Avvenire 15.11.16
Idee. Fragili e religiosi, un binomio vincente
di Zygmunt Bauman
Per
Zygmunt Bauman l’eternità di Dio si specchia nella nostra
insufficienza: questo stato di cose ci porta a chiedere senso alla vita
«Non
c'è più religione... Dio è morto». Lo sentiamo ripetere di continuo, e
qualcuno di quelli che si lanciano in affermazioni del genere pretendono
di avvalorarle anche con l'autorità dei fatti: quanti sono oggi, per
dire, i neonati che vengono portati in chiesa per essere battezzati, e
non è forse vero che il numero delle persone che frequentano la messa
domenicale è in calo – perlomeno in Gran Bretagna o nei paesi
nordici?... Questi dati vengono trascelti proprio con l'intento di
appoggiare la tesi, e la loro reiterata ripetizione mira a far sì che,
come accade con tutti gli altri pregiudizi, alla fine l'affermazione sia
considerata ben fondata e creduta vera. Ma, svolgono essi il compito
loro assegnato? Forse lo farebbero, se non fosse per l'enorme e
crescente volume di altri fatti che suggeriscono – e dimostrano – la
diagnosi esattamente contraria: e cioè che la religione esiste e
continua ad avere forza e influenza, e che i necrologi per Dio sono,
quantomeno, assolutamente prematuri. Molta acqua è passata sotto i ponti
di tutti i fiumi del mondo, da quando Friedrich Nietzsche, uno dei
giganti della filosofia moderna, scrisse nella Gaia scienza (1882) che
«Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci
consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più
sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è
dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue?
Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali
giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la
grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dei, per
apparire almeno degni di essa?». Ma Dio è ancora ben vivo, come senza
dubbio lo sono – e anche ben visibili – le religioni, che poggiano sulla
sua immortale onnipresenza: contrariamente all'orgogliosa
rivendicazione della mente moderna secondo cui noi, uomini, siamo
pienamente in grado di afferrare, comprendere, descrivere, affrontare e
gestire il mondo e la nostra presenza in esso in perfetta autonomia; e
contrariamente alla nostra proclamata intenzione di mettere il mondo
sotto l'amministrazione unica di noi, uomini, armati come siamo di
ragione e dei suoi due germogli: la scienza e la tecnologia.In netto
contrasto con la loro promessa, quelle armi non sono riuscite a dotare
noi, umani mortali, dell'onnipotenza – che e il tratto che definisce il
Dio immortale – ed e sempre meno probabile che con tutte le loro
scoperte e invenzioni terrificanti lo possano mai fare. L'impressione e
che, ove mai Dio «morisse» – e cioè, esiliato dal nostro pensiero,
espatriato dalle nostre vite, cessasse di essere punto di riferimento e
di appello e fosse sostanzialmente dimenticato – ciò accadrebbe solo
insieme con la morte dell'umanità.Se ci chiediamo perché è così e perché
così deve essere, la risposta è che Dio sta per la nostra
insufficienza, l'insufficienza di noi esseri umani – secondo la
memorabile formulazione del grande filosofo polacco Leszek Kolakowski:
insufficienza del nostro pensiero e della nostra capacita pratica;
insufficienza che e del tutto improbabile possa mai essere superata. Ci
sono fenomeni di cui non possiamo non essere consapevoli . come per
esempio l'eternità e liinfinito, o al perché e per che cosa noi
esistiamo, e perché c'è qualcosa piuttosto che il nulla, fenomeni e
interrogativi che nonostante i più grandi sforzi delle menti umane più
eccelse noi mai comprenderemo perché vanno ben oltre il regno
dell'esperienza umana entro il quale la nostra ragione, la nostra
scienza e tecnologia operano e a cui esse sono costrette a rimanere
confinate.E ci sono fenomeni di cui dovremo prima o poi prendere
consapevolezza, che non si sottometteranno mai al nostro – di esseri
umani – controllo e gestione. In parole povere, ci sono limiti
insuperabili a quello che noi possiamo sapere e a quello che possiamo
fare. Il fatto che Dio sta per questi due tipi di fenomeni e insieme il
fatto che noi siamo condannati a rimanere insufficienti assicurano nel
loro intreccio l'eterna presenza di Dio nella condizione esistenziale
dell'uomo. In altre parole: l'eternità di Dio, e l'eternità delle
religioni che cercano di rendere vivibile la vita vissuta con la
consapevolezza di tutti questi paradossi, sono garantite
dall'immortalità (se misurata con i metri umani) della endemica
insufficienza umana.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 19 novembre 2016
Repubblica 19.11.16
“La storia non è un romanzo” L’ultima lezione di Ricoeur
Dopo trent’anni riecco “Tempo e racconto”, l’opera più matura del filosofo francese. Che indaga sul nostro rapporto con il passato
di Lucio Villari
Sono trascorsi più di trent’anni, ma Tempo e racconto di Paul Ricoeur non riesce a diventare un tranquillo classico della riflessione filosofica della storia. È un libro sepmre vivo, pieno di curiosità e di provocazioni. Lo sa bene la casa editrice italiana, Jaca Book, che, dopo averlo pubblicato nel 1986 ora ne fa un utile reprint.
L’idea più nota della ricerca di Ricoeur è che la storia è soprattutto interpretazione e che la metafora possa essere una delle chiavi per “aprire” il passato e i segreti di cui è fatta la storia. Ma la vitalità di Tempo e racconto sta nel fatto, come egli scrive, che «il problema dello statuto narrativo della storiografia non ha rappresentato una posta in gioco diretta dell’epistemologia delle scienze storiche », né in Francia né altrove, cosicché la «comprensione narrativa veniva così ad essere sopraelevata, mentre la spiegazione storica perdeva quota».
In altre parole, la narrazione quasi sempre piacevole, o comunque interessante, ha sostituito, o “abbreviato” la storia rendendola sostanzialmente un bene di consumo. La storia però non è un usa e getta ma un problema della conoscenza, della vita morale, della consapevolezza esistenziale di ciascuno. O almeno così dovrebbe essere. C’è in proposito una riflessione di André Malraux (l’autore de
La condizione umana) sulla quale potrebbe scorrere anche la ricerca analitica di Ricoeur: «Come si può sfruttare meglio la propria vita? Convertendo in pensiero consapevole la maggior quantità possibile di esperienza ». E l’esperienza non è solo la propria ma quella di una società, di un popolo, di un tempo condiviso, o anche di una cultura condivisa. Di qui l’importanza della conoscenza del passato nell’educazione sentimentale e culturale dei giovani.
Per Ricoeur il fatto è evidente e chiarisce un punto molto controverso, quasi un luogo comune, del problema: «Il futuro nasce dalla memoria». Infatti, in una intervista del settembre 2000 al Magazine Littéraire, alla domanda apparentemente semplice «che cosa significa per l’uomo avere la memoria? », Ricoeur rispondeva dando un significato “dinamico”al rapporto individuale (ma vale anche per quello collettivo) del presente col passato: «Col tempo noi cambiamo. Come posso restare lo stesso se io cambio? La coscienza di sé non è una identità invariabile. Al contrario, si tratta di una identità narrativa, costruita cioè nel cambiamento. Per questo occorre che io abbia conservato qualcosa del passato per poter costruire con le sue tracce un’orizzonte di progetto. Non si può separare la memoria dal progetto e quindi dal futuro. Noi ci troviamo sempre tra il riepilogo di noi stessi, la volontà di dare un significato a tutto ciò che ci è capitato, e la proiezione nelle intenzioni, nelle aspettative, nelle cose da fare».
Dunque, la percezione individuale della storia è anche questo, conquista di una conoscenza, e di una dimensione “sacra” (un credente direbbe religiosa) dell’esistere. È tale conoscenza che «libera il fondo dell’uomo, nascosto sotto una spessa coltre di cattiveria». Con accenti attuali Ricoeur afferma la verità laica nella quale noi ci riconosciamo pienamente: «La religione non è fatta per condannare. È invece una parola che dice “Tu vali più delle tue azioni“».
Ecco allora che il racconto del passato, cioè la narrazione dei fatti storici, è un problema della filosofia oltre che della storiografia. «Cerco perciò — dice Ricoeur — di equilibrare l’idea di un imperativo della memoria con quella di un lavoro della memoria». È questo lavoro che stabilizza la conoscenza del passato con la responsabilità di colui che di questo passato legge il “racconto”.
Paul Ricoeur, morto novantenne nel 2005, è stato un pensatore tra i più problematici della cultura francese del Novecento, acuto filosofo non della storia ma sulla storia: «Seguire una storia, infatti, significa capire una successione di azioni, di pensieri, di sentimenti, che presentano al tempo stesso una certa direzione ma anche delle sorprese (coincidenze, riconoscimenti, rivelazioni, ecc.). Pertanto, la conclusione della storia non è mai deducibile o predicibile. Per questo bisogna seguire lo svolgimento».
Questa riflessione, che libera la ricerca storica da pregiudizi e costrizioni varie, si trova in un’altra raccolta di saggi che la Jaca Book ha pubblicato insieme col volume di cui parliamo e il cui titolo conferma la dimensione dinamica della narrazione e della “letterarietà” storica:
Dal testo all’azione. Nel senso che la scientificità dell’analisi può solo arricchirsi della drammaticità della narrazione. Lo stesso vale, ad esempio, nel rapporto tra etica e politica dove il dinamismo di Ricoeur suggerisce una interpretazione di questo rapporto meno moralistica e più orientata a una loro “intersezione”, nel senso che la razionalità politica più che a una astratta etica va confrontata e contrapposta alla razionalità economico-sociale. Molta storia attuale sembra dare ragione a Ricoeur.
IL SAGGIO Tempo e racconto Volume 1 di Paul Ricoeur (Jaca Book, traduzione di Giuseppe Grampa pagg. 340, euro 28)
“La storia non è un romanzo” L’ultima lezione di Ricoeur
Dopo trent’anni riecco “Tempo e racconto”, l’opera più matura del filosofo francese. Che indaga sul nostro rapporto con il passato
di Lucio Villari
Sono trascorsi più di trent’anni, ma Tempo e racconto di Paul Ricoeur non riesce a diventare un tranquillo classico della riflessione filosofica della storia. È un libro sepmre vivo, pieno di curiosità e di provocazioni. Lo sa bene la casa editrice italiana, Jaca Book, che, dopo averlo pubblicato nel 1986 ora ne fa un utile reprint.
L’idea più nota della ricerca di Ricoeur è che la storia è soprattutto interpretazione e che la metafora possa essere una delle chiavi per “aprire” il passato e i segreti di cui è fatta la storia. Ma la vitalità di Tempo e racconto sta nel fatto, come egli scrive, che «il problema dello statuto narrativo della storiografia non ha rappresentato una posta in gioco diretta dell’epistemologia delle scienze storiche », né in Francia né altrove, cosicché la «comprensione narrativa veniva così ad essere sopraelevata, mentre la spiegazione storica perdeva quota».
In altre parole, la narrazione quasi sempre piacevole, o comunque interessante, ha sostituito, o “abbreviato” la storia rendendola sostanzialmente un bene di consumo. La storia però non è un usa e getta ma un problema della conoscenza, della vita morale, della consapevolezza esistenziale di ciascuno. O almeno così dovrebbe essere. C’è in proposito una riflessione di André Malraux (l’autore de
La condizione umana) sulla quale potrebbe scorrere anche la ricerca analitica di Ricoeur: «Come si può sfruttare meglio la propria vita? Convertendo in pensiero consapevole la maggior quantità possibile di esperienza ». E l’esperienza non è solo la propria ma quella di una società, di un popolo, di un tempo condiviso, o anche di una cultura condivisa. Di qui l’importanza della conoscenza del passato nell’educazione sentimentale e culturale dei giovani.
Per Ricoeur il fatto è evidente e chiarisce un punto molto controverso, quasi un luogo comune, del problema: «Il futuro nasce dalla memoria». Infatti, in una intervista del settembre 2000 al Magazine Littéraire, alla domanda apparentemente semplice «che cosa significa per l’uomo avere la memoria? », Ricoeur rispondeva dando un significato “dinamico”al rapporto individuale (ma vale anche per quello collettivo) del presente col passato: «Col tempo noi cambiamo. Come posso restare lo stesso se io cambio? La coscienza di sé non è una identità invariabile. Al contrario, si tratta di una identità narrativa, costruita cioè nel cambiamento. Per questo occorre che io abbia conservato qualcosa del passato per poter costruire con le sue tracce un’orizzonte di progetto. Non si può separare la memoria dal progetto e quindi dal futuro. Noi ci troviamo sempre tra il riepilogo di noi stessi, la volontà di dare un significato a tutto ciò che ci è capitato, e la proiezione nelle intenzioni, nelle aspettative, nelle cose da fare».
Dunque, la percezione individuale della storia è anche questo, conquista di una conoscenza, e di una dimensione “sacra” (un credente direbbe religiosa) dell’esistere. È tale conoscenza che «libera il fondo dell’uomo, nascosto sotto una spessa coltre di cattiveria». Con accenti attuali Ricoeur afferma la verità laica nella quale noi ci riconosciamo pienamente: «La religione non è fatta per condannare. È invece una parola che dice “Tu vali più delle tue azioni“».
Ecco allora che il racconto del passato, cioè la narrazione dei fatti storici, è un problema della filosofia oltre che della storiografia. «Cerco perciò — dice Ricoeur — di equilibrare l’idea di un imperativo della memoria con quella di un lavoro della memoria». È questo lavoro che stabilizza la conoscenza del passato con la responsabilità di colui che di questo passato legge il “racconto”.
Paul Ricoeur, morto novantenne nel 2005, è stato un pensatore tra i più problematici della cultura francese del Novecento, acuto filosofo non della storia ma sulla storia: «Seguire una storia, infatti, significa capire una successione di azioni, di pensieri, di sentimenti, che presentano al tempo stesso una certa direzione ma anche delle sorprese (coincidenze, riconoscimenti, rivelazioni, ecc.). Pertanto, la conclusione della storia non è mai deducibile o predicibile. Per questo bisogna seguire lo svolgimento».
Questa riflessione, che libera la ricerca storica da pregiudizi e costrizioni varie, si trova in un’altra raccolta di saggi che la Jaca Book ha pubblicato insieme col volume di cui parliamo e il cui titolo conferma la dimensione dinamica della narrazione e della “letterarietà” storica:
Dal testo all’azione. Nel senso che la scientificità dell’analisi può solo arricchirsi della drammaticità della narrazione. Lo stesso vale, ad esempio, nel rapporto tra etica e politica dove il dinamismo di Ricoeur suggerisce una interpretazione di questo rapporto meno moralistica e più orientata a una loro “intersezione”, nel senso che la razionalità politica più che a una astratta etica va confrontata e contrapposta alla razionalità economico-sociale. Molta storia attuale sembra dare ragione a Ricoeur.
IL SAGGIO Tempo e racconto Volume 1 di Paul Ricoeur (Jaca Book, traduzione di Giuseppe Grampa pagg. 340, euro 28)
contro Massimo Recalcati
il manifesto 21.11.16
Il Telemaco, il messia e la Costituzione
Verità nascoste. La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos
di Sarantis Thanopulos
Massimo Recalcati nell’elogiare, alla Leopolda, Matteo Renzi, ha accusato la sinistra del No di essere masochista, paternalista e di odiare la giovinezza. Accuse fondate su luoghi comuni.
Un discorso aforistico, privo di argomenti, teso a screditare l’avversario piuttosto che ad esprimere una propria opinione sui quesiti referendari.
L’andazzo è proprio questo: la grande maggioranza degli italiani nel referendum prossimo voterà pro o contro Renzi, a prescindere dalla valutazione di una riforma che modificherà in modo sostanziale la costituzione italiana.
La personalizzazione del conflitto politico ha finito per espropriarci della cura nei confronti delle regole fondamentali della nostra convivenza democratica. Si è fatta strada una corrente di «eccezione dalla costituzione», che mentre aspira formalmente a riformarla, di fatto crea il clima di una sua sospensione sul piano emotivo.
Questo tipo di sospensione dell’ordinamento costituzionale è il più pericoloso. La restrizione diretta e apertamente autoritaria delle garanzie costitutive dei nostri diritti, crea opposizione e ribellione.
La loro sostituzione con l’affidamento regressivo all’«uomo della provvidenza», da una parte sposta l’attenzione su un quesito fuorviante – se costui è quello «vero» o quello «falso» – e dall’altra favorisce la deresponsabilizzazione.
La nota identificazione del premier con Telemaco, nella versione ideata da Recalcati come riparazione (impropria) dell’assenza del padre, è espressione di un vissuto di delegittimazione collettiva. Di questa delegittimazione, della cui origine non è responsabile, Renzi si è costituito come l’interprete più importante.
L’ha fatto per negazione, cioè oscurandola: più incerta sente la propria legittimità, più insiste sulla delegittimazione degli altri.
La rottamazione pura e semplice di una classe politica inadeguata non produce di per sé legittimazione. Se resta come unica opzione perpetua il senso di delegittimazione. Infatti, Renzi, il rottamatore, si identifica con Telemaco: un figlio reso illegittimo dall’assenza del padre e dalla solitudine, vedovanza «bianca», della madre (le due condizioni sono inscindibili). Dimentica che il ritorno della legge nel regno di Itaca, non è opera di Telemaco. Deriva dal ritorno di Ulisse nel letto coniugale, dal suo riconoscimento e legittimazione come uomo e come padre dall’amore di Penelope.
Le regole «costituzionali» che garantiscono la buona gestione delle relazioni familiari, sono fondate sulla capacità dei genitori di essere soggetti paritari nel loro legame di desiderio. I figli che rottamano il padre, cercando di sostituirlo nell’amore della madre, finiscono per assumere un ruolo messianico.
In modo analogo al governo familiare, il governo della Polis non può essere affidato a un Telemaco capovolto nel suo significato, che non sa attendere il suo tempo. Aspettare il momento giusto per sentirsi adulti – l’accesso alla piena comprensione della congiunzione erotica dei genitori e della sua problematicità – è il senso vero dell’attesa del padre in Odissea.
Un leader capace di identificarsi con Penelope e Ulisse, cioè con il senso di corresponsabilità che costituisce le relazioni cittadine in termini di condivisione e di scambio, è molto più affidabile di un figlio che si sostituisce ai genitori. Costui si imprigiona nel destino del redentore e, diversamente da Telemaco di Omero, si considera il frutto di una unione spirituale tra un padre ideale e una madre/figlia vergine. Promuove la deresponsabilizzazione che gli ha assegnato la sua funzione immaginaria e si/ci illude di poter farcela.
il manifesto 21.11.16
Il Telemaco, il messia e la Costituzione
Verità nascoste. La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos
di Sarantis Thanopulos
Massimo Recalcati nell’elogiare, alla Leopolda, Matteo Renzi, ha accusato la sinistra del No di essere masochista, paternalista e di odiare la giovinezza. Accuse fondate su luoghi comuni.
Un discorso aforistico, privo di argomenti, teso a screditare l’avversario piuttosto che ad esprimere una propria opinione sui quesiti referendari.
L’andazzo è proprio questo: la grande maggioranza degli italiani nel referendum prossimo voterà pro o contro Renzi, a prescindere dalla valutazione di una riforma che modificherà in modo sostanziale la costituzione italiana.
La personalizzazione del conflitto politico ha finito per espropriarci della cura nei confronti delle regole fondamentali della nostra convivenza democratica. Si è fatta strada una corrente di «eccezione dalla costituzione», che mentre aspira formalmente a riformarla, di fatto crea il clima di una sua sospensione sul piano emotivo.
Questo tipo di sospensione dell’ordinamento costituzionale è il più pericoloso. La restrizione diretta e apertamente autoritaria delle garanzie costitutive dei nostri diritti, crea opposizione e ribellione.
La loro sostituzione con l’affidamento regressivo all’«uomo della provvidenza», da una parte sposta l’attenzione su un quesito fuorviante – se costui è quello «vero» o quello «falso» – e dall’altra favorisce la deresponsabilizzazione.
La nota identificazione del premier con Telemaco, nella versione ideata da Recalcati come riparazione (impropria) dell’assenza del padre, è espressione di un vissuto di delegittimazione collettiva. Di questa delegittimazione, della cui origine non è responsabile, Renzi si è costituito come l’interprete più importante.
L’ha fatto per negazione, cioè oscurandola: più incerta sente la propria legittimità, più insiste sulla delegittimazione degli altri.
La rottamazione pura e semplice di una classe politica inadeguata non produce di per sé legittimazione. Se resta come unica opzione perpetua il senso di delegittimazione. Infatti, Renzi, il rottamatore, si identifica con Telemaco: un figlio reso illegittimo dall’assenza del padre e dalla solitudine, vedovanza «bianca», della madre (le due condizioni sono inscindibili). Dimentica che il ritorno della legge nel regno di Itaca, non è opera di Telemaco. Deriva dal ritorno di Ulisse nel letto coniugale, dal suo riconoscimento e legittimazione come uomo e come padre dall’amore di Penelope.
Le regole «costituzionali» che garantiscono la buona gestione delle relazioni familiari, sono fondate sulla capacità dei genitori di essere soggetti paritari nel loro legame di desiderio. I figli che rottamano il padre, cercando di sostituirlo nell’amore della madre, finiscono per assumere un ruolo messianico.
In modo analogo al governo familiare, il governo della Polis non può essere affidato a un Telemaco capovolto nel suo significato, che non sa attendere il suo tempo. Aspettare il momento giusto per sentirsi adulti – l’accesso alla piena comprensione della congiunzione erotica dei genitori e della sua problematicità – è il senso vero dell’attesa del padre in Odissea.
Un leader capace di identificarsi con Penelope e Ulisse, cioè con il senso di corresponsabilità che costituisce le relazioni cittadine in termini di condivisione e di scambio, è molto più affidabile di un figlio che si sostituisce ai genitori. Costui si imprigiona nel destino del redentore e, diversamente da Telemaco di Omero, si considera il frutto di una unione spirituale tra un padre ideale e una madre/figlia vergine. Promuove la deresponsabilizzazione che gli ha assegnato la sua funzione immaginaria e si/ci illude di poter farcela.
Repubblica 19.11.16
Massimo Recalcati nel suo nuovo saggio racconta come i grandi pittori ci indicano una via laica al sacro
Per avvicinarci all’Essere ci resta solo l’arte
di Gregorio Botta
Quando la psicoanalisi si avvicina all’arte gli esiti sono raramente felici: la tentazione di scavare nelle psicologie degli autori, di rintracciare ferite biografiche, di leggere l’opera come un sintomo è forte. Massimo Recalcati lo sa e nel suo “Il mistero delle cose”(Feltrinelli) dichiara subito che non correrà questo rischio: «In questo libro l’uso della psicanalisi per leggere l’opera ha rifiutato metodicamente ogni sua applicazione patografica». L’arte non è un paziente, e non va messa sul lettino. Bene. Allora perché parlarne inforcando gli occhiali di Lacan?
Perché si muove sullo stesso terreno della psicoanalisi: l’una e l’altra parlano della stessa cosa, sono impegnate nella stessa lotta di Giacobbe con l’angelo sconosciuto. È la battaglia per dare forma a ciò che è «irraffigurabile, all’alterità assoluta che sfugge sempre alla rappresentazione». La missione è avvicinarsi il più possibile al mistero dell’essere, portare l’uomo sulla soglia dell’indicibile.
Ungaretti cercava di «popolare di nomi il silenzio». È questo che deve fare l’arte secondo Recalcati. Per il suo libro ha scelto nove artisti (Giorgio Morandi, Alberto Burri, Emilio Vedova, William Congdon, Giorgio Celiberti, Jannis Kounellis, Claudio Parmiggiani, Alessandro Papetti e Giovanni Frangi), alcuni del secolo scorso altri nostri contemporanei, tutti italiani di nascita o di adozione. Sono autori molto diversi tra loro (e non solo per fama e mercato). È difficile immaginare — per esempio — due artisti più lontani di Vedova e Parmiggiani: il primo un espressionista radicale ed estremo, l’altro un silenzioso poeta dell’assenza. Eppure, leggendo i densi saggi che Recalcati dedica a ognuno di loro si scopre il sottile filo rosso che lega l’uno all’altro: tutti sacerdoti solitari di un movimento che insegue il sogno di rendere visibile l’invisibile, come diceva Paul Klee, di toccare il mistero delle cose, (la definizione che dà il titolo al libro è di Kounellis).
Prendiamo Morandi: nessuno certo si sogna di leggere la sua opera solo come quella di un semplice artista figurativo, ostinato oppositore delle correnti astrattiste del suo tempo. Le sue nature morte racchiudono una visione profonda. Compito del pittore — scriveva lui stesso — «è far cadere quei diaframmi, quelle immagini convenzionali che si frappongono tra lui e le cose». Dunque non si tratta solo di dipingere vasi e barattoli con i magnifici colori tonali della sua tavolozza. Si tratta di molto di più: di rompere gli schemi visivi e mentali con cui siamo abituati a classificarli, registrarli e anestetizzarli nella nostra coscienza. Si tratta di rivelare la stupefacente intensità della loro presenza. È un lavoro lento, paziente, ripetitivo — quasi una preghiera laica quotidiana — il cui scopo è cogliere l’eternità degli oggetti immersi nel tempo. La bottiglia, dunque, è molto di più di una bottiglia, è «l’icona di un assoluto altrimenti irraggiungibile, evoca la presenza della Cosa, del reale in quanto impossibile da rappresentare».
Morandi insegue questo obiettivo puntando a una progressiva smaterializzazione dei suoi oggetti: li sfinisce e li consuma a forza di osservarli e dipingerli. Negli ultimi acquerelli gli oggetti sono talmente rarefatti da diventare puri segni, ciò che resta di loro levita in uno spazio luminoso, anzi diventano quello stesso spazio luminoso. È la trasfigurazione finale: «È questo, se si vuole, il cristianesimo di fondo della sua opera. Dio ha il volto dell’uomo».
Percorsi paralleli compiono gli altri otto artisti: dalle ferite di Burri che aprono una squarcio sull’inconscio dell’opera all’energia di Vedova che invece produce inconscio; dall’americano Congdon folgorato in Italia dal crocifis- so a Celiberti ossessionato dai muri dopo un viaggio negli orrori del campo nazista di Terezìn; dalle visioni di Papetti che emergono dalla fanghiglia al viaggio al termine della notte e del nero di Giovanni Frangi; dalle ombre di fumo che dipingono il tempo di Parmiggiani a Kounellis, che evoca il sacro mettendo in scena semplici e comuni oggetti.
Ecco, il sacro: tabù dell’Occidente, grande rimosso del nostro tempo. Forse è questo il tema vero del libro di Recalcati. «L’arte comporta una vocazione sacra, se per sacro si intende l’accesso alla relazione con ciò che sfugge a ogni principio di relazione». Sacro, quindi, come mistero irriducibile dell’essere, non come territorio di questa o quella religione: anzi se c’è una cosa da cui gli artisti devono fuggire è la scorciatoia del contenuto, la tentazione di mettere in scena narrazioni descrittive. L’opera non racconta, è. Incarna quella che Lacan chiamava estimità: una definizione che nasce da un ossimoro apparente, la congiunzione di un sentimento di intimità e di estraneità. «La sua estimità sta nell’essere una parte del mondo e insieme un’apparizione che esorbita la scena consolidata del mondo». La bellezza, diceva Rilke, non è che il tremendo al suo inizio.
Certo sono parole inattuali. Il mainstream è un altro: tra gli smalti brillanti del post-pop e i manifesti di un’estetica dedicata all’impegno politico, tra le ultime e stanche provocazioni e i bombardamenti sensoriali di mezzi digitali sempre più potenti, le vie imboccate dall’arte dei nostri giorni sono diversissime. Ma non bisogna lasciarsi spaventare dalle mode contemporanee: Agamben ci ha ricordato che è davvero contemporaneo solo chi non coincide perfettamente col suo tempo, e proprio per questo è capace di percepirlo. In fondo l’arte è nata dal rapporto con il sacro. E proprio quando ci ricorda che è ancora questo, oggi, il suo compito, Recalcati non coincide con il suo tempo. Ciò che rende tanto più necessario il suo libro.
Massimo Recalcati nel suo nuovo saggio racconta come i grandi pittori ci indicano una via laica al sacro
Per avvicinarci all’Essere ci resta solo l’arte
di Gregorio Botta
Quando la psicoanalisi si avvicina all’arte gli esiti sono raramente felici: la tentazione di scavare nelle psicologie degli autori, di rintracciare ferite biografiche, di leggere l’opera come un sintomo è forte. Massimo Recalcati lo sa e nel suo “Il mistero delle cose”(Feltrinelli) dichiara subito che non correrà questo rischio: «In questo libro l’uso della psicanalisi per leggere l’opera ha rifiutato metodicamente ogni sua applicazione patografica». L’arte non è un paziente, e non va messa sul lettino. Bene. Allora perché parlarne inforcando gli occhiali di Lacan?
Perché si muove sullo stesso terreno della psicoanalisi: l’una e l’altra parlano della stessa cosa, sono impegnate nella stessa lotta di Giacobbe con l’angelo sconosciuto. È la battaglia per dare forma a ciò che è «irraffigurabile, all’alterità assoluta che sfugge sempre alla rappresentazione». La missione è avvicinarsi il più possibile al mistero dell’essere, portare l’uomo sulla soglia dell’indicibile.
Ungaretti cercava di «popolare di nomi il silenzio». È questo che deve fare l’arte secondo Recalcati. Per il suo libro ha scelto nove artisti (Giorgio Morandi, Alberto Burri, Emilio Vedova, William Congdon, Giorgio Celiberti, Jannis Kounellis, Claudio Parmiggiani, Alessandro Papetti e Giovanni Frangi), alcuni del secolo scorso altri nostri contemporanei, tutti italiani di nascita o di adozione. Sono autori molto diversi tra loro (e non solo per fama e mercato). È difficile immaginare — per esempio — due artisti più lontani di Vedova e Parmiggiani: il primo un espressionista radicale ed estremo, l’altro un silenzioso poeta dell’assenza. Eppure, leggendo i densi saggi che Recalcati dedica a ognuno di loro si scopre il sottile filo rosso che lega l’uno all’altro: tutti sacerdoti solitari di un movimento che insegue il sogno di rendere visibile l’invisibile, come diceva Paul Klee, di toccare il mistero delle cose, (la definizione che dà il titolo al libro è di Kounellis).
Prendiamo Morandi: nessuno certo si sogna di leggere la sua opera solo come quella di un semplice artista figurativo, ostinato oppositore delle correnti astrattiste del suo tempo. Le sue nature morte racchiudono una visione profonda. Compito del pittore — scriveva lui stesso — «è far cadere quei diaframmi, quelle immagini convenzionali che si frappongono tra lui e le cose». Dunque non si tratta solo di dipingere vasi e barattoli con i magnifici colori tonali della sua tavolozza. Si tratta di molto di più: di rompere gli schemi visivi e mentali con cui siamo abituati a classificarli, registrarli e anestetizzarli nella nostra coscienza. Si tratta di rivelare la stupefacente intensità della loro presenza. È un lavoro lento, paziente, ripetitivo — quasi una preghiera laica quotidiana — il cui scopo è cogliere l’eternità degli oggetti immersi nel tempo. La bottiglia, dunque, è molto di più di una bottiglia, è «l’icona di un assoluto altrimenti irraggiungibile, evoca la presenza della Cosa, del reale in quanto impossibile da rappresentare».
Morandi insegue questo obiettivo puntando a una progressiva smaterializzazione dei suoi oggetti: li sfinisce e li consuma a forza di osservarli e dipingerli. Negli ultimi acquerelli gli oggetti sono talmente rarefatti da diventare puri segni, ciò che resta di loro levita in uno spazio luminoso, anzi diventano quello stesso spazio luminoso. È la trasfigurazione finale: «È questo, se si vuole, il cristianesimo di fondo della sua opera. Dio ha il volto dell’uomo».
Percorsi paralleli compiono gli altri otto artisti: dalle ferite di Burri che aprono una squarcio sull’inconscio dell’opera all’energia di Vedova che invece produce inconscio; dall’americano Congdon folgorato in Italia dal crocifis- so a Celiberti ossessionato dai muri dopo un viaggio negli orrori del campo nazista di Terezìn; dalle visioni di Papetti che emergono dalla fanghiglia al viaggio al termine della notte e del nero di Giovanni Frangi; dalle ombre di fumo che dipingono il tempo di Parmiggiani a Kounellis, che evoca il sacro mettendo in scena semplici e comuni oggetti.
Ecco, il sacro: tabù dell’Occidente, grande rimosso del nostro tempo. Forse è questo il tema vero del libro di Recalcati. «L’arte comporta una vocazione sacra, se per sacro si intende l’accesso alla relazione con ciò che sfugge a ogni principio di relazione». Sacro, quindi, come mistero irriducibile dell’essere, non come territorio di questa o quella religione: anzi se c’è una cosa da cui gli artisti devono fuggire è la scorciatoia del contenuto, la tentazione di mettere in scena narrazioni descrittive. L’opera non racconta, è. Incarna quella che Lacan chiamava estimità: una definizione che nasce da un ossimoro apparente, la congiunzione di un sentimento di intimità e di estraneità. «La sua estimità sta nell’essere una parte del mondo e insieme un’apparizione che esorbita la scena consolidata del mondo». La bellezza, diceva Rilke, non è che il tremendo al suo inizio.
Certo sono parole inattuali. Il mainstream è un altro: tra gli smalti brillanti del post-pop e i manifesti di un’estetica dedicata all’impegno politico, tra le ultime e stanche provocazioni e i bombardamenti sensoriali di mezzi digitali sempre più potenti, le vie imboccate dall’arte dei nostri giorni sono diversissime. Ma non bisogna lasciarsi spaventare dalle mode contemporanee: Agamben ci ha ricordato che è davvero contemporaneo solo chi non coincide perfettamente col suo tempo, e proprio per questo è capace di percepirlo. In fondo l’arte è nata dal rapporto con il sacro. E proprio quando ci ricorda che è ancora questo, oggi, il suo compito, Recalcati non coincide con il suo tempo. Ciò che rende tanto più necessario il suo libro.
Corriere 19.11.16
«Cara Elsa , c’è un demone in te» Moravia, lettere da un matrimonio
di Antonio Debenedetti
«Elsa cercava di annullarmi e al tempo stesso, per troppa passione, annullava se stessa». È davvero in queste parole, scritte da Alberto Moravia con l’inchiostro d’un autobiografismo un po’ di maniera, la sintesi del matrimonio letterario italiano del XX secolo più enfatizzato da cronisti, ammiratori e detrattori?
Escono adesso 110 lettere, quasi lo scheletro d’un romanzo autobiografico, inviate da Alberto alla moglie Elsa Morante fra il 1947 e il 1983. Chi legge per capire, non fermandosi solo alle curiosità più vicine al pettegolezzo, potrà trovarvi più d’un motivo che collega strettamente sotto il profilo umano questi sfoghi impetuosi e sguarniti a due romanzi di tutto rilievo nella bibliografia moraviana cioè L’amore coniugale (1949) e Il disprezzo (1954). Parallelamente a quelle due opere molto discusse e contestate, nelle prose epistolari ora opportunamente raccolte da Alessandra Grandelis, tornano svestiti di ogni adescamento di natura romanzesca i temi del rapporto di chi scrive, dell’artista, con la realtà matrimoniale. Dell’eros con la quotidianità di cui è pur fatta la vita d’una coppia.
È una sera del lontano 1936. Elsa e Alberto si incontrano in una birreria del centro storico all’epoca frequentata dagli artisti romani più in, a presentarli sembra sia stato il pittore Giuseppe Capogrossi. Bellissimi quadri figurativi, buona famiglia, parente di padre Tacchi Venturi. Alberto, che vuole imporsi in un mondo dove è entrato zoppicando da malato, veste con eleganza. È magro, piacente, loquacissimo, sicuro di sé come può esserlo l’autore d’un capolavoro però discusso, avversato dai moralisti quale Gli indifferenti . Alberto gioisce, s’esalta e trema. Frequenta la nobiltà, viaggia come i più famosi scrittori inglesi e francesi. Sue mete? Gli Stati Uniti e l’Oriente. Elsa, poverissima, non è laureata e vive buttando giù tesi di laurea a pagamento. È fascinosa, ha occhi bellissimi e fa letteralmente la fame, lavorando però a dei racconti che sono tutta la sua speranza. Non può andare dalla sarta, figurarsi, così la moglie d’un critico letterario le regala i suoi vestiti usati.
Oplà! Un particolare importante, di solito trascurato in modo inspiegabile dai biografi. Incombono le leggi razziali. Alberto è di padre ebreo e di madre cattolica, Elsa è di madre ebrea e di padre «ariano». Quale il peso di questa realtà, che i tempi renderanno sempre più emergente, nella loro convivenza iniziata qualche mese dopo cioè nel fascistissimo e razzista 1937? A riguardo tacciono sia Moravia che la Morante per paura di nuocere al loro futuro letterario e più tardi si farà troppo spesso finta di niente. Eppure ci vuol poco a immaginare che proprio quel silenzio sul loro sangue ebraico ebbe il posto d’un compagno segreto, forse d’un insopprimibile «complice» (insieme con la letteratura) della loro vicenda sentimentale.
Un salto di circa un decennio. Con la caduta del regime e la Liberazione inizia un secondo tempo nel ménage di Elsa e Alberto, ufficialmente sposati a partire dal 14 aprile 1941. Moravia diviene sempre più famoso e però discusso, combattuto mentre lo si adula e la Morante inizia a godere del prestigio d’un personaggio insolito nel panorama letterario italiano, misterioso e un po’ stregonesco. Il successo a grandi numeri della Romana nel 1947 e l’anno successivo la pubblicazione di Menzogna e sortilegio di Elsa, giudicato dal leggendario György Lukács «il più grande romanzo italiano moderno», valgono un’incoronazione della coppia. Regneranno brevemente usando quale troni le sedie d’un caffè di piazza del Popolo.
Stiamo ai fatti. Di stagione in stagione l’amorosa convivenza dei primi anni viene mutandosi in un irreparabile disastro. L’esistenza in comune di lui e lei va infatti sempre più trasformandosi in un pasticcio molto cerebrale, irreparabile e doloroso non meno che stranamente autocompiaciuto d’un oscuro male di vivere dove la letteratura, il talento, i nervi logorati dalla creatività hanno un posto di eccellenza.
Chi era lui agli occhi di lei e lei agli occhi di lui? Difficile dirlo. Ci si deve accontentare delle solite battute colte al volo, delle consuete dichiarazioni malate di estemporaneità. Fra le tante, per quanto riguarda la Morante, ho scelto questa. «Alberto? Era un innocente» ha detto un giorno Elsa conversando con Alfonso Berardinelli che me l’ha riferito pochi giorni fa per telefono. La parola «innocente», sempre cosi impegnativa, immaginandola pronunciata dalla voce della Morante, «cantilenante, melodica, mista di registri alti e bassi, di note acute e di morbide curve vocali» (come la descrive Garboli), acquista il valore d’una sentenza cui inchinarsi e obbedire. Alberto, l’uomo che sbuffava lamentandosi di soffrire d’una noia cosmica, aveva in effetti anche all’aspetto qualcosa di innocente. A proposito della noia Alberto Arbasino, perfido e dolcissimo come forse solo lui sa essere a volte, racconta di Moravia che per sottrarsi appunto a un tedio opprimente usciva dal caffè Aragno contando «le macchine che passavano sul corso in un’ora».
E che cosa pensava Alberto di Elsa, quale moglie e amante? «...Non sono mai stato innamorato di lei. Innamorarsi è una cosa, amare un’altra cosa... Elsa l’ho molto amata, mi ha fatto soffrire molto... non posso dire di essere stato innamorato di lei». Questa sentenza l’ho ripresa dalla prefazione, indispensabile guida alla lettura, che Alessandra Grandelis ha preposto al volume moraviano da lei curato Quando verrai sarò quasi felice, sottotitolo Lettere a Elsa Morante 1947-1983 (Bompiani Overlook). Andrà subito aggiunto che mancano, purtroppo, le risposte della Morante perché Alberto cestinava la corrispondenza dopo averne preso visione. L’impressione che si ha leggendo questi sfoghi, confessioni, pensieri messi su carta così come li dettava l’umore del momento, è quella di chi ascolta un qualcheduno mentre parla al telefono, intanto che si infervora affrontando argomenti molto intimi e privati, non potendosi però udire per evidenti motivi le risposte dell’interlocutore. Tanto che si è presi da una curiosità dell’orecchio prima che della mente che porta a chiedersi, sapendo di non poter avere risposta: «Ma Elsa che cosa diceva? Che cosa obiettava?».
Queste 110 lettere, dovute a un Moravia marito amoroso, ma sempre un po’ fuori parte a una moglie difficilissima e affascinante quale doveva essere Elsa, sono tutte in presa diretta. Scoprono il cuore sottraendosi agli artifici dell’intelligenza. È d’obbligo qualche esempio. Eccovelo, dunque: «Tu dici spesso che non ti amo e invece io non posso fare a meno di te» (7 agosto 1950), «Cara Elsa, io ti amo ancora tanto, che basta una tua parola sgarbata per farmi soffrire. Purtroppo c’è in te come un demone che ti spinge a dirmi sempre delle cose spiacevoli. Perché non sarebbe possibile cambiare tutto ciò?» (1950),«Lavora bene e cerca di mangiare cose buone» (1° agosto 1951), «Ho capito che ti amo molto cosi sentimentalmente come fisicamente...Vorrei tanto che tu fossi qui e ho tanto desiderio di baciarti e di fare l’amore con te» (12 agosto 1951), «Ti lascio cara Elsa e ti bacio forte e con affetto nel luogo della tua persona che preferisci» (15 agosto 1951).
A volte Moravia si nasconde dietro atteggiamenti e dichiarazioni del tono volutamente infantile, così il 14 agosto 1951: «Al tuo ritorno a Roma se vorrai ti comprerò l’automobile. Però mi hanno detto che per imparare bisogna incominciare con una macchina di poco prezzo magari usata perché imparare a guidare su una bella macchina nuova vuol dire ridurla inservibile e poi doverla riparare con ingente spesa».
Quell’auto, sfinita dall’uso e di fabbricazione inglese, fu acquistata o almeno così mi raccontava Enzo Siciliano. Elsa si mise al volante e affrontò via Condotti, una delle strade più eleganti di Roma allora transitabile a senso unico. Elsa la imboccò contromano causando un intralcio al traffico e un ingorgo di proporzioni... letterarie.
Cambia la musica e il matrimonio agonizza. Ecco allora che, in un momento di massima crisi del loro rapporto (Elsa era disperata per la morte di Bill Morrow), il 9 agosto 1963 Alberto scrive: «Da qualche tempo la mia vita ha perduto come si dice “il baricentro” e se ne va di qua e di là come una trottola impazzita. Spero solo di poter dire in un romanzo che genere di vita è». In queste ultime parole c’è tutto Moravia, c’è l’uomo che mi dichiarò perché lo scrivessi su questo giornale «io ho una sola religione la letteratura», c’è l’uomo che amiamo e onoriamo perché viveva per narrare e narrava per vivere.
«Cara Elsa , c’è un demone in te» Moravia, lettere da un matrimonio
di Antonio Debenedetti
«Elsa cercava di annullarmi e al tempo stesso, per troppa passione, annullava se stessa». È davvero in queste parole, scritte da Alberto Moravia con l’inchiostro d’un autobiografismo un po’ di maniera, la sintesi del matrimonio letterario italiano del XX secolo più enfatizzato da cronisti, ammiratori e detrattori?
Escono adesso 110 lettere, quasi lo scheletro d’un romanzo autobiografico, inviate da Alberto alla moglie Elsa Morante fra il 1947 e il 1983. Chi legge per capire, non fermandosi solo alle curiosità più vicine al pettegolezzo, potrà trovarvi più d’un motivo che collega strettamente sotto il profilo umano questi sfoghi impetuosi e sguarniti a due romanzi di tutto rilievo nella bibliografia moraviana cioè L’amore coniugale (1949) e Il disprezzo (1954). Parallelamente a quelle due opere molto discusse e contestate, nelle prose epistolari ora opportunamente raccolte da Alessandra Grandelis, tornano svestiti di ogni adescamento di natura romanzesca i temi del rapporto di chi scrive, dell’artista, con la realtà matrimoniale. Dell’eros con la quotidianità di cui è pur fatta la vita d’una coppia.
È una sera del lontano 1936. Elsa e Alberto si incontrano in una birreria del centro storico all’epoca frequentata dagli artisti romani più in, a presentarli sembra sia stato il pittore Giuseppe Capogrossi. Bellissimi quadri figurativi, buona famiglia, parente di padre Tacchi Venturi. Alberto, che vuole imporsi in un mondo dove è entrato zoppicando da malato, veste con eleganza. È magro, piacente, loquacissimo, sicuro di sé come può esserlo l’autore d’un capolavoro però discusso, avversato dai moralisti quale Gli indifferenti . Alberto gioisce, s’esalta e trema. Frequenta la nobiltà, viaggia come i più famosi scrittori inglesi e francesi. Sue mete? Gli Stati Uniti e l’Oriente. Elsa, poverissima, non è laureata e vive buttando giù tesi di laurea a pagamento. È fascinosa, ha occhi bellissimi e fa letteralmente la fame, lavorando però a dei racconti che sono tutta la sua speranza. Non può andare dalla sarta, figurarsi, così la moglie d’un critico letterario le regala i suoi vestiti usati.
Oplà! Un particolare importante, di solito trascurato in modo inspiegabile dai biografi. Incombono le leggi razziali. Alberto è di padre ebreo e di madre cattolica, Elsa è di madre ebrea e di padre «ariano». Quale il peso di questa realtà, che i tempi renderanno sempre più emergente, nella loro convivenza iniziata qualche mese dopo cioè nel fascistissimo e razzista 1937? A riguardo tacciono sia Moravia che la Morante per paura di nuocere al loro futuro letterario e più tardi si farà troppo spesso finta di niente. Eppure ci vuol poco a immaginare che proprio quel silenzio sul loro sangue ebraico ebbe il posto d’un compagno segreto, forse d’un insopprimibile «complice» (insieme con la letteratura) della loro vicenda sentimentale.
Un salto di circa un decennio. Con la caduta del regime e la Liberazione inizia un secondo tempo nel ménage di Elsa e Alberto, ufficialmente sposati a partire dal 14 aprile 1941. Moravia diviene sempre più famoso e però discusso, combattuto mentre lo si adula e la Morante inizia a godere del prestigio d’un personaggio insolito nel panorama letterario italiano, misterioso e un po’ stregonesco. Il successo a grandi numeri della Romana nel 1947 e l’anno successivo la pubblicazione di Menzogna e sortilegio di Elsa, giudicato dal leggendario György Lukács «il più grande romanzo italiano moderno», valgono un’incoronazione della coppia. Regneranno brevemente usando quale troni le sedie d’un caffè di piazza del Popolo.
Stiamo ai fatti. Di stagione in stagione l’amorosa convivenza dei primi anni viene mutandosi in un irreparabile disastro. L’esistenza in comune di lui e lei va infatti sempre più trasformandosi in un pasticcio molto cerebrale, irreparabile e doloroso non meno che stranamente autocompiaciuto d’un oscuro male di vivere dove la letteratura, il talento, i nervi logorati dalla creatività hanno un posto di eccellenza.
Chi era lui agli occhi di lei e lei agli occhi di lui? Difficile dirlo. Ci si deve accontentare delle solite battute colte al volo, delle consuete dichiarazioni malate di estemporaneità. Fra le tante, per quanto riguarda la Morante, ho scelto questa. «Alberto? Era un innocente» ha detto un giorno Elsa conversando con Alfonso Berardinelli che me l’ha riferito pochi giorni fa per telefono. La parola «innocente», sempre cosi impegnativa, immaginandola pronunciata dalla voce della Morante, «cantilenante, melodica, mista di registri alti e bassi, di note acute e di morbide curve vocali» (come la descrive Garboli), acquista il valore d’una sentenza cui inchinarsi e obbedire. Alberto, l’uomo che sbuffava lamentandosi di soffrire d’una noia cosmica, aveva in effetti anche all’aspetto qualcosa di innocente. A proposito della noia Alberto Arbasino, perfido e dolcissimo come forse solo lui sa essere a volte, racconta di Moravia che per sottrarsi appunto a un tedio opprimente usciva dal caffè Aragno contando «le macchine che passavano sul corso in un’ora».
E che cosa pensava Alberto di Elsa, quale moglie e amante? «...Non sono mai stato innamorato di lei. Innamorarsi è una cosa, amare un’altra cosa... Elsa l’ho molto amata, mi ha fatto soffrire molto... non posso dire di essere stato innamorato di lei». Questa sentenza l’ho ripresa dalla prefazione, indispensabile guida alla lettura, che Alessandra Grandelis ha preposto al volume moraviano da lei curato Quando verrai sarò quasi felice, sottotitolo Lettere a Elsa Morante 1947-1983 (Bompiani Overlook). Andrà subito aggiunto che mancano, purtroppo, le risposte della Morante perché Alberto cestinava la corrispondenza dopo averne preso visione. L’impressione che si ha leggendo questi sfoghi, confessioni, pensieri messi su carta così come li dettava l’umore del momento, è quella di chi ascolta un qualcheduno mentre parla al telefono, intanto che si infervora affrontando argomenti molto intimi e privati, non potendosi però udire per evidenti motivi le risposte dell’interlocutore. Tanto che si è presi da una curiosità dell’orecchio prima che della mente che porta a chiedersi, sapendo di non poter avere risposta: «Ma Elsa che cosa diceva? Che cosa obiettava?».
Queste 110 lettere, dovute a un Moravia marito amoroso, ma sempre un po’ fuori parte a una moglie difficilissima e affascinante quale doveva essere Elsa, sono tutte in presa diretta. Scoprono il cuore sottraendosi agli artifici dell’intelligenza. È d’obbligo qualche esempio. Eccovelo, dunque: «Tu dici spesso che non ti amo e invece io non posso fare a meno di te» (7 agosto 1950), «Cara Elsa, io ti amo ancora tanto, che basta una tua parola sgarbata per farmi soffrire. Purtroppo c’è in te come un demone che ti spinge a dirmi sempre delle cose spiacevoli. Perché non sarebbe possibile cambiare tutto ciò?» (1950),«Lavora bene e cerca di mangiare cose buone» (1° agosto 1951), «Ho capito che ti amo molto cosi sentimentalmente come fisicamente...Vorrei tanto che tu fossi qui e ho tanto desiderio di baciarti e di fare l’amore con te» (12 agosto 1951), «Ti lascio cara Elsa e ti bacio forte e con affetto nel luogo della tua persona che preferisci» (15 agosto 1951).
A volte Moravia si nasconde dietro atteggiamenti e dichiarazioni del tono volutamente infantile, così il 14 agosto 1951: «Al tuo ritorno a Roma se vorrai ti comprerò l’automobile. Però mi hanno detto che per imparare bisogna incominciare con una macchina di poco prezzo magari usata perché imparare a guidare su una bella macchina nuova vuol dire ridurla inservibile e poi doverla riparare con ingente spesa».
Quell’auto, sfinita dall’uso e di fabbricazione inglese, fu acquistata o almeno così mi raccontava Enzo Siciliano. Elsa si mise al volante e affrontò via Condotti, una delle strade più eleganti di Roma allora transitabile a senso unico. Elsa la imboccò contromano causando un intralcio al traffico e un ingorgo di proporzioni... letterarie.
Cambia la musica e il matrimonio agonizza. Ecco allora che, in un momento di massima crisi del loro rapporto (Elsa era disperata per la morte di Bill Morrow), il 9 agosto 1963 Alberto scrive: «Da qualche tempo la mia vita ha perduto come si dice “il baricentro” e se ne va di qua e di là come una trottola impazzita. Spero solo di poter dire in un romanzo che genere di vita è». In queste ultime parole c’è tutto Moravia, c’è l’uomo che mi dichiarò perché lo scrivessi su questo giornale «io ho una sola religione la letteratura», c’è l’uomo che amiamo e onoriamo perché viveva per narrare e narrava per vivere.
La Stampa 19.11.16
Espressionismo astratto, così l’avanguardia si fa americana
Alla Royal Academy di Londra una grande rassegna sul movimento che nel dopoguerra spostò il baricentro dell’arte da Parigi a New York
di Fiorella Minervino
Sale e saloni alla Royal Academy illustrano con 150 dipinti, sculture, foto, l’Espressionismo Astratto, il movimento americano che si impose al mondo dopo la seconda guerra mondiale. Un gruppo di artisti, assai composito per ricerche e linguaggi (alcuni erano approdati dall’Europa), ma ghiotto di avanguardie precedenti, sfila in una poderosa rassegna, forse fin troppo vasta. I curatori David Anfam e Susan Davidson ne spiegano il significato: riproporre dopo 60 anni in Gran Bretagna questa generazione, ma con un occhio del XXI secolo. Stanza dopo stanza si visitano e rivedono alcuni capolavori dei più famosi Pollock, Rothko, De Kooning, Kline, Newman, Motherwell, Gotlieb, ciascuno con una monografica, ma non mancano i meno conosciuti, Pousset-Dart piuttosto che Jack Tworiov e altri.
L’impressione è di sfogliare un libro di storia dell’arte, senza eccessivi voli di fantasia, ma con opere in arrivo dai maggiori musei e da collezioni private, MoMa e Metropolitan compresi. Vale la pena ricordare come quel drappello di giovani cambiò la geografia dell’universo mondiale. Per la prima volta, dopo oltre un secolo, Parigi veniva spodestata da New York con una vittoria destinata a consolidarsi dagli Anni 50 del ’900 in poi, Pop Art e Minimal a dimostrarlo. D’altronde l’America procedeva in vorticosa crescita, questa generazione voleva superare i troppo «cerebrali» europei. Più che la cubismo guardava al Surrealismo per la ricerca interiore e l’automatismo, ma soprattutto era interessata all’Espressionismo per la violenza del gesto, rivisitandolo con il linguaggio dell’Informale.
Inoltre esprimevano già il disagio verso i nuovi miti di massa e le disuguaglianze sociali, persuasi di inaugurare inediti modi di fare arte. Pollock ad esempio scriveva: «La cosa importante è che Cliff Still, Rothko e io abbiamo cambiato la natura della pittura». Ed erano più o meno contemporanei ai poeti della Beat Generation e al free Jazz. Un’avventura nel segno del gesto istintivo, della libertà, delle vaste dimensioni e superfici piatte, ma avida di miti universali, di cultura dei nativi americani e di natura sconfinata. Bastano le memorabili sale dell’armeno Gorky o di Pollock come di Kline, a testimoniare qualità, potenza materica, dinamismo, vibranti pennellate di colore puro, ma anche la nuova attenzione riservata all’osservatore.
L’Espressionismo astratto fu fenomeno dalle svariate anime, che in certi casi si incrociavano o si assommavano. Il colossale Mural 1943, di Pollock (Università dello Iowa) commissionato per l’appartamento di Peggy Guggenheim, qui a confronto con Blue Poles 1952, testimonia l’energia, la tensione emotiva e la partecipazione diretta (fin con la traccia del suo corpo al centro del dipinto), oltre l’incredibile qualità materica. Per l’Italia non è certo una novità l’indimenticabile murale, è già stato esposto alla Guggenheim a Venezia. Poco dopo vale la pena sostare nella sala centrale per ammirare sette sublimi, enormi Rothko: una pura sinfonia di colori che scandiscono i diversi sentimenti umani. Una stanza è riservata anche alla West Coast, dove Tobey , Sam Francis, White, si succedono in composizioni spettacolari. Numerose sono le sculture totemiche di David Smith, distribuite con cadenza ripetitiva al centro di ogni spazio.
A sorprendere è Clifford Still, artista della West Coast, ma vero outsider, vorace divoratore di storia dell’arte, de Chirico compreso, che nella verticalità rintracciò la tendenza alla trascendenza spirituale, un passo dopo Kandinsky: le sue nove tele, come PH-950 1950, sembrano fiamme che ardono verso il cielo e provengono dal Clifford Still Museum di Denver. Suggestive le fotografie, quando fissano i protagonisti, come Namouth con Pollock al lavoro, ma ancor più quando documentano ricerche parallele alla pittura, ad esempio quella di rendere visibili i sentimenti umani più profondi con ideogrammi astratti, cui si impegnano Callaghan, Mili, Matter o la ingegnosa Barbara Morgan.
L’Espressionismo Astratto fu un movimento marcatamente maschile, ma De Kooning cantò di continuo le donne, ne scompose e ricompose le carni, il corpo, in geometrie audaci. Ne risultano mostri colorati, fantasmi come metafore d’una disperata condizione umana. Non mancano però le pioniere, come Lee Krashner consigliera e moglie del nevrotico, forse suicida Jackson Pollock , qui con la sterminata tela L’occhio è il primo cerchio, ma non sono da meno le turbolente composizioni di Joan Mitchell o quelle di Helen Frankenthaler. Per non parlare di straordinarie galleriste e collezioniste come Peggy Guggenheim e Betty Parsons. Il meno persuasivo è l’ultimo capitolo, Late works, Anni 70, quando Pop e Concettuali si erano già divorati il movimento e i suoi eroi (catalogo ed. Royal Academy).
Espressionismo astratto, così l’avanguardia si fa americana
Alla Royal Academy di Londra una grande rassegna sul movimento che nel dopoguerra spostò il baricentro dell’arte da Parigi a New York
di Fiorella Minervino
Sale e saloni alla Royal Academy illustrano con 150 dipinti, sculture, foto, l’Espressionismo Astratto, il movimento americano che si impose al mondo dopo la seconda guerra mondiale. Un gruppo di artisti, assai composito per ricerche e linguaggi (alcuni erano approdati dall’Europa), ma ghiotto di avanguardie precedenti, sfila in una poderosa rassegna, forse fin troppo vasta. I curatori David Anfam e Susan Davidson ne spiegano il significato: riproporre dopo 60 anni in Gran Bretagna questa generazione, ma con un occhio del XXI secolo. Stanza dopo stanza si visitano e rivedono alcuni capolavori dei più famosi Pollock, Rothko, De Kooning, Kline, Newman, Motherwell, Gotlieb, ciascuno con una monografica, ma non mancano i meno conosciuti, Pousset-Dart piuttosto che Jack Tworiov e altri.
L’impressione è di sfogliare un libro di storia dell’arte, senza eccessivi voli di fantasia, ma con opere in arrivo dai maggiori musei e da collezioni private, MoMa e Metropolitan compresi. Vale la pena ricordare come quel drappello di giovani cambiò la geografia dell’universo mondiale. Per la prima volta, dopo oltre un secolo, Parigi veniva spodestata da New York con una vittoria destinata a consolidarsi dagli Anni 50 del ’900 in poi, Pop Art e Minimal a dimostrarlo. D’altronde l’America procedeva in vorticosa crescita, questa generazione voleva superare i troppo «cerebrali» europei. Più che la cubismo guardava al Surrealismo per la ricerca interiore e l’automatismo, ma soprattutto era interessata all’Espressionismo per la violenza del gesto, rivisitandolo con il linguaggio dell’Informale.
Inoltre esprimevano già il disagio verso i nuovi miti di massa e le disuguaglianze sociali, persuasi di inaugurare inediti modi di fare arte. Pollock ad esempio scriveva: «La cosa importante è che Cliff Still, Rothko e io abbiamo cambiato la natura della pittura». Ed erano più o meno contemporanei ai poeti della Beat Generation e al free Jazz. Un’avventura nel segno del gesto istintivo, della libertà, delle vaste dimensioni e superfici piatte, ma avida di miti universali, di cultura dei nativi americani e di natura sconfinata. Bastano le memorabili sale dell’armeno Gorky o di Pollock come di Kline, a testimoniare qualità, potenza materica, dinamismo, vibranti pennellate di colore puro, ma anche la nuova attenzione riservata all’osservatore.
L’Espressionismo astratto fu fenomeno dalle svariate anime, che in certi casi si incrociavano o si assommavano. Il colossale Mural 1943, di Pollock (Università dello Iowa) commissionato per l’appartamento di Peggy Guggenheim, qui a confronto con Blue Poles 1952, testimonia l’energia, la tensione emotiva e la partecipazione diretta (fin con la traccia del suo corpo al centro del dipinto), oltre l’incredibile qualità materica. Per l’Italia non è certo una novità l’indimenticabile murale, è già stato esposto alla Guggenheim a Venezia. Poco dopo vale la pena sostare nella sala centrale per ammirare sette sublimi, enormi Rothko: una pura sinfonia di colori che scandiscono i diversi sentimenti umani. Una stanza è riservata anche alla West Coast, dove Tobey , Sam Francis, White, si succedono in composizioni spettacolari. Numerose sono le sculture totemiche di David Smith, distribuite con cadenza ripetitiva al centro di ogni spazio.
A sorprendere è Clifford Still, artista della West Coast, ma vero outsider, vorace divoratore di storia dell’arte, de Chirico compreso, che nella verticalità rintracciò la tendenza alla trascendenza spirituale, un passo dopo Kandinsky: le sue nove tele, come PH-950 1950, sembrano fiamme che ardono verso il cielo e provengono dal Clifford Still Museum di Denver. Suggestive le fotografie, quando fissano i protagonisti, come Namouth con Pollock al lavoro, ma ancor più quando documentano ricerche parallele alla pittura, ad esempio quella di rendere visibili i sentimenti umani più profondi con ideogrammi astratti, cui si impegnano Callaghan, Mili, Matter o la ingegnosa Barbara Morgan.
L’Espressionismo Astratto fu un movimento marcatamente maschile, ma De Kooning cantò di continuo le donne, ne scompose e ricompose le carni, il corpo, in geometrie audaci. Ne risultano mostri colorati, fantasmi come metafore d’una disperata condizione umana. Non mancano però le pioniere, come Lee Krashner consigliera e moglie del nevrotico, forse suicida Jackson Pollock , qui con la sterminata tela L’occhio è il primo cerchio, ma non sono da meno le turbolente composizioni di Joan Mitchell o quelle di Helen Frankenthaler. Per non parlare di straordinarie galleriste e collezioniste come Peggy Guggenheim e Betty Parsons. Il meno persuasivo è l’ultimo capitolo, Late works, Anni 70, quando Pop e Concettuali si erano già divorati il movimento e i suoi eroi (catalogo ed. Royal Academy).
Il Sole 19.11.16
Il caso della ragazza inglese «crioconservata»
La pseudoscienza e l’inganno dell’ibernazione
di Gilberto Corbellini
Il caso della ragazza inglese quattordicenne uccisa da un cancro, il cui corpo è stato ibernato su decisione di un giudice, che ha dato torto al padre, contrario, e ragione a lei e alla madre, riapre la questione della crioconservazione post-mortem. Se non ci fosse stato di mezzo un giudice che ha dovuto stabilire a quale genitore la legge desse ragione, non se ne sarebbe parlato. Di fatto, la questione riguardava cosa fare del cadavere della giovane: lei non voleva essere seppellita, ma essere ibernata.
Come ha dichiarato il giudice, la sentenza non dice nulla sulla validità della procedura di crioconservazione, cioè su quanto questa tecnica oggi risponda alle aspettative della ragazza di essere un giorno riportata in vita, guarita e messa in condizione di vivere molto più dei pochi anni che le sono stati concessi. Era un problema di come disporre del cadavere. La ragazza, ha dichiarato ancora il giudice, lo aveva colpito per il coraggio con cui affrontava la morte e la convinzione di aver capito informandosi su internet che le promesse della crionica sarebbero credibili.
In realtà, allo stato delle conoscenze e tecnologie la preservazione di un cadavere a -196°C per farlo quindi risorgere e guarire in un futuro prossimo è un’illusione. Meglio, promettere che questa procedura conserverà il corpo in condizioni tali da poter riportare in vita la persona è un inganno. È pseudoscienza. E sono pseudoscienza anche le teorie sulla base delle quali si cerca di giustificare e vendere questo trattamento del cadavere. Nel senso che, anche ammesso che si riuscisse a ibernare un cadavere nei primissimi minuti dopo il decesso (con evidenti problemi legali ed etici relativi ai tempi necessari per l’accertamento della morte) l’idea che fissando chimicamente e col freddo le connessioni del cervello, queste preservino l’informazione relativa agli stati mentali, o si possano considerare queste architetture nervose congelate una sorta di hardware sul quale un giorno potrà essere ricaricato il software mentale dell’individuo, è un’allucinazione che non ha alcun senso biologico. Nel nostro cervello hardware e software, cioè mente e struttura anatomica, sono la stessa cosa. E la mente è l’attività biochimica ed elettrica del cervello, che una volta fermata perde l’integrazione funzionale e non è più la persona con la sua identità psicologica.
Le tecnologie di crioconservazione sono migliorate nel tempo e oggi si usano sia sostanze antigelo sia procedimenti di vitrificazione per impedire che si formino cristalli di ghiaccio che distruggerebbero le cellule. Ma sono miglioramenti tecnologici che non fanno avanzare le chance di riportare in vita i morti. La tecnologia è peraltro illegale in alcuni Paesi, come Francia e Canada, e i centri che la usano e offrono il servizio sono in Usa e Russia. Le procedure sono grosso modo le stesse e si tratta di sostituire il sangue del cadavere, entro il minor tempo possibile dal decesso, con un liquido antigelo e immergendolo quindi in azoto liquido. I costi sono molto diversi nei due Paesi, nel senso che crioconservare solo la testa costa $12mila in Russia e $80mila negli Stati Uniti, mentre tutto il corpo costa $36mila in Russia e $200mila negli Stati Uniti. Si calcola che siano alcune centinaia, quasi 300 negli Stati Uniti, i cadaveri crioconservati e che diverse migliaia siano in lista di attesa.
Le discussioni e le aspettative sulla crioconservazione andavano di moda soprattutto negli anni Sessanta, quando la conquista della luna e altri traguardi tecnologici e scientifici resero immaginabile la prospettiva dell’immortalità usando la crioconservazione. Tra l’altro circolava la leggenda che Walt Disney si fosse fatto ibernare, mentre si era fatto cremare, e l’idea era avvallata anche da importanti scrittori come Isaac Asimov o da personaggi della controcultura come Timothy Leary. Oggi si tratta di un business e di un tema di nicchia.
Gli aspetti etici della crioconservazione non sono particolarmente complicati. Intanto c’è la questione che si vende un trattamento del cadavere che non può mantenere quello che promette, ovvero si sfrutta il sogno umano individuale di non morire. In ogni caso, ognuno è libero di buttare i soldi come vuole e c’è sempre la scommessa di Pascal: cosa ci si perde, in fondo, a crederci. Solo dei soldi. Tuttavia, le teorie che ispirano queste aspettative mettono in discussione il concetto di morte, sia in senso tradizionale sia in senso scientifico e potrebbero indurre alcune persone a voler morire prematuramente per ibernare il proprio corpo nelle condizioni migliori. Potrebbero però alla lunga venire vantaggi indiretti dalle ricerche sulla crioconservazione, per esempio facendo scoprire metodi per conservare più a lungo e in migliore efficienza gli organi da trapiantare.
Il caso della ragazza inglese «crioconservata»
La pseudoscienza e l’inganno dell’ibernazione
di Gilberto Corbellini
Il caso della ragazza inglese quattordicenne uccisa da un cancro, il cui corpo è stato ibernato su decisione di un giudice, che ha dato torto al padre, contrario, e ragione a lei e alla madre, riapre la questione della crioconservazione post-mortem. Se non ci fosse stato di mezzo un giudice che ha dovuto stabilire a quale genitore la legge desse ragione, non se ne sarebbe parlato. Di fatto, la questione riguardava cosa fare del cadavere della giovane: lei non voleva essere seppellita, ma essere ibernata.
Come ha dichiarato il giudice, la sentenza non dice nulla sulla validità della procedura di crioconservazione, cioè su quanto questa tecnica oggi risponda alle aspettative della ragazza di essere un giorno riportata in vita, guarita e messa in condizione di vivere molto più dei pochi anni che le sono stati concessi. Era un problema di come disporre del cadavere. La ragazza, ha dichiarato ancora il giudice, lo aveva colpito per il coraggio con cui affrontava la morte e la convinzione di aver capito informandosi su internet che le promesse della crionica sarebbero credibili.
In realtà, allo stato delle conoscenze e tecnologie la preservazione di un cadavere a -196°C per farlo quindi risorgere e guarire in un futuro prossimo è un’illusione. Meglio, promettere che questa procedura conserverà il corpo in condizioni tali da poter riportare in vita la persona è un inganno. È pseudoscienza. E sono pseudoscienza anche le teorie sulla base delle quali si cerca di giustificare e vendere questo trattamento del cadavere. Nel senso che, anche ammesso che si riuscisse a ibernare un cadavere nei primissimi minuti dopo il decesso (con evidenti problemi legali ed etici relativi ai tempi necessari per l’accertamento della morte) l’idea che fissando chimicamente e col freddo le connessioni del cervello, queste preservino l’informazione relativa agli stati mentali, o si possano considerare queste architetture nervose congelate una sorta di hardware sul quale un giorno potrà essere ricaricato il software mentale dell’individuo, è un’allucinazione che non ha alcun senso biologico. Nel nostro cervello hardware e software, cioè mente e struttura anatomica, sono la stessa cosa. E la mente è l’attività biochimica ed elettrica del cervello, che una volta fermata perde l’integrazione funzionale e non è più la persona con la sua identità psicologica.
Le tecnologie di crioconservazione sono migliorate nel tempo e oggi si usano sia sostanze antigelo sia procedimenti di vitrificazione per impedire che si formino cristalli di ghiaccio che distruggerebbero le cellule. Ma sono miglioramenti tecnologici che non fanno avanzare le chance di riportare in vita i morti. La tecnologia è peraltro illegale in alcuni Paesi, come Francia e Canada, e i centri che la usano e offrono il servizio sono in Usa e Russia. Le procedure sono grosso modo le stesse e si tratta di sostituire il sangue del cadavere, entro il minor tempo possibile dal decesso, con un liquido antigelo e immergendolo quindi in azoto liquido. I costi sono molto diversi nei due Paesi, nel senso che crioconservare solo la testa costa $12mila in Russia e $80mila negli Stati Uniti, mentre tutto il corpo costa $36mila in Russia e $200mila negli Stati Uniti. Si calcola che siano alcune centinaia, quasi 300 negli Stati Uniti, i cadaveri crioconservati e che diverse migliaia siano in lista di attesa.
Le discussioni e le aspettative sulla crioconservazione andavano di moda soprattutto negli anni Sessanta, quando la conquista della luna e altri traguardi tecnologici e scientifici resero immaginabile la prospettiva dell’immortalità usando la crioconservazione. Tra l’altro circolava la leggenda che Walt Disney si fosse fatto ibernare, mentre si era fatto cremare, e l’idea era avvallata anche da importanti scrittori come Isaac Asimov o da personaggi della controcultura come Timothy Leary. Oggi si tratta di un business e di un tema di nicchia.
Gli aspetti etici della crioconservazione non sono particolarmente complicati. Intanto c’è la questione che si vende un trattamento del cadavere che non può mantenere quello che promette, ovvero si sfrutta il sogno umano individuale di non morire. In ogni caso, ognuno è libero di buttare i soldi come vuole e c’è sempre la scommessa di Pascal: cosa ci si perde, in fondo, a crederci. Solo dei soldi. Tuttavia, le teorie che ispirano queste aspettative mettono in discussione il concetto di morte, sia in senso tradizionale sia in senso scientifico e potrebbero indurre alcune persone a voler morire prematuramente per ibernare il proprio corpo nelle condizioni migliori. Potrebbero però alla lunga venire vantaggi indiretti dalle ricerche sulla crioconservazione, per esempio facendo scoprire metodi per conservare più a lungo e in migliore efficienza gli organi da trapiantare.
Il Sole 19.11.16
La Cina non è economia di mercato
di Paolo Bricco
No, la Cina non è una economia di mercato. E non si va in guerra con il fucile della PlayStation. L’impostazione di Bruxelles nella riforma della normativa anti-dumping sta dando vita a un corpus giuridico slabbrato e incoerente e sta generando un profilo politico velleitario e fragile.
Le nuove mappe del capitalismo globale non possono essere tracciate dall’Unione europea con la matita spezzata dell’ambiguità e del vantaggio di alcuni a discapito dell’interesse di tutti. La decisione di frammentare i criteri in base ai settori, per scegliere se applicare o no i dazi. Non va bene. E avvantaggia soprattutto la Cina. L’istituzione di procedure lunghe e complesse. Non va bene. E, indirettamente, avvantaggia la Cina. L’onere della prova a carico di chi ritiene di subire una distorsione della concorrenza. Non va bene. E avvantaggia di nuovo la Cina. In più, la concentrazione di una parte della procedura in capo alle direzioni generali di Bruxelles. Non funziona. E avvantaggia di nuovo, indirettamente, la Cina. A emergere è una visione allo stesso minimalista e neo-burocratica della tutela della manifattura europea. Mentre nel mare aperto dei mercati globali si stanno ingrossando le onde di una politica di potenza fatta di guerre industriali e commerciali, la Vecchia Europa – condizionata dai Paesi con una specializzazione produttiva più basata sui servizi e meno sulla manifattura - erige barriere difensive che si possono sfarinare al primo stormir di fronda. La Cina, ma anche la Russia e l’India. Con, in più, il grande punto di domanda degli Stati Uniti di Trump. La fase storica è nuova. Tutti stiamo entrando in una terra incognita. In un passaggio così delicato, l’Europa ha pensato bene di istituire una riforma della normativa comunitaria anti-dumping formalistica e piena di buone intenzioni, professorale e poco concreta. Una riforma che sembra un’arma spuntata, soprattutto nei confronti di quella Cina che sta combattendo con ogni mezzo per vedersi accreditato lo status di economia di mercato. Oggi ci sono 84 restrizioni commerciali (72 antidumping e 12 antisussidi), 62 delle quali verso la Cina. Non sono mai state così tante. Eppure, con la nuova impostazione scelta da Bruxelles a cui il Governo italiano si sta opponendo, questi dazi hanno l’aria di tasselli sparsi sul tavolo, che non si uniscono né mai combaciano, con il risultato che l’intero disegno difensivo perde forza e coerenza. Basti pensare che la riforma, focalizzando l’attenzione sui singoli comparti produttivi, elimina alla radice – nelle scelte operative su come istituire i dazi – la distinzione fra economie di mercato e economie non di mercato. Il commissario Ue per il commercio Cecilia Malmström può sgolarsi finché vuole sostenendo, come ha fatto ieri a Milano, che «la Cina non è una economia di mercato, non lo sarà domani e non lo sarà neppure entro la fine dell’anno». Che cosa cambia, se nei fatti le nuove procedure per la definizione o meno delle restrizioni commerciali non considerano più questo elemento un problema? Nella politica economica serve concretezza. L’ambiguità dell’Unione europea non può essere accettata. Può andare bene ai Paesi del Nord Europa, che hanno una struttura produttiva più basata sul terziario e che gravitano, economicamente e culturalmente, intorno a quella Gran Bretagna peraltro impegnata ad attuare la Brexit. Può forse andare bene alla Germania, che ha investimenti rilevanti in Cina e le cui imprese estraggono valore delle loro partecipazioni con le partite infragruppo, portando utili dalle consociate asiatiche alle case madri anche grazie allo sguardo benevolo di Pechino. Ma, di certo, fa male all’industria europea nel suo complesso. Resta strategica la costruzione di una identità europea in cui la fabbrica è centrale. Soltanto una Bruxelles malamente condizionata dagli interessi particolari di alcuni Stati membri e accecata dalla paura del mondo che cambia può dire di no, all’improvviso e con esiti tutti da decrittare, a questa buona tendenza di lungo periodo.
La Cina non è economia di mercato
di Paolo Bricco
No, la Cina non è una economia di mercato. E non si va in guerra con il fucile della PlayStation. L’impostazione di Bruxelles nella riforma della normativa anti-dumping sta dando vita a un corpus giuridico slabbrato e incoerente e sta generando un profilo politico velleitario e fragile.
Le nuove mappe del capitalismo globale non possono essere tracciate dall’Unione europea con la matita spezzata dell’ambiguità e del vantaggio di alcuni a discapito dell’interesse di tutti. La decisione di frammentare i criteri in base ai settori, per scegliere se applicare o no i dazi. Non va bene. E avvantaggia soprattutto la Cina. L’istituzione di procedure lunghe e complesse. Non va bene. E, indirettamente, avvantaggia la Cina. L’onere della prova a carico di chi ritiene di subire una distorsione della concorrenza. Non va bene. E avvantaggia di nuovo la Cina. In più, la concentrazione di una parte della procedura in capo alle direzioni generali di Bruxelles. Non funziona. E avvantaggia di nuovo, indirettamente, la Cina. A emergere è una visione allo stesso minimalista e neo-burocratica della tutela della manifattura europea. Mentre nel mare aperto dei mercati globali si stanno ingrossando le onde di una politica di potenza fatta di guerre industriali e commerciali, la Vecchia Europa – condizionata dai Paesi con una specializzazione produttiva più basata sui servizi e meno sulla manifattura - erige barriere difensive che si possono sfarinare al primo stormir di fronda. La Cina, ma anche la Russia e l’India. Con, in più, il grande punto di domanda degli Stati Uniti di Trump. La fase storica è nuova. Tutti stiamo entrando in una terra incognita. In un passaggio così delicato, l’Europa ha pensato bene di istituire una riforma della normativa comunitaria anti-dumping formalistica e piena di buone intenzioni, professorale e poco concreta. Una riforma che sembra un’arma spuntata, soprattutto nei confronti di quella Cina che sta combattendo con ogni mezzo per vedersi accreditato lo status di economia di mercato. Oggi ci sono 84 restrizioni commerciali (72 antidumping e 12 antisussidi), 62 delle quali verso la Cina. Non sono mai state così tante. Eppure, con la nuova impostazione scelta da Bruxelles a cui il Governo italiano si sta opponendo, questi dazi hanno l’aria di tasselli sparsi sul tavolo, che non si uniscono né mai combaciano, con il risultato che l’intero disegno difensivo perde forza e coerenza. Basti pensare che la riforma, focalizzando l’attenzione sui singoli comparti produttivi, elimina alla radice – nelle scelte operative su come istituire i dazi – la distinzione fra economie di mercato e economie non di mercato. Il commissario Ue per il commercio Cecilia Malmström può sgolarsi finché vuole sostenendo, come ha fatto ieri a Milano, che «la Cina non è una economia di mercato, non lo sarà domani e non lo sarà neppure entro la fine dell’anno». Che cosa cambia, se nei fatti le nuove procedure per la definizione o meno delle restrizioni commerciali non considerano più questo elemento un problema? Nella politica economica serve concretezza. L’ambiguità dell’Unione europea non può essere accettata. Può andare bene ai Paesi del Nord Europa, che hanno una struttura produttiva più basata sul terziario e che gravitano, economicamente e culturalmente, intorno a quella Gran Bretagna peraltro impegnata ad attuare la Brexit. Può forse andare bene alla Germania, che ha investimenti rilevanti in Cina e le cui imprese estraggono valore delle loro partecipazioni con le partite infragruppo, portando utili dalle consociate asiatiche alle case madri anche grazie allo sguardo benevolo di Pechino. Ma, di certo, fa male all’industria europea nel suo complesso. Resta strategica la costruzione di una identità europea in cui la fabbrica è centrale. Soltanto una Bruxelles malamente condizionata dagli interessi particolari di alcuni Stati membri e accecata dalla paura del mondo che cambia può dire di no, all’improvviso e con esiti tutti da decrittare, a questa buona tendenza di lungo periodo.
Avvenire 17.11.16
Elif Shafak: «Nella mia Turchia la salvezza verrà dalle donne»
intervista di Chiara Zappa
Per la scrittrice, che apre BookCity a Milano, «nel mio Paese non mancano figure femminili forti in ogni settore, dall’economia alle arti, ma non c’è una cultura di sorellanza
Trentacinque donne assassinate in Turchia nel mese di ottobre, lo stesso numero a settembre, mentre dall’inizio dell’anno la macabra conta ha già raggiunto i 272 femminicidi. È un bollettino di guerra quello stilato dalla Kadin Cinayetlerini Durduracagiz Platformu, un’organizzazione che tenta di difendere i diritti femminili in un Paese dove la violenza riversata contro la metà della società meno tutelata, dalle leggi ma soprattutto dalla mentalità corrente, appare pericolosamente fuori controllo. «Le donne continuano ad essere uccise dalle persone più vicine a loro quando vogliono prendere decisioni che riguardano le proprie vite», afferma il rapporto dell’organizzazione. Al centro del nuovo romanzo di Elif Shafak, acclamata scrittrice di origine turca autrice tra l’altro di La bastarda di Istanbul, La casa dei quattro venti, La città ai confini del cielo (tutti Rizzoli) non ci sono episodi di brutalità eclatanti. Ma in Tre figlie di Eva (Rizzoli, pagine 448, euro 20,00) la cultura patriarcale che tollera infinite forme di abusi e violazioni è presente sotto traccia lungo tutta la storia: da un tentativo di stupro per le strade di Istanbul a un test di verginità su una giovane sposa terrorizzata. Fino alle mille regole non scritte che le “brave ragazze” sono tenute ad osservare, pena lo stigma sociale e la rovina delle proprie famiglie. Il tutto aggravato da una mentalità fatalista e rassegnata che diventa complice dell’immobilismo: «Nel quartiere si considerava preordinato ogni destino e inevitabile ogni sofferenza, comprese quelle che gli abitanti della via infliggevano gli uni agli altri, come per esempio fare a botte per il calcio, litigare per la politica e picchiare la moglie», racconta Peri, la protagonista del romanzo. «La Turchia ha sempre avuto una società patriarcale, ma oggi è più conservatrice, più chiusa, più tesa – spiega Shafak, che stasera, alle 19.00 al Teatro dal Verme, inaugurerà BookCity Milano dialogando con la giornalista Rula Jebreal e riceverà il Sigillo della città dal sindaco Giuseppe Sala –. C’è un incremento crescente della violenza domestica: moltissime donne vengono assassinate dai loro mariti, ex mariti, compagni. C’è anche il grosso problema degli omicidi d’onore: i responsabili ottengono pene leggere, si giustificano dicendo che hanno dovuto “difendere il loro onore”. Un concetto malsano che crea molti problemi. Dobbiamo cambiare le leggi, ma anche la mentalità delle persone».
Come possono le donne turche combattere questa mentalità patriarcale, ben descritta nel suo libro?
«Abbiamo bisogno di una cultura di sorellanza: questo è ciò che manca in Turchia. Abbiamo donne forti nel settore degli affari, nelle università, nelle arti, ma tutto ciò non è abbastanza se non siamo in grado di costruire un senso di condivisione che sostenga e abbracci tutte le donne». Dopo un decennio di speranze per le minoranze, ora in Turchia la situazione sta di nuovo deteriorandosi rapidamente e assistiamo a un ritorno di forte nazionalismo: quale spazio vede per curdi, cristiani armeni, greci, aleviti… di nuovo etichettati come «le mele marce» e «i traditori della nazione»?
«La qualità della democrazia in un Paese non si misura guardando alla maggioranza ma alla situazione delle sue minoranze. E la loro vita, in Turchia, è diventata molto più dura. È stato molto triste e ingiusto arrestare i leader del partito di ispirazione curda: i liberali, sia turchi che curdi, sono una minoranza e ci sentiamo molto depressi, molto soli. Il Paese sta perdendo la sua democrazia pluralista, c’è un forte giro di vite sui giornalisti, gli scrittori, gli intellettuali. Al momento sono demoralizzata».
Alcuni personaggi del romanzo sono convinti che la democrazia non sia adatta al Medio Oriente: che ne pensa?
«I discorsi che ho raccontato nel libro sono quelli che sento fare da molti in Turchia e un po’ dappertutto in Medio Oriente. Queste persone sostengono: “La democrazia è un concetto occidentale, non ci appartiene culturalmente”. Trovo queste affermazioni molto pericolose. In tutto il mondo si sta verificando una crescita delle “democrazie illiberali”: sistemi che hanno le elezioni ma mancano di altri prerequisiti come la libertà di espressione, la separazione dei poteri, il principio di legalità... Osservo queste tendenze globali e sono molto critica verso di esse».
In Turchia assistiamo anche a un ritorno dell’islam nella vita pubblica: non pensa che, sotto la superficie, buona parte del Paese non avesse mai maturato una vera laicità?
«Tre fattori stanno crescendo in Turchia: il nazionalismo, il conservatorismo islamico e l’autoritarismo. Tutti e tre sono connessi e problematici. Sì, quello che manca è la laicità, ne abbiamo bisogno in particolare noi donne, perché siamo noi che abbiamo più da perdere. A rischio sono tutti i nostri diritti».
Anche lei pensa, come il padre della protagonista, che l’istruzione salverà la Turchia? O ne è rimasta delusa?
«L’istruzione è molto importante, specialmente quella delle ragazze. Ma che genere di istruzione? Oggi anche il sistema educativo è molto nazionalista, chiuso. L’individualità non è incoraggiata, la creatività non è sostenuta. Questo sistema ha bisogno di essere riformato in senso molto più umanistico e creativo».
Quanto è ascoltata oggi la voce dei giornalisti, degli scrittori, degli artisti?
«La pressione nei confronti degli intellettuali è molto forte. Moltissimi miei amici e colleghi sono finiti su liste nere, sono stati stigmatizzati e perfino incarcerati. Sono state soppresse associazioni femminili, e anche organizzazioni per i diritti dei bambini. I social media sono invasi da discorsi carichi di odio, da calunnie e disinformazione ai danni di giornalisti e scrittori. Per le scrittrici donne, a volte, è ancora peggio, perché il linguaggio degli attacchi è incredibilmente sessista e misogino. Questo è un momento molto duro per le menti pensanti in Turchia».
Attualmente lei ha deciso di vivere in Europa: che cosa pensa dell’atteggiamento dell’Unione nei confronti della Turchia, negli ultimi decenni e oggi?
«Io sono una nomade, una pendolare. Mi muovo tra città, culture e lingue, voglio costruire ponti attraverso le mie storie e le mie parole. E se è vero che sono molto critica verso il governo turco, allo stesso tempo ne amo la cultura e il popolo. Penso che i popoli non dovrebbero essere isolati ed esclusi. Se la Turchia verrà isolata dall’Europa, così come ne è stata allontanata negli ultimi decenni, non farà che diventare più autoritaria. Io credo fermamente nell’Unione Europea perché per me incarna primariamente dei valori, come la libertà di espressione, i diritti delle donne, il principio di legalità. Voglio che la Turchia si adatti e abbracci questi valori, non voglio che la mia madrepatria se ne vada lontano dall’Europa».
Elif Shafak: «Nella mia Turchia la salvezza verrà dalle donne»
intervista di Chiara Zappa
Per la scrittrice, che apre BookCity a Milano, «nel mio Paese non mancano figure femminili forti in ogni settore, dall’economia alle arti, ma non c’è una cultura di sorellanza
Trentacinque donne assassinate in Turchia nel mese di ottobre, lo stesso numero a settembre, mentre dall’inizio dell’anno la macabra conta ha già raggiunto i 272 femminicidi. È un bollettino di guerra quello stilato dalla Kadin Cinayetlerini Durduracagiz Platformu, un’organizzazione che tenta di difendere i diritti femminili in un Paese dove la violenza riversata contro la metà della società meno tutelata, dalle leggi ma soprattutto dalla mentalità corrente, appare pericolosamente fuori controllo. «Le donne continuano ad essere uccise dalle persone più vicine a loro quando vogliono prendere decisioni che riguardano le proprie vite», afferma il rapporto dell’organizzazione. Al centro del nuovo romanzo di Elif Shafak, acclamata scrittrice di origine turca autrice tra l’altro di La bastarda di Istanbul, La casa dei quattro venti, La città ai confini del cielo (tutti Rizzoli) non ci sono episodi di brutalità eclatanti. Ma in Tre figlie di Eva (Rizzoli, pagine 448, euro 20,00) la cultura patriarcale che tollera infinite forme di abusi e violazioni è presente sotto traccia lungo tutta la storia: da un tentativo di stupro per le strade di Istanbul a un test di verginità su una giovane sposa terrorizzata. Fino alle mille regole non scritte che le “brave ragazze” sono tenute ad osservare, pena lo stigma sociale e la rovina delle proprie famiglie. Il tutto aggravato da una mentalità fatalista e rassegnata che diventa complice dell’immobilismo: «Nel quartiere si considerava preordinato ogni destino e inevitabile ogni sofferenza, comprese quelle che gli abitanti della via infliggevano gli uni agli altri, come per esempio fare a botte per il calcio, litigare per la politica e picchiare la moglie», racconta Peri, la protagonista del romanzo. «La Turchia ha sempre avuto una società patriarcale, ma oggi è più conservatrice, più chiusa, più tesa – spiega Shafak, che stasera, alle 19.00 al Teatro dal Verme, inaugurerà BookCity Milano dialogando con la giornalista Rula Jebreal e riceverà il Sigillo della città dal sindaco Giuseppe Sala –. C’è un incremento crescente della violenza domestica: moltissime donne vengono assassinate dai loro mariti, ex mariti, compagni. C’è anche il grosso problema degli omicidi d’onore: i responsabili ottengono pene leggere, si giustificano dicendo che hanno dovuto “difendere il loro onore”. Un concetto malsano che crea molti problemi. Dobbiamo cambiare le leggi, ma anche la mentalità delle persone».
Come possono le donne turche combattere questa mentalità patriarcale, ben descritta nel suo libro?
«Abbiamo bisogno di una cultura di sorellanza: questo è ciò che manca in Turchia. Abbiamo donne forti nel settore degli affari, nelle università, nelle arti, ma tutto ciò non è abbastanza se non siamo in grado di costruire un senso di condivisione che sostenga e abbracci tutte le donne». Dopo un decennio di speranze per le minoranze, ora in Turchia la situazione sta di nuovo deteriorandosi rapidamente e assistiamo a un ritorno di forte nazionalismo: quale spazio vede per curdi, cristiani armeni, greci, aleviti… di nuovo etichettati come «le mele marce» e «i traditori della nazione»?
«La qualità della democrazia in un Paese non si misura guardando alla maggioranza ma alla situazione delle sue minoranze. E la loro vita, in Turchia, è diventata molto più dura. È stato molto triste e ingiusto arrestare i leader del partito di ispirazione curda: i liberali, sia turchi che curdi, sono una minoranza e ci sentiamo molto depressi, molto soli. Il Paese sta perdendo la sua democrazia pluralista, c’è un forte giro di vite sui giornalisti, gli scrittori, gli intellettuali. Al momento sono demoralizzata».
Alcuni personaggi del romanzo sono convinti che la democrazia non sia adatta al Medio Oriente: che ne pensa?
«I discorsi che ho raccontato nel libro sono quelli che sento fare da molti in Turchia e un po’ dappertutto in Medio Oriente. Queste persone sostengono: “La democrazia è un concetto occidentale, non ci appartiene culturalmente”. Trovo queste affermazioni molto pericolose. In tutto il mondo si sta verificando una crescita delle “democrazie illiberali”: sistemi che hanno le elezioni ma mancano di altri prerequisiti come la libertà di espressione, la separazione dei poteri, il principio di legalità... Osservo queste tendenze globali e sono molto critica verso di esse».
In Turchia assistiamo anche a un ritorno dell’islam nella vita pubblica: non pensa che, sotto la superficie, buona parte del Paese non avesse mai maturato una vera laicità?
«Tre fattori stanno crescendo in Turchia: il nazionalismo, il conservatorismo islamico e l’autoritarismo. Tutti e tre sono connessi e problematici. Sì, quello che manca è la laicità, ne abbiamo bisogno in particolare noi donne, perché siamo noi che abbiamo più da perdere. A rischio sono tutti i nostri diritti».
Anche lei pensa, come il padre della protagonista, che l’istruzione salverà la Turchia? O ne è rimasta delusa?
«L’istruzione è molto importante, specialmente quella delle ragazze. Ma che genere di istruzione? Oggi anche il sistema educativo è molto nazionalista, chiuso. L’individualità non è incoraggiata, la creatività non è sostenuta. Questo sistema ha bisogno di essere riformato in senso molto più umanistico e creativo».
Quanto è ascoltata oggi la voce dei giornalisti, degli scrittori, degli artisti?
«La pressione nei confronti degli intellettuali è molto forte. Moltissimi miei amici e colleghi sono finiti su liste nere, sono stati stigmatizzati e perfino incarcerati. Sono state soppresse associazioni femminili, e anche organizzazioni per i diritti dei bambini. I social media sono invasi da discorsi carichi di odio, da calunnie e disinformazione ai danni di giornalisti e scrittori. Per le scrittrici donne, a volte, è ancora peggio, perché il linguaggio degli attacchi è incredibilmente sessista e misogino. Questo è un momento molto duro per le menti pensanti in Turchia».
Attualmente lei ha deciso di vivere in Europa: che cosa pensa dell’atteggiamento dell’Unione nei confronti della Turchia, negli ultimi decenni e oggi?
«Io sono una nomade, una pendolare. Mi muovo tra città, culture e lingue, voglio costruire ponti attraverso le mie storie e le mie parole. E se è vero che sono molto critica verso il governo turco, allo stesso tempo ne amo la cultura e il popolo. Penso che i popoli non dovrebbero essere isolati ed esclusi. Se la Turchia verrà isolata dall’Europa, così come ne è stata allontanata negli ultimi decenni, non farà che diventare più autoritaria. Io credo fermamente nell’Unione Europea perché per me incarna primariamente dei valori, come la libertà di espressione, i diritti delle donne, il principio di legalità. Voglio che la Turchia si adatti e abbracci questi valori, non voglio che la mia madrepatria se ne vada lontano dall’Europa».
il manifesto 19.11.16
Turchia, primo sì alla depenalizzazione dell’abuso sulle bambine
Il partner dell'Unione europea. Passa per un voto in seduta notturna l'articolo della riforma penale voluta dall'Akp di Erdogan
di R. G.
Il primo passaggio della contestata riforma del codice penale turco che depenalizza lo stupro sulle minori di 16 anni se dopo c’è un matrimonio riparatore è stato di notte.
L’articolo 49 della nuova legge proposta dal partito Akp (in turco è la sigla di Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) del presidente Erdogan è passato per un voto al termine della seduta notturna tra giovedì e venerdì.
Il testo integrale della legge andrà in discussione martedì prossimo, 22 novembre.
Contraria l’opposizione: i socialdemocratici del Chp e i nazionalisti del Mhp ( i curdi dell’Hdp non vanno ai lavori d’aula per protesta contro l’arresto dei loro deputati).
L’articolo 49 prevede che l’abuso sessuale su minore, nel caso avvenga “senza forza o la minaccia” e venga poi “sanato” con un matrimonio precoce, non venga sanzionato da una sentenza di condanna. Già i casi di questo tipo in attesa di essere giudicati e commessi prima del 16 novembre godrebbero di una sospensione.
Attualmente il matrimonio al di sotto dell’età di 17 anni è vietato dalla legge turca e i procedimenti si aprono d’ufficio, anche senza denuncia della vittima o del suo tutore ma ad esempio dopo un referto di pronto soccorso, per i reati sessuali contro i minori di 15 anni. Il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha detto che “a causa” dell’attuale normativa che sanziona i matrimoni precoci al momento “sono circa 3 mila gli uomini detenuti negli istituti di pena”.
Durante il dibattimento parlamentare la vice presidente del partito socialdemocratico, Muğla Ömer Süha Aldan, ha fatto un esempio: “Se un 50enne o 60enne si unisce con una 11enne dopo averla violentata, e poi la sposa anche solo un anno più tardi, lei soffrirà le conseguenze di questo matrimonio per tutta la vita, vivrà come in una prigione”. Secondo Aldan la riforma voluta dal partito di governo non fa che “incoraggiare i matrimoni forzati e legalizzare gli stupratori”. E l’approvazione dell’articolo 49, a suo dire, “danneggia la reputazione del parlamento turco”.
Turchia, primo sì alla depenalizzazione dell’abuso sulle bambine
Il partner dell'Unione europea. Passa per un voto in seduta notturna l'articolo della riforma penale voluta dall'Akp di Erdogan
di R. G.
Il primo passaggio della contestata riforma del codice penale turco che depenalizza lo stupro sulle minori di 16 anni se dopo c’è un matrimonio riparatore è stato di notte.
L’articolo 49 della nuova legge proposta dal partito Akp (in turco è la sigla di Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) del presidente Erdogan è passato per un voto al termine della seduta notturna tra giovedì e venerdì.
Il testo integrale della legge andrà in discussione martedì prossimo, 22 novembre.
Contraria l’opposizione: i socialdemocratici del Chp e i nazionalisti del Mhp ( i curdi dell’Hdp non vanno ai lavori d’aula per protesta contro l’arresto dei loro deputati).
L’articolo 49 prevede che l’abuso sessuale su minore, nel caso avvenga “senza forza o la minaccia” e venga poi “sanato” con un matrimonio precoce, non venga sanzionato da una sentenza di condanna. Già i casi di questo tipo in attesa di essere giudicati e commessi prima del 16 novembre godrebbero di una sospensione.
Attualmente il matrimonio al di sotto dell’età di 17 anni è vietato dalla legge turca e i procedimenti si aprono d’ufficio, anche senza denuncia della vittima o del suo tutore ma ad esempio dopo un referto di pronto soccorso, per i reati sessuali contro i minori di 15 anni. Il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha detto che “a causa” dell’attuale normativa che sanziona i matrimoni precoci al momento “sono circa 3 mila gli uomini detenuti negli istituti di pena”.
Durante il dibattimento parlamentare la vice presidente del partito socialdemocratico, Muğla Ömer Süha Aldan, ha fatto un esempio: “Se un 50enne o 60enne si unisce con una 11enne dopo averla violentata, e poi la sposa anche solo un anno più tardi, lei soffrirà le conseguenze di questo matrimonio per tutta la vita, vivrà come in una prigione”. Secondo Aldan la riforma voluta dal partito di governo non fa che “incoraggiare i matrimoni forzati e legalizzare gli stupratori”. E l’approvazione dell’articolo 49, a suo dire, “danneggia la reputazione del parlamento turco”.
La Stampa 19.11.16
Sarkò a Nizza per insidiare Juppé
Nasce l’asse con il Front National
L’ex presidente alla Promenade des Anglais: “È qui la vera Francia”
Il partito di Le Pen: “Se il candidato è lui, Marine va all’Eliseo”
di Paolo Crecchi
Comunque vada a finire ha ragione Nicolas Sarkozy, «Ici, c’est la France!», la Francia è qui, la Francia è questa. Un Paese insanguinato dal terrorismo e tramortito dalla crisi economica, alla disperata ricerca di un leader dopo il fallimento di Hollande. Domani gli elettori dovranno scegliere tra sette candidati e domenica 27 decidere al ballottaggio chi sarà l’alfiere del centrodestra alle presidenziali 2017. Sarkozy ha lanciato il suo guanto di sfida a Juppé, l’unico candidato che i sondaggi danno in vantaggio rispetto all’ex inquilino dell’Eliseo, mercoledì scorso.
«Ici, c’est la France!», ha ruggito a pochi metri dalla promenade des Anglais dove è stato eretto un memoriale in onore delle vittime del 14 luglio. La Francia è questa: un muraglione di pelouche, fiori, bandiere, preghiere, dediche e messaggi di pace, ma anche schiere di passanti in raccoglimento che ai sondaggisti confidano di essere rimasti soddisfatti dall’elezione di Trump. E di voler votare a destra.
Quale, però? Quella dal volto umano di Alain Juppé, il sindaco di Bordeaux restituito candeggiato alla vita politica dopo l’esilio in Canada, oppure la destra ringhiosa del già presidente della Repubblica Sarkozy che ha trasformato l’Ump nei Républicains per inseguire il Front National sul terreno dell’intransigenza?
Promenade des Anglais. Davanti all’altare c’è il botanico in pensione Maurice Palmesi, 78 anni, vedovo della farmacista Annette Dessay, un figlio ingegnere in America e una cara amica rimasta uccisa «la notte della Repubblica». Dice «notte» con intenzione e indica un galletto di carta che inalbera il motto nazionale, liberté-egalité-fraternité: «L’Islam è d’accordo solo sulla fratellanza. La libertà e l’uguaglianza non sa e non vuole sapere cosa siano. Io resto una persona democratica e tollerante, ma voglio che siano rimessi in chiaro i valori della nostra convivenza civile».
Rue de l’hotel des Postes, uffici del Front National. Il segretario dipartimentale Lionel Tivoli ribadisce che il suo partito non partecipa alle primarie della destra, «ci mancherebbe», ma ammette che «gli iscritti continuano a chiederci cosa devono fare. Li capisco, e qualcuno sicuramente si intrufolerà. Per noi sarebbe meglio se vincesse Sarkozy, perché al ballottaggio per l’Eliseo Marine stavolta ci va sicuro. E voglio vedere la gauche, gli intellò, i bobo, le élites terzomondiste compattarsi su Sarko».
Sarebbe una scelta tra due Trump. Mai come stavolta Nizza è la Francia, con uno zoccolo frontista radicato da sempre e accreditato, dall’ultimo sondaggio pubblicato ieri da Le Monde, di un incremento rispetto alle europee del 2014 e alle regionali del 2015. In particolare: se Sarkozy fosse il candidato della destra, Marine Le Pen raccoglierebbe il 29% delle intenzioni di voto, al primo turno, 7 punti in più rispetto all’ex capo di Stato. Con Juppé partirebbe da uno svantaggio calcolabile tra i 4 e i 7 punti.
Quartiere della Madeleine. Il centro culturale islamico è dietro un garage, al termine di una lunga teoria di venditori di kebab. Il rettore Moustafa Klabi dice che è stanco di questo «clima da caccia alle streghe», ma almeno qui si respira aria di Maghreb e nessuno infastidisce i musulmani. Un mese fa, davanti alla nuova moschea della piana del Var osteggiata per quindici anni dallo storico ex sindaco Christian Estrosi, hanno depositato l’ennesima testa di cinghiale. «Non si può andare avanti così. Cos’abbiamo fatto, noi»?
Estrosi, che ora è presidente della comunità metropolitana e poche settimane fa si è risposato in gran segreto, appoggia ovviamente il suo mentore Sarko, sul quale secondo i maligni sarebbe in grado di convogliare persino il voto di parecchi immigrati: «Quelli ai quali ha procurato lavoro», sospira il consigliere regionale del Front National, Benoit Loeuillet, «del resto lui è sempre stato un doppiogiochista. Lo sapete che la Costa Azzurra fornisce il 10% dei 1400 islamici radicali del Paese? Chiedete a loro cos’hanno fatto». Il consigliere è uno dei padri fondatori degli ultras del Nizza, primo in classifica nella Ligue 1 e domani sera avversario del club più titolato del Paese, il Saint-Étienne. «Non è un segnale anche questo?», sorride gentile. La France, c’est ici.
Sarkò a Nizza per insidiare Juppé
Nasce l’asse con il Front National
L’ex presidente alla Promenade des Anglais: “È qui la vera Francia”
Il partito di Le Pen: “Se il candidato è lui, Marine va all’Eliseo”
di Paolo Crecchi
Comunque vada a finire ha ragione Nicolas Sarkozy, «Ici, c’est la France!», la Francia è qui, la Francia è questa. Un Paese insanguinato dal terrorismo e tramortito dalla crisi economica, alla disperata ricerca di un leader dopo il fallimento di Hollande. Domani gli elettori dovranno scegliere tra sette candidati e domenica 27 decidere al ballottaggio chi sarà l’alfiere del centrodestra alle presidenziali 2017. Sarkozy ha lanciato il suo guanto di sfida a Juppé, l’unico candidato che i sondaggi danno in vantaggio rispetto all’ex inquilino dell’Eliseo, mercoledì scorso.
«Ici, c’est la France!», ha ruggito a pochi metri dalla promenade des Anglais dove è stato eretto un memoriale in onore delle vittime del 14 luglio. La Francia è questa: un muraglione di pelouche, fiori, bandiere, preghiere, dediche e messaggi di pace, ma anche schiere di passanti in raccoglimento che ai sondaggisti confidano di essere rimasti soddisfatti dall’elezione di Trump. E di voler votare a destra.
Quale, però? Quella dal volto umano di Alain Juppé, il sindaco di Bordeaux restituito candeggiato alla vita politica dopo l’esilio in Canada, oppure la destra ringhiosa del già presidente della Repubblica Sarkozy che ha trasformato l’Ump nei Républicains per inseguire il Front National sul terreno dell’intransigenza?
Promenade des Anglais. Davanti all’altare c’è il botanico in pensione Maurice Palmesi, 78 anni, vedovo della farmacista Annette Dessay, un figlio ingegnere in America e una cara amica rimasta uccisa «la notte della Repubblica». Dice «notte» con intenzione e indica un galletto di carta che inalbera il motto nazionale, liberté-egalité-fraternité: «L’Islam è d’accordo solo sulla fratellanza. La libertà e l’uguaglianza non sa e non vuole sapere cosa siano. Io resto una persona democratica e tollerante, ma voglio che siano rimessi in chiaro i valori della nostra convivenza civile».
Rue de l’hotel des Postes, uffici del Front National. Il segretario dipartimentale Lionel Tivoli ribadisce che il suo partito non partecipa alle primarie della destra, «ci mancherebbe», ma ammette che «gli iscritti continuano a chiederci cosa devono fare. Li capisco, e qualcuno sicuramente si intrufolerà. Per noi sarebbe meglio se vincesse Sarkozy, perché al ballottaggio per l’Eliseo Marine stavolta ci va sicuro. E voglio vedere la gauche, gli intellò, i bobo, le élites terzomondiste compattarsi su Sarko».
Sarebbe una scelta tra due Trump. Mai come stavolta Nizza è la Francia, con uno zoccolo frontista radicato da sempre e accreditato, dall’ultimo sondaggio pubblicato ieri da Le Monde, di un incremento rispetto alle europee del 2014 e alle regionali del 2015. In particolare: se Sarkozy fosse il candidato della destra, Marine Le Pen raccoglierebbe il 29% delle intenzioni di voto, al primo turno, 7 punti in più rispetto all’ex capo di Stato. Con Juppé partirebbe da uno svantaggio calcolabile tra i 4 e i 7 punti.
Quartiere della Madeleine. Il centro culturale islamico è dietro un garage, al termine di una lunga teoria di venditori di kebab. Il rettore Moustafa Klabi dice che è stanco di questo «clima da caccia alle streghe», ma almeno qui si respira aria di Maghreb e nessuno infastidisce i musulmani. Un mese fa, davanti alla nuova moschea della piana del Var osteggiata per quindici anni dallo storico ex sindaco Christian Estrosi, hanno depositato l’ennesima testa di cinghiale. «Non si può andare avanti così. Cos’abbiamo fatto, noi»?
Estrosi, che ora è presidente della comunità metropolitana e poche settimane fa si è risposato in gran segreto, appoggia ovviamente il suo mentore Sarko, sul quale secondo i maligni sarebbe in grado di convogliare persino il voto di parecchi immigrati: «Quelli ai quali ha procurato lavoro», sospira il consigliere regionale del Front National, Benoit Loeuillet, «del resto lui è sempre stato un doppiogiochista. Lo sapete che la Costa Azzurra fornisce il 10% dei 1400 islamici radicali del Paese? Chiedete a loro cos’hanno fatto». Il consigliere è uno dei padri fondatori degli ultras del Nizza, primo in classifica nella Ligue 1 e domani sera avversario del club più titolato del Paese, il Saint-Étienne. «Non è un segnale anche questo?», sorride gentile. La France, c’est ici.
Repubblica 19.11.16
Viaggio a Chihuahua, 400 chilometri a Sud del Texas dove la Ford ha aperto una nuova fabbrica con mille operai. “Così il presidente eletto si sparerà sui piedi...”
Il tycoon punta ad azzerare il trattato Nafta: tassa del 35% per le aziende statunitensi che hanno delocalizzato. E qui sono molte. Importanti. E non soltanto automobilistiche
In Messico, tra i colossi Usa che si ribellano a Trump “Se ci punisce con i dazi colpirà anche l’America”
di Omero Ciai
Manca la manodopera e si vedono diversi cartelli con scritto “Vacantes”, c’è lavoro. Eppure in due giorni si guadagna appena quanto un’ora oltre confine
80 %
La percentuale delle esportazioni che dal Messico finisce nel mercato americano
40
Dollari: lo stipendio quotidiano dell’operaio messicano. In Texas si guadagnano in un’ora
L’ultima gaffe di The Donald “Bill Ford mi ha assicurato che non trasferirà in Messico l’impianto per le Lincoln dal Kentucky”. Ma non era affatto un progetto aziendale
CHIHUAHUA (MESSICO) IL NUOVO stabilimento di produzione della Ford, la multinazionale delle auto Usa, domina una collinetta nella vallata di Chihuahua, 400 chilometri a sud di El Paso, la prima città del Texas oltre la frontiera. Un miliardo e mezzo di dollari il costo, più di mille operai messicani e un milione di motori prodotti all’anno. Martedì scorso, all’inaugurazione del complesso, si parlava solo di Trump e della minaccia del nuovo presidente americano di colpire le aziende Usa che hanno delocalizzato in Messico con una tassa del 35%, cancellando il Trattato di libero scambio, il Nafta, firmato nel 1994. «Se Trump vuole spararsi con una pistola sui piedi - dice un manager locale - faccia pure. Chi pagherà il prezzo più alto di una azione contro il Nafta saranno le aziende americane che perderanno competitività sui mercati, e il consumatore americano che pagherà molto di più per avere una macchina nuova». «La promessa protezionistica di Trump sarebbe soltanto un boomerang per la nostra economia», ha rilanciato da Los Angeles il numero uno della Ford, Mark Fields, spiegando che la strategia globale dell’azienda prevede di continuare a produrre in America i camion e i Suv di grossa cilindrata, spostando in Messico le auto più piccole come la Fiesta e la Focus. Insieme alla fabbrica di Chihuahua infatti la Ford sta per inaugurarne altre due, sempre in Messico: a San Luis de Potosi e nello Stato di Guanajuato, a nord di Città del Messico. Progetti da 4 miliardi di dollari di investimenti complessivi decisi molto prima che il miliardario “no global” arrivasse sulla scena della politica.
Ma Ford a parte, lungo tutta la frontiera fra il Messico e gli Stati Uniti, dalla Bassa California a Monterrey, le aziende americane hanno delocalizzato approfittando dei bassi costi della mano d’opera, degli incentivi del governo messicano, e dei dazi azzerati, grazie al Trattato, su import e export. Sono le maledette “maquiladoras”, le fabbriche di assemblaggio, dove per meno di 4 dollari al giorno migliaia di uomini e donne cuciono i jeans Levi’s, impacchettano le cartucce d’inchiostro per le stampanti Lexmark, lavorano nella plastica, costruiscono parti dei Boeing o gli Air bag delle auto superlusso. L’80 percento di tutte le esportazioni messicane va negli Stati Uniti, un volume d’affari nell’interscambio che cresce da vent’anni e che oggi oscilla fra i 400 e i 500 miliardi di dollari. L’America è al primo posto negli investimenti esteri in Messico ma, sempre il Messico, è anche la prima destinazione dell’export di Stati americani come la California, l’Arizona e il Texas. E da questa parte della frontiera gli economisti giurano che se Trump cancella il Nafta mette a rischio almeno sei milioni di posti di lavoro, sia qui che là. Senza dimenticare che l’esplosione di una guerra commerciale avrebbe conseguenze letali, non solo per il Messico. Davanti all’abbigliamento, ai semilavorati metallici e all’industria della plastica, a farla da padrone c’è l’industria dell’auto. Naturalmente le Big Three (General Motors, Chrysler e Ford) ma anche giapponesi e tedeschi che dal Messico invadono il mercato americano a prezzi concorrenziali. E sono tutti sbigottiti dall’elezione di Donald Trump. Li ha presi in contropiede. La Audi tedesca ha appena aperto, lo scorso primo ottobre, una nuova fabbrica nello Stato di Puebla, Messico centrale, che produrrà 150mila Q5 da esportare negli Usa. E la giapponese Toyota sta costruendo un’altra fabbrica a Guanajuato per 220 mila auto modello Corolla all’anno. Mentre a Toluca producono la Fiat 500 e la Dodge.
Per capire quanto le due economie siano ormai completamente integrate e dipendenti, e quanto le intenzioni di Trump possano essere micidiali, basta osservare il grafico, pubblicato dal Wall Street Journal, sui pezzi che compongono il sedile di un’auto assemblati a Milwaukee. L’interno di un poggiatesta in tela è prodotto in Carolina del Sud, la copertura in cuoio a Saltillo in Messico. Il telaio in Tennessee, le parti di plastica in Michigan, la base di ferro di nuovo in Messico. Nello Stato di Chihuahua, da Ciudad Juarez alle pendici della Sierra di Sinaloa, quella del Chapo, c’è il pieno impiego. Anzi manca addirittura manodopera. Ovunque si vedono cartelli con scritto “Vacantes” (C’è lavoro). Negli ultimi mesi c’è stato anche un fenomeno di reshoring. Aziende che avevano traslocato in Cina sono tornate qui, senza nemmeno immaginare il ciclone Trump. Tutte le fabbriche dei parchi industriali cercano personale e se lo combattono a colpi di megafono con i benefit. A volte si può assistere a scene tragicamente comiche con gruppi di aspiranti operai che su un piazzale passano, da una “maquila” a un’altra, a seconda dei benefit che grida l’uomo del microfono sulla porta. La paga resta bassissima, 4 dollari. Quello che offrono in più sono buoni pasto, qualcuno magari l’asilo nido per i figli piccoli o i trasporti gratis per chi abita, come la maggioranza degli ultimi arrivati, molto lontano dalle fabbriche. La vita all’interno delle maquiladoras è durissima. Zero sindacati per cominciare. Turni senza soste e contratti a tempo determinato. Di solito di tre mesi in tre mesi. Le “maquila” in Messico sono come degli Stati autonomi dove la legge, e soprattutto giornalisti ed eventuali curiosi, restano fuori. La politica delle grandi multinazionali è semplice: qui spostano i lavori più facili e umili della catena produttiva. L’offerta di lavoro per le auto è nella verniciatura, nei circuiti elettrici e nell’assemblaggio dei motori. Mentre le funzioni nobili, come la progettazione, l’ingegneria o la ricerca, sono privilegi della casa madre, in Usa, in Giappone o in Germania.
Il paradosso di un Paese pieno di emigranti nonostante il pieno impiego - a Chihuahua la disoccupazione è sotto al 4 percento - ce lo spiega in due parole Sergio Varuette, un manager che lavora al Cimav, un istituto governativo di consulenze scientifiche per le aziende locali. «Un operaio in Messico deve lavorare due giorni per guadagnare quello che prenderebbe in un’ora dall’altra parte della frontiera, negli Usa. Finché rimarrà questa differenza abissale nei salari, l’attrazione dell’altro lato sarà indomabile ». Un esempio è Sixto, un signore messicano non ancora quarantenne che aveva la residenza in Texas ma è stato deportato qualche anno fa perché guidava ubriaco. Negli Stati Uniti ha una moglie e un figlio. Ora vive a Chihuahua con i dollari - le famose “rimesse” che Trump vuole tassare - che gli spedisce tutti i mesi sua moglie ma sogna sempre di tornare di là. E paga gli avvocati che combattono per lui la causa della riunificazione familiare. Le minacce di Trump terrorizzano i messicani. «Se mette in pratica le sue promesse scatenerà una crisi senza precedenti», dicono tutti. Ma forse anche il tycoon riflette. Ieri notte s’è rivenduto con un tweet una balla evidente per dimostrare ai suoi elettori che mantiene le promesse. Ha detto che Bill Ford, il presidente della multinazionale omonima, gli ha assicurato che non trasferirà in Messico la fabbrica delle “Lincoln” dal Kentucky. Una soluzione che non era affatto tra i progetti dell’azienda.
Viaggio a Chihuahua, 400 chilometri a Sud del Texas dove la Ford ha aperto una nuova fabbrica con mille operai. “Così il presidente eletto si sparerà sui piedi...”
Il tycoon punta ad azzerare il trattato Nafta: tassa del 35% per le aziende statunitensi che hanno delocalizzato. E qui sono molte. Importanti. E non soltanto automobilistiche
In Messico, tra i colossi Usa che si ribellano a Trump “Se ci punisce con i dazi colpirà anche l’America”
di Omero Ciai
Manca la manodopera e si vedono diversi cartelli con scritto “Vacantes”, c’è lavoro. Eppure in due giorni si guadagna appena quanto un’ora oltre confine
80 %
La percentuale delle esportazioni che dal Messico finisce nel mercato americano
40
Dollari: lo stipendio quotidiano dell’operaio messicano. In Texas si guadagnano in un’ora
L’ultima gaffe di The Donald “Bill Ford mi ha assicurato che non trasferirà in Messico l’impianto per le Lincoln dal Kentucky”. Ma non era affatto un progetto aziendale
CHIHUAHUA (MESSICO) IL NUOVO stabilimento di produzione della Ford, la multinazionale delle auto Usa, domina una collinetta nella vallata di Chihuahua, 400 chilometri a sud di El Paso, la prima città del Texas oltre la frontiera. Un miliardo e mezzo di dollari il costo, più di mille operai messicani e un milione di motori prodotti all’anno. Martedì scorso, all’inaugurazione del complesso, si parlava solo di Trump e della minaccia del nuovo presidente americano di colpire le aziende Usa che hanno delocalizzato in Messico con una tassa del 35%, cancellando il Trattato di libero scambio, il Nafta, firmato nel 1994. «Se Trump vuole spararsi con una pistola sui piedi - dice un manager locale - faccia pure. Chi pagherà il prezzo più alto di una azione contro il Nafta saranno le aziende americane che perderanno competitività sui mercati, e il consumatore americano che pagherà molto di più per avere una macchina nuova». «La promessa protezionistica di Trump sarebbe soltanto un boomerang per la nostra economia», ha rilanciato da Los Angeles il numero uno della Ford, Mark Fields, spiegando che la strategia globale dell’azienda prevede di continuare a produrre in America i camion e i Suv di grossa cilindrata, spostando in Messico le auto più piccole come la Fiesta e la Focus. Insieme alla fabbrica di Chihuahua infatti la Ford sta per inaugurarne altre due, sempre in Messico: a San Luis de Potosi e nello Stato di Guanajuato, a nord di Città del Messico. Progetti da 4 miliardi di dollari di investimenti complessivi decisi molto prima che il miliardario “no global” arrivasse sulla scena della politica.
Ma Ford a parte, lungo tutta la frontiera fra il Messico e gli Stati Uniti, dalla Bassa California a Monterrey, le aziende americane hanno delocalizzato approfittando dei bassi costi della mano d’opera, degli incentivi del governo messicano, e dei dazi azzerati, grazie al Trattato, su import e export. Sono le maledette “maquiladoras”, le fabbriche di assemblaggio, dove per meno di 4 dollari al giorno migliaia di uomini e donne cuciono i jeans Levi’s, impacchettano le cartucce d’inchiostro per le stampanti Lexmark, lavorano nella plastica, costruiscono parti dei Boeing o gli Air bag delle auto superlusso. L’80 percento di tutte le esportazioni messicane va negli Stati Uniti, un volume d’affari nell’interscambio che cresce da vent’anni e che oggi oscilla fra i 400 e i 500 miliardi di dollari. L’America è al primo posto negli investimenti esteri in Messico ma, sempre il Messico, è anche la prima destinazione dell’export di Stati americani come la California, l’Arizona e il Texas. E da questa parte della frontiera gli economisti giurano che se Trump cancella il Nafta mette a rischio almeno sei milioni di posti di lavoro, sia qui che là. Senza dimenticare che l’esplosione di una guerra commerciale avrebbe conseguenze letali, non solo per il Messico. Davanti all’abbigliamento, ai semilavorati metallici e all’industria della plastica, a farla da padrone c’è l’industria dell’auto. Naturalmente le Big Three (General Motors, Chrysler e Ford) ma anche giapponesi e tedeschi che dal Messico invadono il mercato americano a prezzi concorrenziali. E sono tutti sbigottiti dall’elezione di Donald Trump. Li ha presi in contropiede. La Audi tedesca ha appena aperto, lo scorso primo ottobre, una nuova fabbrica nello Stato di Puebla, Messico centrale, che produrrà 150mila Q5 da esportare negli Usa. E la giapponese Toyota sta costruendo un’altra fabbrica a Guanajuato per 220 mila auto modello Corolla all’anno. Mentre a Toluca producono la Fiat 500 e la Dodge.
Per capire quanto le due economie siano ormai completamente integrate e dipendenti, e quanto le intenzioni di Trump possano essere micidiali, basta osservare il grafico, pubblicato dal Wall Street Journal, sui pezzi che compongono il sedile di un’auto assemblati a Milwaukee. L’interno di un poggiatesta in tela è prodotto in Carolina del Sud, la copertura in cuoio a Saltillo in Messico. Il telaio in Tennessee, le parti di plastica in Michigan, la base di ferro di nuovo in Messico. Nello Stato di Chihuahua, da Ciudad Juarez alle pendici della Sierra di Sinaloa, quella del Chapo, c’è il pieno impiego. Anzi manca addirittura manodopera. Ovunque si vedono cartelli con scritto “Vacantes” (C’è lavoro). Negli ultimi mesi c’è stato anche un fenomeno di reshoring. Aziende che avevano traslocato in Cina sono tornate qui, senza nemmeno immaginare il ciclone Trump. Tutte le fabbriche dei parchi industriali cercano personale e se lo combattono a colpi di megafono con i benefit. A volte si può assistere a scene tragicamente comiche con gruppi di aspiranti operai che su un piazzale passano, da una “maquila” a un’altra, a seconda dei benefit che grida l’uomo del microfono sulla porta. La paga resta bassissima, 4 dollari. Quello che offrono in più sono buoni pasto, qualcuno magari l’asilo nido per i figli piccoli o i trasporti gratis per chi abita, come la maggioranza degli ultimi arrivati, molto lontano dalle fabbriche. La vita all’interno delle maquiladoras è durissima. Zero sindacati per cominciare. Turni senza soste e contratti a tempo determinato. Di solito di tre mesi in tre mesi. Le “maquila” in Messico sono come degli Stati autonomi dove la legge, e soprattutto giornalisti ed eventuali curiosi, restano fuori. La politica delle grandi multinazionali è semplice: qui spostano i lavori più facili e umili della catena produttiva. L’offerta di lavoro per le auto è nella verniciatura, nei circuiti elettrici e nell’assemblaggio dei motori. Mentre le funzioni nobili, come la progettazione, l’ingegneria o la ricerca, sono privilegi della casa madre, in Usa, in Giappone o in Germania.
Il paradosso di un Paese pieno di emigranti nonostante il pieno impiego - a Chihuahua la disoccupazione è sotto al 4 percento - ce lo spiega in due parole Sergio Varuette, un manager che lavora al Cimav, un istituto governativo di consulenze scientifiche per le aziende locali. «Un operaio in Messico deve lavorare due giorni per guadagnare quello che prenderebbe in un’ora dall’altra parte della frontiera, negli Usa. Finché rimarrà questa differenza abissale nei salari, l’attrazione dell’altro lato sarà indomabile ». Un esempio è Sixto, un signore messicano non ancora quarantenne che aveva la residenza in Texas ma è stato deportato qualche anno fa perché guidava ubriaco. Negli Stati Uniti ha una moglie e un figlio. Ora vive a Chihuahua con i dollari - le famose “rimesse” che Trump vuole tassare - che gli spedisce tutti i mesi sua moglie ma sogna sempre di tornare di là. E paga gli avvocati che combattono per lui la causa della riunificazione familiare. Le minacce di Trump terrorizzano i messicani. «Se mette in pratica le sue promesse scatenerà una crisi senza precedenti», dicono tutti. Ma forse anche il tycoon riflette. Ieri notte s’è rivenduto con un tweet una balla evidente per dimostrare ai suoi elettori che mantiene le promesse. Ha detto che Bill Ford, il presidente della multinazionale omonima, gli ha assicurato che non trasferirà in Messico la fabbrica delle “Lincoln” dal Kentucky. Una soluzione che non era affatto tra i progetti dell’azienda.
Il Sole 19.11.16
Il filo comune tra i prescelti: marcate tendenze estremiste
di Mario Platero
Donald Trump non comincia bene: se voleva dare un segnale distensivo e di apertura all’opposizione, se voleva allargare il suo abbraccio all’America delle aree metropolitane e delle minoranze non avrebbe dovuto scegliere personaggi come Jeff Sessions alla Giustizia, il Generale in pensione Michael Flynn alla guida del Consiglio per la Sicurezza Nazionale e il deputato del movimento Tea Party Mike Pompeo alla guida della Cia. Ciascuno è caratterizzato da marcate tendenze estremiste: Sessions fu un simpatizzante del Ku Klux Klan, Flynn è un antislamico con la tendenza a “inventare”, Mike Pompeo è contro l’Iran, un radicale anche se ha l’esperienza di aver guidato la Commissione Intelligence alla Camera. Che sia il “contentino necessario” per chi lo ha appoggiato? Possibile. Il beneficio del dubbio per ora deve restare. Per due ragioni. La prima: Trump ama l’idea del “bad cop good cop”, manda avanti un falco pronto ad assumere posizioni anche durissime per poi intervenire direttamente per risolvere un negoziato difficile. Ma per la Giustizia? Non deve negoziare con potenze straniere ma dimostrare equità nel perseguire ad esempio poliziotti dal grilletto facile contro afroamericani. Lo farà? Secondo punto: Trump deve soddisfare la sua base politica. E gli uomini che ha scelto ieri erano suoi sostenitori della prima ora e dunque meritavano un “premio”. Trump inoltre deve ancora scegliere i responsabili di dicasteri molto pesanti come quello degli Esteri o del Tesoro. Sarà più’ “morbido”? Già oggi incontrerà Mitt Romney, l’ex candidato repubblicano contro Obama, un moderato centrista che potrebbe emergere come il favorito per il dipartimento di Stato. Se al Tesoro riuscisse ad avere l’Ok di Jamie Dimon, ceo di JP Morgan Chase, pragmatico e decisionista, stimato a Wall Street, potrà dimostrare di aver acquisito due importanti “professionisti”. E Rudy Giuliani? È considerato una “testa calda” inadatta per gli Esteri. Meglio alla “sicurezza interna”? Vedremo. Restano aperti anche Difesa, Commercio e Ambiente. Per capire meglio dovremo attendere.Intanto Trump dimostra di muoversi rapidamente. Ma farà anche una nomina democratica come aveva fatto Obama al suo primo mandato scegliendo il repubblicano Gates alla Difesa? Conoscendo Trump sembra difficile, ma se decidesse di farlo non c’è dubbio su un punto: terrà la “sorpresa” per ultima.
Il filo comune tra i prescelti: marcate tendenze estremiste
di Mario Platero
Donald Trump non comincia bene: se voleva dare un segnale distensivo e di apertura all’opposizione, se voleva allargare il suo abbraccio all’America delle aree metropolitane e delle minoranze non avrebbe dovuto scegliere personaggi come Jeff Sessions alla Giustizia, il Generale in pensione Michael Flynn alla guida del Consiglio per la Sicurezza Nazionale e il deputato del movimento Tea Party Mike Pompeo alla guida della Cia. Ciascuno è caratterizzato da marcate tendenze estremiste: Sessions fu un simpatizzante del Ku Klux Klan, Flynn è un antislamico con la tendenza a “inventare”, Mike Pompeo è contro l’Iran, un radicale anche se ha l’esperienza di aver guidato la Commissione Intelligence alla Camera. Che sia il “contentino necessario” per chi lo ha appoggiato? Possibile. Il beneficio del dubbio per ora deve restare. Per due ragioni. La prima: Trump ama l’idea del “bad cop good cop”, manda avanti un falco pronto ad assumere posizioni anche durissime per poi intervenire direttamente per risolvere un negoziato difficile. Ma per la Giustizia? Non deve negoziare con potenze straniere ma dimostrare equità nel perseguire ad esempio poliziotti dal grilletto facile contro afroamericani. Lo farà? Secondo punto: Trump deve soddisfare la sua base politica. E gli uomini che ha scelto ieri erano suoi sostenitori della prima ora e dunque meritavano un “premio”. Trump inoltre deve ancora scegliere i responsabili di dicasteri molto pesanti come quello degli Esteri o del Tesoro. Sarà più’ “morbido”? Già oggi incontrerà Mitt Romney, l’ex candidato repubblicano contro Obama, un moderato centrista che potrebbe emergere come il favorito per il dipartimento di Stato. Se al Tesoro riuscisse ad avere l’Ok di Jamie Dimon, ceo di JP Morgan Chase, pragmatico e decisionista, stimato a Wall Street, potrà dimostrare di aver acquisito due importanti “professionisti”. E Rudy Giuliani? È considerato una “testa calda” inadatta per gli Esteri. Meglio alla “sicurezza interna”? Vedremo. Restano aperti anche Difesa, Commercio e Ambiente. Per capire meglio dovremo attendere.Intanto Trump dimostra di muoversi rapidamente. Ma farà anche una nomina democratica come aveva fatto Obama al suo primo mandato scegliendo il repubblicano Gates alla Difesa? Conoscendo Trump sembra difficile, ma se decidesse di farlo non c’è dubbio su un punto: terrà la “sorpresa” per ultima.
il manifesto 19.11.16
Giustizia, sicurezza e Cia. Trump cala un tris da paura
American Psycho. Il senatore razzista Jeff Sessions con i falchi Flynn e Pompeo nel team presidenziale. E poi via con il «Victory Tour». Intanto il prossimo inquilino della Casa bianca patteggia un risarcimento da 25 milioni di dollari per non andare a processo per frode
di Marina Catucci
NEW YORK La squadra di Trump prende forma concreta al di lá delle voci di corridoio. I nuovi tre nomi ufficiali sono quelli del generale Michael T. Flynn, alla Sicurezza nazionale, del membro del congresso Mike Pompeo come capo della Cia e di Jeff Sessions come ministro della Giustizia.
Flynn inizia subito con un problema da risolvere in quanto nessuno può assumere quell’incarico se non è fuori dall’esercito da almeno sette anni, a meno di non ottenere un permesso speciale che, presumibilmente avrá. Trump e il nuovo advisor per la sicurezza nazionale hanno molto in comune: entrambi si percepiscono come degli outsider che hanno fatto strada rompendo le convenzioni sociali, entrambi postano spesso su Twitter i propri successi e hanno entrambi superato spesso il limite dell’islamofobia.
UN ALTRO PUNTO IN COMUNE è quello di avere entrambi un rapporto disinvolto con la veritá e i fatti: il generale Flynn, ad esempio, ha affermato più volte che la Sharia, o legge islamica, si sta diffondendo a macchia d’olio negli Stati Uniti sostituendosi alla legge del codice anglosassone, ed evidentemente così non è; il numero di affermazioni personali presentate come fatti è così imponente che quando lavorava alla Defense Intelligence Agency i suoi collaboratori parlavano dei «fatti di Flynn» per distinguerli dai fatti reali.
In qualità di consulente, il generale Flynn ha già dimostrato di avere una potente influenza su Trump, ad esempio convincendo il presidente eletto che gli Stati Uniti si trovano di fatto in una «guerra mondiale» con i militanti islamici. Da qui la necessità di lavorare con alleati disposti a sostenerlo nella lotta, principalmente il presidente russo, Putin.
Mike Pompeo
NON È PIÙ RASSICURANTE il nuovo capo della Cia, che invece concentra i propri sforzi più nel distruggere l’Irandeal. Il 52 enne Mike Pompeo è stato eletto alla Camera nel 2010 come parte della prima ondata dei cosiddetti legislatori Tea Party, ha un background che affonda le radici nell’ Accademia Militare e nella Harvard Law School, è stato un ufficiale di cavalleria dell’esercito americano prima di fondare una società aerospaziale, è stato poi anche il presidente di una società di attrezzature per l’estrazione del petrolio. Attualmente fa parte della Camera permanente del Select Committee on Intelligence ed è uno stretto alleato di Pence. «Ha servito il nostro paese con onore e ha trascorso la sua vita combattendo per la sicurezza dei nostri cittadini», ha detto Trump annunciando la nomina di Pompeo in un comunicato.
Tra i due, però, non è stato amore a prima vista; Pompeo durante le primarie aveva sostenuto il senatore della Florida Marco Rubio e solo a maggio un portavoce di Pompeo aveva dato un tiepido appoggio a Trump dicendo che il deputato avrebbe «sostenuto il candidato del partito repubblicano perché Hillary Clinton non può diventare il presidente degli Stati Uniti».
Durante gli anni passati Pompeo è stato sempre molto critico riguardo l’accordo sul nucleare del Presidente Obama con l’Iran: «Non vedo l’ora di rovesciare questo accordo disastroso con il più grande sponsor di stato al mondo del terrorismo», ha twittato Pompeo giovedì, poco prima che la sua nomina a direttore della Cia diventasse pubblica.
TERZA E ULTIMA NOMINA è quella di Jeff Sessions come ministro della giustizia, il cui tratto distintivo è una profonda avversione verso immigrati ed afro-americani. Senatore dell’Alabama, Sessions si è sempre schierato contro le nozze per persone dello stesso sesso, in passato ha più volte definito la National Association for the Advancement of Colored People (Naacp), cosí come la American Civil Liberties Union (Aclu), organizzazioni anti americane, e negli anni ‘80 non è diventato giudice federale in quanto giudicato troppo razzista. Le sue posizioni su ispanici e immigrati in genere includono il carcere preventivo in quanto, per lui, sono gruppi naturalmente portati a delinquere.
QUESTE NOMINE arrivano in concomitanza con l’annuncio che il nuovo presidente Usa ha patteggiato un risarcimento da 25 milioni di dollari per l’affaire della Trump university, nel quale era indagato per frode e che minacciava di ostacolare la sua ascesa alla Casa bianca.
09PRIMA TRUmp REUTERS 3
Sempre ieri Trump ha annunciato un imminente Victory Tour che vuole intraprendere giá nelle prossime due settimane, e che lo porterá in tutti i 30 Stati che l’hanno votato. È tradizione che il presidente eletto faccia un viaggio per il Paese prima del proprio insediamento, Obama scelse di rifare il percorso di Lincoln dopo la sua prima elezione, ad esempio. L’idea di Trump di tornare dai «suoi» non è stata accolta bene da chi si augurerebbe una riunificazione tea gli americani.
LE MANIFESTAZIONI anti Trump intanto non smettono, e tornare a rivolgersi solo alla propria base sembra un segno di come in realtá Trump voglia un Paese diviso e un esercito di sostenitori infiammato e pronto a sostenete il «loro» presidente.
Giustizia, sicurezza e Cia. Trump cala un tris da paura
American Psycho. Il senatore razzista Jeff Sessions con i falchi Flynn e Pompeo nel team presidenziale. E poi via con il «Victory Tour». Intanto il prossimo inquilino della Casa bianca patteggia un risarcimento da 25 milioni di dollari per non andare a processo per frode
di Marina Catucci
NEW YORK La squadra di Trump prende forma concreta al di lá delle voci di corridoio. I nuovi tre nomi ufficiali sono quelli del generale Michael T. Flynn, alla Sicurezza nazionale, del membro del congresso Mike Pompeo come capo della Cia e di Jeff Sessions come ministro della Giustizia.
Flynn inizia subito con un problema da risolvere in quanto nessuno può assumere quell’incarico se non è fuori dall’esercito da almeno sette anni, a meno di non ottenere un permesso speciale che, presumibilmente avrá. Trump e il nuovo advisor per la sicurezza nazionale hanno molto in comune: entrambi si percepiscono come degli outsider che hanno fatto strada rompendo le convenzioni sociali, entrambi postano spesso su Twitter i propri successi e hanno entrambi superato spesso il limite dell’islamofobia.
UN ALTRO PUNTO IN COMUNE è quello di avere entrambi un rapporto disinvolto con la veritá e i fatti: il generale Flynn, ad esempio, ha affermato più volte che la Sharia, o legge islamica, si sta diffondendo a macchia d’olio negli Stati Uniti sostituendosi alla legge del codice anglosassone, ed evidentemente così non è; il numero di affermazioni personali presentate come fatti è così imponente che quando lavorava alla Defense Intelligence Agency i suoi collaboratori parlavano dei «fatti di Flynn» per distinguerli dai fatti reali.
In qualità di consulente, il generale Flynn ha già dimostrato di avere una potente influenza su Trump, ad esempio convincendo il presidente eletto che gli Stati Uniti si trovano di fatto in una «guerra mondiale» con i militanti islamici. Da qui la necessità di lavorare con alleati disposti a sostenerlo nella lotta, principalmente il presidente russo, Putin.
Mike Pompeo
NON È PIÙ RASSICURANTE il nuovo capo della Cia, che invece concentra i propri sforzi più nel distruggere l’Irandeal. Il 52 enne Mike Pompeo è stato eletto alla Camera nel 2010 come parte della prima ondata dei cosiddetti legislatori Tea Party, ha un background che affonda le radici nell’ Accademia Militare e nella Harvard Law School, è stato un ufficiale di cavalleria dell’esercito americano prima di fondare una società aerospaziale, è stato poi anche il presidente di una società di attrezzature per l’estrazione del petrolio. Attualmente fa parte della Camera permanente del Select Committee on Intelligence ed è uno stretto alleato di Pence. «Ha servito il nostro paese con onore e ha trascorso la sua vita combattendo per la sicurezza dei nostri cittadini», ha detto Trump annunciando la nomina di Pompeo in un comunicato.
Tra i due, però, non è stato amore a prima vista; Pompeo durante le primarie aveva sostenuto il senatore della Florida Marco Rubio e solo a maggio un portavoce di Pompeo aveva dato un tiepido appoggio a Trump dicendo che il deputato avrebbe «sostenuto il candidato del partito repubblicano perché Hillary Clinton non può diventare il presidente degli Stati Uniti».
Durante gli anni passati Pompeo è stato sempre molto critico riguardo l’accordo sul nucleare del Presidente Obama con l’Iran: «Non vedo l’ora di rovesciare questo accordo disastroso con il più grande sponsor di stato al mondo del terrorismo», ha twittato Pompeo giovedì, poco prima che la sua nomina a direttore della Cia diventasse pubblica.
TERZA E ULTIMA NOMINA è quella di Jeff Sessions come ministro della giustizia, il cui tratto distintivo è una profonda avversione verso immigrati ed afro-americani. Senatore dell’Alabama, Sessions si è sempre schierato contro le nozze per persone dello stesso sesso, in passato ha più volte definito la National Association for the Advancement of Colored People (Naacp), cosí come la American Civil Liberties Union (Aclu), organizzazioni anti americane, e negli anni ‘80 non è diventato giudice federale in quanto giudicato troppo razzista. Le sue posizioni su ispanici e immigrati in genere includono il carcere preventivo in quanto, per lui, sono gruppi naturalmente portati a delinquere.
QUESTE NOMINE arrivano in concomitanza con l’annuncio che il nuovo presidente Usa ha patteggiato un risarcimento da 25 milioni di dollari per l’affaire della Trump university, nel quale era indagato per frode e che minacciava di ostacolare la sua ascesa alla Casa bianca.
09PRIMA TRUmp REUTERS 3
Sempre ieri Trump ha annunciato un imminente Victory Tour che vuole intraprendere giá nelle prossime due settimane, e che lo porterá in tutti i 30 Stati che l’hanno votato. È tradizione che il presidente eletto faccia un viaggio per il Paese prima del proprio insediamento, Obama scelse di rifare il percorso di Lincoln dopo la sua prima elezione, ad esempio. L’idea di Trump di tornare dai «suoi» non è stata accolta bene da chi si augurerebbe una riunificazione tea gli americani.
LE MANIFESTAZIONI anti Trump intanto non smettono, e tornare a rivolgersi solo alla propria base sembra un segno di come in realtá Trump voglia un Paese diviso e un esercito di sostenitori infiammato e pronto a sostenete il «loro» presidente.
Repubblica 19.11.16
Oltre Reagan
di Vittorio Zucconi
NELLA House of Cards che Donald Trump sta costruendo per la sua Casa Bianca, calano gli assi e i jolly della Destra più fanatica. Anziché formare un’amministrazione di volti nuovi, come aveva fatto credere, fatta di personalità estranee alla “politica politicante”, il Team Trump sta raccogliendo i Revenant del reaganismo, i redivivi del bushismo neocon, i “boiachimolla” dell’anti clintonismo più militante, i duri del Tea Party e, se le voci dalla sua torre dorata di Manhattan sono vere, addirittura un reduce della Goldman Sachs e del disastro dei mutui subprime, Steve Mnuchin, per il Tesoro. Proprio un profittatore di quel mondo della finanza rapace che i suoi elettori si erano illusi di punire, votando Trump.
Se il classico detto del “dimmi con chi vai” tradotto in “e ti dirò come governi” si conferma, le scelte fatta finora dal presidente eletto — non ancora incoronato dai grandi elettori in dicembre — raccontano di una sterzata all’estrema destra ideologica e radicale che nessuno dei suoi predecessori repubblicani, neppure quel Ronald Reagan considerato l’icona dei conservatori, aveva mai osato compiere. Il suo Segretario alla Giustizia, il senatore Jeff Sessions che fu il primo dei grandi e sornioni alligatori della palude politica a dichiararsi per lui, si vide respingere dal Senato la nomina a giudice federale per sospetti di razzismo nel 1986. Chiamò un giudice di colore “boy”, l’appellativo sprezzante riservato ai servi neri e accusò un avvocato di colore di pregiudizi contro l’uomo bianco. Sarà lui, come numero uno del dipartimento della Giustizia, a dover far rispettare le leggi contro la discriminazione razziale. Un critico dei diritti civili, Lgtb compresi, chiamato a difendere i diritti civili.
Mike Pompeo, deputato del Kansas, guiderà la Cia, la “Ditta” dello spionaggio, come è chiamata in gergo per meriti anti-clintoniani. Li acquisì conducendo l’ossessiva campagna parlamentare sul “caso Bengasi”, nel quale invano i repubblicani tentarono di trovare responsabilità criminali dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton. Pompeo, che sarà il secondo italo-americano dopo Leon Panetta a guidare la “Ditta”, continuò una personale crociata allargando per conto proprio le indagini e tenendo vive le accuse, con la tenacia dell’ex ufficiale di Cavalleria, come il leggendario cacciatori di Sioux Custer, qual è. Un accanimento che ha avuto come riconoscimento da Trump la direzione della Cia.
Attorno al Team Trump è riaffiorato anche il nome di John Bolton, già ambasciatore all’Onu con Bush il giovane e irriducibile sostenitore delle guerre preventive che tanto successo hanno avuto in Iraq. In questi giorni, riprendendo un altro dei leitmotiv cari alla campagna del presidente eletto, ha riesumato un classico della sottocultura neocon a proposito del trattato con l’Iran: «L’unico modo per impedire che Teheran si costruisca un arsenale nucleare è il cambio di regime». Un’espressione che sembrava fortunatamente archiviata nella polvere e nel sangue. E tra uomini come questi, finora tutti e soltanto uomini e tutti rigorosamente bianchi, il peggio dei convocati nella nuova nazionale che rappresenterà gli Stati Uniti per i prossimi quattro anni è quello Steve Bannon, che ha guidato la campagna elettorale dopo avere creato e diretto un sito online chiamato “Breitbart”, fonte di pura e tossica propaganda senza pretese di credibilità. Tra le citazioni di Bannon, nominato assistente speciale, una merita speciale attenzione: «L’oscurità è il bene. Dart Fener, Dick Cheney e Satana sono il potere».
I timori di una sterzata verso la destra più dura e allucinata, come quella di Steve Bannon o più aggressiva come quella del deputato Pompeo, confermati dalla nomina di un generalissimo superfalco come Michael Flynn alla testa del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, che è il “gabinetto di guerra” del presidente, si sono materializzati nella prima settimana di nomine. L’«Islam è il cancro del mondo», ama ripetere il generale, che promette di curarlo. Li ha temperati soltanto l’assunzione a Capo Gabinetto del presidente del partito repubblicano Reince Priebus, un pallido notabile di quell’establishment washingtoniano che Trump avrebbe dovuto eliminare e le voci di colloqui con Mitt Romney, lo sconfitto da Obama 2012. Un altro campionissimo dell’élite repubblicana, possibile concorrente alla Segreteria di Stato, conservatore moderato, meno inquietante di Rudy Giuliani, gran “consigliore” durante la campagna e assetato di rivincita contro Hillary Clinton che gli soffiò il seggio di New York al Senato.
Il sentimento che le prime nomine di Trump trasmettono è dunque la manifestazione di quella voglia di vendetta, non di novità o freschezza, che la propaganda elettorale aveva lasciato vedere. È la revanche, la rivincita di una destra appunto revanscista, xenofoba, militarista, decisa a ripulire l’America dall’onta di quell’uomo nero e dalla sfida di quella donna arrogante. Il colonnello Custer è vivo e lotta con Trump.
Oltre Reagan
di Vittorio Zucconi
NELLA House of Cards che Donald Trump sta costruendo per la sua Casa Bianca, calano gli assi e i jolly della Destra più fanatica. Anziché formare un’amministrazione di volti nuovi, come aveva fatto credere, fatta di personalità estranee alla “politica politicante”, il Team Trump sta raccogliendo i Revenant del reaganismo, i redivivi del bushismo neocon, i “boiachimolla” dell’anti clintonismo più militante, i duri del Tea Party e, se le voci dalla sua torre dorata di Manhattan sono vere, addirittura un reduce della Goldman Sachs e del disastro dei mutui subprime, Steve Mnuchin, per il Tesoro. Proprio un profittatore di quel mondo della finanza rapace che i suoi elettori si erano illusi di punire, votando Trump.
Se il classico detto del “dimmi con chi vai” tradotto in “e ti dirò come governi” si conferma, le scelte fatta finora dal presidente eletto — non ancora incoronato dai grandi elettori in dicembre — raccontano di una sterzata all’estrema destra ideologica e radicale che nessuno dei suoi predecessori repubblicani, neppure quel Ronald Reagan considerato l’icona dei conservatori, aveva mai osato compiere. Il suo Segretario alla Giustizia, il senatore Jeff Sessions che fu il primo dei grandi e sornioni alligatori della palude politica a dichiararsi per lui, si vide respingere dal Senato la nomina a giudice federale per sospetti di razzismo nel 1986. Chiamò un giudice di colore “boy”, l’appellativo sprezzante riservato ai servi neri e accusò un avvocato di colore di pregiudizi contro l’uomo bianco. Sarà lui, come numero uno del dipartimento della Giustizia, a dover far rispettare le leggi contro la discriminazione razziale. Un critico dei diritti civili, Lgtb compresi, chiamato a difendere i diritti civili.
Mike Pompeo, deputato del Kansas, guiderà la Cia, la “Ditta” dello spionaggio, come è chiamata in gergo per meriti anti-clintoniani. Li acquisì conducendo l’ossessiva campagna parlamentare sul “caso Bengasi”, nel quale invano i repubblicani tentarono di trovare responsabilità criminali dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton. Pompeo, che sarà il secondo italo-americano dopo Leon Panetta a guidare la “Ditta”, continuò una personale crociata allargando per conto proprio le indagini e tenendo vive le accuse, con la tenacia dell’ex ufficiale di Cavalleria, come il leggendario cacciatori di Sioux Custer, qual è. Un accanimento che ha avuto come riconoscimento da Trump la direzione della Cia.
Attorno al Team Trump è riaffiorato anche il nome di John Bolton, già ambasciatore all’Onu con Bush il giovane e irriducibile sostenitore delle guerre preventive che tanto successo hanno avuto in Iraq. In questi giorni, riprendendo un altro dei leitmotiv cari alla campagna del presidente eletto, ha riesumato un classico della sottocultura neocon a proposito del trattato con l’Iran: «L’unico modo per impedire che Teheran si costruisca un arsenale nucleare è il cambio di regime». Un’espressione che sembrava fortunatamente archiviata nella polvere e nel sangue. E tra uomini come questi, finora tutti e soltanto uomini e tutti rigorosamente bianchi, il peggio dei convocati nella nuova nazionale che rappresenterà gli Stati Uniti per i prossimi quattro anni è quello Steve Bannon, che ha guidato la campagna elettorale dopo avere creato e diretto un sito online chiamato “Breitbart”, fonte di pura e tossica propaganda senza pretese di credibilità. Tra le citazioni di Bannon, nominato assistente speciale, una merita speciale attenzione: «L’oscurità è il bene. Dart Fener, Dick Cheney e Satana sono il potere».
I timori di una sterzata verso la destra più dura e allucinata, come quella di Steve Bannon o più aggressiva come quella del deputato Pompeo, confermati dalla nomina di un generalissimo superfalco come Michael Flynn alla testa del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, che è il “gabinetto di guerra” del presidente, si sono materializzati nella prima settimana di nomine. L’«Islam è il cancro del mondo», ama ripetere il generale, che promette di curarlo. Li ha temperati soltanto l’assunzione a Capo Gabinetto del presidente del partito repubblicano Reince Priebus, un pallido notabile di quell’establishment washingtoniano che Trump avrebbe dovuto eliminare e le voci di colloqui con Mitt Romney, lo sconfitto da Obama 2012. Un altro campionissimo dell’élite repubblicana, possibile concorrente alla Segreteria di Stato, conservatore moderato, meno inquietante di Rudy Giuliani, gran “consigliore” durante la campagna e assetato di rivincita contro Hillary Clinton che gli soffiò il seggio di New York al Senato.
Il sentimento che le prime nomine di Trump trasmettono è dunque la manifestazione di quella voglia di vendetta, non di novità o freschezza, che la propaganda elettorale aveva lasciato vedere. È la revanche, la rivincita di una destra appunto revanscista, xenofoba, militarista, decisa a ripulire l’America dall’onta di quell’uomo nero e dalla sfida di quella donna arrogante. Il colonnello Custer è vivo e lotta con Trump.
Il Sole 19.11.16
Appello all’Europa
Science for Peace: «I migranti vanno accolti e integrati»
di Stefano Natoli
«Affrontare le cause alla base dei flussi migratori, creare canali sicuri di accesso all’Europa, accogliere i migranti e gestire le procedure di asilo, integrarli nelle nostre società». È l’appello finale che arriva dall’ottava conferenza mondiale di Science for Peace, l’iniziativa di mobilitazione organizzata dalla Fondazione Umberto Veronesi in collaborazione con l’Università Bocconi che si è tenuta ieri nell’aula magna dell’ateneo milanese e che quest’anno ha acceso i riflettori sul tema più che mai attuale delle migrazioni e del futuro dell’Europa.
Guest star dell’evento che si è aperto con un omaggio alla memoria di Umberto Veronesi – l’oncologo, padre dell’iniziativa, scomparso lo scorso 8 novembre – è stata Emma Bonino. «Il superamento della Legge Bossi-Fini è la cosa più urgente che dobbiamo fare per garantire una gestione più ordinata di un fenomeno destinato a durare a lungo», ha detto l’ex Commissario europeo e ministro degli Affari esteri e delle Politiche europee. L’esponente del Partito Radicale ha sottolineato la necessità di colmare «il divario di percezione» che caratterizza il fenomeno dell’immigrazione vissuta da una parte dell’opinione pubblica «come un’invasione» mentre i dati reali dicono che il numero di immigrati è pari a circa l’8% della popolazione. «Aiutarli a casa loro non è così semplice e prenderà tanto tempo», ha detto ancora la “pasionaria” radicale sottolineando il fatto che «l’Italia è in declino demografico e a poche centinaia di chilometri da noi c’è l’esplosione delle nascite». Ecco allora la necessità di organizzare il fenomeno dell’immigrazione «in maniera più umana». In questo senso «il metodo scientifico che abbiamo ereditato da scienziati come Umberto Veronesi ci può aiutare a resistere a chi fa leva sulle paure delle persone e offre ricette placebo che non funzioneranno mai».
Il primo dei quattro panel previsti dalla Conferenza si è concentrato sulle cause politiche, economiche e ambientali dei fenomeni migratori. «Cause molteplici e interconnesse» secondo Elisabetta Belloni (segretario generale del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale) e soprattutto «in continua evoluzione». Letizia Mencarini (professore di demografia all’Università Bocconi) ha sottolinea come le migrazioni siano «le strategie più antiche di contrasto alla povertà» , mentre Ferruccio Pastore, direttore del Fieri (Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione) ha affermato che «l’Europa continua a lavorare molto sulle conseguenze e molto poco sulle cause del fenomeno» e che, dunque, il suo fallimento «oltre che politico è anche scientifico».
Su questo tasto ha insistito anche Alberto Martinelli, presidente dell’International Social Science Council: «Solo una conoscenza scientifica ci consente di affrontare il fenomeno nel migliore dei modi, permettendoci di sconfiggere l’internazionale del populismo, dell’ignoranza e delle scorciatoie semplicistiche» che minacciano l’Europa. Un’Europa che per l’europarlamentare Elly Schlein (fra i protagonisti del secondo Panel dedicato, appunto, all’Europa) «manca della volontà politica di suddividere in modo equo gli sforzi dell’accoglienza dei migranti» e che ora secondo Massimo Livi Bacci (docente di demografia all’Università di Firenze) ha un problema in più: l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Un’elezione che «renderà più difficile l’accoglienza» e «peggiorerà la situazione di un’Unione già in difficoltà per colpa della Brexit».
Sulla necessità di perfezionare il sistema di accoglienza si è soffermato il primo dei due panel pomeridiani dove Carlotta Sami (portavoce Unhcr per l’Europa del sud) ha insistito sulla necessità di «lavorare da subito su integrazione e inclusione» e Fosca Nomis (Save The Children) ha parlato della drammatica realtà dei 20mila minori non accompagnati (6mila dei quali irreperibili) «privi di reti di protezione e punti di riferimento».
Il panel si è avvalso della testimonianza di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, secondo la quale «il modello su cui puntare è quello diffuso che prevede una rapida redistribuzione dei migranti sul territorio nazionale».
Appello all’Europa
Science for Peace: «I migranti vanno accolti e integrati»
di Stefano Natoli
«Affrontare le cause alla base dei flussi migratori, creare canali sicuri di accesso all’Europa, accogliere i migranti e gestire le procedure di asilo, integrarli nelle nostre società». È l’appello finale che arriva dall’ottava conferenza mondiale di Science for Peace, l’iniziativa di mobilitazione organizzata dalla Fondazione Umberto Veronesi in collaborazione con l’Università Bocconi che si è tenuta ieri nell’aula magna dell’ateneo milanese e che quest’anno ha acceso i riflettori sul tema più che mai attuale delle migrazioni e del futuro dell’Europa.
Guest star dell’evento che si è aperto con un omaggio alla memoria di Umberto Veronesi – l’oncologo, padre dell’iniziativa, scomparso lo scorso 8 novembre – è stata Emma Bonino. «Il superamento della Legge Bossi-Fini è la cosa più urgente che dobbiamo fare per garantire una gestione più ordinata di un fenomeno destinato a durare a lungo», ha detto l’ex Commissario europeo e ministro degli Affari esteri e delle Politiche europee. L’esponente del Partito Radicale ha sottolineato la necessità di colmare «il divario di percezione» che caratterizza il fenomeno dell’immigrazione vissuta da una parte dell’opinione pubblica «come un’invasione» mentre i dati reali dicono che il numero di immigrati è pari a circa l’8% della popolazione. «Aiutarli a casa loro non è così semplice e prenderà tanto tempo», ha detto ancora la “pasionaria” radicale sottolineando il fatto che «l’Italia è in declino demografico e a poche centinaia di chilometri da noi c’è l’esplosione delle nascite». Ecco allora la necessità di organizzare il fenomeno dell’immigrazione «in maniera più umana». In questo senso «il metodo scientifico che abbiamo ereditato da scienziati come Umberto Veronesi ci può aiutare a resistere a chi fa leva sulle paure delle persone e offre ricette placebo che non funzioneranno mai».
Il primo dei quattro panel previsti dalla Conferenza si è concentrato sulle cause politiche, economiche e ambientali dei fenomeni migratori. «Cause molteplici e interconnesse» secondo Elisabetta Belloni (segretario generale del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale) e soprattutto «in continua evoluzione». Letizia Mencarini (professore di demografia all’Università Bocconi) ha sottolinea come le migrazioni siano «le strategie più antiche di contrasto alla povertà» , mentre Ferruccio Pastore, direttore del Fieri (Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione) ha affermato che «l’Europa continua a lavorare molto sulle conseguenze e molto poco sulle cause del fenomeno» e che, dunque, il suo fallimento «oltre che politico è anche scientifico».
Su questo tasto ha insistito anche Alberto Martinelli, presidente dell’International Social Science Council: «Solo una conoscenza scientifica ci consente di affrontare il fenomeno nel migliore dei modi, permettendoci di sconfiggere l’internazionale del populismo, dell’ignoranza e delle scorciatoie semplicistiche» che minacciano l’Europa. Un’Europa che per l’europarlamentare Elly Schlein (fra i protagonisti del secondo Panel dedicato, appunto, all’Europa) «manca della volontà politica di suddividere in modo equo gli sforzi dell’accoglienza dei migranti» e che ora secondo Massimo Livi Bacci (docente di demografia all’Università di Firenze) ha un problema in più: l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Un’elezione che «renderà più difficile l’accoglienza» e «peggiorerà la situazione di un’Unione già in difficoltà per colpa della Brexit».
Sulla necessità di perfezionare il sistema di accoglienza si è soffermato il primo dei due panel pomeridiani dove Carlotta Sami (portavoce Unhcr per l’Europa del sud) ha insistito sulla necessità di «lavorare da subito su integrazione e inclusione» e Fosca Nomis (Save The Children) ha parlato della drammatica realtà dei 20mila minori non accompagnati (6mila dei quali irreperibili) «privi di reti di protezione e punti di riferimento».
Il panel si è avvalso della testimonianza di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, secondo la quale «il modello su cui puntare è quello diffuso che prevede una rapida redistribuzione dei migranti sul territorio nazionale».
Il Sole 19.11.16
Media
Il Sole 24 Ore, istanza ai Pm da 20 giornalisti: «Persone offese»
di R.Fi.
Venti giornalisti del Sole 24 Ore hanno depositato ieri in Procura a Milano un’istanza in qualità di «persone offese» nell’ambito dell’inchiesta aperta per falso in bilancio nelle scorse settimane sulla situazione contabile del gruppo editoriale. Nell’istanza i giornalisti/azionisti/dipendenti del Sole 24 ore» rivendicano «il nostro interesse primario ad accertare eventuali condotte illecite degli amministratori nonché i conseguenti danni economici e reputazionali al marchio del Sole 24 Ore e, dunque, a ciascuno dei giornalisti che vi hanno lavorato e vi lavorano». La «vicenda che sta attraversando la gestione aziendale - spiegano ancora i giornalisti nell’istanza depositata nella segreteria del pm Fabio De Pasquale, coordinatore del dipartimento reati economici - e i suoi sviluppi nelle sedi istituzionali competenti ad accertare eventuali illeciti penali e/o amministrativi, ci allarma e preoccupa». Si tratta «di una vicenda che mette in gioco in prima battuta i giornalisti della testata, la cui serietà, autorevolezza e abnegazione hanno avuto un ruolo determinante nella costruzione del patrimonio reputazionale conquistato dal Sole 24 Ore in 150 anni di vita». Nell'istanza i 20 giornalisti del quotidiano chiariscono anche di avere «da molto tempo, preso nettamente le distanze (in varie sedi) da ogni comportamento che abbia potuto alterare la trasparenza della gestione aziendale». «In questa prospettiva - aggiungono - non possiamo che considerarci “persone offese” nell’ambito del procedimento penale che risulta essere stato avviato: anche in questa sede - per il rispetto che portiamo ai lettori, alla storia della testata e del suo editore - intendiamo attivarci nelle forme più efficaci per tutelare la serietà del nostro lavoro e del nostro impegno di giornalisti».
Media
Il Sole 24 Ore, istanza ai Pm da 20 giornalisti: «Persone offese»
di R.Fi.
Venti giornalisti del Sole 24 Ore hanno depositato ieri in Procura a Milano un’istanza in qualità di «persone offese» nell’ambito dell’inchiesta aperta per falso in bilancio nelle scorse settimane sulla situazione contabile del gruppo editoriale. Nell’istanza i giornalisti/azionisti/dipendenti del Sole 24 ore» rivendicano «il nostro interesse primario ad accertare eventuali condotte illecite degli amministratori nonché i conseguenti danni economici e reputazionali al marchio del Sole 24 Ore e, dunque, a ciascuno dei giornalisti che vi hanno lavorato e vi lavorano». La «vicenda che sta attraversando la gestione aziendale - spiegano ancora i giornalisti nell’istanza depositata nella segreteria del pm Fabio De Pasquale, coordinatore del dipartimento reati economici - e i suoi sviluppi nelle sedi istituzionali competenti ad accertare eventuali illeciti penali e/o amministrativi, ci allarma e preoccupa». Si tratta «di una vicenda che mette in gioco in prima battuta i giornalisti della testata, la cui serietà, autorevolezza e abnegazione hanno avuto un ruolo determinante nella costruzione del patrimonio reputazionale conquistato dal Sole 24 Ore in 150 anni di vita». Nell'istanza i 20 giornalisti del quotidiano chiariscono anche di avere «da molto tempo, preso nettamente le distanze (in varie sedi) da ogni comportamento che abbia potuto alterare la trasparenza della gestione aziendale». «In questa prospettiva - aggiungono - non possiamo che considerarci “persone offese” nell’ambito del procedimento penale che risulta essere stato avviato: anche in questa sede - per il rispetto che portiamo ai lettori, alla storia della testata e del suo editore - intendiamo attivarci nelle forme più efficaci per tutelare la serietà del nostro lavoro e del nostro impegno di giornalisti».
La Stampa 19.11.16
Morta di fame
Genitori condannati
Non hanno accudito la figlia di nove mesi, facendole patire la fame e la sete fino a farla morire: per questo sono stati condannati a 12 anni di carcere dai giudici della Corte d’Assise di Milano, Marco Falchi e Olivia Beatrice Grazioli, i genitori della piccola Aurora, morta nella notte tra il 26 e il 27 febbraio dell’anno scorso nella loro casa di via Severoli, a Milano.
Cristian Barilli, il pm che ha condotto le indagini, aveva chiesto vent’anni di reclusione per il padre e sedici per la madre senza attenuanti generiche che avrebbero portato, ha spiegato, ad una «svalutazione di quanto accaduto».
Morta di fame
Genitori condannati
Non hanno accudito la figlia di nove mesi, facendole patire la fame e la sete fino a farla morire: per questo sono stati condannati a 12 anni di carcere dai giudici della Corte d’Assise di Milano, Marco Falchi e Olivia Beatrice Grazioli, i genitori della piccola Aurora, morta nella notte tra il 26 e il 27 febbraio dell’anno scorso nella loro casa di via Severoli, a Milano.
Cristian Barilli, il pm che ha condotto le indagini, aveva chiesto vent’anni di reclusione per il padre e sedici per la madre senza attenuanti generiche che avrebbero portato, ha spiegato, ad una «svalutazione di quanto accaduto».
La Stampa 19.11.16
Calano le vaccinazioni. Riecco le vecchie malattie
L’Istituto superiore di sanità: rischio difterite e poliomelite
Emergenza morbillo: 670 mila bambini potrebbero contrarlo
di Valentina Arcovio
Nel nostro Paese calano le vaccinazioni e riappare l’incubo difterite. E’ stato infatti registrato un primo segnale eloquente della malattia, dopo circa 25 anni dall’ultimo decesso avvenuto in Italia.
Lo ha segnalato Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità, durante un congresso di pediatria a Firenze. «Si è già verificato un primo caso di nodulo difterico, spia di un contatto con il batterio che non si è evoluto nella malattia, perché il microrganismo è stato contrastato dal sistema immunitario», riferisce. Per fortuna non siamo quindi di fronte a un caso di malattia conclamata. «Ma indica un contatto con il batterio Corynebacterium diphtheriae, responsabile dell’infezione», spiega Ricciardi, non specificando la località in cui si è verificato il caso. Il timore è che la difterite torni a mietere vittime. In Europa l’attenzione è molto alta. Qualche mese fa, in Belgio, la malattia ha ucciso un bimbo di 3 anni. Lo scorso anno, invece, in Spagna è deceduto un bambino di sei anni, il primo caso dall’ultimo registrato nel 1986. Nessuna delle piccola vittime era stato vaccinato. In Venezuela si parla di una vera emergenza che ha fatto 23 vittime, quasi tutti bambini.
In Italia, invece, l’ultimo caso pediatrico risale al 1991. Ora, con il calo delle vaccinazioni si potrebbe tornare indietro di molti anni. Quando cioè la difterite colpiva decine di migliaia di persone e ne uccideva più di mille all’anno.
La difterite è infatti una malattia infettiva gravissima che può essere letale. Una volta che il batterio responsabile entra nel nostro organismo rilascia una tossina che può danneggiare, o addirittura distruggere, organi e tessuti. Il batterio infetta le mucose del naso e della gola, in alcuni casi la pelle e ancora più raramente gli occhi. In fase avanzata questa grave infezione batterica può arrivare a danneggiare cuore, rene e sistema nervoso.
Un altro problema è che oggi quasi tutti i paesi hanno smesso di produrre l’antitossina difterica e per questo, in caso di malattia, c’è il rischio di non avere i farmaci subito a disposizione e quindi di morire.
L’unica soluzione per scongiurare questo terrificante ritorno è la vaccinazione preventiva. Solitamente, il vaccino antidifterico viene somministrato in combinazione con quello contro il tetano e contro la pertosse. Inoltre, oggi si possono a vaccinare i nuovi nati con il vaccino esavalente, che protegge anche contro la poliomielite, l’epatite virale B e le infezioni invasive da Haemophilus influenzae B.
Ritornare a vaccinarsi è fondamentale, non solo per proteggersi dalla difterite.
«A causa del calo delle vaccinazione - sottolinea Ricciardi - ci attendiamo anche in Italia casi di poliomielite». Oggi già si è in emergenza per il morbillo: al momento in Italia ci sono 670mila bambini che rischiano di contrarlo poiché non vaccinati. «A questi - conclude Ricciardi - vanno aggiunti circa un milione e mezzo di giovani adulti a rischio, per un totale di circa 2 milioni di persone suscettibili all’infezione».
Calano le vaccinazioni. Riecco le vecchie malattie
L’Istituto superiore di sanità: rischio difterite e poliomelite
Emergenza morbillo: 670 mila bambini potrebbero contrarlo
di Valentina Arcovio
Nel nostro Paese calano le vaccinazioni e riappare l’incubo difterite. E’ stato infatti registrato un primo segnale eloquente della malattia, dopo circa 25 anni dall’ultimo decesso avvenuto in Italia.
Lo ha segnalato Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità, durante un congresso di pediatria a Firenze. «Si è già verificato un primo caso di nodulo difterico, spia di un contatto con il batterio che non si è evoluto nella malattia, perché il microrganismo è stato contrastato dal sistema immunitario», riferisce. Per fortuna non siamo quindi di fronte a un caso di malattia conclamata. «Ma indica un contatto con il batterio Corynebacterium diphtheriae, responsabile dell’infezione», spiega Ricciardi, non specificando la località in cui si è verificato il caso. Il timore è che la difterite torni a mietere vittime. In Europa l’attenzione è molto alta. Qualche mese fa, in Belgio, la malattia ha ucciso un bimbo di 3 anni. Lo scorso anno, invece, in Spagna è deceduto un bambino di sei anni, il primo caso dall’ultimo registrato nel 1986. Nessuna delle piccola vittime era stato vaccinato. In Venezuela si parla di una vera emergenza che ha fatto 23 vittime, quasi tutti bambini.
In Italia, invece, l’ultimo caso pediatrico risale al 1991. Ora, con il calo delle vaccinazioni si potrebbe tornare indietro di molti anni. Quando cioè la difterite colpiva decine di migliaia di persone e ne uccideva più di mille all’anno.
La difterite è infatti una malattia infettiva gravissima che può essere letale. Una volta che il batterio responsabile entra nel nostro organismo rilascia una tossina che può danneggiare, o addirittura distruggere, organi e tessuti. Il batterio infetta le mucose del naso e della gola, in alcuni casi la pelle e ancora più raramente gli occhi. In fase avanzata questa grave infezione batterica può arrivare a danneggiare cuore, rene e sistema nervoso.
Un altro problema è che oggi quasi tutti i paesi hanno smesso di produrre l’antitossina difterica e per questo, in caso di malattia, c’è il rischio di non avere i farmaci subito a disposizione e quindi di morire.
L’unica soluzione per scongiurare questo terrificante ritorno è la vaccinazione preventiva. Solitamente, il vaccino antidifterico viene somministrato in combinazione con quello contro il tetano e contro la pertosse. Inoltre, oggi si possono a vaccinare i nuovi nati con il vaccino esavalente, che protegge anche contro la poliomielite, l’epatite virale B e le infezioni invasive da Haemophilus influenzae B.
Ritornare a vaccinarsi è fondamentale, non solo per proteggersi dalla difterite.
«A causa del calo delle vaccinazione - sottolinea Ricciardi - ci attendiamo anche in Italia casi di poliomielite». Oggi già si è in emergenza per il morbillo: al momento in Italia ci sono 670mila bambini che rischiano di contrarlo poiché non vaccinati. «A questi - conclude Ricciardi - vanno aggiunti circa un milione e mezzo di giovani adulti a rischio, per un totale di circa 2 milioni di persone suscettibili all’infezione».
Il Sole 19.11.16
Moneta elettronica, Italia indietro
Il gap genera un mancato gettito nelle casse dello Stato per 25 miliardi l’anno
di Francesco Prisco
L’infrastruttura c’è, la “cultura” non ancora. La sensibilità al tema avanza, ma siamo ancora indietro rispetto alla media europea, per non parlare degli Stati scandinavi, i primi della classe nel Vecchio continente. L’Italia ha ancora tanta strada da compiere in tema di pagamenti elettronici.
Lo rivela l’Osservatorio mobile payment & innovation del Politecnico di Milano che monitora costantemente l’avanzata degli strumenti innovativi di trasferimento di denato tra esercizi e consumatori dello Stivale. Su versante dell’“hardware” a quanto pare ci siamo: qui da noi si contano per esempio 32mila pos per milione di abitanti, contro i 23mila della media Ue. Sul versante del possesso delle carte elettroniche siamo leggermente indietro, ma niente di eccessivamente preoccupante: in Europa si contano 1,9 carte per abitante, in Italia 1,7. Il problema, semmai, è l’utilizzo di questi strumenti. L’anno scorso infatti il “transato” per via elettronica si è attestato a quota 174,7 miliardi, tra nuove forme di pagamento (21,3 miliardi) e vecchie (153 miliardi). Siamo cioè appena al 22% del valore complessivo dei consumi. Per l’anno in corso l’Osservatorio del Politecnico stima una crescita del ricorso ai pagamenti elettronici tra l’8 e il 12 per cento. Una spinta in avanti che tuttavia, stando all’analisi dell’ateneo milanese, va interpretata con la crescita degli acquisti in e-commerce, territorio nel quale le transazioni elettroniche sono l’unica modalità ammessa. Nel Bel Paese ciascun consumatore fa 44 operazioni l’anno. Meno della metà del dato europeo (100). Performance lontanissima da quella di Danimarca e Svezia, Paesi leader del continenti che registrano circa 300 pagamenti elettronici in media nell’arco dei dodici mesi. «Il ritardo dell’Italia – commenta Valeria Portale, direttore dell’Osservatorio del Politecnico – rimanda innanzitutto a un problema culturale. Da un lato non c’è corretta percezione del fatto che il contante rappresenti un “costo” per tutti. Costa allo Stato, costa trasportarlo, in più alimenta la micro-criminalità esponendo i commercianti a furti e rapine. Dall’altro c’è chi usa il contante per schermare operazioni in nero. Al contrario, le operazioni condotte mediante carta e pos sono tutte tracciate ed è impossibile nasconderle al fisco».
Il ritardo dell’Italia sui pagamenti digitali si stima che generi, infatti, un mancato gettito per le casse dello Stato pari a qualcosa come 25 miliardi l’anno. Il legislatore, in ogni caso, non resta a guardare. La digitalizzazione del contante figura tra gli obiettivi dell’Agenda Digitale, piano di investimenti che ammonta, per la parte pubblica, a quota 10,6 miliardi dal 2014 al 2020, ossia 1,51 miliardi l’anno. Tali investimenti possono essere sostenuti impiegando risorse europee (stimabili in 1,65 miliardi l'anno) a patto che la nostra capacità di intercettare e utilizzare tali risorse sia tempestiva ed efficace. Per colmare il gap con l’Europa e rispondere alle direttive della Commissione europea nonché agli obiettivi dell’Agenda Digitale, tutte le parti, siano esse pubbliche o private, sono chiamate a promuovere le nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione per favorire l’amministrazione digitale, la fatturazione elettronica e l’identità digitale. Le imprese bancarie italiane stanno investendo da anni per la creazione di soluzioni a supporto dell’azione del Governo e, più in generale, del rilancio della competitività nazionale per la creazione dell’Italia digitale: tra questi i progetti per la dematerializzazione e l’efficientamento dei processi aziendali. In questo senso si sta muovendo il Consorzio Cbi che gestisce l’infrastruttura tecnica che interconnette circa 560 istituti finanziari e permette lo scambio di flussi finanziari, informativi e documentali, attraverso il colloquio telematico tra gli istituti stessi e la propria clientela (circa un milione, tra imprese, pa e privati). «La costante ricerca del consorzio – spiega Liliana Fratini Passi, dg di Cbi - per garantire a cittadini, imprese e Pa servizi transazionali sempre più efficienti ed evoluti ha portato a indagare nuove modalità per il pagamento dei conti spesa attraverso l’implementazione del servizio Cbill che consente ai cittadini la consultazione e il pagamento delle bollette (utenze, ticket sanitari, multe, tasse e altro ancora) in modalità multibanca e multicanale (tablet, smartphone, Atm e sportello fisico). In questo caso siamo partiti dalla considerazione che in Italia i pagamenti vengono effettuati prevalentemente attraverso il contante con tutti i limiti che ne conseguono, sia per i clienti utilizzatori che per le aziende fatturatrici. Quindi abbiamo lavorato sulle leve per favorire il passaggio del cliente da spettatore passivo a soggetto attivo nella fruizione di servizi finanziari in modalità multicanale». Cbill, offerto dagli istituti finanziari consorziati, a partire dal lancio ufficiale, avvenuto il primo luglio 2014, ha attivato circa 350 fatturatori tra privati e pa e registrato oltre 4 milioni di operazioni totali inizializzate, quasi esclusivamente su canale web, per un controvalore complessivo di oltre 850 milioni. «Dopo i buoni risultati ottenuti – aggiunge il dg - ci siamo anche impegnati in una specifica campagna di comunicazione verso le aziende e i cittadini con l’obiettivo di accrescere la conoscenza di Cbill e, più in generale, dei pagamenti elettronici». Il passaggio verso la digitalizzazione dei pagamenti si stimola anche così.
Moneta elettronica, Italia indietro
Il gap genera un mancato gettito nelle casse dello Stato per 25 miliardi l’anno
di Francesco Prisco
L’infrastruttura c’è, la “cultura” non ancora. La sensibilità al tema avanza, ma siamo ancora indietro rispetto alla media europea, per non parlare degli Stati scandinavi, i primi della classe nel Vecchio continente. L’Italia ha ancora tanta strada da compiere in tema di pagamenti elettronici.
Lo rivela l’Osservatorio mobile payment & innovation del Politecnico di Milano che monitora costantemente l’avanzata degli strumenti innovativi di trasferimento di denato tra esercizi e consumatori dello Stivale. Su versante dell’“hardware” a quanto pare ci siamo: qui da noi si contano per esempio 32mila pos per milione di abitanti, contro i 23mila della media Ue. Sul versante del possesso delle carte elettroniche siamo leggermente indietro, ma niente di eccessivamente preoccupante: in Europa si contano 1,9 carte per abitante, in Italia 1,7. Il problema, semmai, è l’utilizzo di questi strumenti. L’anno scorso infatti il “transato” per via elettronica si è attestato a quota 174,7 miliardi, tra nuove forme di pagamento (21,3 miliardi) e vecchie (153 miliardi). Siamo cioè appena al 22% del valore complessivo dei consumi. Per l’anno in corso l’Osservatorio del Politecnico stima una crescita del ricorso ai pagamenti elettronici tra l’8 e il 12 per cento. Una spinta in avanti che tuttavia, stando all’analisi dell’ateneo milanese, va interpretata con la crescita degli acquisti in e-commerce, territorio nel quale le transazioni elettroniche sono l’unica modalità ammessa. Nel Bel Paese ciascun consumatore fa 44 operazioni l’anno. Meno della metà del dato europeo (100). Performance lontanissima da quella di Danimarca e Svezia, Paesi leader del continenti che registrano circa 300 pagamenti elettronici in media nell’arco dei dodici mesi. «Il ritardo dell’Italia – commenta Valeria Portale, direttore dell’Osservatorio del Politecnico – rimanda innanzitutto a un problema culturale. Da un lato non c’è corretta percezione del fatto che il contante rappresenti un “costo” per tutti. Costa allo Stato, costa trasportarlo, in più alimenta la micro-criminalità esponendo i commercianti a furti e rapine. Dall’altro c’è chi usa il contante per schermare operazioni in nero. Al contrario, le operazioni condotte mediante carta e pos sono tutte tracciate ed è impossibile nasconderle al fisco».
Il ritardo dell’Italia sui pagamenti digitali si stima che generi, infatti, un mancato gettito per le casse dello Stato pari a qualcosa come 25 miliardi l’anno. Il legislatore, in ogni caso, non resta a guardare. La digitalizzazione del contante figura tra gli obiettivi dell’Agenda Digitale, piano di investimenti che ammonta, per la parte pubblica, a quota 10,6 miliardi dal 2014 al 2020, ossia 1,51 miliardi l’anno. Tali investimenti possono essere sostenuti impiegando risorse europee (stimabili in 1,65 miliardi l'anno) a patto che la nostra capacità di intercettare e utilizzare tali risorse sia tempestiva ed efficace. Per colmare il gap con l’Europa e rispondere alle direttive della Commissione europea nonché agli obiettivi dell’Agenda Digitale, tutte le parti, siano esse pubbliche o private, sono chiamate a promuovere le nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione per favorire l’amministrazione digitale, la fatturazione elettronica e l’identità digitale. Le imprese bancarie italiane stanno investendo da anni per la creazione di soluzioni a supporto dell’azione del Governo e, più in generale, del rilancio della competitività nazionale per la creazione dell’Italia digitale: tra questi i progetti per la dematerializzazione e l’efficientamento dei processi aziendali. In questo senso si sta muovendo il Consorzio Cbi che gestisce l’infrastruttura tecnica che interconnette circa 560 istituti finanziari e permette lo scambio di flussi finanziari, informativi e documentali, attraverso il colloquio telematico tra gli istituti stessi e la propria clientela (circa un milione, tra imprese, pa e privati). «La costante ricerca del consorzio – spiega Liliana Fratini Passi, dg di Cbi - per garantire a cittadini, imprese e Pa servizi transazionali sempre più efficienti ed evoluti ha portato a indagare nuove modalità per il pagamento dei conti spesa attraverso l’implementazione del servizio Cbill che consente ai cittadini la consultazione e il pagamento delle bollette (utenze, ticket sanitari, multe, tasse e altro ancora) in modalità multibanca e multicanale (tablet, smartphone, Atm e sportello fisico). In questo caso siamo partiti dalla considerazione che in Italia i pagamenti vengono effettuati prevalentemente attraverso il contante con tutti i limiti che ne conseguono, sia per i clienti utilizzatori che per le aziende fatturatrici. Quindi abbiamo lavorato sulle leve per favorire il passaggio del cliente da spettatore passivo a soggetto attivo nella fruizione di servizi finanziari in modalità multicanale». Cbill, offerto dagli istituti finanziari consorziati, a partire dal lancio ufficiale, avvenuto il primo luglio 2014, ha attivato circa 350 fatturatori tra privati e pa e registrato oltre 4 milioni di operazioni totali inizializzate, quasi esclusivamente su canale web, per un controvalore complessivo di oltre 850 milioni. «Dopo i buoni risultati ottenuti – aggiunge il dg - ci siamo anche impegnati in una specifica campagna di comunicazione verso le aziende e i cittadini con l’obiettivo di accrescere la conoscenza di Cbill e, più in generale, dei pagamenti elettronici». Il passaggio verso la digitalizzazione dei pagamenti si stimola anche così.
il manifesto 19.11.16
L’Italia non ha Podemos ma M5S. Come mai?
di Aldo Garzia
Come mai in Italia non c’è una sinistra dalle dimensioni elettorali e dalla forza attrattiva di Podemos, Linke, Syriza mentre quello spazio è occupato dai 5 Stelle? È un rompicapo a cui applicarsi in attesa del referendum del 4 dicembre. Il «caso italiano» dei decenni passati (la società più politicizzata d’Europa con la più ramificata sinistra politica e sociale) è infatti evaporato del tutto presentando ben altre anomalie e peculiarità.
La data fondamentale di passaggio ravvicinato è il 1989: «socialismo reale» in frantumi, «svolta» del Pci. Si aprì allora una violenta diaspora tra chi intendeva liquidare storia e patrimonio di quella sinistra e chi voleva provare a rinnovarla.
La «carovana» di Achille Occhetto non aveva ancoraggi ideali, se non un generico aprirsi al nuovo con una contemporanea presa di distanza dal socialismo europeo (l’ombra di Craxi).
Il fronte del «no» si divise invece all’interno del Pci tra i promotori di un nuovo partito (Sergio Garavini, Armando Cossutta, Lucio Magri e altri) e chi riteneva possibile rimanere nel «gorgo» (Pietro Ingrao, Aldo Tortorella, Giuseppe Chiarante e per una fase Fausto Bertinotti).
Rifondazione comunista finì per nascere più su una spinta emotiva di resistenza che su un progetto di ripensamento a fondo dell’esperienza comunista bisognosa di novità progettuali, organizzative e di innovative pratiche politiche. La segreteria di Bertinotti cercò di superare l’handicap dell’atto di nascita collocando Rifondazione sulla frontiera dei movimenti.
La rottura col governo Prodi nel 1998 e le successive scissioni (Comunisti unitari, Pdci, Sel) sui temi del governo e della collocazione politica hanno però reso via via impraticabile l’ipotesi di un partito neocomunista non testimoniale. Si è dimostrata inoltre assai fragile l’idea che il comunismo italiano potesse salvarsi indenne dallo tsumani grazie alla sua diversità positiva. A loro volta i movimenti – quello no gobal innanzitutto – non sono riusciti a occupare con una proiezione politica lo spazio lasciato libero (gli indignados e Podemos in Spagna sono l’esempio contrario).
Le «due sinistre» si sono successivamente allontanate ulteriormente, Pds-Ds da una parte e Rifondazione dall’altra. Una chance di rimescolare le carte la ha avuta Sergio Cofferati che tra il 2001-2003 coagulò intorno alla Cgil e a sé, sul tema della difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, di una sinistra dei diritti e del lavoro, una domanda che attraversava sia Rifondazione sia i Ds.
Poteva allora nascere un Partito del lavoro come riaggregazione di una nuova sinistra non più figlia solo della diaspora comunista e come alternativa al progetto di Partito democratico che andava decollando? È probabile. Ed è assai probabile che sarebbe cambiata pure la storia successiva delle due sinistre.
Resta tuttora un mistero la scelta di Cofferati di ghettizzarsi nel ruolo di sindaco a Bologna e di rinunciare perfino a una battaglia politica interna quando il Pd prese forma, riaprendola solo dopo la sua esclusione dalle liste regionali piddine in Liguria.
All’afasia di Rifondazione e al tentativo di Sel di avviare una controtendenza, ha fatto pendant la navigazione perigliosa del Pd voluto da Prodi, D’Alema, Veltroni, Rutelli. Quando la sinistra Ds di Fabio Mussi decise di non aderire al Pd echeggiando un refrain musicale dei Dik Dik («Io mi fermo qui»), le cose erano andate troppo oltre le previsioni di quella componente per modificarne il corso: non restava che tentare la risalita con Sel.
Dopo aver perso per strada Prodi e Rutelli, aver preso atto del «ritiro» di Veltroni, la conquista del Pd da parte di Matteo Renzi ha finito di fare la frittata e ha segnalato – a seconda del punto di osservazione – il fallimento del progetto Pd o il suo inevitabile inveramento. Mentre la sinistra si divideva e tentava riaggregazioni, diventava ancora più grave la crisi della politica italiana e iniziava a germogliare la fenomenologia che ha dato origine al Movimento 5 Stelle: corruzione dilagante, separazione abissale tra istituzioni, attività politica e vita reale, opinione pubblica sempre meno interessata ai partiti, rancore come reazione alle stagioni militanti.
La cosiddetta «antipolitica» ha così iniziato a dilagare senza che le due sinistre adottassero le contromisure.
Riforma della cultura politica e delle sue pratiche, questione morale non sono state ritenute priorità.
Ecco così che il grillismo è diventato capace di tenere insieme spinte trasversali di sinistra e di destra, sollecitazioni ambigue e contraddittorie socialmente unificandole in un generico ma motivato disprezzo per la politica e i partiti oltre che in una sbandierata deideologizzazione di riferimento.
Lo spazio politico ed elettorale che altrove è occupato a sinistra da Podemos, Linke e Syriza in Italia è saldamente presidiato dai 5 Stelle.
Ed è prevedibile che lo sarà anche nel medio periodo con concrete chance di andata al governo e di rifiuto di qualsiasi rapporto unitario con altri soggetti.
L’Italia non ha Podemos ma M5S. Come mai?
di Aldo Garzia
Come mai in Italia non c’è una sinistra dalle dimensioni elettorali e dalla forza attrattiva di Podemos, Linke, Syriza mentre quello spazio è occupato dai 5 Stelle? È un rompicapo a cui applicarsi in attesa del referendum del 4 dicembre. Il «caso italiano» dei decenni passati (la società più politicizzata d’Europa con la più ramificata sinistra politica e sociale) è infatti evaporato del tutto presentando ben altre anomalie e peculiarità.
La data fondamentale di passaggio ravvicinato è il 1989: «socialismo reale» in frantumi, «svolta» del Pci. Si aprì allora una violenta diaspora tra chi intendeva liquidare storia e patrimonio di quella sinistra e chi voleva provare a rinnovarla.
La «carovana» di Achille Occhetto non aveva ancoraggi ideali, se non un generico aprirsi al nuovo con una contemporanea presa di distanza dal socialismo europeo (l’ombra di Craxi).
Il fronte del «no» si divise invece all’interno del Pci tra i promotori di un nuovo partito (Sergio Garavini, Armando Cossutta, Lucio Magri e altri) e chi riteneva possibile rimanere nel «gorgo» (Pietro Ingrao, Aldo Tortorella, Giuseppe Chiarante e per una fase Fausto Bertinotti).
Rifondazione comunista finì per nascere più su una spinta emotiva di resistenza che su un progetto di ripensamento a fondo dell’esperienza comunista bisognosa di novità progettuali, organizzative e di innovative pratiche politiche. La segreteria di Bertinotti cercò di superare l’handicap dell’atto di nascita collocando Rifondazione sulla frontiera dei movimenti.
La rottura col governo Prodi nel 1998 e le successive scissioni (Comunisti unitari, Pdci, Sel) sui temi del governo e della collocazione politica hanno però reso via via impraticabile l’ipotesi di un partito neocomunista non testimoniale. Si è dimostrata inoltre assai fragile l’idea che il comunismo italiano potesse salvarsi indenne dallo tsumani grazie alla sua diversità positiva. A loro volta i movimenti – quello no gobal innanzitutto – non sono riusciti a occupare con una proiezione politica lo spazio lasciato libero (gli indignados e Podemos in Spagna sono l’esempio contrario).
Le «due sinistre» si sono successivamente allontanate ulteriormente, Pds-Ds da una parte e Rifondazione dall’altra. Una chance di rimescolare le carte la ha avuta Sergio Cofferati che tra il 2001-2003 coagulò intorno alla Cgil e a sé, sul tema della difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, di una sinistra dei diritti e del lavoro, una domanda che attraversava sia Rifondazione sia i Ds.
Poteva allora nascere un Partito del lavoro come riaggregazione di una nuova sinistra non più figlia solo della diaspora comunista e come alternativa al progetto di Partito democratico che andava decollando? È probabile. Ed è assai probabile che sarebbe cambiata pure la storia successiva delle due sinistre.
Resta tuttora un mistero la scelta di Cofferati di ghettizzarsi nel ruolo di sindaco a Bologna e di rinunciare perfino a una battaglia politica interna quando il Pd prese forma, riaprendola solo dopo la sua esclusione dalle liste regionali piddine in Liguria.
All’afasia di Rifondazione e al tentativo di Sel di avviare una controtendenza, ha fatto pendant la navigazione perigliosa del Pd voluto da Prodi, D’Alema, Veltroni, Rutelli. Quando la sinistra Ds di Fabio Mussi decise di non aderire al Pd echeggiando un refrain musicale dei Dik Dik («Io mi fermo qui»), le cose erano andate troppo oltre le previsioni di quella componente per modificarne il corso: non restava che tentare la risalita con Sel.
Dopo aver perso per strada Prodi e Rutelli, aver preso atto del «ritiro» di Veltroni, la conquista del Pd da parte di Matteo Renzi ha finito di fare la frittata e ha segnalato – a seconda del punto di osservazione – il fallimento del progetto Pd o il suo inevitabile inveramento. Mentre la sinistra si divideva e tentava riaggregazioni, diventava ancora più grave la crisi della politica italiana e iniziava a germogliare la fenomenologia che ha dato origine al Movimento 5 Stelle: corruzione dilagante, separazione abissale tra istituzioni, attività politica e vita reale, opinione pubblica sempre meno interessata ai partiti, rancore come reazione alle stagioni militanti.
La cosiddetta «antipolitica» ha così iniziato a dilagare senza che le due sinistre adottassero le contromisure.
Riforma della cultura politica e delle sue pratiche, questione morale non sono state ritenute priorità.
Ecco così che il grillismo è diventato capace di tenere insieme spinte trasversali di sinistra e di destra, sollecitazioni ambigue e contraddittorie socialmente unificandole in un generico ma motivato disprezzo per la politica e i partiti oltre che in una sbandierata deideologizzazione di riferimento.
Lo spazio politico ed elettorale che altrove è occupato a sinistra da Podemos, Linke e Syriza in Italia è saldamente presidiato dai 5 Stelle.
Ed è prevedibile che lo sarà anche nel medio periodo con concrete chance di andata al governo e di rifiuto di qualsiasi rapporto unitario con altri soggetti.