l’Unità 24.12.09
«Una campagna di calunnie per aggirare il congresso e spaccare il nostro partito»
La polemica sull’inciucio «Le mie dichiarazioni stravolte per un intento politico» Il dibattito sul dialogo «Se continuiamo così la destra potrà dire di volere le riforme senza farle»
intervista di Giovanni Maria Bellu
L’uso delle parole
«Elogio dell’inciucio» è un
titolo falso. Se la cronista
non avesse usato quel
termine non ci sarebbe
stata questa polemica
I giornali della destra
I complimenti a D’Alema?
Atteggiamento
strumentale favorito dalla
drammaticità della nostra
discussione interna
Leggi ad personam
Berlusconi ha i voti per
approvarsele. Ma
una cosa è certa: noi
del Partito Democratico
voteremo contro
Accettare il confronto
Veltroni dopo le elezioni
ha parlato di comune
responsabilità sulle
riforme. Ha cambiato idea
dopo il congresso?
Gli azionisti
Sì, in quell’intervento ho
fatto un errore: ho
accostato l’antipolitica
all’azionismo. Che invece
era una cosa seria
È un Massimo D’Alema piuttosto irritato quello che incontriamo nel suo ufficio della «Fondazione Italianieuropei» in
piazza Farnese. Tiene in mano una copia di Repubblica di qualche giorno fa col titolo: «D’Alema elogia l’inciucio». È di questo che vuole parlare. Non del suo prossimo futuro. Dà una risposta formale alla ovvia domanda sulla sua candidatura al Copasir, il comitato che controlla i servizi segreti, puntualizzando che si tratta dell’unica commissione parlamentare la cui presidenza spetta per legge all’opposizione e che, dunque, dopo le dimissioni di Francesco Rutelli l’avvicendamento dovrà avvenire in quell’ambito. Poi saranno altri i presidenti dei gruppi, il segretario a decidere: «Se si riterrà che possa svolgere quel ruolo, e credo di essere in grado, bene. Se no amici come prima. Ho sempre considerato con un certo distacco il tema delle cariche».
Quel titolo sull’inciucio è la causa immediata di un’irritazione che ha origini lontane e una storia lunga una quindicina d’anni. D’Alema avverte nitidamente che all’interno della sinistra (una parte minoritaria nella sinistra e “minoritarissima nel paese”, dice) c’è chi attribuisce a lui tutti i mali. Glielo confermiamo: gli abbiamo portato una cartella che raccoglie una selezione dei messaggi più antidalemiani giunti ai blog de l’Unità. Non è necessario aprirla. D’Alema sa bene di chi e di che cosa parliamo. E questo, più che irritarlo, lo fa infuriare. Non solo perché si tratta di accuse che lo feriscono. E nemmeno soltanto perché dice «portano la sinistra in un vicolo cieco e Berlusconi (se Scapagnini troverà la medicina) al governo fino all’anno Tremila». No, c’è dell’altro. Un sospetto pesante: che sia in atto un tentativo di spaccare il Partito democratico. Un tentativo che, dice, passa anche attraverso i mezzi d’informazione.
«Ecco comincia indicando il titolo sull’elogio dell’ inciucio questo è tecnicamente un falso. Non ho mai elogiato l’inciucio. Ho anche la registrazione di quel dibattito e chi vuole può verificare. È successo che Chiara Geloni, la giornalista che mi intervistava, ha usato quel termine. Ha domandato: “Come ci si sente a essere considerati erede della tradizionale del Pci e anche traditore di quella storia, cioè quello che fa gli inciuci?” E io ho risposto che i comunisti italiani, a partire da Togliatti, hanno sempre dovuto fare i conti con un’accusa del genere. Poi ho proseguito con degli esempi. Tutto qua. È del tutto evidente che se la giornalista non avesse usato la parola inciucio tutta questa polemica non sarebbe mai nata».
Invece è nata. Forse la parola “inciucio” ha ormai una valenza così negativa che è sempre meglio tenersene alla larga.
«Non è questo il punto. La questione è che io sono stato chiarissimo. Un
titolo come questo, accompagnato alle considerazioni sulla riforma della giustizia, è falso. Ed è un modo di informare che ha l’effetto di avvelenare il dibattito politico. Non da oggi, purtroppo...»
Ha parlato di "campagna", a cosa si riferisce? «A volte si ha l’impressione che più che di informare si abbia l’obiettivo di condizionare il nostro partito. Forse non è piaciuto l’esito del congresso. Forse qualcuno pensa che si debba scardinare la maggioranza che lo ha vinto, isolando D’Alema e condizionando Bersani. Sono intenti politici. È incredibile perseguirli distorcendo le informazioni e lanciando accuse calunniose e indimostrate. Quali sarebbero, in tutti questi anni, gli accordi sottobanco che avremmo fatto con Berlusconi? Sarei curioso di sentire l’elenco».
Non esiste la lista attuale. Ma esiste una lista relativa ai quindici anni. All’inizio c’è il famoso discorso del ’94 nel quale Violante parlò di una “garanzia” data a Berlusconi sulle sue tv. Poi la Bicamerale...
«Quanto al primo punto la domanda dovrebbe essere fatta a Violante, ovviamente. Nei fatti sono l’unico che ha cercato di far approvare una legge efficace sul conflitto di interessi quando era presidente del Consiglio, come ha ricordato il senatore Passigli in un suo libro. L’unico argine, per quanto modesto, all’uso politico delle tv da parte di Berlusconi durante le campagne elettorali è la par condicio, che fu proposta da me quando ero al governo. E ricordo bene che allora c’erano alcuni antiberlusconiani militanti che si opposero perché, dicevano, si trattava di una limitazione alla libertà di espressione...»
In questi giorni Libero e il Giornale, i quotidiani più violentemente berlusconiani, sono pieni di elogi per lei. Che ne pensa?
«Sono stato uno dei principali bersagli di quei giornali e, a volte, lo ero contemporaneamente dei giornali schierati sul fronte opposto. È evidente che c’è un atteggiamento strumentale favorito dalle drammaticità della nostra discussione interna. In questo modo, la destra cerca di guadagnare il vantaggio del presentarsi come la forza che vuole fare le riforme, senza neppure rischiare di doverle fare davvero. Comunque non sono interessato a nessuna strumentalizzazione e non intendo essere il referente di alcuno. Chi vuole discutere serenamente col nostro partito deve discutere col segretario Bersani e non cercarsi gli interlocutori in modo furbesco e strumentale».
A sinistra c’è chi teme la trappola. Che, cioè, questa disponibilità della destra al dialogo sia finta. «Non so se la disponibilità della destra sia vera o sia finta. Il modo migliore per appurarlo è lanciare la sfida delle riforme e aprire il confronto nel merito. Questa è la politica di una forza riformista che vuole essere utile al paese.
Se la destra si tirerà indietro pagherà un prezzo. Mi rendo perfettamente conto che Berlusconi non è un avversario politico normale. È stato infatti difficilissimo prendergli le misure, ma noi non possiamo cadere vittime della sindrome secondo cui di fronte a Berlusconi non è possibile fare politica. Anche perché, in questo modo, favoriamo soltanto i suoi successi. Prendiamo la vicenda della Bicamerale. Berlusconi fece fallire le riforme che sarebbero state utili al paese. Una parte della sinistra, facendogli così un grande favore, anziché criticare lui per essere stato causa di questo fallimento, ha attaccato me per averci provato».
I timorosi della trappola dicono che Berlusconi vuole solo quello di salvarsi dai suoi guai giudiziari. «Guardi che se Berlusconi vuole fare una leggina ad personam ha la maggioranza. Noi abbiamo detto con chiarezza che voteremo contro. Altre sono le riforme che riteniamo necessarie per l’Italia: una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di scegliere i loro rappresentanti, una riforma che renda più forte il Parlamento riducendo il numero di deputati e senatori e che segni il superamento in senso federalista del bicameralismo perfetto. E altre ancora contenute nella cosiddetta “bozza Violante”. Andiamo al merito senza agitare fantasmi». C’è chi dà per scontato che con Berlusconi sia inutile dialogare. I nostri blog sono pieni di messaggi così. «Noi non dobbiamo fare nessun particolare dialogo. Siamo in Parlamento e ci stiamo per affrontare i problemi del paese, confrontandoci con quanti dell’altro schieramento sono stati eletti dai cittadini. Sinceramente non conosco altro modo di fare politica per una grande forza democratica e riformista. Questa è la politica che il congresso del nostro partito ha approvato».
Ci sono tanti modi di fare politica. Per esempio quello che si è visto il giorno della manifestazione indetta dai blogger. Non teme di perdere questo pezzo dell’opposizione? «Non voglio perdere nessuno, ma la linea politica del nostro partito non può essere decisa dai blogger che indicono le manifestazioni. Ho massimo rispetto per loro e per le manifestazioni che organizzano. Ne capisco le ragioni, perché anch’io non ho nessuna simpatia per Berlusconi. Ma i partiti hanno un ruolo diverso».
Scusi, ma che differenza c’è tra dirsi “antiberlusconiani” e dire “non mi piace Berlusconi?”. Perché non dire che si può essere antiberlusconiani e volere le riforme?
«Non ci si qualifica per essere “anti” qualcosa. Noi siamo “per”. Per la difesa dei diritti di libertà e dei diritti sociali. Vogliamo affermare le nostre idee e i nostri valori. Non si può riassumere tutto questo nell’essere contro qualcuno. Anche perché il bipolarismo continuerà a esserci anche dopo la fine dell’era Berlusconi. Questa impostazione che ruota in modo ossessivo attorno al leader della maggioranza è subalterna. In effetti ci sono due forme di subalternità: la demonizzazione e la divinizzazione. Veltroni ha fatto la campagna elettorale all’insegna della non demonizzazione di Berlusconi, fino a non nominarlo, e all’indomani delle elezioni ha sottolineato la comune responsabilità con il presidente del Consiglio in materia di riforme costituzionali. Sarebbe strano se avesse cambiato idea solo perché Bersani è diventato segretario del partito».
A proposito di opposizione divisa. È dai pasdaran berlusconiani che arriva al Pd la sollecitazione a rompere con Di Pietro come condizione per rasserenare il clima politico.
«Con Di Pietro siamo alleati, stiamo andando assieme alle regionali. Con Di Pietro, e in qualche situazione, con l’Udc e con altri. A me interessa il merito delle riforme. E credo di essere tra quelli che hanno lavorato di più con proposte, ricerche, convegni, documenti...»
Da dove ritiene che si debba ripartire?
«Insieme alla “bozza Violante”, si dovrebbe avere il coraggio di proporre la riforma elettorale. Sono convinto che la soluzione migliore sia un sistema di tipo tedesco che ci consenta di uscire dalla logica dei blocchi elettorali e restituisca ai partiti il loro profilo. Non vogliamo più partiti che sono degli insiemi e dove l’unico tratto di riconoscibilità è nel capo. Questa è l’esaltazione della politica plebiscitaria perché alla fine si vota tra due capi. Si deve tornare a una legge dove gli elettori possono votare per una persona e per un partito. Questa forma plebiscitaria dove si elegge nello stesso momento il presidente del Consiglio e il Parlamento non esiste in alcuna parte del mondo».
Ma il Pd reggerebbe a una legge elettorale alla tedesca? «E proprio un’idea povera del Pd pensare che si tratti di un agglomerato tenuto insieme dalla convenienza elettorale. Io non lo penso. Anzi, credo che si tratti di una forza politica che nasce dalla storia dell’Ulivo, che ha ragioni profonde, non transitorie ed effimere».
Cosa direbbe a un giovane blogger terrorizzato dall’inciucio? «Non penso che il blogger di cui lei parla sia tanto giovane. Credo sia un po’ più agée. Quelli giovani si preoccupano piuttosto di quanto si è fatto col clima a Copenhagen, non di queste storie...» Allora cosa direbbe al blogger agée. Insomma, presidente d’Alema, torniamo a quelli di cui si parlava all’inizio. Quelli che a sinistra diffidano, che l’accusano di essere all’origine di tutti i mali. Pensa che sia possibile recuperare un rapporto, spiegare, chiarire?
«Intanto sarebbe utile studiare e capire meglio quello che è accaduto davvero in questi quindici anni. E poi gli direi di considerare con rispetto quell’altra parte della sinistra che non la pensa come lui». Ma non c’è un punto da cui ricominciare?
«Cominciamo a dire la verità. E ripartiamo dal rispetto reciproco. La destra in questo riesce meglio di noi: discutono, ma sono ben attenti a non demolirsi tra loro. La demonizzazione sistematica della propria classe dirigente, che per un partito è un patrimonio, è un esercizio autolesionistico. Se continuiamo a demolirla restano solo i dirigenti dell’altra parte». Ripeterebbe le frasi che hanno scatenato le ultime polemiche?
«Sì, con la speranza che vengano riportate in modo corretto. Con una sola esclusione. In quel discorso ho fatto un errore, e devo riconoscerlo. Ho accostato la brutalità dell’antipolitica all’azionismo. Si è trattato di un accostamento improprio e frettoloso. L’azionismo era una cosa seria e mi sembra sbagliato accostarlo a certi demagoghi di oggi».❖
l’Unità 24.12.09
Carceri, record nero 2009
171 le vittime, 70 suicidi Ieri gli ultimi due casi
di Davide Madeddu
Nelle carceri italiane sempre più sovraffollate e inadeguate, si continua a morire. Ieri altri due detenuti si sono tolti la vita. Un ex assessore di Nove, impiccato nel carcere di Vicenza, e un collaboratore di giustizia a Rebibbia.
Natale da galera. Che si tratti di bambini, donne con prole o “matti che dovrebbero stare altrove” non fa differenza. Le feste che i 66mila detenuti trascorreranno nelle carceri d’Italia saranno all’insegna della disperazione. Dietro le sbarre, infatti, cresce il numero dei detenuti, aumentano i disagi, si riducono i servizi e cresce il numero dei morti. Anche a Natale. Il triste bollettino che quotidianamente viene compilato dal centro studi di Ristretti Orizzonti, diretto da Ornella Favero, parla di 171 morti (70 suicidi) dietro le sbarre dall’inizio dell’anno: «il dato più alto e triste nella storia delle carceri». Gli ultimi due sono di ieri. Il primo al carcere di Vicenza dove Plinio Toniolo, 55 anni, artigiano, ex assessore del Comune di Nove (Vicenza) si è impiccato con un lenzuolo; il secondo, Ciro Giovanni Spirito, vicino al clan Mazzarella, collaboratore di giustizia dal 2006, si è tolto la vita nel carcere di Rebibbia.
SOVRAFFOLLAMENTO: SI DORME A TURNO
A fare i conti con le storie di «ordinaria disperazione» che si registrano dietro le sbarre ci sono poi gli operatori e i volontari. L’esercito invisibile che quotidianamente si impegna per dare un sostegno o, molto più semplicemente voce, a chi cerca di pagare il
debito con la società in una cella angusta. «Che la situazione sia ormai drammatica e allucinante è chiarissimo ed eloquente. E questo, per detenuti e operatori sarà un Natale all’insegna della disperazione denuncia Riccardo Arena, avvocato e conduttore di Radiocarcere su Radio Radicale ormai abbiamo superato anche il limite della cosiddetta sopportazione umana. La gente è costretta a fare i turni per poter al massimo dormire un’ora». Cita il caso di Padova dove c’è stata una rivolta dei detenuti. «Nelle celle di 8 metri quadri i letti sono a tre piani, e i detenuti dormono a turno perché non sanno dove mettersi dice se questo non è un caso che supera ogni limite tollerabile. Senza dimenticare poi quelli che in carcere non dovrebbero metterci piede ma dovrebbero stare altrove»
I BAMBINI DENTRO
A fare i conti con il sovraffollamento, ma anche i disagi che un’eccessiva presenza di detenuti comporta sono anche i bambini. Gli 80 innocenti che trascorrono i primi 3 anni di vita all’interno delle celle e gli altri 25mila che i giorni dei colloqui varcano le cancellate delle prigioni per salutare i parenti detenuti. «Il problema è sempre lo stesso, i bambini in carcere non dovrebbero starci e invece ci stanno dice Lillo di Mauro della Consulta penitenziaria di Roma con il risultato che i piccolissimi trascorrono i mille giorni più importanti e belli della loro esistenza dietro le sbarre delle carceri». Non sono gli unici però. «A fare i conti con le guardie, le perquisizioni e i controlli ci sono anche i 25mila bambini e bambine che entrano in carcere e vanno a trovare un parente detenuto».❖
l’Unità 24.12.09
Circondata la moschea a Isfahan, violenze sulla folla riunita nel nome di Montazeri: 50 arresti
La condanna di Khatami «Errore considerare traditore chi protesta. Rischiamo la tirannia»
Teheran, il regime minaccia: «Stop ai cortei o scontro duro»
di Marina Mastroluca
Polizia e basiji attaccano la folla riunita ad Isfahan per una cerimonia in memoria di Montazeri. Cinquanta arresti, molti feriti. Scontri anche a Najafabad. Il capo della polizia promette la massima durezza.
Il tam tam del web
I siti dell’opposizione: «Attaccano la gente con bastoni, pietre e catene»
Terzo giorno di lutto per l’ayatollah dissidente Montazeri e la protesta torna ad accendere le strade dell’Iran. Scontri, arresti e violenze sui manifestanti, polizia e basiji si sono accaniti sulla folla che ad Isfahan cercava di radunarsi intor-
no alla moschea di Sayed, dove avrebbe dovuto svolgersi una cerimonia di preghiera in memoria di Montazeri. L’edificio è stato circondato, la gente allontanata brutalmente con manganelli e gas lacrimogeni: ci sarebbero molti feriti e una cinquantina di arresti, fermati anche quattro giornalisti. Scontri e violenze anche nella città natale dell’ayatollah scomparso, Najafabad, dove già nella notte ci sarebbero stati incidenti proseguiti poi nella giornata di ieri. «La situazione in città è tesa. La gente scandisce slogan contro il governo».
Notizie frammentarie che arrivano attraverso i siti internet dell’op-
posizione. Impossibile verificare, in Iran non sono ammessi reporter stranieri. Ma del clima che si respira in questi giorni nel Paese ne dà una conferma indiretta il capo della polizia Esmail Ahmadi Moqadam, che ieri ha messo in guardia l’opposizione. «Ponete fine alle manifestazioni o ci sarà un confronto durissimo».
Ad Isfahan poliziotti in borghese e basiji hanno circondato anche la casa dell’ayatollah riformista Jalaledin Taheri, che aveva invitato la gente a partecipare alla preghiera per Montazeri. «Ho provato a raggiungere la moschea da sei strade diverse ma erano tutte bloccate», ha detto l’ayatollah, citato dal sito Parlemannews. «I manifestanti gridavano slogan contro le massime autorità dello Stato. Li hanno colpiti, inclusi donne e bambini, con bastoni, catene e pietre», riferisce un altro sito riformista, Rah-e-Sabz.
L’ex presidente moderato Khatami ha condannato le violenze sui manifestanti. «Chiamare traditore chiunque protesti, è una grave deviazione e dovrebbe essere corretta ha detto -. Khomeini credeva che la repubblica islamica fosse basata su due pilastri, libertà e indipendenza. Se questi pilastri vacillano... avremo di nuovo la tirannia». Il livello dello scontro è altissimo. Il leader dell’opposizione Mousavi è stato rimosso dall’ultimo incarico pubblico che gli era rimasto, quello di presidente dell’Accademia delle Arti. Dopo 11 anni.
CONTROMANIFESTAZIONE
Già lunedì scorso c’erano stati incidenti a Qom, in occasione dei funerali di Montazeri. Decine di migliaia di persone avevano invaso la città santa, scandendo slogan contro il governo, in quella che è sembrata una nuova fiammata dell’opposizione, il ritorno in piazza dell’«onda verde» dopo le proteste seguite alle elezioni presidenziali -truffa del giugno scorso. Martedì e di nuovo ieri a Qom si è radunata invece una contro-manifestazione pro-governativa, per condannare «le profanazioni» commesse durante i funerali dell’ayatollah dissidente. «È l’ultima volta che accade una cosa simile a Qom. Questo non è posto per gli ipocriti», ha detto il grande ayatollah Hamedani parlando alla folla.❖
l’Unità 24.12.09
«Radiotre contro il silenzio sociale» Sinibaldi rinnova la rete
Nel palinsesto
Variazioni e programmi nuovi come «Tutta la città ne parla»
«Radiotre è nata per incrinare un certo elemento di diffidenza verso la cultura, come sfida al senso e al gusto comune, per creare un ambiente di confronto civile». Lo afferma Marino Sinibaldi, neodirettore di rete, dell’ottima rete aggiungeremmo, parlando del suo progetto che si lega al passato (dalle origini con Gadda, Mortari e altri, sino alla direzione di Enzo Forcella), «a qualcosa che ha aiutato a crescere il paese» e cerca un nuovo linguaggio per il palinsesto al via l’11 gennaio. «Il palinsesto è l’ultima cosa, è come giudicare una persona dal suo scheletro, l’importante è il modo, il linguaggio scelto continua e se gli ascoltatori affermano sempre che la radio tiene loro compagnia, io lo vedo come il mezzo dell'accompagnamento, che offre la parola della radio contro il silenzio, non solo personale, ma quello sociale».
Accanto a trasmissioni solide, amate, da Radio3 suite o Fahrenheit, parte dalle sei di mattina Qui comincia..., «che apre alla narrazione del mondo di quel giorno», si passa per la classica lettura e discussione sui giornali di Prima pagina da cui prende spunto il nuovo Tutta la città ne parla. «Non partiamo certo da Palazzo Grazioli, ma almeno da Copenaghen, dal mondo che oggi è il nostro cortile continua Sinibaldi cui poi ovviamente si arriva, perchè l'ascoltatore spesso riporta tutto a un piano più vicino a lui». Seguirà Chiodo fisso, dieci minuti al giorno su uno stesso tema per un mese (si inizia con l'Africa, poi ci sarà il Lavoro o la Bicicletta) e in tarda serata a Tre soldi farà rivivere il radiodocumentario partendo da uno speciale sui campi profughi in Libia.
La musica, Sinibaldi sottolinea, su Radio3 non ha meno peso della parola e promette con le «musiche inaudite, nuove, di rottura» in Alza il volume, passando per Sei gradi per ogni genere di musica arrivando alle eccellenti Radio3suite e Battiti (va dopo mezzanotte) che alla festa annuale dell’emittente a Cervia quest'anno gestirà una discoteca. In più omaggi d’artista: a Natale Shel Shapiro canterà E la pioggia che va, e la pittrice astratta Carla Accardi donerà un suo disegno.❖
Repubblica “24.12.09
Anniversari/ Nel 2010 ricorrono i sessant´anni di Radiotre
Quel che resta del pubblico colto
Come è cambiata la ricezione di un mezzo che ha avuto tra i suoi protagonisti Gadda e Forcella. Ecco il programma del neo direttore Marino Sinibaldi
di Simonetta Fiori
Preparandosi al sessantesimo compleanno, Radiotre si rinnova senza rinunciare ai propri blasoni e senza cancellare una tradizione culturale che è stata importante nella costruzione civile italiana. Non è certo facile la sfida raccolta dal neo direttore Marino Sinibaldi, voce storica di Fahrenheit, nel guidare la rete intellettuale per eccellenza in un paese spaesato, sempre meno sensibile ai valori culturali e sempre più segnato dai consumi di massa. Qualcosa però si può fare. Si può tentare di cambiare il linguaggio. Meno autoreferenziale, libero da civettamenti con il pubblico colto. «Bisogna abolire la formula "come tutti sanno"», dice Sinibaldi nel presentare la nuova filosofia di Radiotre. Mai dare niente per scontato. Se il celebre manuale di Gadda Norme per la redazione di un testo radiofonico andava bene per una stagione ormai lontana, ora è necessario trovare altri codici.
La sfida al gusto comune - sostiene Sinibaldi - è nella vocazione di Radiotre. Oggi, in "un paese rattrappito dalla paura del diverso" e "immerso in un assordante silenzio delle idee", la nuova sfida consiste nel creare una "zona di comunicazione civile" che metta a confronto opinioni diverse. Le novità del palinsesto vanno in questa direzione. Da Tutta la città ne parla a Chiodo fisso, da Zazà a Il Cantiere - un programma che riceve i lavori confezionati da corsi universitari e da gruppi giovanili - il segnale lanciato dalla nuova Radiotre è di sempre maggiore apertura a una comunità pensante, dotata di qualità e competenze superiori a quelle mostrate dal ceto politico e anche giornalistico. «Non ci saranno politici in tutta la giornata di Radiotre», è l´impegno di Sinibaldi, che evoca mestamente il rituale servile dei dirigenti rai pronti ad accogliere negli studi radiofonici deputati o governanti.
La lezione rimane quella di Enzo Forcella, di un´idea della cultura che accende conoscenza e immaginazione. «Siete un´isola di consolazione in un panorama catastrofico», dice Corrado Augias, intervenuto all´incontro insieme a Goffredo Fofi, Valentino Parlato e Paolo Franchi. «Una penisola», corregge Sinibaldi, difendendo i legami con il resto del paese. Un formidabile strumento "che fa compagnia agli ascoltatori", lenendo molte solitudini, anche di tipo intellettuale.
Repubblica 24.12.09
Nichi è un traditore solo io posso battere Fitto e compagni"
Emiliano: sono al 60 per cento
Ma quale legge ad personam, va cambiata perché incostituzionale: i rivali non mi preoccupano, devo fare questa cosa e basta
BARI - Michele Emiliano, sindaco di Bari, sarà una legge elettorale ad personam a permetterle di candidarsi per il centrosinistra alla guida della Regione Puglia nel 2010?
«Quella legge va cambiata perché è incostituzionale: lede i diritti delle persone costringendole ad un atto inutile».
Così come stanno le cose ora, dovrebbe dimettersi dalla carica di sindaco prima di scendere in campo per le regionali. Un emendamento che l´assemblea pugliese discuterà il prossimo 19 gennaio, prevede di cancellare l´ineleggibilità.
«La legge ad personam è quella in vigore. Era stata fatta apposta per impedire che l´allora sindaco di An a Lecce, Adriana Poli Bortone, potesse concorrere per diventare presidente della Regione senza dimettersi dal municipio».
Lunedì 28, intanto, l´assemblea del Pd di cui è il presidente stabilirà se farle indossare la maglia del competitore.
«O dentro o fuori. Io non ci sarò: così ogni democratico potrà dire liberamente quello che pensa sul conto del sottoscritto».
Tutti pensano che sia Massimo D´Alema a volere Emiliano al posto di Nichi Vendola, il governatore comunista in carica.
«D´Alema non sta imponendo niente a nessuno. Ragiona, piuttosto».
Secondo il lìder Massimo, Emiliano è un candidato «molto forte». Più forte di Vendola, che non attirerebbe i voti dell´area moderata.
«In Puglia il mio indice di gradimento è vicino al 60 per cento. Io vinco anche se sulla barca del centrosinistra non salisse Vendola. Ho la meglio contro tutti».
Compreso il candidato del Pdl?
«C´è una "anima di Dio", Stefano Dambruoso, che sta lì in attesa di sapere se arriverà o non arriverà la telefonatina».
La telefonatina?
«Sì, quella che basta a Silvio Berlusconi per cambiare il nome del candidato del Popolo della libertà».
Contro Emiliano il Gladiatore, fuori Dambruoso e dentro il sottosegretario Alfredo Mantovano?
«Mantovano o Dambruoso, per me è indifferente. I rivali non mi preoccupano. Devo fare questa cosa, e basta».
I baresi, però, appena sei mesi fa l´avevano confermata a Palazzo di città e adesso si ritrovano un sindaco in fuga verso altri lidi. La prenderanno male?
«Non temo l´effetto boomerang. La verità è che bisogna fare qualsiasi cosa per evitare di riconsegnare il governo della Regione nelle mani di Fitto e compagni».
Vendola che corre in nome e per conto di tutto il centrosinistra, non va bene?
«Se l´Udc sta con noi, trionfiamo. Diversamente, ci ammazzeremmo tutti. Quanto a Vendola, è un traditore».
Cioè?
«Al congresso del Pd avrebbe dovuto lavorare per sostenermi e farmi avere la meglio quando celebrammo le primarie. Perché se fossi rimasto segretario del partito, com´era dal 2007, Nichi sicuramente sarebbe stato il candidato di tutto il centrosinistra. Senza l´Udc. Ma a quel punto, sarei bastato io al posto dell´Udc per attirare le preferenze dei moderati».
C´entra con la scelta di isolare Vendola lo scandalo della sanità esploso d´estate, che travolge l´assessore alla Salute Alberto Tedesco?
«E´ colpa sua se Tedesco faceva l´assessore alla Salute. Poi, dopo la bufera giudiziaria, lo stesso Vendola mi ha chiesto di fare di tutto perché Tedesco fosse nominato senatore per toglierlo di mezzo».
Emiliano e Vendola, fratelli coltelli?
«La verità è che non c´è più il clima politico del 2005. Io e Vendola ci vogliamo bene e basta. Faccia la sua battaglia. Ha il dovere di gareggiare. Ma credo che riuscirà a sopravvivere politicamente solo se entrerà nel Pd».
(l. p.)
Repubblica 24.12.09
Scoppia la polemica. Di Pietro: "Il suo cuore resta nero"
La gaffe di La Russa "X Mas corpo di eroi"
di Giovanna Casadio
ROMA - Ignazio La Russa sostiene di non avere fatto nessuna gaffe. A Livorno, alla caserma Vannucci, il ministro della Difesa ha elogiato i corpi militari speciali ricordando la Decima Mas: «Siete eredi della non dimenticata Decima Mas». Un rigurgito di nostalgia, il ricordo rivolto a Junio Valerio Borghese, alla Repubblica sociale e agli ultimi colpi di coda del fascismo? La Russa nega. Assicura di avere voluto solo riferirsi all´eroismo riconosciuto di quel corpo speciale. «Come per El Alamein...». Ma si accende la polemica. Antonio Di Pietro gli dà del «cuore nero»: «La lingua batte dove il dente duole; ci si nasce...». E La Russa - militante nero sin da ragazzino, missino che ha condiviso la svolta di Fiuggi con Gianfranco Fini e ora l´approdo nel Pdl di cui è coordinatore - per il leader di Idv ed ex pm è «un nostalgico».
«È l´unico ministro della Difesa che negli ultimi trent´anni abbia ricordato la Decima Mas - si sfoga Ettore Rosato, del Pd - ed è una cosa che non fa onore neppure agli uomini del Comsubin», i militari incursori della Marina ai quali il ministro direttamente si rivolgeva. «Non era necessaria questa lode in quel contesto, in nessun contesto».
Duro il commento di Filippo Penati, coordinatore della segreteria del Pd: «Davvero un elogio di cui non si sentiva il bisogno soprattutto da parte di un ministro della Difesa. Avremmo preferito ascoltare parole che riguardassero un accenno ai nostri militari come presidio di democrazia piuttosto che frasi che portano a un passato che alla coscienza democratico di quei cittadini che amano la libertà - a cui si è rivolto recentemente lo stesso Berlusconi - non suscita alcuna nostalgia». E Roberta Pinotti, ex presidente della commissione Difesa della Camera, democratica, rincara: «Ricordando che non è la prima volta e che poi, La Russa deve sempre precisare e chiarire, gli consiglierei di lasciare da parte le emozioni per un passato che l´Italia repubblicana ha combattuto e di concentrarsi sui messaggi da dare alle nostre Forze armate che rispondono alla Costituzione nata dalla lotta di Liberazione». «La Russa perde il pelo ma non il vizio...», rimarca il Pdci di Diliberto.
«Macché nostalgie - ne prende le difese Alessandra Mussolini - Ormai non c´è più la coda di paglia a destra. I militanti ex An hanno fatto passi in avanti stabili: se c´è un riferimento è alla storia e lo si può fare. Fini ha fatto fare un percorso sostanziale. E se una volta, molti della destra stavano attenti anche alla battuta, non io ma per me è stata anche una questione familiare - ribadisce la nipote del Duce - ora ci si può permettere una considerazione come chiunque, senza sospetti di nostalgie».
Repubblica 24.12.09
I fantasmi dell’antisemitismo nell’est europeo
di Timothy Garton Ash
Tra l´Hanukkah e il Natale, l´insegna sopra l´ingresso del campo di sterminio di Auschwitz è stata rubata. La polizia polacca l´ha recuperata e ha catturato i ladri che, a quanto sembra, hanno agito su commissione per qualcuno all´estero. Si fa fatica a immaginare che genere di essere umano desideri avere qualcosa del genere nella sua collezione privata. Nonostante tutti gli omicidi di massa perpetrati, la schiavitù e la tortura inflitti in tempi successivi, Auschwitz resta, per un europeo della mia generazione, il Simbolo della malvagità umana del nostro tempo.
Questo grottesco episodio chiude un anno in cui i rapporti tra cristiani ed ebrei in generale, tra cristiani polacchi ed ebrei polacchi in particolare, sono stati nuovamente oggetto di dibattito. I fantasmi del tormentato passato est europeo aleggiavano sinistri nei corridoi di Westminster mentre i conservatori britannici annunciavano l´alleanza in seno al Parlamento europeo con un gruppo di partiti di destra, principalmente del centro e dell´est Europa, ponendo i loro parlamentari sotto la guida di Michal Kaminski, del partito polacco Legge e Giustizia.
Nel contesto della polemica che ne è scaturita, l´autore e comico Stephen Fry si è così espresso: «Il cattolicesimo di destra ha un passato profondamente inquietante per chi conosce un poco la storia e ricorda da che lato del confine si trovava Auschwitz». Davvero la storia la conosce poco. Incolpare i cattolici polacchi dello sterminio nazista in un campo situato in territorio polacco annesso alla Germania, in cui furono imprigionati e morirono anche cattolici polacchi, è talmente assurdo che l´affermazione di Fry è stata accolta da una valanga di critiche. E Fry, bisogna darne atto, ha immediatamente fatto ammenda. Ma non è solo la follia di un inglese. Guardando il servizio di una televisione tedesca sul processo a John Demjanjuk qualche settimana fa, mi sono stupito nel sentirlo identificare come una guardia «nel campo di sterminio polacco di Sobibor». In che tempi viviamo se una delle maggiori reti televisive tedesche pensa di poter definire «polacchi» i campi nazisti?
Stando alla mia esperienza, in Europa occidentale e in Nord America è ancora diffusa l´equazione tra Polonia, cattolicesimo, nazionalismo e antisemitismo – e da lì al concorso di colpa nell´Olocausto il passo è breve. Questa accusa collettiva non rende giustizia alle testimonianze storiche. Non lascia spazio ad esempio all´incredibile vicenda di Witold Pilecki, ufficiale polacco che si offrì volontario per una missione mirata a scoprire cosa avveniva ad Auschwitz. Si fece arrestare e rimase nel campo per due anni e mezzo, inviando rapporti all´esterno e organizzando cellule di resistenza, per poi evadere. Combatté in seguito nella rivolta di Varsavia contro i nazisti e visse gli ultimi mesi di guerra in un campo Pow. Venne quindi arrestato e torturato dalla polizia segreta comunista nella Polonia occupata dai sovietici e giustiziato nel 1948. Questa generica stereotipizzazione provoca nei polacchi una reazione di difesa ostacolandoli nel processo di fare i conti con un passato profondamente inquietante di antisemitismo polacco e cattolico. (Non limitato alla destra: il partito comunista polacco fu scosso dalla famigerata campagna anti-semita nel 1968). Soprattutto negli ultimi vent´anni, da quando la Polonia ha riconquistato la libertà, si sono fatti dei passi avanti nei conti con il passato. All´inizio di questo decennio uno storico ha rivelato l´orrenda carneficina di ebrei compiuta nella cittadina di Jedwabne, nella Polonia orientale, per mano dei loro concittadini cattolici nella primavera del 1941, dando vita ad un «dibattito straordinariamente approfondito e straordinariamente coraggioso», come l´ha definito Konstanty Gebert, scrittore ebreo polacco. Sulla scia di tale dibattito, sostiene Gebert, «il paese ha subito una seria trasformazione morale».
Non recedo in alcun caso dal mio atteggiamento critico nei confronti della nuova alleanza stretta dai conservatori britannici in seno al Parlamento europeo, ma il giudizio politico deve essere scisso da quello storico e morale. Il linguaggio dell´odierna politica di partito con le sue frasi prefabbricate e le sue disinvolte mezze verità è così pateticamente inadeguato ai terrori di Auschwitz e all´eroismo di un Pilecki, che il solo atto di accostare quel gergo sintetico a simili realtà ha il sapore di un sacrilegio. Esiste un giudizio politico, ai fini del quale le affermazioni di opportunisti di destra come Kaminski nel dibattito su Jedwabne qualche anno fa hanno attinenza, pur essendo di secondaria importanza. Esiste un giudizio storico, che possiamo esprimere grazie alla sempre maggiore conoscenza della reale complessità della storia ebraica ed est europea. Esiste un giudizio giuridico che deve avere come oggetto chi si è macchiato di crimini contro l´umanità. Ma al di là di tutto questo esiste la dimensione dell´interpretazione umana che forse solo il linguaggio dell´arte riesce a comprendere appieno. Se volete capire cosa intendo, acquistate o elemosinate o rubate uno degli ultimi biglietti disponibili per la straordinaria prima di una pièce teatrale intitolata "La nostra classe" (Our Class) dello scrittore polacco Tadeusz Slobodzianek, in scena al National Theatre di Londra fino a metà gennaio. Oppure, se abitate in un altro paese (inclusa la Polonia in cui lo spettacolo non è andato ancora in scena), iniziate a mobilitarvi perché venga rappresentato. Attingendo alla documentazione, oggi ampia, sui fatti di Jedwabne, Our Class narra il tragico intrecciarsi delle vicende di dieci ragazzi, compagni di scuola prima della guerra, cinque ebrei, cinque cattolici. La pièce non risparmia nulla degli orrori di uno dei peggiori capitoli della storia dell´antisemitismo polacco, mostrando uno stupro di gruppo, un pestaggio a morte, e infine gli ebrei bruciati vivi in un fienile. Ma mostra anche Wladek, il contadino che dà rifugio e quindi sposa una ragazza ebrea e uccide il compagno di scuola polacco che intende arrestarla. Mostra Menachem, il sopravvissuto ebreo che dopo la guerra diventa un interrogatore della polizia segreta comunista. C´è Zocha, polacca e cattolica, che salva la vita a Menachem nascondendolo nel suo granaio e in seguito emigra negli Usa. Udendo una coppia di ebrei americani sparlare dei polacchi accusandoli di antisemitismo la donna esplode: «E cosa hanno fatto gli americani per gli ebrei durante la guerra?». E Abram, il fortunato, emigrato in America prima della guerra, diventa un viscido rabbino che sessant´anni dopo il fatto, pretende che il suo ex compagno di scuola Heniek, ora prete cattolico con un debole per i ragazzini, avalli la tesi ,del tutto infondata, secondo cui nel 1941 il rabbino di Jedwabne guidò il suo gregge nel granaio tenendo alta la Torah e santificando il nome di dio, Kiddush Hashem. Nessun mito autoconfortante resta intatto.
Le preoccupazioni circa la precisione storica, le problematiche di pertinenza degli storici circa la tipicità o eccezionalità degli eventi, hanno qui carattere secondario. Perché qui la verità è più profonda: si tratta di ciò che gli esseri umani sono capaci di fare quando si trovano nel posto sbagliato nel momento sbagliato. (E una piccola città della Polonia orientale occupata prima dai sovietici, a seguito del patto Hitler-Stalin, poi dai nazisti, quindi dal regime comunista polacco sotto la tutela dell´Armata rossa, è quasi per definizione il posto sbagliato al momento sbagliato). Chiunque sia nato in un tempo e in un luogo più felice deve ringraziare la sorte e la geografia.
Siamo tutti della stessa pasta, senza arrivare agli estremi. Non esistono i cattivi e gli eroi, lo stesso uomo o la stessa donna possono comportarsi in maniera terribile in un momento e splendida il momento dopo. Noi esseri umani sappiamo essere inferiori alle scimmie e superiori agli angeli. Siamo deboli, siamo forti. Portiamo il peso della colpa, rivendichiamo il diritto alla clemenza. Poi invecchiamo, ci ammaliamo e moriamo.
Repubblica “24.12.09
Anche nell´antica "polis" la cerimonia consisteva in un banchetto della sera precedente chiamato "sacrificio", fatto di offerte agli dei. I convitati dovevano assaggiare tutte le pietanze, senza eccezioni
La tradizione al tempo del consumismo
Veglia e cibo un rito antico
di Marino Niola
Notte magica, notte da presepe che sospende il corso del tempo e l´ordine del mondo. Alla vigilia di Natale gli animali parlano e gli uomini ammutoliscono. Lo raccontano le leggende popolari di tutta Europa. E soprattutto lo racconta quel poeticissimo apocrifo che è il Protovangelo di Giacomo: "tutte le cose in un momento furono distratte dal loro corso". Tutti gli esseri del creato restano immobili, in vigile attesa della nascita del dio e della vittoria annuale del sole sulle tenebre. Proprio questo significa in origine la parola vigilia, vegliare ritualmente su un passaggio decisivo. Astronomico o religioso. Che sia la notte di Natale o quella di Capodanno. In ogni caso veglioni. Momenti in cui la condivisione del cibo diventa simbolo unificante. Per i credenti un modo di realizzare il contatto con il sacro attraverso la via dei sensi. Per i non credenti una celebrazione del legame sociale, una festa degli affetti. Cui non ci si può sottrarre.
Non a caso i due cardini della tradizione natalizia sono la famiglia e la tavola. Entrambe sacralizzate dal mangiare insieme le cose di sempre. Dove la riproposizione del menù della tradizione, oggetto di un´autentica mitologia domestica, trasforma la semplice abbuffata festiva in eccesso rituale. Oggi temuto da molti ma evitato da pochi. Perché in realtà si tratta di un´orgia obbligatoria, di una liturgia della gola. Che rivela lo stretto intreccio tra piena esultanza dell´anima e l´esultanza piena del corpo.
Proprio come avveniva nel mondo antico dove la cerimonia principale della polis consisteva in un banchetto di vigilia chiamato "sacrificio", fatto di cibi offerti simbolicamente agli dei. La scelta delle pietanze, i tipi di cottura, la successione delle portate obbedivano a un rigoroso palinsesto cerimoniale. Carni, legumi, pesci, dolci, formaggi, frutta secca. I convitati erano tenuti ad assaggiare di tutto un po´ anche a costo di scoppiare. Allontanarsi dalla tradizione sarebbe stato considerato un sacrilegio, una messa in discussione del patto identitario. Tutti, anche i più poveri dovevano essere ammessi alla grande abbuffata.
Queste forme di gastronomia sacralizzata caratterizzano anche le nostre vigilie e hanno fatto nascere nei secoli delle singolari forme di previdenza festiva. Come i Goose Clubs dell´Inghilterra vittoriana e i Christmas Clubs americani del primo Novecento, salvadanai popolari, che con il versamento durante l´anno di qualche spicciolo a settimana garantivano a tutti di potersi concedere la strippata natalizia. Anche nelle nostre città si usava lasciare ogni giorno ai negozianti di alimentari delle piccole somme a mo´ di anticipo. Costituendo così un credito da spendere tutto d´un botto per imbandire un cenone come Dio comanda. Detto in altri termini, per osservare il diritto-dovere di consumare il banchetto rituale in ogni sua sequenza.
E perfino in un tempo secolarizzato come il nostro in cui lo spirito della festa sembra ridursi alla frenesia consumistica, i nostri opulenti menù festivi sono in realtà la versione postmoderna delle orge sacre di un tempo. Niente carne né grassi animali per rispettare i divieti conciliari, ma in compenso cascate di salmone, deliri di frutti di mare, trionfi di ostriche, maree di branzini. È il magro che si rovescia nel suo contrario e realizza in termini moderni quel cortocircuito orgiastico fra astinenza e abbondanza, fra rigore e spreco. Quel consumo del sacro che è l´essenza di ogni vigilia.
Repubblica “24.12.09
Anniversari/ Nel 2010 ricorrono i sessant´anni di Radiotre
Quel che resta del pubblico colto
Come è cambiata la ricezione di un mezzo che ha avuto tra i suoi protagonisti Gadda e Forcella. Ecco il programma del neo direttore Marino Sinibaldi
di Simonetta Fiori
Preparandosi al sessantesimo compleanno, Radiotre si rinnova senza rinunciare ai propri blasoni e senza cancellare una tradizione culturale che è stata importante nella costruzione civile italiana. Non è certo facile la sfida raccolta dal neo direttore Marino Sinibaldi, voce storica di Fahrenheit, nel guidare la rete intellettuale per eccellenza in un paese spaesato, sempre meno sensibile ai valori culturali e sempre più segnato dai consumi di massa. Qualcosa però si può fare. Si può tentare di cambiare il linguaggio. Meno autoreferenziale, libero da civettamenti con il pubblico colto. «Bisogna abolire la formula "come tutti sanno"», dice Sinibaldi nel presentare la nuova filosofia di Radiotre. Mai dare niente per scontato. Se il celebre manuale di Gadda Norme per la redazione di un testo radiofonico andava bene per una stagione ormai lontana, ora è necessario trovare altri codici.
La sfida al gusto comune - sostiene Sinibaldi - è nella vocazione di Radiotre. Oggi, in "un paese rattrappito dalla paura del diverso" e "immerso in un assordante silenzio delle idee", la nuova sfida consiste nel creare una "zona di comunicazione civile" che metta a confronto opinioni diverse. Le novità del palinsesto vanno in questa direzione. Da Tutta la città ne parla a Chiodo fisso, da Zazà a Il Cantiere - un programma che riceve i lavori confezionati da corsi universitari e da gruppi giovanili - il segnale lanciato dalla nuova Radiotre è di sempre maggiore apertura a una comunità pensante, dotata di qualità e competenze superiori a quelle mostrate dal ceto politico e anche giornalistico. «Non ci saranno politici in tutta la giornata di Radiotre», è l´impegno di Sinibaldi, che evoca mestamente il rituale servile dei dirigenti rai pronti ad accogliere negli studi radiofonici deputati o governanti.
La lezione rimane quella di Enzo Forcella, di un´idea della cultura che accende conoscenza e immaginazione. «Siete un´isola di consolazione in un panorama catastrofico», dice Corrado Augias, intervenuto all´incontro insieme a Goffredo Fofi, Valentino Parlato e Paolo Franchi. «Una penisola», corregge Sinibaldi, difendendo i legami con il resto del paese. Un formidabile strumento "che fa compagnia agli ascoltatori", lenendo molte solitudini, anche di tipo intellettuale.
Repubblica 24.12.09
Nichi è un traditore solo io posso battere Fitto e compagni"
Emiliano: sono al 60 per cento
Ma quale legge ad personam, va cambiata perché incostituzionale: i rivali non mi preoccupano, devo fare questa cosa e basta
BARI - Michele Emiliano, sindaco di Bari, sarà una legge elettorale ad personam a permetterle di candidarsi per il centrosinistra alla guida della Regione Puglia nel 2010?
«Quella legge va cambiata perché è incostituzionale: lede i diritti delle persone costringendole ad un atto inutile».
Così come stanno le cose ora, dovrebbe dimettersi dalla carica di sindaco prima di scendere in campo per le regionali. Un emendamento che l´assemblea pugliese discuterà il prossimo 19 gennaio, prevede di cancellare l´ineleggibilità.
«La legge ad personam è quella in vigore. Era stata fatta apposta per impedire che l´allora sindaco di An a Lecce, Adriana Poli Bortone, potesse concorrere per diventare presidente della Regione senza dimettersi dal municipio».
Lunedì 28, intanto, l´assemblea del Pd di cui è il presidente stabilirà se farle indossare la maglia del competitore.
«O dentro o fuori. Io non ci sarò: così ogni democratico potrà dire liberamente quello che pensa sul conto del sottoscritto».
Tutti pensano che sia Massimo D´Alema a volere Emiliano al posto di Nichi Vendola, il governatore comunista in carica.
«D´Alema non sta imponendo niente a nessuno. Ragiona, piuttosto».
Secondo il lìder Massimo, Emiliano è un candidato «molto forte». Più forte di Vendola, che non attirerebbe i voti dell´area moderata.
«In Puglia il mio indice di gradimento è vicino al 60 per cento. Io vinco anche se sulla barca del centrosinistra non salisse Vendola. Ho la meglio contro tutti».
Compreso il candidato del Pdl?
«C´è una "anima di Dio", Stefano Dambruoso, che sta lì in attesa di sapere se arriverà o non arriverà la telefonatina».
La telefonatina?
«Sì, quella che basta a Silvio Berlusconi per cambiare il nome del candidato del Popolo della libertà».
Contro Emiliano il Gladiatore, fuori Dambruoso e dentro il sottosegretario Alfredo Mantovano?
«Mantovano o Dambruoso, per me è indifferente. I rivali non mi preoccupano. Devo fare questa cosa, e basta».
I baresi, però, appena sei mesi fa l´avevano confermata a Palazzo di città e adesso si ritrovano un sindaco in fuga verso altri lidi. La prenderanno male?
«Non temo l´effetto boomerang. La verità è che bisogna fare qualsiasi cosa per evitare di riconsegnare il governo della Regione nelle mani di Fitto e compagni».
Vendola che corre in nome e per conto di tutto il centrosinistra, non va bene?
«Se l´Udc sta con noi, trionfiamo. Diversamente, ci ammazzeremmo tutti. Quanto a Vendola, è un traditore».
Cioè?
«Al congresso del Pd avrebbe dovuto lavorare per sostenermi e farmi avere la meglio quando celebrammo le primarie. Perché se fossi rimasto segretario del partito, com´era dal 2007, Nichi sicuramente sarebbe stato il candidato di tutto il centrosinistra. Senza l´Udc. Ma a quel punto, sarei bastato io al posto dell´Udc per attirare le preferenze dei moderati».
C´entra con la scelta di isolare Vendola lo scandalo della sanità esploso d´estate, che travolge l´assessore alla Salute Alberto Tedesco?
«E´ colpa sua se Tedesco faceva l´assessore alla Salute. Poi, dopo la bufera giudiziaria, lo stesso Vendola mi ha chiesto di fare di tutto perché Tedesco fosse nominato senatore per toglierlo di mezzo».
Emiliano e Vendola, fratelli coltelli?
«La verità è che non c´è più il clima politico del 2005. Io e Vendola ci vogliamo bene e basta. Faccia la sua battaglia. Ha il dovere di gareggiare. Ma credo che riuscirà a sopravvivere politicamente solo se entrerà nel Pd».
(l. p.)
Repubblica 24.12.09
Scoppia la polemica. Di Pietro: "Il suo cuore resta nero"
La gaffe di La Russa "X Mas corpo di eroi"
di Giovanna Casadio
ROMA - Ignazio La Russa sostiene di non avere fatto nessuna gaffe. A Livorno, alla caserma Vannucci, il ministro della Difesa ha elogiato i corpi militari speciali ricordando la Decima Mas: «Siete eredi della non dimenticata Decima Mas». Un rigurgito di nostalgia, il ricordo rivolto a Junio Valerio Borghese, alla Repubblica sociale e agli ultimi colpi di coda del fascismo? La Russa nega. Assicura di avere voluto solo riferirsi all´eroismo riconosciuto di quel corpo speciale. «Come per El Alamein...». Ma si accende la polemica. Antonio Di Pietro gli dà del «cuore nero»: «La lingua batte dove il dente duole; ci si nasce...». E La Russa - militante nero sin da ragazzino, missino che ha condiviso la svolta di Fiuggi con Gianfranco Fini e ora l´approdo nel Pdl di cui è coordinatore - per il leader di Idv ed ex pm è «un nostalgico».
«È l´unico ministro della Difesa che negli ultimi trent´anni abbia ricordato la Decima Mas - si sfoga Ettore Rosato, del Pd - ed è una cosa che non fa onore neppure agli uomini del Comsubin», i militari incursori della Marina ai quali il ministro direttamente si rivolgeva. «Non era necessaria questa lode in quel contesto, in nessun contesto».
Duro il commento di Filippo Penati, coordinatore della segreteria del Pd: «Davvero un elogio di cui non si sentiva il bisogno soprattutto da parte di un ministro della Difesa. Avremmo preferito ascoltare parole che riguardassero un accenno ai nostri militari come presidio di democrazia piuttosto che frasi che portano a un passato che alla coscienza democratico di quei cittadini che amano la libertà - a cui si è rivolto recentemente lo stesso Berlusconi - non suscita alcuna nostalgia». E Roberta Pinotti, ex presidente della commissione Difesa della Camera, democratica, rincara: «Ricordando che non è la prima volta e che poi, La Russa deve sempre precisare e chiarire, gli consiglierei di lasciare da parte le emozioni per un passato che l´Italia repubblicana ha combattuto e di concentrarsi sui messaggi da dare alle nostre Forze armate che rispondono alla Costituzione nata dalla lotta di Liberazione». «La Russa perde il pelo ma non il vizio...», rimarca il Pdci di Diliberto.
«Macché nostalgie - ne prende le difese Alessandra Mussolini - Ormai non c´è più la coda di paglia a destra. I militanti ex An hanno fatto passi in avanti stabili: se c´è un riferimento è alla storia e lo si può fare. Fini ha fatto fare un percorso sostanziale. E se una volta, molti della destra stavano attenti anche alla battuta, non io ma per me è stata anche una questione familiare - ribadisce la nipote del Duce - ora ci si può permettere una considerazione come chiunque, senza sospetti di nostalgie».
Repubblica 24.12.09
I fantasmi dell’antisemitismo nell’est europeo
di Timothy Garton Ash
Tra l´Hanukkah e il Natale, l´insegna sopra l´ingresso del campo di sterminio di Auschwitz è stata rubata. La polizia polacca l´ha recuperata e ha catturato i ladri che, a quanto sembra, hanno agito su commissione per qualcuno all´estero. Si fa fatica a immaginare che genere di essere umano desideri avere qualcosa del genere nella sua collezione privata. Nonostante tutti gli omicidi di massa perpetrati, la schiavitù e la tortura inflitti in tempi successivi, Auschwitz resta, per un europeo della mia generazione, il Simbolo della malvagità umana del nostro tempo.
Questo grottesco episodio chiude un anno in cui i rapporti tra cristiani ed ebrei in generale, tra cristiani polacchi ed ebrei polacchi in particolare, sono stati nuovamente oggetto di dibattito. I fantasmi del tormentato passato est europeo aleggiavano sinistri nei corridoi di Westminster mentre i conservatori britannici annunciavano l´alleanza in seno al Parlamento europeo con un gruppo di partiti di destra, principalmente del centro e dell´est Europa, ponendo i loro parlamentari sotto la guida di Michal Kaminski, del partito polacco Legge e Giustizia.
Nel contesto della polemica che ne è scaturita, l´autore e comico Stephen Fry si è così espresso: «Il cattolicesimo di destra ha un passato profondamente inquietante per chi conosce un poco la storia e ricorda da che lato del confine si trovava Auschwitz». Davvero la storia la conosce poco. Incolpare i cattolici polacchi dello sterminio nazista in un campo situato in territorio polacco annesso alla Germania, in cui furono imprigionati e morirono anche cattolici polacchi, è talmente assurdo che l´affermazione di Fry è stata accolta da una valanga di critiche. E Fry, bisogna darne atto, ha immediatamente fatto ammenda. Ma non è solo la follia di un inglese. Guardando il servizio di una televisione tedesca sul processo a John Demjanjuk qualche settimana fa, mi sono stupito nel sentirlo identificare come una guardia «nel campo di sterminio polacco di Sobibor». In che tempi viviamo se una delle maggiori reti televisive tedesche pensa di poter definire «polacchi» i campi nazisti?
Stando alla mia esperienza, in Europa occidentale e in Nord America è ancora diffusa l´equazione tra Polonia, cattolicesimo, nazionalismo e antisemitismo – e da lì al concorso di colpa nell´Olocausto il passo è breve. Questa accusa collettiva non rende giustizia alle testimonianze storiche. Non lascia spazio ad esempio all´incredibile vicenda di Witold Pilecki, ufficiale polacco che si offrì volontario per una missione mirata a scoprire cosa avveniva ad Auschwitz. Si fece arrestare e rimase nel campo per due anni e mezzo, inviando rapporti all´esterno e organizzando cellule di resistenza, per poi evadere. Combatté in seguito nella rivolta di Varsavia contro i nazisti e visse gli ultimi mesi di guerra in un campo Pow. Venne quindi arrestato e torturato dalla polizia segreta comunista nella Polonia occupata dai sovietici e giustiziato nel 1948. Questa generica stereotipizzazione provoca nei polacchi una reazione di difesa ostacolandoli nel processo di fare i conti con un passato profondamente inquietante di antisemitismo polacco e cattolico. (Non limitato alla destra: il partito comunista polacco fu scosso dalla famigerata campagna anti-semita nel 1968). Soprattutto negli ultimi vent´anni, da quando la Polonia ha riconquistato la libertà, si sono fatti dei passi avanti nei conti con il passato. All´inizio di questo decennio uno storico ha rivelato l´orrenda carneficina di ebrei compiuta nella cittadina di Jedwabne, nella Polonia orientale, per mano dei loro concittadini cattolici nella primavera del 1941, dando vita ad un «dibattito straordinariamente approfondito e straordinariamente coraggioso», come l´ha definito Konstanty Gebert, scrittore ebreo polacco. Sulla scia di tale dibattito, sostiene Gebert, «il paese ha subito una seria trasformazione morale».
Non recedo in alcun caso dal mio atteggiamento critico nei confronti della nuova alleanza stretta dai conservatori britannici in seno al Parlamento europeo, ma il giudizio politico deve essere scisso da quello storico e morale. Il linguaggio dell´odierna politica di partito con le sue frasi prefabbricate e le sue disinvolte mezze verità è così pateticamente inadeguato ai terrori di Auschwitz e all´eroismo di un Pilecki, che il solo atto di accostare quel gergo sintetico a simili realtà ha il sapore di un sacrilegio. Esiste un giudizio politico, ai fini del quale le affermazioni di opportunisti di destra come Kaminski nel dibattito su Jedwabne qualche anno fa hanno attinenza, pur essendo di secondaria importanza. Esiste un giudizio storico, che possiamo esprimere grazie alla sempre maggiore conoscenza della reale complessità della storia ebraica ed est europea. Esiste un giudizio giuridico che deve avere come oggetto chi si è macchiato di crimini contro l´umanità. Ma al di là di tutto questo esiste la dimensione dell´interpretazione umana che forse solo il linguaggio dell´arte riesce a comprendere appieno. Se volete capire cosa intendo, acquistate o elemosinate o rubate uno degli ultimi biglietti disponibili per la straordinaria prima di una pièce teatrale intitolata "La nostra classe" (Our Class) dello scrittore polacco Tadeusz Slobodzianek, in scena al National Theatre di Londra fino a metà gennaio. Oppure, se abitate in un altro paese (inclusa la Polonia in cui lo spettacolo non è andato ancora in scena), iniziate a mobilitarvi perché venga rappresentato. Attingendo alla documentazione, oggi ampia, sui fatti di Jedwabne, Our Class narra il tragico intrecciarsi delle vicende di dieci ragazzi, compagni di scuola prima della guerra, cinque ebrei, cinque cattolici. La pièce non risparmia nulla degli orrori di uno dei peggiori capitoli della storia dell´antisemitismo polacco, mostrando uno stupro di gruppo, un pestaggio a morte, e infine gli ebrei bruciati vivi in un fienile. Ma mostra anche Wladek, il contadino che dà rifugio e quindi sposa una ragazza ebrea e uccide il compagno di scuola polacco che intende arrestarla. Mostra Menachem, il sopravvissuto ebreo che dopo la guerra diventa un interrogatore della polizia segreta comunista. C´è Zocha, polacca e cattolica, che salva la vita a Menachem nascondendolo nel suo granaio e in seguito emigra negli Usa. Udendo una coppia di ebrei americani sparlare dei polacchi accusandoli di antisemitismo la donna esplode: «E cosa hanno fatto gli americani per gli ebrei durante la guerra?». E Abram, il fortunato, emigrato in America prima della guerra, diventa un viscido rabbino che sessant´anni dopo il fatto, pretende che il suo ex compagno di scuola Heniek, ora prete cattolico con un debole per i ragazzini, avalli la tesi ,del tutto infondata, secondo cui nel 1941 il rabbino di Jedwabne guidò il suo gregge nel granaio tenendo alta la Torah e santificando il nome di dio, Kiddush Hashem. Nessun mito autoconfortante resta intatto.
Le preoccupazioni circa la precisione storica, le problematiche di pertinenza degli storici circa la tipicità o eccezionalità degli eventi, hanno qui carattere secondario. Perché qui la verità è più profonda: si tratta di ciò che gli esseri umani sono capaci di fare quando si trovano nel posto sbagliato nel momento sbagliato. (E una piccola città della Polonia orientale occupata prima dai sovietici, a seguito del patto Hitler-Stalin, poi dai nazisti, quindi dal regime comunista polacco sotto la tutela dell´Armata rossa, è quasi per definizione il posto sbagliato al momento sbagliato). Chiunque sia nato in un tempo e in un luogo più felice deve ringraziare la sorte e la geografia.
Siamo tutti della stessa pasta, senza arrivare agli estremi. Non esistono i cattivi e gli eroi, lo stesso uomo o la stessa donna possono comportarsi in maniera terribile in un momento e splendida il momento dopo. Noi esseri umani sappiamo essere inferiori alle scimmie e superiori agli angeli. Siamo deboli, siamo forti. Portiamo il peso della colpa, rivendichiamo il diritto alla clemenza. Poi invecchiamo, ci ammaliamo e moriamo.
Repubblica “24.12.09
Anche nell´antica "polis" la cerimonia consisteva in un banchetto della sera precedente chiamato "sacrificio", fatto di offerte agli dei. I convitati dovevano assaggiare tutte le pietanze, senza eccezioni
La tradizione al tempo del consumismo
Veglia e cibo un rito antico
di Marino Niola
Notte magica, notte da presepe che sospende il corso del tempo e l´ordine del mondo. Alla vigilia di Natale gli animali parlano e gli uomini ammutoliscono. Lo raccontano le leggende popolari di tutta Europa. E soprattutto lo racconta quel poeticissimo apocrifo che è il Protovangelo di Giacomo: "tutte le cose in un momento furono distratte dal loro corso". Tutti gli esseri del creato restano immobili, in vigile attesa della nascita del dio e della vittoria annuale del sole sulle tenebre. Proprio questo significa in origine la parola vigilia, vegliare ritualmente su un passaggio decisivo. Astronomico o religioso. Che sia la notte di Natale o quella di Capodanno. In ogni caso veglioni. Momenti in cui la condivisione del cibo diventa simbolo unificante. Per i credenti un modo di realizzare il contatto con il sacro attraverso la via dei sensi. Per i non credenti una celebrazione del legame sociale, una festa degli affetti. Cui non ci si può sottrarre.
Non a caso i due cardini della tradizione natalizia sono la famiglia e la tavola. Entrambe sacralizzate dal mangiare insieme le cose di sempre. Dove la riproposizione del menù della tradizione, oggetto di un´autentica mitologia domestica, trasforma la semplice abbuffata festiva in eccesso rituale. Oggi temuto da molti ma evitato da pochi. Perché in realtà si tratta di un´orgia obbligatoria, di una liturgia della gola. Che rivela lo stretto intreccio tra piena esultanza dell´anima e l´esultanza piena del corpo.
Proprio come avveniva nel mondo antico dove la cerimonia principale della polis consisteva in un banchetto di vigilia chiamato "sacrificio", fatto di cibi offerti simbolicamente agli dei. La scelta delle pietanze, i tipi di cottura, la successione delle portate obbedivano a un rigoroso palinsesto cerimoniale. Carni, legumi, pesci, dolci, formaggi, frutta secca. I convitati erano tenuti ad assaggiare di tutto un po´ anche a costo di scoppiare. Allontanarsi dalla tradizione sarebbe stato considerato un sacrilegio, una messa in discussione del patto identitario. Tutti, anche i più poveri dovevano essere ammessi alla grande abbuffata.
Queste forme di gastronomia sacralizzata caratterizzano anche le nostre vigilie e hanno fatto nascere nei secoli delle singolari forme di previdenza festiva. Come i Goose Clubs dell´Inghilterra vittoriana e i Christmas Clubs americani del primo Novecento, salvadanai popolari, che con il versamento durante l´anno di qualche spicciolo a settimana garantivano a tutti di potersi concedere la strippata natalizia. Anche nelle nostre città si usava lasciare ogni giorno ai negozianti di alimentari delle piccole somme a mo´ di anticipo. Costituendo così un credito da spendere tutto d´un botto per imbandire un cenone come Dio comanda. Detto in altri termini, per osservare il diritto-dovere di consumare il banchetto rituale in ogni sua sequenza.
E perfino in un tempo secolarizzato come il nostro in cui lo spirito della festa sembra ridursi alla frenesia consumistica, i nostri opulenti menù festivi sono in realtà la versione postmoderna delle orge sacre di un tempo. Niente carne né grassi animali per rispettare i divieti conciliari, ma in compenso cascate di salmone, deliri di frutti di mare, trionfi di ostriche, maree di branzini. È il magro che si rovescia nel suo contrario e realizza in termini moderni quel cortocircuito orgiastico fra astinenza e abbondanza, fra rigore e spreco. Quel consumo del sacro che è l´essenza di ogni vigilia.