sabato 20 gennaio 2018

il manifesto 20.1.18
Il Magistero di Liliana
Liana Segre con i ragazzi durante la presentazione della Giornata della Memoria a Milano il 15 gennaio scorso
di Moni Ovadia


Liliana Segre: «Meglio altre cento volte vittima che una sola volta carnefice»

Liliana Segre, deportata ad Auschwitz a soli tredici anni e mezzo e sopravvissuta all’inferno del famigerato lager nazista da cui uscì a 15, è stata una dei grandi testimoni della Shoà: il 19 gennaio 2018 il Presidente Sergio Mattarella, l’ha nominata Senatrice della Repubblica a vita.

Conosco bene Liliana, la considero un’amica e penso che anche lei mi consideri tale.
Ho conosciuto anche l’amore della sua vita intera, diventato suo marito, Alfredo Belli Paci, si incontrarono giovanissimi e si innamorarono per sempre. Belli Paci fu un Ufficiale dell’Esercito del nostro paese, uno di quei soldati che salvarono l’onore dell’Italia rifiutando di aderire alla barbarie nazifascista di Salò. Era un bell’uomo, sopra il metro e ottanta, che ti toccava profondamente per il garbo e la grazia con cui si esprimeva.
Quando uscì dall’internamento pesava 32 chili ma quando parlava di Liliana e del suo calvario, si schermiva per sminuire le proprie sofferenze rispetto a quelle patite dalla moglie.
Liliana è una donna straordinaria, forte, schietta, coraggiosa.
Mi è capitato alcune volte di accompagnarla nel suo magistero di rendere testimonianza nelle scuole, in particolare in occasione delle Giornate della Memoria.
In queste circostanze – l’hanno ascoltata fino a settemila studenti per volta – Liliana racconta la sua storia con un eloquio nitido, fermo e inciso, la sua terrificante esperienza e lo sforzo di sostenere la grande emozione che ho percepito – perché seduto accanto a lei -, non ha intaccato mai il cammino di una parola che doveva toccare i cuori ma anche le menti.
Liliana dichiara sempre il suo obiettivo, minimale ma vitale, far sorgere da quella moltitudine di giovani almeno tre «candele della Memoria».
Per candele della Memoria intende luci dell’anima e della mente che raccolgano da lei il testimone per dare presente e futuro al dovere di ricordare e assumersi l’impegno etico di suscitare altre «candele» per le generazioni future, di generazione in generazione.
Il culmine del suo racconto, è la parte che riguarda il primo momento della liberazione. Approssimandosi le forze dell’Armata Rossa al lager di Auschwitz, i carnefici dettero avvio alle marce della morte. Facevano camminare gli internati ancora in grado di farlo di lager in lager, con l’intento di sfinirli e di farli morire durante le marce forzate.
Ma a un certo punto si udirono crepitare le mitragliatrici sovietiche a poche centinaia di metri, e i super uomini nazisti, presi dal panico, si misero in mutande e gettarono divise e armi lontano da sé. Il più terrorizzato, racconta Liliana, fu lo spietato ufficiale delle SS che dirigeva l’ultimo campo; aveva così paura, il superuomo, che lasciò cadere la sua pistola.
Liliana la raccolse, avrebbe potuto ammazzarlo come un cane, aveva visto mille volte sparare a bruciapelo alla testa di un internato, ma dopo qualche istante la gettò pensando: «Meglio altre cento volte vittima che una sola volta carnefice. Da quel momento sono stata libera».
Ho visto sui giovanissimi volti scendere lacrime copiose in silenzio.
Molto si potrebbe dire su questa figura di donna eccezionale, ma oggi è meglio soffermarsi almeno su un significato reale e simbolico della presenza a vita di Liliana Segre nel Senato, l’impegno dell’intero parlamento e delle istituzioni, a espungere da ogni aspetto della vita pubblica ogni cellula di fascismo e di nazismo in tutte le sue forme, nostalgiche, vecchie, nuove, nuovissime.
Non ci sono fascismi diversi, ce n’è uno solo ed è peste nera.

Il Fatto 20.1.18
Leggi razziali e lager: la marcia di Liliana fino a Palazzo Madama
Esempio vivente - Mattarella nomina la Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e testimone dell’antisemitismo, senatrice a vita
Leggi razziali e lager: la marcia di Liliana fino a Palazzo Madama
di Leonardo Coen


Sono passate da poco le undici del mattino. Liliana Segre è ancora a casa, si sta preparando per le cerimonie del primo pomeriggio – la posa di alcune “pietre d’inciampo” per ricordare le vittime del nazifascismo – quando squilla il telefono di casa. È la “batteria” del Quirinale: “Il presidente della Repubblica desidera parlarle”. Liliana ignora per quale motivo. Forse vogliono coinvolgerla in qualche manifestazione ufficiale legata alla Giornata della Memoria, sabato 27 gennaio. Si sbaglia. Mattarella le annuncia che ha deciso di nominarla senatrice a vita. Alla Segre manca il respiro, per l’emozione. Lo ringrazia e assicura quale sarà il suo impegno: “Porterò in Senato la voce degli umiliati dalla Patria che amavano, cercherò di perpetuare la memoria, contrastare il razzismo, costruire un mondo di fratellanza, comprensione e rispetto, in linea coi valori della nostra Costituzione finché avrò forza a raccontare ai giovani l’orrore della Shoah, la follia del razzismo, la barbarie della discriminazione e della predicazione dell’odio”.
Mattarella si convince che la sua è stata una scelta coraggiosa, opportuna e anche politicamente significativa: la nomina della Segre, una personalità di altissimo profilo, in fondo può essere letta anche come una ferma presa di posizione contro chi voleva stravolgere Senato e Costituzione. Per Roberto Jarach, vicepresidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e della Fondazione Memoriale della Shoah, “vedremo finalmente sedute in Parlamento l’etica, la morale, la Storia”.
La notizia “mi ha colto completamente di sorpresa”, dirà subito al figlio Luciano Belli Paci. Vuol subito far sapere che la sua nomina non è stata sponsorizzata dai partiti, “non ho mai fatto politica attiva… sono una persona comune, una nonna con una vita ancora piena di interessi e impegni”. Ma è consapevole che lei è vista come una sorta di baluardo contro le pericolose derive razziste, xenofobe e antisemite che crescono nel Paese. Lei è una sopravvissuta dell’Olocausto – non suo padre Alberto, col quale venne deportata ad Auschwitz: “Certamente il presidente ha voluto onorare, attraverso la mia persona, la memoria di tanti altri in questo anno 2018 in cui ricorre l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali. Sento su di me l’enorme compito, la grave responsabilità di tentare almeno, pur con tutti i miei limiti, di portare nel Senato le voci ormai lontane che rischiano di perdersi nell’oblio.
Le voci di quelle migliaia di italiani, appartenenti alla piccola minoranza ebraica, che nel 1938 subirono l’umiliazione di essere degradati… che furono espulsi dalle scuole, dalle professioni, dalla società dei cittadini di serie A”. Non ha mai dimenticato. Liliana, il giorno che le impedirono di entrare a scuola. Aveva otto anni.
E la colpa d’essere nata ebrea. La discriminazione tolse voce e identità: gli ebrei vennero perseguitati, braccati, deportati per la “soluzione finale”. La Segre vuole che non ci si dimentichi mai di loro, di chi non ha più tomba, di chi è svanito nel vento: “Salvare quelle storie, coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza. E la può usare”. Certo, “non dimenticando e non perdonando – l’ho sempre fatto – ma senza odio e spirito di vendetta: sono una donna di pace e una donna libera: e la prima libertà è quella dall’odio”.
Oggi, per esempio, l’attendono gli studenti del liceo Carducci. A loro, come da lustri e lustri, dirà che è nata a Milano il 10 settembre 1930, che i suoi genitori si chiamavano Alberto Segre e Lucia Foligno, che abitava in corso Magenta al numero 55. Che il 7 dicembre del 1943, insieme al padre a due cugini, tentò invano di riparare in Svizzera, aiutati da qualche contrabbandiere. Ma la “barca era piena”, dissero impietosi gli svizzeri che la ricacciarono indietro. L’arrestarono il giorno dopo a Selvetta di Viggiù, poi la trasferirono al carcere di Como e da qui a San Vittore. Ci rimase 40 giorni. Il 30 gennaio del 1944 la misero col padre dentro un vagone piombato. Il convoglio partì dal famigerato Binario 21. Oggi, quel luogo è diventato un Memoriale. L’anno scorso l’hanno visitato
26 mila studenti.

La Stampa 20.1.18
Missione testimone: la numero 75190è senatrice a vita
Ieri la telefonata del presidente Mattarella“La mia pelle racconta l’orrore di Auschwitz”
di Paolo Colonnello


Liliana Segre, 87 anni, neo senatrice a vita della Repubblica, è una signora d’altri tempi: gentile e apparentemente fragile. In realtà è una delle donne più forti e lucide che sia mai capitato di conoscere. Del resto non si sopravvive a una deportazione in un carro bestiame, a un campo di concentramento come Auschwitz, allo sterminio dei propri genitori, degli amici, all’indifferenza del ritorno, alle cicatrici indelebili della persecuzione, se non si ha nell’anima un filo d’acciaio. Che poi è quello che hanno tutti coloro che scelgono di essere testimoni del proprio tempo. Così Liliana si batte da anni per la «memoria», perché nessuno dimentichi l’orrore delle leggi razziali, degli stermini nazisti, dello zelo fascista.
Certo non se l’aspettava la telefonata del Presidente, ieri mattina: «Un fulmine a ciel sereno. Ero già stata contattata per andare a Roma il 25 e così celebrare al Quirinale la giornata della Memoria. Poi ho risposto al telefono: “Buongiorno, sono Mattarella”. Gli ho detto: “Aspetti che prima mi siedo...”. Non sapevo neanche che potesse nominare 5 senatori a vita...». La casa di Porta Magenta piano piano si è riempita di gente. Ma Liliana non si è fatta travolgere.
Che memoria può esistere nel mondo dell’effimero, delle verità che scompaiono per lasciare il posto a chi si fa strada tra la menzogna? «Questo è un mondo pronto a negare il passato per mille motivi, perché fa comodo, in molti casi. Certo, non sono molto ottimista, ma è una battaglia che non si può smettere di combattere. È la mia missione: me la sono data 30 anni fa, dopo aver trascorso 45 anni in silenzio, dal ritorno dal campo di sterminio». E qui la voce si fa sottile. Perché a 13 anni, dopo essere respinta dalla Svizzera, portata con suo padre, a San Vittore, nella stessa strada in cui era nata; infine al famigerato «binario 21» della Centrale, da cui partivano i treni della morte e dove ora c’è il Memoriale della Shoah, la memoria di Liliana è stata incisa nella carne, come il numero di Auschwitz sul suo braccio sinistro: «Per la vergogna di chi lo ha fatto: numero 75190. Non lo toglierei per nessuna ragione al mondo. Perché in fondo io sono quel numero». Un numero che per anni ha destato curiosità nella gente ma che Liliana non aveva mai la forza o la voglia di spiegare. «Perché dopo essere tornata da quel tormento, mi accorsi che ero da sola: eravamo partiti in 605 e tornati in 22, era l’agosto del ’45, compivo 15 anni. Mi aggiravo in una Milano di indifferenti. Incontravo le mie ex compagne di classe che si stupivano, mi chiedevano: “Ma come mai? A un certo punto sei sparita, non ti abbiamo vista più…”». Come se fosse partita per una malattia che poi in fondo di questo si tratta: una malattia dell’umanità. «Poi a un certo punto ho deciso che dovevo ricordare che ero matura per mettermi davanti ai ragazzi senza parlare mai di odio o di vendetta per raccontare una storia italiana».
Eppure, c’è ancora qualcuno che parla di “razza bianca”, che effetto le fa? «A me la parola razza mette sempre ansia. Voglio credere che sia stato “un lapsus” perché non posso credere altrimenti». In Europa c’è un ritorno delle destre estreme, la preoccupa? «Sì, primo perché ho sempre creduto nei ricorsi storici e poi perché nella mancanza totale di valori di oggi il rischio è ritrovarsi un Hitler al potere senza rendersene conto. Io faccio la mia parte, che ognuno faccia la sua».

Repubblica 20.1.18
Intervista a Liliana Segre
“Io, da Auschwitz a senatrice a vita ma non dimentico e non perdono”
di Simonetta Fiori


Quando ho sentito il Presidente il puzzle della mia vita s’è rimesso a posto. Amore e dolore si sono composti.
Non capita spesso Mi sono tornati tutti in mente. E mi sono riaffiorate tutte le persone offese, derise, violate, deportate che non hanno potuto raccontare

«Ha presente quei vecchi puzzle a cui ci si affeziona?
Quando ho sentito il presidente Mattarella, il puzzle della mia vita s’è rimesso a posto. Non capita spesso. Non sempre i pezzi d’un vissuto pieno di dolore ma anche di amore riescono a comporsi. Stamattina mi è successo questo». Liliana Segre è frastornata. La giornata è cominciata con la telefonata del presidente della Repubblica che la nomina senatrice a vita ed è proseguita tra squilli, visite, mazzi di fiori, soprattutto tanti ricordi: case, luoghi, volti che hanno segnato la sua storia di ragazza braccata, perseguitata, sopravvissuta per caso. «Non me l’aspettavo.
Nei giorni scorsi il cerimoniale mi aveva parlato genericamente d’una decorazione, ma un incarico così prestigioso era fuori dalla mia immaginazione. Sono rimasta senza parole». Il padre perso ad Auschwitz, stesso destino per i cugini e gli adorati nonni paterni. «Mi sono tornati tutti in mente. E mi sono riaffiorate tutte le persone offese, derise, violate, deportate che non hanno potuto raccontare. Uomini e donne che amavano la patria e dalla patria sono stati degradati, sviliti a cittadini di serie B, consegnati alla Soluzione Finale. Quello Stato oggi non esiste più. Ma il gesto del presidente della Repubblica assume il significato di un risarcimento.
E insieme a me porta nel cuore delle istituzioni repubblicane anche le voci meno fortunate, le voci di chi non è tornato. Di quelli che non hanno una tomba e sono finiti nel vento».
Un gesto dal significato chiaro, in un’Italia percorsa da rigurgiti neofascisti: l’icona sfigurata di Anna Frank è forse l’immagine più forte di questa temperie.
«Quella è stata una vergogna che mi ha lasciato stupefatta.
Ma chi può solo pensare un gesto così miserabile? Provo una grande pena. Sì, si avvertono questi umori violenti, con simboli che evocano periodi terribili. Sono ferita, addolorata. La sensazione è che sia stato tutto inutile. Sapranno i giovani distinguere il vero dal falso?
Spero di sì. Perché altrimenti significa che noi testimoni abbiamo perso».
Come tanti sopravvissuti di Auschwitz, lei per decenni è rimasta chiusa nel silenzio.
«Appena uscita dal lager, ho capito fin dal principio che nessuno aveva la capacità di ascoltarci, di comprendere quello che era accaduto. Per quarantacinque anni ne ho parlato solo con gli amici più intimi, con mio marito. Con gli altri no. E solo a sessant’anni questo mio groviglio interiore s’è sciolto. Il mondo non ci capiva e non aveva voglia di capirci. Sa cosa vuol dire indifferenza? Sì, la parola che oggi è scolpita al binario 21 della Stazione Centrale a Milano, quello da cui partimmo per Auschwitz. L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa.
È l’apatia morale di chi si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo. La memoria vale proprio come vaccino contro l’indifferenza».
Nel 2018 ricorre anche l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali.
«Frequentavo a Milano la quarta elementare della scuola Fratelli Ruffini.
Improvvisamente venni espulsa. Divenni una vittima.
Avevo solo otto anni. La mia era una famiglia milanese di patrioti, perfettamente inserita nel contesto della città. Quello che vissi con mortificazione era solo l’inizio. Il principio d’una storia di perseguitati, braccati, deportati, alcuni anche ammazzati».
Cosa le ha dato la forza di resistere?
«Non lo so dire. Io sono viva per caso. Ognuno di noi ha un destino, evidentemente non dovevo morire. Nel 1944, quando fummo deportati a Birkenau, ero una ragazza di quattordici anni, stupita dall’orrore e dalla cattiveria.
Sprofondata nella solitudine, nel freddo e nella fame. Non capivo neanche dove mi avessero portato: nessuno allora sapeva di Auschwitz».
Lei è l’unica sopravvissuta della sua famiglia. Questo cosa ha significato?
«Ho avuto una vita difficile, anche dopo la guerra. La mia fortuna è stata incontrare mio marito, un ufficiale del regio esercito che aveva conosciuto il dolore dei campi per aver detto no alla Repubblica di Salò. È stato l’amore grande della mia vita. È morto dieci anni fa. Oggi mi è mancato tanto».
Con chi festeggerà stasera?
«Come metto giù il telefono con lei, me ne vado a letto. Sono tanto stanca, emozionata.
Naturalmente sono felice anche per i miei figli e i miei nipoti».
Subito dopo la nomina, lei ha detto: «Non dimentico e non perdono».
«Sì, così. La mia missione è non dimenticare. La mia missione è raccontare cosa è avvenuto veramente. E non perdono: chi sono io per perdonare? Potrei perdonare gli atti commessi contro di me. Ma ho visto quello che è stato fatto agli altri che non possono raccontarlo. Ecco, da oggi ho la responsabilità di portare nel Senato della Repubblica quelle voci che rischiano di disperdersi. Finché avrò la forza, continuerò a raccontare ai ragazzi la follia del razzismo. Senza odio, senza spirito di vendetta. Sono una donna libera. E la prima libertà è quella dall’odio».

Repubblica 20.1.18
La prima nomina di Mattarella contro i nuovi razzismi
Il senso della scelta è tenere viva la memoria attraverso una persona che ha deciso di parlare soprattutto ai giovani
di Umberto Rosso


Roma Un omaggio ad una sopravvissuta allo sterminio della Shoah, ma non solo. Nella nomina a senatrice a vita conferita da Sergio Mattarella a Liliana Segre c’è anche un segnale contro il risorgere del razzismo e dell’intolleranza, e un riconoscimento che guarda anche in avanti: al ruolo che la presidente del centro Pietre d’inciampo potrà avere in Senato portandovi la sua esperienza quarantennale di incontro con i giovani, per tenere viva la memoria e l’impegno contro discriminazioni e persecuzioni.
A sorpresa, il capo dello Stato ha dunque nominato il suo primo senatore a vita, dopo quasi tre anni al Colle, secondo le prerogative previste dall’articolo 59 della Costituzione, e che potrebbe essere anche l’unico. A Palazzo Madama infatti con questo nuovo arrivo sono cinque i senatori a vita nominati da un presidente della Repubblica — vi siedono già Monti, Rubbia, Cattaneo e Piano, per volere di Giorgio Napolitano — e Mattarella intende attenersi alla interpretazione restrittiva della norma, che prevede appunto di non andare in totale oltre questo numero a Palazzo Madama ( a parte i senatori a vita di diritto come gli ex presidenti della Repubblica). Un seggio era rimasto vacante dopo la scomparsa del maestro Claudio Abbado.
Mattarella ha chiamato Liliana Segre al telefono, per darle personalmente la notizia, e la incontrerà giovedì prossimo al Quirinale, nel corso della celebrazione della Giornata della Memoria che quest’anno si svolgerà dunque in una cornice molto particolare ( e in diretta tv). La neosenatrice sarà intervistata da alcuni studenti che hanno vinto con i loro lavori il concorso dedicato all’anniversario della leggi razziali del 1938. Alla cerimonia, presentata dall’attore Remo Girone, ci sarà fra gli altri anche la cantante israeliana Noa (con la sua La Vita è bella, la colonna sonora del film di Roberto Benigni).
Dal premier Gentiloni, dai presidenti delle Camere Grasso e Boldrini grande soddisfazione per la scelta di indicare Segre senatrice a vita. Così come da parte di tutte le forze politiche, sindacali, dalle associazioni culturali. Con una sola eccezione: la Lega.

Repubblica 20.1.17
Mattarella la memoria e i nodi di oggi
di Stefano Folli


La nomina di Liliana Segre a senatrice a vita non è solo un’iniziativa di alto valore civile da parte del capo dello Stato. È anche la conferma dello stile presidenziale di Mattarella alla vigilia della giornata della Memoria, certo, ma pure di elezioni che si segnalano per il mediocre e spesso infimo livello del dibattito pubblico. Per qualche ora forse non si parlerà di programmi inconsistenti e di promesse mirabolanti, ma si rifletterà sulla storia del Novecento e sui principi che sono alla base della Repubblica. In tal modo Mattarella, onorando la vita eccezionale di una sopravvissuta all’Olocausto, prova a fare pedagogia civile in un paese che vive nella bolla di un eterno presente, dimentico del passato e indifferente al futuro. Quanto servirà, questo richiamo, a risollevare il livello delle polemiche e a rimettere sulle sue gambe una campagna elettorale confusa e greve, non è possibile saperlo. Ma il tentativo andava fatto adesso. Mentre cresce l’incertezza sul dopo voto e nessuno sa con precisione come muoversi a partire dal 5 marzo sera.
Il rischio è la lacerazione non più componibile. Se la Repubblica sarà ingovernabile, emergeranno le tendenze e i gruppi più intolleranti. Non abbastanza forti per coalizzarsi e sostenere una maggioranza, ma probabilmente in grado di impedire agli altri di provarci. Al momento è superfluo attendersi indicazioni utili dai politici, visto che ben pochi scoprono le carte.
Quando importanti esponenti del Pd giurano che «mai al governo con le destre», si capisce che non possono dire altro a sei settimane dalle urne. Un minuto dopo la chiusura dei seggi si cambierà spartito. E il Berlusconi che oggi annuncia: «Vado io a Palazzo Chigi se il tribunale europeo mi avrà reintegrato» o che promette il ministero dell’Interno a Salvini, l’uomo da cui teme qualche scherzo, andrà valutato in base ai suoi suffragi. Al pari di tutti gli altri, ovviamente. Il calcolo dei rapporti di forza sarà come sempre essenziale.
Innanzitutto per eleggere i presidenti di Camera e Senato, prima prova di una convergenza parlamentare che potrebbe anche trasformarsi in maggioranza di governo. S’intende che siamo nel campo del possibile, ma non oltre. Nel 2013, per dire, Grasso e Boldrini furono eletti dal centrosinistra rinsaldato dal voto penta-stellato. Ma non ci furono passi avanti sulla via del governo: nessun sodalizio fra Cinque Stelle e Pd. Enrico Letta, come è noto, guiderà un effimero esecutivo di “grande coalizione” fra Pd e Popolo delle Libertà. Il precedente dunque esiste, ma esiste anche il ricordo di un’esperienza poco fortunata.
Difficile immaginare che il centrosinistra si disponga senza resistenze a ripercorrere la stessa strada dopo il 4 marzo. Nel 2013, grazie al premio di maggioranza, il Pd aveva ottenuto una solida presenza parlamentare e poteva digerire un accordo con il mondo berlusconiano. Nel 2018 si prevede una netta sconfitta del Pd e un Parlamento bloccato: il sentiero dell’intesa politica con il centrodestra sembra precluso. Si vedrà. Certo, nel gioco delle astensioni il Pd potrebbe recuperare un po’ di consensi fra gli incerti, dove pare che siano davvero tanti i delusi. Ma alla fine potrebbe non bastare. Non è strano quindi che qualcuno parli di “governo del presidente” (D’Alema), versione edulcorata della grande coalizione non realizzabile. Ed è ovvio che al Quirinale non piaccia l’ipotesi. Il capo dello Stato è obbligato a cercare una maggioranza politica. Tutto il resto viene dopo. E potrebbe non venire affatto. Per ora meglio coltivare i valori della Repubblica tenendone viva la memoria.

La Stampa 20.1.18
Task force anti-migranti in Austria
Il ministro dell’ultradestra rafforza i controlli al Brennero, allertate le forze speciali “Non ci sarà più un lasciapassare, identificheremo capillarmente tutti i viaggiatori”
di Walter Rauhe


Una task force composta da forze speciali della polizia per rafforzare i controlli alle frontiere e bloccare l’ingresso di migranti nel Paese. A poco più di un mese dal suo insediamento, il nuovo e discusso governo austriaco di centro destra fa sul serio e inizia a mettere in pratica quanto ripetutamente ventilato nel corso della campagna elettorale.
In un’intervista rilasciata al quotidiano Tiroler Tageszeitung, il nuovo ministro degli Interni Herbert Kickl del partito di ultra-destra della Fpö ha annunciato l’istituzione di un corpo speciale composto inizialmente da 600 agenti «in grado di avviare entro pochissime ore» al Brennero e agli altri valichi di frontiera, quello che lui stesso definisce come il «management di confine» e di procedere all’identificazione capillare dei viaggiatori, di costruire degli sbarramenti e di bloccare l’eventuale ingresso nel Paese di immigrati sprovvisti di permesso. «Non ci sarà più un lasciapassare», ha tuonato il ministro, precisando che i preparativi per l’istituzione della task force (Grenzschutzeinheit, ovvero Unità di difesa delle frontiere) sono già partiti di comune accordo con gli alleati di governo del Partito Popolare Austriaco (Övp) del cancelliere Sebastian Kurz. L’intento di Herbert Kickl - l’ex autore dei discorsi del defunto leader dell’ultra destra Jörg Haider e considerato fra i più polemici e spietati apostoli dell’ideologia ultranazionalista e a tratti anche apertamente xenofoba del Fpö, è quello di scongiurare a tutti i costi il ripetersi di situazioni caotiche ed incontrollate come quelle verificatesi nell’estate del 2015, quando migliaia di profughi provenienti dalla Siria attraverso la rotta balcanica, hanno attraversato la Repubblica alpina per raggiungere la Germania. Anche se in realtà solo pochi di questi profughi si sono allora fermati in Austria per chiedere diritto di asilo politico, per Kickl si è trattato ugualmente di «un’invasione». E non è nemmeno un mistero che il fronte principale della nuova «Grenzschutzpolizei» alpina sarà quello del valico del Brennero e di tutti gli altri confini con l’Italia.
Già in passato i leader dell’ultradestra della Fpö e quelli del centro destra della Övp di Sebastian Kurz avevano fatto a gara nel tentativo di lanciare le proposte più polemiche e le minacce più aggressive all’indirizzo di Roma, rea secondo loro di non trattenere nel proprio Paese i profughi e di caricarli in modo incontrollato sui treni diretti al Brennero. Lo scorso mese di luglio, nel pieno della velenosissima campagna elettorale austriaca, l’allora ministro degli interno Wolfgang Slobotka (Övp) era arrivato a minacciare la chiusura della frontiera del Brennero e l’invio addirittura di carri armati per bloccare l’ingresso dei migranti. Una minaccia alla quale per settimane seguirono effettivamente controlli più massicci (anche se ancora sporadici e mirati) al più importante valico di frontiera fra il Nord e il Sud dell’Europa con conseguenti code lungo la A22 del Brennero.
Il nuovo governo austriaco fra i Popolari di centro della Övp e l’ultradestra dei «Liberali» della Fpö ha allarmato la comunità internazionale e viene «osservato a distanza» e con «particolare attenzione» dalla stessa Germania, come ha ribadito senza mezzi termini mercoledì scorso Angela Merkel ricevendo a Berlino il suo collega da Vienna Sebastian Kurz. «Giudicheremo il nuovo governo austriaco dai fatti», aveva ribadito la cancelliera tedesca, che nel corso della campagna elettorale in Austria era uno dei bersagli preferiti degli attacchi sferzati da Kurz e da Strache (il leader della Fpö ed attuale vicecancelliere) per via della sua politica di apertura ai profughi. A Berlino si teme che ora che la destra populista è passata dai palchi dei comizi alle poltrone di governo, l’Austria compia una forte virata a destra unendosi a livello europeo più ai Paesi del Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca) che ai vecchi alleati delle democrazie occidentali e meridionali.

La Stampa 20.1.18
Bruxelles, un muro per dividere i bimbi francofoni e fiamminghi
Polemiche sulla scuola elementare in costruzione
di Marco Bresolin


Il cortile della scuola diviso in due, da un muro. Da una parte i bambini di lingua fiamminga, dall’altra i francofoni. Vietato entrare in contatto durante la ricreazione, men che meno durante le ore di lezione. Succede a Bruxelles, comune di Schaerbeek, uno dei 19 municipi della capitale belga. In una scuola materna e primaria comunale. Incredibile? Neanche troppo per un Paese che è diviso in tre regioni e in altrettante comunità linguistiche (c’è anche la minoranza di lingua tedesca). Ognuna con il suo parlamento. Ai quali si aggiunge il parlamento federale. Sette aule legislative (per uno Stato di 11 milioni di abitanti) che hanno competenza su molti temi, tre lingue ufficiali e un’architettura istituzionale da far venire il mal di testa. Surreale? Beh, ma questo è il Paese di René Magritte. E infatti la nuova scuola sarà intitolata proprio al massimo esponente del surrealismo.
Ecco perché il progetto non sconvolge troppo cittadini e istituzioni locali. L’unico a sollevare l’assurdità è un consigliere comunale del Partito del Lavoro Belga, formazione di estrema sinistra, uno dei pochi partiti unitari che non presenta una divisione sul fronte linguistico (per avere un’idea di come funzionano le cose: alle prossime elezioni comunali di Molenbeek, i Verdi correranno divisi tra i “Groen”, fiamminghi, e i “Ecolo”, francofoni). Ma quella di Axel Bernard sembra la battaglia di Don Chisciotte contro i mulini a vento: «Questa scuola è un’occasione persa - spiega -, a Schaerbeek ci sono molte famiglie con problemi economici: una formazione bilingue potrebbe aiutare questi ragazzi ad avere maggiori opportunità lavorative in futuro. E invece, per ragioni politiche, si evita l’istruzione bilingue».
La scuola che aprirà i battenti a Schaerbeek a settembre dipenderà dal municipio. Sarà un unico istituto, ma diviso in due diverse sezioni: una finanziata dalla comunità francofona (600 bambini in tutto) e una da quella fiamminga (250 bambini). «E le due comunità - ha spiegato ai media locali l’assessore comunale all’istruzione, Michel De Herde - vogliono che gli edifici e le superfici che hanno sovvenzionato siano identificate chiaramente». Questa parte del cortile l’ho pagata io e chi ci gioca deve parlare la mia lingua. Chiaro? C’è poi un aspetto giuridico, perché le regole dell’istruzione francofona sono diverse da quella fiamminga. «Dicono che un sorvegliante fiammingo non può sorvegliare i bambini francesi durante la ricreazione» scuote il capo Bernard.
Il municipio respinge le accuse di apartheid sottolineando che ci saranno anche spazi comuni all’interno dell’edificio. Per esempio la palestra o l’orto botanico: la prima è stata realizzata con i fondi della Regione di Bruxelles, il secondo grazie al contributo del Comune. Entrambe le istituzioni sono bilingue «e dunque lì non c’è questa esigenza di separazione» aggiunge orgoglioso l’assessore.
Proprio in questi giorni sui giornali belgi viene ricordata la grande crisi politica scoppiata 50 anni fa attorno all’Università Cattolica di Lovanio, nelle Fiandre, quando gli studenti di lingua fiamminga chiesero la soppressione della sezione francofona dell’ateneo, il primo del Paese. Le manifestazioni - al grido di «Fuori i valloni» - nel 1968 provocarono persino la caduta del governo. Alla fine vinsero i fiamminghi, che cacciarono dall’università i francofoni. In risposta, fu costruita la città di Louvain-la-neuve, sede della nuova università francofona, situata a pochi chilometri da Lovanio, ma in Vallonia. Divise dal confine regionale, lungo una linea che presto taglierà in due anche il cortile di una scuola.

La Stampa 20.1.18
La mossa anti-aborto di Trump
“Proteggiamo la santità della vita”
Per la prima volta un presidente Usa parla alla marcia dei “pro life” Lo scopo è quello di consolidare la base conservatrice in vista del voto
di Paolo Mastrolilli


Gli Stati Uniti sono uno dei paesi con le regole più permissive sull’aborto, e «questo deve cambiare». È la promessa che ha fatto ieri Donald Trump, diventando il primo presidente a parlare in diretta dalla Casa Bianca durante la «March for Life», la Marcia per la vita.
La manifestazione si tiene ogni anno a Washington in occasione dell’anniversario della sentenza della Corte Suprema Roe vs. Wade, che nel 1973 legalizzò le interruzioni di gravidanza. La materia negli Usa non è mai stata regolata dal Congresso con una legge, e continua a dividere il paese, dove secondo l’ultimo sondaggio della Gallup il 49% dei cittadini è favorevole all’aborto e il 46% è contrario.
Trump ha elencato le iniziative «pro life» prese dalla sua amministrazione, dalla nomina dei giudici alla cancellazione dei finanziamenti per le organizzazioni che promuovono le interruzioni di gravidanza. Quindi ha detto che la sua amministrazione «difenderà sempre la santità della vita». In concreto, si è impegnato a spingere affinché il Congresso approvi una legge per vietare i «late-term abortions», cioè quelli che avvengono dopo la ventesima settimana di gravidanza. L’obiettivo di lungo termine, invece, è cancellare la sentenza Roe vs. Wade, attraverso la trasformazione della Corte Suprema. Il capo della Casa Bianca ha nominato Neil Gorsuch al posto di Antonin Scalia, ma così ha solo conservato la maggioranza già esistente a favore dei conservatori. La sua speranza è che nei prossimi anni si ritiri qualche magistrato liberal, come Ruth Bader Ginsburg o Stephen Breyer, in modo da poter alterare definitivamente gli equilibri in favore di chi vuole vietare l’aborto.
Trump si è rivolto ai manifestanti proprio mentre conduceva gli ultimi negoziati per evitare lo «shutdown» dello stato, e tutto questo si tiene nella logica della sua base. Entrambe le questioni, infatti, servono a mantenerla fermamente dalla sua parte. Fino a pochi anni fa Donald dichiarava di essere «pro choice», ma nel corso della campagna presidenziale ha spiegato che la sua coscienza si è evoluta, e ora è contrario all’aborto, tranne i casi di incesto e stupro. Questo cambio di posizione era essenziale per ottenere i voti della destra evangelica e dei cattolici conservatori, che infatti lo hanno sostenuto. Ora per Trump è fondamentale mantenere la promessa di opporsi all’interruzione di gravidanza, in modo da non perdere questi voti. Stesso discorso per lo «shutdown», che invece ruota intorno all’immigrazione, perché per evitarlo i democratici chiedono di salvare dalla deportazione i «dreamers», cioè gli 800.000 illegali portati negli Usa dai genitori quando erano bambini. Anche qui il presidente non vuole cedere, per non tradire le aspettative della sua base. La determinazione nel difendere le politiche pro life, e affermare la linea intransigente sull’immigrazione, è infatti una delle chiavi per puntare alla rielezione nel 2020.

La Stampa 20.1.18
Un codice etico per i professori
“Niente sms né chat con gli alunni”
La proposta dei presidi dopo gli abusi al liceo Massimo di Roma Vietati anche i social, gli insegnanti rischiano fino al licenziamento
di Flavia Amabile


Le molestie a scuola vanno condannate senza alcun dubbio. Ma che cosa si fa quando i rapporti tra professori e alunni escono fuori dalla sfera scolastica? Come ci si regola? In questi giorni è in corso all’Aran (l’agenzia che rappresenta gli enti pubblici nella contrattazione collettiva) la trattativa per il rinnovo del contratto dei docenti. Una delle ipotesi circolate negli incontri della settimana scorsa riguarda proprio la necessità di dare regole sull’uso delle chat e dei social nei rapporti tra studenti e insegnanti. Secondo l’Aran, devono essere introdotti divieti veri e propri, con pesanti sanzioni disciplinari per chi non li rispetta. Una possibilità che ha scatenato le proteste delle organizzazioni sindacali ma che invece incontra il favore del mondo dei presidi.
Mario Rusconi, presidente dell’Associazione nazionale presidi del Lazio, ad esempio, chiede l’introduzione di «un codice deontologico» spiegando di non riferirsi a un documento che «deve surrogare le regole nei numerosi codici» ma di pensare a un documento che delinei «i parametri organizzativi della governance» e «le direttrici etico-professionali» che si intende seguire nella scuola unite all’adozione di un «trasparente sistema di valutazione del contesto scolastico». Il dibattito a questo punto è aperto. La ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha avvertito che «chi viene giudicato colpevole, dopo il procedimento disciplinare, sarà comunque licenziato». Una norma in questo senso dovrebbe essere inserita nel nuovo contratto per la scuola.
Ma il primo a esprimere dubbi di fronte a una condanna immediata è il ministro della Giustizia Andrea Orlando. La sua è una «perplessità sotto il profilo costituzionale» sulla possibilità di licenziare i professori accusati di molestie, «almeno in assenza di una condanna di primo grado». Quello delle molestie, ha spiegato, «è un reato particolarmente infamante che se non fosse fondato segnerebbe una persona per tutta la vita. Cautela chiede anche Maddalena Gissi, segretaria generale della Cisl scuola: «Centinaia di migliaia di insegnanti ogni giorno svolgono con competenza, serietà, generosità e passione il proprio lavoro: sono loro per primi a non tollerare comportamenti incompatibili con il compito di istruire ed educare le giovani generazioni. Per atti che comunque rappresentano rare eccezioni non ci può essere tolleranza né indulgenza». Tuttavia, severità e prudenza dovrebbero procedere di pari passo visto che «non sono mancati purtroppo casi di linciaggio mediatico rivelatisi poi privi di alcun fondamento».
In ogni caso, per la sindacalista, affrontare il tema delle sanzioni disciplinari nel contratto «significa definire un quadro di garanzie per tutti». Contrario, invece, a un codice etico si dice Francesco Sinopoli della Flc-Cgil perché «si interviene dall’alto nel punto più delicato della didattica che lega ogni docente ai suoi studenti: il rapporto umano e professionale che richiede la fiducia, la credibilità e la responsabilità. Nessuno può dire come dev’essere, quali limiti debba avere, con quale vocabolario e con quale sintassi si debba parlare. Esiste già un’etica, una deontologia, che derivano dalla prassi quotidiana dell’insegnamento. Poi, se emergono casi estremi, ci pensa il Codice penale. E da questo punto di vista, sostengo da tempo che gli studenti debbano anche imparare il coraggio di denunciare atti contrari al rispetto della loro persona, prima ancora del Codice».

venerdì 19 gennaio 2018

il manifesto 19.1.18
Esercito nei sobborghi palestinesi di Gerusalemme est
Gerusalemme. I comandi militari stanno esaminando la possibilità che la Brigata Binyamin assuma il controllo di Kufr Akab e del campo profughi di Shoufat dove gli abitanti hanno tutti la residenza ufficiale a Gerusalemme.
di Michele Giorgio

GERUSALEMME Tagliati fuori da Gerusalemme, pur essendo ufficialmente residenti nella città, dopo la costruzione del Muro israeliano. Abbandonati al loro destino dall’amministrazione comunale e senza servizi già da diversi anni, le decine di migliaia di palestinesi che vivono nel sobborgo di Kufr Akab e nel campo profughi di Shoaffat presto potrebbero vedere nelle loro strade i mezzi blindati dell’esercito israeliano. Lo rivelava ieri il quotidiano Haaretz confermando indirettamente l’intenzione delle autorità israeliane di ridurre il numero dei palestinesi a Gerusalemme dichiarata il mese scorso da Donald Trump come la capitale d’Israele. La notizia arriva mentre il Vaticano torna a chiedere uno statuto speciale internazionalmente garantito per la città santa «nel pieno rispetto della natura peculiare di Gerusalemme il cui significato – ha scritto papa Bergoglio in una lettera indirizzata a Ahmad al Tayyib, Grande Imam della moschea di Al-Azhar al Cairo – va oltre ogni considerazione circa le questioni territoriali…per preservarne l’identità, la vocazione unica di luogo di pace alla quale richiamano i Luoghi sacri, e il suo valore universale».
Kufr Akab e Shoaffat con l’arrivo delle truppe israeliane si troverebbero nella stessa condizione dei centri palestinesi dell’Area C, il 60% della Cisgiordania occupata nel 1967 sulla quale Israele continua ad avere un controllo completo, civile e di sicurezza. Haaretz aggiunge che i comandi militari stanno esaminando la possibilità che la Brigata Binyamin, responsabile della zona di Ramallah, assuma il controllo del sobborgo e del campo profughi, in collaborazione con il Cogat, l’ufficio di coordinamento delle attività civili del governo israeliano nei terrritori palestinesi occupati. Secondo gli israeliani Kufr Akab e Shoaffat sono ormai terre di criminalità e traffici illegali, tanto da richiedere l’intervento dell’esercito. Ma è stata proprio la politica di Israele a trasformarli in una giungla, visto che da anni agli abitanti sono negati servizi essenziali e non viene permesso di far riferimento all’Autorità nazionale palestinese (Anp). Le ambulanze israeliane non ci vanno perché sarebbe pericoloso, l’illuminazione pubblica è quasi inesistente, la raccolta dei rifiuti è affidata a privati lavorano poco e male e il degrado è diffuso. Il percorso del Muro ha segnato il destino anche di altri sei sobborghi palestinesi di Gerusalemme che si trovano sull’altro lato della barriera. I loro abitanti corrono il rischio di perdere, presto o tardi, la residenza nella città santa. Amaro il commento di Ayman Odeh, leader della Lista araba unita al possibile impiego dell’esercito. «È una mossa pensata per sradicare 100.000 palestinesi da Gerusalemme – ha detto – e per spaccare la zona araba della città in piccole entità composte da villaggi e quartieri separati».
Con l’impiego dell’esercito trova una prima attuazione il piano suggerito l’anno scorso al premier Netanyahu da una deputata del Likud, Anat Berko, di creare sul terreno le condizioni per «trasferire» all’Anp i sobborghi palestinesi di Gerusalemme Est nel quadro di una soluzione in due fasi: la loro trasformazione in “Area B” (amministrazione civile ai palestinesi e sicurezza a Israele) in un primo momento e, tra qualche anno, in “Area A” (controllo pieno palestinese). In tal modo 200mila palestinesi saranno espulsi da Gerusalemme. Ne ricaverebbero un vantaggio, ha spiegato Berko, anche lo Stato e il Comune di Gerusalemme non più chiamati a garantire assistenza sanitaria, sociale e ambientale a un numero così alto di «arabi».
Intanto ieri sera a Jenin si scavava ancora tra le macerie di una abitazione abbattuta dall’Esercito per recuperare il corpo di un secondo palestinese rimasto ucciso durante un raid di una unità speciale israeliana. Secondo i media locali uno dei due sarebbe Ahmad Jarrar, 24 anni, uno dei responsabili dell’agguato mortale nella zona di Nablus in cui il 9 gennaio è caduto il colono israeliano Raziel Shevack. Hamas ha parlato di Jarrar come di un suo «martire» ma a Jenin alcuni sostengono che il giovane sarebbe riuscito a fuggire prima dell’arrivo dei soldati israeliani.
Corriere 19.1.18
L’appello di rabbini e scrittori «Nascondiamo rifugiati in casa»
In memoria di Anne Frank, lettera al governo: israeliano fermi i rimpatri di africani
di Davide Frattini

GERUSALEMME Gli appartamenti di Tel Aviv, Gerusalemme o Haifa come l’alloggio segreto di Prinsengracht 263 ad Amsterdam. I rifugiati eritrei e sudanesi da proteggere come Anne Frank. Un gruppo di rabbini ha lanciato una campagna per accogliere i clandestini e impedire che siano deportati da qui a un paio di mesi, rispediti all’orrore che avevano sperato di lasciarsi dietro.
L’idea di ispirarsi alla ragazza ebrea morta nel campo nazista di Bergen-Belsen — dopo essere rimasta rintanata con la famiglia per quasi due anni — è venuta a Susan Silverman, rabbina progressista immigrata da Boston nel 2006 e sorella della comica americana Sarah. È anche tra le leader del movimento che vuol permettere alle donne di pregare come gli uomini, di recitare la Torah ad alta voce davanti al Muro del Pianto.
All’incontro organizzato a Gerusalemme dall’organizzazione Rabbini per i diritti umani, Silverman ha chiesto alle 130 persone presenti quante di loro avrebbero nascosto un rifugiato. Tutti hanno alzato la mano.
La legge israeliana li chiama «infiltrati» e in realtà non se ne infiltrano più dal 2012, da quando il premier Benjamin Netanyahu ha dato ordine di costruire la barriera al confine con l’Egitto. Gli eritrei sono stati contrabbandati dai beduini — per loro una merce come un’altra assieme alla droga e alle armi — attraverso la penisola del Sinai, marce forzate a digiuno per fuggire dalla dittatura che ad Asmara li costringe a prestare il servizio militare senza data di scadenza.
L’Eritrea non è in guerra ma il presidente Isaias Afwerki sfrutta la propaganda di un altro possibile conflitto con l’Etiopia per schiavizzare attraverso la divisa l’intera popolazione.
In Israele sono rimasti bloccati quasi 33 mila irregolari (3 mila bambini sotto ai sei anni sono nati qui), in 10 mila hanno richiesto asilo, lo status e i documenti riconosciuti dalle Nazioni Unite permetterebbero loro di andarsene in un altro Paese. Solo in dieci lo hanno ottenuto, gli altri stanno ancora aspettando. Bloccati in un limbo legale e in una gabbia di miseria.
Il governo di destra ha deciso di cacciarli anche se rappresentano meno della metà dell’1 per cento della popolazione: è il numero minimo ricordato dai 35 romanzieri che hanno firmato un altro appello inviato due giorni fa al primo ministro e ai parlamentari. «Vi imploriamo di fermare la deportazione di uomini e donne che portano le cicatrici sul corpo e nell’anima — scrivono gli intellettuali, tra loro Amos Oz, David Grossman, Abraham Yehoshua, Etgar Keret, Zeruya Shalev —. La nostra storia come popolo ebraico si rivolta nella tomba e avete il privilegio di poter interrompere questa vergogna».
Perché se ne vadano il ministero degli Interni offre ai migranti quasi 3000 euro e il biglietto aereo verso una nazione africana. L’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu ha avvertito Israele di non rimandarli nell’area sub-sahariana dove rischiano di finire un’altra volta incatenati dai trafficanti di esseri umani. L’alternativa per chi non accetta di prendere il volo è la detenzione senza limite di tempo.
Silverman ricorda i non-ebrei che hanno rischiato la vita per salvare la vita di chi era braccato dai nazisti, vuole accompagnare i richiedenti asilo al Memoriale della Shoah — dove vengono celebrati questi Giusti tra le nazioni — «in una marcia per risvegliare la coscienza del mondo ebraico». Racconta di un giovane eritreo che ha saputo dell’Olocausto leggendo il Diario e ha intrapreso il viaggio pericoloso verso Israele convinto «che il popolo di Anne Frank mi avrebbe accettato e protetto».
La Stampa 19.1.18
Così i neofascisti italiani traslocano sui social russi
Immagini di Mussolini, inni antisemiti e pugnali con le svastiche: gli estremisti espulsi da Facebook fuggono su piattaforme estere
di Andrea Palladino


Minacce di morte. Insulti razzisti, pesanti e irripetibili. E poi un fiume di materiale negazionista, apertamente antisemita. Foto di coltelli, passamontagna e richiami di guerra. È la rete dell’ultradestra, con social pronti ad accogliere tutti i «patrioti» espulsi da Twitter, Facebook o Google. Oppure a dare spazio ai messaggi più imbarazzanti delle organizzazioni politiche neoafasciste, come CasaPound, pronte a cercare consenso nelle urne. Parole e manifesti che è meglio non mostrare sui canali social più noti, pena la chiusura degli account.
Lo spazio alternativo più noto è diffuso si chiama Vkontakte ed è gestito da San Pietroburgo. Considerato oggi il social network più usato in Ucraina e in Russia, è stato fondato nel 2006 da Pavel Durov, dal 2014 il network appartiene a una serie di imprese riconducibili a uomini vicinissimi a Putin, tra i quali Alisher Usmanov, il multimilionario russo proprietario dell’Arsenal. CasaPound, con i suoi 2288 follower, è sicuramente tra le organizzazioni politiche italiane più presenti. Con una curiosità, che però rivela molto: la stragrande maggioranza dei post sono scritti in ucraino e sostengono apertamente la fazione nazionalista. La galleria delle immagini pubblicate negli ultimi tre anni richiama soprattutto lo scenario ucraino e la minoranza serba in Kosovo, diventando una sorta di vetrina geopolitica. Tantissimi gli aperti riferimenti al fascismo, senza nessun timore di censure. Braccia alzate, pugnali con la firma Mussolini, fasci littori e la solita paccottiglia nostalgica del Ventennio. Il disegno di un ultras della Lazio, con in mano un pugnale e la scritta «Arremba sempre», titolo di una canzone degli ZetaZeroAlfa, è l’immagine visibile del contatto con il mondo delle tifoserie. E per essere ancora più chiari, tre coltelli incrociati, con il commento «assicurazione sulla vita».
Su Vk i gruppi antisemiti trovano facilmente spazio, senza tanti problemi. La community «Revisionismo storico», nonostante i pochi iscritti (sessantanove, quasi tutti italiani), pubblica da diversi mesi post e immagini per negare l’esistenza dell’Olocausto. Attività che diventa quasi frenetica a ridosso della giornata della memoria del 27 gennaio. L’iconografia utilizzata è la stessa che è possibile trovare sul sito neonazista Usa «Stormfront», colpito negli anni passati da due inchieste della magistratura romana.
Meno conosciuta è la rete gestita da una società Usa, Gab.ai. È nata nel 2016 ed è pensata come una comunità del movimento radicale alt-right statunitense. Il logo è il «meme» (immagine virale usata in rete) «Pep the frog», la rana simbolo dell’estrema destra a livello internazionale. Qui trova ospitalità chi è stato cacciato dai network più conosciuti. L’account italiano «Celeste Bazzoli» - creato un paio di settimane fa - è riferibile a un omonimo utente di Twitter cancellato lo scorso dicembre dopo alcuni post violenti: «I coglionazzi di Twitter mi hanno bloccato e mi hanno rubato 2300 follower», commenta. Poco prima su Gab aveva pubblicato un messaggio di aperte minacce nei confronti della presidente della Camera Laura Boldrini, allargato per l’occasione a quasi tutto l’arco costituzionale: «Boldrini, Kienge, Chaouki, Karaboue, Alfano, Renzi, Boschi, Bindi, Fiano, Grasso. Hanno devastato la nostra patria! La sentenza è già stata emessa, vanno giustiziati». Molti gli utenti italiani bloccati su Twitter per post razzisti, violenti o offensivi, passati al network dell’alt-right: «Benvenuto Kirios, qui si può tranquillamente dire che la Boldrini è una sguattera di Soros e nessuno ti rompe le ...», scrive l’utente Autari König. Gab è anche utilizzato per scambiarsi informazioni su come evitare problemi con altri social: «Se ti interessa ho trovato un modo per rientrare su Twitter N volte anche se ti sospendono in continuazione», scrive un altro utente italiano, The Jocker.
Gab è soprattutto la piattaforma di riferimento delle principali organizzazioni della destra radicale anglosassone. Su questo social network ha trasferito il proprio account Jayda Fransen, l’autrice inglese dei video islamofobi rilanciati da Donald Trump lo scorso dicembre, suscitando la forte irritazione del governo May. Twitter, dopo quei post, aveva chiuso le bacheche di Fransen e del partito Britain First, ritenuti canali di diffusione delle campagne di odio nei confronti di rifugiati e migranti. Oltre alla Fransen è presente sul social dell’alt-right anche Nick Griffin, vice presidente di Alliance for Peace & Freedom, il partito europeo di estrema destra fondato e diretto da Roberto Fiore, leader di Forza Nuova. Griffin su Gab parla senza grandi problemi di «genocidio bianco», diffondendo le tesi complottiste della sostituzione etnica.
Più sofisticato e complesso è il progetto dell’organizzazione della destra europea «Generazione Identitaria», presente in Italia, Francia, Austria, Germania e Gran Bretagna. Si chiama «Patriot Peer» e una applicazione dedicata ai «patrioti». Ha una funzione di radar sociale, che permette di riconoscere e incontrare altri aderenti all’organizzazione, scansionando un codice. Ha un’agenda di eventi - dalle «azioni dirette» ai volantinaggi - che permette di acquisire punti e accedere a funzioni riservate della app. Il progetto è ancora in fase di sviluppo ma promette la massima riservatezza e server sicuri per tutti i militanti. Un network nero e riservato.
Il Fatto 19.1.18
Il brutto tramonto di un editore impuro
di Giovanni Valentini


Quando scrissi il libro La Repubblica tradita (Paper First), nell’autunno del 2016, non pensavo che la crisi di quel giornale – in cui ho lavorato fin dalla fondazione nell’arco di quarant’anni – potesse esplodere così presto e così fragorosamente. Né tantomeno che lo scontro fra Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari arrivasse fino a un tale punto di astio e di rancore personale. Ma la maxi-fusione denominata “Stampubblica” era stata appena annunciata ed evidentemente portava in sé i germi di un declino che è editoriale prima ancora che giornalistico e diffusionale.
Fu un’infausta fusione, un connubio contro natura, una “unione incivile”, che consacrò la mutazione genetica del quotidiano fondato da Scalfari, generando così un ircocervo: un ibrido editoriale paragonabile a un mostro mitologico, metà cervo e metà caprone. Il giornale nato nel 1976 sotto l’egida dell’“editore puro”, partorito cioè dal matrimonio fra il Gruppo L’Espresso di Carlo Caracciolo e la Mondadori di Mario Formenton, tradiva la sua storia per congiungersi con La Stampa di Torino, il giornale della Fiat. Un giornale di contropotere, nel senso anglosassone del termine di controllo del potere e dei poteri costituiti, si accoppiava con il giornale dell’establishment, dell’azienda e della famiglia più potenti d’Italia, tendenzialmente filo-governativo.
Su un punto, bisogna dare ragione a De Benedetti: quando dice che oggi Repubblica ha perso la propria identità. Ma il fatto è che l’ha persa innanzitutto per colpa dell’Ingegnere, un editore “impuro” che è rimasto un finanziere tanto abile quanto spregiudicato; incapace di cambiare la sua inclinazione e la sua mentalità, di trasformare il suo interesse per la carta stampata in un’autentica “passione” civile. E la maxi-fusione con il quotidiano della Fiat, suggellata dalla direzione di Mario Calabresi, non ha certamente contribuito a salvaguardare e rafforzare l’identità originaria del giornale.
Ora, da “presidente onorario” in carica, De Benedetti addebita pubblicamente al povero Calabresi di non avere abbastanza coraggio e lo accusa di essere un don Abbondio. Ma quella nomina fu decisa sotto la sua presidenza, all’insaputa del fondatore, senza neppure interpellarlo.
Anche Ezio Mauro, come il suo successore, proveniva dalla direzione de La Stampa: solo che, a parte la differenza di statura professionale e di temperamento, a quell’epoca al vertice del Gruppo c’era ancora Caracciolo e Scalfari aveva vent’anni di meno.
Nel frattempo, l’Ingegnere ha continuato a oscillare fra le suggestioni editoriali e le pulsioni finanziarie, fra l’impegno sociale o politico e gli animal spirits del capitalismo. Avrà anche dato “un pacco di miliardi” a Scalfari, comprando la sua quota del Gruppo L’Espresso, ma sicuramente ne ha incassati molti di più sfruttando il proprio ruolo e il proprio potere mediatico. Dalla licenza Omnitel ottenuta dal governo Ciampi, con cui salvò l’Olivetti e ricavò qualche anno dopo l’astronomica cifra di 14.500 miliardi di lire vendendo l’azienda al gruppo tedesco Mannesmann, al risarcimento di 540 milioni per il “lodo Mondadori”; dal finanziamento di 600 milioni erogato dal Monte dei Paschi di Siena, su un “buco” complessivo di due miliardi, per sostenere e rilanciare Sorgenia, l’azienda di famiglia che produce energia alternativa guidata Rodolfo De Benedetti, fino al caso delle banche popolari, quando una “soffiata” dell’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, consentì all’Ingegnere di investire cinque milioni in Borsa e di guadagnare 600 mila euro nel giro di un paio di giorni.
Fra tutte queste peripezie economico-finanziarie dell’editore, è già un miracolo che Repubblica sia rimasta in piedi dopo l’uscita di Scalfari, nel passaggio dalla direzione di Mauro a quella di Calabresi, sebbene abbia perso negli ultimi dieci anni il 63% delle copie in un contesto generale di crisi del mercato. La verità è che questo è sempre stato un giornale di riferimento, realizzando l’ossimoro di diventare “un giornale d’opinione di massa”, a cui i lettori si rivolgevano per confrontarsi e magari riconoscersi. Un quotidiano progressista in politica, liberale in economia, radicale sul piano dei costumi.
Ecco perché si può considerare impropria la definizione di “giornale di sinistra”. Ed è riduttivo parlare di un “partito di Repubblica”: in realtà il giornale di Scalfari è stato una “struttura d’opinione”, come lui stesso amava dire, formata dai suoi giornalisti e dai suoi lettori.
Oggi che la sinistra è in crisi, qui e altrove, Repubblica non riesce a cogliere lo spirito del tempo né a rappresentare l’opinione pubblica più avanzata del Paese. Manca l’editore e manca di conseguenza una linea politico-editoriale in grado di interpretare il mondo che cambia.
Il Fatto 19.1.18
Milena Gabanelli
“Altro che bufale, sono più pericolose le scelte dei politici”
intervista di Carlo Tecce


Milena Gabanelli, il Viminale e la Polizia hanno presentato un progetto per contrastare la diffusione delle fake news in campagna elettorale: non si sta esagerando?
Se la polizia postale risponde velocemente ad un cittadino che chiede se è vero o no che c’è stato un attentato a Canicattì, benissimo. È un po’ esagerato metterla giù così pomposa, quando la polizia postale fa già questo di professione. C’è un aspetto deterrente: magari qualcuno si spaventa a raccontare palle e ne racconta meno. Terza ipotesi: il Viminale sa che c’è in corso una campagna sotterranea e mirata di disinformazione, e si sta attrezzando. Ma questo si può fare senza grandi annunci, credo.
Dagli Stati Uniti importiamo moniti sul rischio dell’inquinamento del voto per colpa di fake news confezionate dai russi: possono davvero influenzare le scelte degli italiani?
Mi preoccupano di più le scelte dei politici.
Lei ha studiato profondamente il fenomeno delle fake news e ha scritto che è “difficile e pericoloso decidere chi debba diventare arbitro della verità”, anche perché su Internet distinguere fra satira, teoremi sulle notizie o anche solo una lettura diversa degli avvenimenti è complesso. A chi spetta, però, vigilare sulla corretta informazione e con quali strumenti?
Ci sono strumenti elementari, come quello di controllare se chi pubblica la notizia ha un nome e cognome reale, se la notizia è riportata da qualche altro sito, se le date corrispondono. Tutto questo è possibile attraverso i motori di ricerca. Internet è un mondo bellissimo, ma insidioso. Le scuole dovrebbero insegnare ai ragazzi, che sono i maggiori fruitori, come ci si orienta, ma ci arriveremo come al solito in ritardo.
Perché si crede che le fake news siano un’esclusiva della Rete?
Perché sul web è più facile e virale: chiunque può raccontare quello che vuole in forma anonima. Il web ha solo fatto esplodere le debolezze di un sistema con poca reputazione, e che quindi non può nemmeno alzare tanto la voce. Le testate e le firme autorevoli, infatti, ne hanno risentito meno e sono diventate anche più ricercate.
Non pensa che i giornali italiani siano impegnati più nella polemica politica a contrastare presunte fake news che a produrre le news?
È un esercizio facile, molto di moda, non richiede impegno e fa comodo a tutti, tranne ai lettori, o telespettatori, o utenti, che alla fine ingoiano spesso aria fritta
In questi giorni si celebrano il film The Post e gli scoop degli anni 70 del New York Times e del Washington Post, simboli del giornalismo più puro: quello che scrivono è vero. Per i giornali italiani, invece, la percezione è opposta. Di chi è la colpa? E quando i lettori hanno smesso di confidare – nel senso di avere piena fiducia – nei giornali italiani?
Non è una percezione solo italiana. Però non sarei così drastica. I lettori italiani, come quelli di tutto il mondo, hanno le loro abitudini, e credono ai giornali che gli raccontano il mondo come lo vedono loro. Quante volte sentiamo dire “i nostri lettori si attendono che gli diciamo questo o quest’altro?”. La distorsione sta proprio qui. E poi c’è un calo generale del senso della reputazione, che di solito dovrebbe fare la differenza.
Una domanda sulla Rai, sul dibattito fra artisti e giornalisti nel servizio pubblico. Uno come Vespa – che col contratto di artista è riuscito a ottenere un compenso oltre il tetto di 240.000 euro – può raccontare la campagna elettorale?
È un’anomalia tutta Rai: se non sei inquadrato in una testata giornalistica (Tg1, Tg2, Tg3, Rainews, e relative rubriche), ma negli spazi delle reti, sei contrattualizzato come autore o conduttore (a meno che tu non sia un giornalista dipendente). In questo modo l’azienda non deve versare i contributi Inpgi, ma all’Enpals (oggi Inps), che sono più bassi. Ho condotto per vent’anni Report e non sono mai stata contrattualizzata come giornalista, pur essendo iscritta all’Ordine, che a sua volta non ha mai fatto nulla per modificare questa anomalia. Ciò detto, tutto il mondo sa che Vespa è un giornalista, quindi il tema è il compenso o l’argomento di cui si occupa?
il manifesto 19.1.18
Contratti per il 2018: un nuovo bagno di lavoro precario
Lavoro. Gli ultimi dati Inps sulla fine dell'anno scorso confermano il trend: aumentano i rapporti a termine, mentre quelli a tempo indeterminato crollano del 30%
di Adriana Pollice


Nel primi 11 mesi del 2017 sono diminuite le nuove assunzioni a tempo indeterminato mentre sono cresciuti in modo consistente i contratti a termine e quelli a chiamata. L’ha certificato ieri l’Osservatorio Inps sul precariato. Sono stati infatti stipulati, comprese le trasformazioni, 1,43 milioni di contratti a tempo indeterminato con un calo del 4,4% rispetto ai primi 11 mesi del 2016. Il dato è stato particolarmente negativo a novembre con appena 88.815 contratti stabili firmati (incluse le trasformazioni), un calo del 30,3% rispetto allo stesso mese del 2016. Contemporaneamente, le chiusure di contratti stabili l’anno scorso sono state 1,45 milioni. Sono cioè stati cancellati 21.489 contratti in più di quanti ne siano stati attivati.
È INVECE POSITIVO l’andamento dei contratti a termine: tra gennaio e novembre 2017 ne sono stati firmati 4,4 milioni con un aumento di oltre 910mila unità rispetto al 2016 (più 26%). Crescono del 23,9% le assunzioni in apprendistato e del 21,4% le stagionali. La crescita dei contratti a termine e la flessione dei nuovi rapporti stabili ha prodotto una riduzione del 23,4% della quota dei contratti a tempo indeterminato. Nel 2015, quando era in vigore lo sgravio triennale sui contributi per le assunzioni stabili (govverno Renzi), la quota era al 38,8%. Le imprese l’anno scorso hanno preferito puntare sul lavoro flessibile visto il boom dei contratti a chiamata, dopo l’abrogazione dei voucher: nel 2017 sono stati 392mila con una crescita del 119,2% rispetto al 2016.
GLI INCENTIVI PREVISTI nel 2017 per l’occupazione stabile (Garanzia giovani e Occupazione Sud) hanno portato nei primi 11 mesi a poco più di 158mila nuovi contratti (103.907 per Occupazione Sud). La cassa integrazione è calata nel 2017 del 39,3%, il dato più basso dal 2008. Ma su questo ha influito la riforma della normativa sugli ammortizzatori sociali, che ne ha ridotto l’utilizzo. Tra gennaio e ottobre 2017, a fronte di 302,7 milioni di ore di cassa integrazione autorizzate dall’Inps, ne sono state utilizzate effettivamente 101,7 con un tiraggio del 33,6%, in calo rispetto al 43,7% del 2016.
I dati dell’Inps hanno provocato la reazione della Cgil: «Nei primi undici mesi del 2017 si è generato in Italia solo un lavoro mordi e fuggi – spiega la segretaria confederale, Tania Scacchetti – Finiti o ridotti gli sgravi, il lavoro cresce ma è più povero in termini di stabilità, è più debole per durata e ore lavorate. È necessario spostare il baricentro sugli investimenti per generare occupazione».
L’INPS HA FATTO UN bilancio anche delle pensioni: nel 2017 i nuovi assegni sono stati 516.806, in aumento del 6,3% sul 2016, anno nel quale è scattato l’incremento di quattro mesi legati all’aspettativa di vita per tutti, oltre allo scalino per le donne. Sono cresciuti anche gli importi medi degli assegni, sforando quota mille euro: si è passati dai 970 euro medi del 2016 a 1.039 euro, con gli assegni di vecchiaia in media a 667 euro e quelli di anzianità a 1.993 euro. I lavoratori dipendenti sono usciti con una pensione di 1.293 euro; gli autonomi con 807 euro, i coltivatori diretti al gradino più basso con 660 euro. Quelli messi peggio sono i parasubordinati con 221 euro, in aumento sui 198 del 2016. Nel 2017 si è poi registrata una crescita sostenuta per gli assegni sociali, la prestazione erogata dall’Inps alle persone con più di 65 anni e sette mesi in stato di bisogno economico. I nuovi assegni liquidati sono stati 43.249 con una crescita del 17,7% rispetti ai 36.740 erogati nel 2016.
IL MINISTRO DELL’ECONOMIA, Pier Carlo Padoan, ieri alla Sapienza ha tirato le somme della politica economica del governo: «Il numero dei laureati sta crescendo ma è ancora troppo basso. Troppi giovani lasciano il paese per migliori opportunità all’estero. C’è il rischio di tornare indietro se il percorso di rafforzamento del paese nella direzione degli investimenti e della stabilizzazione venisse frenato». Per poi ammettere: «Molto è stato fatto ma siamo ancora lontani da risultati accettabili. Per superare definitivamente la crisi è necessario rilanciare la produttività nel lungo periodo e far aumentare strutturalmente l’occupazione con riforme mirate a rafforzare il capitale umano, a migliorare e accrescere gli investimenti e a sviluppare innovazione». Infine ha citato lo studio dell’Ocse che intravede per l’Italia il rischio di uno scenario «low-skills equilibrium, con alte percentuali di lavoratori sotto-qualificati o non qualificati e i giovani con alti livelli di formazione che lasciano l’Italia».
PER I 5S LE PAROLE del ministro sono una bocciatura delle misure targate Matteo Renzi: «Padoan finalmente ammette il fallimento del Pd» commenta Laura Castelli. E da Leu si fa sentire Nicola Fratoianni: «Chiaro a cosa è servito e a cosa serve il Jobs Act? A lasciare i lavoratori in mutande e senza tutele. Non è un caso che Renzi, Berlusconi e Salvini siano dell’idea che vada bene così».
Repubblica 19.1.18
Scalfari
Di che cosa stiamo parlando
“La mia non è vanità e De Benedetti non ha fondato questo giornale”
intervista di Francesco Merlo


In una intervista a Otto e mezzo, Carlo De Benedetti, presidente onorario del gruppo che edita questo giornale, ha attaccato il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari («ha problemi di vanità, è molto anziano e ingrato nei miei confronti») e il quotidiano stesso: «Ha perduto l’identità». Tra Scalfari e De Benedetti c’era già stato un primo scambio di battute quando il giornalista, rispondendo a una domanda in tv, aveva spiegato di preferire Berlusconi a Di Maio
In tv disse: «Me ne fotto». Ora mi dice: «Non è vero che me ne fotto». Quella è stata l’espressione goliardica che Eugenio Scalfari ha consapevolmente usato, non per evadere ma per alleggerire «una situazione molto spiacevole». La vaga parolaccia, che ammiccava al suo contrario, gli era insomma servita per far sapere che la fine dei rapporti con Carlo De Benedetti gli dispiaceva, ma che era saggezza non compiacere gli sciacalli. E invece l’altro ieri Carlo De Benedetti ha detto in tv da Lilli Gruber di essere stato cofondatore di Repubblica e dunque Scalfari «è un ingrato che con me dovrebbe star zitto perché gli ho dato un pacco di miliardi». Ha aggiunto che Scalfari «parla per vanità» e che «è un signore molto anziano non più in grado di sostenere domande e risposte».
Caro Eugenio, sei rimbambito?
«Sono arrivato a un’età, tra i novanta e i cento, che non è più quella dei vecchi né dei molto vecchi, ma quella dei vegliardi.
Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli».
E quanto sei vanitoso? De Benedetti ha detto che quella tua battuta su Berlusconi che, come alleato della sinistra sarebbe meglio di Di Maio, è dovuta alla tua vanità.
«È un giudizio politico che si può non condividere. Ma il vanitoso è chi si gloria di qualcosa che ha fatto o peggio non ha fatto; chi si attribuisce meriti che non ha. Che cosa c’entra la vanità con la scelta tra Berlusconi e Di Maio? Mi spiace dirlo, ma è invece da vanitoso definirsi fondatore di un giornale che non hai né fondato né cofondato».
Davvero non c’è De Benedetti tra i fondatori di Repubblica?
«No. I soldi che diede non legittimano la parola fondatore. E aggiungo che è la prima volta che glielo sento dire. Repubblica è figlia dell’Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri».
Quanti soldi mise?
«Per far nascere Repubblica io e Caracciolo avevamo bisogno di cinque miliardi di lire. La Mondadori ne mise la metà.
L’altra metà toccava a noi, ma non ce l’avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l’altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: “Non lo racconti mai a nessuno” (allora ci davamo del lei). E infine: “Non lo racconti, ma non lo dimentichi”. E io non l’ho dimenticato”.
Vuoi dire che gli sei stato grato?
«Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine.
Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica ».
Dice che il gruppo senza di lui sarebbe tecnicamente fallito.
«C’è stato un momento in cui avevamo fatto supplementi belli e costosi, tra cui “Mercurio” diretto da Nello Ajello. Ci eravamo indebitati e avevamo l’acqua alla gola. Ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie.
Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu».
È questo il pacco di miliardi che dice di averti dato?
«Fu un affare per lui che divenne il proprietario di Repubblica».
Ne divenne l’editore.
«Quello dell’editore è un mestiere che non ha mai fatto. È stato l’amministratore dei suoi beni.
Oltre a Repubblica aveva un patrimonio personale molto ragguardevole».
Dice di avere avuto da Repubblica solo uno status di grande prestigio, ma di averci perso danaro.
« Repubblica è stato, nel lungo periodo in cui la parola scritta su carta non era in crisi né in edicola né in libreria, un giornale che vendeva quanto e in certi momenti più del Corriere. E quando il Corriere fu conquistato dalla P2 guidata dal presidente del Banco Ambrosiano, la nostra superiorità divenne schiacciante.
Piero Ottone, che aveva diretto per 5 anni il Corriere, se ne andò e venne alla Mondadori che era per metà proprietaria di Repubblica.
Poco dopo passarono con noi giornalisti del valore di Bernardo Valli e di Enzo Biagi. Insomma, Repubblica era il meglio della stampa italiana. E quando dunque De Benedetti ne divenne il proprietario esclusivo non prese certamente un baraccone che perdeva soldi. Repubblica ha fatto attivi economici molto significativi. Ed è sicuro che De Benedetti non ci rimise. Aprimmo redazioni di cronaca nelle principali città d’Italia, acquisimmo e fondammo giornali locali. E devo aggiungere che l’espansione del gruppo prova che De Benedetti reinvestiva nel giornale quei suoi profitti, almeno in parte».
Non ci ha perso, ma non si è arricchito con Repubblica.
«La sua abilità di finanziere gli ha consentito di vivere da ricchissimo. E bastino a dimostrarlo la strepitosa villa che ha in Andalusia e il grande yacht con cui fa le crociere in giro per il mondo. Il suo fiuto in Borsa è noto a tutti. E infatti, adesso che ha regalato le sue azioni ai figli, gli sono rimaste tutte le grandi ricchezze personali».
Non ha più neanche un’azione, ma è il presidente onorario del gruppo.
«Una carica più che giustificata, visto che è stato proprietario di questo giornale senza mai tentare di piegarne la linea politica ai suoi interessi. Non l’ha fatto. Io so che non ci sarebbe riuscito perché l’indipendenza di Repubblica è stata sempre garantita dalla forza della direzione, dalla libertà e dal prestigio delle sue firme e di tutti i suoi giornalisti, e dal successo in edicola. De Benedetti è stato rispettoso di questa libertà.
Diciamo che l’ha onorata. E però non so se quel che adesso va dicendo in tv e sui giornali sia compatibile con la carica di presidente onorario, non so se la onori».
Dice che Repubblica ha perso la sua identità perché è stato sempre un giornale politico che anticipava e imponeva la politica all’Italia, e adesso invece la subisce.
« Repubblica non è stato solo un giornale politico. È stato un giornale diverso da tutti gli altri perché ha mostrato che in un giornale tutto è cultura, ha cambiato il linguaggio della cronaca e dello sport, ha fatto scorrere in ogni riga il sangue di un’Italia che sia per me e sia per Ezio Mauro è riassumibile in uno slogan di due parole: Giustizia e libertà. Oggi Repubblica vive la crisi dei giornali di carta, e cerca con coraggio nuove strade, sperimenta, si rinnova, scommette sul futuro ma non è vero che ha perduto l’identità e che non aggredisce la politica.
Non solo io ne sono la prova e la garanzia. Ci sono i suoi giornalisti e c’è il direttore che, lo ricordo con un sorriso, è stato scelto da Carlo De Benedetti. Lui sì, sta aggredendo l’identità del giornale di cui, come ho già detto, era stato a lungo il rispettoso proprietario».
Perché lo fa?
«Credo che quell’accusa di avere speculato grazie alle informazioni riservate ottenute da Renzi abbia avuto un ruolo importante nel suo cattivo umore».
Prima ancora che venisse diffuso il testo di quell’intercettazione con il suo broker, De Benedetti aveva già rilasciato un’intervista al Corriere criticando sia te e sia la direzione di Repubblica.
«Dopo la mia battuta su Berlusconi e Di Maio mi aveva mandato un biglietto per farmi sapere che non condivideva nulla di quel che avevo detto perché lui non avrebbe mai scelto né Berlusconi né Di Maio. Io non gli ho risposto».
Crisi di astinenza?
«Quando morì Caracciolo col quale ci sentivamo ogni domenica, De Benedetti mi propose di sostituirlo in quella telefonata settimanale. All’inizio telefonava molto presto, alle 6. Ma io la domenica mattina amo dormire un po’ di più. E dunque gli chiesi di sentirci alle dieci».
Di che parlavate?
«Mai del giornale. Parlavamo di politica e mai mi ha detto o mi ha fatto capire di avere speculato grazie a informazioni riservate che gli passavano gli uomini politici. Ricordo che gli piaceva Renzi e che, poi, quando cambiò idea, mi disse che non lo frequentava più. Qualche volta dissentivamo e alla fine immancabilmente mi diceva: “ma noi restiamo fratelli lo stesso”. Io ovviamente consentivo.
Evidentemente non era così».
Lui parla di matrimonio monogamico. Spiega che quello con Repubblica è indissolubile, dice che ama ancora Repubblica e che l’amerà per sempre.
«La ama, ma vuole liberarsene. La ama come quegli ex che provano a sfregiare la donna che hanno amato male e che non amano più».
Il Fatto 19.1.18
Ingegnere, si sbaglia: i politici oggi se ne fregano dei giornali
di Antonio Padellaro


Può essere declinata in diverse forme teatrali la strepitosa intervista dell’Ing. Carlo De Benedetti a Lilli Gruber, mercoledì sera a Otto e mezzo. Tragedia shakespeariana, a proposito del trattamento subìto dai figli irriconoscenti e dell’“assenza” di rapporti con gli odierni possessori dell’amatissima Repubblica (“Quanto è più crudele del morso di un serpente l’ingratitudine di un figlio”. Re Lear). Fosco melodramma, a proposito del “salvataggio dal fallimento” dell’adorato giornale, ricompensato con le insolenze dei comunicati aziendali e del cdr (“Questa donna pagata io l’ho”. Alfredo nella Traviata di Giuseppe Verdi).
Spassoso vaudeville, a proposito degli scazzi con l’altro grande vecchio Eugenio Scalfari, “un ingrato che deve solo stare zitto, non in grado di sostenere domande e risposte” (Walter Matthau furioso con George Burns, nell’interpretazione di una coppia un tempo celebre a Broadway: “Mi sputava addosso saliva approfittando di parole come spavento, spremuta, spigolatura senza contare le ditate con cui mi percuoteva il petto”. I ragazzi irresistibili di Herbert Ross). Questo diario, tuttavia, si occupa di campagna elettorale e dunque da quel fiammeggiante confronto ci limiteremo a cogliere gli aspetti più pertinenti con l’attualità politica. Per esempio, la critica verso chi oggi è al timone del quotidiano prediletto (“Repubblica sta cambiando la sua identità e non fa più politica: d’altronde se uno il coraggio non ce l’ha…”). Per esempio, la totale disistima nei confronti del candidato premier 5Stelle, Luigi Di Maio (“un disastro, l’incompetenza al potere, un poveraccio”). Due affermazioni che in qualche modo si completano.
De Benedetti evidentemente prova nostalgia per i bei tempi andati, di quando non solo Repubblica “faceva politica” ma si parlava apertamente di un “partito di Repubblica” che faceva e disfaceva governi. Eppure alla guida suprema di un giornale così temuto c’era quel medesimo Scalfari che ora egli così apertamente disistima, non cordialmente ricambiato. Le riunioni di redazione nelle quali il Fondatore metteva in viva voce le telefonate dei leader del tempo, da Ciriaco De Mita a Giovanni Spadolini, bramanti l’autorevole copertura di una corazzata che allora navigava in un mare di copie, sono diventate leggenda. Erano gli anni 80 e 90, quando ancora la grande stampa aveva l’ambizione di informare e formare la pubblica opinione. Testate temute dalle varie articolazioni del potere, e consapevoli del danno che avrebbe loro procurato presso i lettori l’apparirne invece i caudatari. Oggi la crisi galoppante dell’editoria è insieme la causa e l’effetto della crisi di credibilità e di “identità”. Soprattutto quando si scrive di politica e di politici nella (ex) grande stampa in genere si preferiscono le tinte sfumate, sfocate ai titoli forti magari faziosi ma decisi. Un po’ come quel personaggio di un film di Woody Allen che il regista inquadra ma non riesce mai a mettere a fuoco nell’obiettivo. Dunque, caro Ingegnere, conseguenza della perdita di identità (e di copie) è che il Di Maio (incompetente o meno) può, mi perdoni, riccamente fregarsene di ciò che dicono di lui i giornali.
Poiché oggi il consenso elettorale segue altri invisibili percorsi, solo minimamente influenzati da un commento in prima pagina di un direttore (o di un editore). Non si spiegherebbe altrimenti la crescita tumultuosa del M5S che fino al boom del 2013 era oggetto di cronaca giornalistica quasi esclusivamente per i Vaffa di Beppe Grillo. Del resto, come si poteva dare credito a un comico? Oggi il “coraggio” semmai consisterebbe nello spiegare come mai un giovanotto digiuno di congiuntivi e forse anche di economia (ma dalla fedina penale pulita) raccolga il favore di alcuni milioni di cittadini italiani. Che non possono essere tutti degli ignoranti o degli sprovveduti o dei poveracci (anche se non leggono Repubblica).
Il Fatto 19.1.19
Tutti contro tutti, ma a fianco di B. Così crolla il mondo “Repubblica”
Dalla tregua con il Cavaliere nel 2011 alle faide personali tra De Benedetti e Scalfari
di Stefano Feltri


Carlo De Benedetti contro Eugenio Scalfari e la loro Repubblica, Repubblica contro Carlo De Benedetti, Scalfari che “se ne fotte”, Matteo Renzi che ha discusso del decreto di riforma delle banche popolari con l’Ingegnere-finanziere prima dell’approvazione e prima di una plusvalenza da 600.000 euro si trova a essere solo un comprimario di questa “patetica fine di un regno”. La definizione arriva dal sito Blitzquotidiano fondato da Marco Benedetto, amministratore delegato del Gruppo Espresso fino al 2008. Si può cercare di dare a questo dramma una dimensione economica: dal 9 gennaio, quando sono uscite le trascrizioni di De Benedetti che parla con il suo broker e ordina di comprare titoli di banche popolari perché passerà un decreto (“ho parlato con Renzi”), il titolo di Gedi, nuovo nome del Gruppo Espresso, è sceso del 6 per cento mentre l’indice Ftse Mib della Borsa saliva del 2. Ed è già svanito ogni beneficio di vendite che Repubblica aveva ottenuto dalla nuova grafica, lanciata il 22 novembre scorso, secondo l’analisi dei dati sulla diffusione pubblicata sempre da Blitzquotidiano: 163.238 copie vendute in ottobre, 165.004 in novembre, una differenza di sole 2 mila copie nonostante il primo giorno della nuova grafica, meno urlata e più elegante, le vendite siano salite di 100.000 copie.
Ma in questa “fine di un regno” si intrecciano vari piani: rancori personali, faide finanziarie, ma anche la crisi politica e culturale di un’area che si è sempre specchiata in Repubblica. Le dinamiche personali sono le più semplici. Nel 2009 Carlo De Benedetti, che è del 1934, lascia tutte le cariche operative del gruppo che controlla tramite la holding Cir. Una frizione coi creditori sul riassetto proprio di Cir diventa l’occasione per avviare un passaggio generazionale. La proprietà va alla società che oggi si chiama Fratelli De Benedetti, cioè Rodolfo (all’epoca impegnato a preparare il disastro della società energetica Sorgenia) e Marco, manager con una carriera autonoma (poi c’è Edoardo, che fa il medico in Svizzera). De Benedetti tiene soltanto la presidenza del Gruppo Espresso per poter nominare il direttore di Repubblica. Fila tutto liscio finché non deve esercitare questo potere, nel 2016. Dopo vent’anni Ezio Mauro lascia. Ma l’assetto del gruppo è cambiato: è iniziata la fusione con Itedi, la società editoriale degli Agnelli (La Stampa e Il Secolo XIX). Alla fine De Benedetti acconsente al direttore caldeggiato da John Elkann, nuovo socio del gruppo col 4,63 per cento: Mario Calabresi, all’epoca direttore de La Stampa e con un passato a Repubblica. L’Ingegnere se ne pente presto, per scelte editoriali e risultati di vendite, un anno e mezzo dopo si arriva all’ultimatum: “O lui o io”. Vince Calabresi e nel giugno del 2017 De Benedetti lascia in modo poco sereno la presidenza della Gedi. A quel punto inizia a degenerare tutto.
De Benedetti si allontana sempre più dal giornale e dal gruppo, ora presieduto dal figlio Marco e guidato dall’ad Monica Mondardini. Poi arriva l’intervista a Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica, a Di Martedì il 22 novembre: tra Di Maio e Berlusconi l’ex campione dell’anti-berlusconismo sceglie Berlusconi. De Benedetti scrive a Scalfari una lunga email spiegando che non condivide quella presa di posizione, che danneggia il giornale. Scalfari non risponde, l’Ingegnere si offende e il 2 dicembre consegna al Corriere una lunga intervista contro Scalfari e contro Repubblica. Seguono varie puntate fino all’intervista di De Benedetti a Lilli Gruber, a Otto e Mezzo, mercoledì. Dietro queste dinamiche industriali e personali c’è, però, una crisi culturale. De Benedetti non ha espresso una posizione molto diversa da Scalfari: voterà Pd, perché “se penso che Di Maio potrebbe essere premier di questo Paese, ha ragione mille volte Berlusconi che da questo Paese bisognerebbe scappare”. Ma tra l’ex Cavaliere e il leader M5S non sceglie (Berlusconi lo ha anche chiamato dopo l’endorsement di Scalfari, pensando che fosse stato ispirato dall’Ingegnere). In questi anni Repubblica ha sempre sposato questa linea. Basta scorrere gli editoriali di Ezio Mauro, direttore per un ventennio (era uno dei nomi per la presidenza dopo De Benedetti). Nel 2011 saluta l’arrivo dei tecnici di Mario Monti, un esecutivo appoggiato da Berlusconi: “Nasce il governo del riscatto e dell’equità”. Nel 2013 avalla prima la rielezione di Giorgio Napolitano e poi il suo progetto di un governo di larghe intese con Enrico Letta in nome del principio “prima il Paese”. Intervista l’ad della Fiat Sergio Marchionne per farlo rispondere agli attacchi sul disimpegno dall’Italia. Poi nel 2014 saluta l’arrivo di Matteo Renzi al potere commentando che “Palazzo Chigi per Renzi non è un punto di arrivo, ma una partenza. E il cambiamento non è un’opzione politica ma una magnifica condanna”. Repubblica non si schiera esplicitamente durante la campagna per il referendum, ma gli editorialisti più ostili alla riforma costituzionale voluta da Renzi scrivono sempre meno, tipo Gustavo Zagrebelsky. Mentre il nuovo direttore Mario Calabresi attacca spesso il Movimento 5 Stelle e intervista personalmente un consulente di Renzi come Diego Piacentini (ex Amazon). Soltanto all’indomani della sconfitta, Ezio Mauro parla di “populismo del potere” (renziano) e spiega che Renzi ha perso perché “ha pensato di proporsi come l’unico attore del rinnovamento, denunciando come conservatori o parrucconi tutti coloro che avanzavano obiezioni”.
Questo approccio – “prima il Paese” anche, se necessario, a fianco di Berlusconi – allontana editorialisti e lettori. I risultati stavano per costare il posto a Calabresi, in autunno, che è rimasto – almeno fino alle elezioni – con la scusa del rilancio grafico, ma affiancato da un condirettore, Tommaso Cerno. Il voto del 4 marzo, con il Pd avviato verso il 20 per cento e Repubblica verso le 160.000 copie, con Scalfari e De Benedetti che si insultano dai talk di La7, rischia di segnare davvero la sconfitta di una stagione che è stata editoriale, politica e culturale.
il manifesto 19.1.18
La preziosa «dote» dei migranti
Idee. L’ospite, lo straniero, può portare più soluzioni che problemi. Serve un grande piano europeo di conversione ecologica utile a tutti, anche ai cittadini
di Guido Viale


Accogliere è una parola che viene dal latino: ad-cum-ligare, legare insieme. Ma più che cercare il suo significato nel passato, dobbiamo costruirne uno nuovo, adatto ai tempi in cui viviamo, ai problemi con cui ci confrontiamo, alle persone che oggi sono al centro dello scontro politico e sociale: i profughi.
Innanzitutto accogliere non ha niente a che fare con le «rilocalizzazioni» pretese e non realizzate dalla Commissione europea che trattano i profughi come «pezzi» (Stücke, una parola che richiama ricordi atroci) da smistare.
E con ciò, a prescindere dalla «selezione» (Selektion, altro termine dai rimandi atroci) con cui l’Unione europea pretende di accettarne alcuni e di scartare gli altri, attacca loro l’etichetta di «ingombri», problemi. Questo produce insofferenza, rancore e razzismo e spinge i Governi a inseguire le parole d’ordine delle destre.
Al di là delle false professioni di spirito umanitario, con i migranti la Commissione europea è più feroce di Trump.
Inserita in questa cornice, anche la migliore «accoglienza» riservata a persone trattate come ingombri umilia sia loro che noi: sono esseri (umani?) di cui «non si sa che cosa fare»; Untermenschen di cui sbarazzarsi.
L’ospitalità, che un tempo era sacra, ci può indicare un’altra strada: l’ospite, lo «straniero», veniva trattato come un membro della famiglia (come il naufrago Ulisse nell’isola dei Feaci); poi veniva preparato e attrezzato per continuare il suo viaggio.
E qual è la meta del viaggio dei profughi del nostro tempo?
Le mete possibili sono due: o la piena cittadinanza nel paese che li ospita; ed è certamente un percorso complesso. Oppure il ritorno nel paese da cui sono dovuti fuggire, o sono stati cacciati, e in cui per ora non possono ritornare: un percorso ancora più difficile.
Ma che cosa può annullare e invertire l’effetto di rilocalizzazioni così disumanizzanti? Il fatto che l’ospite porti con sé un dono, una «dote» più grande dei tanti problemi che pure può generare.
Perché questo succeda, l’ospite deve essere messo in grado di valorizzare, e di fare in modo che vengano apprezzate, la cultura, l’energia, l’esperienza e anche il dolore di cui è portatore: perché la comprensione del dolore, sia nostro che altrui, aiuta tutti ad affrontare meglio le circostanze della vita.
Ma deve anche portare con sé lavoro, reddito, diritti, salute. E non certo perché crea un po’ di lavoro per quei pochi che oggi vengono impiegati nella gestione dell’«accoglienza»; questo è un falso «beneficio» che costringe all’inattività e confina nell’inutilità l’ospite e che spesso promuove nell’ospitante la speculazione e lo sfruttamento delle altrui disgrazie.
La dote che l’ospite, lo straniero, il profugo, deve essere messo in grado di portare con sé è un grande piano europeo di conversione ecologica, di lavori pubblici, di potenziamento dei servizi: un piano capace di garantire lavoro e sicurezza sia a lui che a tutti i cittadini dei paesi dell’Unione che sono disoccupati, o in povertà, o costretti a lavori precari e umilianti, o senza casa.
Gli Stati membri dell’Ue che accoglieranno i profughi avranno accesso ai fondi e ai progetti del piano; e quanti più profughi accoglieranno, tanto più potranno salvaguardare il proprio territorio, riconvertire la propria economia, creare posti di lavoro sicuri e un’abitazione decente – ristrutturando il patrimonio edilizio degradato o abbandonato – anche per i propri disoccupati, per i propri lavoratori precari, per i propri cittadini emarginati.
Così i profughi saranno i benvenuti, perché quanti più saranno, maggiori saranno le occasioni di risolvere i problemi sociali della popolazione. Mentre i paesi che non vorranno accoglierli non avranno accesso a quei fondi.
Ma chi paga? Certo, c’è da ridurre, e poi azzerare, la spesa militare e i suoi costi; da combattere l’evasione e l’elusione fiscale; da mettere la parola fine alle «grandi opere» che devastano il territorio; da porre un argine alla corruzione.
Ma non basta.
A finanziare questo piano di riconversione ecologica deve essere la Bce, la Banca centrale europea.
La Bce ha «tirato fuori dal cappello» più di 1.000 miliardi di euro all’anno per salvare le banche e promuovere una ripresa stentata, precaria e in molti casi dannosa, comunque insignificante per l’occupazione.
Per alcuni economisti quei soldi avrebbe potuto distribuirli ai lavoratori e ai cittadini svantaggiati adottando quello schema paradossale di sostegno alla domanda che va sotto il nome di helicopter money: gettare soldi a piene mani da un elicottero; chi li prende li prende. Si sarebbero, dicono, ottenuti sicuramente risultati migliori.
Ma c’è una via di mezzo e più sensata tra questi due modi cretini di sostenere l’economia, ed è quello di finanziare, con altrettanto denaro (almeno 1.000 miliardi all’anno) un piano europeo di riconversione ecologica vincolato all’accoglienza dei profughi, legandola indissolubilmente alla salvaguardia dell’ambiente.
Poi c’è da prendere seriamente in considerazione la seconda possibile meta del viaggio dei profughi: il ritorno. Non con i rimpatri forzati che equivalgono a riconsegnarli, incatenati, ai dittatori, o alle bande armate, o alle guerre, o ai suoli abbandonati, perché ormai sterili, da cui erano fuggiti. Bensì aiutandoli a farsi portatori di pace, di riconciliazione, di democrazia, di risanamento sociale e ambientale delle loro terre.
Per farlo devono potersi organizzare durante la loro permanenza in Europa, aver voce in capitolo nelle trattative di pace del loro paese, nella politica estera del paese ospitante, nella destinazione dei fondi (immensi) che oggi vengono spesi per «esternalizzare» le frontiere e fare la guerra ai migranti lungo le loro rotte.
Niente come la partecipazione a pieno titolo alla vita associata nei paesi «ospitanti» e la partecipazione, come lavoratori, ai progetti di conversione ecologica di questi paesi li può preparare – può preparare quelli di loro che lo vorranno, e saranno sicuramente molti – a un vero ritorno, da pionieri, nei paesi da cui sono dovuti fuggire. Così si gettano le basi di una vera grande comunità euro-afro-mediterranea, dove la libera circolazione delle persone torni ad essere non solo un diritto, ma anche una reale possibilità.
Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Impraticabile per chi non vede alternative ai diktat dell’Unione europea e della Bce. Ma irrinunciabile per chi si candida a un ruolo di vera opposizione.
Non si deve scrivere l’elenco delle cose che faremmo «se fossimo al governo». Perché al governo non ci andremo. Per ora.
Il nostro compito è avvalorare e diffondere la prospettiva di una inversione radicale delle priorità, sostenerla, renderla concreta con gli esempi, individuare e affrontare gli ostacoli che si parano di fronte.
Un programma di opposizione deve indicare la strada per arrivare: non al governo, ma a governarci.
Corriere 19.1.18
«L’obiettivo? La Rivoluzione d’ottobre»
di Giuseppe Alberto Falci

«Vogliamo realizzare il programma della Rivoluzione d’Ottobre». Non scherza Marco Ferrando, portavoce del partito dei comunisti dei lavoratori e oggi regista della lista «Per una sinistra rivoluzionaria», quando scandisce queste parole.
Ferrando, nel 2018 cosa significa realizzare quel programma?
«Significa mettere in discussione il sistema capitalistico».
Come?
«Ad esempio, con una ripartizione del lavoro fra tutti attraverso la riduzione progressiva dell’orario di lavoro a parità di paga».
Ce la farete a raggiungere il 3%, la soglia di accesso al prossimo Parlamento?
«Non abbiamo una percentuale obiettivo. Il nostro obiettivo è sviluppare la coscienza dei lavoratori e dei giovani attorno alla necessità di una rivoluzione sociale e di un governo dei lavoratori».
Non correte il rischio di essere una lista di testimonianza?
«Paradossalmente tutte le altre liste di sinistra sono testimonianza passiva della realtà del capitalismo cui si sono adattate e a cui hanno capitolato».
Si riferisce al Pd?
«Ma no. Il Pd si offenderebbe se lo si chiamasse di sinistra. Il Pd ormai è il partito di Marchionne. Nemmeno Berlusconi riuscì nell’impresa di abolire l’articolo 18».
E allora a chi si riferisce?
«A Liberi e Uguali e Potere al Popolo, dentro cui c’è Rifondazione comunista. Ecco, queste sinistre hanno distrutto la credibilità della sinistra italiana».
Corriere 19.1.18
Filosofia
L’universo, l’infinito e la conoscenza del pensatore nel saggio di Nuccio Ordine (La nave di Teseo)
Umano, troppo umano era l’asino di Giordano Bruno
di Giulio Giorello


«Chi desidera filosofare, dubitando all’inizio di tutte le cose, non assuma alcuna posizione prima di aver ascoltato le parti in dibattito... e decida non per sentito dire, secondo l’opinione dei più, ma sulla base della persuasività di una dottrina organica e aderente alla realtà, nonché di una verità che si comprenda alla luce della ragione». Così Giordano Bruno da Nola in uno dei suoi dialoghi latini, Il triplice minimo e la misura (1590). L’atteggiamento scettico — questo dubitare senza dogmi e pregiudizi — è per così dire il chiarore che illumina la luce della ragione: all’inizio può sembrare puramente distruttiva, ma l’opera di progressivo rischiaramento riesce a portarci più vicini a una migliore comprensione delle cose del mondo.
È questa duplicità di tutto l’approccio bruniano che Nuccio Ordine mette a fuoco nel suo La cabala dell’asino (La nave di Teseo), frutto di un decennale lavoro di ripensamento di una tesi che gli è stata a lungo cara.
Come ha osservato Ilya Prigogine nella sua appassionata premessa, l’autore riesce a collegare cosmologia e letteratura: «La concezione bruniana dell’infinito distrugge ogni gerarchia sul piano cosmologico», poiché ciascun aggregato di atomi ha la stessa importanza su ogni scala, «entro un universo il cui centro può essere ovunque». Analogamente Bruno, nella questione della lingua, «va al di là di una sintassi e di un vocabolario fondati sul formalismo di grammatici e pedanti… per ricondurre la letteratura alla varietà e alla ricchezza che dominano la natura». È una mossa antiautoritaria contro chi vorrebbe imporre come leggere i «caratteruzzi» (per dirla con Galileo) che compongono il grande libro del mondo o quelli che formano il nostro linguaggio.
Solo apparentemente è paradossale che a guidare Ordine in questa sua «caccia irresistibile» sia la figura dell’asino. Rappresentante di una «santa asinità» incurante della struttura del cosmo e desiderosa di rimanere «con mani giunte e in ginocchio», o forse custode di enigmi che non vuole o non può rivelare ai più? Quella che Bruno vedeva incarnarsi nell’asino è la tensione essenziale fra il mistero e una laica rivelazione, anch’essa umana, anzi fin troppo umana: risultato delle molteplici operazioni di cui è capace il nostro intelletto. Come notava Eugenio Garin a proposito della vasta e approfondita ricerca di Ordine sulle icone e le idee utilizzate dal Nolano, conoscenza e asinità si compensano a vicenda, senza mai dimenticare «l’altra faccia della condizione terrena: la dolorosa ma feconda fatica del lavoro fisico, l’urlo disperato ma terrificante che mette in fuga anche i giganti».
Cercando asine, racconta la Bibbia (1 Samuele 9,2-20), Saul figlio di Cis trovò il regno d’Israele: è questa l’immagine della duplicità asinina che Giordano Bruno ci consegna nella Cena de le Ceneri (1584). Un’ambivalenza — suggerisce Ordine, chiudendo il libro — che percorre l’opera e la vita del Nolano, implacabile cercatore di verità. «Far conoscere che cosa sia veramente il cielo, che cosa siano i pianeti e astri tutti, come non sia impossibile ma necessario un infinito spazio; come convenga tal infinito effetto all’infinita causa», era l’ambizione di Bruno in De l’infinito, universo e mondi (1584). Rinnovamento letterario e cosmologico sono due facce di una medaglia che a lui, il 17 febbraio del 1600, sarebbe costata particolarmente cara, su quel rogo in Campo dei Fiori a Roma.