretto ad abbandonare la sua risaputa misura – “tra poco smetto di essere educato” (sic) – nel caso non gli fosse stato consentito di replicare ai suoi cinici interlocutori, e qui forse, per onestà verso lo stato delle cose, ci sembra proprio il caso di aggiungere le nostre sensazioni sul sottotesto mediatico che riguarda ormai l’esistenza stessa delle opzioni di sinistra, se non addirittura comuniste, ovvero una sorta di immenso “ancora tu? ” Dove il successivo “... ma non dovevamo vederci più? ” è foriero, al di là delle oggettive responsabilità delle parti in causa, del grande adagio della semplificazione dialettica che probabilmente ci ucciderà tutti. Ferrero libero!

Avvenire 6.9.14
Lorenzin: «Con questa eterologa le coppie sono a rischio»
intervista di Viviana Daloiso

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Repubblica 6.9.14
La Ferguson di casa nostra
di Roberto Saviano


ADESSO anche l’Italia ha la sua Ferguson. Un inseguimento che parte da Rione Traiano, periferia sud-est di Napoli, e si ferma presto, a Fuorigrotta.

UN INSEGUIMENTO che finisce in tragedia. Non esistono più né guardie, né ladri. Né bene né male. Tutto è assai complesso, difficile non solo da comprendere ma anche e soprattutto da raccontare. Quando accadono tragedie come questa, si tende a focalizzarsi sulla dinamica. Anche il sindaco De Magistris, nel primo messaggio di cordoglio per la morte di Davide Bifolco, ha assicurato che in breve tempo si sarebbe fatta chiarezza. Ecco, questa è Napoli (e questa è l’Italia), un luogo in cui l’etichetta è rispettata, in cui tutto verrà fatto (almeno così assicurano) secondo le procedure, ma poi nulla viene realmente chiarito.
Tre persone su uno scooter, (a Napoli è la prassi) di cui una latitante e una con precedenti (questo ovviamente è stato appurato poi), che non si fermano all’alt della pattuglia dei carabinieri. C’è chi giurerà che non potevano le forze dell’ordine lasciar correre quell’infrazione. Che bisogno c’era però di sparare? Nessuno, e infatti il carabiniere ha dichiarato che il colpo gli è partito per sbaglio. Per sbaglio? È dagli an- ni ‘70 che si usa l’espressione “colpo accidentale”, comunicazione che non fa altro che generare diffidenza verso chi la pronuncia. Non bisogna aver maneggiato la Beretta Mod 92 semiautomatica e conoscerne il peso di quasi un chilo con proiettili 9 millimetri, per capire che un colpo accidentale può partire (cosa che accade raramente) se l’arma cade o se impugnandola senza sicura e con il colpo in canna il dito nello sforzo della corsa fa scattare il grilletto: ma in quel caso è difficile che il proiettile vada a segno. Nulla di tutto questo, a quanto sembra. E quindi bisognerebbe smettere di usare l’espressione accidentale e iniziare a chiedere solo silenzio e attesa delle indagini.
Ma questi discorsi, che occupano pagine e pagine di carta e del web e che coinvolgeranno molti italiani indignati per l’ennesimo morto bambino, questi discorsi “belli, tondi e ragionevoli”, non restituiscono affatto la realtà di Napoli. Questi discorsi restano in superficie. E nascondono un tema molto più importante, un tema che non è più possibile ignorare eppure viene costantemente, quotidianamente ignorato: Napoli è una città in guerra. Ad agosto del 2013 il conducente di una Smart inseguì e investì, uccidendoli, due presunti rapinatori (presunti perché non c’è alcuna evidenza che la rapina sia realmente avvenuta), oggi è una pattuglia dei carabinieri a ingaggiare un inseguimento per bloccare uno scooter “sospetto”, come è stato definito il motorino che guidava Davide.
Potremo scoprire (forse) le dinamiche di questa ennesima tragedia annunciata, ma i cittadini continueranno ad avere paura, le forze dell’ordine a essere tesissime e il territorio a essere attraversato da un’assenza totale di regole. Qualcuno dovrebbe domandarsi: cosa significa essere un cittadino al Rione Traiano? Cosa significa essere un carabiniere al Rione Traiano? Chiedetelo pure a loro. Rione Traiano, anello fondamentale per il traffico di coca. Rione dove manca quasi completamente ogni genere di servizi, dove la fermata della Cumana fa paura anche a mezzogiorno.
Era il regno di Nunzio Perrella, capo di una delle famiglie di narcotrafficanti più note, il clan Puccinelli. Ora è entrato in crisi, lasciando però a comandare sul territorio i propri eredi, ma il territorio è un budello conteso tra le famiglie di Soccavo, i Grimaldi, e quelle di Miano ossia i mille rivoli dei Lo Russo e i dissidenti dei Zaza di Fuorigrotta e tutti i gruppi che sanno che basta una partita di coca da appena 1 chilo (guadagno circa 210milaeuro) per assicurarsi decine e decine di stipendi di disperati e ambiziosi ragazzini da affiliare. Un coacervo incredibile di interessi che ha reso questo quartiere sempre difficilissimo da vivere. Rione Traiano è terra di faide da sempre: nel 2012 fu gambizzata Maria Ivone, figlia di un boss e fu ferita anche una donna incensurata. Nel luglio scorso, in pieno pomeriggio, due ragazzini di 17 e 18 anni sono stati feriti alla mano e alla spalla. Stiamo parlando di un luogo che aveva creato un polo criminale rivale all’Alleanza di Secondigliano, la cosiddetta “Nuova Mafia Flegrea” che si è dissolta in faide interne e arresti, generando guerre su guerre: ce n’è stata persino una tra i Rioni Traiano “di sopra” e “di sotto”.
Immaginate la tensione che si vive in un territorio come questo? Qui ogni leggerezza ti condanna a morte, un’amicizia sbagliata ti segna per sempre, persino camminare a fianco a chi in quel momento è nel mirino può essere fatale. Davide Bifolco è morto a 17 anni per aver commesso una serie di leggerezze, era alla guida di un motorino su cui viaggiavano in tre, non si è fermato all’alt per paura perché non aveva assicurazione e patentino, era insieme a due ragazzi non incensurati, ma a Davide non è stata data una seconda possibilità. Questo accade dove c’è guerra perenne, non ti va bene mai, non esistono seconde possibilità. Un errore ti marchia a vita o ti uccide.
Sono tantissimi gli adolescenti che vivono di illegalità, sono tantissimi gli adolescenti che prima di diventare maggiorenni hanno già la vita rovinata. “Je so’ nato e so’ cresciuto ind’a nu quartiere addò o arruobbi o spacci o te faje na pera” (sono nato in un quartiere dove o rubi o spacci o ti fai una pera di eroina) cantava Raiz negli anni ‘90 oggi ad esser cambiato è nulla o quasi. Quando le loro storie arrivano nei salotti buoni della città ci si commuove, ci si indigna, ma alla fine è lo sdegno di un momento, solo apparenza. La città non reagisce. Tutto sembra essere sempre in balia di polizie e giudici, nulla di quello che avviene sembra sfuggire al tanfo della corruzione e dello scambio. Questa era ed è oggi, ancora di più, Napoli. Questo è il clima in cui si vive, questo è un territorio dove tutto diventa impossibile. E dove il diritto non esiste, vince il più forte e dove vince il più forte, c’è guerra. Quando viene esploso un proiettile, che sia esecuzione, che sia errore o che sia necessità militare (e in questo caso non ve n’era alcuna), è importante ricostruire le dinamiche e accertare le colpe. Ma concentrare tutte le discussioni, le dichiarazioni e le energie solo su questo, non è altro che lo strenuo tentativo di chiudere gli occhi di fronte a una realtà che fa paura e che non si vuole vedere.
Adesso anche l’Italia ha la sua Ferguson, anzi peggio, perché in questo caso non c’era stata nemmeno una ipotesi di rapina. Questa è Napoli, terra di guerra. Questo è il Sud. E rende ancora più grave ciò che è accaduto solo qualche settimana fa quando il primo ministro Renzi è stato in Campania e non ha posto alcun accento sulla centralità del contrasto alla camorra, e quando è stato in Calabria alla ‘ndrangheta, in una sorta di timore che parlare di questi problemi spenga la voglia di rinascita. Ma di quale rinascita parliamo se l’economia più significativa nel nostro Paese è quella criminale e gli imprenditori che non si piegano sono abbandonati?
Sta affondando l’Italia, a stento respira. E affonda come sempre da Sud. Il pianto della famiglia di Davide ci parla di un male antico, di un male terribile. Non solo il dolore, quello reale, per la perdita di un figlio, di un fratello, di un amico, ma la necessità di doverlo mettere in scena come unico strumento rimasto per attirare attenzione e quindi per chiedere giustizia. Le sedie in strada, tutta la famiglia che fa dichiarazioni: il dolore nella mia terra non è mai privato. È pubblico e rumoroso, vuole invadere, celebrarsi, teme di essere sottovalutato, ignorato, isolato. È un dolore costretto alla teatralità per provare ad essere accolto.
E senta il governo intero, il peso delle parole di una ragazzina: «La camorra non avrebbe mai ucciso un ragazzo di 16 anni lo Stato sì». Frase ingenua, falsa, ma difficile da sopportare. Questo dice la cugina stravolta di Davide. Lei non sa che la camorra ha ucciso e uccide non solo sedicenni, ma ragazzi e bambini ancora più piccoli. Questa sua ingenuità mostra la necessità di parlare della camorra e che anzi è proprio il silenzio che porta a fraintendimenti di questo genere. I clan ne sono felici. «La camorra ci protegge lo Stato no» ripetono a Rione Traiano. «Le mafie fanno il loro lavoro, mentre voi istituzioni, voi pubbliche persone mentite, rubate, oltraggiate. Voi, i veri criminali, camorra, mafia, ‘ndrangheta, infondo, sono palesi nel loro essere fuori legge, sono oneste in questo». Ecco cosa drammaticamente leggo in decine di blog, in migliaia di commenti. La tragedia è accorgersene solo quando muore un ragazzino ucciso da un carabiniere. È sempre stato così: c’è bisogno di sangue per ricordare che dall’inferno a Napoli non si è mai usciti.

Corriere 6.9.14
L’inizio del Secolo asiatico
di Dario Di Vico


Mai a Cernobbio l’Asia si era fatta sentire con questa forza. Ogni anno sono presenti al workshop Ambrosetti uno o più economisti cinesi ma il dibattito è rimasto prevalentemente sul terreno delle ricognizioni e delle ricette economiche. Ieri invece Kishore Mahbubani, ex ambasciatore ed accademico di Singapore, ha lanciato alla platea la sfida del «secolo asiatico» usando toni perentori, in qualche passaggio anche provocatori. Il messaggio, alla fine, non poteva essere più secco: «Cari amici occidentali, vi dovete rassegnare alla novità: questo alla fine sarà il secolo asiatico». E’ terminata l’era della dominazione occidentale della storia mondiale, che non vuol dire «la fine dell’Occidente» ma la chiusura di un ciclo storico basato sul primato assoluto di americani ed europei. «Ci sono oggi altre civiltà di successo e il Pil cinese a breve supererà quello statunitense. Sarebbe la prima volta in 200 anni».
Il mondo visto da Singapore è in rapido mutamento, diventa poliarchico e mai come adesso sarebbe decisivo rafforzare la personalità delle istituzioni internazionali di governance. «Gli americani - ha continuato imperterrito Mahbubani - hanno invece sempre preferito avere organismi deboli, segretari generali dell’Onu fragili e influenzabili. Chissà se quando capiranno di non essere più la potenza economica numero uno, allora cambieranno idea. Comunque cari amici, non potete più continuare a spartirvi tranquillamente tra americani ed europei le presidenze del Wto, del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. Quell’epoca è finita, tocca ad altri».
La prospettiva del secolo asiatico è resa credibile non solo dalla straordinaria avanzata delle economie emergenti sull’onda della globalizzazione ma anche dai processi di riforma avviati dai leader lungimiranti che, a parere di Mahbubani, oggi guidano India, Cina e Indonesia. «Non è più possibile che l’Europa abbia il 7% della popolazione, il 25% del Pil e il 50% della spesa sociale mondiale. E’ un equilibrio che non si tiene più». Così come c’è bisogno di elaborare una politica nuova, da parte dell’Occidente, nei confronti del mondo islamico. «Va capito e abbracciato. La civiltà occidentale non può apparire agli occhi dei musulmani solo quella che lancia bombe». Deve essere, invece, capace di parlare alle nuove classi medie dei Paesi asiatici che vogliono copiare i valori occidentali, «ma smettete di dare lezioni dopo quello che è accaduto a Guantanamo, ci vuole un dialogo bi-univoco sui valori e non lezioni dalla cattedra. L’ascolto deve essere reciproco».
Mahbubani ha citato l’influenza del Giappone nel Sud-est asiatico come un caso positivo di esportazione «del virus della modernizzazione». E poi rivolto agli imprenditori italiani presenti in sala l’ambasciatore ha tirato fuori dal cilindro anche una proposta: «Scegliete un Paese del Nord Africa e fatene un test di questo tipo di dialogo e di avanzamento della modernizzazione. Se volete, vi suggerisco anche quale: la Tunisia».

Il Sole 6.9.14
Il senso dell'Asia per l'innovazione
Nella new economy del Far East non c'è solo il colosso Alibaba pronto all'Ipo
di Andrea Goldstein


Difficile non aver ancora sentito parlare di Jack Ma, anche prima che Alibaba inizi la settimana prossima il roadshow in vista dell'Ipo - che se tutto va secondo le previsioni dovrebbe essere il più grande al mondo, dopo quello dell'Agricultural Bank of China nel 2010, valutando 140 miliardi di dollari il gigante dell'e-commerce cinese. Probabilmente meno conosciuto Flipkart.com, l'equivalente indiano, che a luglio ha raccolto un miliardo di dollari, somma record per una start up indiana, per una valutazione complessiva di 7 miliardi. Hendrik Tio invece nessuno chi sa, eppure il suo Bhinneka, con 50 mila prodotti in 36 categorie verticali, domina l'ancora minuscolo mercato indonesiano.
Comune a queste tre società è la capacità di far fronte alla concorrenza straniera e in particolare a quella di Amazon - che, dieci anni dopo aver acquistato Joyo.com, ha un misero punto percentuale del mercato cinese, una quota che stagna da tempo, mentre in India opera a malapena da un anno. E nell'universo digitale asiatico, non sono le uniche ad aver resistito con successo: nell'Internet streaming, Pandora, Spotify e Deezer se la vedono con KKBox di Taiwan, che oltretutto in questo settore è una delle poche società a far soldi con la musica on-line. YG Entertainment, l'agenzia coreana che fatto conoscere Gangnam al mondo, aveva già creato un modello originale, vendendo brani musicali a molto meno che iTunes Store. I malesi preferiscono GrabTaxi, conosciuto anche come MyTeksi, a Uber e Easy Taxi, finanziato dai tedeschi di Rocket Internet. Il Ceo di Zomato, che domina in India per il restaurant listing, si permette il lusso di guardare dall'alto in basso Zagat.com.
Dietro queste storie, vari fattori. Un po' di sano protezionismo - quando Amazon ha lanciato il Kindle store in Cina … mancava il Kindle, a causa di complicazioni regolatorie. Solide spalle finanziarie: uno dei fondatori di KKBox è nipote di Cher Wang, a capo del gigante della telefonia HTC, che nel 2011 comprò il 10% del capitale. Prima di lanciare l'app MyTeksi, Anthony Tan e Tan Hooi Ling, erede di una delle famiglie più ricche di Malesia, hanno fatto Harvard e lavorato in McKinsey. E quest'anno il venture capital ha già investito oltre 2 miliardi di dollari in start-up indiane - oltre che Flipkart, anche Snapdeal, Urban Ladder, Fashionandyou e Limeroad - più del triplo di quanto raccolto in tutto il 2013.
Ha contato, e molto, anche la capacità di innovare rispetto ai giganti americani. Invece della solita versione gratuita basata sulla pubblicità, KKBox ne ha solo una a pagamento che offre servizi a valore aggiunto come "Listen with", una piattaforma sociale che permette ai fan asiatici di dialogare direttamente con i propri idoli. Ha instaurato un rapporto privilegiato con le compagnie telefoniche, fondamentale dato che in Asia anche i giovani, piuttosto che usare la carta di credito, preferiscono addebitare il costo dei servizi online sulla fattura. Per i concerti di Psy e altre star della K-pop, YG Entertainment sta sperimentando la tecnologia degli ologrammi, molto meno costosi che le performance dal vivo. Ha anche siglato un accordo con Youku Tudou, equivalente cinese di YouTube con mezzo miliardo di utenti, e Samsung Electronics grazie al quale chi ascolta musica di un artista YG vede anche una pubblicità Samsung. Bhinneka consente ai suoi clienti di scegliere tra 13 diversi sistemi di pagamento, dallo smartphone alla carta di credito off-line o cash on delivery, molto popolare in un paese in cui la genete ancora si fida poco. E per penetrare Bali e altre zone rurali dell'immenso arcipelago, intende aprire negozi brick and mortar. Alibaba, che chiaramente evolve in un'altra realtà, ha scommesso sull'e-commerce sul telefonino quando in Occidente se ne iniziava appena a parlare.
Ovviamente sono tutte storie imbavute di mercati globali. YG Entertainment già genera all'estero, soprattutto in Giappone, la metà dei suoi profitti. Zomato ha recentemente acquistato Lunchtime.cz e Obedovat.sk, pochi mesi dopo essere sbarcato in Nuova Zelanda con MenuMania. E internazionali sono i capitali. Softbank detiene il 37% di Alibaba e Yahoo il 24%; Temasek ha investito 10 milioni di dollari in Grab Taxi, e molto di più in India, spesso insieme a BlackRock; l'altro fondo sovrano di Singapore, GIC, ne ha messi 104 in KKBox, il cui maggiore azionista è la giapponese KDDI. Ultimo a credere nella New Economy asiatica, L Capital, un fondo legato a LVMH, il gigante del lusso francese, disposto a investire 45 milioni di euro per diventare il secondo azionista d'YG (che ha una capitalizzazione di circa 720 millioni, come Geox tanto per avere un'idea). Fondi destinati a far crescere rapidamente l'agenzia, e probabilmente a rinforzare ulteriormente il soft power della Corea.

Repubblica 6.9.14
Il terrorista premoderno
di Slavoj Zizek


DA QUALCHE mese a questa parte, è diventato un luogo comune osservare come l’ascesa dello Stato islamico in Iraq e in Siria, o Is, rappresenti l’ultimo capitolo nella lunga storia del risveglio anticolonialista .
E AL tempo stesso un nuovo capitolo nella lotta contro il modo in cui il capitale globale mette a rischio il potere degli Statinazione.
A causare tanta paura e costernazione è invece un altro aspetto di quel regime, ovvero le affermazioni pubbliche con cui le autorità dell’Isis precisano che l’obiettivo principale del potere statale non è quello di coordinare il benessere della popolazione. Ciò che realmente conta, dichiarano, è la vita religiosa e la capacità di garantire che ogni aspetto della vita pubblica soddisfi i precetti della religione. Ecco perché l’Isis rimane più o meno indifferente alle catastrofi umanitarie all’interno del proprio territorio.
Uno slogan che evidenzia il divario che separa la nozione di potere, così come viene praticato dall’Isis, dalla moderna nozione occidentale di quello che Michel Foucault definì “biopotere”: la legge che regola l’esistenza al fine di garantire il benessere di tutti. Il califfato dell’Isis rifiuta completamente la nozione di biopotere.
Mentre l’ideologia ufficiale dell’Isis critica aspramente il permissivismo occidentale, le sue gang praticano quotidianamente delle orge grottesche e su larga scala.
Ciò significa forse che l’Isis è premoderna? Anziché vedere nell’Isis un esempio di resistenza estrema alla modernizzazione bisognerebbe semmai concepirlo come un caso di modernizzazione perversa, e collocarlo tra le modernizzazioni conservatrici inaugurate nel Giappone del XIX secolo dal Rinnovamento Meiji (in cui la rapida modernizzazione industriale assunse la forma ideologica di “rinnovamento”, o completo ripristino dell’autorità imperiale).
La foto che mostra Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’Isis, che indossa un pregevole orologio svizzero è emblematica: l’Isis è ben organizzata in fatto di propaganda web e transazioni finanziarie, benché si serva di questi mezzi ultramoderni per propagare e imporre una visione ideologica e politica che più che essere conservatrice rappresenta un disperato tentativo di imporre delle chiare delimitazioni gerarchiche.
Tuttavia non bisognerebbe dimenticare che anche quest’immagine di organizzazione fondamentalista rigidamente disciplinata e regolamentata non è priva di ambiguità: l’oppressione religiosa non è forse (più che) intensificata dal modo in cui le singole unità militari dell’Isis sembrano funzionare? Mentre l’ideologia ufficiale dell’Isis critica il permissivismo occidentale, nella pratica quotidiana le sue gang compiono delle vere e proprie orge a base di rapine, stupri di gruppo, tortura e uccisione degli infedeli.
A guardar bene, anche l’ostentata, eroica prontezza con cui l’Isis sembrerebbe disposta a rischiare tutto appare più ambigua. Molto tempo fa Friedrich Nietzsche scrisse che la civiltà occidentale stava imboccando la via dell’Ultimo Uomo: una creatura apatica, incapace di impegno, di grandi passioni e di sogni. Un individuo stanco della vita, che evita qualsiasi rischio e si accontenta di condurre un’esistenza confortevole e sicura. «Un po’ di veleno di qui e di là: ciò produce sogni gradevoli. E molto veleno infine, per una gradevole morte. Abbiamo i nostri svaghi per il giorno e i nostri svaghi per la notte: ma pregiamo la salute. “Noi abbiamo inventato la felicità”, dicono ammiccando gli ultimi uomini».
Si potrebbe credere che il divario tra il Primo mondo, permissivo, e la reazione fondamentalista ad esso ricalchi vieppiù la linea che separa la vita di chi conduce un’esistenza lunga e ricca di soddisfazioni, fatta di benessere materiale e culturale, da quella di chi dedica la propria esistenza a qualche causa trascendentale. Non è forse questo l’antagonismo tra ciò che Nietzsche chiamava nichilismo “passivo” e nichilismo “attivo”? Noi occidentali siamo gli Ultimi uomini di Nietzsche: immersi in sciocchi svaghi quotidiani mentre i radicali musulmani appaiono pronti a rischiare tutto, impegnati come sono nella lotta sino all’autodistruzione.
Il “Secondo avvento” di William Butler Yeats sembra calzare perfettamente alla difficile situazione in cui ci troviamo: “I migliori hanno perso ogni fede, e i peggiori si gonfiano d’ardore appassionato”. È un’eccellente descrizione dell’attuale divario tra i liberali anemici e gli ardenti fondamentalisti. “I migliori” non sono più capaci di un coinvolgimento totale, mentre “i peggiori” si fanno coinvolgere da un fanatismo razzista, religioso e sessista.
Ma i terroristi fondamentalisti sono davvero fondamentalisti, nel senso autentico del termine? Ciò che fa loro difetto è un tratto che si mostra invece evidente in ogni vero fondamentalista, dai buddisti tibetani agli amish degli Stati Uniti, ovvero l’assenza di risentimento e invidia, la profonda indifferenza verso lo stile di vita dei non credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi sono davvero convinti di aver trovato la via che conduce alla Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non credenti? Perché dovrebbero invidiarli? A differenza dei veri fondamentalisti, i terroristi pseudo-fondamentalisti sono profondamente infastiditi, incuriositi ed affascinati dal peccaminoso stile di vita dei non credenti. Si sente che nel combattere l’altro, colui che pecca, essi lottano in realtà contro le proprie tentazioni. Ecco perché i cosiddetti fondamentalisti dell’Isis rappresentano una disgrazia per l’autentico fondamentalismo.
Ed è a questo punto che la diagnosi di Yeats si distacca dalla situazione attuale: l’appassionata intensità di un’orda indica la mancanza di un’autentica convinzione. E nel loro intimo, anche i terroristi fondamentalisti non possiedono una convinzione autentica — come dimostrano le loro violente reazioni. Quanto dev’essere fragile la fede di un musulmano, se un’insulsa caricatura pubblicata da un giornale danese a scarsa tiratura basta a farlo sentire minacciato. Il terrore fondamentalista islamico non si basa sulla convinzione che i terroristi hanno della propria superiorità o sul loro desiderio di salvaguardare la propria identità culturale e religiosa dai violenti attacchi sferrati dalla civiltà consumistica globale.
Il problema non è che consideriamo i terroristi fondamentalisti inferiori a noi, ma piuttosto che loro stessi si considerano intimamente inferiori. Paradossalmente, ciò che i fondamentalisti dell’Isis e altri come loro non possiedono affatto è proprio l’autentica convinzione della propria superiorità.
l’autore è filosofo e psicanalista sloveno ( © 2-014 The New York Times Traduzione di Marzia Porta)

il Fatto 6.9.14
Israele, il poeta Barghouti:
“L’Occidente continua a fornire armi ad Israele, compresi gli strumenti di tortura che vengono utilizzati nelle sue carceri: smetta di fornire armi. Obama come Bush”

qui

il Fatto 6.9.14
Gorbaciov con Putin: “Che errore sciogliere l’Urss. Stop alla Nato”
di Leonardo Coen


L’ULTIMO LEADER SOVIETICO CRITICA KIEV E SPIEGA CHE L’UNICA SOLUZIONE È QUELLA “NEGOZIALE”

Per superare il conflitto in Ucraina e le conseguenze internazionali della crisi c’è una sola strada da percorrere: quella del dialogo e della ricerca di un accordo”: lo afferma Mikhail Gorbachev, 83 anni che esclude quindi l’opzione militare. Per l’ultimo presidente dell’Urss è necessario “tornare ai postulati principali del novoe mishiente (“nuovo modo di pensare”, espressione introdotta ai tempi della perestroijka, ndr), “quando nella fase più acuta di crisi tra Occidente e Oriente, con la sfida del conflitto globale nucleare, siamo riusciti a spostare/levare questa minaccia. Perché non pensavo che sarebbero accaduti eventi tali da sottoporre a dura prova non solo le relazioni tra Russia e Ucraina, ma anche il futuro planetario, al punto da portare il mondo sull’orlo di grossi guai”.
DI QUESTO CONFLITTO tra i due paesi ex sovietici parla Gorbaciov in un nuovo saggio che si intitola “Dopo il Cremlino”, di prossima uscita in Russia e in Occidente, dedicato agli eventi di questi ultimi due decenni in Russia e nel resto del globo. Novaja Gazeta, il giornale della povera Anna Politkovskaja, gli ha chiesto di esporre il suo punto di vista. E Gorbaciov, che del giornale è in parte azionista, ha ricordato come egli avesse predetto quello che “sta succedendo ora e che mi procura un dolore enorme. La posta in gioco è troppo alta, come i pericoli e i rischi. Per ogni russo l’Ucraina e le relazioni con essa sono un tema particolare. Le relazioni storiche, culturali, familiari tra i nostri paesi che per lungo tempo hanno coesistito dentro uno stato unico, sono molto stretti e antichi. Gli eventi del paese vicino li viviamo come se fossero nostri. Io penso che l’interruzione della perestroijka e lo scioglimento disinvolto dell’Urss siano alla base di questa crisi. La maggiore responsabilità cade sul governo russo di allora. Le sue azioni hanno aggravato i processi centrifughi nello Stato federale”.
Ma anche l’Ucraina, dice Gorbachev, ha le sue colpe: “Il governo ucraino ha sabotato il processo di trasformazione dell’Unione, sia prima sia dopo il colpo di stato dell’agosto 1991. (...) Io ho lottato per uno stato federale utilizzando tutti i mezzi politici (sottolineo: politici). Avevo proposto le trattative sull’unione economica, sulla difesa unica, su di un’unica politica estera. Si sarebbero potute risolvere tutte le questioni, inclusa quella sullo stato di Sebastopoli e dell’Armata Navale del Mar Nero”.
Gorbaciov non nomina mai Putin, però gli va incontro: “La priorità principale deve essere data alla costruzione di relazioni con la Russia. Sono sicuro che la maggioranza degli ucraini non solo lo capisce, ma lo vuole. Anche l’Occidente deve capirlo. I leader dell’Occidente devono smettere di provare a inserire l’Ucraina nella Nato, perché questi tentativi non potranno portare niente altro se non disturbo e disordine nelle relazioni tra Ucraina e Russia. Si prendono decisioni per rafforzare la presenza Nato nei paesi confinanti con la Russia. Tutto questo fa ricordare gli anni della Guerra Fredda. Noi sentiamo dire che la Guerra Fredda è iniziata di nuovo. Ma molti credono non era mai finita”.

il manifesto 6.9.14
Il “potere operaio” in Germania
A proposito della co-determinazione nei consigli delle fabbriche tedesche, un ex lavoratore Siemens ci scrive
risponde Enrico Grazzini


Sul manifesto del 4 settembre Enrico Grazzini scrive in un articolo intitolato «La vera forza del modello tedesco»: con l’elezione dei rappresentanti nei consigli di impresa (limitata ai CdA) «i lavor- atori hanno quindi un enorme potere: il governo delle maggiori imprese... è condiviso da lavoratori e azionisti». A mio avviso il fenomeno della Mitbestimmung in Germania andrebbe analizzato con meno superficialità per non cadere in euforismi abbaglianti.
Già, il peso dei rappresentanti dei lavoratori non è uguale a quello dei grandi azionisti. Nella pratica della vita sindacale la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori a questi consigli si riduce ad essere informati un po’ prima dei loro colleghi.
Avendo lavorato per tanti anni nella Siemens italiana ho visto da vicino come i nostri ex-colleghi di Monaco hanno dovuto subire tagli drastici del personale e chiusure di interi reparti (telefonia mobile) e di conseguenza trovarsi senza lavoro o costretti a trasferirsi in sedi distanti centinaia di chilometri. «In Germania non accade... che gli azionisti possano decidere da soli... di cedere i gioielli dell’industria nazionale» continua l’articolo.
Chiedo a Grazzini: e se perdono il lavoro con il consenso dei loro rappresentanti, cosa cambia per i lavoratori, come successo sempre in Siemens e in tante altre aziende della Germania?
La pericolosa e superficiale tendenza di una parte del sindacato concertativo dell’Italia di inneggiare al «modello tedesco» in fondo serve solamente ai padroni italiani, perché noi dobbiamo lottare con- cretamente contro lo smembramento continuo del nostro apparato produttivo per mano della classe dei capitalisti.
Lutz Kühn

Giusto caro Lutz, lei ha ragione, anche la Mitbestimmung non è rosa e fiori. Anche la Germania come noto è un paese capitalista e anche con la Mitbestimmung i lavoratori sono sfruttati e vengono licenziati. Anche in Germania gli azionisti prevalgono, però i lavoratori possono condizionare e hanno potere codecis- ionale. E comunque c’è un’enorme differenza tra l’Italia, e in generale tra il modello anglosassone di corporate governance in cui comandano solo gli azionisti e il management, e la Germania.
In Siemens licenziano; ma sono convinto, e la storia mi da ragione, che in Germania non potrebbero mai accadere casi clamorosi di fuga dei capitalisti, come la Fiat, come l’Ilva, come Telecom Italia, che possono andare all’estero senza nessuna opposizione.
La partecipazione (quasi) paritaria dei lavoratori nei Cda delle aziende è un’arma potente (ma non definitiva) contro la finanziarizzazione delle imprese, la deindustrializzazione e la disoccupazione. E la sinistra dovrebbe cominciare a discuterne, anche se la Mitbestimmung è odiata dalla Confin- dustria italiana e dalle associazioni padronali tedesche.
Basterebbe applicare (possibilmente bene) l’articolo 46 della Costituzione.
Enrico Grazzini

La Stampa 6.9.14
“Così uccido con i droni poi esco a fare la spesa”
Ethan Hawke “pilota” di “Good Kill” in concorso: nel film la guerra come un videogame e l’alienazione di questi soldati
di Michela Tamburrino


Ci si sveglia la mattina, si fa colazione con i figli, si taglia l’erba in giardino. Un bacio alla moglie e si va a lavoro. Una stanza da impiegato per ammazzare afghani sospetti, un drone come un videogioco, prendi la mira e «pam», quelli laggiù dei quali si è arrivati persino a vedere il volto, sono saltati per aria. Bravi, perfetto, «Unico rischio, quello di rovesciarsi il caffé sui pantaloni». Good Kill è l’ultimo film in concorso alla Mostra del Cinema, con Ethan Hawke nei panni del maggiore Tommy Egan, pilota di F16, reduce dall’Iraq, che ora comanda droni da una cabina di pilotaggio in Nevada, nel deserto, perché lì si ricreano le condizioni ottimali dei luoghi nei quali si finge di essere e di combattere. Lui amava volare, si sentiva quasi in pace con se stesso, uccideva ma rischiava di essere ucciso, un buon compromesso. Lì no, si sente codardo, otto ore di lavoro per poi tornare dalla moglie (la January Jones di Mad Men ). Ma evidentemente qualcosa si rompe, in lui e nei suoi colleghi.
La forza del film di Andrew Niccol non è la presa di posizione politica, lui non la cerca né sullo schermo, né fuori. Tiene di più a farci vedere il cortocircuito che si crea in questi soldati. «I droni tra Gaza e Israele, questi apparecchi comandati a distanza che sganciano ordigni, fanno parte del nuovo modo di fare la guerra. Io volevo che si ragionasse su quello che accade nella mente di chi è chiamato a questo compito».
Infatti a un militare trovano droga nel sangue e il nostro maggiore è poco meno di un alcolista. Del gruppo fa parte anche una donna, Zoe Kravitz. Getterà la spugna e non sarà la sola. «È il primo film sul programma dei droni - dice Ethan Hawke - anche io sono più attirato dalla natura schizofrenica di questo tipo di guerra: uccidere gente e poi fare il barbecue con gli amici». Un film che ha creato qualche imbarazzo: «Avevamo chiesto il sostegno dell’esercito, abbiamo mostrato la sceneggiatura al dipartimento della Difesa americana. Gentilmente si sono rifiutati di sostenerlo». Eppure hanno camminato su una linea retta, né pro né contro, un racconto prudente. Alla fine il maggiore diventa un giustiziere. «Io non lo difendo - dice il suo alter ego cinematografico - ho parlato con ex piloti di droni, vieni preso talmente che perdi la sensibilità alla violenza.
Inesorabilmente non esiste più il buono e il cattivo, il bene e il male. Ci limitiamo a mostrare che cosa fanno i droni. Lavorando con loro abbiamo vissuto anche il tipo di alienazione; chiusi in una stanzetta ore ed ore, il più delle volte senza fare niente. Un noioso videogame. Ho preparato il personaggio in modo meticoloso, mi sono sentito un pilota con in “mano” un’arma efficace. A questo punto però bisogna ragionarci sopra, farci domande morali. Prima i danni collaterali non si studiavano, ora bisogna interrogarsi su che cosa pensano i soldati e che cosa chiede la società».
Il film ha i margini temporali ben precisi, si svolge nel 2010, dunque dopo l’11 settembre in un momento strategico particolarmente caldo. «L’approccio politico, proprio è stato bipartisan, Obama o Bush non cambia. Il nostro protagonista - prosegue il regista - voleva fare la guerra mettendo a repentaglio la propria vita per il suo paese. Ma così cambia la sua prospettiva. Abbiamo usato volutamente un linguaggio orweliano, nel concatenarsi degli eventi, nella violenza contro qualcuno difficile da guardare. Ora si parla molto di crowkilling, uccisione delle folle, e i nostri lo fanno». Naturalmente non poteva mancare la Cia spietata e la sua rivalità con le forze aeree, una Las Vegas multicolore e finta. E non mancare neppure, laggiù, la donna stuprata che lui vendicherà con gli stessi mezzi che usa per la guerra altrui. Raccogliere i fondi è stato difficile? «Non è mai facile recuperare i soldi per un film, sta diventando un miracolo. Non immagino come il meccanismo delle relazioni pubbliche del dipartimento della Difesa gestirà la cosa. Per noi era importante farlo. Spero che il film provocherà discussioni».

Repubblica 6.9.14
Gian Carlo Caselli
Parla il giudice che coordinò il blitz: “Sapevamo già che la battaglia non era ancora vinta
perché intorno a loro si era creato un muro di ambiguità”
“Così 40 anni fa arrestai Curcio e Franceschini ma dagli intellettuali troppa omertà per le Br”
intervista di Paolo Griseri


Franceschini a Rebibbia mi disse: “Ma lei non è di Md?”. Pensava che bastasse a giustificare la violenza
Non temo le nuove Br, ma a volte torno a sentire la retorica dei “compagni che sbagliano”
Moretti seppe del raid grazie a una telefonata ma non riuscì ad avvisare gli altri

TORINO L’8 settembre di quarant’anni fa i carabinieri del generale Dalla Chiesa arrestarono a Pinerolo, vicino a Torino, i capi delle Brigate Rosse, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Le indagini erano coordinate dal pm Bruno Caccia e dal giudice istruttore Gian Carlo Caselli.
Dottor Caselli, era il 1974. Avrebbe potuto essere la fine delle Br e invece fu l’inizio della fase più drammatica della loro attività sarebbe culminata con il delitto Moro. Come mai?
«Non avevamo pensato nemmeno per un attimo che l’arresto di un paio di capi storici avrebbe potuto segnare la fine delle Br. Eravamo certi che avevamo a che fare con una organizzazione articolata. Il nucleo speciale coordinato da Dalla Chiesa era stato istituito solo per indagare sul sequestro del giudice Mario Sossi. Dalla Chiesa per i carabinieri e Santillo per la polizia “disubbidirono” al mandato e fecero bene perché così indagarono sull’organizzazione disarticolandola. Nel giro di due anni, dal 1974 al 1976, tutti i capi storici delle Br erano stati arrestati».
Tutti tranne Mario Moretti, che sarebbe poi diventato il capo della colonna romana. Perché Moretti sfuggì all’arresto?
«È provato che Moretti a Pinerolo non c’era, e mi pare che lui stesso lo abbia confermato in una autobiografia».
Eppure qualcuno lo avvisò che stavano per arrestare i capi delle Br. Chi fece la soffiata?
«Chi fu non lo so. Quel che è certo è che nelle ore precedenti l’operazione di Pinerolo uno sconosciuto chiamò il medico Enrico Levati, l’uomo che aveva messo in contatto Silvano Girotto, detto “frate mitra”, con i capi delle Br. La telefonata diceva: “Curcio sarà arrestato domenica a Pinerolo”. Levati chiamò Moretti ma nessuno dei due riuscì ad avvisare Curcio».
Girotto era un infiltrato?
«Per sue convinzioni aveva deciso di collaborare con i carabinieri per smantellare le Br. Diceva: “Questi sono criminali, non possono servire a nessuna causa rivoluzionaria”. Riuscì ad entrare in contatto con l’organizzazione e fece arrestare Curcio e Franceschini».
Lei è convinto della sincerità di Girotto?
«Io ho sempre verificato che le sue testimonianze coincidevano al millimetro con le risultanze di fatto. Dimostrò un notevole coraggio» Quanti incontri fece con i brigatisti prima del loro arresto?
«Diversi. Quelli clandestini li vedeva a coppie. Si incontravano in montagna. A torso nudo perché loro temevano di essere registrati».
Sono passati quarant’anni. Dottor Caselli, chi ha sconfitto le Br?
«L’attività di repressione e di indagine è stata molto importante. Ma non è stata l’unica. Furono decisive le decine e decine di assemblee che si tennero nelle parrocchie, nei luoghi di lavoro, nelle sedi di partito. Per spiegare che non ci trovavamo di fronte a Robin Hood ma a un gruppo di assassini. Bisognava rompere il muro di ambiguità dei “compagni che sbagliano”, i complici silenzi di certi intellettuali».
E funzionò?
«Non fu facile ma alla fine i terroristi furono politicamente isolati ed entrarono in crisi. Fu la fine delle contiguità e degli appoggi che avevano portato molti a non vedere la tempesta che stava addensandosi. Pensiamo, per fare esempi anche molto diversi, all’intellighenzia che partecipò alla vergognosa campagna contro il commissario Calabresi che pagò con la vita quelle menzogne. Per quanto riguarda Torino ricordo che un giorno venne assaltato a bastonate un bar ritenuto un covo di fascisti. Mi capitò di interrogare i testimoni, anche esponenti del mondo intellettuale della città. Incontrai l’omertà».
La nascita del terrorismo in Italia avviene nel contesto delle lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta. Lei crede che oggi sarebbe possibile una rinascita del partito armato?
«Non mi preoccupa l’eventuale rinascita di un partito catacombale e clandestino come furono le Br. Mi sembra fuori dalla realtà e spero di non sbagliarmi. Mi preoccupa il ripetersi in certi ambienti intellettuali di oggi delle stesse ambiguità di allora di fronte alla violenza delle frange estreme. Mi preoccupa il ritorno, in sedicesimo, della stagione dei compagni che sbagliano. Mi preoccupano le predicazioni di intellettuali miopi e nostalgici che possono far credere a chi ha già pochi filtri critici che stia riproducendosi il clima di allora».
Parla della val di Susa?
«Sono in pensione».
Ha più incontrato Curcio e Franceschini?
«Curcio no. Franceschini una volta a Rebibbia ».
Che cosa le disse dopo l’arresto?
«Franceschini era arrogante. Si dichiarò rivoluzionario di professione. E mi chiese: “Dottor Caselli, lei non è di Magistratura Democratica?”. Io risposi: “Si perché?”. Lui era convinto che essere di Md significasse avere un atteggiamento di condiscendenza verso la violenza».

il Fatto 6.9.14
Caro Capanna, furono anni infami
di Massimo Fini


Ho letto la bella intervista di Emiliano Liuzzi a Mario Capanna. Conosco Capanna dal 1968 e ho per lui stima e anche affetto. Perché è stato una delle rarissime persone capaci di entusiasmarmi, agli inizi del movimento studentesco, non ancora MS. Capanna era personalmente contrario alla violenza. Preferiva gli sberleffi ludici, come il lancio delle uova alla Scala sulle ‘sciure’ invisonate. O come quando in Largo Gemelli, con un megafono in mano, ordinò ai carabinieri della locale stazione di arrendersi. Fummo subito caricati e ci rifugiammo in una chiesa sconsacrata, lì vicino. Ma eravamo circondati, in trappola. Capanna con altri afferrò una grande asse di legno che serviva per i restauri e la usò come un maglio contro una porticina che dava sul retro. Era una scena medioevale. Nella mia immaginazione postuma lo vedo con indosso una tonaca da monaco (del resto, con quel viso umbro, ce l’aveva un po’ l’aria del monaco eretico).
Era contrario alla violenza, ma ebbe la grave responsabilità politica di avallarla e si autoassolve con troppa disinvoltura. Dimentica gli innumerevoli, selvaggi, pestaggi avvenuti davanti alla Statale. Nel febbraio del 1972 ce ne furono uno dietro l'altro, contro uno studente israeliano sospettato, naturalmente a capocchia, di essere una spia della Cia, l’altro contro un sindacalista della Uil, Giovanni Conti accusato in un comunicato del’'MS oltre che di nefandezze politiche di alzare il gomito e di amare la notte.
TALE ERA, sotto le parole rivoluzionarie, il moralismo bacchettone dell’MS. Io allora lavoravo all’Avanti! e avevo lasciato quasi da subito l’MS proprio per questo “vizietto” del linciaggio. Scrissi questo corsivo: “Il Movimento studentesco c’è ricascato. A poche settimane di distanza dall’aggressione del sindacalista della Uil, Giovanni Conti, un altro episodio di violenza vile e stupida che non trova aggancio in alcuna seria motivazione politica, ha avuto come teatro la Statale e come protagonisti i picchiatori del Movimento studentesco. A questo punto non si tratta più di casi isolati, di “ragazzate” di qualche frangia particolarmente irrequieta dell’MS – come sostiene, fingendo il nulla, Mario Capanna – ma di metodo. E il linciaggio, la caccia all’uomo e alle streghe, israeliane e non, le grida al “monatto”, sono metodi che, ce ne doliamo con Capanna, echeggiano le abitudini delle squadracce fasciste, sono, soprattutto, espressione di una mentalità (forse inconsciamente) fascista. Il Movimento studentesco deve uscire dall’equivoco. Il linciaggio e l'isteria collettiva non fanno parte del linguaggio politico ma della patologia medica”.
Quando rimisi piede in Statale, i katanga mi circondarono, volevano farmi la festa. Mi salvai rifugiandomi sotto le ali protettrici di Capanna. Nel 1973 scrissi per Linus una lunga inchiesta sui vari gruppi della sinistra extraparlamentare, che Oreste del Buono titolò “L’extramappa”, in cui fra le altre cose, prendevo in giro Luca Cafiero leader dell’MS, braccio destro di Capanna.
QUALCHE sera dopo, mentre rincasavo, arrivarono in quattro, con i caschi da motocicletta e le catene. Quando il capo del manipolo mi fu quasi addosso lo riconobbi al di là della visiera: era Giorgio Livrini, un allegro ragazzo con cui sei anni prima avevo fatto il guardiaporte alla Statale, ma che si era appesantito nella stazza del picchiatore. Dissi: “Giorgio... ”. Vidi passare nei suoi occhi un lampo, che diceva: “Questo qui o lo ammazzo, perché mi ha riconosciuto, o lasciamo perdere”. Finimmo tutti e cinque da Oreste a bere un bicchiere. A me è andata bene, altri sono finiti in sedia a rotelle.
Capanna dimentica con troppa disinvoltura che quelli dell’MS andavano in giro gridando “Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero”, “Uccidere un fascista non è reato”, spaccando vetrine e, all'occorrenza, anche crani. Capanna dice di aver pianto a dirotto per Soriano Ceccanti reso paralitico da un proiettile della polizia, ma non sparse una lacrima per il diciassettenne Sergio Ramelli morto dopo un’atroce agonia in seguito a una bastonatura selvaggia. Non furono quelli dell'MS a sprangarlo, ma elementi di Avanguardia Operaia. Però il clima era quello. Il Sessantotto, se non avesse avuto esiti tragici, sarebbe stato, per prendere un’espressione usata da Luigi Einaudi per la massoneria, “una cosa comica e camorristica”.
ERANO quasi tutti figli della borghesia (l’MS aveva nelle sue file un solo operaio, un certo Lo Bue, che portava in giro come una “madonna pellegrina”) i cui leader (non Capanna che non ha fatto nessuna carriera) erano in perfetta malafede e già pensavano di inserirsi negli alti posti di comando di quella stessa borghesia che dicevano di voler combattere (“Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi”).
L’esempio classico, ma è solo uno dei tantissimi nomi che si potrebbero fare, è quello di Paolo Mieli che militava in Potere Operaio, PotOp per gli amici, ad altissimo tasso di concentrazione di figli dell’alta borghesia e dell’aristocrazia romane tanto da meritarsi il soprannome di “molotov e champagne”.
No, Mario, non furono anni “formidabili”. Furono anni infami. E un po' di autocritica dovresti farla anche tu.

il Fatto 6.9.14
La Sicilia araba prima dei normanni
L’isola di Allah, di Salvatore Tramontana, Einaudi pagg. 416 © € 28,00
di Enzo Di Mauro


L’ISOLA di Allah di Salvatore Tramontana – il cui sottotitolo è “Luoghi, uomini e cose di Sicilia nei secoli IX-XI” – ricostruisce, con abbondante dovizia di fonti e di dati e in maniera minuziosa e affascinante, la vita quotidiana e materiale e, insieme, le trasformazioni sociali ricche di futuro nel corso del significativo arco temporale che precede l’arrivo dei normanni. Lettura istruttiva e ricca di risonanze che inducono a far piazza pulita di pregiudizi e di rimozioni, laddove il portato di quella eredità culturale ha lasciato tracce profonde, non effimere, nella cultura e nell’antropologia della gente di Sicilia – certo nel commercio, nell’agricoltura, nell’artigianato e nelle altre attività produttive, ma si potrebbe dire persino nella postura della mente, nell’inclinazione al ragionare serrato, acuto e sospettoso che (come osservava Leonardo Sciascia) ama spaccare il capello in quattro a voler significare la qualità della sottigliezza dialettica che in molti casi, tuttavia e proprio per la sua natura verticale e aerea, produce in chi la esercita impotenza e frustrazione.

il Fatto 6.9.14
Paura della morte? Vi cura Socci
di Elisabetta Ambrosi


SOFFRITE di un triste scetticismo che vi spinge addirittura a credere che la morte sia la fine della vita? Basta con vecchi pregiudizi e ammuffite ideologie: leggetevi l’ultimo libro di Antonio Socci, Tornati dall’Aldilà (Rizzoli) e scoprirete che in Italia l’esercito più numeroso non è quello dei disoccupati ma quello di chi ha vissuto una NDE (Near Death Experience): un’esperienza extracorporea, dopo un incidente o una malattia, oppure un vero e proprio passaggio ultraterreno (ben tre milioni di italiani, secondo l’autore). Vi basterà ascoltare uno dei loro racconti, e, voilà, ecco servita la prova scientifica dell’immortalità dell’anima. Attenzione, però: qualche testimonianza potrebbe essere inquinata da “inganni satanici” oppure (è il caso di Eben Alexander, autore di Un milione di farfalle) “essere stravolta da idee o riflessioni della persona”. Come fare allora a stabilire quale viaggio nell’aldilà è vero e quale no? Semplice: quelli che raccontano di una realtà paradisiaca o infernale simile al Paradiso o all’Inferno cattolici – oppure hanno visto santi o beati cattolici – sono autentici. Gli altri, invece, vanno verificati. Come? Dal punto di vista della Chiesa, ovviamente. E così ecco servita la logica conclusione: se non volete finire arsi dal fuoco o tra strazi indicibili dovete seguire “Dio”. Già, ma quale? Quello cattolico, ovviamente. Va detto che l’autore ha vissuto una tragica esperienza, una figlia in coma che, a suo dire, è poi risorta. Ma di qui a farci un sistema assoluto senza margine di dubbio ce ne dovrebbe correre. Specie, forse, se sei giornalista (e direttore di una scuola di giornalismo).

Corriere 6.9.14
Il miracolo delle biblioteche con più iscritti ai tempi del digitale Libri, wi-fi, corsi e incontri: così resistono le strutture più piccole
di Paolo Di Stefano


È un segnale confortante che, nel diluvio delle depressione non solo economica, andrebbe preso molto sul serio. Diciamo un po’ enfaticamente, per tirarci su il morale, che l’estate 2014 è stata la stagione delle biblioteche. Non si parla di biblioteche storiche, nazionali o universitarie, parliamo delle cosiddette biblioteche pubbliche, quelle che offrono i loro servizi a realtà comunali o di quartiere, centri culturali che non si preoccupano solo della conservazione e del prestito, ma si propongono come centri di animazione, luoghi di ritrovo, di scambio, di informazione, e — perché no — di gioco e di svago. Non le cattedrali ma le «piazze del sapere», secondo una fortunata formula inaugurata da Antonella Agnoli, esperta del settore, consulente in Italia e all’estero di enti pubblici e privati per la progettazione di nuovi spazi e il restyling dei vecchi in chiave più aperta e moderna, pensata non per lo studioso ma per il cittadino comune e per la famiglia. Spazi multiculturali su cui alcune amministrazioni lungimiranti hanno saputo investire raccogliendone frutti più succosi del previsto.
Il tour delle belle sorprese parte da Bassano del Grappa, la cui biblioteca comunale, dopo il trasferimento nella sede di piazzetta Ragazzi, continua a registrare numeri in crescita: in tre anni 6500 nuovi utenti e prestiti quasi quadruplicati. È il responsabile Stefano Pagliantini a confermarlo: «Il segreto è fare rete nel territorio e rivolgersi a pubblici differenti, famiglie, bambini, adolescenti, adulti oltre che studenti». L’ultima idea è un «modulo di lettura» dedicato alle future mamme per la preparazione alla nascita, la penultima è la collaborazione con l’ospedale a favore dei disabili e il gruppo di lettura con i malati psichici. Se ci si sposta a Cinisello Balsamo il salto è ancora più visibile: il coraggio paga. Il Centro culturale Pertini, nato nel 2012, fonda la sua tradizione nelle Biblioteche popolari primo Novecento, ma il trasferimento, l’ampliamento (5000 mq su quattro piani) e la fusione con il Centro Multimediale hanno dato risultati eccezionali: quasi diecimila, impennate di prestiti e ingressi. Il direttore Giulio Fortunio attribuisce il successo all’integrazione dei servizi bibliotecari con quelli culturali e digitali, alle innumerevoli iniziative, ai corsi informatici e linguistici, all’apertura continua (tutto agosto): «La domanda di cultura e di socialità è enorme: bisogna solo rispondere». Sono i famosi luoghi di eccellenza che dovrebbero diventare modelli per tutto il Paese. C’è poco da aggiungere: dove ci sono, vincono. Peggio per chi non ci crede.
Prendete Cavriago, a Sud-Ovest di Reggio Emilia: il centro Multiplo, sorto nel settembre 2011, ha raddoppiato i numeri della vecchia biblioteca. Dati impressionanti per un paesotto di 9800 abitanti: 110 mila prestiti e 129 mila ingressi in un anno, 5600 utenti. Questa estate il boom con un incremento del 15 per cento rispetto al 2013. Fabio Bulgarelli, il direttore, segnala con orgoglio che la sua biblioteca è diventata un paracadute della crisi(e forse anche del maltempo), richiamando al Multiplo sempre più genitori con bambini anche dal capoluogo, con la possibilità di prendere in prestito, oltre ai libri, giochi, videogiochi, dvd e persino le opere d’arte da godersi a casa. Non pensate ai vecchi scaffali polverosi e irraggiungibili. La Biblioteca San Giorgio di Pistoia è, per ammissione della sua responsabile Maria Stella Rasetti, un centro a chiara vocazione «pop». Gli effetti della creatività propositiva si sono visti quest’estate: «Al di là del clima sfavorevole e delle difficoltà economiche, ha inciso la programmazione di iniziative che ha indotto tanti a mettere in agenda corsi di aggiornamento e formazione in biblioteca». Come imparare ad usare Facebook, Twitter, Linkedin, i vari software di Google, i tablet. E poi le «azioni promozionali», come le campagne «Mettiamoci la faccia» o «Mentesnella», che non si vergognano di mescolare concetti del marketing con la cultura. «Libridus activus», idea vitaminica e nutriente.
C’è chi organizza anche corsi di cucito. Sbizzarrirsi con quel (poco) che passa il convento è la prospettiva della biblioteca di Trani, che dalla fine del 2010 a oggi, dopo il rilancio e il restyling in un palazzo storico, è in continua crescita di affluenza grazie agli incontri con autori, ai mezzi digitali, alla didattica con le scuole, alle lezioni di computer per anziani, alle sale per i bambini, ai corsi sull’alimentazione e sull’ecologia e alle cacce al tesoro nei cataloghi. «Quando fai delle proposte — dice Daniela Pellegrino — la cittadinanza reagisce, eccome: bisogna solo farsi venire delle idee». Succede anche in luoghi più «impervi» di altri, come la Calabria, fanalino di coda per la lettura e regina del «definanziamento» alla cultura. «Il Sistema Bibliotecario di Vibo — dice Gilberto Floriani — ha realizzato l’unica vera biblioteca pubblica della regione»: sede arredata con criteri moderni, personale qualificato, corsi per adulti e bambini, numeri in costante aumento (350 presenze quotidiane, 8000 prestiti al mese, 20 mila iscritti). «Il livello di lettura dei calabresi sarebbe migliorabile però con una vera rete di biblioteche, ma il ceto politico non se ne preoccupa».

Repubblica 6.9.14
Dalla caverna di Platone alla Minerva di Hegel ogni filosofo è un pittore
Ecco come i più grandi pensatori, in qualsiasi epoca storica utilizzano immagini per rendere efficaci le proprie teorie Miti, leggende, similitudini e copertine di libri
di Riccardo Fedriga


A Camogli il Festival della Comunicazione con Umberto Eco
IL TESTO di Riccardo Fedriga che qui pubblichiamo è tratto dall’intervento — dal titolo La filosofia come non l’avete mai vista — che lo studioso di filosofia terrà al Festival della Comunicazione in programma a Camogli dal 12 al 14 settembre. La manifestazione, ideata e diretta da Danco Singer e Rosangela Bonsignorio, è una tre giorni fitta di incontri, laboratori, workshop, con sessanta ospiti che si alternano per approfondire il tema in tutte le sue sfaccettature: fra i tanti Corrado Augias, Stefano Bartezzaghi, Irene Bignardi, Maurizio Ferraris. A inaugurare l’evento sarà una lezione di Umberto Eco: appuntamento venerdì 12 settembre alle 17.30 in piazza Ido Battistone, con un intervento dal titolo Comunicazione: soft e hard .


COME nella più classica tradizione filosofica, una delle risposte alla domanda “cosa significa conoscere” rimanda a un’altra domanda, e cioè “cosa significa vedere?” A sua volta, poi, parlare di conoscenza visiva può significare molte cose tra loro differenti. Ne parliamo infatti in merito a quella parte della filosofia che si occupa delle immagini, della visione e delle forme della percezione, cioè dell’estetica. Ma ne parliamo anche, in un arco di problemi filosofici che si estende sino alla definizione dello statuto degli oggetti, reali o meno che siano, cioè alla ontologia.
Pensiamo agli oggetti delle illusioni: che cosa stiamo vedendo quando osserviamo fenomeni del genere? Quando esercitiamo i nostri sensi, cogliamo oggetti reali o siamo immersi in un mondo di illusioni, come nel caso di un bastone che, immerso nell’acqua appare spezzato, create da quegli stessi atti percettivi con cui cerchiamo di entrare in rapporto col mondo?
D’altro canto, anche tralasciando l'iconologia più nota, dalla vaticana Stanza della Segnatura di Raffaello, con l’affresco delle tradizioni di Platone e Aristotele, alla Melancholia di Dürer e al Pensatore di Rodin, elencare e classificare la filosofia per immagini sarebbe comunque un lavoro più lungo del catalogo di Leporello. Invece è utile mostrare, attraverso le immagini, l'inesauribile ricchezza e l'efficacia dell'immaginazione visiva di cui i filosofi sono stati capaci.
Si va da Socrate, di volta in volta satiro e torpedine di mare, all’allegoria della caverna della Repubblica di Platone, per passare all'immagine aristotelica del pilota e della nave, usata per rispecchiare il rapporto complesso tra l'anima e il corpo nell'uomo. I secoli medievali non saranno da meno: basti pensare al fortunato aforisma dei «nani sulle spalle di giganti », con cui nel XII secolo Bernardo di Chartres descriveva i sapienti del proprio tempo, più piccoli dei grandi del passato ma in grado di vedere più lontano. Neppure il rigore della rivoluzione scientifica moderna ignora l'efficacia delle immagini ma, anzi, le sfrutta per spiegare e per produrre consenso attorno alla nuova immagine del mondo: si pensi all’esperimento del gran naviglio di Galilei, elaborato per dimostrare l’uniformità e la relatività del moto. Ma anche al caso di Molyneux, ovvero del cieco dalla nascita che riacquista la vista in età matura: saprebbe egli, solo con la vista e senza aiutarsi con il tatto, distinguere un cubo da una sfera? Un caso che coinvolse filosofi come Locke, Leibniz, Diderot… Al gusto della visualizzazione concettuale non sfuggono le grandi figure della filosofia moderna: ogni studente liceale ricorda Kant e il suo esempio dei cento talleri, tanto reali quanto lo è l’esistenza della realtà. Ma anche la prosa di Hegel, solitamente così ostica e ricca di tecnicismi, si illumina a tratti con immagini come la nottola di Minerva, che come la filosofia si alza solo sul fare della sera, quando la vita si è compiuta. Il secolo Ventesimo è il paradiso di chi vuole vedere la filosofia: si parte dai paradossi spiegati attraverso immagini visive, come quello di Bertrand Russell sul barbiere che rade tutti gli uomini del villaggio tranne quelli che si radono da soli (e quindi chi rade il barbiere?), per giungere agli esperimenti mentali come quello di Thomas Nagel, il quale si chiede se ci si possa mettere nei panni di un pipistrello che di notte va a caccia di insetti: riusciamo a concepire uno spazio costruito a partire esclusivamente da suoni?
Ma, tra tutte, vi è un particolare tipo di immagini sulle quali non ci sofferma mai abbastanza. Sono le immagini di quegli oggetti materiali, i libri, che hanno trasportato la filosofia nel corso dei secoli. Non si può capire a fondo la portata rivoluzionaria della Instauratio Magna di Francesco Bacone se non se ne osserva il frontespizio del volume, con quelle colonne d’Ercole che vengono oltrepassate dalla nave della nuova scienza, proiettata a vele spiegate verso i mari aperti del sapere. E che dire della tavole dell’ Encyclopédie di Diderot? Oppure del «pensare per dipinture», come definisce Vico il frontespizio della Scienza Nuova , che funge da quadro sinottico dell’intera opera e da ausilio visivo e mnemotecnico per il lettore. Per finire, tornando agli antichi in un ideale circolo virtuoso, l’immagine forse più celebre è quella della Filosofia che, nella Consolazione della filosofia , appare in persona a Severino Boezio. Insieme allegorica, e storicamente concreta, essa è trasportata in diverse fogge nei secoli attraverso le miniature e le incisioni di manoscritti e libri a stampa, come una donna dal «venerando aspetto». Insomma, i modi di presentare ai lettori gli argomenti filosofici hanno sempre costituito uno strumento per presentare e comunicare sia l’astrazione sia la concretezza storica delle tesi filosofiche. Mai come oggi questi modi sono tanti e potenzialmente alla portata di chiunque: vedere la filosofia, e farla vedere, può costituire la maniera più efficace per renderla presente ai ragazzi che vi si vogliano avvicinare. Per questo si è progettato un manuale di filosofia per le scuole proprio a partire da come viviamo la comunicazione e l’editoria. Oggi i mille supporti a disposizione, iPhone, iPad, smartphone, lavagna elettronica, fanno vedere la filosofia e le sue storie sotto mille angolature possibili. Sono state così tradotte in immagini contemporanee le relazioni tra filosofia, scienza, storia e cultura materiale. E si è fatto sì che queste relazioni aperte fossero tutte interconnesse, dando vita a ovviamente a un’immagine visiva, quella della rete. Per scoprire che, così, la filosofia non l’abbiamo mai vista.