l’Unità 12.5.07
Filosofia. Al Festival dell’Auditorium romano il dibattito su «Ragionare, delirare, sragionare» con Remo Bodei, Carlo Cellucci, Lucio Russo e Massimo De Carolis
L’elogio della follia nella ragione laica, per non diventare folli
di Bruno Gravagnuolo
Che tipo di barriere tra emozioni e logica? Ed è sano e creativo un intelletto scisso dalle passioni e dai desideri?
Un tema divenuto centrale nel mondo globale: lo svanire dei confini tra le parti dell’Io. Vissuto che crea sofferenza
Prosegue con afflusso di pubblico il Festival della Filosofia all’Auditorium romano della musica. Fino a domani, quando vi sarà il confronto fra Tariq Ramadan e Hanif Kureishi, di cui s’è scritto. Appuntamento sperimentato, promosso dal Comune di Roma, Multiversum Associazione culturale e la rivista Micromega. «Confini» è la parola guida di quest’anno, parente di quella dell’anno scorso, «Instabilità», a significare conflitti e sconfinamenti, dentro lo spazio globale. Che unifica e confonde. Ma anche segmenta e dirime spesso tragicamente culture e individui. Contrariamente alle attese edeniche e giocose, post-moderne o neoliberali, che salutarono il 1989 e la fine dell’ordine transanazionale del dopoguerra.
Ieri l’altro, e con tantissimi giovani ad un’ora impervia in Sala Sinopoli ( 21-23) c’è stato un dibattito chiave di questa edizione: «Ragionare, sragionare, delirare». Fluidamente coordinato da Massimo De Carolis e ben interpretato dai tre partecipanti. Un filosofo, un logico e uno psicanalista freudiano. Remo Bodei, Carlo Cellucci, e Lucio Russo, analista della Spi a vocazione filosofica (sue per Borla L’indifferenza dell’anima e Le Illusioni del pensiero). Scegliamo questo confronto e ve lo raccontiamo. Perché, tra il di tutto e di più, andava al cuore«speculativo» non solo del Festival, ma anche di un’antinomia capitale: ragione o «funzione verità» dell’intelletto, e suo contrario. Alias, interferenza, disturbo, follia. Tema classico, da Parmenide a Foucault. Ma che il presente interroga, visto l’intreccio di patologia e «normalità» nel quotidiano globale. La centralità di emozioni e immaginario nel mondo unificato, e quella del soggetto in espansione e frantumato. E vista anche la querelle sulla tecnica che invade l’umano-naturale, in assenza di limiti o certezze fondative.
E allora cominciamo da Bodei, che difende una «ragione ospitale», in grado di accogliere «l’inesprimibile», le scissure dell’Io a contatto con l’abisso della morte. «Vissuti» che radicalizzati possono essere una corazza difensiva contro gli scacchi da eccessi di singolartità emotiva: «il folle e la sua mistica». Oppure una risorsa creativa, come nel caso di Strindberg, Nietzsche, Hoelderlin. Salvo il fatto che sempre l’oscuro e il «regno delle madri» ci possono travolgere, se acuiti in chiave onnipotente. Poi è il turno del logico Cellucci, che in guisa preventiva va al punto epistemologico. Per lui «la logica occidentale è stata un fallimento, da Aristotetle a Frege. E in realtà esistono due tipi di logica, come diceva Ramo nel 1500: naturale e artificiale». Ebbene la logica «artificiale», retorica, barocca e formalistica non serve. Serve invece per Cellucci il logos «bio-logico», quello che da sempre la specie umana usa per risolvere «problemi di scopo», e che combacia con gli adattamenti per la selezione della specie. No dunque ai logici e ai mistici. E qui arriva una (discutibile) sorpresa. Per Cellucci tanto Heidegger quanto Popper «erano mistici». Poiché pensavano che la verità fosse un «additare» le cose, un intuirle magicamente, e non un manovrarle ragionevolmente per conoscerle. Non condividiamo. Giacché la logica, foss’anche la più astratta serve eccome, ed è sempre all’opera in ogni operazione ( questo non è quello). E inoltre Popper arrivava alla verità incrociando deduzione ed esperienza, costruendo appunto con ragione, verità sempre falsificabili. Insomma, Kant più Aristotele più evidenze sensibili rielaborate. Altro che mistica! Infine Lucio Russo. Che lega bene i meccanismi logici della mente all’«originario potere simbolizzante dell’inconscio nella sua genesi infantile». Freud, dice Russo, spiegò nel 1925, che la strutturazione dell’Io e quindi del «giudizio», avviene per «negazione», e «convocò idealmente Lacan e l’hegeliano Hyppolite a discuterne». Dunque, «identificazioni nello specchio materno, incorporamenti dell’altro, espulsioni e superamenti». Sino all’ingresso di un terzo, del Terzo: il Padre dell’ordine significante. Cioè il linguaggio interumano. Ma, e qui Russo è in bilico sui «confini», senza le tracce emotive di tale percorso, coi suoi «fantasmi» e illusioni, non vi sarebbe neanche logica. Né creatività al futuro. E perciò: c’è saggezza nella follia e nel delirio. A certe condizioni e «limiti». Già, ma quali? Anche Bodei e Cellucci convengono sul punto di Russo, più o meno. Ma resta la questione. La ragione è innato apparato cognitivo, «bio-logico». Sospinto da pulsioni. Ma l’autoriconoscimento di tutta la catena va oltre la pulsione. È appunto ragione laica, parola, ascolto. Senza cui c’è l’arbitrio. Religioso, ideologico e quant’altro.
l’Unità 12.5.07
Figli e moschetto, storia della famiglia reazionaria
di Michele Prospero
COSTUME E POLITICA Il fascismo è stato l’acme del tradizionalismo etico e confessionale in materia di relazioni familiari. Dall’Italia liberale alle politiche demografiche di Mussolini. Ma è stata la Costituzione a rompere questa cultura
Procreazione e ruolo sottomesso della donna come architravi della società fascista
Il punto di rottura col passato è stata l’idea che le relazioni familiari si basano sugli affetti e non sulla natura
La famiglia si trova al centro di accese dispute e in una piazza di Roma si invoca il ritorno del sacro per condizionare gli ordinamenti laici che cedono alle unioni di fatto. Nel rimpianto di un’Italia antica con un diritto più adagiato sulla fede, si ritrova un paese che si sente accerchiato, e guarda con timore ai tanti Stati europei dove ha fatto breccia la libertà nelle pratiche sessuali. Agitando la nostalgia di un mondo arcaico minacciato da nuovi modelli di famiglia, l’Italia di destra resiste a una ormai vecchia risoluzione del parlamento europeo (del 1994) che censura ogni discriminazione degli omosessuali e auspica il riconoscimento giuridico dell’unione gay.
L’Italia che si ritrova a San Giovanni in nome di tradizione e sacralità guarda con sospetto a un mondo civile che ha smesso da tempo di postulare una natura immutabile quale fonte perenne di verità per i legislatori e i giudici. Nella stessa America dei teocon e del mistico presidente guerriero, il cammino dei diritti non è stato affatto bloccato. La Corte suprema ragiona sui gay rights e nel 2004 la pronuncia della Supreme Judicial Court del Massachusetts ha esteso il matrimonio civile anche alle same-sex couples. Negli Stati americani cade ovunque il sodomy law statute che colpisce con la sanzione penale ogni rapporto sessuale (etero o omosessuale) non orientato alla procreazione.
L’Italia di destra, ossessionata dalla deriva relativista, rimpiange fasi della storia d’Italia nelle quali la famiglia trionfa come una struttura intrisa di autoritarismo. I codici liberali dell’800 modellano non a caso la famiglia attorno agli istituti della proprietà fondiaria ed esaltano il dominio paterno come esercizio di un comando pieno che si impone a scapito dei diritti individuali. Solo nel 1877 è consentito alla donna di testimoniare. Fino al 1919 vige una assoluta soggezione patrimoniale e per le donne è obbligatoria una esplicita autorizzazione maritale per compiere negozi giuridici (donazioni, alienazioni di beni immobili). La famiglia ha le sembianze di un micro sistema politico, e i poteri del padre sono l’incarnazione suprema dell’individualismo proprietario che non fa una piega dinanzi alle pretese della donna e alle istanze del minore.
Il diritto minorile compare solo come assurda devianza da colpire, come oscena rottura dell’equilibrio della sana dimensione domestica, come sfida aberrante all’ordine e alla disciplina. Soprattutto nel codice penale dell’età liberale emerge una ideologia repressiva che esalta la famiglia come ordine e tutela il buon costume contro le minacce dell’aborto, dell’adulterio femminile (offesa al marito e anche all’ordine costituito). Con il fascismo si prosegue su questo crinale e la famiglia conosce una ulteriore, devastante torsione autoritaria entrando a far parte di una ideologia statalista che l’assume di fatto come una istituzione pubblica al servizio dei superiori fini dello Stato. Per schivare una congiura planetaria il duce, accanto al «rombo potente dei motori», osanna «il primato della vita» ossia figli numerosi per impugnare i moschetti. Nel 1926 entra in vigore la tassa sul celibato e sono previsti premi per la nuzialità al fine di scagliare quella «frustata demografica» decisiva per l’orgoglio della nazione. In onore della patria occorre essere puri di sangue e di fede e per questo nel 1938 una legge impedisce il matrimonio con «altre razze non ariane».
Il fascismo amplia le implicazioni autoritarie della famiglia, presentata come istituzione di rilievo giuspubblicistico, e la connette saldamente alle esigenze dello Stato, della nazione, della stirpe. Il padre torna ad essere un decisore irresistibile con uno spietato jus corrigendi e le donne sono confinate in un ruolo subordinato. In questa cornice totalitaria e mistica, la famiglia svolge una funzione pubblica, la contraccezione e l’educazione sessuale sono bandite come offesa alla finalità della procreazione e l’aborto si presenta come un crimine contro la razza e contro lo Stato. Con il concordato del ’29 il matrimonio celebrato secondo il diritto canonico vede riconosciuti gli effetti civili e lo Stato recepisce i provvedimenti dei giudici ecclesiastici. Fede, famiglia e Stato etico si fondono in un caldo abbraccio mistico.
La cultura cattolica con Sturzo condivide la valorizzazione della famiglia e il suo inquadramento come base della convivenza ma respinge una concezione che nega la priorità del vincolo familiare rispetto all’ordinamento statale visto come eticità in sé completa. Nella carta costituzionale l’apporto cattolico fissa il principio della unità familiare come formazione sociale autonoma dove si sviluppa la personalità. Ma la costituzione aggredisce i tradizionalismi affermando valori superiori (come l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, la maternità libera e consapevole) che scavalcano gli stessi richiami alla «essenziale funzione familiare» della donna che lavora.
Negando di fatto il malinteso carattere naturale della famiglia, visto come luogo intangibile della integrità etica, ed esaltandone invece il connotato storico-giuridico, il legislatore costruisce una visione della famiglia aperta ai diritti di libertà e pronta pertanto a reprimere le situazioni di violenza e sopraffazione coperte dall’omertà delle naturali pareti domestiche. Significativo a questo riguardo è l’attenzione al minore non più nei termini di allarme sociale, di ordine pubblico violato ma nelle vesti di una persona libera titolare di diritti alla formazione e non più in quelle di un mero oggetto di pretese altrui. Più che statica natura, la famiglia si è rivelata come una società mutevole nella quale convivono soggetti diversi che hanno bisogno della tutela offerta dal diritto.
Proprio nell’esperienza repubblicana la famiglia è stata sempre più plasmata dalla norma giuridica positiva ispirata al dettato egualitario della costituzione finendo per perdere ogni preteso jus naturale che funge da scudo a situazioni di discriminazione, sopruso, violenza. Nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia, il principio costituzionale della eguaglianza fra i coniugi entra nell’istituto familiare archiviando sopravvivenze autoritarie ben visibili nel codice civile per il quale «il marito ha il dovere di proteggere la moglie», «di tenerla preso di sé». La costituzione prevale sul tradizionalismo. Decade così il sistema autoritario (viene abolita la sanzione penale per l’adulterio femminile) e maturano diritti inediti (eguaglianza, comunione dei beni, disciplina della filiazione naturale). Il principio dei limiti all’intervento del giuridico sulla autonomia delle forme «naturali» di vita non riesce più a garantire la giustificazione del fatto autoritario.
Nella storia repubblicana la famiglia come società naturale non significa affatto che sia prevista una copertura confessionale ad un istituto giuridico, ma che alla sua base dovrebbe esserci l’affetto.
L’affetto, non la procreazione, che non compare mai nella costituzione come finalità del matrimonio, ed è invece cruciale nel codice canonico. E se solo l’affetto è per la costituzione la base della famiglia, davvero tante possono essere le forme giuridiche che la possono coprire e tutelare. Dalla famiglia si passa alle famiglie.
Repubblica 12.5.07
I roghi di Calvino
Festival della filosofia/ Una lectio magistralis sulle perversioni dogmatiche
di Franco Cordero
Polizie segrete, spie, censure, patiboli non allevano cultura né industria né commerci e tanto meno libero pensiero
Miguel Serveto, aragonese errante, sfida le Chiese con un trattato sulla Trinità giudicata un'invenzione ecclesiastica
Menochio Scandella è un mugnaio friulano giudicato eretico e condannato
Il poveretto subisce il carcere poi esce ma è recidivo: morrà tra le fiamme
Pubblichiamo l´ultima parte della lezione che ha tenuto ieri all´Auditorium di Roma nell´ambito del Festival della Filosofia, sul tema "Teoria dei limiti: l´amorfo, le forme, stati perversi"
I dogmi impongono un pensiero storpio o lo spengono: «anathema sit» chiunque pensa; norme perverse comminano pene; fantocci giudiziari le applicano. Abbiamo tre casi sotto gli occhi.
Calvino ne impersona uno: testa forte, stile tagliente, tensione morale, agli antipodi delle fumisterie melodiose, ma fondata una chiesa, la governa con mano ferrea; e al servizio della gloria divina, compie atti disumani, classificabili nella perversione da rabbia dogmatica. Stavolta il paziente è Miguel Serveto, aragonese errante. Scrittore eclettico, corre troppi rischi: a vent´anni sfida le Chiese con i De Trinitatis erroribus libri septem, senza nome d´editore né luogo (Hagenau); en passant, quinto libro, descrive la circolazione del sangue un secolo prima d´Harvey; in sede teologale sostiene che la Trinità sia chimera d´invenzione ecclesiastica, nonché sgorbio logico; e con intuibile scandalo vi torna l´anno seguente, nei Dialogorum de Trinitate libri duo, regni Christi capitula quatuor. En route verso la Francia disputa col basilese Giovanni Ecolampadio. A Strasburgo raccoglie invettive da Martin Butzer. Sulla Senna coltiva la medicina in polemica con l´establishment accademico, confutando la farmacopea galenica nel libro riedito a Venezia e Lione, dove esce, 1535, un suo Tolomeo geografo corredato da glosse alla versione latina 1525. Cinque anni dopo lavora presso Jehan Frellon, stampatore-libraio, poi mette casa nei dintorni. Adesso firma Michele da Villanova, medico. Monsignor Pierre Palmier, protettore delle arti, gli offre comodo asilo nella sede arcivescovile, Vienne; fosse meno inquieto, avrebbe l´avvenire sicuro. S´è riacceso d´agonismo teologale. Conosce Calvino dagli anni parigini: stima poco l´ «Institution chrétienne»; attraverso Frellon intavola rapporti epistolari bellicosi; propone un torneo in casa nemica. Gioca col fuoco: se viene, non uscirà vivo, scrive «Iohannes tuus» a Guillaume Farel, 13 febbraio 1546; idem a Pierre Viret o almeno Jérôme Bolsec afferma d´avere visto la lettera. Quattro anni dopo appare, anonima, la Christianismi restitutio, muta su editore e luogo: 734 pagine temerarie, vi figurano trenta lettere «ad Calvinum Gehennesium concionatorem»; se l´è fatta stampare da Balthasard Arnollet pagando le spese più cento scudi. Dai torchi escono ottocento esemplari in sei balle: cinque vanno al fonditore lionese Pierre Merrin, l´ultima a Francoforte; l´infìdo Frellon, che deve spedirla, l´apre, ne cava alcune, le manda a Calvino. Il quale non perde tempo: attraverso Nicolas Trie, emigrato da Lione, e suo cugino Antoine Arneys, cattolico devoto, presenta una denuncia, 26 febbraio 1553; l´inquisitore Mathieu Ory procede, investendo del caso Sua Eminenza de Tournon; e siccome l´inquisito nega la paternità del libro, l´antipapa ginevrino spedisce carte autografe che lo identificano. Affare da rogo ma Michael Villanovanus gode d´influenti simpatie locali. Venerdì mattina 7 aprile se ne va dalla prigione chiedendo la chiave al custode. Peccato non sapere cos´avvenga nei tre mesi seguenti. Passi errabondi lo conducono a Ginevra sabato 15 luglio, nell´Albergo della Rosa: cerca una barca che lo porti verso Zurigo; il maltempo lo impedisce. La meta pare Napoli. Dio sa perché stia lì quattro settimane.
Domenica 13 agosto l´arrestano, denunciante tal Nicolas de la Fontaine, ex cuoco in casa Falaise: «Nicolas meus», lo chiama Calvino, stratega dell´accusa, i cui 39 capi ha formulato; ed è anche signore del folto consesso giudicante, essendo impercettibili i dissensi dopo 12 anni d´una violenta cura d´anime. Il paziente gli tiene bravamente testa mercoledì 16.
Lunedì 21 difende l´opinione antitrinitaria. L´indomani manda una supplica ai «Magnifici Signori»: è antica prassi che nel caso peggiore l´errante sia espulso; sono questioni da discutere tra persone colte; non ha violato leggi né professa anabattismo sovversivo. Stavolta firma «Michel Servetus de Villeneufve, en sa propre cause». Argomenti molto seri, se non fosse una partita impossibile. Mercoledì 23 il luogotenente lo interroga sulla vita privata: perché non abbia moglie; «quia impotens erat». Domenica 27 invoca un difensore. No, l´eretico non ha diritti. Seguitano gl´interrogatori. L´ignorante consesso chiede un´expertise. Calvino, scrittore fulmineo, lascia passare le settimane. Cadono nel vuoto varie suppliche.
Dura tre giorni la deliberazione, da sabato 21 ottobre: quasi unanime il voto, morte; e tra le pene possibili, la maggioranza sceglie l´orribile, muoia nel fuoco. Michele Serveto va in fumo venerdì 27 sulla collina dello Champel.
L´anno dopo Calvino pubblica una Fidelis expositio errorum Michaelis Serveti et brevis eorumdem refutatio, ubi docetur iure gladii coercendos esse haereticos. Teste pensanti lo negano (ad esempio, gli emigrati italiani). Se ne parla ancora: che i roghi calvinisti portino progresso, diversamente dagli spagnoli, è storicismo cortigiano, o chiamiamolo dialettica da Politburo; chierici stalinisti giustificano le purghe sostenendo che salvino l´Urss dalle peste hitleriana.
Polizie segrete, spie, dogmi, scuola bigotta, censure, anatemi, patiboli non allevano cultura né industria né commerci, tanto meno «libero pensiero» o «etica moderna»: né le logomachie trinitarie sviluppano l´intelletto filosofico; altrettanto male suona l´apologia dell´ Inquisizione, veramente santa, quale forma storica d´una salutare pressione sui «manipolatori d´errori» (lapsus crociani da dimenticare: Filosofia della pratica, 46s.; Vite d´avventure, fede e passione, ed. 1953, 217-22, 258s.; nel secondo titolo mi permetto tre elisioni eufoniche). Etica capitalista, Stati Uniti, libero pensiero, nascerebbero anche se Giovanni Calvino, Cartesio del cristianesimo agostiniano, fosse un ecclesiocrate meno efferato.
Ha gioco facile il biografo cattolico da cui vengono importanti notizie (J.-M.-V. Audin, Histoire de la vie, des ouvrages et des doctrines de Calvin:): fredda collera, furberie da politicante, dogmatismo egocratico e via seguitando; umano invece lo stile cattolico; finché l´eretico calca terre soggette a Mater Ecclesia, nessuno gli torce un capello, sebbene scriva cose enormi. Quanto poco materna sia verso i pensanti, lo dicono tanti casi. Vediamone due sincroni. Menochio Scandella è un mugnaio friulano, alfabeta, musico, onesto, benvoluto, con un difetto, anzi eccesso: ha letto qualcosa in fonti pulite; ignora le dispute cattolico - protestanti, né spaccia fantasie profetiche; rispetta le autorità; vive quieto, buon cristiano, ma avendo «cervelo sutil», pensa, abito pericoloso; l´Inquisitore del Friuli lo dichiara eretico, anzi eresiarca: i fabbricanti d´eresie vanno al rogo; ringrazi Iddio della prigione a vita. Due anni dopo esce, malamente segnato. Ne passano 14 e torna in prigione perché pensava ancora, parlandone a quattr´occhi. I recidivi non hanno scampo. L´inquisitore chiuderebbe gli occhi, visto che presto morrà da solo: non può, gli soffia sul collo l´Eminentissimo Giulio Antonio Santori, mancato papa nel conclave 1592; esegua «virilmente» la condanna; e sotto Natale 1598 anche Menochio rende l´anima nelle fiamme; «Dio è aere», era uno dei suoi delitti verbali.
Nel Sant´Ufficio romano pende dal febbraio 1593 la causa dell´ex domenicano Filippo, poi Giordano Bruno. Due consultori, Alberto Tragagliolo O. P. e Roberto Bellarmino S. J., estraggono dagli atti otto proposizioni: abiurandole schiverebbe il rogo; lunedì 18 gennaio 1599 le riceve; ha sei giorni, risponda. Lunedì 25 presenta una scrittura difensiva, «disposto a revocarle», qualora Sede Apostolica o «Nostro Signore» (nome idolatrico del papa) le definiscano eretiche: mossa tattica; presuppone una materia incerta, la cui definizione valga ex nunc. No, risponde l´Ufficio, 3 febbraio o forse l´indomani: erano opinioni condannate ab antiquo; abiuri o decorrono i 40 giorni concessi agl´impenitenti.
Lunedì 15 le riconosce eretiche, pronto all´abiura quando e dove vogliano. Nella visita periodica, 5 aprile, tira fuori una seconda memoria su cui Bellarmino riferisce martedì 24 agosto. «Die nona septembris» i sei consultori propongono l´interrogatorio in tormentis sui punti dubbi: Sua Santità soprassiede; riconsiderino le prove. L´indomani pare sottomesso. Il memoriale coevo, però, aperto sei giorni dopo, riapre la discussione. Non ha niente da abiurare, dichiara nel ventiduesimo colloquio, 21 dicembre, invano rivisitato dai due confratelli Ippolito Beccaria, generale dell´Ordine, e Paolo Isaresi. Ormai è impenitente: i 40 giorni scadevano martedì 16 novembre; aprono ma non leggono l´ultima carta. Nostro Signore Clemente VIII taglia corto, 20 gennaio 1600. L´8 febbraio ascolta condanna e motivi in casa del cardinale Cristoforo Madruzzi. Inter alia, che siano innumerevoli i mondi, eterni: le anime trasmigrino; lo Spirito santo sia anima mundi; le fonti bibliche meritino poco credito; esistesse una specie umana preadamita. Ascolta in ginocchio: forse hanno più paura loro, commenta guardando i giudici; e passa gli ultimi nove giorni a Tor di Nona, «obstinatissimo», dicono i confortatori.
Muore giovedì mattina 17 febbraio, arso vivo, col morso perché aveva in gola «bruttissime parole». Forse non riusciva simpatico ma qualcosa conta nella cultura cinquecentesca. Anno Domini 1942 monsignor Angelo Mercati pubblica un sommario del processo: in limine difende la condanna, legittima, nonché equa; l´Osservatore romano, 20 giugno, rincara le contumelie. Sono imprescrittibili i delitti del pensiero.
l’Unità Lettere 12.5.07
La famiglia ideale? È in provetta
di Maurizio Mori Università di Torino e consulta di Bioetica
Caro direttore
sbaglia chi dice che la Chiesa cattolica non cambia mai. Ad esempio, venerdì 30 marzo, il quotidiano dei vescovi italiani «Avvenire» ha pubblicato la nota della Cei contro i Dico (nell’inserto «È famiglia») sovrastata da una grossa e celebre fotografia a colori su due pagine rappresentante una grande festa di famiglie.
Il linguaggio delle immagini è talvolta più efficace di quello scritto, per cui è molto significativo che non si siano accorti che quella fotografia non è affatto generica, ma rappresenta la festa per i 25 anni della nascita di Louise Brown, la prima bambina nata in provetta.
Lei è lì, sulla destra assieme al marito e al suo bambino (è infatti oggi mamma felice anche lei), al professor Robert Edwards, il ginecologo e padre dei concepimenti in provetta (che ha attuato la fecondazione in vitro di Louise) e al dottor Peter Brinsden, attuale direttore del centro di Bourne Hall fondato proprio dal professor Edwards.
Che «Avvenire» proponga quella foto come simbolo delle famiglie ideali di oggi è una bella è interessante novità. Il giornale della Cei addita al pubblico la fecondazione assistita come fonte di gioia familiare: non più i tradizionali quadri della sacra famiglia con Gesù, Giuseppe e Maria in atteggiamento composto e compunto ma la gioiosa confusione dei Bourne Hall, simbolo dei nuovi ruoli e figure famigliari.
Non è questo un cambiamento importante?
Un primo passo c’è stato; altri ne verranno: anche sui Dico, vedrete. L’importante e che noi laici apriamo la strada, poi loro - silenziosamente ma sicuramente - ci seguiranno.
Corriere della Sera 12.5.07
Inchiesta adolescenti
Depressione e ansia Le nuove malattie dei ragazzi di Milano
di Giuseppe Remuzzi
LA RIVISTA AMERICANA E L'INDAGINE SUI RAGAZZI «The Lancet» ha dedicato un approfondimento alla salute degli adolescenti. Giuseppe Remuzzi, membro del comitato di redazione internazionale, commenta l'inchiesta per il Corriere
Quindicimila giovani sotto i vent'anni, solo nel 2005, si sono rivolti ai centri psichiatrici degli ospedali di Milano. Per problemi di ansia, depressione e disturbi dell'umore mille ragazzi tra i 14 e i 17 anni si sottopongono a una terapia con i farmaci. A soffrire di più sono le ragazze. È la fotografia del disagio tra gli adolescenti milanesi.
Coinvolgere genitori e prof per una diagnosi precoce
Di cosa muoiono di più i ragazzi? Incidenti stradali, e poi suicidio (negli ultimi 40 anni il numero dei suicidi nei ragazzi è aumentato, un po' perché l'influenza della famiglia tende a diminuire, perché c'è più libertà e perché i ragazzi hanno più accesso all'alcol e alle droghe). E si capisce, in quel periodo lì — tra i 12 e i 24 anni — succede di tutto. Maturità sessuale, vita sentimentale, la carriera scolastica sta per finire, qualcuno comincia a lavorare, si comincia a fumare e a bere alcol. È allora che possono insorgere le malattie mentali, anche se la diagnosi si fa quasi sempre molto dopo. E più del 70 per cento degli adulti che oggi hanno una malattia mentale si è ammalato da ragazzo. Ma quanti sono gli adolescenti con malattie mentali? Dipende.
Non è il male di una stagione, ma il sintomo di un malessere lungo una (giovane) vita. Perché il disturbo dell'umore — euforia e rabbia, sovreccitazione e apatia — colpisce sempre più gli adolescenti, insieme a depressione e ansia.
Li colpisce talmente tanto che, nel 2005, sono stati 15mila gli under 20 rivoltisi ai centri psichiatrici mentre, oggi, ce ne sono mille in terapia farmacologica. Numeri pesanti. Che fanno male. Che, però, non dicono chiaramente cosa succede in città: «C'è tutto un notevole disagio sommerso del quale tener conto» invita Maurizio Bonati, responsabile del Dipartimento materno- infantile del Mario Negri.
Un disagio sommerso. Molto sommerso: «Le famiglie stiano ben attente — mette in guardia Paola Sacchi, responsabile del Servizio di psichiatria dell'Asl —. Mamme e papà non sottovalutino i segnali, anche se piccoli e, magari, di primo acchito, di scarsa rilevanza. Dialoghino con i figli, li ascoltino. In casi come questi, è fondamentale muoversi in anticipo o, quantomeno, non in ritardo».
Gli adolescenti entrano in crisi in terza media così come ai primi anni del liceo. E, sovente, non per traumi devastanti: quanto per delusioni amorose, dissapori con i compagni di classe, incomprensioni in famiglia, problemi quotidiani — piccoli contrattempi — che, giorno dopo giorno, crescono fino a scoppiare. E possono portare a gesti estremi: sono circa 1.500 i giovani tra i 15 e i 24 anni d'età che hanno tentato il suicidio o hanno compiuto gesti autolesionisti. Ilaria Castellutti è psicoterapeuta per l'associazione Amico Charly: di autolesionisti, lei e i suoi ne seguono 250. Non 5: ma 250. «Vogliono farla finita perché non hanno speranza nel futuro. Perché hanno paura di crescere».
Ragazzini fragili. Fragilissimi. Già in precario equilibrio. E con una deriva a naufragare assai al femminile: il 70% degli adolescenti che finiscono in cura sono infatti ragazze. E, qui, sono i primi amori non decollati a incidere e lasciare il segno. Ancora Bonati: «Non dobbiamo lasciarle e lasciarli soli. Famiglie, insegnanti, educatori: ognuno deve fare il suo. Poi, è chiaro, in linea generale, la prevenzione non è mai abbastanza: e, allora, insistiamo con campagne di sensibilizzazione».
Una rete di assistenza, in ogni modo, c'è: a Milano sono presenti 6 ospedali con reparti per le malattie psichiatriche (Policlinico, Niguarda, Fatebenefratelli, Sacco, San Paolo e San Carlo) più 20 ambulatori. Anche se, alla fine, e Paola Sacchi non si stanca di ribadirlo, prima di lanciare l'ultimo salvagente — le cure e un ospedale, per l'appunto —, i genitori ascoltino gli appelli lanciati dai figli. Anche se sono sottovoce.
il manifesto 12.5.07
Un giorno di maggio a ponte Garibaldi
L'omicidio di una ragazza normale, venuta a manifestare per il terzo anniversario del referendum sul divorzio. In una città che il ministro Cossiga aveva messo sotto assedio. Giorgiana come Carlo Giuliani nella Genova del G8, tanti anni dopo
di Pierluigi Sullo
La giornata si concluse con una scena che, a saperla leggere, conteneva un pezzo di futuro che nemmeno potevamo immaginare. Quello dell'invasione televisiva, della mutazione di tutti noi in personaggi da talk show o da reality. Ma nel 1977 Silvio Berlusconi, credo, cominciava appena a muovere i primi passi da palazzinaro milanese, e la televisione era solo la Rai. Eppure, quando la troupe del tg chiese ai poliziotti di rimettere su un fianco l'automobile che era stata usata, sul Ponte Garibaldi, come una barricata, e che i celerini avevano appena rimesso sulle ruote, e insomma avevano preteso, i telegiornalisti, un replay della scena, e gli uomini in divisa e casco avevano eseguito, avremmo dovuto, noi che eravamo lì a guardare, coltivare un'inquietudine.
E' che eravamo stanchi, corri di qua e corri di là, e presi da quella spossatezza che ci aveva assaliti a ripetizione, negli ultimi sette o otto anni, quando un compagno, un ragazzo, una ragazza, restava sull'asfalto, sui sampietrini, il suo sangue sparso attorno e il corpo come un oggetto. Già, la memoria artificiale dei media è popolata dei fantasmi delle vittime, di quelle del «terrorismo rosso», e lo sono davvero, vittime, e quel clima che andava disfacendosi ha generato, sicuro, le brigate, le prime linee, i partiti combattenti e insomma tutti quelli che la storia volevano prenderla a pistolettate. Ma non si dice mai, non si dice più, che vittime sono stati anche Roberto, Walter, Giannino, Francesco e troppi altri. E Giorgiana.
Forse l'automobile che i celerini hanno usato come quinta del telegiornale era stata usata come riparo. Io non ero lì, quando qualcuno sparò. Qualcuno. Si potrebbe ipotizzare che a sparare alla schiena, alla testa, al petto di tutti quei ragazzi fosse stata una persona sola, sempre la stessa, in tutti gli anni Settanta, un uomo in divisa forse, ma più probabilmente con una maglietta a strisce e i capelli lunghetti come uno di noi. Non è una possibilità remota: a differenza di quelle altre vittime, e senza voler fare una competizione, mai nessuno, mai, è stato condannato per uno qualunque di quegli omicidi. Ecco un argomento che si potrebbe spendere in un talk show, non fosse che le Brigate rosse, dice Amato, ancora ci minacciano, e dunque bisogna andarci cauti.
Ma perché, allora, il 12 maggio del 1977 ci è rimasto inchiodato nella memoria? Perché una ragazza, Giorgiana Masi, del tutto inerme, è stata uccisa, mentre correva via, da un pallottola alla schiena? O perché la polizia di Francesco Cossiga aveva occupato Piazza Navona, per impedire una innocua manifestazione dei radicali a ricordo del voto sul divorzio (1974, tre anni prima), in un modo mai visto, così aggressivo, muscolare, strategico? Perché quando dalla parte di Campo de' Fiori gruppi di studenti avevano cominciato il gioco ti-vedo-non-ti-vedo agitando bandiere rosse un tipo con la maglietta a strisce si era inginocchiato di fianco a un'auto, aveva posato l'avambraccio sul cofano per mirare meglio e aveva aperto il fuoco, una due tre e non so quante volte? Perché Tano D'Amico aveva fotografato quel tipo e Stefano Bonilli e io, che eravamo lì in giro per il manifesto, abbiamo visto, e insieme abbiamo testimoniato, Tano con le immagini e noi scrivendo? Perché quel tipo era lo stesso che aveva sparato a Giorgiana, o magari era uno con la maglietta a strisce verticali invece che orizzontali, ma gli stessi capelli sessantottini e gli avambracci pelosi? Ce ne ricordiamo ancora perché quel giorno accaddero tutte queste cose, tutte nello stesso pomeriggio?
Eppure, in febbraio l'ondata di marea aveva buttato fuori Lama dall'università di Roma. In marzo, un altro tipo aveva ammazzato a Bologna Francesco Lorusso, con un altro colpo alla schiena, e Cossiga aveva mandato i blindati per occupare la città, e il giorno dopo, a Roma, centomila furibondi avevano condotto una battaglia mobile, chiamata corteo, per diverse ore. Ce n'è di cose da ricordare, anche solo di quell'anno. La mia idea - sbaglierò - è che era l'anno della fine di qualcosa, il periodo della penitenza, per la mia generazione, che, come ha scritto Marco Revelli a proposito di «Piove all'insù», il libro del settantasettino Luca Rastello, aveva lasciati soli quei ragazzi. Che peraltro non avevano bisogno di fratelli maggiori, anzi li rifiutavano, li detestavano.
Ma, a pensarci bene, come l'automobile rimessa sul fianco per la tv profetizzava il Grande Fratello, la polizia di Cossiga, coi suoi metodi sleali da pattuglia della Judicial di Città del Messico, ci stava annunciando le strade di Genova, la Diaz e Bolzaneto: la violenza legale che non conosce più mediazioni, trattative, che nutre la convinzione di potersi abbattere nuda su un movimento sociale che non gode di protezioni, perché è nuovo e solo, nel panorama consueto (quello della fine degli anni Settanta e quello all'indomani del ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi). E dunque Giorgiana Masi, ragazza, è come Carlo Giuliani, ragazzo: non erano militanti, e vivevano le rispettive epoche precarie, incerti tra un passato che non passa e un domani nebbioso.
Allora, come sei anni fa, i luoghi dove sono stati uccisi si sono riempiti di messaggi scritti a mano, sciarpe e fiori. E oggi che in Piazza Navona tornano i radicali, come quel 12 maggio di trent'anni fa, bisognerebbe evitare - se posso dirlo - di farne un braccio di ferro con un'altra piazza, più in là, che si riempirà di cattolici. Perché di prove di forza ne abbiamo abbastanza, e dovremmo provare rimorso, per la vita interrotta di Giorgiana Masi: noi, a quell'epoca, non le abbiamo sparato, e anzi avremmo potuto essere colpiti a nostra volta, come a Genova. Ma deporre un fiore sulla lapide che ancora la ricorda a Ponte Garibaldi significa riconoscere la nostra fragilità, ed è il solo modo di non essere «embedded» in una qualunque delle guerre che ci cadono addosso.
il manifesto 12.5.07
Giorgiana Masi. Quattro inchieste e nessun colpevole: un mistero italiano
«È tempo che Cossiga dica tutto quello che sa»
Intervista al segretario del Partito Radicale Rita Bernardini. «Chi è stato presidente della Repubblica e conosce la verità su uno dei fatti più oscuri di questo paese, non può rifiutarsi di parlare»
di Carlo Lania
Roma «A tanti anni di distanza da quei fatti, Francesco Cossiga ancora si rifiuta di raccontare quanto afferma di sapere sulla morte di Giorgiana Masi. A questo punto vorrei tanto sapere perché non parla, chi e cosa copre». A porsi la domanda è il segretario del partito radicale Rita Bernardini. Il 12 maggio del 1977, Giorgiana Masi venne assassinata proprio nel corso di una manifestazione indetta dai radicali per celebrare il terzo anniversario del referendum sul divorzio e lanciare, con lo slogan «Fermali con una firma», la campagna per otto nuovi referendum.
Bernardini, sono passati trent'anni esatti da quel giorno, e l'unica cosa che possiamo dire con certezza sull'omicidio di Giorgiana Masi è che anche quella morte si è trasformata nell'ennesimo mistero italiano. Quattro inchieste non hanno trovato neanche un colpevole.
Come radicali all'epoca tentammo di fare luce su quanto accadde il 12 maggio e sulle responsabilità della polizia. Perché è chiaro e documentato che in quel giorno le forze dell'ordine, sia in divisa che in borghese, avevano sparato, e avevano sparato ad altezza d'uomo. Ricordo un episodio clamoroso, quando il sottosegretario Lettieri, rispondendo a un'interrogazione parlamentare di radicali e gruppi della sinistra, disse testualmente: 'La polizia il 12 maggio a piazza Navona non ha sparato'. Facemmo un filmato in cui questa frase veniva ripetuta più volte mentre si vedeva il fuoco che usciva dalle pistole dei poliziotti in divisa e poi gli agenti in borghese vestiti da autonomi e con la pistola in mano.
In quel periodo il Viminale aveva vietato ogni manifestazione, voi però decideste di andare comunque a Piazza Navona
Ricordiamoci cosa accadeva in quegli anni: c'era il fenomeno del terrorismo, è vero, ma c'era anche una violenta reazione del governo, che arrivò al punto di vietare le manifestazioni, cosa evidentemente gravissima in una democrazia. Quel giorno avevamo indetto un'iniziativa per ricordare il terzo anniversario del referendum sul divorzio e avevamo convocato una manifestazione a Piazza Navona. Ci venne confermato il divieto da parte del Viminale. Noi che siamo non violenti e crediamo nella libertà di manifestare abbiamo deciso di farla lo stesso. E devo dire una cosa: in piazza con noi vennero anche gli autonomi e i gruppi più estremisti della sinistra, ma ci fu da parte di tutti un comportamento non violento, proprio per sottolineare che usavamo gli strumenti della democrazia, i referendum contro il regime. La polizia fermò molte persone, ma non ne trovò neanche una armata.
Il presidente Francesco Cossiga da tempo afferma di conoscere la verità sulla morte di Giorgiana Masi, ma non volerla rivelare.
Questa è una cosa incredibile. Chi è stato presidente della Repubblica e conosce la verità su uno dei fatti più oscuri del paese non può rifiutarsi di parlare. Ricordo che non si è mai voluta costituire una commissione d'inchiesta parlamentare sulla morte di Giorgiana e se Cossiga davvero sa qualcosa ed è in grado di provarla non è possibile che non parli. Cosa c'è sotto? Mi chiedo cosa e chi deve coprire.
Si parlò anche di possibili responsabilità di gruppi eversivi, sia di destra che di sinistra.
Probabilmente legati al potere di allora. Non dimentichiamo che quelli erano gli anni in cui Pannella diceva 'Pci, P2, P38...'. Tutto questo è sicuramente estraneo a quel movimento che aveva creduto di combattere il regime con le armi della democrazia e della nonviolenza. I referendum facevano molta paura, ricordiamoci che ce n'era uno contro il finanziamento pubblico dei partiti e un altro per l'abolizione del Concordato che tutti i sondaggi davano per vincente e che fu bocciato dalla Corte costituzionale.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
venerdì 11 maggio 2007
l’Unità 11.5.07
Mussi e Giordano, vicini ma non troppo
Anche qui il nodo è l’adesione al Pse
La “cosa rossa” si ritrova sulla critica alla globalizzazione. Ma Franco Giordano gela Fabio Mussi sul socialismo europeo: «Noi mai», dice il segretario del Prc. E Mussi non lo segue subito sul terreno di un’azione comune a proposito delle pensioni. La figura e l’esperienza di Olof Palme, come trait d’union per le sinistre italiane che cercano un cammino comune. Alla presentazione del libro di Aldo Garzia sulla «vita e l'assassinio di un socialista europeo» i leader di Rifondazione e di Sinistra democratica fanno un altro passo nella stessa direzione. Il terreno è quello «delle cose utili» come dice Mussi, cioè dei provvedimenti di governo. E il banco di prova delle pensioni è un esempio citato da entrambi, anche se Mussi dice che non vuole discutere le esternazioni e aspetta di vedere quale sarà la proposta portata in Consiglio dei ministri. «C'è un grande lavoro da fare sui contenuti ed è urgente - dice il ministro dell’Università - apparecchiare subito il tavolo per costruire un programma politico comune». Giordano non è meno deciso: «Serve una soggettività unitaria dell'intera sinistra, soprattutto per dare al paese una forma di rappresentanza politica del lavoro». Fin qui i due procedono paralleli, nonostante le differenze non misconosciute tra le rispettive tradizioni, perché, come dice Giordano, «se la socialdemocrazia è quella del programma di Palme, io firmo subito».
Le cose si complicano quando si passa dalle dichiarazioni di principio («il socialismo è una critica della globalizzazione capitalistica», dice Mussi raccogliendo l'identica espressione usata da Giordano) alle questioni per così dire fattuali. Mussi chiede a Giordano la critica del «totalitarismo e del socialismo reale» e l'adesione «ad un socialismo rinnovato». Giordano sul primo punto è d'accordo: «La critica al socialismo reale la facevamo io e te Fabio all'interno del Pci, e venivamo rimbrottati da quelli che ora fanno il Partito democratico», dice con sarcasmo. Sul secondo, invece, è categorico: «Noi nel Pse? non esiste proprio».
l’Unità 11.5.07
Su «Micromega» un’intervista al figlio Hermann con nuovi particolari sulla scelta nazista del filosofo fin dal 1932
Heidegger, dongiovanni e reticente
di Bruno Gravagnuolo
Buon numero l’ultimo fascicolo di Micromega, la rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais (3/2007, Almanacco di Filosofia, pp. 239, Euro 12). Dentro ci sono molti materiali tratti dal Festival di Filosofia romana del 2006 («Instabilità»), che escono a ridosso di quello ora in corso all’Auditorium capitolino. Un dialogo del 2005 tra Alberto Melloni e Gilles Keipel su «Fondamentalismo e religioni». Un lungo saggio di Flores sulla cristologia di Ratzinger, e un’intervista inedita di Angel Xolocotzi a Hermann Heidegger, figlio non naturale del filosofo e divenuto per vie impreviste curatore dell’opera omnia del genitore legale. La vera novità del fascicolo è questa, perché aggiunge molti dettagli sul romanzo familiare del filosofo, nonché sul tema della sua adesione al nazismo. Oltre a rivelarci che egli non avrebbe voluto l’opera omnia, almeno per 100 anni, prima che Hermann lo persudasse, prefigurandogli la catastrofe di una guerra nucleare.
Intanto però, veniamo al saggio di Paolo Flores: «Gesù e Ratzinger tra storia e teologia». Ci sembra salutare. Poiché ribadisce alcune verità acclarate dalla moderna critica neotestamentaria. E cioè: l’inserzione dei Vangeli sinottici, nella dogmatica posteriore dei Concili di Nicea e Calcedonia, è arbitraria. Essa taglia fuori i cosiddetti vangeli «apocrifi»(per la Chiesa!), rimuovendo le radici ebraiche di Gesù. La sua terrenità, il modo in cui fu percepito e lui stesso si percepiva: un riformatore sociale ebraico che si aspettava un Avvento apocalittico nell’immediato. E non in una Chiesa-Istituzione. Ratzinger invece sequestra ancora, nel solco della tradizione romana quel lascito. E lo (re)impone come verità di fede che oltretutto ambisce a diventare verità politica e civile. In una parola: controriforma. Con echi inquietanti a destra, aggiungiamo noi. Nel cattolicesimo politico nostrano e non solo in quello integralista (dai neodem, ai teodem, ai teocon ovviamente).
E adesso veniamo ad Heidegger. Hermann, era figlio di Elfriede Heidegger e di un amico di famiglia di lei, non del filosofo. E presumibilmente lo apprese fin dal 1956. Ricevendone ulteriore conferma nella vicenda dell’epistololario segreto del padre legale. Una storia questa che Hermann ci narra, evocando la controversia con una cugina venuta in possesso dele lettere: alle tante amanti del filosofo e alla moglie. Già, Heidegger, padre affettuoso e paziente, non fu solo l’amante di Hannah Arendt. Ma di molte belle signore e allieve e la cosa suscitò tempeste con la moglie Elfriede, che fu anche quella che nel 1932 lo spinse a votare nazista e nel 1933 a iscriversi al partito nazista. Cosa che poi gli fruttò la nomina al Rettorato di Friburgo, dove tenne il famoso discorso di appoggio al «movimento». Tanto apprendiamo dall’intervista inedita. Che però è reticente, comprensibilmente, in Hermann. Infatti è vero che il filosofo nominò a «decani» due docenti invisi al regime e perciò l’anno appresso si dimise, senza rinnovare la tessera nazi. Nondimeno fino al 1936 Heidegger si illuse ancora di poter cavalcare la tigre. Scorgendo nel nazismo il modo giusto di arginare e governare la tecnica: una sorta di custode politico del senso greco dell’Essere. All’insegna dell’anticapitalismo romantico: «suolo», «comunità», «decisione», «servizio del lavoro e del sapere» Ben per questo, dopo il famoso discorso rettorale, parlò di «grandezza» e «intima verità del nazionalsocialismo», che presumeva di aver capito. Poi cambiò idea, e vide in esso la Volontà nichilistica di potenza (nietzscheana). Ma non fece mai ammenda. E su ciò Hermann Heidegger non si sofferma, e neanche l’intervistatore in verità.
Repubblica 11.5.07
I paladini di Faurisson
Un docente dell'Università di Teramo vuole invitare il negazionista. Ed è polemica
di Gad Lerner
Viviamo oggi la necessità di desacralizzare l'approccio a una tragedia storica
Già Primo Levi rimase sconcertato dal tentativo di negare l'Olocausto
Domande avvelenate che si rincorrono fra le due sponde del Mediterraneo, tra un Medio Oriente in fiamme e un´Europa che vorrebbe scrollarsi di dosso i sensi di colpa di cui l´ha sovraccaricata una storia tragica: non ci siamo forse già sdebitati abbastanza? Liberiamoci del fardello dell´Olocausto! E chi lo dice poi, vista la scorpacciata di privilegi lucrati atteggiandosi a vittime, chi lo dice che gli ebrei non si siano perfidamente inventati tutto?
La conferenza di Robert Faurisson - lo studioso che definisce «una menzogna storica» le «pretese camere a gas hitleriane» e il «preteso genocidio degli ebrei» - viene quindi presentata agli studenti italiani come un evento liberatorio: parliamo finalmente senza tabù, basta con le persecuzioni degli intellettuali scomodi!
Nell´enfasi liberale che avvolge la conferenza di Teramo, riecheggiano gli argomenti di un leader abilissimo nel padroneggiare i media come l´iraniano Mahmud Ahmadinejad: ma vi rendete conto che quei (presunti) sei milioni di ebrei vi vengono rinfacciati come se voi europei non aveste avuto decine di milioni di morti in quella stessa guerra? O come il presidente siriano Bashar al-Assad che maliziosamente chiede: come mai in Occidente è consentito mettere in discussione Gesù Cristo ma non l´Olocausto?
Eppure vi vantate tanto della vostra libertà d´espressione.
Il contagio è purtroppo in atto, e non sarà una conferenza in più o in meno del negazionista di turno a fermare l´epidemia del sospetto. Nutrita dal clima di guerra e dall´identificazione frettolosa, dentro la medesima entità ostile, di Stati Uniti e ebraismo internazionale.
A vent´anni dalle prime sortite dei negazionisti, la demolizione del culto della Shoah si riconferma nucleo cruciale di questa sfida culturale. In effetti vi è qualcosa di eccezionale nella proliferazione di ricerche, libri, film sullo sterminio degli ebrei. Un vero e proprio exploit, a partire dagli anni Settanta. E oggi che abbiamo più chiaro il quadro degli altri genocidi novecenteschi, risalta con evidenza una sorta di sproporzione della memoria. Sia ben chiaro, tale disparità d´attenzione può essere ben spiegata con le dimensioni numeriche e la centralità geografica della Shoah, con gli interrogativi sociologici, religiosi, psicologici che solleva, come esito imprevedibile di una persecuzione secolare.
Ma non tutti hanno voglia di cimentarsi con la complessità del tema. E allora può venir più facile spiegare il boom mediatico dell´Olocausto ebraico sotto forma di complotto: sono loro, bene integrati ai vertici della finanza e dell´editoria globale, gli inventori dell´industria dell´Olocausto, un business vantaggioso per continuare a presentarsi come vittime (ammesso e non concesso che gli ebrei siano mai stati davvero vittime)!
In tale contesto, i negazionisti processati o addirittura incarcerati per le loro idee, non vedono l´ora di annoverarsi fra le vittime contemporanee degli ebrei.
Ricordo bene il disagio provocato in Primo Levi dalla vicenda personale di Robert Faurisson. Dapprima il testimone di Auschwitz aveva reagito con durezza ai rilievi «tecnici» del negazionista.
Com´è possibile che venissero stipate 2.500 persone dentro a camere a gas così piccole?, chiedeva quello. E Levi replicava citando la selezione cui egli stesso fu sottoposto in locali atrocemente sovraffollati. Ma ricordo bene, dicevo, il commento successivo, detto sottovoce nel salotto di corso Re Umberto a Torino: «Non riesco a non pensare a quell´uomo che ha perso il lavoro all´università di Lione a causa delle sue idee, per quanto aberranti. Poveretto, provo compassione per lui».
Forse Primo Levi avvertiva già l´insidia del vittimismo negazionista che oggi si ripresenta come anticonformismo, ben valorizzato da un establishment islamico che ne ha fatto strumento di guerra ideologica. Un establishment islamico capace di messaggi globali, intenzionato a rivolgersi dritto all´anima sofferente dell´Europa. Scommettendo su nuove generazioni infastidite dal senso di colpa storico; sui nazionalismi frustrati che pretendono la riabilitazione delle proprie vittime e rimuovono le sofferenze altrui; riattualizzando l´identificazione novecentesca fra ebrei e potere, fra ebrei e guerra.
L´infamia di questa operazione è pari alla sua capacità di scuotere, seminare dubbi. Ma il dubbio e il senso critico sono i benvenuti quando non pretendano di disconoscere le sofferenze di un popolo sterminato. Certamente viviamo oggi la necessità di desacralizzare l´approccio a una tragedia storica di entità tale da averci indotti a assolutizzarla. Per reagire all´insidia negazionista vanno moltiplicati gli sforzi di contestualizzare: la teoria dell´unicità dell´Olocausto ebraico - in un secolo che ha conosciuto almeno altri quattro genocidi - non potrebbe reggere alla verifica di una storiografia globale. Bisogna sottrarsi alla classifica delle sofferenze. Mettere in relazione l´esperienza vissuta nel cuore dell´Europa con le altre macchine di sterminio dispiegate in altre regioni del pianeta. Perché resta insoluto il mistero di come l´uomo riesca a trascinare tanti suoi simili, persone semplici e gentili, a uccidere in massa i loro vicini di casa. Per poi dimenticarselo o negarlo.
Repubblica 11.5.07
Da Mussolini a Bush. La lezione di Emilio Gentile
Quando la politica diventa una religione
di Simonetta Fiori
Una forma di integralismo che non tollera dissenso
Una versione totalitaria e un'altra democratica
L´inquilino della Casa Bianca accostato al dittatore del fascismo? Il titolo Le religioni della politica da Mussolini a Bush potrebbe far sobbalzare qualcuno, ma l´urto polemico è destinato a stemperarsi nell´ascolto della lectio magistralis che Emilio Gentile terrà oggi alle 18 alla Fiera del Libro di Torino. Uno studioso come Gentile è ben lontano da proporre paragoni azzardati tra personaggi così diversi, tuttavia la sua analisi coglie rischi di contiguità tra fenomeni pur distanti. E questo rischio consiste principalmente nella possibilità che l´attuale presidenza statunitense trasformi la tradizionale "religione civile" americana - quella inaugurata da George Washington e sostenuta per due secoli dai suoi successori - in una nuova e inquietante esperienza di "religione politica" all´americana, una sacralizzazione della politica che non tollera pluralismo né dissenso. Una versione integralista, in sostanza, sintetizzabile nel seguente sillogismo: chi è con Bush, è con l´America; chi è con l´America, è con Dio, dunque chi non è con Bush è contro Dio e incarna il male assoluto. È la nuova Democrazia di Dio alla quale una Gentile dedica un saggio uscito lo scorso anno da Laterza.
Il ragionamento di Gentile si fonda su una categoria interpretativa - "religione della politica" - di cui lo studioso è uno dei più acuti interpreti. La sacralizzazione della politica si verifica ogni volta che un´entità secolare - la nazione, la democrazia, lo Stato, la razza, la classe, il partito, il movimento - è trasformata in un´entità sacra, in oggetto di devozione o culto. Essa può essere declinata sia nella sua versione totalitaria - è il caso del fascismo o del comunismo - sia nella sua versione democratica. Gentile è stato il primo sulla scena internazionale a proporne una sistematizzazione sul piano concettuale e storico, scrivendo libri come Le religioni della politica. Tra democrazie e totalitarismi, tradotti in diverse lingue (Laterza, pagg. 250, euro 9). «In realtà non ho inventato niente», dice Gentile. «Tra i primi a usare il termine di "religione secolare" o "laica" per definire le ideologie totalitarie del Novecento sono state personalità cattoliche come Luigi Sturzo, teologi protestanti come Adolf Keller o grandi intellettuali europei come Raymond Aron. E ancor prima Bertrand Russell negli anni Venti aveva parlato di "religione" a proposito del comunismo sovietico. È stato l´incontro con queste interpretazioni che mi ha indotto ad approfondire la questione, non soltanto in riferimento al fascismo».
Nel "culto del littorio" - dal titolo d´un suo celebre saggio laterziano - Gentile ha rintracciato i tratti tipici di quella religione della politica che trasforma l´ideologia in dogma, attivando un sistema di simbologie, rituali, miti che interpretano e definiscono il significato e il fine dell´esistenza. «Per capire se questo fenomeno sia tipico solo del fascismo o del bolscevismo, o si sia verificato anche nel passato, è stato necessario risalire nei secoli fino a incontrare le prime forme di religione laica nelle grandi rivoluzioni democratiche di fine Settecento in America e in Francia». La religione laica nella sua versione democratica si distingue dall´esito totalitario perché comporta una sacralizzazione della politica nel rispetto delle altre ideologie e del pluralismo. Nella versione illiberale essa definisce il primato assoluto d´un capo o d´un partito nella totale intolleranza verso il dissenso. Elemento comune tra le due versioni è che la sacralizzazione dell´entità secolare avviene in modo indipendente dalle religioni tradizionali o dalle chiese (da qui la differenza dai nuovi fenomeni di teopolitica, ispirati invece da religioni ben definite). « Il dato più rilevante è che l´esperienza della religione della politica negli Stati Uniti è stata la più duratura, dalla fondazione della Repubblica a Bush, pur con declinazioni differenti. Questo è evidente nella simbologia degli Stati Uniti e nei discorsi inaugurali dei presidenti, che sin da Washington hanno fatto riferimento a Dio. Un fenomeno che culmina nel 1954 con il celebre motto In God we trust, che trionfa anche nella moneta americana».
Qual è allora l´elemento di novità portato da Bush? «Prima dell´11 settembre del 2001, anche in America la religione civile appariva in riflusso. Con l´attacco alle Torri Gemelle la sacralizzazione della politica come un vulcano dormiente è tornata improvvisamente e violentemente attiva, dando origine a una stagione tra le più rigogliose con la santificazione dell´America quale nazione eletta. Ma fin qui siamo nel solco tracciato dai padri. L´elemento di novità consiste nel tentativo operato da Bush e dalla destra repubblicana di imprimere una direzione esclusiva e assoluta alle proprie scelte politiche di guerra al Male: chi non è con Bush è il nemico dell´America, dunque complice dei terroristi. È in questo snodo il rischio d´un passaggio dalla tradizionale religione civile americana nel segno del pluralismo a una religione assoluta, che s´identifica con una sola ideologia, un solo partito, un solo capo». Una deriva ineludibile? «No, è la natura stessa della religione civile americana che impedisce l´assolutizzazione della fede politica incarnata in un solo capo. In America molti teologi democratici sostengono che la religione americana si realizza più in Martin Luther King che in Bush. Jim Wallis, uno dei principali esponenti dell´evangelismo protestante liberale, ha scritto che la politica dell´attuale presidente non è certo quella di Dio e che Bush nega gli ideali fondamentali della nazione americana. Il suo libro God's politics è un bestseller, anche questo un segno della vitalità americana».
il manifesto 11.5.07
Giordano e Mussi ripartono da Palme
Le radici. Dibattito sul libro di Aldo Garzia. Spunta il «padre» Berlinguer
di Loris Campetti
Il capitalismo è come una pecora: ogni tanto va tosata ma senza ammazzarla. Al di là dell'ossimoro - o forse è una devianza comunista pensare al capitalismo come a un lupo? - questa frase di Olof Palme aiuta ad aprire un ragionamento sul fallimento del socialismo reale e sulla crisi della socialdemocrazia. E' una semplificazione pensare che il comunismo volesse uccidere la pecora, mentre una sana socialdemocrazia l'avrebbe tenuta sott'occhio, correggendone la rotta con la democrazia e governandone gli squilibri e le dieseguaglianze con il welfare. Ma la metafora aiuta a riflettere chi, nel 2007, non rinuncia a dirsi di sinistra e dopo un paio di decenni almeno di rotture tenta di ricostruire un percorso comune.
La presentazione nella sala della Provincia di Roma del bel libro di Aldo Garzia «Olof Palme/ Vita e assassinio di un socialista europeo» ha offerto a due leader della sinistra italiana «in movimento», Franco Giordano e Fabio Mussi, di cercare in una memoria comune (stessa origine, il Pci) una rotta per doppiare la crisi della sinistra. Mettendo in campo «basi solide e grandi passioni», come suggerisce lo stesso Aldo Garzia la cui formazione è targata manifesto. Negli interventi sono due i fari che illuminano il dibattito: Olof Palme e Enrico Berlinguer, due percosi diversi che spesso si sono incrociati fino ad avvicinarsi sensibilmente dopo la rottura del segretario del Pci con l'Urss («Si è esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre»). Non è la presentazione di un libro la sede più opportuna per riflettere sui ritardi di quella rottura, su cui Garzia ha forse delle idee non necessariamente convergenti con quelle di Giordano e Mussi. Ma una cosa vuole dirla Garzia: la svolta di Occhetto e la nascita del Pds non sono state segnate da una ricerca nella via socialdemocratica ma dal nuovismo.
Il segretario del Prc Giordano non ha eluso le domande evidenti nel volto dei partecipanti al dibattito: che fare qui e ora, con i Ds che gettano il velo e confluiscono in una «cosa» che con l'esperienza socialdemocratica europea nulla ha a che fare, mentre chi non sta al gioco dell'autoaffondamento è frantumato in orgogliose «identità»? Giordano suggerisce due assi di ricerca comune per avviare una ricostruzione della sinistra, quello pacifista e quello anticapitalistico, dentro un processo politico-culturale che innovi entrambe le tradizioni della sinistra, comunista e socialdemocratica. Da subito alcune battaglie comuni sono possibili e urgenti, a partire dalla tutela e valorizzazione del lavoro e delle pensioni e dalla lotta alla precarietà, per costruire una rappresentanza politica del lavoro, «un soggetto unitario spendibile politicamente, con una partecipazione di massa».
Per Mussi gli intrecci del Pci con la socialdemocrazia vengono da lontano, «l'omicidio di Palme lo vivemmo come un nostro lutto». Intanto, bisogna ricordare che il socialismo europeo «non è stato acqua fresca», è stato welfare innanzitutto. E l'incontro tra Berlinguer e Palme è avvenuto su un terreno forte: la lotta per il disarmo, per fermare la corsa terribile al riarmo. «Oggi quella corsa riprende pericolosamente, 1.100 miliardi di dollari in armamenti, oltre la metà negli Usa», e i pericoli connessi allo scudo spaziale nel cuore dell'Europa. «In questa situazione si rimpiangono leader come Palme e Berlinguer». Mussi rifiuta l'idea che il futuro sia solo al centro e rilancia l'urgenza di un'alleanza a sinistra: il lavoro e le politiche sociali, un tavolo subito per costruire un programma: «un movimento, non un altro partito, che ha già una certa forza che mettiamo a disposizione di un progetto più ampio. Se non ora, quando?».
il manifesto 11.5.07
La discesa dell'arte negli inferi delle pulsioni
di Stefano Chiodi
Alla critica il compito di respingere la lettura dell'opera come sintomo dell'inconscio dell'artista: questo l'assunto di Massimo Recalcati nel suo libro «Il miracolo della forma. Per un'estetica psicoanalitica», uscito da Bruno Mondadori, che si presenterà sabato alle 18.30 alla libreria Bibli di Roma
Stretta fra le imperiose esigenze del mercato e la crisi del suo tradizionale armamentario umanistico, la critica d'arte si è trovata nell'ultimo trentennio a dover fare i conti con la realtà delle esperienze artistiche contemporanee da una posizione doppiamente svantaggiata: da un lato la sua capacità di individuare percorsi originali e letture non ortodosse è stata via via erosa a vantaggio di altre forme di mediazione, in primo luogo quella offerta dalle ubique figure dei curatori, dall'altro la generale perdita di peso dell'interpretazione nell'universo dei media ne ha favorito l'emarginazione culturale, un ritrarsi che soprattutto in Italia ha spesso assunto i tratti della chiusura preventiva. A complicare ulteriormente il quadro interviene poi la sanzione di quanti (come ad esempio Alessandro Dal Lago e Serena Giordano nel loro Mercanti d'aura, Il Mulino 2006) leggono la scena artistica contemporanea in chiave schiettamente convenzionalista, e cioè individuando nel campo sociologico dell'arte ciò che conferisce valore a prodotti di per sé privi di qualsiasi specifica qualità.
Quali alternative è dunque possibile immaginare per una disciplina che finisce non solo per registrare ma per condividere lo smottamento delle categorie estetiche e delle pratiche artistiche più attuali? Ad esempio insistendo sulla necessità di una rifondazione teorica, di un confronto senza remore con il radicale ripensamento dell'immagine offerto dalla cultura della tarda modernità. È quanto si è proposto, tra gli altri, il gruppo riunito intorno alla rivista «October» da un trentennio a questa parte, soprattutto attraverso una ridefinizione intransigente del proprio bagaglio metodologico e in genere delle prospettive filosofiche del discorso sull'arte; o, ancora Georges Didi-Huberman, con le sue ricerche archeologiche e iconologiche, e ora anche Massimo Recalcati, che con il suo recente Il miracolo della forma. Per un'estetica psicoanalitica (Bruno Mondadori 2007, pp. 222, euro 24,00) fornisce sull'argomento uno tra i contributi più interessanti apparsi negli ultimi anni in Italia. Basandosi su una attenta lettura dell'insegnamento di Jacques Lacan, Recalcati ne riprende la riformulazione matura riguardo al rapporto tra psicoanalisi e attività artistica: il problema non sarà più indagare l'opera d'arte assimilandola a un sintomo o a un sogno, ma coglierne invece il valore di pratica simbolica che punta a incontrare il reale, a ritrovarne la flagranza risvegliandoci «dal sonno dell'io». Occorre, insomma, superare una visione dell'opera come «patografia», pensarla non più come sintomo dell'inconscio dell'artista ma come qualcosa di dissimile, qualcosa che resiste a questa identificazione.
Si tratta quindi di interrogare «l'irriducibile presenza» dell'opera, secondo l'espressione di Alberto Burri, che mina alla radice l'idea dell'interpretazione come decodifica di un significato latente nell'immagine, riducibile alla dimensione semantica del linguaggio. Per Recalcati, in altre parole, la critica estetica deve oggi recuperare l'idea lacaniana di una psicoanalisi implicata all'arte, e cioè a una pratica che individui nell'eccedente, nel «miracolo» della forma, il suo terreno di indagine più autentico.
È proprio questa, del resto, una delle poste più rilevanti del libro: resistere, cioè, a quello che l'autore individua come il rischio maggiore per l'arte contemporanea, vale a dire precisamente la rinuncia alla forma a favore del culto dell'abiezione, della discesa agli inferi pulsionali. Il riferimento è tanto a quelle esperienze che fanno dello choc il loro elemento portante, alla poetica post human di Paul McCarthy, Robert Gober, Orlan o Cindy Sherman, quanto alla rilettura compiuta da Rosalind Krauss e Yve-Alain Bois della nozione, derivata da Bataille, di informe, trasformata in dispositivo antimetafisico attraverso cui rileggere la vicenda artistica del Novecento. L'apologia dell'informe tende tuttavia a svalutare, ad azzerare secondo Recalcati quei processi di sublimazione che restano invece per Freud e Lacan il modo essenziale per offrire alle pulsioni «un destino simbolicamente possibile»: l'irruzione del reale dissolve la struttura formale delle immagini, annulla la «velatura» che ne garantisce il potenziale di sublimazione.
Se questa lettura risulta assai stimolante nei confronti di artisti come Morandi, Burri, Tàpies, Kline o Pollock, nei quali resta essenziale la dialettica con la tradizione dell'immagine formata, con la materia pittorica, con la gestualità e lo strato simbolico dei linguaggi, meno incisiva appare nei confronti delle esperienze contemporanee, troppo schiacciate sull'opposizione tra anoressia e bulimia formale, tra riduzione a zero della visione e ostentazione dell'eccesso e dell'osceno. Non va dimenticato, infatti, che anche quando la pittura perde il suo primato e l'aspetto concettuale e speculativo diviene uno dei motori dell'immagine, anche quando sembra che l'opera lasci irrompere il reale senza valersi di mediazioni simboliche, gli artisti agiscono nella consapevolezza di iscriversi, comunque, in quella cornice simbolica per antonomasia che è lo spazio dell'arte. Come ha mostrato bene Hal Foster, un critico profondamente influenzato dalla lezione di Lacan, il «ritorno del reale» nell'arte contemporanea prende anche le forme di una esperienza traumatica, che segna il passaggio dalla contemplazione al contatto, che mette in gioco lo spettatore quanto l'artista e si presenta in modi formali ibridi, postumi, perversi. Warhol, dunque, con le sue icone moltiplicate che insieme schermano e indicano il trauma dell'incontro col reale; o Alighiero Boetti, il cui paradossale «niente da vedere, niente da nascondere» appare come il manifesto di una vertiginosa concentrazione dello sguardo sul punto di frattura del campo simbolico; o ancora Jeff Wall, con la sua capacità insieme di colmare e svuotare l'atto di vedere. C'è poi un altro piano, cui Recalcati accenna soltanto, ma che diventa inevitabilmente lo sfondo di ogni discorso sull'odierna condizione dell'arte nella società globalizzata, e cioè in un sistema che ha convertito ogni immagine, ogni tecnica, ogni forma alla misura sommamente alienante dell'immaginario mediatizzato.
Questo passaggio ha inevitabilmente eroso l'idea stessa di qualità estetica, le pietre di paragone dell'autonomia e del disinteresse; ciò che dava unità e sostanza alla missione cosmico-storica dell'artista moderno - la ricerca di una soggettività incondizionata, l'esigenza utopica ed etica, lo stato di veglia - è oggi esposto, banalizzato, consumato e rimpiazzato dal presente immemoriale delle icone pubblicitarie. È soprattutto su questo sfondo che va misurata oggi, con consapevolezza critica e politica, l'inammissibile pretesa dell'arte di misurarsi con il reale.
Avvenire, 10 Maggio 2007
Tragico e ridicolo condivisi: con coppia di tre!
di Rosso Malpelo (alias Gianni Gennari)
"Liberazione" e "Riformista" paiono lontani e forse lo sono, salvo una follia comune. La prima, l'altro ieri (p. 1) piange la sconfitta francese con titolone: "La destra moderna e populista vince. La sinistra ha perso la strada". Solo roba francese? Sì. Infatti loro vanno avanti. Strada sicura, con strillo lì sotto: "12 maggio del Coraggio laico. Rifondazione coi radicali". Lì accanto, per fare chiarezza, c'è anche una preghiera tra divino ed umano. A p. 3 poi, dalla Fiera del Libro di Torino, un reportage su 5 colonne informa sul programma, con "notizia bomba": "venerdì, a due giorni dal Family Day", ci sarà anche un libro del cardinale Ruini! Un sussulto: "coincidenza a dir poco preoccupante". Una tragedia. Comica però, perché da venerdì a sabato corre un solo giorno. Già! Anticlericali di oggi: al solo sentir parlare di Chiesa perdono il filo. E qui fanno coppia col "Riformista". Stesso giorno, in prima pagina, ancora sul deludente voto francese, e lì sotto il ricordo che "nel '48 il Papa non rispettò i comunisti", ma "li scomunicò"! Persa la memoria di ciò che successe in quei mesi ed anni in mezza Europa, con il plauso del Pci di allora? E infatti la scomunica è del '49. È il meno. Più in tema a p. 7 "Scomunicateci tutti": ben 5 lettere di sette lettori fuori dai gangheri per "le ingerenze della Chiesa". Comprensibile pur se opinabile, ma con una curiosità: la prima lettera, inviata da "una coppia di fatto", ha tre firme! Tre? Anche al "Riformista", redazione e lettori, al solo parlare di Chiesa e cattolici, vanno fuori giri. Forse hanno anche loro "perso la strada".
il Riformista 11.5.07
Lupus in pagina
Gianni Gennari, autorevolissimo collaboratore dell' "Avvenire", si è occupato ieri delle richieste di scomunica che da giorni stanno intasando la nostra casella di posta. E di questo lo ringraziamo. A calamitare l'attenzione di Rosso Malpelo è stata soprattutto una lettera che abbiamo pubblicato martedì 9. Ci è stata inviata da Annio G. Stasi, Mary Tortolini e Viola Stasi. Gennari l'ha archiviata alla voce - parole sue - «curiosità». «Ha tre firme! Tre? Anche al "Riformista" - ha annotato - redazione e lettori, al solo parlare di Chiesa e cattolici, vanno fuori giri. Forse hanno anche loro "perso la strada"». Avremmo tanto voluto essere noi della redazione a soddisfare la curiosità di Rosso Malpelo. E lo avremmo fatto, se non ci avessero già pensato gli autori della lettera. «Siamo una coppia di fatto con bambina, siamo indignati dalle continue intromissioni della chiesa nella nostra vita privata», scrivevano martedì. Quanto fa una coppia di fatto (a rigor di logica, Annio G. Stasi e Mary Tortolini) più bambina (Viola Stasi)? Questo glielo diciamo noi, a Gennari: tre.
Liberazione 11.5.07
Quella certa "sinistra" che insegue la destra e il totem della sicurezza
La legalità invocata come una caccia allo straniero porta al razzismo
di Cesare Salvi*
La democrazia non garantisce uguaglianza di condizioni: garantisce solo uguaglianza di opportunità. Ma non per tutti, ovviamente. Perché quelle opportunità quasi sempre sono solo appannaggio di pochi. Spesso vengono considerate dei piccoli "tesoretti" da tenere ben stretti per evitare che vadano a finire - non sia mai - nelle mani di quanti vivono ai margini della società.
Credo sia utile, dunque, oltre che interessante, approfondire il dibattito sul tema della sicurezza nelle città intrapreso dopo che un elettore del centrosinistra, con una lettera inviata a Corrado Augias, dalle colonne di Repubblica lanciava il suo s.o.s perché rischiava (e credo che rischi tuttora) di trasformarsi, ahinoi, nel primo esempio di "razzista-progressista-democratico". L'uomo, il giorno dopo, è stato subito rassicurato dal sindaco di Roma Walter Veltroni, che pur tra mille rivoli sulla tolleranza e la solidarietà della città eterna, ha in definitiva ammesso quali rischi potremmo correre se, "noi compagni", non mettiamo subito mano a questo tema che, fino a ieri, sembrava essere di proprietà della destra e della sua propaganda. Che bisogno aveva Veltroni di citare "gli immigrati" che spacciano droga o il borseggio di una vecchietta ad opera di un rom? Perché se lo spaccio l'avesse compiuto un romano e il borseggio un milanese, sarebbe stato diverso? E la mafia, la camorra, la 'ndrangheta sono forse di origine cingalese o peruviana? E se fosse stato un polacco adulto ad ammazzare una bambina napoletana di cinque anni, quante aperture di telegiornali e quante paginate di quotidiani "politically correct" avremmo ascoltato e letto?
Bene ha fatto il direttore di Liberazione a richiamare l'attenzione sui rischi di una deriva sarkozyana. Perché è proprio quando una causa sembra impopolare che scopriamo come anche a una certa "sinistra" - non più solo la destra e la Lega, dunque - ama togliersi la maschera e mostrare i muscoli, sbandierando il totem della sicurezza, per poi scrivere ricette che risulterebbero ineccepibili persino per Le Pen. Come, ad esempio, trasferire fuori dal grande raccordo della capitale tutti i rom e gli zingari.
È una storia già vista. Così, nelle lontane periferie, magari vicino una discarica, in una "terra di mezzo", come tanti piccoli Hobbit (quei "mezzi uomini" di tolkieniana memoria) potremo finalmente parcheggiare gli esclusi, gli ultimi.
In fin dei conti la multiculturalità e le "politiche dell'inclusione", come ama dire qualcuno, sono solo un espediente per i buoni propositi elettorali e propagandistici. Abbiamo visto l'anno scorso in Francia, con la rivolta nelle banlieues, gli effetti della politica della "tolleranza zero" dell'ex ministro dell'Interno Sarkozy, che tra qualche giorno occuperà ufficialmente la poltrona dell'Eliseo. Credo che sia questa la lezione che deve essere raccolta da chi, anche qui in Italia, oggi ama lanciare proclami apparentemente banali ma in realtà pericolosi, all'insegna di altrettanto facili slogan come quello per il quale la sicurezza non è né di destra né di sinistra. Mentre c'è una politica per la sicurezza che appartiene alla destra e un'altra che dovrebbe appartenere alla sinistra. E quest'ultima passa, inevitabilmente, dai diritti che riusciamo a riconoscere a tutti, indistintamente.
Non so se il termine "fascismo", usato dal direttore Sansonetti, sia quello giusto; dico però che la legalità non può essere sempre e solo invocata come una sorta di caccia allo straniero, perché è proprio quella l'anticamera che porta al razzismo. Magari a un razzismo più subdolo, culturalmente differenzialista, ma comunque al razzismo che matura nel terreno dell'intolleranza e si manifesta nella pianta dell'odio e della violenza urbana.
Certo che la legalità di sinistra non si esaurisce nella politica dell'inclusione. Legalità di sinistra vuol dire anche tolleranza zero nei cantieri edilizi, dove a Roma migliaia di rumeni fanno i muratori in nero per quattro soldi, rischiando la vita tutti i giorni. Legalità di sinistra vuol dire un indulto concepito diversamente da quello imposto da Forza Italia, che ha escluso gli infortuni sul lavoro e si è allargato fino a tre anni per comprendere i corrotti, con gli effetti negativi sull'opinione pubblica che ben conosciamo. Legalità di sinistra vuol dire certezza della pena: abolire l'ergastolo, evitare leggi-manifesto che prevedono pene elevatissime al minimo allarme dell'opinione pubblica, ma anche tempi e modalità di applicazione della pena certi e sicuri: sei mesi di carcere, se scontati davvero e poco tempo dopo il crimine, sono una pena molto più seria che una condanna a otto anni mai scontata.
Quello che è successo in Francia deve essere per noi, uomini e donne di sinistra, un allarme, un monito che dovrebbe farci guardare in faccia la vera realtà anziché inseguire un certo malsano realismo. Chi è sceso per le strade di Parigi, dando sfogo alla rabbia che gli covava dentro, erano prevalentemente giovani con un'età compresa tra i 16 e i 25 anni. Abitano quelle periferie non per scelta, ma perché costretti da uno status sociale, da una dissennata politica che ha abbandonato ogni logica di integrazione, e che li ha voluti ghettizzare magari per poterli controllare meglio, senza che mai nessuno ascoltasse le loro ragioni, le loro aspettative, le loro paure, il loro malessere, le loro difficoltà a costruirsi un destino né migliore né peggiore ma uguale a quello degli altri loro coetanei che hanno la fortuna di appartenere alla razza "eletta" francese, quelli che abitano in centro, lontano dalle banlieues, e che possono comprare una baguette tre volte al giorno. Come fanno tutti i "veri" francesi. Non so se il sonno della ragione genera il fascismo. Di sicuro genera mostri. E noi, per quanto ci riguarda, preferiamo coltivare l'insonnia.
Liberazione 11.5.07
Sinistra, perché non capisci più Antonio Gramsci?
di Guido Liguori
L'americanizzazione della politica ha portato alla rinuncia del partito come intellettuale collettivo. I neo-con appaiono i veri eredi del pensatore sardo. Hanno fatto propria la necessità di agire nella società civile per creare consenso
I convegni su Gramsci di queste settimane, in occasione del 70° della morte, come l'inserto di Liberazione del 29 aprile, stanno evidenziando l'ampio spettro di letture gramsciane oggi diffuse nel mondo. Più sullo sfondo resta l'uso di Gramsci da parte di esponenti politici di destra, su cui pure conviene interrogarsi. Dagli Stati Uniti, ad esempio, Joseph Buttigieg ha ripetutamente richiamato l'attenzione su come esista una presenza di Gramsci tra i pensatori conservatori, che hanno fatto propria la convinzione della necessità di agire nella società civile per diffondere determinate idee, e passare poi a mietere i risultati sul piano politico. Come nell'analisi di Gramsci, questi "centri promotori" sono formalmente privati, ma il loro nesso con la politica statunitense è così forte da essere un esempio di quello "Stato integrale" (società politica + società civile) di cui parlano i Quaderni . Così i think tanks conservatori, se da una parte indicano in Gramsci il marxista più pericoloso, sono tra i più solerti applicatori delle sue strategie. Se oggi dovessimo cercare un esempio delle riflessioni gramsciane su come si organizza l'egemonia, su come essa non sia un fenomeno "spontaneo", su come la diffusione di un senso comune, di una visione del mondo abbiano sempre alle spalle un "apparato egemonico" dotato di una precisa materialità, troveremmo tali esempi in queste fondazioni, in questi centri studi del pensiero conservatore statunitense.
La sinistra invece sembra aver abbandonato questo fronte. In Italia, essa non ha più quella fitta serie di centri studi e riviste che furono un momento importante della sua azione. L'americanizzazione della politica si è tradotta in rinuncia a una teoria e una pratica del partito come "intellettuale collettivo". I neocons appaiono così gli eredi politici del gramscismo. Quando di recente si è letto su Le Figaro un'intervista in cui Nicolas Sarkozy ha affermato: «La mia lotta non è politica, ma ideologica... In fondo mi sono appropriato dell'analisi di Gramsci: il potere si conquista con le idee», pur scontando tutta la strumentalità di queste affermazioni si rimane sorpresi dalla consapevolezza che essa fa trasparire. A inizio anni 70 Alain de Benoist aveva ipotizzato un "gramscismo di destra", esaltando la dimensione culturale e metapolitica per creare un nuovo senso comune. A partire dalla convinzione che l'uomo sia un animale simbolico e s'identifichi con la propria cultura. Noi sappiamo ovviamente che incidono - in maniera fondamentale - anche i rapporti sociali di produzione. E non ci dobbiamo stancare di ripetere che questa era anche la convinzione di Gramsci. Ma resta il fatto che la destra sostiene che è necessario seguire la lezione del comunista sardo, mentre spesso tale convinzione a sinistra non c'è più e spesso si sussurra, dietro gli omaggi formali e le commemorazioni da calendario, che la lezione di Gramsci è oggi passata.
Nel mondo anglofono, a parte le letture neoconservatrici, prevale una lettura culturalista del pensiero di Gramsci, mentre il mondo latinoamericano resta uno dei migliori esempi di una lettura politica del pensatore sardo. È chiaro che non vi è in Gramsci - tra questi due diversi approcci - una separazione netta. E sarebbe facile dire che dobbiamo, gramscianamente, fare politica per tramite della cultura e considerare la cultura non come qualcosa di avulso dalla politica. Ma queste sono ovvietà. La verità è che questa divaricazione esiste oggi negli studi su Gramsci. Da una parte l'America latina, in particolare il Brasile, rappresenta un esempio di applicazione delle categorie gramsciane all'ermeneutica storica e politica. Nel mondo di lingua inglese invece l'area di studi in cui Gramsci è più diffuso è l'area dei cultural studies , degli studi post-coloniali, degli studi sui subalterni. Sono o sono stati anche questi momenti di grande importanza nella diffusione del pensiero di Gramsci e anche di un uso politico di Gramsci. Se noi pensiamo alla prima fase dei cultural studies , o alla tensione politica di Edward Said, o all'illuminazione che sul concetto di subalterno è venuta da autori indiani, è chiaro che siamo di fronte a un discorso con ricadute politiche. Si ha però la sensazione che la fase attuale dei cultural studies veda un uso di Gramsci diverso. È ormai prevalsa quella che definirei "una microfisica della differenza", in cui evapora ogni rimando reciproco tra il momento "culturale" e il momento "politico" e in cui la reale posta in gioco non sembra più essere quella di una liberazione reale (politica, sociale, economica, culturale), ma un gioco senza posta, un gioco tout court. Per non dire - come è stato notato - che c'è anche un uso culturalista di Gramsci che ha come esito un rafforzamento dell'egemonia statunitense. Si dovrebbero dunque operare le opportune distinzioni, saper leggere dentro il discorso dei cultural studies , spesso anche dentro l'evoluzione di uno stesso autore (Stuart Hall, ad esempio) e mettere a fuoco dove davvero tale discorso conduca.
Gli studiosi italiani hanno visto a lungo Gramsci solo come teorico della politica, senza dare peso alle contaminazioni che il suo pensiero stava subendo nel mondo. Quanto più un sistema di pensiero si diffonde, tanto più aumentano i rischi di fraintendimenti. Quasi come reazione a ciò, negli ultimi anni in Italia sono cresciuti gli studi filologici e studi sull'effettivo contesto storico-culturale in cui egli operava, per capire il senso esatto di termini e concetti e ragionamenti non sempre facili da decifrare. È iniziata la pubblicazione di una nuova edizione nazionale critica delle opere; e dal 2001 la Igs Italia ( www.gramscitalia.it ) organizza un seminario multidisciplinare che analizza filologicamente i suoi termini e concetti: Le parole di Gramsci (Carocci editore) è il titolo del libro che contiene i primi frutti di questo lavoro, che sfocerà presto in un Dizionario gramsciano degli anni del carcere.
Questi due movimenti - la diffusione di Gramsci in culture lontane e l'approfondimento filologico del suo pensiero - io credo si completino l'uno con l'altro. Da una parte, indiani, nord-americani, latinoamericani, australiani stanno applicando le categorie gramsciane nei loro contesti culturali e così gettano nuova luce su aspetti poco esplorati del suo pensiero. D'altra parte, gli studiosi che lavorano sul versante filologico aiutano, o dovrebbero aiutare, i primi a non "tradire" Gramsci, a comprendere il suo pensiero per utilizzarlo meglio. Con quest'azione comune, si può cercare di usare Gramsci in modo innovativo, non sacralizzato, senza dimenticarne alcune coordinate di fondo - in particolare la lotta per l'egemonia come forma della lotta di classe all'altezza delle società contemporanee. Se si perde il legame con questo orizzonte di senso, in cui si situava l'elaborazione del comunista sardo, si crederà forse di parlare di Gramsci, ma in realtà si parlerà di tutt'altro.
Liberazione 11.5.07
Il ruolo fondamentale dell'informazione nella lotta contro la segregazione
Dietro l'alibi della follia
Riannodare i fili a trent'anni dalla legge Basaglia
di Giada Valdannini
La sala era gremita fino all'inverosimile. Di gente ce n'era seduta persino sulle scale. A quasi trent'anni dalla legge Basaglia, torna - urgente - il bisogno di «riannodare i fili di quella straordinaria congiuntura che portò gli operatori dell'informazione a misurarsi con il problema della salute mentale, dei diritti dei malati e del corretto funzionamento dei servizi psichiatrici». Con questo approccio, martedì sera, Psichiatria Democratica ha promosso un incontro al Teatro romano dei Dioscuri per ragionare su quanto l'informazione abbia concorso alla formulazione della famosa legge che ha portato alla chiusura dei manicomi in tutta Italia. Per farlo si è avvalsa del prezioso contributo di un film-inchiesta della Rai dal titolo "Dietro l'alibi della follia". Un lavoro prodotto nel 1976 e firmato da Piero Dorfles, Raffaele Siniscalchi e Renato Parascandalo. Proprio lui - oggi assistente del direttore generale della Rai - incalza sul ruolo fondamentale dell'informazione democratica nella lotta contro la segregazione dei malati di mente. «Allora, giornalisti, registi cinematografici e autori radiotelevisivi documentarono la violenza delle "istituzioni totali" dando la parola ai degenti degli ospedali psichiatrici. Inchieste e documentari che appartengono alla storia del nostro cinema ma, ancor più, alla storia del nostro paese». Sono tipi di lavori che - secondo Parascandalo - «latitano da troppo tempo dalla nostra televisione, sempre pronta a dare spazio a programmi d'intrattenimento e tribune politiche che non restituiscono mai la parola ai protagonisti delle vicende narrate. Noi, per lavorare al film, abbiamo passato mesi nel manicomio di Arezzo pur di documentare nel modo più pertinenti possibile quello che era il grande processo di trasformazione in atto». Se lo ricorda bene anche Luigi Attenasio, presidente Lazio di Psichiatria Democratica, che racconta come lui stesso, una degente e un'infermiera fossero stati coinvolti nel montaggio di alcuni lavori sviluppati in quel periodo. Non erano, quindi, solo protagonisti dei filmati ma piuttosto coautori del messaggio e del taglio dati a questi lavori d'indagine. E non è tutto. Durante la preparazione di "Dietro l'alibi della follia", furono chiamati proprio i degenti a discutere la scaletta e le riprese del documentario. «Ecco perché - dice Attenasio - oggi è tanto più importante ripartire da quell'aproccio. Perché, pur avendo superato i manicomi, quel che resta è lo stigma verso il disagio mentale. Per i media fa più notizia un fatto di sangue in cui sia implicata una persona con disturbi psichici piuttosto che l'apertura di una casa famiglia. Dovrebbe essere il contrario. Ma l'unico modo per ribaltare questo paradigma è investire sull'informazione, come si faceva un tempo». Dello stesso avviso, Giusy Gabriele (direttore della Asl Roma D) che ci tiene a precisare quanto tutto passi attraverso la comunicazione: «Oggi tra censura e reality si tenta di ammansire le coscienza ma, fortunatamente, esiste ancora quel giornalismo che fa della denuncia e della partecipazione democratica i propri tratti salienti. E' su di esso che bisogna puntare anche per ciò che riguarda, oggi, il disagio psichico. In fondo la salute mentale non è nient'altro che lo specchio dei costumi della nostra società». Ma la follia, talvolta, è stata anche emblema di creatività. Come ha sottolineato Danielle Mazzonis (sottosegretaria Ministero Beni e Attività Culturali) che ci tiene a ribadire che i cosiddetti matti non sono matti. «Sono, molto spesso, persone con enormi problemi comunicativi col resto del mondo. Persone che, talvolta, con l'aiuto di psichiatri e operatori, sono riuscite a fare dell'arte uno strumento per raccontarsi al di fuori di sé. Per uscire dalla propria condizione di isolamento». Citati, tra le inchieste e i documentari dello stesso periodo, anche Fortezze vuote di Gianni Serra, I giardini di Abele di Sergio Zavoli e Matti da slegare di Silvano Agosti.
Il potere diverso delle donne - Abstract
Annelore Homberg
Il potere. La parola evoca l'immagine di una grossa montagna che le donne hanno cominciato a scalare faticosamente e le vette del potere economico e di quello politico sembrano le più difficili da raggiungere
Come psichiatra, tuttavia, incontro e studio un'altra forma di potere. Un potere "privato" sugli affetti che viene esercitato dal sesso femminile. Questo potere sull'identità profonda dell'altro si svolge nella dialettica tra uomo e donna, ma solo se l'uomo in questione non è completamente refrattario alla realtà femminile, quindi non è un potere certo. Nella stanza dei bambini, viceversa, questo tipo di potere regna pressoché incontrastato.
Durante i millenni del patriarcato occidentale che ha sempre denigrato, sfruttato e coartato le donne, questo potere femminile sugli affetti ha finito per svilupparsi in un modo violento. Nel senso che le donne che lo esercitavano, costrette ad una realtà interna di rancore, angoscia, vuoto e frammentazione, hanno realizzato una triste parità con gli uomini. Una parità nella distruttività anche se in questo caso venivano aggredite la fantasia e l'affettività dell'altro e non la sua realtà materiale.
Così, il contropotere del cosiddetto matriarcato in casa non è stato un rifiuto del patriarcato bensì, al contrario, funzionale al mantenimento dello status quo in quanto produttore di figli castrati nella loro umanità e di figlie identificate con la rassegnazione materna.
Tuttavia, pensiamo che l'attitudine millenaria delle donne a sopravvivere gestendo gli affetti degli altri, a muoversi in dimensioni irrazionali, implichi comunque un rapporto intuitivo con il reale "nucleo dell'essere", con un'identità umana che non coincide esattamente con la razionalità.
E' affascinante, in effetti, ricostruire quanto la ricerca sulla mente non cosciente in Europa sia una storie di donne. Donne che sfidavano il loro medico a seguirle sul terreno scivoloso delle dinamiche inconsce.
La sfida attuale potrebbe essere quella di verificare se il rapporto intuitivo delle donne con l'identità preverbale dell'essere umano possa liberarsi dall'intento di rivalsa, e distruzione.
Se ciò riuscisse potrebbero aprirsi nuovi scenari: di donne che esercitano il potere decisionale spostando la prospettiva. Dalla realizzazione di un'identità sociale che è basata su competitività ed esclusione ‑ "la poltrona è mia o è tua" ‑ alla realizzazione di un'identità interna che per essere tale, ha bisogno che si realizzi anche l'altro: vita mea vita tua.
Mussi e Giordano, vicini ma non troppo
Anche qui il nodo è l’adesione al Pse
La “cosa rossa” si ritrova sulla critica alla globalizzazione. Ma Franco Giordano gela Fabio Mussi sul socialismo europeo: «Noi mai», dice il segretario del Prc. E Mussi non lo segue subito sul terreno di un’azione comune a proposito delle pensioni. La figura e l’esperienza di Olof Palme, come trait d’union per le sinistre italiane che cercano un cammino comune. Alla presentazione del libro di Aldo Garzia sulla «vita e l'assassinio di un socialista europeo» i leader di Rifondazione e di Sinistra democratica fanno un altro passo nella stessa direzione. Il terreno è quello «delle cose utili» come dice Mussi, cioè dei provvedimenti di governo. E il banco di prova delle pensioni è un esempio citato da entrambi, anche se Mussi dice che non vuole discutere le esternazioni e aspetta di vedere quale sarà la proposta portata in Consiglio dei ministri. «C'è un grande lavoro da fare sui contenuti ed è urgente - dice il ministro dell’Università - apparecchiare subito il tavolo per costruire un programma politico comune». Giordano non è meno deciso: «Serve una soggettività unitaria dell'intera sinistra, soprattutto per dare al paese una forma di rappresentanza politica del lavoro». Fin qui i due procedono paralleli, nonostante le differenze non misconosciute tra le rispettive tradizioni, perché, come dice Giordano, «se la socialdemocrazia è quella del programma di Palme, io firmo subito».
Le cose si complicano quando si passa dalle dichiarazioni di principio («il socialismo è una critica della globalizzazione capitalistica», dice Mussi raccogliendo l'identica espressione usata da Giordano) alle questioni per così dire fattuali. Mussi chiede a Giordano la critica del «totalitarismo e del socialismo reale» e l'adesione «ad un socialismo rinnovato». Giordano sul primo punto è d'accordo: «La critica al socialismo reale la facevamo io e te Fabio all'interno del Pci, e venivamo rimbrottati da quelli che ora fanno il Partito democratico», dice con sarcasmo. Sul secondo, invece, è categorico: «Noi nel Pse? non esiste proprio».
l’Unità 11.5.07
Su «Micromega» un’intervista al figlio Hermann con nuovi particolari sulla scelta nazista del filosofo fin dal 1932
Heidegger, dongiovanni e reticente
di Bruno Gravagnuolo
Buon numero l’ultimo fascicolo di Micromega, la rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais (3/2007, Almanacco di Filosofia, pp. 239, Euro 12). Dentro ci sono molti materiali tratti dal Festival di Filosofia romana del 2006 («Instabilità»), che escono a ridosso di quello ora in corso all’Auditorium capitolino. Un dialogo del 2005 tra Alberto Melloni e Gilles Keipel su «Fondamentalismo e religioni». Un lungo saggio di Flores sulla cristologia di Ratzinger, e un’intervista inedita di Angel Xolocotzi a Hermann Heidegger, figlio non naturale del filosofo e divenuto per vie impreviste curatore dell’opera omnia del genitore legale. La vera novità del fascicolo è questa, perché aggiunge molti dettagli sul romanzo familiare del filosofo, nonché sul tema della sua adesione al nazismo. Oltre a rivelarci che egli non avrebbe voluto l’opera omnia, almeno per 100 anni, prima che Hermann lo persudasse, prefigurandogli la catastrofe di una guerra nucleare.
Intanto però, veniamo al saggio di Paolo Flores: «Gesù e Ratzinger tra storia e teologia». Ci sembra salutare. Poiché ribadisce alcune verità acclarate dalla moderna critica neotestamentaria. E cioè: l’inserzione dei Vangeli sinottici, nella dogmatica posteriore dei Concili di Nicea e Calcedonia, è arbitraria. Essa taglia fuori i cosiddetti vangeli «apocrifi»(per la Chiesa!), rimuovendo le radici ebraiche di Gesù. La sua terrenità, il modo in cui fu percepito e lui stesso si percepiva: un riformatore sociale ebraico che si aspettava un Avvento apocalittico nell’immediato. E non in una Chiesa-Istituzione. Ratzinger invece sequestra ancora, nel solco della tradizione romana quel lascito. E lo (re)impone come verità di fede che oltretutto ambisce a diventare verità politica e civile. In una parola: controriforma. Con echi inquietanti a destra, aggiungiamo noi. Nel cattolicesimo politico nostrano e non solo in quello integralista (dai neodem, ai teodem, ai teocon ovviamente).
E adesso veniamo ad Heidegger. Hermann, era figlio di Elfriede Heidegger e di un amico di famiglia di lei, non del filosofo. E presumibilmente lo apprese fin dal 1956. Ricevendone ulteriore conferma nella vicenda dell’epistololario segreto del padre legale. Una storia questa che Hermann ci narra, evocando la controversia con una cugina venuta in possesso dele lettere: alle tante amanti del filosofo e alla moglie. Già, Heidegger, padre affettuoso e paziente, non fu solo l’amante di Hannah Arendt. Ma di molte belle signore e allieve e la cosa suscitò tempeste con la moglie Elfriede, che fu anche quella che nel 1932 lo spinse a votare nazista e nel 1933 a iscriversi al partito nazista. Cosa che poi gli fruttò la nomina al Rettorato di Friburgo, dove tenne il famoso discorso di appoggio al «movimento». Tanto apprendiamo dall’intervista inedita. Che però è reticente, comprensibilmente, in Hermann. Infatti è vero che il filosofo nominò a «decani» due docenti invisi al regime e perciò l’anno appresso si dimise, senza rinnovare la tessera nazi. Nondimeno fino al 1936 Heidegger si illuse ancora di poter cavalcare la tigre. Scorgendo nel nazismo il modo giusto di arginare e governare la tecnica: una sorta di custode politico del senso greco dell’Essere. All’insegna dell’anticapitalismo romantico: «suolo», «comunità», «decisione», «servizio del lavoro e del sapere» Ben per questo, dopo il famoso discorso rettorale, parlò di «grandezza» e «intima verità del nazionalsocialismo», che presumeva di aver capito. Poi cambiò idea, e vide in esso la Volontà nichilistica di potenza (nietzscheana). Ma non fece mai ammenda. E su ciò Hermann Heidegger non si sofferma, e neanche l’intervistatore in verità.
Repubblica 11.5.07
I paladini di Faurisson
Un docente dell'Università di Teramo vuole invitare il negazionista. Ed è polemica
di Gad Lerner
Viviamo oggi la necessità di desacralizzare l'approccio a una tragedia storica
Già Primo Levi rimase sconcertato dal tentativo di negare l'Olocausto
Domande avvelenate che si rincorrono fra le due sponde del Mediterraneo, tra un Medio Oriente in fiamme e un´Europa che vorrebbe scrollarsi di dosso i sensi di colpa di cui l´ha sovraccaricata una storia tragica: non ci siamo forse già sdebitati abbastanza? Liberiamoci del fardello dell´Olocausto! E chi lo dice poi, vista la scorpacciata di privilegi lucrati atteggiandosi a vittime, chi lo dice che gli ebrei non si siano perfidamente inventati tutto?
La conferenza di Robert Faurisson - lo studioso che definisce «una menzogna storica» le «pretese camere a gas hitleriane» e il «preteso genocidio degli ebrei» - viene quindi presentata agli studenti italiani come un evento liberatorio: parliamo finalmente senza tabù, basta con le persecuzioni degli intellettuali scomodi!
Nell´enfasi liberale che avvolge la conferenza di Teramo, riecheggiano gli argomenti di un leader abilissimo nel padroneggiare i media come l´iraniano Mahmud Ahmadinejad: ma vi rendete conto che quei (presunti) sei milioni di ebrei vi vengono rinfacciati come se voi europei non aveste avuto decine di milioni di morti in quella stessa guerra? O come il presidente siriano Bashar al-Assad che maliziosamente chiede: come mai in Occidente è consentito mettere in discussione Gesù Cristo ma non l´Olocausto?
Eppure vi vantate tanto della vostra libertà d´espressione.
Il contagio è purtroppo in atto, e non sarà una conferenza in più o in meno del negazionista di turno a fermare l´epidemia del sospetto. Nutrita dal clima di guerra e dall´identificazione frettolosa, dentro la medesima entità ostile, di Stati Uniti e ebraismo internazionale.
A vent´anni dalle prime sortite dei negazionisti, la demolizione del culto della Shoah si riconferma nucleo cruciale di questa sfida culturale. In effetti vi è qualcosa di eccezionale nella proliferazione di ricerche, libri, film sullo sterminio degli ebrei. Un vero e proprio exploit, a partire dagli anni Settanta. E oggi che abbiamo più chiaro il quadro degli altri genocidi novecenteschi, risalta con evidenza una sorta di sproporzione della memoria. Sia ben chiaro, tale disparità d´attenzione può essere ben spiegata con le dimensioni numeriche e la centralità geografica della Shoah, con gli interrogativi sociologici, religiosi, psicologici che solleva, come esito imprevedibile di una persecuzione secolare.
Ma non tutti hanno voglia di cimentarsi con la complessità del tema. E allora può venir più facile spiegare il boom mediatico dell´Olocausto ebraico sotto forma di complotto: sono loro, bene integrati ai vertici della finanza e dell´editoria globale, gli inventori dell´industria dell´Olocausto, un business vantaggioso per continuare a presentarsi come vittime (ammesso e non concesso che gli ebrei siano mai stati davvero vittime)!
In tale contesto, i negazionisti processati o addirittura incarcerati per le loro idee, non vedono l´ora di annoverarsi fra le vittime contemporanee degli ebrei.
Ricordo bene il disagio provocato in Primo Levi dalla vicenda personale di Robert Faurisson. Dapprima il testimone di Auschwitz aveva reagito con durezza ai rilievi «tecnici» del negazionista.
Com´è possibile che venissero stipate 2.500 persone dentro a camere a gas così piccole?, chiedeva quello. E Levi replicava citando la selezione cui egli stesso fu sottoposto in locali atrocemente sovraffollati. Ma ricordo bene, dicevo, il commento successivo, detto sottovoce nel salotto di corso Re Umberto a Torino: «Non riesco a non pensare a quell´uomo che ha perso il lavoro all´università di Lione a causa delle sue idee, per quanto aberranti. Poveretto, provo compassione per lui».
Forse Primo Levi avvertiva già l´insidia del vittimismo negazionista che oggi si ripresenta come anticonformismo, ben valorizzato da un establishment islamico che ne ha fatto strumento di guerra ideologica. Un establishment islamico capace di messaggi globali, intenzionato a rivolgersi dritto all´anima sofferente dell´Europa. Scommettendo su nuove generazioni infastidite dal senso di colpa storico; sui nazionalismi frustrati che pretendono la riabilitazione delle proprie vittime e rimuovono le sofferenze altrui; riattualizzando l´identificazione novecentesca fra ebrei e potere, fra ebrei e guerra.
L´infamia di questa operazione è pari alla sua capacità di scuotere, seminare dubbi. Ma il dubbio e il senso critico sono i benvenuti quando non pretendano di disconoscere le sofferenze di un popolo sterminato. Certamente viviamo oggi la necessità di desacralizzare l´approccio a una tragedia storica di entità tale da averci indotti a assolutizzarla. Per reagire all´insidia negazionista vanno moltiplicati gli sforzi di contestualizzare: la teoria dell´unicità dell´Olocausto ebraico - in un secolo che ha conosciuto almeno altri quattro genocidi - non potrebbe reggere alla verifica di una storiografia globale. Bisogna sottrarsi alla classifica delle sofferenze. Mettere in relazione l´esperienza vissuta nel cuore dell´Europa con le altre macchine di sterminio dispiegate in altre regioni del pianeta. Perché resta insoluto il mistero di come l´uomo riesca a trascinare tanti suoi simili, persone semplici e gentili, a uccidere in massa i loro vicini di casa. Per poi dimenticarselo o negarlo.
Repubblica 11.5.07
Da Mussolini a Bush. La lezione di Emilio Gentile
Quando la politica diventa una religione
di Simonetta Fiori
Una forma di integralismo che non tollera dissenso
Una versione totalitaria e un'altra democratica
L´inquilino della Casa Bianca accostato al dittatore del fascismo? Il titolo Le religioni della politica da Mussolini a Bush potrebbe far sobbalzare qualcuno, ma l´urto polemico è destinato a stemperarsi nell´ascolto della lectio magistralis che Emilio Gentile terrà oggi alle 18 alla Fiera del Libro di Torino. Uno studioso come Gentile è ben lontano da proporre paragoni azzardati tra personaggi così diversi, tuttavia la sua analisi coglie rischi di contiguità tra fenomeni pur distanti. E questo rischio consiste principalmente nella possibilità che l´attuale presidenza statunitense trasformi la tradizionale "religione civile" americana - quella inaugurata da George Washington e sostenuta per due secoli dai suoi successori - in una nuova e inquietante esperienza di "religione politica" all´americana, una sacralizzazione della politica che non tollera pluralismo né dissenso. Una versione integralista, in sostanza, sintetizzabile nel seguente sillogismo: chi è con Bush, è con l´America; chi è con l´America, è con Dio, dunque chi non è con Bush è contro Dio e incarna il male assoluto. È la nuova Democrazia di Dio alla quale una Gentile dedica un saggio uscito lo scorso anno da Laterza.
Il ragionamento di Gentile si fonda su una categoria interpretativa - "religione della politica" - di cui lo studioso è uno dei più acuti interpreti. La sacralizzazione della politica si verifica ogni volta che un´entità secolare - la nazione, la democrazia, lo Stato, la razza, la classe, il partito, il movimento - è trasformata in un´entità sacra, in oggetto di devozione o culto. Essa può essere declinata sia nella sua versione totalitaria - è il caso del fascismo o del comunismo - sia nella sua versione democratica. Gentile è stato il primo sulla scena internazionale a proporne una sistematizzazione sul piano concettuale e storico, scrivendo libri come Le religioni della politica. Tra democrazie e totalitarismi, tradotti in diverse lingue (Laterza, pagg. 250, euro 9). «In realtà non ho inventato niente», dice Gentile. «Tra i primi a usare il termine di "religione secolare" o "laica" per definire le ideologie totalitarie del Novecento sono state personalità cattoliche come Luigi Sturzo, teologi protestanti come Adolf Keller o grandi intellettuali europei come Raymond Aron. E ancor prima Bertrand Russell negli anni Venti aveva parlato di "religione" a proposito del comunismo sovietico. È stato l´incontro con queste interpretazioni che mi ha indotto ad approfondire la questione, non soltanto in riferimento al fascismo».
Nel "culto del littorio" - dal titolo d´un suo celebre saggio laterziano - Gentile ha rintracciato i tratti tipici di quella religione della politica che trasforma l´ideologia in dogma, attivando un sistema di simbologie, rituali, miti che interpretano e definiscono il significato e il fine dell´esistenza. «Per capire se questo fenomeno sia tipico solo del fascismo o del bolscevismo, o si sia verificato anche nel passato, è stato necessario risalire nei secoli fino a incontrare le prime forme di religione laica nelle grandi rivoluzioni democratiche di fine Settecento in America e in Francia». La religione laica nella sua versione democratica si distingue dall´esito totalitario perché comporta una sacralizzazione della politica nel rispetto delle altre ideologie e del pluralismo. Nella versione illiberale essa definisce il primato assoluto d´un capo o d´un partito nella totale intolleranza verso il dissenso. Elemento comune tra le due versioni è che la sacralizzazione dell´entità secolare avviene in modo indipendente dalle religioni tradizionali o dalle chiese (da qui la differenza dai nuovi fenomeni di teopolitica, ispirati invece da religioni ben definite). « Il dato più rilevante è che l´esperienza della religione della politica negli Stati Uniti è stata la più duratura, dalla fondazione della Repubblica a Bush, pur con declinazioni differenti. Questo è evidente nella simbologia degli Stati Uniti e nei discorsi inaugurali dei presidenti, che sin da Washington hanno fatto riferimento a Dio. Un fenomeno che culmina nel 1954 con il celebre motto In God we trust, che trionfa anche nella moneta americana».
Qual è allora l´elemento di novità portato da Bush? «Prima dell´11 settembre del 2001, anche in America la religione civile appariva in riflusso. Con l´attacco alle Torri Gemelle la sacralizzazione della politica come un vulcano dormiente è tornata improvvisamente e violentemente attiva, dando origine a una stagione tra le più rigogliose con la santificazione dell´America quale nazione eletta. Ma fin qui siamo nel solco tracciato dai padri. L´elemento di novità consiste nel tentativo operato da Bush e dalla destra repubblicana di imprimere una direzione esclusiva e assoluta alle proprie scelte politiche di guerra al Male: chi non è con Bush è il nemico dell´America, dunque complice dei terroristi. È in questo snodo il rischio d´un passaggio dalla tradizionale religione civile americana nel segno del pluralismo a una religione assoluta, che s´identifica con una sola ideologia, un solo partito, un solo capo». Una deriva ineludibile? «No, è la natura stessa della religione civile americana che impedisce l´assolutizzazione della fede politica incarnata in un solo capo. In America molti teologi democratici sostengono che la religione americana si realizza più in Martin Luther King che in Bush. Jim Wallis, uno dei principali esponenti dell´evangelismo protestante liberale, ha scritto che la politica dell´attuale presidente non è certo quella di Dio e che Bush nega gli ideali fondamentali della nazione americana. Il suo libro God's politics è un bestseller, anche questo un segno della vitalità americana».
il manifesto 11.5.07
Giordano e Mussi ripartono da Palme
Le radici. Dibattito sul libro di Aldo Garzia. Spunta il «padre» Berlinguer
di Loris Campetti
Il capitalismo è come una pecora: ogni tanto va tosata ma senza ammazzarla. Al di là dell'ossimoro - o forse è una devianza comunista pensare al capitalismo come a un lupo? - questa frase di Olof Palme aiuta ad aprire un ragionamento sul fallimento del socialismo reale e sulla crisi della socialdemocrazia. E' una semplificazione pensare che il comunismo volesse uccidere la pecora, mentre una sana socialdemocrazia l'avrebbe tenuta sott'occhio, correggendone la rotta con la democrazia e governandone gli squilibri e le dieseguaglianze con il welfare. Ma la metafora aiuta a riflettere chi, nel 2007, non rinuncia a dirsi di sinistra e dopo un paio di decenni almeno di rotture tenta di ricostruire un percorso comune.
La presentazione nella sala della Provincia di Roma del bel libro di Aldo Garzia «Olof Palme/ Vita e assassinio di un socialista europeo» ha offerto a due leader della sinistra italiana «in movimento», Franco Giordano e Fabio Mussi, di cercare in una memoria comune (stessa origine, il Pci) una rotta per doppiare la crisi della sinistra. Mettendo in campo «basi solide e grandi passioni», come suggerisce lo stesso Aldo Garzia la cui formazione è targata manifesto. Negli interventi sono due i fari che illuminano il dibattito: Olof Palme e Enrico Berlinguer, due percosi diversi che spesso si sono incrociati fino ad avvicinarsi sensibilmente dopo la rottura del segretario del Pci con l'Urss («Si è esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre»). Non è la presentazione di un libro la sede più opportuna per riflettere sui ritardi di quella rottura, su cui Garzia ha forse delle idee non necessariamente convergenti con quelle di Giordano e Mussi. Ma una cosa vuole dirla Garzia: la svolta di Occhetto e la nascita del Pds non sono state segnate da una ricerca nella via socialdemocratica ma dal nuovismo.
Il segretario del Prc Giordano non ha eluso le domande evidenti nel volto dei partecipanti al dibattito: che fare qui e ora, con i Ds che gettano il velo e confluiscono in una «cosa» che con l'esperienza socialdemocratica europea nulla ha a che fare, mentre chi non sta al gioco dell'autoaffondamento è frantumato in orgogliose «identità»? Giordano suggerisce due assi di ricerca comune per avviare una ricostruzione della sinistra, quello pacifista e quello anticapitalistico, dentro un processo politico-culturale che innovi entrambe le tradizioni della sinistra, comunista e socialdemocratica. Da subito alcune battaglie comuni sono possibili e urgenti, a partire dalla tutela e valorizzazione del lavoro e delle pensioni e dalla lotta alla precarietà, per costruire una rappresentanza politica del lavoro, «un soggetto unitario spendibile politicamente, con una partecipazione di massa».
Per Mussi gli intrecci del Pci con la socialdemocrazia vengono da lontano, «l'omicidio di Palme lo vivemmo come un nostro lutto». Intanto, bisogna ricordare che il socialismo europeo «non è stato acqua fresca», è stato welfare innanzitutto. E l'incontro tra Berlinguer e Palme è avvenuto su un terreno forte: la lotta per il disarmo, per fermare la corsa terribile al riarmo. «Oggi quella corsa riprende pericolosamente, 1.100 miliardi di dollari in armamenti, oltre la metà negli Usa», e i pericoli connessi allo scudo spaziale nel cuore dell'Europa. «In questa situazione si rimpiangono leader come Palme e Berlinguer». Mussi rifiuta l'idea che il futuro sia solo al centro e rilancia l'urgenza di un'alleanza a sinistra: il lavoro e le politiche sociali, un tavolo subito per costruire un programma: «un movimento, non un altro partito, che ha già una certa forza che mettiamo a disposizione di un progetto più ampio. Se non ora, quando?».
il manifesto 11.5.07
La discesa dell'arte negli inferi delle pulsioni
di Stefano Chiodi
Alla critica il compito di respingere la lettura dell'opera come sintomo dell'inconscio dell'artista: questo l'assunto di Massimo Recalcati nel suo libro «Il miracolo della forma. Per un'estetica psicoanalitica», uscito da Bruno Mondadori, che si presenterà sabato alle 18.30 alla libreria Bibli di Roma
Stretta fra le imperiose esigenze del mercato e la crisi del suo tradizionale armamentario umanistico, la critica d'arte si è trovata nell'ultimo trentennio a dover fare i conti con la realtà delle esperienze artistiche contemporanee da una posizione doppiamente svantaggiata: da un lato la sua capacità di individuare percorsi originali e letture non ortodosse è stata via via erosa a vantaggio di altre forme di mediazione, in primo luogo quella offerta dalle ubique figure dei curatori, dall'altro la generale perdita di peso dell'interpretazione nell'universo dei media ne ha favorito l'emarginazione culturale, un ritrarsi che soprattutto in Italia ha spesso assunto i tratti della chiusura preventiva. A complicare ulteriormente il quadro interviene poi la sanzione di quanti (come ad esempio Alessandro Dal Lago e Serena Giordano nel loro Mercanti d'aura, Il Mulino 2006) leggono la scena artistica contemporanea in chiave schiettamente convenzionalista, e cioè individuando nel campo sociologico dell'arte ciò che conferisce valore a prodotti di per sé privi di qualsiasi specifica qualità.
Quali alternative è dunque possibile immaginare per una disciplina che finisce non solo per registrare ma per condividere lo smottamento delle categorie estetiche e delle pratiche artistiche più attuali? Ad esempio insistendo sulla necessità di una rifondazione teorica, di un confronto senza remore con il radicale ripensamento dell'immagine offerto dalla cultura della tarda modernità. È quanto si è proposto, tra gli altri, il gruppo riunito intorno alla rivista «October» da un trentennio a questa parte, soprattutto attraverso una ridefinizione intransigente del proprio bagaglio metodologico e in genere delle prospettive filosofiche del discorso sull'arte; o, ancora Georges Didi-Huberman, con le sue ricerche archeologiche e iconologiche, e ora anche Massimo Recalcati, che con il suo recente Il miracolo della forma. Per un'estetica psicoanalitica (Bruno Mondadori 2007, pp. 222, euro 24,00) fornisce sull'argomento uno tra i contributi più interessanti apparsi negli ultimi anni in Italia. Basandosi su una attenta lettura dell'insegnamento di Jacques Lacan, Recalcati ne riprende la riformulazione matura riguardo al rapporto tra psicoanalisi e attività artistica: il problema non sarà più indagare l'opera d'arte assimilandola a un sintomo o a un sogno, ma coglierne invece il valore di pratica simbolica che punta a incontrare il reale, a ritrovarne la flagranza risvegliandoci «dal sonno dell'io». Occorre, insomma, superare una visione dell'opera come «patografia», pensarla non più come sintomo dell'inconscio dell'artista ma come qualcosa di dissimile, qualcosa che resiste a questa identificazione.
Si tratta quindi di interrogare «l'irriducibile presenza» dell'opera, secondo l'espressione di Alberto Burri, che mina alla radice l'idea dell'interpretazione come decodifica di un significato latente nell'immagine, riducibile alla dimensione semantica del linguaggio. Per Recalcati, in altre parole, la critica estetica deve oggi recuperare l'idea lacaniana di una psicoanalisi implicata all'arte, e cioè a una pratica che individui nell'eccedente, nel «miracolo» della forma, il suo terreno di indagine più autentico.
È proprio questa, del resto, una delle poste più rilevanti del libro: resistere, cioè, a quello che l'autore individua come il rischio maggiore per l'arte contemporanea, vale a dire precisamente la rinuncia alla forma a favore del culto dell'abiezione, della discesa agli inferi pulsionali. Il riferimento è tanto a quelle esperienze che fanno dello choc il loro elemento portante, alla poetica post human di Paul McCarthy, Robert Gober, Orlan o Cindy Sherman, quanto alla rilettura compiuta da Rosalind Krauss e Yve-Alain Bois della nozione, derivata da Bataille, di informe, trasformata in dispositivo antimetafisico attraverso cui rileggere la vicenda artistica del Novecento. L'apologia dell'informe tende tuttavia a svalutare, ad azzerare secondo Recalcati quei processi di sublimazione che restano invece per Freud e Lacan il modo essenziale per offrire alle pulsioni «un destino simbolicamente possibile»: l'irruzione del reale dissolve la struttura formale delle immagini, annulla la «velatura» che ne garantisce il potenziale di sublimazione.
Se questa lettura risulta assai stimolante nei confronti di artisti come Morandi, Burri, Tàpies, Kline o Pollock, nei quali resta essenziale la dialettica con la tradizione dell'immagine formata, con la materia pittorica, con la gestualità e lo strato simbolico dei linguaggi, meno incisiva appare nei confronti delle esperienze contemporanee, troppo schiacciate sull'opposizione tra anoressia e bulimia formale, tra riduzione a zero della visione e ostentazione dell'eccesso e dell'osceno. Non va dimenticato, infatti, che anche quando la pittura perde il suo primato e l'aspetto concettuale e speculativo diviene uno dei motori dell'immagine, anche quando sembra che l'opera lasci irrompere il reale senza valersi di mediazioni simboliche, gli artisti agiscono nella consapevolezza di iscriversi, comunque, in quella cornice simbolica per antonomasia che è lo spazio dell'arte. Come ha mostrato bene Hal Foster, un critico profondamente influenzato dalla lezione di Lacan, il «ritorno del reale» nell'arte contemporanea prende anche le forme di una esperienza traumatica, che segna il passaggio dalla contemplazione al contatto, che mette in gioco lo spettatore quanto l'artista e si presenta in modi formali ibridi, postumi, perversi. Warhol, dunque, con le sue icone moltiplicate che insieme schermano e indicano il trauma dell'incontro col reale; o Alighiero Boetti, il cui paradossale «niente da vedere, niente da nascondere» appare come il manifesto di una vertiginosa concentrazione dello sguardo sul punto di frattura del campo simbolico; o ancora Jeff Wall, con la sua capacità insieme di colmare e svuotare l'atto di vedere. C'è poi un altro piano, cui Recalcati accenna soltanto, ma che diventa inevitabilmente lo sfondo di ogni discorso sull'odierna condizione dell'arte nella società globalizzata, e cioè in un sistema che ha convertito ogni immagine, ogni tecnica, ogni forma alla misura sommamente alienante dell'immaginario mediatizzato.
Questo passaggio ha inevitabilmente eroso l'idea stessa di qualità estetica, le pietre di paragone dell'autonomia e del disinteresse; ciò che dava unità e sostanza alla missione cosmico-storica dell'artista moderno - la ricerca di una soggettività incondizionata, l'esigenza utopica ed etica, lo stato di veglia - è oggi esposto, banalizzato, consumato e rimpiazzato dal presente immemoriale delle icone pubblicitarie. È soprattutto su questo sfondo che va misurata oggi, con consapevolezza critica e politica, l'inammissibile pretesa dell'arte di misurarsi con il reale.
Avvenire, 10 Maggio 2007
Tragico e ridicolo condivisi: con coppia di tre!
di Rosso Malpelo (alias Gianni Gennari)
"Liberazione" e "Riformista" paiono lontani e forse lo sono, salvo una follia comune. La prima, l'altro ieri (p. 1) piange la sconfitta francese con titolone: "La destra moderna e populista vince. La sinistra ha perso la strada". Solo roba francese? Sì. Infatti loro vanno avanti. Strada sicura, con strillo lì sotto: "12 maggio del Coraggio laico. Rifondazione coi radicali". Lì accanto, per fare chiarezza, c'è anche una preghiera tra divino ed umano. A p. 3 poi, dalla Fiera del Libro di Torino, un reportage su 5 colonne informa sul programma, con "notizia bomba": "venerdì, a due giorni dal Family Day", ci sarà anche un libro del cardinale Ruini! Un sussulto: "coincidenza a dir poco preoccupante". Una tragedia. Comica però, perché da venerdì a sabato corre un solo giorno. Già! Anticlericali di oggi: al solo sentir parlare di Chiesa perdono il filo. E qui fanno coppia col "Riformista". Stesso giorno, in prima pagina, ancora sul deludente voto francese, e lì sotto il ricordo che "nel '48 il Papa non rispettò i comunisti", ma "li scomunicò"! Persa la memoria di ciò che successe in quei mesi ed anni in mezza Europa, con il plauso del Pci di allora? E infatti la scomunica è del '49. È il meno. Più in tema a p. 7 "Scomunicateci tutti": ben 5 lettere di sette lettori fuori dai gangheri per "le ingerenze della Chiesa". Comprensibile pur se opinabile, ma con una curiosità: la prima lettera, inviata da "una coppia di fatto", ha tre firme! Tre? Anche al "Riformista", redazione e lettori, al solo parlare di Chiesa e cattolici, vanno fuori giri. Forse hanno anche loro "perso la strada".
il Riformista 11.5.07
Lupus in pagina
Gianni Gennari, autorevolissimo collaboratore dell' "Avvenire", si è occupato ieri delle richieste di scomunica che da giorni stanno intasando la nostra casella di posta. E di questo lo ringraziamo. A calamitare l'attenzione di Rosso Malpelo è stata soprattutto una lettera che abbiamo pubblicato martedì 9. Ci è stata inviata da Annio G. Stasi, Mary Tortolini e Viola Stasi. Gennari l'ha archiviata alla voce - parole sue - «curiosità». «Ha tre firme! Tre? Anche al "Riformista" - ha annotato - redazione e lettori, al solo parlare di Chiesa e cattolici, vanno fuori giri. Forse hanno anche loro "perso la strada"». Avremmo tanto voluto essere noi della redazione a soddisfare la curiosità di Rosso Malpelo. E lo avremmo fatto, se non ci avessero già pensato gli autori della lettera. «Siamo una coppia di fatto con bambina, siamo indignati dalle continue intromissioni della chiesa nella nostra vita privata», scrivevano martedì. Quanto fa una coppia di fatto (a rigor di logica, Annio G. Stasi e Mary Tortolini) più bambina (Viola Stasi)? Questo glielo diciamo noi, a Gennari: tre.
Liberazione 11.5.07
Quella certa "sinistra" che insegue la destra e il totem della sicurezza
La legalità invocata come una caccia allo straniero porta al razzismo
di Cesare Salvi*
La democrazia non garantisce uguaglianza di condizioni: garantisce solo uguaglianza di opportunità. Ma non per tutti, ovviamente. Perché quelle opportunità quasi sempre sono solo appannaggio di pochi. Spesso vengono considerate dei piccoli "tesoretti" da tenere ben stretti per evitare che vadano a finire - non sia mai - nelle mani di quanti vivono ai margini della società.
Credo sia utile, dunque, oltre che interessante, approfondire il dibattito sul tema della sicurezza nelle città intrapreso dopo che un elettore del centrosinistra, con una lettera inviata a Corrado Augias, dalle colonne di Repubblica lanciava il suo s.o.s perché rischiava (e credo che rischi tuttora) di trasformarsi, ahinoi, nel primo esempio di "razzista-progressista-democratico". L'uomo, il giorno dopo, è stato subito rassicurato dal sindaco di Roma Walter Veltroni, che pur tra mille rivoli sulla tolleranza e la solidarietà della città eterna, ha in definitiva ammesso quali rischi potremmo correre se, "noi compagni", non mettiamo subito mano a questo tema che, fino a ieri, sembrava essere di proprietà della destra e della sua propaganda. Che bisogno aveva Veltroni di citare "gli immigrati" che spacciano droga o il borseggio di una vecchietta ad opera di un rom? Perché se lo spaccio l'avesse compiuto un romano e il borseggio un milanese, sarebbe stato diverso? E la mafia, la camorra, la 'ndrangheta sono forse di origine cingalese o peruviana? E se fosse stato un polacco adulto ad ammazzare una bambina napoletana di cinque anni, quante aperture di telegiornali e quante paginate di quotidiani "politically correct" avremmo ascoltato e letto?
Bene ha fatto il direttore di Liberazione a richiamare l'attenzione sui rischi di una deriva sarkozyana. Perché è proprio quando una causa sembra impopolare che scopriamo come anche a una certa "sinistra" - non più solo la destra e la Lega, dunque - ama togliersi la maschera e mostrare i muscoli, sbandierando il totem della sicurezza, per poi scrivere ricette che risulterebbero ineccepibili persino per Le Pen. Come, ad esempio, trasferire fuori dal grande raccordo della capitale tutti i rom e gli zingari.
È una storia già vista. Così, nelle lontane periferie, magari vicino una discarica, in una "terra di mezzo", come tanti piccoli Hobbit (quei "mezzi uomini" di tolkieniana memoria) potremo finalmente parcheggiare gli esclusi, gli ultimi.
In fin dei conti la multiculturalità e le "politiche dell'inclusione", come ama dire qualcuno, sono solo un espediente per i buoni propositi elettorali e propagandistici. Abbiamo visto l'anno scorso in Francia, con la rivolta nelle banlieues, gli effetti della politica della "tolleranza zero" dell'ex ministro dell'Interno Sarkozy, che tra qualche giorno occuperà ufficialmente la poltrona dell'Eliseo. Credo che sia questa la lezione che deve essere raccolta da chi, anche qui in Italia, oggi ama lanciare proclami apparentemente banali ma in realtà pericolosi, all'insegna di altrettanto facili slogan come quello per il quale la sicurezza non è né di destra né di sinistra. Mentre c'è una politica per la sicurezza che appartiene alla destra e un'altra che dovrebbe appartenere alla sinistra. E quest'ultima passa, inevitabilmente, dai diritti che riusciamo a riconoscere a tutti, indistintamente.
Non so se il termine "fascismo", usato dal direttore Sansonetti, sia quello giusto; dico però che la legalità non può essere sempre e solo invocata come una sorta di caccia allo straniero, perché è proprio quella l'anticamera che porta al razzismo. Magari a un razzismo più subdolo, culturalmente differenzialista, ma comunque al razzismo che matura nel terreno dell'intolleranza e si manifesta nella pianta dell'odio e della violenza urbana.
Certo che la legalità di sinistra non si esaurisce nella politica dell'inclusione. Legalità di sinistra vuol dire anche tolleranza zero nei cantieri edilizi, dove a Roma migliaia di rumeni fanno i muratori in nero per quattro soldi, rischiando la vita tutti i giorni. Legalità di sinistra vuol dire un indulto concepito diversamente da quello imposto da Forza Italia, che ha escluso gli infortuni sul lavoro e si è allargato fino a tre anni per comprendere i corrotti, con gli effetti negativi sull'opinione pubblica che ben conosciamo. Legalità di sinistra vuol dire certezza della pena: abolire l'ergastolo, evitare leggi-manifesto che prevedono pene elevatissime al minimo allarme dell'opinione pubblica, ma anche tempi e modalità di applicazione della pena certi e sicuri: sei mesi di carcere, se scontati davvero e poco tempo dopo il crimine, sono una pena molto più seria che una condanna a otto anni mai scontata.
Quello che è successo in Francia deve essere per noi, uomini e donne di sinistra, un allarme, un monito che dovrebbe farci guardare in faccia la vera realtà anziché inseguire un certo malsano realismo. Chi è sceso per le strade di Parigi, dando sfogo alla rabbia che gli covava dentro, erano prevalentemente giovani con un'età compresa tra i 16 e i 25 anni. Abitano quelle periferie non per scelta, ma perché costretti da uno status sociale, da una dissennata politica che ha abbandonato ogni logica di integrazione, e che li ha voluti ghettizzare magari per poterli controllare meglio, senza che mai nessuno ascoltasse le loro ragioni, le loro aspettative, le loro paure, il loro malessere, le loro difficoltà a costruirsi un destino né migliore né peggiore ma uguale a quello degli altri loro coetanei che hanno la fortuna di appartenere alla razza "eletta" francese, quelli che abitano in centro, lontano dalle banlieues, e che possono comprare una baguette tre volte al giorno. Come fanno tutti i "veri" francesi. Non so se il sonno della ragione genera il fascismo. Di sicuro genera mostri. E noi, per quanto ci riguarda, preferiamo coltivare l'insonnia.
*senatore Sinistra Democratica
Liberazione 11.5.07
Sinistra, perché non capisci più Antonio Gramsci?
di Guido Liguori
L'americanizzazione della politica ha portato alla rinuncia del partito come intellettuale collettivo. I neo-con appaiono i veri eredi del pensatore sardo. Hanno fatto propria la necessità di agire nella società civile per creare consenso
I convegni su Gramsci di queste settimane, in occasione del 70° della morte, come l'inserto di Liberazione del 29 aprile, stanno evidenziando l'ampio spettro di letture gramsciane oggi diffuse nel mondo. Più sullo sfondo resta l'uso di Gramsci da parte di esponenti politici di destra, su cui pure conviene interrogarsi. Dagli Stati Uniti, ad esempio, Joseph Buttigieg ha ripetutamente richiamato l'attenzione su come esista una presenza di Gramsci tra i pensatori conservatori, che hanno fatto propria la convinzione della necessità di agire nella società civile per diffondere determinate idee, e passare poi a mietere i risultati sul piano politico. Come nell'analisi di Gramsci, questi "centri promotori" sono formalmente privati, ma il loro nesso con la politica statunitense è così forte da essere un esempio di quello "Stato integrale" (società politica + società civile) di cui parlano i Quaderni . Così i think tanks conservatori, se da una parte indicano in Gramsci il marxista più pericoloso, sono tra i più solerti applicatori delle sue strategie. Se oggi dovessimo cercare un esempio delle riflessioni gramsciane su come si organizza l'egemonia, su come essa non sia un fenomeno "spontaneo", su come la diffusione di un senso comune, di una visione del mondo abbiano sempre alle spalle un "apparato egemonico" dotato di una precisa materialità, troveremmo tali esempi in queste fondazioni, in questi centri studi del pensiero conservatore statunitense.
La sinistra invece sembra aver abbandonato questo fronte. In Italia, essa non ha più quella fitta serie di centri studi e riviste che furono un momento importante della sua azione. L'americanizzazione della politica si è tradotta in rinuncia a una teoria e una pratica del partito come "intellettuale collettivo". I neocons appaiono così gli eredi politici del gramscismo. Quando di recente si è letto su Le Figaro un'intervista in cui Nicolas Sarkozy ha affermato: «La mia lotta non è politica, ma ideologica... In fondo mi sono appropriato dell'analisi di Gramsci: il potere si conquista con le idee», pur scontando tutta la strumentalità di queste affermazioni si rimane sorpresi dalla consapevolezza che essa fa trasparire. A inizio anni 70 Alain de Benoist aveva ipotizzato un "gramscismo di destra", esaltando la dimensione culturale e metapolitica per creare un nuovo senso comune. A partire dalla convinzione che l'uomo sia un animale simbolico e s'identifichi con la propria cultura. Noi sappiamo ovviamente che incidono - in maniera fondamentale - anche i rapporti sociali di produzione. E non ci dobbiamo stancare di ripetere che questa era anche la convinzione di Gramsci. Ma resta il fatto che la destra sostiene che è necessario seguire la lezione del comunista sardo, mentre spesso tale convinzione a sinistra non c'è più e spesso si sussurra, dietro gli omaggi formali e le commemorazioni da calendario, che la lezione di Gramsci è oggi passata.
Nel mondo anglofono, a parte le letture neoconservatrici, prevale una lettura culturalista del pensiero di Gramsci, mentre il mondo latinoamericano resta uno dei migliori esempi di una lettura politica del pensatore sardo. È chiaro che non vi è in Gramsci - tra questi due diversi approcci - una separazione netta. E sarebbe facile dire che dobbiamo, gramscianamente, fare politica per tramite della cultura e considerare la cultura non come qualcosa di avulso dalla politica. Ma queste sono ovvietà. La verità è che questa divaricazione esiste oggi negli studi su Gramsci. Da una parte l'America latina, in particolare il Brasile, rappresenta un esempio di applicazione delle categorie gramsciane all'ermeneutica storica e politica. Nel mondo di lingua inglese invece l'area di studi in cui Gramsci è più diffuso è l'area dei cultural studies , degli studi post-coloniali, degli studi sui subalterni. Sono o sono stati anche questi momenti di grande importanza nella diffusione del pensiero di Gramsci e anche di un uso politico di Gramsci. Se noi pensiamo alla prima fase dei cultural studies , o alla tensione politica di Edward Said, o all'illuminazione che sul concetto di subalterno è venuta da autori indiani, è chiaro che siamo di fronte a un discorso con ricadute politiche. Si ha però la sensazione che la fase attuale dei cultural studies veda un uso di Gramsci diverso. È ormai prevalsa quella che definirei "una microfisica della differenza", in cui evapora ogni rimando reciproco tra il momento "culturale" e il momento "politico" e in cui la reale posta in gioco non sembra più essere quella di una liberazione reale (politica, sociale, economica, culturale), ma un gioco senza posta, un gioco tout court. Per non dire - come è stato notato - che c'è anche un uso culturalista di Gramsci che ha come esito un rafforzamento dell'egemonia statunitense. Si dovrebbero dunque operare le opportune distinzioni, saper leggere dentro il discorso dei cultural studies , spesso anche dentro l'evoluzione di uno stesso autore (Stuart Hall, ad esempio) e mettere a fuoco dove davvero tale discorso conduca.
Gli studiosi italiani hanno visto a lungo Gramsci solo come teorico della politica, senza dare peso alle contaminazioni che il suo pensiero stava subendo nel mondo. Quanto più un sistema di pensiero si diffonde, tanto più aumentano i rischi di fraintendimenti. Quasi come reazione a ciò, negli ultimi anni in Italia sono cresciuti gli studi filologici e studi sull'effettivo contesto storico-culturale in cui egli operava, per capire il senso esatto di termini e concetti e ragionamenti non sempre facili da decifrare. È iniziata la pubblicazione di una nuova edizione nazionale critica delle opere; e dal 2001 la Igs Italia ( www.gramscitalia.it ) organizza un seminario multidisciplinare che analizza filologicamente i suoi termini e concetti: Le parole di Gramsci (Carocci editore) è il titolo del libro che contiene i primi frutti di questo lavoro, che sfocerà presto in un Dizionario gramsciano degli anni del carcere.
Questi due movimenti - la diffusione di Gramsci in culture lontane e l'approfondimento filologico del suo pensiero - io credo si completino l'uno con l'altro. Da una parte, indiani, nord-americani, latinoamericani, australiani stanno applicando le categorie gramsciane nei loro contesti culturali e così gettano nuova luce su aspetti poco esplorati del suo pensiero. D'altra parte, gli studiosi che lavorano sul versante filologico aiutano, o dovrebbero aiutare, i primi a non "tradire" Gramsci, a comprendere il suo pensiero per utilizzarlo meglio. Con quest'azione comune, si può cercare di usare Gramsci in modo innovativo, non sacralizzato, senza dimenticarne alcune coordinate di fondo - in particolare la lotta per l'egemonia come forma della lotta di classe all'altezza delle società contemporanee. Se si perde il legame con questo orizzonte di senso, in cui si situava l'elaborazione del comunista sardo, si crederà forse di parlare di Gramsci, ma in realtà si parlerà di tutt'altro.
Liberazione 11.5.07
Il ruolo fondamentale dell'informazione nella lotta contro la segregazione
Dietro l'alibi della follia
Riannodare i fili a trent'anni dalla legge Basaglia
di Giada Valdannini
La sala era gremita fino all'inverosimile. Di gente ce n'era seduta persino sulle scale. A quasi trent'anni dalla legge Basaglia, torna - urgente - il bisogno di «riannodare i fili di quella straordinaria congiuntura che portò gli operatori dell'informazione a misurarsi con il problema della salute mentale, dei diritti dei malati e del corretto funzionamento dei servizi psichiatrici». Con questo approccio, martedì sera, Psichiatria Democratica ha promosso un incontro al Teatro romano dei Dioscuri per ragionare su quanto l'informazione abbia concorso alla formulazione della famosa legge che ha portato alla chiusura dei manicomi in tutta Italia. Per farlo si è avvalsa del prezioso contributo di un film-inchiesta della Rai dal titolo "Dietro l'alibi della follia". Un lavoro prodotto nel 1976 e firmato da Piero Dorfles, Raffaele Siniscalchi e Renato Parascandalo. Proprio lui - oggi assistente del direttore generale della Rai - incalza sul ruolo fondamentale dell'informazione democratica nella lotta contro la segregazione dei malati di mente. «Allora, giornalisti, registi cinematografici e autori radiotelevisivi documentarono la violenza delle "istituzioni totali" dando la parola ai degenti degli ospedali psichiatrici. Inchieste e documentari che appartengono alla storia del nostro cinema ma, ancor più, alla storia del nostro paese». Sono tipi di lavori che - secondo Parascandalo - «latitano da troppo tempo dalla nostra televisione, sempre pronta a dare spazio a programmi d'intrattenimento e tribune politiche che non restituiscono mai la parola ai protagonisti delle vicende narrate. Noi, per lavorare al film, abbiamo passato mesi nel manicomio di Arezzo pur di documentare nel modo più pertinenti possibile quello che era il grande processo di trasformazione in atto». Se lo ricorda bene anche Luigi Attenasio, presidente Lazio di Psichiatria Democratica, che racconta come lui stesso, una degente e un'infermiera fossero stati coinvolti nel montaggio di alcuni lavori sviluppati in quel periodo. Non erano, quindi, solo protagonisti dei filmati ma piuttosto coautori del messaggio e del taglio dati a questi lavori d'indagine. E non è tutto. Durante la preparazione di "Dietro l'alibi della follia", furono chiamati proprio i degenti a discutere la scaletta e le riprese del documentario. «Ecco perché - dice Attenasio - oggi è tanto più importante ripartire da quell'aproccio. Perché, pur avendo superato i manicomi, quel che resta è lo stigma verso il disagio mentale. Per i media fa più notizia un fatto di sangue in cui sia implicata una persona con disturbi psichici piuttosto che l'apertura di una casa famiglia. Dovrebbe essere il contrario. Ma l'unico modo per ribaltare questo paradigma è investire sull'informazione, come si faceva un tempo». Dello stesso avviso, Giusy Gabriele (direttore della Asl Roma D) che ci tiene a precisare quanto tutto passi attraverso la comunicazione: «Oggi tra censura e reality si tenta di ammansire le coscienza ma, fortunatamente, esiste ancora quel giornalismo che fa della denuncia e della partecipazione democratica i propri tratti salienti. E' su di esso che bisogna puntare anche per ciò che riguarda, oggi, il disagio psichico. In fondo la salute mentale non è nient'altro che lo specchio dei costumi della nostra società». Ma la follia, talvolta, è stata anche emblema di creatività. Come ha sottolineato Danielle Mazzonis (sottosegretaria Ministero Beni e Attività Culturali) che ci tiene a ribadire che i cosiddetti matti non sono matti. «Sono, molto spesso, persone con enormi problemi comunicativi col resto del mondo. Persone che, talvolta, con l'aiuto di psichiatri e operatori, sono riuscite a fare dell'arte uno strumento per raccontarsi al di fuori di sé. Per uscire dalla propria condizione di isolamento». Citati, tra le inchieste e i documentari dello stesso periodo, anche Fortezze vuote di Gianni Serra, I giardini di Abele di Sergio Zavoli e Matti da slegare di Silvano Agosti.
Il potere diverso delle donne - Abstract
Annelore Homberg
Il potere. La parola evoca l'immagine di una grossa montagna che le donne hanno cominciato a scalare faticosamente e le vette del potere economico e di quello politico sembrano le più difficili da raggiungere
Come psichiatra, tuttavia, incontro e studio un'altra forma di potere. Un potere "privato" sugli affetti che viene esercitato dal sesso femminile. Questo potere sull'identità profonda dell'altro si svolge nella dialettica tra uomo e donna, ma solo se l'uomo in questione non è completamente refrattario alla realtà femminile, quindi non è un potere certo. Nella stanza dei bambini, viceversa, questo tipo di potere regna pressoché incontrastato.
Durante i millenni del patriarcato occidentale che ha sempre denigrato, sfruttato e coartato le donne, questo potere femminile sugli affetti ha finito per svilupparsi in un modo violento. Nel senso che le donne che lo esercitavano, costrette ad una realtà interna di rancore, angoscia, vuoto e frammentazione, hanno realizzato una triste parità con gli uomini. Una parità nella distruttività anche se in questo caso venivano aggredite la fantasia e l'affettività dell'altro e non la sua realtà materiale.
Così, il contropotere del cosiddetto matriarcato in casa non è stato un rifiuto del patriarcato bensì, al contrario, funzionale al mantenimento dello status quo in quanto produttore di figli castrati nella loro umanità e di figlie identificate con la rassegnazione materna.
Tuttavia, pensiamo che l'attitudine millenaria delle donne a sopravvivere gestendo gli affetti degli altri, a muoversi in dimensioni irrazionali, implichi comunque un rapporto intuitivo con il reale "nucleo dell'essere", con un'identità umana che non coincide esattamente con la razionalità.
E' affascinante, in effetti, ricostruire quanto la ricerca sulla mente non cosciente in Europa sia una storie di donne. Donne che sfidavano il loro medico a seguirle sul terreno scivoloso delle dinamiche inconsce.
La sfida attuale potrebbe essere quella di verificare se il rapporto intuitivo delle donne con l'identità preverbale dell'essere umano possa liberarsi dall'intento di rivalsa, e distruzione.
Se ciò riuscisse potrebbero aprirsi nuovi scenari: di donne che esercitano il potere decisionale spostando la prospettiva. Dalla realizzazione di un'identità sociale che è basata su competitività ed esclusione ‑ "la poltrona è mia o è tua" ‑ alla realizzazione di un'identità interna che per essere tale, ha bisogno che si realizzi anche l'altro: vita mea vita tua.
giovedì 10 maggio 2007
il Riformista 10.5.07
Evoluzione. Due libri di Pievani riportano il dibattito sul piano scientifico
Il dio degli spaghetti vale quanto quello di Bush
Il vero disegno intelligente è l’attacco politico da parte dei poteri cattolici alla ricerca. Ma perché esiste il reato di vilipendio alla religione e non quello di diffamazione della scienza?
di Massimiliano Parente
Succede che la parola, il suo valore, il suo rapporto con le cose conti sempre meno, e che qualsiasi parola equivalga a qualsiasi altra, e che perfino sulla politica internazionale il pensiero della Parietti, della Borromeo o dell’ultimo tronista valga quanto quella di Angelo Panebianco o Bernard Lewis. A questo siamo ormai abituati. Ma perfino per la scienza vale lo stesso discorso, perché, nel nome del multiculturalismo e del politicamente corretto, «le opinioni vanno rispettate», tutto è opinabile, controvertibile, suscettibile di urtare le suscettibilità altrui. Sul Foglio si leggeva l’ennesimo articolo neocreazionista, spacciato per discussione scientifica. Sono andati a rispolverare Barbara King, la solita fideista travestita da darwinista convinta, peccato che il suo darwinismo si fermi ai primati, per dire che «Dio c’è», anzi non può non esserci, come si legge sui cartelli delle autostrade, e cercare di dimostrare che biologia e religione sono compatibili, così come, per le varie Chiese, le religioni tra di loro, pur ciascuna, stranamente, con la sua verità assoluta. Ci prova ogni giorno anche il Corriere della Sera, un colpo al cerchio creazionista e uno alla botte evoluzionista, con la tendenza a considerarle un’unica botte da cui bere un unico vino conciliatore, e perfino il Domenicale riesuma vecchie vulgate già confutate dallo stesso Darwin ai suoi tempi, scrivendo in prima pagina «noi non veniamo dalla scimmia».
I più furbi, i credenti pseudoscientisti, praticanti o meno, i religiosi occidentalizzati che vivono come gli atei e la nuova schiatta degli atei devoti, si oppongono a una scienza “dogmatica”, che non esiste se non nella loro testa e nella loro strategia propagandistica, perché la scienza non è dogmatica per definizione. La verità, non rivelata, è che i fatti esistono, esistono quando abbiamo bisogno di un medico, esistono quando Berlusconi vola a Cleveland e ci vola col cuore in mano e non a farsi benedire, esistono quando non potremmo ammettere, in un processo, che il piccolo Samuele è stato ucciso dal diavolo, esistono quando dividiamo il vero dall’inverosimile, quando dubitiamo, per riprendere un’immagine di Bertrand Russell, che possa esistere una teiera cinese in orbita intorno al sole. Ma, nel caso e nell’assurdo si volesse sostenere, dovrebbe provarlo chi lo sostiene a chi dice che è impossibile, non il contrario. Mentre c’è un forte e sempre più invadente movimento politico-interreligioso che punta a screditare la scienza, e con essa il concetto di verità, confondendo continuamente la verità con la verità rivelata.
E così, mentre nei paesi anglossassoni diventa bestseller The God Delusion, l’ultimo saggio di Richard Dawkins, il più grande evoluzionista vivente, che va in televisione a parlarne e ne discute al Late Late Show, in Italia prosegue il retorico giochino di società tra credenti e finti non credenti, tra verità supposte e supposte di verità religiose, e nell’idea non del conflitto ma della conciliabilità di qualsiasi cosa con qualsiasi altra. E per fortuna ci sono libri come quelli di Telmo Pievani, del quale ne escono due contemporaneamente, Creazione senza Dio (Einaudi) e In difesa di Darwin (Bompiani), e peccato non ci siano, come negli Stati Uniti, trasmissioni serie in cui parlarne ma solo la Perego che stringe la mano commossa all’esorcista. Pievani direbbe nel suo ultimo libro agile ma denso, incazzato ma equilibrato, cose scontate, se le cose scontate non fossero diventate inerti e svuotate nell’indifferenza del pensiero postmoderno e disciolte nel chiacchiericcio mediatico.
La premessa è impressa sulla copertina di Creazione senza Dio, ovvia per chi ha un minimo di amor scientifico e buon senso holbachiano ma che oggi occorre ribadire a caratteri cubitali su fondo bianco: «L’evoluzione è un fatto. Chi si scaglia contro Darwin non lo fa per amore di verità. Chi vorrebbe insegnare nelle scuole il teorema del “disegno intelligente” ha in mente una società antimoderna, condizionata da valori pervasivi e dogmatici». O nella quarta del saggio In difesa di Darwin, perfino più efficace per il taglio serio ma anche satirico, dove Pievani comincia con il raccontare un grottesco risveglio: «Una mattina ci siamo svegliati e l’evoluzione non c’era più. Non è che ci fosse stato, prima, un dibattito, una proposta, un avviso, una provocazione, anche solo uno sberleffo: guardate che adesso togliamo Darwin dai programmi delle scuole, il vecchio naturalista inglese ha i giorni contati. No, nulla di tutto ciò. Abolito, punto. E qui comincia una rocambolesca storia di provincialismo culturale».
È un dibattito che in Italia, e non solo, vuole apparire come una normale disputa di punti di vista, ma così non è. Come spiega Pievani c’è un preciso disegno, questo sì intelligente, di attacco politico alla ricerca scientifica da parte dei poteri politici cattolici su presupposti antiscientifici. Non solo Vittorio Matthieu può scrivere ancora oggi che il neodarwinismo è una religione, e che «l’occhio non nasce da una singola mutazione: nasce da una serie di molte mutazioni casuali (...). La probabilità che queste, appunto perché casuali, si presentino tutte insieme è praticamente nulla». Si tratta di obiezioni dettate o dall’ignoranza o dalla malafede per far passare la fede, perché nulla di ciò che scrive Matthieu ha un senso scientifico, eppure costringe gli scienziati a rispondere mettendosi sullo stesso piano del delirante interlocutore. Per questa ragione Richard Dawkins e Stephen J. Gould siglarono un patto per non andare più a dibattiti con i neocreazionisti.
Eppure, nel frattempo, George W. Bush, ha autorizzato l’insegnamento della dottrina intelligente nella scuole americane, sotto l’alibi della libertà di confronto tra diverse “scuole di pensiero”. Ossia non ci sono fatti, solo opinioni. «Richard Dawkins», commenta Pievani, «ha fatto notare che sarebbe sbagliato mettere sullo stesso livello il credere all’esistenza di un essere supremo e il non credervi, come se fosse una scelta soggettiva e indifferente. Da un punto di vista logico, infatti, la teoria dell’esistenza di un disegno superiore è del tutto implausibile, mentre il suo contrario non lo è». Non si può trovare un punto di incontro tra scienza e fede (ammesso di riuscire a capire e spiegare cosa è la fede, perché non appena se ne parla non si sa più cos’è, già la parola definisce un controsenso logico). Pievani commenta che «esiste il reato di vilipendio della religione, ma non quello di diffamazione della scienza. Si potrebbe rispondere: perché l’infibulazione è un’offesa al corpo delle donne, mentre chi crede nella terra piatta non fa del male a nessuno. È vero, ma siamo sicuri che mandare il proprio figlio in una scuola privata dove si insegna la teoria che la Terra è piatta perché così è sancito nelle Scritture non comporti un danno piuttosto serio per l’educazione?».
Pertanto, se saltano i parametri logici e si tutelano le opinioni e le “scuole di pensiero”, non possiamo non dare pari dignità di opinione e di pensiero anche alla setta cibernetica del “Flying Spaghetti Monster”, il mostro volante degli spaghetti, fondata da un giovane laureato in fisica, Bobby Henderson. «La protesta di Henderson è ineccepibile» dice Pievani, e è difficile dargli torto. «La sua alternativa, nello specifico, è fondata sulla credenza di un dio degli spaghetti che ha previsto e creato tutto». D’altra parte, in termini di verità, non si capisce perché debba essere più vero il Dio di Bush, quello di Ratzinger, quello che fa ingoiare un’ostia che si transustanzia nel corpo di Cristo, di quello degli spaghetti o del dio che se ti fai esplodere in un ristorante ti manda in paradiso con settanta vergini pour l’éternité.
l’Unità 10.5.07
Sinistra democratica sbarca in Europa
ROMA Sinistra Democratica sbarca anche in Europa. Nel corso di una conferenza stampa al Parlamento europeo di Bruxelles, gli europarlamentari Claudio Fava, Giovanni Berlinguer, Pasqualina Napoletano e Giulietto Chiesa, hanno presentato «Sinistra Democratica per il socialismo europeo» un’area politica costituita all’interno della delegazione italiana del Pse che ha lo scopo di fornire un contributo «forte e significativo» al progetto di Fabio Mussi, per la creazione di una sinistra antagonista al Partito Democratico di Piero Fassino e Francesco Rutelli. «Il cantiere per una sinistra unita proposto in questi giorni in Italia potrà contare a Bruxelles su un laboratorio politicamente avanzato», ha assicurato Claudio Fava (Ds), coordinatore dell’iniziativa. «In questi anni abbiamo sviluppato con gli altri europarlamentari italiani della sinistra e dell’area ambientalista consuetudini di lavoro che adesso intendiamo consolidare».
l’Unità 10.5.07
«L’Unità» fa una domanda E Pezzotta si irrita...
ROMA Domanda della cronista dell’Unità a Savino Pezzotta: «Quanto è costato organizzare il Family Day e chi lo ha finanziato?».
Risposta: «Me l’aspettavo questa domanda. Lo chieda a un sindacato a lei vicino quanto costa organizzare una manifestazione».
«Agli organizzatori del Family Day chiedo quanto è costato il Family Day, non al sindacato».
Pezzotta: «C’è un retropensiero in questa domanda».
Cronista: «È legittimo o no fare domande di questo tipo?». Pezzotta: «Lo chiederebbe per un’altra manifestazione?».
Cronista: «Sì».
Pezzotta: «Abbiamo aperto una larga sottoscrizione, chi viene si finanzia singolarmente la propria partecipazione, non come avviene per altri eventi». Eugenia Roccella, co-portavoce del family interviene: «Tanto per capirci, non utilizziamo l’8 per mille destinato alla Chiesa, questo evento è stato finanziato dalle 23 associazioni che hanno aderito a cui fanno riferimento altre 47 associazioni, tutte con regolare bilancio. Il Forum delle Famiglie ha anche acceso un mutuo per far fronte alle spese». All’8 per mille nessuno ha fatto riferimento. Alla fine quanto è costato il Family day non si sa. Savino Pezzotta è visibilmente contrariato per la domanda e non fa nulla per nasconderlo. Lui, lunga storia di sindacalista, ne ha di familiarità con le manifestazioni, «ma stavolta è diverso, non ci sarà neanche il servizio d’ordine». E non ci sta a sentirsi dire che c’è chi vede l’ombra lunga del Vaticano stesa sopra piazza San Giovanni. Perciò a chi pone la questione risponde: «Non vedo perché ci dovrebbe essere l’ingerenza della Chiesa, probabilmente qualcuno dovrebbe cambiare gli occhiali. La nostra - precisa alzando il sopracciglio - è una piazza laica: ci riferiamo al concetto di famiglia come è scritto nell’articolo 29 della Costituzione. Come si può notare io non porto né la mitra, né il piviale». Come si può notare sono sempre meno gradite le domande dei giornalisti. m.ze.
Repubblica 10.5.07
Farà concorrenza a quella dell'Unità. Primi appuntamenti a Orvieto e Livorno il mese prossimo
E la sinistra di Mussi lancia la "Festa d'Aprile"
Ds già al lavoro per la kermesse nazionale che quest´anno torna a Bologna
di Goffredo De Marchis
ROMA - Nascerà a giugno ma si chiamerà Festa d´Aprile. Sarà la kermesse di Sinistra democratica, la costola dei diessini anti-Partito democratico guidata da Mussi e Angius. Aprile come il giornale on line dell´ormai ex correntone della Quercia. Ma anche, simbolicamente, "Festa d´Aprile" come una celebre canzone della Resistenza scritta dal partigiano Franco Antonicelli. «Forza che è giunta l´ora, infuria la battaglia per conquistare la pace, per liberare l´Italia; scendiamo giù dai monti a colpi di fucile; evviva i partigiani! È festa d´Aprile», recita il ritornello. Il mese prossimo i primi due appuntamenti: ad Orvieto e a Livorno, la città della prima grande scissione della sinistra italiana. Saranno manifestazioni organizzate a livello locale. In queste ore invece il gruppo dirigente pensa al grande momento d´incontro nazionale da celebrare dopo l´estate. In concorrenza con la festa dell´Unità.
La tradizionale iniziativa che fu del Pci e ora è dei Ds non scompare, anche se il Pd è alle porte. Il tesoriere del Botteghino Ugo Sposetti lo ripetuto in tutte le salse, anche nel modo brusco che gli è congeniale. «La festa non si tocca. È un marchio che funziona da decenni. È come la Nutella, guai a chi la mette in discussione». A Via Nazionale, la sede della Quercia, sono già partite le riunioni tecniche per preparare il terreno a un appuntamento che giocoforza non potrà essere lo stesso di sempre. Dovrà tenere insieme la passione dei militanti di sinistra per un appuntamento identitario e il futuro che corre verso il Pd. Ed è proprio questo che preoccupa i Ds. La fase di transizione rischia infatti di appannare il significato della festa, di raffreddare il calore della gente diessina e dunque di ridurre in parte il prezioso contributo dei volontari. Volontari, per meglio dire, indispensabili. Per il successo della festa, che però non è solo d´immagine, ma rappresenta una fonte di finanziamento consistente per i Ds. Questa festa in mezzo al guado (la kermesse nazionale torna a Bologna dopo aver girato un po´ l´Italia, nel capoluogo emiliano gli incassi sono più garantiti) dunque va studiata per bene.
Nelle difficoltà diessine cercano di infilarsi i transfughi. La festa d´Aprile, per loro vuole dire anche un lancio in grande stile del movimento Sinistra democratica, la possibilità di farsi conoscere e un luogo, più luoghi, dove raccogliere adesioni e fondi. I soldi sono il primo scoglio. Con la costituzione dei gruppi parlamentari (la prossima settimana verranno eletti i presidenti) la nuova forza potrà contare su un fido di 600 mila euro solo per la Camera. Cioè la cifra che deriva dai contributi ai singoli parlamentari (in tutto saranno 24) durante l´anno. Poi ovviamente vanno reperiti altri finanziamenti. E tra i primi impegni di Sd c´è la ricerca di un tesoriere. Ma oltre ai problemi tecnico-organizzativi, Sinistra democratica è alle prese con il primo braccio di ferro della sua storia, quello sul capogruppo della Camera. Al Senato è certa l´investitura di Cesare Salvi, dissidente che da tempo guarda a sinistra, in particolare a Rifondazione. A Montecitorio, per mantenere l´equivicinanza con i socialisti, l´ex Psi Valdo Spini è deciso a giocare fino in fondo le sue chance. Sul nome di Spini però si è aperta una lotta intestina. Molti giurano che con il voto segreto quel nome non passerebbe mai. Le donne di Sd, che sono molte, chiedono un segnale di rinnovamento e una compagna alla presidenza del gruppo. I nomi sono quelli di Fulvia Bandoli o Katia Zanotti. Spini però è stato netto: se non fa il capogruppo lascia Sinistra democratica. E apre una questione politica dentro il neonato movimento che punta a un dialogo aperto a tutto campo con le forze di sinistra.
Repubblica 10.5.07
Italiani sempre più distanti dai precetti della Chiesa. Rapporto sulla secolarizzazione su Critica liberale
La famiglia cattolica in declino calano battesimi e nozze religiose
di Francesco Bei
ROMA - Se persino Pier Ferdinando Casini arriva a giudicare «desueti» alcuni precetti della Chiesa, non c´è da stupirsi se, nel suo complesso, la società italiana si sia da tempo incamminata sulla strada della secolarizzazione. E´ un processo inesorabile quello del progressivo distacco degli italiani dalle indicazioni delle gerarchie in materia di famiglia, sesso, educazione dei figli, sacramenti. E c´è anche chi si è preso la briga di misurare la larghezza di questo fossato, inventandosi un indice per misurare la "de-cattolicizzazione" del Paese. Nell´ultimo numero di "Critica liberale" viene presentato infatti il «terzo rapporto sulla secolarizzazione», che conferma la difficoltà crescente del Vaticano a sintonizzarsi con la vita reale delle persone. «Si sbaglia - scrive il direttore Enzo Marzo - chi si ferma alle apparenze e si convince che la Chiesa cattolica stia vivendo un momento di trionfo. E´ il contrario. La gerarchia più avvertita sa che la Chiesa ha difficoltà ovunque».
Le cifre, tutte ufficiali e, per lo più, di fonte vaticana confermano infatti che, nonostante la prova di forza del Family-day, il secolo avanza. «La percentuale dei bambini con età inferiore a un anno che sono stati battezzati, rispetto al totale dei nati vivi, mostra tra il ‘91 e il ‘98 un andamento altalenante, che oscilla tra il massimo di 89,9% del ‘91 e il minimo di 85,8% del ‘96. In seguito - si legge nella ricerca di Silvia Sansonetti della Sapienza - la percentuale appare in diminuzione costante, assestandosi nel 2004 a 77,5%, con una perdita di più di tredici punti percentuali rispetto al 1994». Un´altra serie storica, quella dei matrimoni cattolici, fotografa lo stesso declino, con una diminuzione tra l´87,7% del 1991 e il 79,5% del 2004. All´opposto «la percentuale dei matrimoni celebrati solo civilmente sul totale dei matrimoni è in crescita continua, passando dal 17,5% del ‘91 al 31,2% del 2004. In aumento è anche il numero assoluto delle libere unioni (207 mila nel 1993 e 556 mila nel 2003, ultimo anno disponibile)». In costante crescita anche le separazioni civili, i divorzi, tanto che, notano i ricercatori, «si delinea una crescente indifferenza al modello di famiglia proposto dalla Chiesa cattolica».
Da questa montagna di dati Renato Coppi, ordinario di Statistica Multivariata alla Sapienza e Laura Cammarana, ricercatrice del Caspur di Roma, hanno estrapolato 25 indicatori di base, raggruppandoli poi in quattro aree: pratica religiosa, adesione alle indicazioni della Chiesa, organizzazione ecclesiastica, scelte nell´istruzione. Il risultato finale è «l´Indicatore generale di secolarizzazione» che pubblichiamo nel grafico di sinistra. Gli scienziati, in parallelo, hanno costruito anche un «Indicatore di presenza istituzionale della Chiesa», sulla base del numero delle scuole cattoliche, case di cura, centri di difesa della vita, tiratura delle opere religiose, ecc. E´ la presenza sul territorio della Chiesa (grafico di destra), che aumenta al crescere della secolarizzazione. «Si può immaginare - spiegano a questo proposito gli studiosi - che la Chiesa cattolica, consapevole della dinamica crescente del processo di secolarizzazione, tenti di fornire una risposta anche sul piano dell´offerta istituzionale». I risultati, tuttavia, «non appaiono al momento positivi».
Corriere della Sera 10.5.07
Giordano: «Oggi mi sento leader dell’opposizione»
S'incrina l'asse Prodi-Prc Giordano: serve collegialità o rischia la coalizione
Il leader di Rifondazione: i conti? Se ne fa un uso terroristico Parte il negoziato nella maggioranza per fermare lo sciopero
di Maria Teresa Meli
ROMA - «Oggi mi sento un leader d’opposizione»: quella di Franco Giordano è una battuta, è ovvio, ma la dice lunga sul sentimento - anzi, sul risentimento - di Rifondazione comunista nei confronti di Tommaso Padoa-Schioppa. Il leader del Prc è uso misurare le parole, ma questa volta non si trattiene, e avverte: «Così si rischia la rottura della coalizione». Insomma, per dirla in modo esplicito, mai e poi mai Rifondazione potrà votare una riforma delle pensioni che preveda i punti enunciati dal ministro dell’Economia. «Se andiamo avanti di questo passo - prosegue Giordano - arriveremo in rotta di collisione». Non che il Prc non si renda conto che una mossa del genere equivarrebbe a un’uscita dal governo, alla rottura dell’attuale maggioranza. Però oltre quell’asticella Giordano non può andare.
Ma quel che fa più arrabbiare la sinistra è l’idea che «Padoa-Schioppa dica una cosa, che l’Ulivo decida di conseguenza qual è la strada da intraprendere, e che alla fine, solo alla fine, venga chiamato il Prc per fare qualche emendamento a una riforma già stabilita in altre sedi». Giordano se la prende con il ministro dell’Economia, non solo per le pensioni. Anche sull’utilizzo del cosiddetto tesoretto il leader del Prc ha qualcosa da dire a Padoa-Schioppa che «vuole lasciare solo le briciole per la redistribuzione». Ma, tornando alle pensioni, il segretario di Rifondazione non può accettare «una riforma della previdenza che non è nel programma dell’Unione: su questo non transigo».
Secondo il leader del Prc, Padoa-Schioppa «fa un uso terroristico dei conti di cui si vuole occupare solo lui, perché ha già deciso di destinare la maggior parte di quei fondi al risanamento del debito e di dare solo gli spiccioli per chi ne ha bisogno, mentre ha dato tanto agli industriali». Sarà anche così, insomma, sarà pur vero che il ministro dell’Economia è «autistico», come dicono scherzando a Rifondazione, fatto sta che Prodi non lo ha smentito: che fine ha fatto il tanto decantato asse tra il Prc e il presidente del Consiglio? «E infatti - replica secco Giordano - chiedo la collegialità sulle politiche economiche (come del resto la chiedo su tutto) proprio perché voglio sapere, ufficialmente e direttamente da Prodi quale è il suo orientamento sulle pensioni. E comunque, sia il premier, che i dirigenti dell’Ulivo, devono sapere che noi non ci vogliamo trovare di fronte al fatto compiuto». «Noi - rincara il leader di Rifondazione - siamo molto irritati».
Per farla breve, se quella delineata da Padoa-Schioppa è la riforma delle pensioni che il governo intende mettere in atto, o anche se è solo la metà di quello che il ministro dell’Economia intende mettere in atto, Rifondazione voterà no. Anche a costo di mettere in fibrillazione la maggioranza. Ma il Prc teme di peggio. Ossia, ritiene che Padoa-Schioppa «abbia alzato il prezzo» soltanto per uno scopo, cioè quello di ottenere il mantenimento dello scalone previsto dalla legge Maroni. Quella è una riforma già fatta, e quindi non c’è bisogno alcuno di un altro voto in Parlamento. «E’ vero - spiega Giordano - su quello non si vota perché è una legge già approvata: ma dubito che il sindacato possa far passare una cosa del genere e, comunque, non la farà passare il nostro elettorato, e, quando intendo nostro, non penso a quello di Rifondazione, ma all’elettorato di tutta l’Unione che ci ha votato sulla base di un programma che prevedeva, nero su bianco, l’abolizione dello scalone».
E’ guerra? E’ crisi? No, piuttosto si è aperta una trattativa, che comunque facile non sarà. Rifondazione spera nella tenuta del sindacato, che però unitissimo non è. E confida anche nel fatto che comunque l’Ulivo con Padoa-Schioppa non è in idilliaci rapporti. Non per la questione delle pensioni. Ma, ad esempio, la Margherita è imbufalita per la riforma dell’Ici, su cui il ministro dell’Economia frena. E ancora: non c’è un partito, nell’Unione, che non si sia accorto che alcune leggi non passano perché Padoa-Schioppa non dà il parere sulla copertura finanziaria. «Mi dicono che c’è persino una legge per i fondi alla lotta all’Aids è rimasta arenata tanto tempo per questo motivo», commenta il capogruppo di Rifondazione alla Camera Gennaro Migliore. Il quale, però, è convinto, che alla fine «il ministro dell’Economia non potrà vincere questa partita, perché ha contro tutti: dalle forze politiche ai sindacati. Ha contro anche l’opinione pubblica, per quanto quella non pare che gli interessi tanto. Ma comunque uno sciopero generale neanche Padoa se lo può permettere».
Liberazione 10.5.07
Il sottosegretario alla Giustizia interviene dopo le cifre del viminale che parlano di 2mila reati in più: «Le analisi statistiche serie si fanno in tempi medio-lunghi»
Manconi: «I dati sull'indulto? Irresponsabili e superficiali»
di Davide Varì
«Si sono moltiplicati i crimini dopo ed a causa dell'indulto? Con la stessa sicurezza potrei dire che nello stesso periodo sono diminuiti gli infaticidi ma non per questo penso ad una correlazione tra i due eventi». Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia e sociologo, ha pochi dubbi: «Le analisi di questi giorni relative all'indulto sono superficiali, irresponsabili e del tutto inattendibili». Secondo Manconi non ha nessun senso considerare un periodo di tempo di tre mesi: «Come insegna qualunque criminologo tutte le statistiche vanno lette con prudenza e soprattutto in una serie storica di medio-lungo periodo».
Eppure la polemica sull'indulto non sembra placarsi, anzi. Non basta neanche il dato sulla recidiva - un termine da patologo che sta ad indicare il tasso degli ex detenuti che commettono di nuovo reato - che parla di un 12%, di recidiva, appunto, contro il 60% abituale, fisiologico come direbbero gli addetti ai lavori. In tutto questo, ed è forse questo il vero problema da affrontare, la grande questione della depenalizzazione dei reati minori che determinerebbe un minor ingolfamento delle carceri e delle aule di tribunale: in Italia un processo medio dura non meno di 10 anni.
Del resto anche il presidente della repubblica Napolitano ha ribadito la necessità di punire con il carcere «solo chi commette reati particolarmente pericolosi». Un'affermazione non facile in tempi come questi, in tempi in cui sbandierare l'insicurezza e la necessità della tolleranza zero è diventato l'hobby preferito di mezzo ceto politico nostrano.
Insomma professor Manconi, questo indulto ha davvero reso l'Italia un Bronx?
Se noi consideriamo i dati con superficialità, ignorando una serie storica attendibile, potremmo avere dei singolarissimi risultati: leggendo la tabella del Viminale senza indagare in maniera intelligente e senza leggere il contesto, potremmo pensare ad effetti davvero strani di questo indulto. Per esempio, nel trimestre agosto-ottobre 2006 - il trimestre immediatamente successivo all'approvazione dell'indulto - un delitto terribile e grave come l'infanticidio risulta ridotto del 66%. Se non fossi persona responsabile direi che l'indulto avrebbe un effetto terapeutico e provvidenziale sui genitori che vogliono sopprimere i propri figli, tutto questo se fossi irresponsabili. Lo stesso irresponsabile gioco potrebbe essere fatto chessò assumendo come riferimento al fattispecie della rapina ai rappresentanti di preziosi. Ecco, nel trimestre agosto-ottobre 2004 le rapine sono state 21, nel 2005 1 e nel 2006 2. A questo punto dovrei dire che le rapine sono raddoppiate passando da 1 a 2 a causa dell'indulto. Insomma, voglio dire che, come insegna qualunque criminologo ,tutte le statistiche criminali vanno lette con prudenza e soprattutto in una serie storica di medio-lungo periodo.
Poi c'è il dato della recidiva: secondo i dati del viminale solo il 12% degli ex detenuti indultati ha commesso nuovi reati, contro il 60% della media abituale.
In effetti la recidiva ordinaria e fisiologica, quella registrata tra coloro che arrivano a fine pena senza sconti e benefici, oscilla tra il 60 ed il 68%. Noi dopo nove mesi di indulto siamo al 12%. E soprattutto vorrei sottolineare che il tasso di crescita mensile è tale che ricorrendo a qualsiasi proiezione possiamo star certi che non si arriverà mai a quella del tasso fisiologico.
Le ragioni di questo calo della recidiva?
La gran parte delle persone che hanno beneficiato dell'indulto sanno bene che in caso di recidiva rischiano di dover scontare la pena condonata più quella relativa al nuovo reato.
Dunque che idea si è fatto dell'indulto? Che giudizio ne dà?
Il mio è un giudizio è incondizionatamente positivo. E' stato un provvedimento che ha prodotto esiti virtuosi di fondamentale importanza e dunque la mia valutazione coincide perfettamente con quella del capo dello stato: una misura eccezionale ma indispensabile: un carcere così sovraffollato non si limitava a mortificare la dignità di quanti vi si trovavano custodi o custoditi, ma rappresentava un ostacolo insormontabile per qualunque progetto di riforma dell'intero sistema penitenziario e del complessivo sistema della giustizia.
Su tutto la riforma del sistema penale. In Italia abbiamo un record di reati puniti con la galera...
Anche qui devo ripetere le parole del capo dello stato del quale, come si vede, sono un piccolo fan. Anche su questo il presidente Napolitano si rivela intellettualmente coraggioso: mentre infuria la polemica sulla sicurezza, ha infatti la coerenza di ribadire che il carcere va considerato una soluzione estrema, destinata a coloro che sono responsabili di reati che suscitano allarme sociale.
A proposito di sicurezza, sembra che in Italia ci sia un gara ad appropriarsi del tema della sicurezza, anche tra molte personalità del nascente Piddì...
Le reazioni nascono da dati oggettivi di un'attività criminale evidente. Per come è organizzata la nostra società i costi ricadono sulle fasce deboli della popolazione che convivono con gli stranieri. Di fonte a queste cose ci sono due scelte possibili: elaborare politiche razionali di investimenti sociali di mediazione delle contraddizioni sociali - che non eliminano i problemi ma consentono di controllarli - e contenere l'eplosività; oppure si può scegliere di galvanizzare sentimenti di allarme: in Italia, soprattutto a destra ma anche a sinistra, è pieno di imprenditori-politici della paura. La politica deve stare attenta a disinnescare i conflitti interetnici elaborando politiche della sicurezza che non siano esclusivamente di ordine simbolico. La tolleranza zero in determinate condizioni può perfino essere efficace, ma dal momento che non aggredisce le cause ha un esito effimero.
Agi 10.5.07
Coraggio laico: Riccardo Lombardi, la vita cristiana non si impone
(AGI) - Roma, 10 mag - "Non ho mai sentito dire che la Dc proponga di introdurre una legge che obblighi i ricchi a spogliarsi dei loro beni per darli ai poveri: è pertanto giusto battersi contro la violenza imposta dal referendum e ribellarsi alla pretesa che la vita cristiana debba essere imposta dalla legge dello Stato".
Era il 24 aprile 1974 e così Riccardo Lombardi parlava del referendum contro la legge sul divorzio, dopo aver rifiutato il confronto con un esponente del Msi-Dn, come da sorteggio per le tribune referendarie trasmesse dalla rai e che iniziavano proprio quel giorno.
"La Costituzione sancisce - esordì Lombardi - il diritto di manifestare il proprio pensiero nel colloquio, nella discussione ma sul terreno democratico e, secondo la Costituzione, il terreno democratico e’ contrassegnato dall’accettazione dei valori della Resistenza e quindi del 25 Aprile”. L’acomunista per antonomasia chiarì ai telespettatori: “noi siamo disposti al dibattito ed anzi, lo sollecitiamo con tutti gli avversari più risoluti anche con coloro che sono stati fascisti nel passato: ma non con coloro che agiscono da fascisti oggi servendosi della libertà conquistata il 25 aprile per distruggerla”.
Pertanto con l’Msi-Dn “noi non abbiamo nulla da dire e nulla da ascoltare”, precisò il primo prefetto della Milano liberata dal nazifascismo.
Poi in merito al referendum sul divorzio voluto fortemente da Amintore Fanfani e dalle gerarchie ecclesiastiche e poi appoggiato dal Msi-Dn, fece riferimento al “Vangelo: suggerisce ai ricchi di spogliarsi dei propri beni e darli ai poveri, di offrire l’altra guancia a chi ha percosso sulla prima: bene, non ho mai sentito dire che la Dc proponga di introdurre una legge che obblighi i ricchi a spogliarsi dei loro beni per darli ai poveri”. Allora c’è da chiedersi “perché solo in campo matrimoniale si vuole imporre con la forza della legge”, quella che per i cristiani è “una virtù e un modello eccezionali”, l’indissolubilità del matrimonio. “L’indissolubilità del matrimonio è un fatto di coscienza individuale che non può esser imposto o demandato da nessuna autorità civile”, concluse Lombardi, facendo appello al buon senso della gente che il 12 maggio respinse col 59,3% dei voti il referendum sul divorzio sancendo così il primato dello Stato Laico sulla ‘credenza’ religiosa. Agi - Carlo Patrignani
Agi 10.5.07
Coraggio laico: il Riformista e i tanti 'Scomunicatemi'
(AGI) - Roma, 10 mag. - Partita, con un’indubbia dose di coraggio per la sfida in essa contenuta, è via via cresciuta la inusuale richiesta ‘scomunicatemi’ ed il quotidiano che l’ha ospitata, ‘il Riformista’, si è ritrovato inondato di lettere.
“Vorrei essere scomunicato dalla Chiesa cattolica” ha scritto sabato 5 maggio, Paolo Izzo, spiegando che lui e la sua compagna sono “una coppia di fatto” e entrambi “atei: siamo a favore della contraccezione, dell’amniocentesi, della fecondazione assistita ed eterologa, dell’aborto, della ricerca sulle cellule staminali embrionali, dell’eutanasia”. Scrittore per hobby e passione, Izzo aggiungeva: “preferiamo pensare invece di credere. Pensiamo a una nascita umana sana, senza perversioni, senza peccato originale”. La conclusione di Izzo è stata: “vogliamo pensare alle donne e agli uomini come noi, occuparci dei nostri bisogni e delle nostre esigenze di esseri umani, fatti di psiche e di biologia e nati non prima di aver visto la luce con i nostri occhi. Può bastare? A chi devo rivolgermi per formalizzare la questione?”.
Il giorno dopo arrivano a ‘il Riformista’ numerose lettere di plauso e consenso e ancora il giorno successivo. “Sono una donna separata da oltre dieci anni - ha scritto mercoledì 9 Annamaria Dipiazza - sono atea e sono a favore di tutto ciò già detto nella lettera ‘scomunicatemi’. La Chiesa non si limita - aggiungeva Annamaria - all’esercizio spirituale, esercita un potere di estrema violenza su tutti gli esseri umani”. E Paola Capitani sempre lo stesso giorno chiedeva “come Paolo anch’io voglio esser scomunicata e come me ci sono altre persone che si riconoscono in quanto riportato nella lettera del 5 maggio”. E Simone Meschino è d’accordo: “chiedo di essere scomunicato perché profondamente convinto di essere innanzitutto nato e poi nato libero e sano, senza nessunissima forma endemica di peccato... Per questo e molto altro... scomunicatemi”.
Se c’è chi non è d’accordo come Pietro Parodi da Genova che parla oggi di “infantilismo dei miei 18 anni (quando, racconta, voleva esser ‘sbattezzato’) lo stesso infantilismo pare diffuso tra gente che avrebbe dovuto raggiungere da un pezzo la maturità di pensiero, oltre che scolastica”, c’è poi Francesco Marmorato d’accordo con la richiesta ‘scomunicatemi’. (AGI) Pat 101755 MAG 07
Evoluzione. Due libri di Pievani riportano il dibattito sul piano scientifico
Il dio degli spaghetti vale quanto quello di Bush
Il vero disegno intelligente è l’attacco politico da parte dei poteri cattolici alla ricerca. Ma perché esiste il reato di vilipendio alla religione e non quello di diffamazione della scienza?
di Massimiliano Parente
Succede che la parola, il suo valore, il suo rapporto con le cose conti sempre meno, e che qualsiasi parola equivalga a qualsiasi altra, e che perfino sulla politica internazionale il pensiero della Parietti, della Borromeo o dell’ultimo tronista valga quanto quella di Angelo Panebianco o Bernard Lewis. A questo siamo ormai abituati. Ma perfino per la scienza vale lo stesso discorso, perché, nel nome del multiculturalismo e del politicamente corretto, «le opinioni vanno rispettate», tutto è opinabile, controvertibile, suscettibile di urtare le suscettibilità altrui. Sul Foglio si leggeva l’ennesimo articolo neocreazionista, spacciato per discussione scientifica. Sono andati a rispolverare Barbara King, la solita fideista travestita da darwinista convinta, peccato che il suo darwinismo si fermi ai primati, per dire che «Dio c’è», anzi non può non esserci, come si legge sui cartelli delle autostrade, e cercare di dimostrare che biologia e religione sono compatibili, così come, per le varie Chiese, le religioni tra di loro, pur ciascuna, stranamente, con la sua verità assoluta. Ci prova ogni giorno anche il Corriere della Sera, un colpo al cerchio creazionista e uno alla botte evoluzionista, con la tendenza a considerarle un’unica botte da cui bere un unico vino conciliatore, e perfino il Domenicale riesuma vecchie vulgate già confutate dallo stesso Darwin ai suoi tempi, scrivendo in prima pagina «noi non veniamo dalla scimmia».
I più furbi, i credenti pseudoscientisti, praticanti o meno, i religiosi occidentalizzati che vivono come gli atei e la nuova schiatta degli atei devoti, si oppongono a una scienza “dogmatica”, che non esiste se non nella loro testa e nella loro strategia propagandistica, perché la scienza non è dogmatica per definizione. La verità, non rivelata, è che i fatti esistono, esistono quando abbiamo bisogno di un medico, esistono quando Berlusconi vola a Cleveland e ci vola col cuore in mano e non a farsi benedire, esistono quando non potremmo ammettere, in un processo, che il piccolo Samuele è stato ucciso dal diavolo, esistono quando dividiamo il vero dall’inverosimile, quando dubitiamo, per riprendere un’immagine di Bertrand Russell, che possa esistere una teiera cinese in orbita intorno al sole. Ma, nel caso e nell’assurdo si volesse sostenere, dovrebbe provarlo chi lo sostiene a chi dice che è impossibile, non il contrario. Mentre c’è un forte e sempre più invadente movimento politico-interreligioso che punta a screditare la scienza, e con essa il concetto di verità, confondendo continuamente la verità con la verità rivelata.
E così, mentre nei paesi anglossassoni diventa bestseller The God Delusion, l’ultimo saggio di Richard Dawkins, il più grande evoluzionista vivente, che va in televisione a parlarne e ne discute al Late Late Show, in Italia prosegue il retorico giochino di società tra credenti e finti non credenti, tra verità supposte e supposte di verità religiose, e nell’idea non del conflitto ma della conciliabilità di qualsiasi cosa con qualsiasi altra. E per fortuna ci sono libri come quelli di Telmo Pievani, del quale ne escono due contemporaneamente, Creazione senza Dio (Einaudi) e In difesa di Darwin (Bompiani), e peccato non ci siano, come negli Stati Uniti, trasmissioni serie in cui parlarne ma solo la Perego che stringe la mano commossa all’esorcista. Pievani direbbe nel suo ultimo libro agile ma denso, incazzato ma equilibrato, cose scontate, se le cose scontate non fossero diventate inerti e svuotate nell’indifferenza del pensiero postmoderno e disciolte nel chiacchiericcio mediatico.
La premessa è impressa sulla copertina di Creazione senza Dio, ovvia per chi ha un minimo di amor scientifico e buon senso holbachiano ma che oggi occorre ribadire a caratteri cubitali su fondo bianco: «L’evoluzione è un fatto. Chi si scaglia contro Darwin non lo fa per amore di verità. Chi vorrebbe insegnare nelle scuole il teorema del “disegno intelligente” ha in mente una società antimoderna, condizionata da valori pervasivi e dogmatici». O nella quarta del saggio In difesa di Darwin, perfino più efficace per il taglio serio ma anche satirico, dove Pievani comincia con il raccontare un grottesco risveglio: «Una mattina ci siamo svegliati e l’evoluzione non c’era più. Non è che ci fosse stato, prima, un dibattito, una proposta, un avviso, una provocazione, anche solo uno sberleffo: guardate che adesso togliamo Darwin dai programmi delle scuole, il vecchio naturalista inglese ha i giorni contati. No, nulla di tutto ciò. Abolito, punto. E qui comincia una rocambolesca storia di provincialismo culturale».
È un dibattito che in Italia, e non solo, vuole apparire come una normale disputa di punti di vista, ma così non è. Come spiega Pievani c’è un preciso disegno, questo sì intelligente, di attacco politico alla ricerca scientifica da parte dei poteri politici cattolici su presupposti antiscientifici. Non solo Vittorio Matthieu può scrivere ancora oggi che il neodarwinismo è una religione, e che «l’occhio non nasce da una singola mutazione: nasce da una serie di molte mutazioni casuali (...). La probabilità che queste, appunto perché casuali, si presentino tutte insieme è praticamente nulla». Si tratta di obiezioni dettate o dall’ignoranza o dalla malafede per far passare la fede, perché nulla di ciò che scrive Matthieu ha un senso scientifico, eppure costringe gli scienziati a rispondere mettendosi sullo stesso piano del delirante interlocutore. Per questa ragione Richard Dawkins e Stephen J. Gould siglarono un patto per non andare più a dibattiti con i neocreazionisti.
Eppure, nel frattempo, George W. Bush, ha autorizzato l’insegnamento della dottrina intelligente nella scuole americane, sotto l’alibi della libertà di confronto tra diverse “scuole di pensiero”. Ossia non ci sono fatti, solo opinioni. «Richard Dawkins», commenta Pievani, «ha fatto notare che sarebbe sbagliato mettere sullo stesso livello il credere all’esistenza di un essere supremo e il non credervi, come se fosse una scelta soggettiva e indifferente. Da un punto di vista logico, infatti, la teoria dell’esistenza di un disegno superiore è del tutto implausibile, mentre il suo contrario non lo è». Non si può trovare un punto di incontro tra scienza e fede (ammesso di riuscire a capire e spiegare cosa è la fede, perché non appena se ne parla non si sa più cos’è, già la parola definisce un controsenso logico). Pievani commenta che «esiste il reato di vilipendio della religione, ma non quello di diffamazione della scienza. Si potrebbe rispondere: perché l’infibulazione è un’offesa al corpo delle donne, mentre chi crede nella terra piatta non fa del male a nessuno. È vero, ma siamo sicuri che mandare il proprio figlio in una scuola privata dove si insegna la teoria che la Terra è piatta perché così è sancito nelle Scritture non comporti un danno piuttosto serio per l’educazione?».
Pertanto, se saltano i parametri logici e si tutelano le opinioni e le “scuole di pensiero”, non possiamo non dare pari dignità di opinione e di pensiero anche alla setta cibernetica del “Flying Spaghetti Monster”, il mostro volante degli spaghetti, fondata da un giovane laureato in fisica, Bobby Henderson. «La protesta di Henderson è ineccepibile» dice Pievani, e è difficile dargli torto. «La sua alternativa, nello specifico, è fondata sulla credenza di un dio degli spaghetti che ha previsto e creato tutto». D’altra parte, in termini di verità, non si capisce perché debba essere più vero il Dio di Bush, quello di Ratzinger, quello che fa ingoiare un’ostia che si transustanzia nel corpo di Cristo, di quello degli spaghetti o del dio che se ti fai esplodere in un ristorante ti manda in paradiso con settanta vergini pour l’éternité.
l’Unità 10.5.07
Sinistra democratica sbarca in Europa
ROMA Sinistra Democratica sbarca anche in Europa. Nel corso di una conferenza stampa al Parlamento europeo di Bruxelles, gli europarlamentari Claudio Fava, Giovanni Berlinguer, Pasqualina Napoletano e Giulietto Chiesa, hanno presentato «Sinistra Democratica per il socialismo europeo» un’area politica costituita all’interno della delegazione italiana del Pse che ha lo scopo di fornire un contributo «forte e significativo» al progetto di Fabio Mussi, per la creazione di una sinistra antagonista al Partito Democratico di Piero Fassino e Francesco Rutelli. «Il cantiere per una sinistra unita proposto in questi giorni in Italia potrà contare a Bruxelles su un laboratorio politicamente avanzato», ha assicurato Claudio Fava (Ds), coordinatore dell’iniziativa. «In questi anni abbiamo sviluppato con gli altri europarlamentari italiani della sinistra e dell’area ambientalista consuetudini di lavoro che adesso intendiamo consolidare».
l’Unità 10.5.07
«L’Unità» fa una domanda E Pezzotta si irrita...
ROMA Domanda della cronista dell’Unità a Savino Pezzotta: «Quanto è costato organizzare il Family Day e chi lo ha finanziato?».
Risposta: «Me l’aspettavo questa domanda. Lo chieda a un sindacato a lei vicino quanto costa organizzare una manifestazione».
«Agli organizzatori del Family Day chiedo quanto è costato il Family Day, non al sindacato».
Pezzotta: «C’è un retropensiero in questa domanda».
Cronista: «È legittimo o no fare domande di questo tipo?». Pezzotta: «Lo chiederebbe per un’altra manifestazione?».
Cronista: «Sì».
Pezzotta: «Abbiamo aperto una larga sottoscrizione, chi viene si finanzia singolarmente la propria partecipazione, non come avviene per altri eventi». Eugenia Roccella, co-portavoce del family interviene: «Tanto per capirci, non utilizziamo l’8 per mille destinato alla Chiesa, questo evento è stato finanziato dalle 23 associazioni che hanno aderito a cui fanno riferimento altre 47 associazioni, tutte con regolare bilancio. Il Forum delle Famiglie ha anche acceso un mutuo per far fronte alle spese». All’8 per mille nessuno ha fatto riferimento. Alla fine quanto è costato il Family day non si sa. Savino Pezzotta è visibilmente contrariato per la domanda e non fa nulla per nasconderlo. Lui, lunga storia di sindacalista, ne ha di familiarità con le manifestazioni, «ma stavolta è diverso, non ci sarà neanche il servizio d’ordine». E non ci sta a sentirsi dire che c’è chi vede l’ombra lunga del Vaticano stesa sopra piazza San Giovanni. Perciò a chi pone la questione risponde: «Non vedo perché ci dovrebbe essere l’ingerenza della Chiesa, probabilmente qualcuno dovrebbe cambiare gli occhiali. La nostra - precisa alzando il sopracciglio - è una piazza laica: ci riferiamo al concetto di famiglia come è scritto nell’articolo 29 della Costituzione. Come si può notare io non porto né la mitra, né il piviale». Come si può notare sono sempre meno gradite le domande dei giornalisti. m.ze.
Repubblica 10.5.07
Farà concorrenza a quella dell'Unità. Primi appuntamenti a Orvieto e Livorno il mese prossimo
E la sinistra di Mussi lancia la "Festa d'Aprile"
Ds già al lavoro per la kermesse nazionale che quest´anno torna a Bologna
di Goffredo De Marchis
ROMA - Nascerà a giugno ma si chiamerà Festa d´Aprile. Sarà la kermesse di Sinistra democratica, la costola dei diessini anti-Partito democratico guidata da Mussi e Angius. Aprile come il giornale on line dell´ormai ex correntone della Quercia. Ma anche, simbolicamente, "Festa d´Aprile" come una celebre canzone della Resistenza scritta dal partigiano Franco Antonicelli. «Forza che è giunta l´ora, infuria la battaglia per conquistare la pace, per liberare l´Italia; scendiamo giù dai monti a colpi di fucile; evviva i partigiani! È festa d´Aprile», recita il ritornello. Il mese prossimo i primi due appuntamenti: ad Orvieto e a Livorno, la città della prima grande scissione della sinistra italiana. Saranno manifestazioni organizzate a livello locale. In queste ore invece il gruppo dirigente pensa al grande momento d´incontro nazionale da celebrare dopo l´estate. In concorrenza con la festa dell´Unità.
La tradizionale iniziativa che fu del Pci e ora è dei Ds non scompare, anche se il Pd è alle porte. Il tesoriere del Botteghino Ugo Sposetti lo ripetuto in tutte le salse, anche nel modo brusco che gli è congeniale. «La festa non si tocca. È un marchio che funziona da decenni. È come la Nutella, guai a chi la mette in discussione». A Via Nazionale, la sede della Quercia, sono già partite le riunioni tecniche per preparare il terreno a un appuntamento che giocoforza non potrà essere lo stesso di sempre. Dovrà tenere insieme la passione dei militanti di sinistra per un appuntamento identitario e il futuro che corre verso il Pd. Ed è proprio questo che preoccupa i Ds. La fase di transizione rischia infatti di appannare il significato della festa, di raffreddare il calore della gente diessina e dunque di ridurre in parte il prezioso contributo dei volontari. Volontari, per meglio dire, indispensabili. Per il successo della festa, che però non è solo d´immagine, ma rappresenta una fonte di finanziamento consistente per i Ds. Questa festa in mezzo al guado (la kermesse nazionale torna a Bologna dopo aver girato un po´ l´Italia, nel capoluogo emiliano gli incassi sono più garantiti) dunque va studiata per bene.
Nelle difficoltà diessine cercano di infilarsi i transfughi. La festa d´Aprile, per loro vuole dire anche un lancio in grande stile del movimento Sinistra democratica, la possibilità di farsi conoscere e un luogo, più luoghi, dove raccogliere adesioni e fondi. I soldi sono il primo scoglio. Con la costituzione dei gruppi parlamentari (la prossima settimana verranno eletti i presidenti) la nuova forza potrà contare su un fido di 600 mila euro solo per la Camera. Cioè la cifra che deriva dai contributi ai singoli parlamentari (in tutto saranno 24) durante l´anno. Poi ovviamente vanno reperiti altri finanziamenti. E tra i primi impegni di Sd c´è la ricerca di un tesoriere. Ma oltre ai problemi tecnico-organizzativi, Sinistra democratica è alle prese con il primo braccio di ferro della sua storia, quello sul capogruppo della Camera. Al Senato è certa l´investitura di Cesare Salvi, dissidente che da tempo guarda a sinistra, in particolare a Rifondazione. A Montecitorio, per mantenere l´equivicinanza con i socialisti, l´ex Psi Valdo Spini è deciso a giocare fino in fondo le sue chance. Sul nome di Spini però si è aperta una lotta intestina. Molti giurano che con il voto segreto quel nome non passerebbe mai. Le donne di Sd, che sono molte, chiedono un segnale di rinnovamento e una compagna alla presidenza del gruppo. I nomi sono quelli di Fulvia Bandoli o Katia Zanotti. Spini però è stato netto: se non fa il capogruppo lascia Sinistra democratica. E apre una questione politica dentro il neonato movimento che punta a un dialogo aperto a tutto campo con le forze di sinistra.
Repubblica 10.5.07
Italiani sempre più distanti dai precetti della Chiesa. Rapporto sulla secolarizzazione su Critica liberale
La famiglia cattolica in declino calano battesimi e nozze religiose
di Francesco Bei
ROMA - Se persino Pier Ferdinando Casini arriva a giudicare «desueti» alcuni precetti della Chiesa, non c´è da stupirsi se, nel suo complesso, la società italiana si sia da tempo incamminata sulla strada della secolarizzazione. E´ un processo inesorabile quello del progressivo distacco degli italiani dalle indicazioni delle gerarchie in materia di famiglia, sesso, educazione dei figli, sacramenti. E c´è anche chi si è preso la briga di misurare la larghezza di questo fossato, inventandosi un indice per misurare la "de-cattolicizzazione" del Paese. Nell´ultimo numero di "Critica liberale" viene presentato infatti il «terzo rapporto sulla secolarizzazione», che conferma la difficoltà crescente del Vaticano a sintonizzarsi con la vita reale delle persone. «Si sbaglia - scrive il direttore Enzo Marzo - chi si ferma alle apparenze e si convince che la Chiesa cattolica stia vivendo un momento di trionfo. E´ il contrario. La gerarchia più avvertita sa che la Chiesa ha difficoltà ovunque».
Le cifre, tutte ufficiali e, per lo più, di fonte vaticana confermano infatti che, nonostante la prova di forza del Family-day, il secolo avanza. «La percentuale dei bambini con età inferiore a un anno che sono stati battezzati, rispetto al totale dei nati vivi, mostra tra il ‘91 e il ‘98 un andamento altalenante, che oscilla tra il massimo di 89,9% del ‘91 e il minimo di 85,8% del ‘96. In seguito - si legge nella ricerca di Silvia Sansonetti della Sapienza - la percentuale appare in diminuzione costante, assestandosi nel 2004 a 77,5%, con una perdita di più di tredici punti percentuali rispetto al 1994». Un´altra serie storica, quella dei matrimoni cattolici, fotografa lo stesso declino, con una diminuzione tra l´87,7% del 1991 e il 79,5% del 2004. All´opposto «la percentuale dei matrimoni celebrati solo civilmente sul totale dei matrimoni è in crescita continua, passando dal 17,5% del ‘91 al 31,2% del 2004. In aumento è anche il numero assoluto delle libere unioni (207 mila nel 1993 e 556 mila nel 2003, ultimo anno disponibile)». In costante crescita anche le separazioni civili, i divorzi, tanto che, notano i ricercatori, «si delinea una crescente indifferenza al modello di famiglia proposto dalla Chiesa cattolica».
Da questa montagna di dati Renato Coppi, ordinario di Statistica Multivariata alla Sapienza e Laura Cammarana, ricercatrice del Caspur di Roma, hanno estrapolato 25 indicatori di base, raggruppandoli poi in quattro aree: pratica religiosa, adesione alle indicazioni della Chiesa, organizzazione ecclesiastica, scelte nell´istruzione. Il risultato finale è «l´Indicatore generale di secolarizzazione» che pubblichiamo nel grafico di sinistra. Gli scienziati, in parallelo, hanno costruito anche un «Indicatore di presenza istituzionale della Chiesa», sulla base del numero delle scuole cattoliche, case di cura, centri di difesa della vita, tiratura delle opere religiose, ecc. E´ la presenza sul territorio della Chiesa (grafico di destra), che aumenta al crescere della secolarizzazione. «Si può immaginare - spiegano a questo proposito gli studiosi - che la Chiesa cattolica, consapevole della dinamica crescente del processo di secolarizzazione, tenti di fornire una risposta anche sul piano dell´offerta istituzionale». I risultati, tuttavia, «non appaiono al momento positivi».
Corriere della Sera 10.5.07
Giordano: «Oggi mi sento leader dell’opposizione»
S'incrina l'asse Prodi-Prc Giordano: serve collegialità o rischia la coalizione
Il leader di Rifondazione: i conti? Se ne fa un uso terroristico Parte il negoziato nella maggioranza per fermare lo sciopero
di Maria Teresa Meli
ROMA - «Oggi mi sento un leader d’opposizione»: quella di Franco Giordano è una battuta, è ovvio, ma la dice lunga sul sentimento - anzi, sul risentimento - di Rifondazione comunista nei confronti di Tommaso Padoa-Schioppa. Il leader del Prc è uso misurare le parole, ma questa volta non si trattiene, e avverte: «Così si rischia la rottura della coalizione». Insomma, per dirla in modo esplicito, mai e poi mai Rifondazione potrà votare una riforma delle pensioni che preveda i punti enunciati dal ministro dell’Economia. «Se andiamo avanti di questo passo - prosegue Giordano - arriveremo in rotta di collisione». Non che il Prc non si renda conto che una mossa del genere equivarrebbe a un’uscita dal governo, alla rottura dell’attuale maggioranza. Però oltre quell’asticella Giordano non può andare.
Ma quel che fa più arrabbiare la sinistra è l’idea che «Padoa-Schioppa dica una cosa, che l’Ulivo decida di conseguenza qual è la strada da intraprendere, e che alla fine, solo alla fine, venga chiamato il Prc per fare qualche emendamento a una riforma già stabilita in altre sedi». Giordano se la prende con il ministro dell’Economia, non solo per le pensioni. Anche sull’utilizzo del cosiddetto tesoretto il leader del Prc ha qualcosa da dire a Padoa-Schioppa che «vuole lasciare solo le briciole per la redistribuzione». Ma, tornando alle pensioni, il segretario di Rifondazione non può accettare «una riforma della previdenza che non è nel programma dell’Unione: su questo non transigo».
Secondo il leader del Prc, Padoa-Schioppa «fa un uso terroristico dei conti di cui si vuole occupare solo lui, perché ha già deciso di destinare la maggior parte di quei fondi al risanamento del debito e di dare solo gli spiccioli per chi ne ha bisogno, mentre ha dato tanto agli industriali». Sarà anche così, insomma, sarà pur vero che il ministro dell’Economia è «autistico», come dicono scherzando a Rifondazione, fatto sta che Prodi non lo ha smentito: che fine ha fatto il tanto decantato asse tra il Prc e il presidente del Consiglio? «E infatti - replica secco Giordano - chiedo la collegialità sulle politiche economiche (come del resto la chiedo su tutto) proprio perché voglio sapere, ufficialmente e direttamente da Prodi quale è il suo orientamento sulle pensioni. E comunque, sia il premier, che i dirigenti dell’Ulivo, devono sapere che noi non ci vogliamo trovare di fronte al fatto compiuto». «Noi - rincara il leader di Rifondazione - siamo molto irritati».
Per farla breve, se quella delineata da Padoa-Schioppa è la riforma delle pensioni che il governo intende mettere in atto, o anche se è solo la metà di quello che il ministro dell’Economia intende mettere in atto, Rifondazione voterà no. Anche a costo di mettere in fibrillazione la maggioranza. Ma il Prc teme di peggio. Ossia, ritiene che Padoa-Schioppa «abbia alzato il prezzo» soltanto per uno scopo, cioè quello di ottenere il mantenimento dello scalone previsto dalla legge Maroni. Quella è una riforma già fatta, e quindi non c’è bisogno alcuno di un altro voto in Parlamento. «E’ vero - spiega Giordano - su quello non si vota perché è una legge già approvata: ma dubito che il sindacato possa far passare una cosa del genere e, comunque, non la farà passare il nostro elettorato, e, quando intendo nostro, non penso a quello di Rifondazione, ma all’elettorato di tutta l’Unione che ci ha votato sulla base di un programma che prevedeva, nero su bianco, l’abolizione dello scalone».
E’ guerra? E’ crisi? No, piuttosto si è aperta una trattativa, che comunque facile non sarà. Rifondazione spera nella tenuta del sindacato, che però unitissimo non è. E confida anche nel fatto che comunque l’Ulivo con Padoa-Schioppa non è in idilliaci rapporti. Non per la questione delle pensioni. Ma, ad esempio, la Margherita è imbufalita per la riforma dell’Ici, su cui il ministro dell’Economia frena. E ancora: non c’è un partito, nell’Unione, che non si sia accorto che alcune leggi non passano perché Padoa-Schioppa non dà il parere sulla copertura finanziaria. «Mi dicono che c’è persino una legge per i fondi alla lotta all’Aids è rimasta arenata tanto tempo per questo motivo», commenta il capogruppo di Rifondazione alla Camera Gennaro Migliore. Il quale, però, è convinto, che alla fine «il ministro dell’Economia non potrà vincere questa partita, perché ha contro tutti: dalle forze politiche ai sindacati. Ha contro anche l’opinione pubblica, per quanto quella non pare che gli interessi tanto. Ma comunque uno sciopero generale neanche Padoa se lo può permettere».
Liberazione 10.5.07
Il sottosegretario alla Giustizia interviene dopo le cifre del viminale che parlano di 2mila reati in più: «Le analisi statistiche serie si fanno in tempi medio-lunghi»
Manconi: «I dati sull'indulto? Irresponsabili e superficiali»
di Davide Varì
«Si sono moltiplicati i crimini dopo ed a causa dell'indulto? Con la stessa sicurezza potrei dire che nello stesso periodo sono diminuiti gli infaticidi ma non per questo penso ad una correlazione tra i due eventi». Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia e sociologo, ha pochi dubbi: «Le analisi di questi giorni relative all'indulto sono superficiali, irresponsabili e del tutto inattendibili». Secondo Manconi non ha nessun senso considerare un periodo di tempo di tre mesi: «Come insegna qualunque criminologo tutte le statistiche vanno lette con prudenza e soprattutto in una serie storica di medio-lungo periodo».
Eppure la polemica sull'indulto non sembra placarsi, anzi. Non basta neanche il dato sulla recidiva - un termine da patologo che sta ad indicare il tasso degli ex detenuti che commettono di nuovo reato - che parla di un 12%, di recidiva, appunto, contro il 60% abituale, fisiologico come direbbero gli addetti ai lavori. In tutto questo, ed è forse questo il vero problema da affrontare, la grande questione della depenalizzazione dei reati minori che determinerebbe un minor ingolfamento delle carceri e delle aule di tribunale: in Italia un processo medio dura non meno di 10 anni.
Del resto anche il presidente della repubblica Napolitano ha ribadito la necessità di punire con il carcere «solo chi commette reati particolarmente pericolosi». Un'affermazione non facile in tempi come questi, in tempi in cui sbandierare l'insicurezza e la necessità della tolleranza zero è diventato l'hobby preferito di mezzo ceto politico nostrano.
Insomma professor Manconi, questo indulto ha davvero reso l'Italia un Bronx?
Se noi consideriamo i dati con superficialità, ignorando una serie storica attendibile, potremmo avere dei singolarissimi risultati: leggendo la tabella del Viminale senza indagare in maniera intelligente e senza leggere il contesto, potremmo pensare ad effetti davvero strani di questo indulto. Per esempio, nel trimestre agosto-ottobre 2006 - il trimestre immediatamente successivo all'approvazione dell'indulto - un delitto terribile e grave come l'infanticidio risulta ridotto del 66%. Se non fossi persona responsabile direi che l'indulto avrebbe un effetto terapeutico e provvidenziale sui genitori che vogliono sopprimere i propri figli, tutto questo se fossi irresponsabili. Lo stesso irresponsabile gioco potrebbe essere fatto chessò assumendo come riferimento al fattispecie della rapina ai rappresentanti di preziosi. Ecco, nel trimestre agosto-ottobre 2004 le rapine sono state 21, nel 2005 1 e nel 2006 2. A questo punto dovrei dire che le rapine sono raddoppiate passando da 1 a 2 a causa dell'indulto. Insomma, voglio dire che, come insegna qualunque criminologo ,tutte le statistiche criminali vanno lette con prudenza e soprattutto in una serie storica di medio-lungo periodo.
Poi c'è il dato della recidiva: secondo i dati del viminale solo il 12% degli ex detenuti indultati ha commesso nuovi reati, contro il 60% della media abituale.
In effetti la recidiva ordinaria e fisiologica, quella registrata tra coloro che arrivano a fine pena senza sconti e benefici, oscilla tra il 60 ed il 68%. Noi dopo nove mesi di indulto siamo al 12%. E soprattutto vorrei sottolineare che il tasso di crescita mensile è tale che ricorrendo a qualsiasi proiezione possiamo star certi che non si arriverà mai a quella del tasso fisiologico.
Le ragioni di questo calo della recidiva?
La gran parte delle persone che hanno beneficiato dell'indulto sanno bene che in caso di recidiva rischiano di dover scontare la pena condonata più quella relativa al nuovo reato.
Dunque che idea si è fatto dell'indulto? Che giudizio ne dà?
Il mio è un giudizio è incondizionatamente positivo. E' stato un provvedimento che ha prodotto esiti virtuosi di fondamentale importanza e dunque la mia valutazione coincide perfettamente con quella del capo dello stato: una misura eccezionale ma indispensabile: un carcere così sovraffollato non si limitava a mortificare la dignità di quanti vi si trovavano custodi o custoditi, ma rappresentava un ostacolo insormontabile per qualunque progetto di riforma dell'intero sistema penitenziario e del complessivo sistema della giustizia.
Su tutto la riforma del sistema penale. In Italia abbiamo un record di reati puniti con la galera...
Anche qui devo ripetere le parole del capo dello stato del quale, come si vede, sono un piccolo fan. Anche su questo il presidente Napolitano si rivela intellettualmente coraggioso: mentre infuria la polemica sulla sicurezza, ha infatti la coerenza di ribadire che il carcere va considerato una soluzione estrema, destinata a coloro che sono responsabili di reati che suscitano allarme sociale.
A proposito di sicurezza, sembra che in Italia ci sia un gara ad appropriarsi del tema della sicurezza, anche tra molte personalità del nascente Piddì...
Le reazioni nascono da dati oggettivi di un'attività criminale evidente. Per come è organizzata la nostra società i costi ricadono sulle fasce deboli della popolazione che convivono con gli stranieri. Di fonte a queste cose ci sono due scelte possibili: elaborare politiche razionali di investimenti sociali di mediazione delle contraddizioni sociali - che non eliminano i problemi ma consentono di controllarli - e contenere l'eplosività; oppure si può scegliere di galvanizzare sentimenti di allarme: in Italia, soprattutto a destra ma anche a sinistra, è pieno di imprenditori-politici della paura. La politica deve stare attenta a disinnescare i conflitti interetnici elaborando politiche della sicurezza che non siano esclusivamente di ordine simbolico. La tolleranza zero in determinate condizioni può perfino essere efficace, ma dal momento che non aggredisce le cause ha un esito effimero.
Agi 10.5.07
Coraggio laico: Riccardo Lombardi, la vita cristiana non si impone
(AGI) - Roma, 10 mag - "Non ho mai sentito dire che la Dc proponga di introdurre una legge che obblighi i ricchi a spogliarsi dei loro beni per darli ai poveri: è pertanto giusto battersi contro la violenza imposta dal referendum e ribellarsi alla pretesa che la vita cristiana debba essere imposta dalla legge dello Stato".
Era il 24 aprile 1974 e così Riccardo Lombardi parlava del referendum contro la legge sul divorzio, dopo aver rifiutato il confronto con un esponente del Msi-Dn, come da sorteggio per le tribune referendarie trasmesse dalla rai e che iniziavano proprio quel giorno.
"La Costituzione sancisce - esordì Lombardi - il diritto di manifestare il proprio pensiero nel colloquio, nella discussione ma sul terreno democratico e, secondo la Costituzione, il terreno democratico e’ contrassegnato dall’accettazione dei valori della Resistenza e quindi del 25 Aprile”. L’acomunista per antonomasia chiarì ai telespettatori: “noi siamo disposti al dibattito ed anzi, lo sollecitiamo con tutti gli avversari più risoluti anche con coloro che sono stati fascisti nel passato: ma non con coloro che agiscono da fascisti oggi servendosi della libertà conquistata il 25 aprile per distruggerla”.
Pertanto con l’Msi-Dn “noi non abbiamo nulla da dire e nulla da ascoltare”, precisò il primo prefetto della Milano liberata dal nazifascismo.
Poi in merito al referendum sul divorzio voluto fortemente da Amintore Fanfani e dalle gerarchie ecclesiastiche e poi appoggiato dal Msi-Dn, fece riferimento al “Vangelo: suggerisce ai ricchi di spogliarsi dei propri beni e darli ai poveri, di offrire l’altra guancia a chi ha percosso sulla prima: bene, non ho mai sentito dire che la Dc proponga di introdurre una legge che obblighi i ricchi a spogliarsi dei loro beni per darli ai poveri”. Allora c’è da chiedersi “perché solo in campo matrimoniale si vuole imporre con la forza della legge”, quella che per i cristiani è “una virtù e un modello eccezionali”, l’indissolubilità del matrimonio. “L’indissolubilità del matrimonio è un fatto di coscienza individuale che non può esser imposto o demandato da nessuna autorità civile”, concluse Lombardi, facendo appello al buon senso della gente che il 12 maggio respinse col 59,3% dei voti il referendum sul divorzio sancendo così il primato dello Stato Laico sulla ‘credenza’ religiosa. Agi - Carlo Patrignani
Agi 10.5.07
Coraggio laico: il Riformista e i tanti 'Scomunicatemi'
(AGI) - Roma, 10 mag. - Partita, con un’indubbia dose di coraggio per la sfida in essa contenuta, è via via cresciuta la inusuale richiesta ‘scomunicatemi’ ed il quotidiano che l’ha ospitata, ‘il Riformista’, si è ritrovato inondato di lettere.
“Vorrei essere scomunicato dalla Chiesa cattolica” ha scritto sabato 5 maggio, Paolo Izzo, spiegando che lui e la sua compagna sono “una coppia di fatto” e entrambi “atei: siamo a favore della contraccezione, dell’amniocentesi, della fecondazione assistita ed eterologa, dell’aborto, della ricerca sulle cellule staminali embrionali, dell’eutanasia”. Scrittore per hobby e passione, Izzo aggiungeva: “preferiamo pensare invece di credere. Pensiamo a una nascita umana sana, senza perversioni, senza peccato originale”. La conclusione di Izzo è stata: “vogliamo pensare alle donne e agli uomini come noi, occuparci dei nostri bisogni e delle nostre esigenze di esseri umani, fatti di psiche e di biologia e nati non prima di aver visto la luce con i nostri occhi. Può bastare? A chi devo rivolgermi per formalizzare la questione?”.
Il giorno dopo arrivano a ‘il Riformista’ numerose lettere di plauso e consenso e ancora il giorno successivo. “Sono una donna separata da oltre dieci anni - ha scritto mercoledì 9 Annamaria Dipiazza - sono atea e sono a favore di tutto ciò già detto nella lettera ‘scomunicatemi’. La Chiesa non si limita - aggiungeva Annamaria - all’esercizio spirituale, esercita un potere di estrema violenza su tutti gli esseri umani”. E Paola Capitani sempre lo stesso giorno chiedeva “come Paolo anch’io voglio esser scomunicata e come me ci sono altre persone che si riconoscono in quanto riportato nella lettera del 5 maggio”. E Simone Meschino è d’accordo: “chiedo di essere scomunicato perché profondamente convinto di essere innanzitutto nato e poi nato libero e sano, senza nessunissima forma endemica di peccato... Per questo e molto altro... scomunicatemi”.
Se c’è chi non è d’accordo come Pietro Parodi da Genova che parla oggi di “infantilismo dei miei 18 anni (quando, racconta, voleva esser ‘sbattezzato’) lo stesso infantilismo pare diffuso tra gente che avrebbe dovuto raggiungere da un pezzo la maturità di pensiero, oltre che scolastica”, c’è poi Francesco Marmorato d’accordo con la richiesta ‘scomunicatemi’. (AGI) Pat 101755 MAG 07