sabato 29 marzo 2008

l’Unità 29.3.08
Il ministro Bianchi passa dal Pdci al Pd

REGGIO CALABRIA Il ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, sceglie il palco del teatro Odeon, di Reggio Calabria con Veltroni, per annunciare che con il Pdci si è consumata una «separazione consensuale», ed ora scelgo Walter e scelgo il Pd». Dopo l’annuncio di Bianchi, il leader del Pd, Walter Veltroni, ha concluso il suo intervento esprimendo la sua gioia per «questa scelta». Il ministro dei Trasporti, candidato nel 2006 come indipendente nelle liste del Pdci ha deciso a iniziare «una nuova avventura» con il Pd, «È stato tra le persone che più hanno cercato di rappresentare l’idea di coalizione evitando l’esasperazione degli elementi di contraddizione».

l’Unità 29.3.08
Udc e Sinistra, i partiti che tolgono il sonno al Pdl
Senato, anche nelle regioni non in bilico l’ascesa delle due forze toglierebbe a Berlusconi seggi decisivi
di Eduardo Di Blasi

A VEDERE la mappa disegnata qualche giorno fa dal Cise per IlSole24Ore, mappa che teneva conto dei voti espressi nel 2006, tarandoli sulle coalizioni che sono cambiate e sulla media delle intenzioni di voto verso i nuovi soggetti al marzo 2008, si può dire che
«in bilico», nella corsa a Palazzo Madama, non ci sono solo quelle regioni nelle quali la distanza tra Pd e Pdl si conta in una manciata di voti. La legge elettorale escogitata dal centrodestra, come spiega da mesi il professor Roberto D’Alimonte, resta una trappola alla governabilità anche nelle regioni in cui esiste un partito in grado di ottenere una maggioranza certa. Vediamo come. Partiamo dalle regioni in bilico. In Liguria, Abruzzo, Calabria e Sardegna, Pd e Pdl sono distanti di poche centinaia di voti. Sono regioni che, dal punto di vista numerico, non forniscono un numero nutrito di senatori e che nel 2006 furono tutte prese dall’Unione. La Liguria elegge 8 senatori (nel 2006 finì 5 a 3), l’Abruzzo 7 (4 a 3 nel 2006), la Calabria 10 (6 a 4) e la Sardegna 9 (5 a 4). Per capire l’unità di misura, basti pensare che la Lombardia manda a Palazzo Madama 47 senatori (e nel 2006 la Cdl ne mandò a Roma 27, l’Unione 20), la Campania 30 (finì 17-13 per Prodi), il Lazio 27 (15-12 per la Cdl nel 2006), la Sicilia 26 (15 a 11 per la Cdl), il Veneto 24 (14 a 10 nel 2006 per il centrodestra), l’Emilia Romagna 21 (12 a 9), la Toscana 18 (11 a 7)... È proprio in queste regioni che, in questa tornata elettorale, saranno determinanti le performance dei partiti mediani (Sinistra Arcobaleno e Udc), perché mentre la volta scorsa in corsa erano due coalizioni, e quindi i seggi che non prendeva la vincente andavano alla perdente, questa volta i contendenti ai seggi sono, in alcune regioni più che in altre, almeno quattro. Finora si è detto: il voto utile potrà premiare i soggetti più grandi traghettando l’Italia da un sistema in cui anche i micropartiti possono rivendicare ruoli di governo, a un sistema che si avvicini al bipartitismo. I sondaggi elettorali ci dicono però che le due forze mediane sono radicate e possono diventare arbitro dei giochi. La logica dei due schieramenti consiglia di valutare a fondo l’utilizzo di questa forza.
In Lombardia, ad esempio, il Pdl, potrebbe in teoria vincere tanto da poter arrivare a superare il premio di maggioranza di ben 4 senatori (30 senatori al posto dei 27 di due anni fa, calcolati nei 26 di premio, più uno per aver superato il quorum del premio medesimo). Ma se Udc e Sa crescono tanto da arrivare all’8%, allora Berlusconi perderebbe quei senatori che fino a qualche settimana fa poteva dare per acquisiti. Giustamente Calderoli afferma che se la Lega fosse andata da sola in Lombardia avrebbe potuto recuperare (dato il sistema proporzionale e il tetto all’8%) 7 senatori. Ma il discorso si fermerebbe al Lombardo-Veneto, perché senza Lega il Pdl sarebbe quasi sicuramente andato sotto in Piemonte e Liguria. Altro caso sono le «Regioni rosse». In Emilia Romagna, una buona affermazione della Sa potrebbe levare al Pdl almeno uno (anche due) dei 9 senatori della Cdl. In Toscana altri due o tre, dei sette recuperati nel 2006. Veneto e Campania sono altri due casi a sè in uno scacchiere che, si capirà, è di difficile decifrazione anche per i contendenti politici. In Veneto, ad esempio, non sembra in prima battuta convenire al Pd che l’Udc superi la soglia dell’8% (alla quale è vicino). A meno che, però, il Pdl non superi (come sembra) il tetto oltre il premio di maggioranza nel quale scatta il seggio in più. In Campania un seggio al partito di Casini potrebbe accorciare ancora il divario tra Pd e Pdl. Ma è nel Lazio che la partita potrebbe essere rivoluzionata, anche grazie alla variabile costituita da La Destra di Storace. Le statistiche dicono che se Udc, Sa e Destra superano l’8%, il Pdl potrebbe perdere dai 5 ai 9 senatori dei 15 recuperati la volta passata. Qui, ovviamente, ognuno farà corsa a sè.

l’Unità 29.3.08
Abu Jamal, il peccato originale del razzismo
di Giancesare Flesca

Amnesty lo difende, mille avvocati inglesi chiedono la revisione del processo
Il sindaco di Parigi lo nomina cittadino onorario
Dalla sua storia nasce un film «In prigione la mia intera vita»
L’epilogo resta questo

MUMIA ABU JAMAL, leader delle Pantere nere, uomo simbolo della lotta antirazzista, nel 1981 si ritrovò incriminato per aver ucciso un poliziotto bianco
A giudicarlo Sabo, ex sceriffo, amico del capo della polizia, soprannominato «capestro» per la quantità di pene di morte comminate, soprattutto ai neri

La storia che avanza sfiora appena le ricorrenti tentazioni razziste della giustizia americana. Dopo decenni di lotte contro questo sistema, sostenute da movimenti non necessariamente progressisti in tutto il mondo, ieri l’altro la condanna a morte di Mumia Abu Jamal, pronunciata nel 1982, è stata annullata e probabilmente sarà convertita in carcere a vita. Questo vuol dire che lo stato della Pennsylvania lo considera ancora responsabile dell’uccisione di un agente della polizia di Philadelphia, nonostante decine di prove dimostrino il contrario. L’America potrà forse avere un presidente nero ma difficilmente si libererà di quel che lo stesso Obama ha definito «il peccato originale» del razzismo. Sia chiaro che Mumia Abu Jamal e i suoi compagni delle pantere nere avrebbero considerato Obama un «negruzzo»,cioè un nero che si è integrato nel potere bianco.
A quell’epoca, la metà degli anni 60, dopo l’uccisione di Malcom X a Manhattan, il movimento nero era diventato ancora più radicale. Non era questione di liberarsi dall’ingiustizia dei bianchi, ma di «scrollarsi i bianchi di dosso», come aveva detto George Jackson, uno dei leader dell’organizzazione, della quale faceva parte anche Angela Davis. Si proclamavano «marxisti-leninisti» e questo bastava a rendere la persecuzione contro di loro ancora più forte e più sporca.
Nella sentenza che condanna a morte Abu Jamal è considerata come una prova di colpevolezza l’aver condiviso una famosa frase di Mao, «il potere politico cresce sulla canna del fucile». Philadelphia, il cui nome significa città dell’amore, fu una delle protagoniste più spietate nel reprimere i movimenti neri (e gli omosessuali,se ricordate il film omonimo). Abu Jamal, che lì è nato nel 1954, a soli 15 anni aderisce alle Pantere nere, ormai declinanti. Ma questo Wesley Cook (è il vero nome di Abu Jamal) non poteva saperlo. Sapeva della moltitudine di neri mandati a morire in Vietnam, dei ghetti dove le istituzioni segrete dello Stato facevano correre a fiumi l’eroina per devitalizzarli, e ricordava tutti i 10 punti per cui lottavano le Pantere nere. L’ultimo, il più immediato, diceva: «Vogliamo terra, pane, abitazioni, istruzione, vestiti, giustizia e pace».
Tutto questo gli passava in mente mentre nel 1968 veniva arrestato per aver protestato contro un meeting del candidato segregazionista alle presidenziali, George Wallace. Nel 1969 Abu Jamal fu nominato responsabile del partito per l’informazione. Come tale, l’FBI lo inserì in una lista di cittadini da sorvegliare e internare in caso di «allerta nazionale». Ma la sua condanna a morte l’aveva firmata nel 1978, quando il gruppo nero dei MOVE fu aggredito e bombardato dagli elicotteri (cosa che si ripetè nell’81 e perfino nel 1986) lasciando in terra undici morti. A dirigere l’operazione c’è il capo della polizia Frank Rizzo. Abu, diventato radio-giornalista, ne denuncia la brutalità. Rizzo gli promette: «Faremo i conti con te e con questa setta di fanatici».
L’occasione per «fare i conti» si presenta dopo tre anni, nel 1981. Ormai ministro dell’Informazione di tutto il Black Party e giornalista apprezzato, Mumia, sposato e padre di due figli, deve arrotondare guidando il taxi. Il 9 dicembre di quell’anno, all’alba, aveva un appuntamento con il fratello più giovane. Il ragazzo era lì, dall’altra parte della strada. Ma non era solo. C’era un poliziotto che gli contestava una contravvenzione, e lo faceva in modo violento, picchiandolo. Abu Jamal attraversa la strada correndo e gridando all’agente di lasciar stare. Il poliziotto si volta e gli spara freddamente in pancia. Lui cade a terra in una pozza di sangue. Perde i sensi. Erano in un quartiere nero. Qualcuno vide che avevano sparato al popolare giornalista. E sparò a sua volta tre colpi che freddarono l’agente Daniel Faulkner. Ma quando Abu Jamal riaprì gli occhi si trovò nel reparto carcerario di un ospedale, incriminato per aver ucciso un poliziotto. Per di più un poliziotto bianco.
Il processo arriva presto, nell’estate dell’82. A presiederlo è Albert Sabo, ex sceriffo e grande amico del capo della polizia Rizzo. Viene chiamato «capestro» perché è autore di 32 condanne a morte: 2 comminate a bianchi, le altre trenta, ovviamente, a neri. È il record americano. Nel processo contro Abu Jamal tutti i giurati sono bianchi, tranne due, anche se a Philadelphia i neri sono il 40% della popolazione. All’inizio del processo il giornalista chiede di auto-difendersi, mentre l’avvocato d’ufficio gli fa solo da spalla. Dopo qualche seduta il giudice Sabo gli impedisce l’auto-difesa perché «troppo distruttiva». Allora Jamal chiede di avere per avvocato John Africa, fondatore della comunità MOVE. Il giudice Sabo nega, dicendo che la presenza di Africa sarebbe stata «ulteriormente distruttiva». Dove il «distruttiva» significa una difesa attiva, che mette sotto accusa la congiura «bianca», che non pietisce il favore della Corte.
Mumia Abu Jamal non sta al suo posto. E allora si fa di tutto per mandarlo a friggere sulla sedia elettrica. In quell’aula a dichiarare di aver visto l’imputato sparare al poliziotto furono una prostituta e un tassista. Un terzo testimone affermò di aver visto un uomo attraversare di corsa la strada ma di non poter dire se era Abu Jamal o no. La prostituta Veronica Jones, pilastro dell’accusa, in un primo momento aveva dichiarato di aver visto due neri fuggire dalla scena della sparatoria. Ma di fronte al giudice Sabo cambiò completamente la sua deposizione, dicendo che la prima versione non è attendibile perché lei era strafatta di marijuana. Il 2 luglio 1982 la giuria dichiara Abu Jamal colpevole e il giudice Sabo non si smentisce, infliggendogli la pena di morte. Le spese sostenute dal Tribunale per la difesa dell’imputato indigente, a Philadelphia 6500 dollari di media, nel caso di Abu Jamal sono di 150 dollari.
Le irregolarità procedurali e sostanziali furono tantissime. Al punto che, quando Jamal ottenne una revisione del processo e il giudice Sabo fu autorizzato a rientrare dalla pensione per dirigere anche quel dibattimento, furono migliaia i giuristi di tutto il mondo che ne chiesero invano l’esonero per quel che da noi si definisce «legittima suspicione». Tutto ciò non impedì a Sabo di fare il processo e di moltiplicare la vena accusatoria, alimentata da nuovi testimoni pescati dalla «Fratellanza della polizia di Philadelphia» di cui sia il giudice che Frank Rizzo sono magna pars.
Abu Jamal spende così nel braccio della morte i 26 anni successivi Il suo caso diventa una vicenda internazionale. Amnesty lo difende a gran voce. Mille avvocati dei tribunali britannici chiedono una radicale revisione. Dalla sua storia nasce un film, «In prigione la mia intera vita». Il sindaco di Parigi lo nomina cittadino onorario. Lui scrive il suo diario, «Live from the death row». Ma tutto è vano, anche se nel 1999 un vecchio sicario, Arnold Beverly, confessa a un avvocato di aver ucciso il poliziotto Faulkner. Tutto questo gli ha salvato la vita soltanto per regalargli nella migliore delle ipotesi un ergastolo. «In prigione la mia intera vita», appunto.

l’Unità 29.3.08
Nazi-rock, nella culla del Serpente
di Furio Colombo

Niente sarebbe memorabile, nei gruppi, nei tipi umani, nei linguaggi e nei gesti dei personaggi a cui è dedicato questo libro e questo Dvd. Niente, tranne il fatto che esistono. La loro esistenza è causa costante di un clamoroso equivoco che torna a ripetersi.

CINEMA «Nazirock», ecco un viaggio per immagini nel preambolo politico-culturale del nazismo. Tra ragazzini che ondeggiano da una «curva» violenta a concerti rock militanti. Non sanno niente: aspettano ordini e parole d’ordine. Ma non è folklore

Nei media l’immagine presenta qualcosa di cupo e di grandioso come spesso immaginiamo che siano i volti e le manifestazioni del male. Molti di noi (che scrivono, riportano, commentano), attribuiscono a tutto ciò che riguarda la destra estranea alla democrazia e alla legalità, il volto tremendo e forte, autoritario e mortale la cui maschera ci portiamo dietro dalla storia: i nazisti con le croci di ferro; i fascisti con le armi in pugno delle Brigate Nere e della Decima Mas; le guardie di ferro di Antonescu, i croati torturatori di Ante Pavelich. In realtà il fascismo e il nazismo sono sempre stati squallore umano, morale, mentale. Ma - come i corpi di Frankenstein senza storia - gli squallidi adepti e i convertiti al regime, appena attraversati dalle scosse ad alta tensione del potere senza limiti, hanno coperto lo squallore con la maschera della forza e la vocazione a dare la morte. In tale veste e con tale maschera hanno riempito di sangue la storia - migliaia e migliaia di serial killer in austere, temute uniformi, capaci di lasciare il sigillo della paura e della sottomissione accanto ad ogni delitto.
Il ricordo di quelle maschere di sangue coincide con il ricordo di coloro che, a viso scoperto e senza potere, si sono ribellati, hanno tenuto testa, hanno pagato ogni prezzo per liberare il proprio Paese. Senza di loro - antifascisti e partigiani - e senza i loro torturati e i loro morti, quel territorio sarebbe stato solo un oggetto di scambio fra vincitori e vinti. Ma alcuni, fra gli eredi che hanno combattuto lo squallore e il potere senza scrupoli dei fascismi, stranamente, hanno cominciato a vergognarsi dei loro eroi e dei loro morti. Hanno cominciato a pensare che fosse di cattivo gusto verso qualcuno ricordare le stragi e la ostinata decisione di tener testa a costo di essere sterminati, hanno zittito chi osava mormorare l’aria di una canzone partigiana, hanno cominciato a raccontare la Storia a partire dai protagonisti sopravvissuti, e considerati «vittime», nel mondo del dopo strage.
Sgombrato il campo da ricordi, da lezioni di Storia e dalle occasioni di ricordare come nasce un Paese libero, c’è chi è diventato insensibile, chi opportunista, chi ingenuamente ignorante (nel senso di non sapere in buona fede). E chi, nel vuoto, ha sentito il potente richiamo dello squallore più desolato e del potere assoluto.
***
Ecco quello che accade in Nazirock, narrazione e documento visivo. È come tornare, per un misterioso scherzo della Storia, al fascismo prima del potere. È vuoto, è sbandamento in cerca di un furore violento che senza la scossa del potere non può esplodere.
Leggete nello scritto le parole e ascoltate nel video il suono delle voci che dicono quelle parole. Osservate i volti, scrutate i movimenti, di marcia o di adunata o di festa o di iniziazione o di danza dei gruppi giovani a cui è dedicata questa straordinaria inchiesta (che punta verso alcuni gruppi musicali di Nazirock come possibile reincarnazione).
Troverete questi ingredienti. Nessuna cultura, molta superstizione, uso di reperti e di residuati di regime come reliquie di una religione rozza, pregiudizio ottuso e ostinato, ricerca affannata di bandiera, stile, uniforme: tutto ciò - per la prima volta - ci dà l’occasione , come in un viaggio nel tempo, di osservare il fascismo prima del fascismo. Ci si arriva attraverso una pratica di espulsione, una sorta di ascetismo privo di luce: via la cultura, via la storia, via le regole, via lo Stato. Si cerca una disciplina primitiva e cieca. Si aspettano ordini.
Accade però di scrivere queste cose mentre in Italia divampano - moderne e organizzate - pericolose rivolte: coloro che non vogliono i loro rifiuti; e coloro che non vogliono i rifiuti degli altri. In tutti e due i casi si tratta di imboscate, assalti, guerriglia e sequenze di aggressioni organizzate. In tutti e due i casi - qualunque sia la ragione e persino la giustificazione o la provocazione - i nemici sono lo Stato, la polizia e qualunque tipo di autorità locale, qualunque posizione o decisione sia stata presa.
Sulla scena, segnata di distruzione e vandalismo organizzato, si vede una costellazione di gruppi che sembra oscillare da destra a sinistra, tra annebbiato ambientalismo e vendetta locale, tra tifoseria sportiva e spedizione punitiva su ordinazione. Le maschere, però, variano di poco. Lo squallore prevale; ma questori e investigatori non esitano a dire: «Qualcuno li paga». Il modello appare più vicino al crimine organizzato. Pagare per offendere, come è avvenuto intorno all’abitazione del coraggioso Presidente della Regione sarda, che probabilmente ha violato un codice di malavita in Campania, non in Sardegna (perciò si è ordinato di punirlo) accettando di accogliere una parte dei rifiuti di Napoli e dunque dando una mano alla normalità. Ma telecamere e fotografi hanno visto bandiere politiche per quei rivoltosi che, nel Dvd unito a questo libro, sembrano invocare ed evocare il disastro, l’incendio, la morte di qualcuno. Cercano - nel modo più rozzo e diretto - un potere.
***
Torniamo per un momento ai «Nazirock» che questa inchiesta ha scelto come materiale sensibile per guidarci verso aree di rigurgito del fascismo. Assistiamo a uno spettacolo strano. Manca voce, ispirazione, talento, musica. Non nel senso che la musica giovane di gruppi spontanei appare inferiore (in questo caso di molto) alla media colonna sonora commerciale. Impressioni di questo genere si possono avere (benché non così infime) dai gruppi rock dei centri sociali, militanti a sinistra. No, qui si assiste a due fatti diversi e sgradevoli: uno è quel senso di rancido della storia ingurgitata a forza e poi vomitata, come fanno i bambini ribelli con la verdura odiata e mandata giù con furore.
L’altro è lo spettacolo disorientante del fremito di ribellione in sé autentico, nel senso fisico e ormonale della parola. Ma disperatamente alla ricerca del capo, della predicazione, della proposta distorta a cui giurare servizio, fedeltà e rischio. È un cerchio di fuoco vuoto e afasico, forza fisica inespressiva come le urla più o meno ritmate (testi miserrimi) che dovrebbero essere canto, dovrebbero essere inno e richiamo.
Tutto ciò potrebbe sembrare disprezzo lombrosiano, se non ci fosse una spiegazione. La mia è questa. Giacimenti spontanei di violenza prefascista (nel senso di non ancora arruolata ed organizzata) giacciono sotto la destra italiana. Ora si incarna in tifoseria, ora in guerriglia urbana, ora in dimostrazione, ora in «ronde» leghiste o «guardie padane». È un giacimento che - come certi episodi mostrano - si estende fino a falde sommerse di una sinistra «casseur» e distruttiva, che ha sempre lo stesso bersaglio: lo Stato e l’attività quotidiana. È un giacimento al quale la destra rispettabile manda e ritira segnali, ora celebrando insieme i «caduti» negli scontri degli anni 60 e 70, come se fossero tutti reduci della stessa battaglia; ora mostrando grande rispetto per le istituzioni, ma con l’avvertenza di usare improvvisamente un linguaggio di disprezzo e rifiuto da dentro le istituzioni. La situazione, però, non è di stallo. Al contrario, è dinamica. E segna punti per l’affiorare in superficie della rozza e primitiva destra sommersa che si impara a conoscere in questo libro e si vede in questo film. È vero che questi gruppi hanno leader moralmente squalificati e intellettualmente vicini a zero. Ma essi sono camicie brune da eliminare al momento giusto per ereditarne i manipoli.
Un progetto? Piuttosto un modus operandi; perché la destra ufficiale ama il doppiopetto e la identificazione istituzionale. Anzi, come è stato tipico della destra di questo Paese, ama sbandierare l’identificazione con l’Italia. Ma non ha difficoltà ad associarsi anche pubblicamente, anche in alleanze di governo e anche in patti elettorali, sia con gruppi che insultano e rifiutano pubblicamente la bandiera del Paese, sia con personaggi grigi e minori, moralmente squalificati e politicamente poco più che capi-banda, che compaiono come «fascisti autentici» in questo libro e in questo video e nei margini oscuri della vita italiana.
Ciò vuol dire: la destra italiana si tiene a poca distanza dalla discarica quasi solo teppistica di ciò che resta e torna a dichiararsi fascista, nel caso che fosse necessario reclutare in fretta manovalanza diretta da quell’area. C’è di più. C’è qualcosa che è come una certificazione autentica di tutto ciò che leggerete e vedrete qui, compresi aspetti che un tempo sarebbero stati considerati impossibili e inammissibili.
Francesco Storace si fa fondatore de «La Destra» e subito segnala, con modalità non equivoche, di essere pronto adesso, subito, al reclutamento della destra che si riconosce e si esprime nel Nazirock, ovvero nelle forme primitive di fascismo. Tutti i testi di inchiesta giornalistica aspirano alla attualità immediata.
Questo che leggerete è incalzato da fatti accaduti dopo il libro, che servono da inequivocabile verifica del libro stesso. Poiché è una verifica del peggio, diventa chiaro per il lettore che questo libro e questo video sono anche un fondato e documentato segnale d’allarme.
Testo tratto dal libro «Ho il cuore nero» distribuito da Feltrinelli assieme al dvd del film «Nazirock»

organizzato da Giacomo Marramao
l’Unità 29.3.08
Festival della filosofia. Quel ’68 globale che ci cambiò la vita
di Bruno Gravagnuolo

MANIFESTAZIONI Presentato a Roma il Festival della Filosofia dedicato a quell’anno «Tra pensiero e azione». Politica, cinema, musica, teatro, arti visive e tanti ospiti, da Cohn-Bendict, a Fabio Mauri, a Bertolucci

Il ’68 come «anno filosofico»? Perché no? In fondo «filosofici» a loro modo furono il 1789, il 1848. E per tutta una tradizione ideologica il 1917, fino allo spartiacque del 1989, data periodizzante in anticipo di un intero secolo («breve»), secondo Hobsbawm, e come gli altri degno di incarnare «destino» filosofico-storico. Oggetti-Eventi che hanno alimentato sistemi di pensiero. Da Hegel a Marx, fino al tardo epigono nippo-americano Fukuyama, con la sua inflazionata «fine della storia».
Ecco, il terzo festival della Filosofia romana all’Auditorium Parco della Musica, dal 17 al 20 aprile parte in fondo da una percezione di questo tipo. Titolando: «’68, tra pensiero e azione». E perciò dedica i suoi lavori all’anno infame per alcuni. Mirabile per altri, trascurabile per tantissimi altri, specie di questi tempi. Allorché sui media lo si sta traguardando come anniversario con grande sciatteria. Fatte salve rievocazioni reducistiche, scontati anatemi sulla «violenza ideologica», demistificazioni goliardiche tipo: «Meglio gli anni 60!». E qualche polemica, strano a dirsi, solo dentro la destra. Con da una parte l’ex rosso Adornato e Gasparri a maledire, e nientemeno che Fini a fare autocritica, su certe sottovalutazioni destrorse di quell’anno non privo di valenze positive!
Perciò i curatori del Festival, Paolo Flores D’Arcais, per Micromega, e Giacomo Marramao, per l’associazione Multiversum, hanno deciso di riproporre il tema, alla sinistra e da sinistra. Per aiutarla a riconoscersi, visto che stenta a farlo, benché il 68 sia uscito dal suo seno a conti fatti. E più in generale, non solo come scadenza da coprire. Ma come invito a una riflessione d’epoca, su un’«epoca-cesura» di cui tutti siamo figli, anche chi vi si oppose, e nondimeno ne gode ancora i frutti. Quali? Per sommi capi li ha riassunti Paolo Flores, alla presentazione ieri con Marramao, il presidente dell’Auditorium Gianni Borgna e l’amministratore delegato della «Fondazione Musica per Roma» Carlo Fuortes. E i frutti furono: rinnovamento del linguaggio, politico e non solo. Libertà dentro i media, «con una generazione di giornalisti innovativa e più coraggiosa», molti dei quali peraltro approdati oggi su sponde moderate o peggio. E poi i diritti civili, dal divorzio in poi, un’idea della giustizia non formalistica e attenta ai rapporti sociali. E ancora, l’estensione dei diritti del lavoro, il salario, la liberazione della donna, l’autovalorizzazione della soggettività, la Chiesa intesa non più come gerarchia bensì «comunità» e la famiglia non più autoritaria o patriarcale. Infine lo svecchiamento di tutta la cultura, le scienze umane, l’uso democratico del sapere, la rivolta antipsichiatrica. Il diritto anche dei poliziotti di scioperare. Cose lontane e straordinarie, inimmaginabili prima. Ma vicinissime e presenti, divenute senso comune, quasi ovvie. Non è poco a pensarci. Specie se si riflette sul fatto che le novità irrompevano in un panorama angusto e provinciale come l’Italia di allora. Ma poi erano un’onda internazionale. Una fenditura avvolgente tra blocchi geopolitici ed equilibri coloniali rimessi in discussione. Da una generazione mondiale, che si autoriconosceva nella simultaneità dei media. Per la prima volta chiamata a inverare la profezia di uno sconosciuto sociologo canadese come McLuhan: «villaggio globale». Fu, ha notato Giacomo Marramao, «un’immensa rivoluzione culturale, non alla cinese, ma democratica. E però innanzitutto culturale e non istituzionale, né di vero ricambio di classi dirigenti». Rivoluzione che allarga il Welfare nel mondo, genera contraccolpi conservatrici, sia negli Usa che in Urss, e che scava nondimeno. Mentre in Italia, terra di frontiera tra potenze, dura di più. Per tanti motivi: arretratezze, culture di sinistra più fort, capacità, della bistrattata sinistra di allora, di tenere aperto un sentiero, prima che il neoconservatorismo lo chiudesse. Un 68 ambivalente da noi, tra spinte libertarie e pulsioni marx-leniniste di ritorno. Con la rottura del movimento in «gruppi», ciascuno con la sua ipotesi di rivoluzione, e la reazione terrorista di destra. Che poi alimenta il terrorismo di sinistra, sempre nel quadro geopolitico di allora, segnato dall’ossessione del fattore K.
Di tutto questo si parlerà al Festival, a partire dalla tavola rotonda del 17, ore 15. Con Roberto Esposito, Massimiliano Fuksas, Oskar Negt, Peter Schneider, Pere Vilanova, Toni Negri. Tema: «Dalla critica alle armi? Il 68 e il problema della violenza». Dunque, un diorama senza nostalgie, di cinema, arte, musica, politica, teatro. Con ospiti illustri, da Fabio Mauri a Bertolucci, a Cohn-Bendict. E aperto da un incipt sulla violenza, che non elude abbagli e aspetti tragici di quel tempo di liberazione.

l’Unità 29.3.08
Prematuri, il vero obiettivo è la 194
di Carlo Flamigni

PER RIAFFERMARE la «sacralità della vita» il Cnb ha votato un documento che di fatto esclude i genitori nelle decisioni che riguardano l’eventuale rianimazione dei neonati molto precoci

La decisione del Cnb di criticare quel testo è una scelta sbagliata

La Carta di Firenze aiuta a capire come comportarsi nel caso di feti molto prematuri

Il documento della maggioranza del Comitato Nazionale per la Bioetica (Cnb) sulla rianimazione dei neonati precoci nasce con l’intento di estendere la dittatura dell’embrione anche al feto. La microetica delle quattro cellule, lo sappiamo, ha uno scarso impatto sulla gente, a meno che non la si corredi di qualche fiorita invenzione, come quella che nel passato immaginava la possibilità di acchiappare gli animaluncoli trasportati dal vento con qualche mirabolante setaccio. Impressionare gli ingenui trasportando la questione sul feto ha migliori possibilità di successo: e così ci hanno riprovato. Il Cnb comincia criticando la Carta di Firenze, accusata di istituzionalizzare l’abbandono terapeutico dei feti nati alla 22ma e alla 23ma settimana (il documento parla di una aprioristica decisione di desistenza terapeutica). In realtà non è così, la Carta di Firenze afferma che «ogni decisione deve essere individualizzata» e semmai invita a riflettere circa le gravi conseguenze che certi interventi della tecnologia possono avere. È, dunque, un’accusa senza alcun fondamento, che rivela come si voglia, ancora una volta, accuratamente evitare l’oggetto vero del contendere: si tratta di sapere se valga il carattere esclusivo della sacralità della vita come vogliono i cattolici più dogmatici o invece il carattere della sua qualità per tutti gli altri, punto che si concreta nel sapere cosa significhi restituire a una famiglia un figlio con le qualità cognitive di una pianta o con l’impossibilità di godere di un solo minuto di felicità. Per riaffermare la sacralità della vita, il documento della maggioranza del Cnb esclude il coinvolgimento dei genitori nel processo decisionale al riguardo, perché la loro voce introdurrebbe «parametri di valutazione estranei alla questione bioetica decisiva»: in caso di dissenso, dovrebbe essere sempre l'opinione del medico a prevalere. Per una minoranza del Cnb (Flamigni, Guidoni, Mancina, Neri, Toraldo di Francia, Zuffa), invece, la volontà dei genitori dovrebbe essere sempre prevalente, per molte ragioni ovvie. In primis perché grande parte di questi trattamenti sono ancora sperimentali e incerti, per cui non possono neppur essere iniziati senza il consenso informato dei genitori. Ridurli al silenzio è violare un sacrosanto diritto. Inoltre, perché sono i genitori che devono valutare le gioie e le sofferenze causate dalle terapie e dalla crescita del nato.
L’esclusione dei genitori da parte della maggioranza del Cnb è così incredibile che la si può spiegare solo come reiterato attacco alla legge 194. La medicina è cambiata, si dice. È possibile quindi che un feto abortito perché portatore di malformazioni risulti invece vitale, per cui deve necessariamente essere rianimato. I progressi della medicina impongono di cambiare le regole, di modificare la legge.
Sciocchezze. Il ragionamento non funziona perché la legge 194, nella parte che riguarda le interruzioni di gravidanza dopo il novantesimo giorno, dice chiaramente che se il medico ritiene che esistano possibilità di vita spontanea per il feto, la gravidanza può essere interrotta solo quando mette a repentaglio la vita della madre, la condizione di necessità che fa tacere tutte le altre norme e che era valida persino ai tempi delle vecchie leggi fasciste. Plaudo dunque alla tenacia, non certo alla intelligenza di questo ennesimo tentativo di attaccare la 194.

l’Unità 29.3.08
Una pagina per tornare a discutere
di Maurizio Mori

Riprende la pagina «Bioetica laica» per l’approfondimento dei temi oggi chiamati “eticamente sensibili”. Negli ultimi due decenni, sui vari temi della bioetica la Consulta ha sviluppato un corpus di riflessione abbastanza ampio da poter offrire spunti per un orientamento non occasionale. L’etica non è monopolio delle religioni, come ancora molti credono. Anzi, queste mostrano di far fatica a capire le novità apportate dalla rivoluzione bio-medica e stentano a stare al passo coi tempi. La bioetica laica non ha dogmi né ortodossie, ma non rinuncia a dare risposte alle esigenze morali delle persone che, vivendo in un mondo secolarizzato, vogliono cogliere le opportunità offerte dai progressi scientifici.
Il tema scelto è difficile: che fare dei grandi prematuri? Fino a qualche anno fa la natura procedeva inesorabile. Ora, invece, la decisione tocca a noi. Si presenta un dilemma nuovo e lacerante. Non ci sono soluzioni precostituite già pronte. Per trovarle ci vuole un dibattito pubblico, aperto e razionale, che eviti roboanti dichiarazioni di principio e retorici appelli alla vita come entità astratta. Ci vuole l’umiltà di valutare bene le conseguenze e, senza facili irenismi, anche le capacità delle persone di sopportare situazioni magari tragiche. Soprattutto, va evitato il criterio tutto italiano del doppio binario: “non lo dico forte, ma lo faccio”. Ecco perché la Carta di Firenze è un buon inizio, e il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica (Cnb) un’ennesima delusione.
Presidente della Consulta di Bioetica

Questa pagina è stata realizzata in collaborazione con la Consulta di Bioetica Onlus, un’associazione culturale che promuove la bioetica in prospettiva laica.
Per informazioni e iscrizioni consultare il sito: www.consultadibioetica.org o chiamare il numero 0258300423. Come Onlus può ricevere donazioni ed essere destinataria del 5 per mille: nella dichiarazione dei redditi è sufficiente mettere la firma nello spazio riservato alle onlus e indicare il codice fiscale della Consulta: 97362610152

l’Unità 29.3.08
Come avviene in altri Paesi anche in Italia è stato preparato un documento per guidare medici, genitori e giudici nelle situazioni difficili
Carta di Firenze, per una medicina senza accanimento
La bioetica e il mondo laico
di Maria Serenella Pignotti

Il testo è noto anche all’estero e si basa sui dati acquisiti dalla scienza
Abbiamo voluto porre dei limiti all’accanimento proprio come avviene in tutti i Paesi civili

La Carta di Firenze nasce da un lungo lavoro svolto attraverso varie fasi, che ha ricevuto il consenso di molti medici impegnati ogni giorno sul campo. Non è nata in quattro e quattrotto, da pochi ispirati e non si discosta da analoghi documenti pubblicati in tutto il mondo. Non si discosta, soprattutto, dalle raccomandazioni per la rianimazione in sala parto dell’Ilcor, la massima organizzazione internazionale di esperti che suggerisce le cure palliative sotto le 23 settimane, la rianimazione a 25, un’attenta aderenza ai desideri dei genitori nelle due settimane intermedie, le 23 e le 24: la cosiddetta “zona grigia”, zona nella quale l’appropriatezza dell’intervento aggressivo medico è così discutibile e priva di evidenze scientifiche che diventa preponderante il volere dei genitori, sia che essi chiedano o non consentano le cure intensive. Il negare l’indicazione che l’età gestazionale (Eg) offre nella valutazione della prognosi, significa perdere l’unico parametro significativo per la sopravvivenza e quindi sottoporre a cure inutile e dolorose quanti non hanno il biglietto d’ingresso per la vita extrauterina: tutti quei feti/neonati che presenteranno segni di vita alla nascita, ma segni della vita intrauterina che si sta spengendo, non di una possibile vita extrauterina.
Quello della diagnosi differenziale alla nascita è un capitolo della medicina estremamente difficile, non vi è dubbio. È difficile distinguere tra meri segni di vita e segni di vita suscettibili di rianimazione, preludio di una vita extrauterina. Ma farlo costituisce uno dei doveri del medico. I medici non vogliono uccidere bambini, vogliono solo curarli bene, e curarli bene tutti, anche quelli che moriranno. È più semplice rianimare tutti e comparire sui giornali coi bambini del miracolo, pubblicare nuovi dati e sperimentazioni. Molto più difficile è prendersi la responsabilità di giudicare un intervento come inutile e non intraprendere o interrompere un trattamento per cambiare programma verso le cure palliative.
Con la Carta di Firenze abbiamo chiesto aiuto, abbiamo voluto dire alla società la verità, altro dovere di un medico, affinché si smetta di credere nelle favole e nelle bugie e si offrano le cure migliori concretamente possibili. Abbiamo voluto porre dei limiti all’accanimento ed alla sperimentazione, esattamente come hanno fatto tutti i Paesi civili del mondo. Abbiamo voluto difendere i bambini da cure sproporzionate ed abbracciare i genitori di quelli che non ce la faranno, abbiamo voluto difendere i medici da accuse senza senso nei Tribunali. La Carta di Firenze rappresenta anche un esempio di lavoro di gruppo, multidisciplinare, che non ha eguali. E si è già espressa. È già conosciuta, in Italia come all’estero. Essa è basata sui dati acquisiti dalla scienza e dalla sensibilità umana. Le critiche mosse, affidate ad analisi astratte e, soprattutto, saltando a piè pari i genitori - unico Paese al mondo - non aggiungono nulla di nuovo. Per questo la Carta rimane come un documento fondamentale a cui, nelle situazioni di rischio, medici, genitori e giudici potranno ispirarsi, esattamente come all’estero. Per curare una creatura così piccola e così delicata, non ci si può affidare, magari nottetempo al primo medico che capita desideroso di sperimentare terapie mai validate. Ci vuole una medicina basata sull’evidenza, moderna, fatta di conoscenze, dati supportati dalla ricerca internazionale, una medicina basata sui fondamentali principi di etica medica che vogliono per tutti cure appropriate e non sfarfallii di speranze senza senso, fonte di dolore per il bambino e per la sua famiglia.

l’Unità 29.3.08
Eugenetica alla rovescia
di Sergio Bartolommei

La scelta del Cnb

Il Comitato Nazionale di Bioetica si è espresso, a maggioranza, per l’obbligo dei medici di rianimare feti nati vitali, indipendentemente dal periodo di gestazione e anche contro la volontà dei genitori. La decisione suscita sul piano etico forti perplessità, per almeno due ragioni. La prima riguarda i casi di aborto terapeutico, in cui il medico non può ignorare che la volontà della donna era di interrompere la gravidanza. È vero che la legge fa obbligo di rianimare il feto nato vitale, come si trattasse di una "persona" con diritto alla vita. Ma non si può dire che, perché la tecnica ha abbassato il limite della mera vitalità, sia etico costringere a essere madre di un futuro individuo malformato una donna che, a queste condizioni, madre non intendeva affatto diventare. La tecnica crea qui un nuovo dilemma e compito di un Cnb è riflettere sui dilemmi morali. Prescindere dal consenso della donna con l'appello autoritario alla legge è un modo di risolvere i problemi tagliando i nodi anziché cercare di scioglierli.
La seconda ragione riguarda proprio la previsione di gravi e gravissime malformazioni dei grandi prematuri. Secondo dati recenti, il feto di 22 settimane raramente reagisce alle cure intensive e muore. A 23 settimane si registra una sopravvivenza del 32% circa dei feti, e di questi l’80% presenterà gravi o gravissime disfunzioni neurologiche. Alla 24esima settimana la sopravvivenza passa al 60% con il 40% dei sopravvissuti che avrà danni analoghi. Anche se tali previsioni non possono confidare, come peraltro tutti gli atti medici, sulla certezza assoluta, l’incertezza non giustifica la decisione di rianimare sempre e comunque. L’incertezza, di per sé, giustifica solo riflettere, caso per caso, se ostinarsi a rianimare o optare per cure confortevoli che accompagnino alla morte i neonati fortemente pre-termine. Un’etica che stabilisse il dovere incondizionato di rianimare già a partire da 22 settimane rischierebbe di introdurre una intollerabile forma di eugenetica alla rovescia. In nome di una astratta “cultura della vita” legittimerebbe l’obbligo istituzionale di portare all’esistenza individui che, presentando alti rischi di gravi malformazioni e patologie, conosceranno vite contrassegnate da acuti disagi, dolori e sofferenze.
Il Cnb replica che, a meno che non si accetti di interrompere l’assistenza a tutti i disabili qualunque sia la loro età anagrafica, non è lecito interrompere o non iniziare trattamenti ad alcuni prematuri solo per evitare futuri handicap. Ci pare tuttavia che una decisione non implichi l’altra. Una cosa infatti è impegnarsi a mitigare e correggere i colpi della sorte ai disabili già nati; altra cosa è istituire l’obbligo di portare all'esistenza individui con probabili gravissime disabilità. Questa seconda scelta si avvicina al danneggiare intenzionalmente le persone dando loro il peggiore avvio possibile alla vita.
La “cultura della vita” non è “feticismo della vita” e non può essere la vuota “possibilità di sopravvivenza” dei grandi prematuri, come chiede il Cnb, a fungere da criterio per questo delicato tipo di scelte.

l’Unità 29.3.08
Perché difendo il ministro Mussi
di Pietro Greco

«Scusate la franchezza, ma se Mussi si fosse occupato un po’ di più, e con idee più chiare, del suo ministero, l’Università, l’istituzione in cui opero, non sarebbe al collasso (perché di questo si tratta). Dubito fortemente che i docenti universitari di sinistra lo voteranno».
Lo confesso. Mi ha colpito leggere queste parole nell’editoriale firmato dal professor Alessandro dal Lago e pubblicato lo scorso 25 marzo sulla prima pagina di Liberazione, il quotidiano della principale formazione politica che concorre alla Sinistra L’Arcobaleno, con il titolo «Sinistra, sono deluso ma ti voto».
E non perché, in piena campagna elettorale, è inusuale che un quotidiano riferimento di una parte politica in corsa assuma posizioni così ferocemente autocritiche. Criticare se stessi è sempre un atto di coraggio ed è bene che questo coraggio si manifesti anche in campagna elettorale.
Non è dunque per il metodo, cui plaudo, che sono rimasto colpito, ma per il merito, da cui dissento. Per tre motivi. Primo: l’università e la ricerca pubblica in Italia non sono al collasso, anche se versano in gravi difficoltà. Le performances scientifiche e didattiche di ricercatori e docenti hanno buoni e obiettivi riscontri, in media. Secondo, l’università e la ricerca non sono in gravi difficoltà a causa dell’inazione di Fabio Mussi: sono almeno quarant’anni che queste condizioni di difficoltà sussistono. Terzo, i professori universitari e i ricercatori, tutto sommato, possano votare per la sinistra (per il centrosinistra del PD o per la sinistra dell’Arcobaleno) senza sentirsi troppo delusi né dal ministro né da altri: in questi venti mesi qualcosa di buona è stato fatto.
Premetto che sono stato un consigliere del ministro dell’Università e della Ricerca e che, quindi, ho una visione orientata delle cose. Ma cercherò di far tesoro dell’ammirazione dovuta a chi è capace di criticare serenamente se stesso.
Forse ce ne siamo dimenticati. Ma Fabio Mussi assunse la direzione del ministero quando l’Italia, per volontà del suo predecessore, la signora Letizia Moratti, e del governo Berlusconi, partecipava alla minoranza di blocco che in Europa impediva non solo il finanziamento alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, ma impediva il varo del VII Programma Quadro, ovvero dell’intera politica di ricerca dell’Unione. Il primo atto del nuovo ministro fu di revocare l’adesione alla dichiarazione della minoranza di blocco. Un chiaro segnale di svolta. Che restituiva non solo un carattere di laicità alla posizione italiana, ma restituiva l’Italia all’Europa della ricerca. Cui la stessa Moratti l’aveva sottratta, ingaggiando furiose battaglie, come quella contro l’European Research Council (Erc) e la sua autonomia.
Forse ci siamo dimenticati che solo venti mesi fa alla testa degli Enti pubblici di ricerca c’erano molti personaggi scientificamente discutibili. E che oggi per la gran parte sono stati sostituiti da scienziati di assoluto e riconosciuto valore internazionale: da Giovanni Bignami all’Agenzia spaziale italiana, a Luciano Maiani, presidente appena insediato al Coniglio Nazionale delle Ricerche. Ma la buona novità non è solo nei nomi (e non sarebbe davvero poca cosa): ma nel metodo. Il ministro ha messo in moto meccanismi (come il search committee) che conferiscono minore potere arbitrario alla politica e maggiore autonomia alla ricerca.
E anche sull’università non sono state né poche né banali le azioni di Fabio Mussi. Si è battuto contro la proliferazione delle sedi e dei corsi (degenerazioni la cui responsabilità ricade quasi tutta sui docenti e sull’interpretazione per così dire minimalista che hanno dato della pregevole e necessaria riforma Berlinguer), contro le università telematiche poco accreditate, contro le lauree facili, contro i fenomeni - ahimé troppo frequenti - di clientelismo e persino di nepotismo. Ha spinto ormai quasi in porto l’Anvur, con le sue due idee forti che l’università deve essere valutata da organismi indipendenti e che il merito va premiato. Ha varato - dopo anni di blocco - un piano di assunzioni di ricercatori bloccato in maniera francamente criticabile dalla Corte dei Conti.
Indubbiamente si poteva fare di più. Ma è altrettanto vero che in questi venti mesi Fabio Mussi ha tirato la corda dalla parte giusta, riaffermando il valore strategico del sistema pubblico dell’alta formazione e della ricerca per il nostro paese nel quadro europeo. Non è poco, visto che solo venti mesi fa c’era un ministro, la signora Moratti, che tirava con vigore dalla parte opposta.Ma, in omaggio alla virtù della serena critica a se stessi, occorre ricordare anche i limiti dell’azione del Ministro. Si è fatto troppo poco, per esempio, per sciogliere le incrostazioni burocratiche all’interno stesso del Ministero. Ma forse è meglio uscire delle questioni, pur importanti, di settore per arrivare ai tre nodi fondamentali.
Primo: la questione dei fondi, per l’università e per la ricerca pubblica. In questi venti mesi non c’è stata la svolta. Sono stati risanati i conti dello Stato, ma non sono state trovate le risorse nuove e aggiuntiva da dare a centri di ricerca e università, per consentire all’Italia di uscire dalla situazione di stallo e iniziare a correre come gli altri paesi verso la società della conoscenza.
Secondo: non sono stati sufficientemente qualificati gli incentivi alle imprese. Sarebbe stato opportuno premiare le imprese che cambiano specializzazione produttiva in direzione dei beni high-tech e/o ad alto tasso di conoscenza aggiunto.
Terzo: non si è riusciti ad imporre l’idea che la ricerca scientifica e l’alta educazione non sono questioni settoriali, sia pure importanti, ma sono l’unica e l’ultima chance che abbiamo per fare uscire il Paese dal declino economico.
Certo, Fabio Mussi non è riuscito a fare tutto ciò. Ma tutto ciò non poteva farlo da solo. Questi sono obiettivi mancati dall’intero governo di centrosinistra. E sono, a ben vedere, i motivi per cui il governo - privo di un grande progetto oltre quello di risanare i conti dello stato - è durato venti e non sessanta mesi.Potremmo dire che Fabio Mussi doveva tirare con più forza, ma dobbiamo rilevare ancora una volta che è stato tra i pochi nell’intero centrosinistra a tirare nella direzione giusta.
Non è una questione personale, naturalmente. Se la sinistra - quella moderata del Pd o quella radicale dell’Arcobaleno - non fa i conti con il grande tema della società della conoscenza, della necessità di assicurare autonomia e risorse alla ricerca e all’alta formazione, della necessità di cambiare la specializzazione produttiva del sistema paese per realizzare uno sviluppo ecologicamente e socialmente sostenibile, rinuncerà a un’idea di futuro e si condannerà a vivere, chissà per quanto tempo, tra polemiche interne e delusioni esternate.

Repubblica 29.3.08
Berlusconi: il Senato è in pericolo temo l´Udc e l´intesa Sinistra-Veltroni
"Anche Ruini lo sa, i voti ai centristi aiutano l´avversario"
Casini: saremo determinanti, l´Italia ha bisogno di un governo dei migliori
di Ginluca Luzi

ROMA - «Siamo in vantaggio di 8,6 punti sul Pd e non ci sono tanti indecisi, ma solo persone riservate», proclama Berlusconi che accusa Veltroni di aver fatto un accordo con la sinistra radicale per tornare insieme dopo il voto. «Mai come oggi il distacco appare così ridotto e molti indecisi si orientano verso il Pd», replica il leader del Partito democratico. Mancano due settimane al voto e lo spettro del pareggio o di una vittoria risicata turba la sicurezza del leader del Pdl che ha una ossessione, anzi due: Casini e la par condicio. Non c´è comizio - e ormai ne fa uno o due al giorno - in cui non dedica almeno mezz´ora per spiegare con pignoleria agli elettori di centrodestra che «se votano per l´Udc tolgono voti al Pdl e fanno il gioco di Veltroni». Anche ieri al Palazzo dei Congressi dell´Eur alle donne del Pdl ha ripetuto il messaggio. «Un elettore che non vuole la sinistra al governo - avverte Berlusconi - non può dare il voto ai partiti minori, sottraendolo al Pdl che è l´unico che può vincere. L´Udc - ammette il Cavaliere - ha un appeal su alcuni elettori, anche grazie alla legge idiota, illiberale e liberticida della par condicio che porta alla crescita dei partiti minori. Ma partiti così non riusciranno comunque a superare la soglia di sbarramento e un voto dato a loro sarà un voto dato alla sinistra. Nessuno di questi partiti ha la possibilità di superare la soglia di sbarramento dell´8 per cento al Senato. Non eleggeranno nemmeno un senatore». E per rendere il messaggio ancora più convincente per l´elettorato di centrodestra, Berlusconi non esita a coinvolgere anche il cardinale Ruini, di cui si era detto che fosse il principale sponsor del partito di Casini. «Io non posso dire nulla del cardinale Ruini se non il fatto che è una persona eccezionale. - afferma in un´intervista al gruppo Class - Posso assicurare che non mi risulta che lui non sia al corrente del sistema elettorale, ed essendo persona di estrema competenza, intelligenza, e ragionevolezza, non può che considerare la realtà: e cioè che i voti dati agli altri partiti del centrodestra, che non siano al Popolo della libertà, siano voti utili al centrosinistra». Arruolato anche il cardinale Ruini nell´esercito del «voto utile», Berlusconi promette che l´abrogazione della par condicio sarà uno dei primi atti del governo se tornerà a Palazzo Chigi. «Una legge idiota, illiberale e liberticida. - la definisce il leader del Pdl - In nessun paese si dà lo stesso spazio a ogni partito: è illogico e folle che un partito del 46 per cento debba avere lo stesso spazio di un partito del 3-4 per cento». Casini pensa che il suo partito sarà determinante per la Camera e per il Senato e «di poter fare la differenza in tutta l´Italia meridionale a partire dalla Sicilia». E in un certo senso il leader dell´Udc prefigura un esito elettorale senza un vincitore netto. «Se dovessi governare - dice Casini - mi ispirerei al principio di realizzare il governo dei migliori». L´ex presidente della Camera nega che si tratti di un governo di larghe intese: «E´ un´altra cosa, è l´assunzione di responsabilità nell´individuare le persone migliori per servire il nostro Paese. Io credo - spiega Casini citando come esempi De Castro (ministro dell´Agricoltura di Prodi) e Gianni Letta (sottosegretario di Berlusconi a Palazzo Chigi) - che in alcuni dicasteri è necessario utilizzare le competenze ovunque esse siedano». Oltre che su Casini l´attacco di Berlusconi si concentra naturalmente sul leader del Pd. «Quelle di Veltroni si sono rivelate bufale, i suoi giochi di artificio sono finiti, è caduto nel pieno e assoluto ridicolo», spara a zero il Cavaliere. «Si è presentato dicendo "io sono il nuovo, vengo da Marte", promettendo che avrebbe presentato una nuova classe dirigente. E´ andato a raccattare qualche industriale fuori corso o qualche figlio di industriale che i fratelli maggiori mandano in centro per non far danni in azienda, poi ha presentato le liste e dentro ci sono tutti, ma proprio tutti i ministri, viceministri e sottosegretari del governo Prodi». Ma l´accusa più velenosa è quella di un accordo con quella sinistra radicale da cui Veltroni ha preso definitivamente le distanze. «Nei corridoi della politica, - sostiene Berlusconi - si dice che c´è già un patto tra Veltroni e i signori della sinistra che orgogliosamente si proclama ancora comunista, per tornare insieme dopo le elezioni».

Repubblica 29.3.08
Dall´Emilia alla Toscana, ma anche dalla Lombardia al Veneto, il voto disgiunto rischia di penalizzare il Pdl
Il risiko che inquieta il Cavaliere in sette regioni può perdere senatori
di Claudio Tito

In alcuni casi un pacchetto di voti trasformerebbe il Porcellum in una debacle
Calderoli, l´autore della legge, rassicura: non prenderemo meno di 167 senatori

ROMA - Solo qualche migliaio di voti. Una leggera oscillazione in alcune regioni e il voto al Senato diventa una vera e propria lotteria. E già, perché il "porcellum" rischia di trasformarsi in un boomerang per Berlusconi e il Pdl che solo due anni fa lo avevano approvato.
Un pericolo che il Cavaliere ha ben presente. Gli ultimi sondaggi gli hanno fatto perdere le certezze coltivate fino a qualche settimana fa. Palazzo Madama ora è «in bilico», ammette con i suoi. «Siamo in vantaggio, ma con questa legge potrebbe non bastare». Un timore così forte da fargli tirare fuori dal cilindro il voto disgiunto e da fargli rispolverare la vecchia ricetta "anticomunista". «Dobbiamo far capire che Pd e Prc si stanno rimettendo insieme - è il suo ammonimento che nelle ultime due settimane di campagna elettorale si trasformerà in una parola d´ordine-. I comunisti si voglio spartire il Senato come con la vecchia desistenza».
Ma su cosa si basano gli allarmi di Via del Plebiscito? Essenzialmente sulle norme che disciplinano la distribuzione dei seggi. Il premio di maggioranza (che assicura il 55% dei seggi) al primo partito di ogni singola regione e la soglia di sbarramento all´8%. Con un´oscillazione di meno di centomila voti, il Pd potrebbe sfruttare a suo favore queste due regole. Soprattutto in due tipologie di regioni: quelle nelle quali prevedibilmente il Pdl supererà il 55% dei voti e quelle in cui il vantaggio democratico è assicurato. In base agli ultimi sondaggi, infatti, il fronte berlusconiano potrebbe andare oltre il 55% in Lombardia, Veneto e Sicilia. Una soglia superabile grazie al fatto che le percentuali vengono valutate e "riparametrate" solo sulla base dei voti "validi", ossia di quelli attribuiti ai partiti che hanno oltrepassato il "barrage". E´ sufficiente, dunque, che in queste tre regioni l´Udc o la Sinistra Arcobaleno vadano oltre l´8% per rendere più complicato al Pdl il compito di superare il 55%. Basti pensare che in Lombardia la Sinistra all´8% significa 4 seggi che in via ipotetica verrebbero sottratti in larga parte ai partiti perdenti, ossia al Pd. Ma un seggio potrebbe essere "rubato" pure al Cavaliere. Lo stesso discorso vale per i centristi che in Veneto - in base ai precedenti - sono vicini allo sbarramento.
Tecnica inversa nelle regioni "rosse". In Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Basilicata la vittoria del Pd è pressoché scontata ma un´affermazione della Sinistra Arcobaleno significherebbe contendere al Pdl i seggi riservati ai "perdenti". Per Bertinotti, è a rischio lo sbarramento in Emilia e in Basilicata e se un "pattuglia" di elettori democratici optasse per il voto disgiunto (Pd alla Camera, Prc al Senato) il numero di senatori a favore del Cavaliere si ridurrebbe almeno di un paio di unità. Non è un caso che un esponente esperto dei Ds, come il bolognese Mauro Zani, abbia già annunciato il voto "splittato". «Al Senato - dice apertamente - voterò l´Arcobaleno per indebolire la destra».
Infine ci sono le regioni in bilico: Lazio, Calabria, Abruzzo, Marche e Sardegna. A parte l´area laziale in cui i sondaggi assegnano un vero testa a testa, nelle altre quattro le preferenze dei sostenitori di Prc, Verdi, Pdci e Sd in "teoria" potrebbero risultare determinanti. Infatti in quelle tre regioni, la Sinistra difficilmente supererà l´8% e dunque non eleggerà senatori. Ma potrebbe dirottare a "costo zero" un pacchetto di voti verso il Pd seguendo il precetto di Zani: «indebolire la destra».
Ipotesi, appunto, che hanno fatto scattare l´allarme in casa Pdl. Il rischio "pareggio" spinge il leader forzista a parlare di «un nuovo accordo tra comunisti». Anche se Roberto Calderoli, che conosce bene la legge elettorale visto che l´ha scritta, è convinto che i dati si siano stabilizzati: «noi non prenderemo meno di 167 senatori».

Repubblica 29.3.08
Risale al 1974 una sentenza profetica di Jacques Lacan
Perché la religione continua a trionfare
di Giancarlo Bosetti

Il maestro francese dichiarava con pessimismo che, a differenza della psicoanalisi, il credo religioso ha l´imbattibile capacità di dare spiegazioni e di rassicurare
Un convegno di lacaniani a Roma
Quel discepolo beffardo che amava Freud

ROMA - L´Association Lacanienne Internationale e l´Associazione "Cosa freudiana", in collaborazione con l´ambasciata francese in Italia, hanno chiamato a discutere a Roma la nota tesi di Jacques Lacan - «La religione trionferà (non la psicanalisi)» - Charles Melman, Giancarlo Bosetti, Muriel Drazien, Jacqueline Risset.
Si tratta di due distinte giornate di studio: la prima si è tenuta ieri al Centro St. Louis de France, la seconda è in programma per oggi a Villa Mirafiori. Il testo di Lacan (una nuova formulazione della funzione del mito di Edipo studiato da Freud dove si trovano legati il simbolico e l´immaginario) è stato recentemente pubblicato da Einaudi, in "Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione", a cura di Jacques-Alain Miller (pagg. 117, euro 14). Qui pubblichiamo una parte dell´intervento di Giancarlo Bosetti.

I rapporti tra religione e psicanalisi cominciano sotto il segno dell´ateismo di Sigmund Freud. Nessun dubbio al riguardo. Con l´Avvenire di una illusione (1927) gli dei che accompagnano l´umanità nella sua storia sono un sostituto e una proiezione del padre, che ritorna dalla esperienza infantile in forma simbolica, per proteggere i suoi figli nel difficile compito di combattere contro i rischi naturali e fronteggiare l´enigma della morte, e per consolarli e guidarli nelle sofferenze della civiltà.
Ancora più nettamente degli altri, il Dio del monoteismo è il titolare di questo «transfert», un fenomeno che occupa un posto centrale nella visione freudiana e che sappiamo, riguarda in generale i Maestri e gli analisti stessi. Freud non si limita dunque a una liquidazione della religione ma ne esamina, anche in altre opere, la funzione negli esseri umani. La sua prospettiva è però limpidamente illuministica; egli ritiene che con l´avanzare della scienza (di cui la psicanalisi è figlia), si farà luce su meccanismi per i quali sono gli esseri umani a produrre gli dei e non viceversa (in modo non tanto lontano da quel che dicevano Feuerbach e Marx).
Come e perché allora un discepolo, sia pure scismatico, di Freud come Jacques Lacan ha sostenuto, come fece in una celebre conferenza stampa a Roma nel 1974, che «la religione trionferà non solo sulla psicanalisi ma su molte altre cose»? Quella volta il suo linguaggio fu meno criptico del solito, anche se in quella stessa occasione ripeté, nel suo stile beffardo, che i suoi scritti non li aveva «scritti per essere capiti», ma solo perché «vengano letti». La sua concezione, dichiaratamente pessimistica, prevedeva il trionfo della religione perché questa ha una imbattibile capacità di dare spiegazioni a tutto e di trovare ogni volta i buoni motivi per acquietare i cuori e regalare «senso». E per dare senso anche agli esperimenti più strani della scienza «quelli che cominciano a procurare un po´ di angoscia agli scienziati stessi».
Lacan non si allontana dunque troppo dalla visione freudiana della religione come illusione infantile e dalla prospettiva di una psicanalisi-rischiaramento, ma ne modifica il carattere in almeno due modi. In primo luogo abbandona la convinzione nella promessa indefettibile di progresso dei lumi. La psicanalisi è una chance che si è affacciata per un momento fortunato, è un «sintomo» che appare come un «lampo di verità». In secondo luogo, rispetto a Freud, Lacan procede molto oltre nel concepire la religione, ben più che come una illusione, come un fatto che ha la sua base strutturale nella realtà umana (è il tema sviluppato da Melman). Il pensiero di Lacan è imbevuto di uno strutturalismo (in debito con Lévi-Strauss) che lega l´essere umano alla religione con un «nodo borromeo», un nodo fatto di tanti anelli sciogliendo uno dei quali si sciolgono tutti gli altri.
La frase di Lacan al centro della discussione rappresenta un momento del suo pensiero, attraversato da una certa sofferta competizione tra analisi e religione. Una competizione in cui entra anche la tendenza delle scuole analitiche a configurarsi come piccole chiese, soggette a rotture e conflitti «confessionali».
La polemica conferenza stampa di Lacan era probabilmente il riflesso di una competizione fra simili, più di quanto né lui né Freud sarebbero stati mai disposti ad ammettere (diverso il caso di Jung, altro scismatico del freudismo, di cui Lacan denunciava apertamente le «stregonerie», più gradite alla Chiesa di Roma). Qualche anno prima un grande studioso della religione, Mircea Eliade, aveva bene illustrato (nelle pagine finali di Il sacro e il profano) una sua idea per tanti aspetti convergente con Freud e Lacan: l´uomo perfettamente areligioso è un fenomeno molto raro; anche la maggioranza dei senza religione si comporta inconsapevolmente da religioso e riempie la sua vita di mitologie e ritualismi, di prodotti delle officine dei sogni, di miti politici, di varie piccole religioni. Ma c´è soprattutto la psicanalisi, con il suo sottofondo iniziatico, a occupare il posto di erede della religione: la discesa nell´inconscio come quella agli inferi, il combattimento con il rimosso come quello con i mostri, le prove di passaggio di morte e resurrezione analitica. Nella visione di Eliade religione e psicanalisi non sono in gara tra loro ma concorrono in fasi diverse a garantire la integrità degli esseri umani.

Repubblica 29.3.08
Nostalgia, una malattia nata nel ‘600
Un saggio fra filosofia e medicina
di Jean Starobinski

La vicenda fisiologica e letteraria di uno dei grandi sentimenti dell´umanità
Il caso del ragazzo malato che guarisce solo quando ritorna nella sua patria
Ulisse prigioniero di Calipso pensa a Itaca e si consuma di dolore sulla riva rocciosa
Il nome è stato coniato solo alla fine del XVII secolo in ambito medico
La sofferenza che un individuo subisce per effetto di una separazione da cose e persone

Anticipiamo parte di un saggio di Jean Starobinski che uscirà sul prossimo numero di Lettera internazionale. Insieme a testi di Karl Popper, Edgar Morin, Hélène Cixous e Hans Blumenberg figura nel dossier «L´uomo, il mito, la conoscenza», pubblicato sul trimestrale diretto da Federico Coen e Biancamaria Bruno. Nel fascicolo sono presenti un dossier sulla democrazia imperfetta, con saggi di Bobbio, Castoriadis e De Giovanni; e un altro dal titolo «Israele e gli ebrei», con interventi di Konrad, Rosenberg e Meghnagi.

Supporre che la nostalgia sia una virtualità antropologica fondamentale è più che lecito: è la sofferenza che l´individuo subisce per effetto della separazione, quando continua a dipendere dal luogo e dalle persone con cui aveva stabilito i suoi primi rapporti. La nostalgia è una varietà del lutto. Tuttavia, il nome con cui la designiamo è un neologismo dotto del XVII secolo (1688) e la tesi secondo cui la nostalgia sarebbe un´invenzione di quest´epoca non è del tutto priva di fondamento. Occorre rammentare che questa parola - nostalgia - entrata oggi nel linguaggio comune (in molte lingue del mondo) è apparsa nel momento in cui il sentimento che designa ha assunto agli occhi dei medici i connotati di una malattia ed è stato catalogato come tale nei libri di medicina. Si tratta cioè di un termine di un linguaggio specialistico diventato in seguito relativamente banale. La vera novità introdotta con l´invenzione della parola nostalgia è insomma l´atteggiamento risolutamente descrittivo (patografico) nei riguardi del sentimento così designato.
Non c´è dubbio che gli atteggiamenti umani precedano l´invenzione dei termini tecnici corrispondenti. Gli uomini hanno provato nostalgia anche prima che tale sentimento fosse definito con una parola dotta, così come il sadismo esisteva anche prima di Sade e la terra ruotava intorno al sole anche prima di Copernico. (...)
Prima di ricevere il suo nome medico-specialistico, la nostalgia era chiamata con un nome più generico: pothos, desiderium - il desiderio. Per spiegare l´origine del nome specialistico, occorre fare prima un passo indietro e tornare nuovamente al desiderio.
Alcuni grandi testi della letteratura epica o sacra danno inizio a quella poetica della nostalgia che ha svolto un ruolo così rilevante nella tradizione intellettuale dell´Occidente, non solo in campo letterario, ma anche nella teologia e nella filosofia. Ci sembra opportuno ricordarli, per poterne riconoscere le tracce più tardive.
All´inizio dell´Odissea, Ulisse è prigioniero di Calipso, che vorrebbe trattenerlo sulla sua isola. Incurante della promessa di immortalità della ninfa, egli pensa a Itaca e si consuma di dolore sulla riva rocciosa. (...) Altrettanto emblematica è l´attribuzione del carattere della dolcezza a ciò che si è perduto. L´aggettivo dulcis si impone come attributo obbligato di ciò che si è dovuto a malincuore abbandonare o perdere e di cui ci si rammenta. E anche l´attributo del ricordo presente, purché non sia troppo lacerante. Lasciamo i nostri dolci campi: «Nos patriae fines et dulcia linquimus arva» (Virgilio, Bucoliche, I, 3). L´inventario dello stereotipo della dolcezza, nelle diverse letterature, occuperebbe intere pagine. (...)

* * *
Non capita di frequente di avere l´occasione di assistere alla formazione di un termine destinato ad aggiungersi al lessico dei sentimenti, di vederlo affermarsi ed entrare nell´uso in diverse lingue. E questo il caso della parola nostalgia.
Possiamo identificare con precisione il luogo e la data della sua nascita: Basilea, 1688. Aggiungiamo il nome dell´autore, il medico Johannes Hofer, di Mulhouse (sul quale non abbiamo molte altre informazioni) e il titolo di un´opera: Dissertatio medica de nostalgia, la tesi di dottorato di Hofer. L´intenzione dell´autore era quella di riflettere dal punto di vista medico sul dolore che affliggeva gli svizzeri che avevano «perduta la dolcezza della patria». Tale dolore, «noto già da tempo con il termine Heim-weh» a coloro che lo pativano, era «chiamato dai francesi maladie du pays». Tuttavia, aggiunge Hofer, il male non era stato ancora sufficientemente studiato dai medici.
E, poiché si trattava di esporre una cosa nuova (res nova), era necessario trovare un nuovo nome per definirla. Così si erano sempre comportati tutti in casi analoghi. «Dopo aver riflettuto a lungo, mi sembra che non possa esserci nome più conveniente e più adatto a designare il suo oggetto del termine nostalgia, di origine greca e composto di due termini, il primo dei quali, nostos, significa "ritorno in patria" e l´altro, algos, indica invece il dolore o la tristezza». Ecco, una volta tanto, un neologismo pedante che suona bene, non troppo pesante e che contiene in sé, sin dall´inizio, la possibilità di essere ripreso nel corpo della lingua volgare, da cui si è voluto distinguere. Il termine sarà accettato dall´Académie Française nel 1835 (ma Chateaubriand se ne era servito già molto prima). Nei paesi di lingua tedesca, fa concorrenza a Heimweh, mentre si afferma in inglese, in italiano, in russo e così via.
La novità è rappresentata evidentemente dall´attenzione del medico, dalla decisione di isolare uno stato di sofferenza per trasformarlo in entità morbosa e sottoporlo alle interpretazioni del ragionamento scientifico. In un´epoca in cui si inaugura la grande opera di inventariazione e di classificazione delle malattie, ispirata al modello della botanica sistematica, è compito del medico mettersi sulle tracce di tutte le varietà suscettibili di arricchire il quadro dei generi e delle specie morbose (genera morborum). (...)
Per Johannes Hofer, la nostalgia è una malattia dell´immaginazione. Egli riprende dunque il concetto di imaginatio laesa, che aveva avuto ampio corso nel Rinascimento e che si poteva invocare in tutti i casi in cui la rappresentazione del mondo e di se stessi appariva in qualche modo disturbata. Per molti autori moderni, tra cui Thomas Willis, il disturbo dell´immaginazione era il prodotto di un´alterazione materiale dei succhi nervosi e degli spiriti animali.
Hofer cita due casi da manuale. Il primo è quello di uno studente di Berna trasferitosi a Basilea: il ragazzo è triste, febbricitante e soffre di angoscia cardiaca. Il suo stato si aggrava di giorno in giorno. E dato ormai per spacciato. Qualcuno suggerisce di riportarlo nella sua patria in barella. Così è fatto. Non appena il ragazzo si allontana da Basilea, i sintomi della sua malattia recedono: il malato respira meglio. Quando giunge a casa, è guarito del tutto. Il secondo caso è quello di una donna condotta in ospedale in seguito a un grave incidente. Quando riprende i sensi, ha una sola idea in testa, tornare a casa: non chiede altro. Si indebolisce al punto che i medici decidono di restituirla ai familiari. In pochi giorni, quasi senza cure, si ristabilisce perfettamente. Il quadro completo della malattia comporta inoltre una tristezza incessante, sonni agitati (dove si rivedono i luoghi del passato) o insonnia totale, insofferenza per le ingiustizie e i maltrattamenti; a cui si aggiungono senso di stanchezza, insensibilità alla fame e alla sete, paura, palpitazioni, frequenti sospiri, prostrazione, spesso accompagnati da febbri intermittenti. (...)
Ma attribuire la nostalgia a una causa di tipo morale non equivaleva ad accusare i giovani svizzeri di pusillanimità, ad attentare al buon nome di una razza vigorosa, forte e coraggiosa? Così la pensava lo scienziato zurighese Johann-Jacob Scheuchzer. (...) Tra coloro che apprezzarono le sue idee e che contribuirono di più a diffonderle, ricordiamo l´abate Du Bos. Per spiegare che cosa fosse lo Heimweh, Du Bos si rifà alle teorie mediche del dottore di Zurigo, ma non esita a ricorrere a Giovenale e a Lucrezio per illustrare meglio la sua tesi: «L´aria del paese natale è un potente rimedio. La malattia chiamata Hemvé in certi paesi, che suscita nel malato un violento desiderio di tornare a casa sua («Cum notos tristis desiderat haedos»: Giovenale Sat. 11) è un istinto che ci avverte che l´aria in cui siamo immersi non è adatta alla nostra costituzione quanto quella che un segreto impulso ci fa sospirare. Lo Hemvé diventa pena dello spirito in quanto è già realmente pena del corpo. Un´aria troppo diversa da quella a cui siamo abituati è una fonte di indisposizione e di malattie. (...) Pur essendo salutare per i nativi, l´aria di un paese può rivelarsi un lento veleno per alcuni stranieri. Chi non ha sentito mai parlare del tabardillo, una febbre accompagnata da sintomi molto fastidiosi che assale quasi tutti gli europei dopo poche settimane dal loro arrivo nell´America spagnola? (...) L´unica cura per questa malattia, che ha molto spesso esiti mortali, consiste nel salassare pesantemente gli infermi e nell´abituarli gradualmente ai cibi del posto. Lo stesso male assale gli spagnoli nati in America al loro arrivo in Europa. L´aria del paese natale del padre è diventata un veleno per il figlio».
Non tutti però erano disposti ad accettare questa dottrina. François Boissier de Sauvages, nato a Montpellier e autore di una Nosologie méthodique considerata all´epoca un testo di riferimento, osserva che la separazione e la perdita sono sufficienti a provocare l´affezione nostalgica, anche senza condanne all´esilio o a variazioni della pressione atmosferica. Arrestarsi alle cause fisiche è sbagliato: «Ho visto il figlio di un mendicante, la cui unica patria erano i crocicchi e le strade, morire per questa malattia, dopo aver perso il padre e la madre. (...) Gli orfanelli che non possono essere accolti nelle famiglie dei parenti e che rimangono nei brefotrofi, muoiono quasi tutti di questa malattia, che né la chirurgia, né la dieta riescono a curare». Sulla base di queste prove, Sauvages giunge a una conclusione molto netta: «La guarigione può essere ottenuta solo con il ricorso a cure morali». Alcuni dei rimedi consigliati sono identici a quelli abitualmente prescritti per curare la melanconia: «Si deve cercare di distrarre i malati con giochi, divertimenti, spettacoli e soddisfare tutti i loro desideri». Nei casi più gravi, tuttavia, il miglior rimedio è il ritorno in famiglia o in patria: «Se la malattia è grave e ostinata, l´unico rimedio in grado di guarirla è quello di rimandare il malato nel suo paese. Per quanto deboli e abbattuti possano sembrare, hanno sempre forze sufficienti per alzarsi dal letto, quando gli si lasci intendere che rivedranno presto la patria; riacquistano le forze e guariscono prima ancora di essere arrivati».
Copyright Lettera Internazionale, edizione italiana. Traduzione
di Stefano Salpietro

Corriere della Sera 29.3.08
L'accusa «Istigazione alla falsa testimonianza»
I magistrati del G8 chiedono il processo per De Gennaro
di Giusi Fasano e Marco Imarisio

GENOVA — La Procura di Genova ha chiesto il rinvio a giudizio per l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro nell'ambito dell'inchiesta sull'irruzione delle forze dell'ordine nella scuola Diaz durante il G8 di Genova (luglio 2001). De Gennaro è indagato dal giugno 2007 per aver istigato l'ex questore di Genova Francesco Colucci a rendere falsa testimonianza durante un'udienza del processo Diaz, che vede imputati alcuni dei principali funzionari della polizia italiana.

«G8, De Gennaro va processato» I pm: istigò alla falsa testimonianza sul blitz alla scuola Diaz
Assieme all'ex capo della polizia chiesto il rinvio a giudizio per l'ex questore Colucci e l'ex capo della Digos Mortola

GENOVA — «Io poi non capisco neppure come questa cosa possa aiutare i colleghi...». Il 26 aprile 2007 c'è la telefonata più importante. I magistrati la considerano una prova definitiva del fatto che l'ex questore di Genova Francesco Colucci non agiva per sé, e neppure per i colleghi, ma per conto dell'allora capo della Polizia. Il collegamento diretto.
La Procura di Genova chiede il rinvio a giudizio per Gianni De Gennaro, indagato dal giugno 2007 per aver istigato Colucci, (promosso prefetto dal 15 febbraio scorso) a rendere falsa testimonianza durante un'udienza del processo Diaz, che vede imputati alcuni dei principali funzionari della Polizia italiana. L'atto di accusa dei magistrati è stato depositato giovedì all'ufficio di presidenza dei Giudici per le indagini preliminari. Viene chiesto il processo anche per Spartaco Mortola, il funzionario che raccoglie le confidenze di un Colucci ignaro di essere intercettato in quanto indagato in una inchiesta sulla sparizione delle false bombe molotov che dovevano servire per «incastrare» i 93 manifestanti arrestati durante il blitz alla Diaz. Ovviamente quest'ultimo è decisamente il più inguaiato. Per lui, l'accusa più grave, falsa testimonianza.
Il documento della procura — alcune decine di pagine — condensa i punti chiave di un'inchiesta che ha messo assieme un'enorme mole di materiale probatorio: intercettazioni, verbali di interrogatori, deposizioni, materiale di repertorio del processo Diaz, quasi 1.300 pagine. Nella loro ricostruzione, la tesi di un'unica regia impegnata a sviare e condizionare il processo per i reati commessi dalla Polizia durante l'irruzione alla scuola Diaz resta sullo sfondo. Tutto è circoscritto alle lunghe chiacchierate (ne vengono citate sei) tra Colucci e il suo sparring partner Mortola, all'epoca capo della Digos di Genova, oggi vicequestore a Torino, che si prende la briga di rinfrescare la memoria al suo ex superiore. Grande risalto viene dato al colloquio del 26 aprile, quando l'ex questore racconta di essere stato a Roma: «Sono tornato ora, e praticamente il giorno 3 maggio devo venire a Genova... Il capo m'ha dato le sue dichiarazioni. Mi ha fatto leggere, poi dice... tu, devi, bisogna che aggiusti un po' il tiro». Colucci riferisce che il capo della Polizia gli chiede di farlo per i colleghi imputati nel processo, ma è perplesso. La richiesta principale riguarda infatti Roberto Sgalla, capo ufficio stampa del Viminale. Interrogato nel 2001, e poi davanti alla commissione di indagine parlamentare, Colucci raccontò di non averlo avvisato affinché si presentasse alla Diaz. Adesso dovrà cambiare versione, ma l'ex questore che dichiara più volte di non ricordarsi davvero nulla («C... sono passati sei anni!») non capisce cosa possa servire ai colleghi da aiutare questo dettaglio. Secondo i pm genovesi, serve soltanto a De Gennaro, per altro mai indagato nell'inchiesta sui fatti della scuola Diaz, per cancellare dalla propria immagine l'ombra di un pur minimo sospetto. Una questione che De Gennaro rischia di pagare cara se il Gip riterrà di accettare la richiesta di rinvio a giudizio. Il 16 novembre, l'ex capo della Polizia aveva scritto a Colucci, invitandolo a riflettere «sulle ragioni che ti hanno indotto a cambiare versione ». Era un invito a presentarsi davanti ai magistrati per chiarire. Ma — dopo molto tergiversare — non è stato accolto dall'ex questore.
Ma già così, per De Gennaro il prezzo da pagare è elevato. L'11 giugno 2007, quando ricevette l'avviso di garanzia, Gianni De Gennaro era ancora il capo della Polizia. Si dimise nove giorni più tardi, la novità sul suo conto era intanto diventata pubblica, per diventare capo di gabinetto del ministro dell'Interno, Giuliano Amato. Con la benedizione dell'intero arco parlamentare, l'8 gennaio scorso ha assunto il ruolo di commissario straordinario per l'emergenza rifiuti in Campania, compito di difficoltà estrema. Da «licenziato», anche per la sinistra radicale divenne l'unica possibile risorsa per risolvere una situazione drammatica. A poco più di un mese alla scadenza del suo mandato, i risultati del suo lavoro — soprattutto a Napoli città — si vedono. Ma il passato, a volte, ritorna.
Giusi Fasano Marco Imarisio
1.300 pagine
Il dossier, tra telefonate intercettate, deposizioni e materiale di repertorio, su cui si basa la Procura Blitz alla Diaz
Le forze dell'ordine subito dopo l'irruzione alla scuola Diaz il 21 luglio 2001. Quella sera l'edificio ospitava 93 persone. Dopo il blitz saranno 63 i feriti.
L'allora vice questore di Roma, Michelangelo Fournier, durante il processo parlerà di «macelleria messicana»

Corriere della Sera 29.3.08
Dietro le quinte Nel partito crescono i timori di non riuscire ad arrivare a quota 8% e di restare fuori dal Senato
Arcobaleno, spunta la strategia anti Pd
L'idea per frenare la fuga degli elettori: il Cavaliere ha già vinto, potete votarci

ROMA — Il primo a non sfoggiare nessun ottimismo di facciata è Bertinotti. I sondaggi rivelano che la «Sinistra Arcobaleno » potrebbe non raggiungere nemmeno quota otto per cento: un risultato che sancirebbe la morte prematura della Cosa Rossa.
Già si dà per scontato che, quale che sia il risultato, Diliberto dirà addio al soggetto unitario. E fin qui poco male, anzi, forse, è meglio che il Pdci si distacchi, pensano dalle parti di Rifondazione, dove uno strappo con la falce e martello viene ben visto. Il guaio è che c'è il rischio che vada tutto a carte e quarantotto, Diliberto o non Diliberto. Bertinotti ne è consapevole: la situazione non è per niente facile, rischiamo di andare male, ripete ad alleati e collaboratori.
Non c'è piazza dove al dirigente di turno della Sinistra gli elettori non spieghino perché alla fine voteranno il Pd: «per battere Berlusconi». La teoria secondo la quale il Partito Democratico, al Senato, dovrebbe aiutare la Cosa Rossa nelle regioni in cui questa formazione è poco al di sotto del quorum, in modo da togliere qualche senatore a Berlusconi, non ha mai convinto Veltroni. Piace ai dalemiani, da Bersani in giù, che sperano in un pareggio a palazzo Madama e in un'intesa di qualche tipo con il centrodestra. Non piace, però, al leader che non vuole «pasticci o inciuci», e che, soprattutto, punta a un Pd con una robusta percentuale. Di più: Veltroni mira a ottenere al Senato un risultato che oscilla tra il 36 e il 37 per cento, più che alla Camera: spera che per la teoria del voto utile gli elettori, a palazzo Madama, optino tutti sul Pd pensando che in quel ramo del parlamento la partita sia tutta da giocare.
Dunque, i leader della Sinistra che aspettavano un dopo Pasqua in cui i sondaggi avrebbero regalato qualche punto in più perché nel frattempo la teoria del voto utile si sarebbe rivelata una falsità, si devono ricredere. Che cosa fare, allora? Nella Cosa Rossa inizia a farsi largo una tentazione: «quella di dire la verità», spiega un dirigente della Sinistra. Ovvero sia di dire pubblicamente ciò che nei palazzi della politica si dà già per scontato: che Berlusconi vincerà e che «quindi non è vero che chi vota Pd contribuisce alla sua sconfitta».
E' solo una tentazione finora, anche perché Bertinotti vorrebbe mantenere la campagna elettorale su toni diversi privilegiando i contenuti rispetto alla propaganda. Ma non è detto che nell'ultimo scorcio di campagna elettorale il presidente della Camera non si debba ricredere. Anche perché è a rischio la «sua creatura», quella che ha fortemente voluto, spezzando le resistenze interne di pezzi importanti del Prc, a cominciare dalla componente che fa capo al ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero. Anzi, a voler essere precisi, è più che a rischio, dal momento che la Sinistra, dopo le elezioni, sarà anche orba di un leader. Non è per farsi pregare nè per finta ritrosia che Bertinotti non vuole capeggiare il nuovo soggetto unitario. E per il suo pupillo Nichi Vendola i tempi non sembrano essere maturi: difficile assumere la guida della Cosa rossa, tanto più se il risultato elettorale sarà deludente.
Sognava un'Epinay socialista, Bertinotti, intravedeva un futuro per una sinistra non più antagonista ma nemmeno di governo. Era convinto che dall'opposizione un simile soggetto si sarebbe potuto costruire più facilmente. Ma, come maligna qualche dirigente del Pdci, invece di fare una nostrana Epinay la Cosa rossa rischia di finire alla stregua del Pcf di Marchais. Una mano a Bertinotti può darla solo Veltroni: il leader del Pd vuole inaugurare una politica «legge e ordine » molto dura che difficilmente piacerà alla sinistra libertaria, ai giovani dei movimenti (e anche ai radicali).
Maria Teresa Meli Pensieroso Il leader della Sinistra Arcobaleno Fausto Bertinotti

Corriere della Sera 29.3.08
Il silenzio dei sondaggi e l'incognita del «terzo partito»
di Massimo Franco

Dietro la guerra psicologica sui numeri l'esigenza di convincere gli astensionisti

Alla mezzanotte di ieri è finito il duello dei sondaggi: non sarà più possibile diffonderli e pubblicarli fino al voto del 13 e 14 aprile. Significa un cambio di passo della campagna elettorale. In queste settimane, le previsioni sono state parte integrante della strategia dei partiti. Martellare di percentuali l'opinione pubblica era anche uno strumento della guerra psicologica fra avversari. Per Silvio Berlusconi, ripetere di avere già vinto con un margine più o meno fisso del dieci per cento significava mostrare illusoria la rimonta del centrosinistra. Ed infatti, quasi di rimbalzo Walter Veltroni ha accreditato un distacco via via minore rispetto al Pd.
Per lo stesso motivo Pier Ferdinando Casini ha attribuito alla sua Costituente centrista numeri tali da renderla decisiva almeno al Senato, grattando voti ai due grandi partiti; e protestato contro «sondaggi artefatti verso il basso». E la Sinistra Arcobaleno si è definita per bocca di Fausto Bertinotti «in rimonta». Non è detto che alla fine i risultati smentiscano i desideri, oltre che la realtà virtuale consegnata dalle colonnine con le percentuali accreditate in queste settimane. I sondaggi sono stati il mezzo più naturale scelto dalle forze politiche per costruire la propria identità; e per proiettare non solo le intenzioni di voto ma la percezione di sé che volevano offrire all'elettorato.
In fondo, da oggi comincia la corsa a fare in modo che le profezie si avverino. Ma sulla loro attendibilità pesa l'incognita di quello che molti considerano «il terzo partito»: gli indecisi. La sua consistenza sarebbe vicina ad un terzo del corpo elettorale, per difetto o per eccesso; per questo viene messo dopo Pdl e Pd. Ma in realtà, qualora la voglia di non andare alle urne si riducesse mano mano che ci si avvicina al 13 aprile, «il terzo partito» potrebbe decidere la vittoria di Silvio Berlusconi e di Walter Veltroni; e rendere i loro avversari determinanti o residuali. Ma finora, è un iceberg di malumori e distanza dalla politica, che nessuno è riuscito a sciogliere.
Il Cavaliere saluta la fase dei sondaggi ufficiali ribadendo un distacco consistente. E il Pd accredita una rimonta tale da sfiorare il pareggio. «Nessuno dei partiti piccoli supererà la soglia per entrare in Senato», aggiunge il leader del centrodestra. Ma poi invita gli elettori ad esprimere «un voto utile», a non disperderlo dandolo magari ai centristi di Casini. Un atteggiamento contraddittorio e nervoso: al punto che Berlusconi ha lanciato segnali anche al cardinale Ruini, considerato un silenzioso sostenitore dell'Udc. È la prova di un'imprevedibilità legata insieme ai fenomeni di protesta ed alla macchinosità della legge elettorale. Soprattutto al Senato, nessuno è in grado di calcolare quanti seggi ogni schieramento sarà in grado di conquistare. È stato detto che in bilico fra voto e astensionismo sarebbero in prevalenza elettori del centrosinistra.
Veltroni ne sembra convinto: forse perché sa di partire da una base di consensi assottigliati dall'impopolarità del governo di Romano Prodi. Ma il «terzo partito» fa paura anche a Berlusconi. Anche per questo, forse, l'ex premier dice di non credere «che ci siano tanti italiani indecisi. Secondo me vogliono solo farsi i fatti loro. E al momento del voto accresceranno il nostro distacco dal Pd». In proposito, è stato notato che Romano Prodi ha rinunciato alla conferenza in tv che spetta al presidente del Consiglio alla fine della campagna elettorale. Palazzo Chigi precisa che l'ha fatto «per non dare un indebito vantaggio alla sua parte politica: vantaggio che Prodi contestò al premier Berlusconi nel 2006». Eppure, i maligni sussurrano che sarà proprio l'assenza di Prodi a dare una mano a Veltroni.

Corriere della Sera 29.3.08
Conto alla rovescia Il presidente del partito: «I superdelegati scelgano il candidato. Prima lo fanno, meglio è»
Hillary sotto pressione: «Devi ritirarti»
Il senatore Leahy: «Non ha possibilità, meglio che appoggi Obama»
Panico tra i democratici per la guerra senza fine tra l'ex first lady e Barack: «Non possiamo trascinare il duello fino a luglio»
di Paolo Valentino

Condi Rice: «La razza il problema degli Usa»
Gli Stati Uniti hanno un problema con la razza dovuto a un «difetto di nascita». Parola del segretario di Stato Condoleezza Rice: «I neri americani hanno partecipato alla creazione di questa nazione. Gli europei per scelta e gli africani in catene. E questa non è una realtà molto bella della nostra fondazione». Secondo la Rice ancora oggi «vediamo gli effetti» di quella partenza sbagliata. «Quel difetto di nascita— spiega — rende particolarmente difficile per noi affrontare la questione o anche solo parlarne».

WASHINGTON — Giunti a dieci primarie dalla fine, per soffiare la nomination democratica a Barack Obama, Hillary Clinton dovrebbe sfidare e smentire l'infallibile prima legge di Murphy: «Se una cosa può andar male, lo farà». Troppi sono infatti i miracoli politici e numerici necessari, non ultimo un'impossibile media del 56 per cento dei voti in tutte le gare che rimangono, perché sia l'ex first-lady a duellare con il repubblicano John McCain in novembre.
Detto altrimenti, la corsa all'investitura progressista per la Casa Bianca è già finita e non è stata Hillary a vincerla. Ma fino a ieri, nessuno nel partito democratico aveva avuto il coraggio di dirlo apertamente. C'è voluto un senatore del Vermont, Patrick Leahy, per gridare che il re è nudo: «Il senatore Clinton non ha alcuna possibilità di vincere la nomination: dovrebbe ritirarsi e appoggiare Barack Obama». È una prima storica. Nessun leader democratico aveva mai detto a un candidato di farsi da parte. E ciò dà la misura del panico che la guerra senza fine tra Hillary e Obama suscita in un partito lacerato e non più sicuro della vittoria, che tutto, dall'economia alla politica estera, sembrava predirgli.
Se n'è reso conto anche il presidente, Howard Dean, che ieri è intervenuto a raffica su radio e televisioni per invitare i duellanti a calmare i toni della polemica, ma soprattutto per sollecitare i circa 350 «Superdelegates », i vip democratici delegati di diritto alla convenzione di Denver, che non l'hanno ancora fatto, a scegliere pubblicamente entro il primo luglio tra Clinton e Obama: «Prima lo fanno, meglio è. Non dobbiamo trascinare questo duello fino alla convention », ha detto Dean. Nel conto complessivo, Obama ha un vantaggio di circa 140 delegati su Hillary, ha vinto in 28 Stati contro i 16 di lei e ha ottenuto oltre 700 mila voti in più.
Fuori dalle file democratiche, dove il mito dei Clinton è ancora forte e l'uscita di Leahy, per quanto condivisa dai più, è considerata un atto di lesa maestà, la discussione sull'opportunità che Hillary si faccia da parte è diventata il tormentone del dibattito politico. Aperto da un articolo di Politico,
uno dei blog più influenti di Washington, il tam-tam rimbalza su editoriali e talk-show. Parafrasando il titolo del libro di Barack Obama, David Brooks, sul New York Times,
ha scritto che Clinton «possiede l'audacia della disperazione ». E Nicholas Kristof, sullo stesso quotidiano, ha ammonito Hillary dal rischio di diventare il Ralph Nader del 2008, evocando il candidato indipendente che nel 2000 spaccò il voto ecologista e impedì di fatto la vittoria di Al Gore su George W. Bush.
Saprà recepire il messaggio, l'ex first lady? No, dice l'opinionista conservatrice Peggy Noonan, secondo cui «Hillary non può vincere la nomination, ma non sa ammettere di poter perdere, perché i Clinton non perdono». E a giudicare dalla reazione dell'interessata, nulla sembra predire un imminente getto della spugna: «La cosa che più spesso la gente mi ripete è di non cedere, di continuare questa battaglia. Mi fa bene, perché è proprio ciò che ho intenzione di fare», ha ripetuto ieri Clinton. Mentre un gruppo di suoi finanziatori ha scritto una lettera quasi intimidatoria alla speaker della Camera, Nancy Pelosi, accusata di voler favorire Obama, solo per aver detto che i Superdelegati dovrebbero rispettare la volontà degli elettori. Intanto nelle prossime primarie, il 22 aprile in Pennsylvania, è considerata lei la favorita, benché ieri Obama abbia ottenuto l'endorsement del popolare senatore dello Stato Bob Casey, che potrebbe rivelarsi prezioso.
Così, vista la determinazione a proseguire il duello almeno fino al 3 giugno, data delle ultime primarie, la domanda diventa: quand'è che Hillary si accorgerà di essere una «dead woman walking», una morta che cammina? Se l'è posta la rivista online Slate, lanciando un «Hillary Deathwatch», un «orologio della morte» dove ogni giorno vengono fissate le sue chance di sopravvivenza. Ha cominciato con un 12 per cento d'incoraggiamento. Chi male incomincia...

Corriere della Sera 29.3.08
La tesi di Shlomo Sand: è solo parte dell'ideologia nazionalista e sionista. «La diaspora? Convertiti». Polemiche e dibattiti, il libro è tra i più venduti
«L'esilio degli ebrei, un mito». Uno storico scuote Israele
di Davide Frattini

È come il sesso: non se ne parla davanti ai bambini. Cari colleghi, voi lasciate che i piccoli imparino falsità: è ora di parlare di sesso

GERUSALEMME — I bambini israeliani la imparano a memoria: «Dopo essere stato forzatamente esiliato dalla sua terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e non cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno e nel ripristino della sua libertà politica». È la Dichiarazione d'indipendenza, insegnata nelle scuole da quando David Ben-Gurion la firmò il 14 maggio di sessant'anni fa. Parole che un professore dell'università di Tel Aviv ha deciso di smontare come «mitologia nazionalista». Il suo saggio è entrato in due settimane nella classifica dei cinque più venduti, al primo posto tra i più discussi e criticati. In 297 pagine, Shlomo Sand sostiene che gli ebrei non vennero esiliati dai romani dopo la distruzione del Secondo tempio: gli ebrei della Diaspora sarebbero i discendenti di popolazioni locali convertite. Racconta la storia della regina berbera Dahia al-Kahina, che scelse la religione ebraica per sé e la sua tribù nordafricana, combattè gli assalti dei musulmani e dal Maghreb emigrò in Spagna per dare origine alla comunità. Gli ashkenaziti dell'Europa orientale deriverebbero invece dai rifugiati del regno cazaro, che si erano convertiti nell'ottavo secolo. «Il paradigma dell'esilio — spiega — serviva per costruire la storia del vagabondaggio tra mari e continenti, fino all'idea sionista che permise un'inversione a U e il ritorno alla terra d'origine». «È uno dei libri più affascinanti e stimolanti pubblicati in questo Paese da molto tempo», commenta lo storico Tom Segev. L'università di Tel Aviv ha organizzato un dibattito pubblico per affrontare le tesi controverse del saggio, intitolato «Quando e come il popolo ebraico venne inventato». Sand si è difeso dagli attacchi, che sono arrivati da destra e da sinistra. I professori di formazione marxista lo hanno accusato di ignorare la storia economica degli ebrei, gli altri docenti lo hanno bollato come antisionista. Dina Porat, storica dell'Olocausto, gli ha detto di aver completamente trascurato la realtà politica dopo la Shoah. Tutti lo hanno criticato per essere uscito dal suo campo e per non aver consultato le fonti originali, visto che insegna e studia la Storia del Ventesimo secolo, in particolare quella francese. Lui ha chiuso trattando di «sesso»: «I genitori non ne parlano davanti ai bambini. Aspettano che vadano a dormire. Cari colleghi, voi sapete quanto me che non c'è stato nessun esilio, ma lo sussurrate solo tra di voi. Voi lasciate che i bambini imparino falsità. È ora di parlare apertamente di sesso».
Come altri «nuovi storici» israeliani, Sand vuole erodere «le fondamenta del progetto sionista». Sa che il suo libro mette in discussione «il diritto storico a questa terra, alla legittimità del nostro essere qua». Non è si è fermato al 1948 o alla fine dell'Ottocento, è andato indietro migliaia di anni. Tenta di dimostrare che il popolo ebraico non ha avuto un'origine comune ed è un mix di gruppi che in varie fasi hanno adottato l'ebraismo: «Quella che si è diffusa nel mondo — spiega — è la religione, non la gente». Così i discendenti del regno di Giuda sarebbero piuttosto i palestinesi. «Nessuna popolazione rimane pura durante un periodo tanto lungo — commenta al quotidiano Haaretz — ma i palestinesi hanno più possibilità di me di essere imparentati con l'antico popolo ebraico».
Definisce «perverso» il dibattito israeliano sulle radici: «È etnocentrico, biologico e genetico». L'obiettivo del suo saggio è politico. Sand sostiene uno Stato binazionale, da dividere con i palestinesi, e dice di trovare difficile vivere in un Paese «che si definisce ebraico». «Per me è un paradosso. Uno Stato deve rappresentare tutti i suoi cittadini. I miti che riguardano il futuro sono meglio delle mitologie introverse del passato. Bisognerebbe ridurre i giorni di commemorazione e aggiungere cerimonie dedicate a quello che verrà».

Corriere della Sera 29.3.08
Scoperta Usa: iniziò l'Orrorin tugenensis già sei milioni di anni fa
L'uomo si alzò su due piedi per proteggersi dal Sole
In fuga dal clima arido, la posizione eretta lo favoriva
di Telmo Piovani

Che cosa ci ha reso, in principio, «umani»: una questione di testa o, piuttosto, di piedi buoni? Per rispondere a questa domanda di solito ricorriamo alle superbe facoltà della mente, dimenticando che nella storia ominide la postura eretta è comparsa molto prima dei nostri grossi cervelli. Oggi, grazie alle ricerche pubblicate su Science da Brian G. Richmond, della George Washington University, e da William L. Jungers, di Stony Brook University, scopriamo che le prime avvisaglie della rivoluzione anatomica del bipedismo appaiono precocemente nell'evoluzione umana.
I due paleoantropologi, attraverso un'analisi quantitativa delle combinazioni di caratteri che definiscono la morfologia degli arti inferiori, hanno verificato che la specie Orrorin tugenensis,
il nostro più antico antenato di cui siano state rinvenute le ossa del femore, possedeva gli adattamenti per l'andatura bipede. Il piccolo Orrorin, scoperto nel 2001 in Kenya nella regione delle Tugen Hills da cui il nome, camminava già sulle sue gambe 6 milioni di anni fa, un'epoca cruciale perché vicinissima al punto di biforcazione fra gli ominidi e i cugini scimpanzé e gorilla. Una volta esclusi i tratti presenti anche in primati non bipedi, gli scienziati hanno concluso che Orrorin aveva una postura simile a quella degli australopitechi e dei parantropi, i due generi che domineranno il nostro albero di famiglia fino a 2 milioni di anni fa.
Il persistente successo di questa prima modalità di locomozione bipede, che subirà una transizione soltanto quando i primi rappresentanti del genere Homo esibiranno la loro biomeccanica slanciata ed efficiente, mostra come nell'evoluzione umana gli adattamenti più importanti si siano presentati in modo episodico, in concomitanza con la nascita di nuove specie, come «punteggiature» incastonate in lunghi periodi di stabilità. Ma anche nei periodi di apparente conservatorismo l'evoluzione ha sperimentato modi alternativi di essere bipedi. Orrorin, che in lingua locale significa non a caso «uomo originale», camminava come gli australopitechi, oscillando sulle anche, ma diversamente dal bipedismo occasionale delle grandi scimmie attuali. Eppure, le mani e gli arti superiori sono ancora quelli di chi si arrampica sui rami per nutrirsi e per ripararsi dai predatori.
La discesa dagli alberi non è stata quindi una marcia trionfale di conquista, ma una ben più circospetta esplorazione di nuove nicchie ecologiche, attraverso differenti combinazioni di comportamenti misti, un po' arborei e un po' da spazi aperti. Come disse un noto evoluzionista commentando l'andatura peculiare di un altro ominide: «Se volete trovare qualcosa che cammini come lui, cercate nella scena del bar intergalattico di Guerre Stellari ».
Spostare l'intero peso corporeo sugli arti inferiori non è certo un adattamento ottimale, come sanno bene coloro che soffrono di lombalgia. Quindi deve essere stato selezionato per un vantaggio diretto, tanto conveniente per i suoi possessori da sopravanzare le scomodità collaterali. Noi associamo il bipedismo alle sue utilità attuali e ci chiediamo: «a che cosa servono le gambe?». Così rischiamo però di porci la domanda sbagliata. In realtà, il bipedismo garantisce due vantaggi molto semplici, che a noi oggi sembrano anacronistici: un repertorio di locomozione flessibile (poter correre, nuotare e arrampicarsi in caso di necessità) e una minore esposizione della superficie corporea ai raggi solari. Orrorin si ritrovava in una parte del continente africano, a oriente della Rift Valley, che stava inaridendo: l'habitat di foresta andava frammentandosi e si formavano radure sempre più estese, che poi diventeranno praterie e savane.
Se per sopravvivere devi attraversare ampi spazi aperti sotto un sole tropicale, magari portando in braccio un cucciolo e possibilmente avvistando i predatori acquattati nell'erba alta, il bipedismo è una soluzione efficace, ancor più se lo hai già sviluppato occasionalmente per cibarti dai rami. Chi patisce il mal di schiena può trarne dunque una piccola consolazione: il suo è il fastidioso effetto collaterale di un'invenzione evolutiva senza la quale non saremmo qui.

Corriere della Sera 29.3.08
Finito il restauro del capolavoro di Raffaello
La vera Madonna del cardellino
di Wanda Lattes

La Madonna del cardellino di Raffaello torna a splendere dopo 10 anni di restauri. A PAGINA 47 1998 Il dipinto all'inizio dei lavori 2008 Ecco il capolavoro di Raffaello alla fine del restauro

Anteprima Dopo 10 anni di restauri quasi finito il recupero del capolavoro. Più volte danneggiato e riparato, i guasti si sono sommati nei secoli
La Madonna del cardellino come la dipinse Raffaello
Ma Firenze teme lo «scippo» di Roma per la prima mostra

La Madonna del cardellino di Raffaello manca dal suo posto, nella sala 26 della Galleria degli Uffizi, da oltre dieci anni. Fu portata via quando ci si rese conto che un restauro era diventato improrogabile, che il gran numero di interventi eseguiti sull'opera nel corso di mezzo millennio non soltanto ne falsavano l'aspetto, ma si sommavano per nuocere all'integrità del dipinto: adesso il restauro principe, compiuto all'Opificio delle pietre dure, sta per finire. Ma il ritorno del dipinto, previsto per il prossimo Natale, si tinge di giallo per l'annuncio — non ufficiale — che l'opera sarebbe stata promessa al Quirinale per un'esposizione lunga e di risonanza internazionale.
Per Raffaello, dunque, prima Roma e il mondo, poi gli Uffizi e quella Firenze che ne è padrona assoluta in ragione del famoso testamento dell'ultima rappresentante della famiglia Medici. Le polemiche già scoppiano, e rischiano di guastare la gioia e il compiacimento per i veri e propri miracoli di sapienza compiuti dal 1998 ad oggi nel cuore della Fortezza dove ha sede l'Opificio. E, perché non paia strano parlare di miracoli, ecco il riassunto del decennale impegno profuso dai medici di tanto malato.
«Quando ci consegnarono il pacco di 107 centimetri per 77, lo liberammo dall'imballo. Dopo averlo visto tante volte appeso a una parete, lo osservammo da vicino, steso in orizzontale, sollevato quanto necessario per scrutarlo anche dietro; a quel punto fummo presi dal dubbio: dovevamo prenderci la responsabilità di curarlo? », confessa Marco Ciatti, direttore dell'Opificio delle pietre dure.
E continua: «Era un sandwich di legno, chiodi, colle, colore, vernici sovrapposti da mani diverse nel corso dei secoli. Prima ancora di cominciare le indagini fisico- chimiche, comprendemmo come il colore grigiastro che oscurava lo splendido azzurro del cielo fosse il minore dei mali, perché la maldestra ridipintura di cui era frutto si poteva eliminare. I guai erano altri... ». E per due anni il malato che spaventava i dottori fu tenuto in prognosi riservata.
Raffaello aveva iniziato a dipingerlo negli anni 1504-1505, ultimandolo nel 1506. A trasformare la Madonna del cardellino in un sandwich fu una serie di peripezie. Nel 1547 una frana spaventosa fece crollare verso l'Arno, presso il Ponte Vecchio, tutta la collina di San Giorgio e le sue case. La Madonna, donata da Raffaello all'amico Lorenzo Nasi, venne giù col palazzotto e si ruppe in 17 pezzi, poi raccolti e rimessi insieme con amore a forza di chiodi e colla. Il primo restauro, sembra, fu operato da Ridolfo del Ghirlandaio ma, da allora, non si contano i tentativi di nascondere fenditure, ferri, rigonfiamenti e buchi con colle, colori appiccicati, vernici. Finché uno degli ultimi Medici, il cardinale Giovan Carlo, l'acquistò per poi donarlo agli Uffizi, dove conservatori e direttori hanno fatto per secoli i loro pasticcetti in buona fede ogni volta che la malattia di fondo tornava a manifestarsi.
«Dubbi sull'autenticità non ci sono mai stati — ricorda Marco Ciatti — ma erano drammatiche le scelte da fare sui chiodi e sulle fessure mascherate da collanti, colori e vernici applicate. Avviate analisi, decidemmo di non smontare assolutamente i 17 pezzi, ma di usare la microchirurgia, lasciando in opera i ferri, per eliminare tutte le mascherature dovute al collante. Affidammo la stabilità dell'insieme al capofalegname, Ciro Castelli. Ha operato come un grande medico, lasciando i tessuti vitali integri, liberi dalle incrostazioni, quelle che si formano anche sui tessuti animali feriti».
Soppresso ogni pur minimo scalino nella struttura ossea, l'équipe dell'Opificio ha affrontato l'eliminazione dei colori aggiunti e le vere mancanze di colore sulle fratture. Scelto il metodo di restauro pittorico, classico per i seguaci della scuola fiorentina di Umberto Baldini, ha adottato un millimetrico uso dello stucco e l'intervento di colori a tratteggio scelti con selezione cromatica. Quest'ultimo, fondamentale lavoro, ancora in via di ultimazione, è affidato alle sapienti mani di Patrizia Rintano.
Marco Ciatti sottolinea, infine, due particolarità del restauro. Primo: è stata ritrovata e salvata, sotto il sandwich, la vernice originale data da Raffaello e rimasta intatta a dispetto delle peripezie. Secondo: la pittura a tratteggio non è visibile se non con un'attenta osservazione da una minima distanza. Insomma, «il restauro salvaguarda il valore del documento, senza trasmettere alcun falso». La Madonna, conclude Ciatti, sarà custodita da una speciale cornice a scatola, di aspetto simile alle cornici classiche, capace però di conservare l'opera in un microclima costante.
L'annuncio del miracoloso ritorno alla vita di un capolavoro maltrattato dal tempo finirebbe così, col ritorno a casa di un prezioso dipinto salvato da «medici specializzati». Ora lo sappiamo: la tavola poteva di nuovo fratturarsi, i colori e le colle sarebbero fermentati e l'originale sparito, se gli Uffizi non avessero chiesto aiuto al momento giusto.
Ma c'è nell'aria quel dubbio, quell'agitazione, che preoccupa Firenze. E già si leva la protesta: il nuovo debutto in società della Madonna del cardellino deve avvenire qui.

Bergman come Heidegger?
Il Giornale 28.3.08

Bergman. Il sigillo del Maestro sulla settima arte
di Maurizio Carbona

Vittorio Sgarbi ha presentato «Faro su Bergman», rassegna promossa dal Comune, ideata da Piergiorgio Carizzoni e organizzata dall'associazione Dioniso, che comincerà lunedì al Teatro Strehler con l'incontro (ore 21, ingresso 7 euro) con Bibi Andersson, protagonista per Bergman di Persona. Al cinema Gnomo da martedì si proietteranno invece vari film: il primo sarà Alle soglie della vita. La rassegna prevede poi convegni e una mostra fotografica (Fondazione Catella), eppure chi non ha cinquant'anni, di Bergman al massimo sa che è esistito, nonostante un Leone e una Palma alla carriera, tre Oscar e una raffica di Leoni, Palme e Orsi d'oro ai suoi film.
Il mondo del cinema è stato dunque molto meno inquisitorio con Bergman di quanto il mondo della filosofia lo è stato con Heidegger, dimenticando, complice la Guerra fredda, che questo svedese non era stato affatto neutrale fra 1939 e 1945. Bergman - come Heidegger - non rinnegò le sue idee politiche giovanili, si limitò a non parlarne più. E, in un'epoca secolarizzata, cercò un rapporto con la divinità. Suo padre era stato pastore di Corte a Stoccolma, ma Bergman aveva caro anche il passato pre-protestante, come l'età delle crociate. Da esse torna il cavaliere von Bock (Max von Sydow) del suo film più famoso, Il settimo sigillo (1956, premio speciale della giuria a Cannes). Avendo perduto ogni illusione, è lucido davanti alla Morte personificata (Bengt Ekerot) e la sfida a scacchi; sa di perdere, ma consente ai saltimbanchi - la sua stessa categoria - di sfuggire al destino. Morale: il cavaliere muore, il cinema resta.
Del resto Bergman aveva cominciato presto a guardare alla vecchiaia (Il posto delle fragole, 1957, Orso d'oro), in una marcia d'avvicinamento alla morte conclusasi proprio nell'isola di Faro, dove si era ritirato e dove aveva girato Sarabanda, ultimo suo film (2003), che pochi in Italia hanno visto, sempre per ragioni di censura: ci si scorgeva l'opera di un vecchio, che racconta di un altro vecchio, tormentato dalla libidine che non può soddisfare? Bergman l'ammetteva, severo con se stesso quanto con gli altri. E ammetteva i turbamenti della sensualità fin da giovane, sincerità che colpiva gli altri registi in un periodo di imbarazzati silenzi: non è un caso se il manifesto che Jean-Pierre Léaud strappa dalla vetrina del cinema, in una scena dei 400 colpi di François Truffaut, è quello di Monica e il desiderio (1950), apologo panico dell'erotismo che in Italia si è visto integrale solo con l'uscita del film in dvd (Bim).
Meno problematico sarà il rapporto di Bergman coi censori dalla metà degli anni Sessanta. Il volto (1963) e Persona (1966) parevano contenere innominabili segreti. Poi, in epoca sessantottarda, quando ormai tutto - meno il buon gusto - era permesso, al cinema e fuori, quei film parvero castigati, una delusione insomma. Intanto l'erotismo dei personaggi di Bergman non era più solare, come quello della leggendaria Monica; era diventato gelido, desolato. Ora Bergman riposa nel Walhalla dei grandi nordici e qualcuno di questi film torna visibile a Milano: li guarderanno ragazzi di oggi e di ieri ragazzi, quelli che, davanti ai «flani» pubblicitari di un'infanzia ormai remota, si chiedevano - come il piccolo Antoine Doinel di Truffaut - che misteri celasse la vita. Scopriranno come Bergman avesse cercato di avvertirli che davanti a loro c'erano gli stessi sentieri interrotti percorsi da Heidegger.