sabato 9 ottobre 2010

l’Unità 9.10.10
300mila in piazza in tutta Italia. Nei cortei sfilano insieme studenti, universitari e precari
A Roma «fantasmi» sotto il ministero. Incidenti a Milano e Firenze. Il 14 l’assedio alla Camera
Gelmini sotto sfratto «Ed è appena l’inizio»
Manifestazioni in novanta piazze in tutta Italia, da Milano a Palermo, contro la riforma della scuola. Ma il ministro finge di non vedere: «A qualcuno dà fastidio che la scuola non sia più di proprietà della sinistra».
di Gioia Salvatori


«Non chiamateci onda due: noi siamo più maturi e più arrabbiati. Siamo figli della crisi e fratelli dei precari e scendiamo in piazza insieme agli universitari e agli operai della Fiom perché quest’anno, i tagli, li abbiamo vissuti tutti». Così ieri 300mila studenti, universitari, precari, hanno riempito novanta piazze in tutta Italia aderendo alla mobilitazione indetta dai ragazzi delle superiori contro la riforma Gelmini. Un occhio al futuro e uno alla porta accanto, quella dove abita il fratello disoccupato, il padre cassintegrato, l’ex supplente rimasto senza cattedra e il mix è presto fatto: le piazze dei ragazzi somigliano a quelle dei lavoratori. Stessa paura del futuro, della disoccupazione, della precarietà. Stesse maschere bianche dei precari-fantasma sui volti degli studenti che, alle 6.30 di mattina, hanno già appeso uno striscione sotto le finestre del ministero dell’Istruzione in viale Trastevere a Roma. Qui termina alle 14 la manifestazione contro Gelmini “Gelminator”, e la folla urla «Dimissioni, dimissioni». «Governo, confindustria, rettori: riprendetevi il passato, il futuro siamo noi» è lo slogan in testa al corteo dei 30mila di Roma. Ci sono l’Udu, l’Sds-Run il coordinamento degli studenti Link, le sigle degli studenti delle superiori che hanno lanciato la mobilitazione UdS e Rds, la Flc Cgil e Unicobas che ieri hanno scioperato per un’ora. Mentre a Roma sfila il corteo principale a Firenze e Milano c’è tensione: nel capoluogo toscano sono uova e fumogeni contro la scuola privata dei Padri Scolopi e scontri tra studenti di sinistra e di destra; alla fine i denunciati, anche per corteo non autorizzato, sono decine. A Milano 10mila in piazza: l’ala antagonista cerca di sfondare per arrivare all’assessorato comunale all’istruzione e sono tafferugli con la polizia. In Campania 70mila gli studenti nelle piazze. A Napoli, davanti all’università Federico II c’è il lancio di carta igienica: è la scuola che va a rotoli. A Bologna, Bari, Palermo, gli altri cortei più partecipati. Roberto, uno studente palermitano dell’Uds dice: «L’onda? Era più settaria, noi sappiamo che lavoro e conoscenza sono un bene comune», così lo studente incontra l’operaio e i ragazzi fanno sapere che parteciperanno al corteo della Fiom del 16 a Roma, due giorni dopo “l’assedio” della Camera previsto per il 14, giorno della discussione del ddl Gelmini.
Un “No Gelmini Day” che ieri si è celebrato ovunque: a Parma c’è stata una manifestazione spontanea, a Padova accanto agli studenti ci sono gli operai della Fiom, a Palermo e a Roma i docenti precari. In piazza gli studenti hanno caschi gialli contro le macerie della scuola. «Non ci faremo rubare il futuro», «Non moriremo precari», dicono per esorcizzare la paura. Gelmini, mentre la Flc Cgil con Domenico Pantaleo annuncia proteste fino a Natale e la Fgci invia al ministro il film “Edward mani di forbice”, resta arroccata e minimizza: «A molti dà fastidio che la scuola, finalmente, non sia più proprietà privata della sinistra. Le proteste di oggi sono manifestazioni politiche. Vecchi slogan». «Ascolti è l’invito della responsabile scuola del Pd Francesca Puglisi se qui c’è qualcuno che abusa di vecchi slogan è il ministro, quando parla di scuola come “luogo di indottrinamento politico”».

l’Unità 9.10.10
Un’«AltraRiforma» per ridare qualità alla formazione
Gelmini e Tremonti conoscono soltanto la politica dei tagli E il 16 ottobre saremo in strada con i lavoratori della Fiom
di Tito Russo, Unione degli Studenti


Ieri abbiamo suonato la sveglia. Trecento mila studenti e studentesse sono scesi nelle piazze, da Trieste a Ragusa, dalle città metropolitane ai piccoli centri di provincia. Abbiamo bloccato l’intero paese, abbiamo lanciato il nostro grido d’allarme per la condizione comatosa in cui versano le nostre scuole e le nostre università. Le piazze si sono riempite di giovani studenti convinti che la politica non possa continuare a giocare con il nostro futuro. Tagliare i finanziamenti alle scuole significa imporre un modello di società basato sui privilegi e sulle ingiustizie, significa mortificare i sogni e le aspettative di chi, come noi, rischia di essere condannato ad un futuro fatto di precarietà e sfruttamento. Per questo l’Unione degli Studenti ha da tempo ha lanciato l’AltraRiforma, un percorso partecipato che ha visto la costruzione dal basso di una vera riforma che sia capace di migliorare la qualità della formazione nel nostro paese. Vera riforma, appunto, perché quelle di Gelmini e Tremonti non sono altro che tagli su tagli, mentre solo qualche giorno fa è stato confermato il finanziamento di circa centoventi milioni di Euro alle scuole private. Viviamo nel paese dei paradossi, da un lato si tagliano otto miliardi alle scuole pubbliche con presidi, docenti e studenti costretti ad autotassarsi per comprare gessetti e carta igienica, dall’altro si continuano a finanziare università e scuole di lusso che però niente hanno a che vedere con il merito.
Merito, appunto, altra parola che Gelmini e il suo governo hanno stravolto raccoltando frottole a tutto il paese, ieri l’abbiamo urlato nei tanti megafoni: non può esistere merito se non si parte dai diritti, dalla possibilità di poter accedere ai canali della formazione a prescidere dalla propria condizione sociale. Per questo siamo convinti che l’unica legata al passato sia proprio la Gelmini che ha in mente un modello di società prefeudale dove “leggere e scrivere” sia un privilegio per pochi, un mero strumento di controllo sociale. Le piazze di ieri hanno anche lanciato un monito a tutta la politica troppo spesso ripiegata su sè stessa. La partecipazione che abbiamo visto ieri è solo l’inizio di un percorso. La prossima settimana condivideremo, insieme a tutto il mondo della conoscenza le mobilitazioni contro il ddl dell’università nonché parteciperemo alla manifestazione del 16 Ottobre indetta dalla Fiom perché l’attacco ai diritti dei lavoratori ci riguarda da vicino. Noi ci siamo e vogliamo dire la nostra su come l’Italia può uscire dalla crisi economica e sociale ma soprattutto culturale e politica. In gioco non c’è solo il futuro di scuola e università, in gioco ci sono le nostre vite e il nostro futuro su cui non siamo disposti a cedere di un passo. Il nostro tempo è qui e comincia adesso.

l’Unità 9.10.10
«Chiamano riforma la distruzione totale»
Intervista a Fabio Mussi
Il ministro dell’Università nel governo Prodi «Anche a me chiesero sacrifici, ma davanti ai tagli feci il diavolo a quattro e minacciai le dimissioni»
di Marcella Ciarnelli


Nel vuoto delle risorse la riforma si riduce solo ad un inesorabile taglio» che significa «l’inferno» per la scuola nel suo insieme, dalle prime classi all’università. Anche Fabio Mussi, ministro dell’Università nel governo Prodi, ora presidente del Comitato scientifico di Sinistra Ecologia e Libertà, ebbe i suoi problemi di finanziamento. La questione risorse gli è nota anche perché non è che Tommaso Padoa Schioppa e lo stesso presidente del Consiglio fossero molto larghi di manica. Però una riforma come quella che sta portando tante famiglie, studenti, ricercatori in piazza, non l’avrebbe pensata nè in alcun modo sottoscritta se qualcuno glielo avesse chiesto.
Secondo lei si può ragionare solo in termini economici su argomenti come questi? «Tutti abbiamo dovuto fare i conti con le ristrettezze di bilancio ed anche con le ristrettezze mentali di classi dirigenti che, in ogni loro parte, non hanno certamente ai vertici dell’agenda questioni come la scuola, l’università e la ricerca che invece sono strategiche per un Paese. Io dovetti ingaggiare un discreto corpo a corpo con il mio ministro dell’Economia e anche con la presidenza del Consiglio. E, pubblicamente, dovetti minacciare un paio di volte le dimissioni. Che avrei sicuramente dato se i tagli fossero stati quelli che di volta in volta si affacciavano nei provvedimenti economici portati in Consiglio dei Ministri. Il primo decreto finanziario, appena formato il governo Prodi, prevedeva per l’università un colpo molto pesante. Di quel colpo, grazie anche al fatto che io feci il diavolo a quattro, restò il taglio ai consumi intermedi ma poi al momento di essere esatto, quando i soldi dovevano tornare al Tesoro, il governo rinunciò a pretenderli dagli atenei. Con il nostro governo l’investimento era lievemente cresciuto ma, per grandezze fondamentali, si può dire che rimase stabile».
E’ un risultato da rivendicare?
«Tenere l’investimento stabile significa comunque tenere l’Italia in coda ai paesi Ocse. Due cose in rapporto al Pil sono decisamente scese negli ultimi vent’anni: i salari operai e gli investimenti nella ricerca scientifica. Noi spendevamo già per ogni studente meno di qualunque altro Paese europeo, ottomila dollari o giù di lì, ma ora ci avviamo a sprofondare sotto il livello dell’inferno. Siamo l’unico paese al mondo che è progressivamente sceso nell’investimento. Eppure bisognerebbe tener sempre presente che ogni dollaro investito in questo campo ne produce
tre. La produttività nel lavoro come nella ricerca dipende sempre e solo dagli investimenti e dall’innovazione. Non serve a nulla togliere la pausa mensa degli operai o ridurre i corsi universitari. Tagliare in modo indiscriminato non rende. Questa è una concezione delle riforme degna degli uomini delle caverne».
Allora la via d’uscita è non tagliare senza valutare le conseguenze? «Tu puoi mettere soldi e non estrarne qualità. E questo a volte accade. Ma sicuramente se togli soldi la qualità scende. Il prossimo anno, l’università che era già quasi, alla fame
avrà un miliardo e quattrocento in meno. Con l’entrata in vigore dell’ultimo anno del triennio della legge 33, nel 2011, ci sarà un trasferimento di denaro pubblico quasi di un miliardo e mezzo inferiore a tre anni prima. E quindi la riforma che si sta discutendo non è altro che chiacchiere da salotto. Travestito da riforma è in atto un vero e proprio progetto di distruzione della scuola, dell’università e della ricerca».
I ministri si lamentano e minacciano di andarsene. La risposta è uguale per tutti. Tremonti dice che non ci sono soldi. «Gli investimenti devono essere in apporto al Pil. La più grande crisi economica mondiale ha visto tagli solo in Inghilterra e Italia. Tutti, anche i Paesi africani, hanno puntato sull’università e sulla ricerca. Se c’è un capitolo a cui non è stato sottratto da nessuno un finanziamento è questo. E non parliamo della Cina e dell’India, lì siamo in un’altra categoria. Il problema è delle proporzioni. Bisogna sottrarre ad alcune voci a favore di altre. Se la media della spesa in Italia per scuola, università e ricerca, è molto al di sotto dell’Ocse forse un problema bisognerebbe cominciare a porselo».
Il ministro Gelmini ha appoggiato, anzi si vanta di queste riforme... «Al governo c’è un grumo di reazionari i quali pensano che bisogna affamare la bestia. Se tu togli i soldi aumenti l’efficienza pensano loro ma questa è una colossale bufala. L’efficienza deve essere garantita con appositi sistemi, norme, metodi, riforme. Ma se riduci gli investimenti la nostra università finirà come la Grecia. E qualche rettore che pensa di salvarsi dal diluvio si sbaglia».
E allora come va a finire?
«Male. Noi abbiamo già perso posizioni pur essendo un Paese che ha sempre avuto eccellenze in ogni campo dello scibile. Bisognerebbe riflettere sul fatto che una legge così è solo un suicidio».

l’Unità 9.10.10
Mariastella delle gaffe
Il ministro senza fondi che Tremonti snobba
Ha fatto l’esame da avvocato in Calabria ma adesso tuona contro «le scuole del Sud che abbassano la qualità». Il congedo di maternità? «Un privilegio» E i precari? «Solo militanti politici»
di Federica Fantozzi


Pregiudizi contro chi, come me, ha gli occhi a fessuretta» si difendeva la vaporosa Caterina Guzzanti-Mariastella Gelmini a Parla con me. Chissà se, in consiglio dei ministri, la vera titolare dell’Istruzione ha opposto lo stesso argomento allo sferzante sarcasmo di Giulio Tremonti con le forbici in mano.
In fondo, il mite collega Bondi, che ha minacciato dimissioni dalla Cultura stanco di fronteggiare la rivolta di teatri, musei, fondazioni, enti lirici, siti archeologici, etc, ha incassato non soldi ma almeno umana solidarietà. Lei, invece, tutti si chiedono se sia cattiva o la disegnino così. L’avvocato dalle mise grigio acciaio, i lineamenti appuntiti e gli occhiali aguzzi; il ministro ribattezzato dall’Onda «della Pubblica Distruzione»; la cattolica ritratta come Beata Ignoranza in irridenti santini; la neo-mamma che ha fatto imbufalire mezza Italia dichiarando che «il congedo di maternità è un privilegio, tutte dovrebbero tornare subito a lavorare come me».
37 anni, liceo a Desenzano del Garda, laurea a Brescia, praticantato ed esame da avvocato a Reggio Calabria (trasloco foriero di molte illazioni), sposata a Sirmione con un aitante immobiliarista bergamasco (abito avorio, Berlusconi presente, servizio fotografico esclusivo con parenti e affini in posa per Chi). Forzista della prima ora, consigliere regionale lombarda e coordinatrice locale del partito. Nordista fino al midollo. Al punto che, a voler credere al Cavaliere, chiamò la bimba Emma su sua «imposizione» in onore della Marcegaglia: decisamente erano altri tempi, adesso alla presidente di Confindustria il Giornale del premier intitola dossier. Così nordista la Gelmini che quando Bossi se la prese con gli insegnanti del Sud dopo la bocciatura del figliolo, da Cortina d’Ampezzo batté un colpo: «Nel Sud alcune scuole abbassano la qualità. In Sicilia, Puglia, Calabria (che ingratitudine, avranno pensato laggiù, ndr) e Basilicata organizzeremo corsi intensivi».
Il ministro ha dato nome a due fatti epocali. La Riforma Gelmini (work in progress) di scuola e università. E il No Gelmini Day, punto culminante di una stagione di manifestazioni di genitori, maestri, professori, precari, cobas. Migliaia di caschetti gialli con il suo volto incorniciato da un segnale di senso vietato. Slogan socratici «Come nasce la dittatura? Con i tagli alla cultura» o pragmatici «Silvio, il viagra nasce dalla ricerca».
Gelmini difende la sua multiforme creatura: «meritocrazia, trasparenza e competitività internazionale», addio a baronie e incrostazioni corporative, razionalizzazione degli atenei inutili, rettori a tempo, maestro unico, liceo musicale-coreutico, ritorno ai voti. Plaude alla alla bocciatura per voto di condotta e al grembiule anti-griffe e anti-bullismo. Ma anche ai libri di testo digitali e alle lavagne interattive multimediali. Sul canale dedicato su YouTube illustra gli estimi, la figura disegnata, le tecniche di ristorazione.
Non incontra i precari «perché sono militanti politici». Non riceve gli studenti perché «dà fastidio che la scuola non sia più proprietà privata della sinistra». Quella di Adro, in realtà, è quantomeno affittata alla Lega, e nonostante la lettera con cui lei invitava il sindaco «ad adoperarsi per toglierlo» il Sole delle Alpi è ancora lì.
Il ferreo universo gelminiano mostra due sole crepe. La prima è la scelta del pirotecnico Giorgio Stracquadanio come consigliere politico. La seconda è l’assoluta mancanza di fondi per realizzare la rivoluzione dell’italica istruzione. Mancherebbero parole sue decine di milioni di euro. Copertura zero per ricercatori, associati, precari (pochi) da regolarizzare. Atenei di buon livello al collasso, incapaci di rispettare l’offerta programmatica promessa al momento delle iscrizioni. Le scuole vivono i momenti bui dei tribunali, tocca portarsi da casa il materiale di prima necessità. E Tremonti, slot machine dei dicasteri altrui, si gira dall’altra parte. Quella leghista.

l’Unità 9.10.10
Il testo Gelmini viola le leggi sulla sicurezza nelle aule


Il Movimento per la Difesa della Scuola Pubblica denuncia che la riforma Gelmini va contro le leggi sulla sicurezza. «Basterebbe appendere nelle porte delle aule dei cartelli indicanti capienza e numero massimo di alunni per le relative classi, in base a un numero massimo di 26 persone per aula e di circa due metri quadri di spazio a testa per spronare gli stessi studenti o genitori a segnalare i casi di sovraffollamento, chiedendo lo sdoppiamento delle classi, con le conseguenti ricadute positive date da lezioni con meno alunni.
Molte classi non si formano o gli alunni abbandonano o vengono inseriti nell’apprendistato o nella formazione professionale. Il risultato è calo dei diplomati, che incide considerevolmente sul calo degli iscritti nelle università. Un vero crimine, visto che in Italia dal 2003, e in Sardegna da 2 anni, gli alunni delle scuole inferiori aumentano».

l’Unità 9.10.10
Solo i tagli sul personale ammontano a quasi 8 miliardi di euro, pari a 130mila posti di lavoro
Ma la lista è lunga e articolata: offerta formativa, cancelleria, edilizia scolastica, crediti inevasi
La scuola, vittima prediletta dal governo per fare cassa
L’impossibile conteggio dei tagli alla scuola inflitti dal governo: 8 miliardi sul personale, 1,6 miliardi di crediti non pagati, 73 milioni sulla cancelleria, 10 milioni sull’offerta formativa. Ma la lista è ancora lunga.
di Luigina Venturelli


Ci sono i tagli al personale, quelli all’ampliamento dell’offerta formativa, quelli per il funzionamento ordinario amministrativo. Poi ci sono i crediti che gli istituti vantano nei confronti del Ministero ma che vengono pagati con anni di ritardo, i fondi per l’edilizia scolastica che non si trovano mai, e le risorse che stanziavano gli enti locali prima di essere strozzati dalla manovra d’estate di Tremonti. Impossibile fare una somma esaustiva dei tagli che questo governo ha inflitto e continua ad infliggere alle scuole italiane: il salasso arriva da più parti e spesso sotto mentite spoglie.
LA RIDUZIONE DEL PERSONALE
Un dato acclarato è quello relativo al piano triennale di riduzione del personale che ha preso avvio nel 2009: quasi 8 miliardi di euro in meno, equivalenti ad oltre 130 mila posti di lavoro in corso di cancellazione, 87mila docenti e 45mila ausiliari. «Ma i tagli effettivi sono superiori» sottolineano Gianna Fracassi e Annamaria Santoro dell’Flc Cgil, «perchè il conto finale non considera la soppressione quasi totale dei corsi serali per adulti». Sono infatti sparite quasi del tutto le classi riservate agli studenti lavoratori, quelle allestite negli istituti penitenziari, quelle per persone in età matura: un’utenza debole che non ha avuto modo di alzare la voce e di venir considerata nell’elenco dei danneggiati dalla Gelmini. I numeri sono comunque previsionali, quelli reali potrebbero presto rivelarsi peggiori: la perdita dei posti di lavoro, infatti, considera il licenziamento di 17mila precari all’anno, ma la cifra è destinata a salire man mano che docenti e ausiliari a fine carriera decideranno di ritardare la pensione per non rimetterci in termini economici.
LA VTTIMA PRESCELTA
Quando c’è da recuperare risorse per aggiustare i conti pubblici, la scuola si rivela spesso la vittima prescelta: certo la manovra di luglio ha bloccato i rinnovi contrattuali per tutti i pubblici dipendenti, ma il grosso del risparmio è arrivato dal blocco delle anzianità tra il personale scolastico. E non stupisce il risparmio di 73 milioni di euro attuato sul funzionamento ordinario amministrativo, ovvero sulle spese per la carta, i toner e la cancelleria in generale: lo sanno bene le famiglie degli studenti, a cui gli insegnanti chiedo-
no di farsi carico delle fotocopie necessarie all’attività didattica.
Ancora più odioso il salasso ai fondi per la legge 440 sull’offerta formativa, vale a dire corsi aggiuntivi e sperimentali, sostegno all’innovazione, scuola digitale, integrazione degli alunni in situazione di handicap. Quelli per il 2010 ammontano a 129 milioni di euro, 10,5 milioni in meno rispetto al 2009 e la metà dei 260 milioni che erano disponibili dieci anni fa. Ma la lista non è ancora finita: ci sono i 350 milioni di euro stanziati per l’edilizia scolastica che invece, secondo le stime della Protezione civile, ne richiederebbe 13 miliardi. I crediti per 1,6 miliardi che le scuole vantano nei confronti del Miur e che hanno convinto la Cgil scuola e le associazioni dei genitori a presentare una class action nei confronti del Ministero. E i tagli per ora non quantificabili che gli enti locali saranno costretti a fare sui servizi scolastici dopo la stretta finanziaria della scorsa estate.
«Si tratta di tagli orizzontali che non eliminano gli sprechi per reinvestire in qualità, ma che impoveriscono il sistema dell’istruzione con una operazione di bilancio» spiega il segretario generale della Flc, Domenico Pantaleo. «Eppure l’Italia spende già molto meno degli altri paesi Ocse nella scuola e nell’università: solo il 4,5% della spesa pubblica a fronte di una media europea del 5,7%».

Corriere della Sera 9.10.10
Gli espartriati della scuola
di Ernesto Galli Della Loggia


Nella crisi italiana non c'è solo l'economia. Qua e là affiorano sintomi di altra natura che hanno un significato forse ancora più grave: sintomi di un domani alle porte nel quale ad essere colpiti finiranno per essere la nostra stessa identità collettiva, il senso del nostro stare insieme come Paese. Tra questi uno mi appare più inquietante degli altri: da qualche tempo le élites italiane non mandano più i figli alle scuole italiane.
Non sto dicendo che non li mandano più nelle scuole pubbliche, preferendo quelle private. Accade massicciamente anche questo, ma ormai accade che non li mandino più nelle scuole in cui comunque si parla italiano e dove s'impartiscono programmi italiani. Perlomeno nelle grandi città un numero sempre maggiore di persone agiate sceglie per i propri figli scuole francesi, tedesche, o perlopiù anglo-americane. Fino a qualche anno fa il fenomeno riguardava essenzialmente l'università. Chi poteva permetterselo mandava i figli a studiare, o almeno a specializzarsi, fuori d'Italia. Ora invece questa scelta riguarda sempre più spesso anche la scuola superiore e ormai, sembra di capire, la stessa scuola elementare. Cifre non ne conosco, ma ho l'impressione che la cosa coinvolga già migliaia di giovani delle classi superiori.
È impossibile non vedere che cosa tutto ciò significhi. È la prova certamente del decadimento del nostro sistema d'istruzione, vittima di un marasma organizzativo e di uno sfilacciamento culturale grazie ai quali hanno avuto sempre più spazio prepotenze corporative di ogni tipo: da quelle dei professori universitari a quelle dei sindacati degli insegnanti.
Ma tutto ciò non può impedire di vedere che dietro la diserzione dei giovani figli delle élites dalla scuola del proprio Paese c'è ben altro; e non certo il desiderio di imparare bene una lingua straniera. C'è in generale il progressivo, profondo, sentimento di dissociazione psicologica e spirituale degli italiani dalla dimensione della collettività nazionale. Che si esprime soprattutto nella convinzione che per la propria identità, per il proprio modo di essere e di sentire, per ciò che si è, e dunque per quella dei propri discendenti, la storia, la letteratura, l'arte italiane — per l'appunto ciò che si apprende (o si apprendeva) nella scuola — non hanno più alcun valore particolare. Questa repulsa del nostro passato esprime la convinzione che ormai questo Paese come tale non ha più alcun futuro: intendo un futuro in qualche modo specificamente suo, che porti impressi le caratteristiche, le vocazioni, la storia, il genio, suoi propi, se così posso dire. La convinzione che tutte queste cose, se mai esistono, tuttavia sono ormai fuori gioco, e dunque inutili. Come fuori gioco e inutile appare la nostra lingua; che nel Mondo Nuovo globale, com'è ossessivamente definito, l'Italia in quanto tale non ha più molto da dire. Ecco perché, allora, è meglio cercare di diventare belle o brutte copie degli inglesi o degli americani che restare italiani condannati per sempre alla serie B.
In altri tempi si sarebbe detto che proprio, se non soprattutto di queste cose, una classe politica degna del nome dovrebbe preoccuparsi ed occuparsi. Ma erano altri tempi, per l'appunto. Adesso, il solo parlarne suona perfettamente inutile. Certi discorsi e il loro oggetto appaiono destinati irrimediabilmente a finire nel malinconico mare dei ricordi.

il Fatto 9.10.10
“Tutti con la Fiom”
Alla manifestazione del 16 ottobre con gli operai e contro “il regime B.-Marchionne”
“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma si cerca di negarlo”


“La pretesa di calpestare i diritti costituzionali nello stabilimento Fiat di Pomigliano è diventata la linea dell’intera Federmeccanica, con l’avvallo infine dell’intera Confindustria spalleggiata dal sostegno del governo”, quindi la necessità di scendere in piazza, a Roma il 16 ottobre, accanto alla Fiom, spiegano nell’appello di MicroMega alla mobilitazione, firmato Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, don Andrea Gallo e Margherita Hack: “La volontà di assassinare la Costituzione tracima oltre il berlusconismo tradizionale, appartiene ormai al regime Berlusconi-Marchionne. Ecco perché sentiamo il dovere di rilanciare con convinzione ancora più forte il nostro appello, facendo coincidere l’appuntamento con la giornata di lotta già indetta dai metalmeccanici Fiom”.
Le adesioni non si contano. Intellettuali, politici, giornalisti, esponenti della società civile, dallo scrittore Antonio Tabucchi al regista Giuliano Montaldo, da Luigi De Magistris a Moni Ovadia, da Altan a sacerdoti come don Paolo Farinella e don Enzo Mazzi.
LO SCRITTORE. Una manifestazione “in difesa della Repubblica italiana dall’aggressione del sistema berlusconiano – per Antonio Tabucchi –, oltreché in difesa dei diritti del lavoro di cui si fa carico la Fiom, contro il ricatto dell’azienda Fiat che porta uno sfregio irreversibile alla Costituzione. Un’azienda, vorrei ricordare, che in tutto il dopoguerra è vissuta grazie alle iniezioni di denaro pubblico, cioè al denaro di tutti noi cittadini. A tutto questo si aggiunge il mio allarme per le parole eversive pronunciate sabato 2 ottobre a Milano da Silvio Berlusconi, che costituiscono un attacco inaudito alle garanzie istituzionali. Affermare – continua lo scrittore – come ha fatto Berlusconi, che dietro la caduta del suo governo nel 1994 ci siano la magistratura e l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e proporre una commissione parlamentare che indaghi sulla magistratura italiana è eloquente, penso, sull’imminente pericolo che l’Italia sta vivendo. Ricordo che Mussolini arrogò a sé l’inchiesta sul delitto Matteotti. Cittadini, vigiliamo”.
IL GIORNALISTA. Sarà una “manifestazione in difesa del lavoro, ma soprattutto della Costituzione”, che rappresenta “i valori attorno ai quali adunar si”, spiega Furio Colombo, deputato del Pd e firma del Fatto Quotidiano: “Questa è una Repubblica fondata sul lavoro, ma si cerca di negarlo. Un dovere particolarmente urgente esserci – il 16 ottobre – in un momento particolarmente aspro, duro, buio della vita italiana”.
L’ATTORE. Una Repubblica fondata sul lavoro ormai trasformata, per l’attore Moni Ovadia, una “diarchia berlusconiana” che ha uno scopo preciso: “Demolire la giustizia sociale togliendo al lavoratore la dignità di titolare di diritti. Il lavoro diventa una concessione e il lavoratore serve sotto ricatto. Dobbiamo attivare un processo di mobilitazione costante contro questo imbarbarimento. La battaglia più importante da fare”.
VOCI DI CHIESA. Adesione all’appello, di cui uno dei primi firmatari è don Gallo, anche da altre voci cattoliche. Come don Paolo Farinella, anche lui sacerdote di Genova, che non ha dubbi: “In piazza con la Fiom contro il regime Berlusconi–Marchionne. Perché il progetto di Marchionne è quello di eliminare il sindacato e in questo converge con la politica del governo, che è quella di instaurare un regime anti-democratico. Una manifestazione di piazza intesa, quindi, come nuova Resistenza contro il tentativo non solo di umiliare ma di distruggere l’Italia intera”. Don Enzo Mazzi indica anche una prospettiva: “Non dobbiamo rincorrere il berlusconismo, dobbiamo cambiare strada, perché non si risolvono i problemi con lo stesso schema che li ha creati. Dobbiamo uscire da questo orrido pantano culturale, politico e sociale.
LA POLITICA. Gli europarlamentari dell’Idv Sonia Alfano e Luigi De Magistris si schierano con la Fiom: “Ci interessa la sorte di quelle migliaia di cittadini che ogni giorno perdono il posto di lavoro” perché “è in atto un disegno autoritario di questo governo per cambiare sempre più l’equilibrio tra capitale e lavoro”.

il Fatto 9.10.10
Bersani ci sarà oppure no?
di Sa. Can.


La Fiom qualche sondaggio riservato lo ha fatto e al Pd ha chiesto conto della sua partecipazione in piazza il 16 ottobre. Solo che al momento non ha avuto risposta. Magari Bersani e soci decideranno il 15 ottobre verso la mezzanotte. Eppure la manifestazione Fiom sta diventando sempre di più l’appuntamento di riferimento dell’opposizione sociale e anche politica. Bersani non smette mai di dire che il lavoro è al centro del Pd che lui ha in mente. Se è così la sua assenza in piazza si noterebbe almeno quanto la sua presenza. Ovviamente se Bersani decidesse di partecipare si sottoporrebbe a una sfilza di critiche, il “partito Fiat” all’interno dei Democratici è piuttosto notevole e le contestazioni alla Cisl di questi giorni rendono ancora più difficile l’adesione. L’ex popolare Fioroni, dopo la manifestazione con fumogeni alla sede Cisl di Roma, ha chiesto al Pd di battersi contro questa “nuova strategia della tensione”. Ma la domanda resta: ci sarà o no il Pd il 16 ottobre in piazza con la Fiom?   

il Fatto 9.10.10
Dopo Pomigliano si sono aperte tutte le valvole di sicurezza: diritti calpestati
Esserci perché siamo ai colpi di coda del Caimano e allo sfacelo totale
di Andrea Camilleri


 Queste mie parole, quale che sia il peso che possono avere, hanno il valore di un invito, dettato dal sentimento e dalla ragione, a partecipare alla grande manifestazione del 16 ottobre, indetta dalla Fiom, nel corso della quale saremo presenti anche noi. Perché c’è questa necessità? Credo sia evidente, da tutte le notizie che quotidianamente filtrano attraverso i giornali e le televisioni, che siamo allo sfacelo della politica e agli estremi colpi di coda di un governo. E di un uomo che non ha nessun senso delle istituzioni, né della Costituzione, né della giustizia. E quindi fa di tutto perché queste istituzioni siano modificate a suo uso e consumo. Questo non si può assolutamente permettere in uno Stato democratico.
DIRÒ DI PIÙ: è molto importante che la nostra manifestazione sia all’interno della grande manifestazione della Fiom. In questi ultimi mesi la Fiom ha difeso i diritti dei lavoratori. Ora, diritti non significa solo le pause, la durata delle ore di lavoro.
Diritto è soprattutto il diritto del lavoro ad essere rispettato in quanto tale. La Fiom sta difendendo prima di tutto la dignità del lavoro. Manifestare uniti alla Fiom, oggi, ha un senso preciso di unione di volontà.
La posizione che la Fiom ha assunto nei riguardi dello Statuto dei lavoratori e delle condizioni dei lavoratori nasce nel momento in cui Marchionne a Pomigliano ha fatto un vero e proprio diktat, di quelli o prendere o lasciare.
Credo che già allora i rappresentanti della Fiom avessero intuito che, cedendo al diktat di Marchionne, in realtà avrebbero aperto le valvole di sicurezza per una moltiplicazione dell’esempio Pomigliano, il che è avvenuto. Vorrei farvi riflettere su una cosa vista nei telegiornali. I lavoratori di Pomigliano, intervistati dalla televisione, non rispondono all’intervistatore perché hanno paura di essere licenziati se parlano. Un clima così, io che ho 85 anni, l’ho vissuto nei miei primi diciotto anni, sotto il fascismo.
Voglio dire, Marchionne dà un cospicuo contributo a quello che è il mutamento della democrazia italiana in una dittatura strisciante.
CHE COSA vorremmo in questa manifestazione? Che fossero presenti “tutti coloro che”. Chi sono “tutti coloro che”?
Certo che c’è la società civile, c’è il Popolo viola che ha già manifestato per i fatti suoi, ma vorrei che ci fosse la gente che sento parlare al mercato, la gente che sento parlare in autobus, quelli che non ne possono più e che pure esitano a scendere in piazza.
Ora, una volta che non possono più eleggere i loro deputati con questa legge elettorale, che vengano a dire come la pensano almeno in piazza. Altrimenti tutto questo dà maggiore sicurezza al governo.
Oggi, chi non osa minimamente manifestare il proprio pensiero assieme agli altri, in realtà finisce per dare una mano a questo governo. Quindi non è che posso fare un appello a singole categorie di persone. Posso fare un appello a tutti gli italiani di buona volontà, perché ce ne sono tanti: che si sveglino, che scendano in piazza con noi.

l’Unità 9.10.10
Premiato Liu Xiaobo l’autore della Charta 08, condannato a 11 anni e in carcere dal 2008
Un dissidente Nobel per la pace
L’ira della Cina
Il Nobel entra nelle carceri cinesi. E premia un professore di letteratura che ha lanciato la sua sfida di libertà al Gigante cinese: Liu Xiaobo. Pechino reagisce con rabbia, mentre i dissidenti esultano.
di Umberto De Giovannangeli


«Il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di assegnare il premio Nobel per la pace 2010 a Liu Xiaobo per la sua lunga e non violenta battaglia in favore dei diritti umani fondamentali in Cina. Il Comitato norvegese per il Nobel ritiene da tempo che ci sia uno stretto legame tra i diritti umani e la pace. Tali diritti sono un prerequisito per la “fratellanza tra le nazioni”della quale Alfred Nobel scrisse nel suo testamento...». Un Nobel del coraggio. Un Nobel che sfida il Gigante cinese. Il Nobel a Liu Xiaobo. A ricordarlo è lo stesso Comitato di Oslo.
SFIDA DI LIBERTA’
Ogni parola è un macigno politico per Pechino: «Da oltre due decenni, ricorda il Comitato Nobel Liu Xiaobo è un forte portavoce della battaglia per l'applicazione dei diritti umani fondamentali anche in Cina. Prese parte alle proteste di Tienanmen nel 1989; è stato uno degli autori promotori della Charta 08, il manifesto di tali diritti in Cina che è stato pubblicato nel 60/o anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti umani, il 10 dicembre 2008. L’anno successivo, Liu è stato condannato a undici anni di prigione e a due anni di privazione di diritti politici per “aver incitato alla sovversione contro lo Stato”. Liu ha ripetutamente sostenuto che questa sentenza viola sia la Costituzione cinese che i diritti umani fondamentali. «La campagna per promuovere i diritti umani universali anche in Cina è stata intrapresa da molti cinesi, sia nella stessa Cina che all'estero. Attraverso le severe punizioni inflittegli, Liu è diventato il principale simbolo dell' intera battaglia per i diritti umani in Cina». Spiegando i motivi della scelta il presidente del comitato norvegese Thorbjoern Jagland ha affermato che « la Cina, la seconda economia del mondo, deve aspettarsi di essere sotto stretta osservazione man mano che diventa più potente, come gli Usa dopo la seconda guerra mondiale». «Mentre la Cina cresce ha proseguito abbiamo il diritto di criticarla...noi vogliamo far avanzare le forze che vogliono che la Cina diventi più democratica».
LA RABBIA DI PECHINO
La Cina ha reagito con rabbia, affermando che la decisione del Comitato per il Nobel,è «un’oscenità». In una nota diffusa sul suo sito web, il ministero degli Esteri cinese sostiene che Liu Xiaobo è «un criminale» che è stato condannato «dalla giustizia cinese». La decisione è destinata a «nuocere alle relazioni tra la Cina e la Norvegia», il cui ambasciatore a Pechino è stato subito convocato dalle autorità cinesi. Il ministero degli Esteri cinese ricorda che secondo le parole del suo fondatore Alfred Nobel, il premio per la pace deve essere assegnato a «persone che hanno promosso la fratellanza tra le nazioni, l'abolizione o la riduzione degli armamenti e che si sono sforzate di promuovere iniziative di pace«. Le «azioni di Liu Xiaobo conclude il comunicato sono completamente contrarie a questi principi». Liu Xiaobo, un professore di letteratura che oggi ha 54 anni, ha iniziato la sua attività di dissidente nel 1989, schierandosi con il movimento per la democrazia guidato dagli studenti. Subito dopo il massacro che mise fine al movimento, trascorse 18 mesi in prigione e nel 1995 fu condannato a tre anni di «rieducazione attraverso il lavoro». Il Nobel a Liu, rileva Teng Biao, un avvocato democratico impegnato in tutte le principali iniziative per i diritti umani degli ultimi ann, «incoraggerà sicuramente la società civile della Cina e sempre più gente si batterà per la pace e la democrazia». Una speranza che sa di sfida al Gigante cinese. Una sfida di libertà. Nel nome di Liu, un Nobel coraggioso. Scomodo.

l’Unità 9.10.10
Le motivazioni del Comitato che assegna il premio


Pubblichiamo ampi stralci delle motivazione del premio

«Il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di assegnare il premio Nobel per la pace 2010 a Liu Xiaobao per la sua lunga e non violenta battaglia in favore dei diritti umani fondamentali in Cina. Il Comitato ... ritiene da tempo che ci sia uno stretto legame tra i diritti umani e la pace. Tali diritti sono un prerequisito per la ‘fratellanza tra le nazioni’ della quale Alfred Nobel scrisse nel suo testamento. Nei decenni passati, la Cina ha raggiunto risultati economici difficilmente eguagliabili nella storia. Il Paese è oggi la seconda economia più grande del mondo; centinaia di milioni di persone sono state sottratte alla povertà. Anche le possibilità di partecipazione politica sono state ampliate. Il nuovo status della Cina deve comportare una maggiore responsabilità. La Cina viola diversi accordi internazionali dei quali è firmataria, così come la sua stessa legislazione in merito ai diritti umani. L'articolo 35 della Costituzione cinese sancisce che ‘i cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di espressione, di stampa, di assemblea, di associazione, di corteo e di manifestazione’. In pratica, è dimostrato che queste libertà sono chiaramente limitate per i cittadini cinesi. Da oltre due decenni, Liu Xiaobao è un forte portavoce della battaglia per l'applicazione dei diritti umani fondamentali anche in Cina. Prese parte alle proteste di Tienanmen nel 1989; è stato uno degli autori promotori della Charta08, il manifesto di tali diritti in Cina che è stato pubblicato nel 60/o anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti umani, il 10 dicembre 2008... Attraverso le severe punizioni inflittegli, Liu è diventato il principale simbolo dell'intera battaglia per i diritti umani in Cina».

l’Unità 9.10.10
Il presidente degli Stati Uniti: «La Cina ancora indietro sui diritti umani fondamentali»
Obama, Francia e Germania: ora dovete liberare Liu
Liberate il Nobel dei diritti umani. Liberate Liu. A chiederlo esplicitamente sono gli Stati Uniti, la Francia e la Germania. Parlano Obama, Angela Merkel, Sarkozy. Il silenzio assordante di Palazzo Chigi....
di Umberto De Giovannangeli


Barack Obama, Angela Merkel, Nicolas Sarkozy. I leader più accorti plaudono al Nobel per la pace assegnato a Liu Xiaobo e chiedono al Governo cinese di liberare il paladino dei diritti umani. La Comunità internazionale si mobilita e preme su Pechino. ««Chiediamo che il governo cinese rilasci Liu Xiaobo al più presto possibile», dichiara il presidente degli Usa. «Lo scorso anno, ho sottolineato come molti che hanno ricevuto il premio hanno affrontato molti più sacrifici di me» si legge ancora nella dichiarazione di Obama, al quale lo scorso anno l'accademia di Oslo ha conferito il Nobel, suscitando non poche polemiche. «Premiando Liu, il comitato dei Nobel ha scelto qualcuno che è stato un sostenitore coraggioso e fermo dell'avanzamento dei valori universali attraverso i metodi pacifici e non violenti, compreso il suo sostegno alla democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto» , ha detto ancora Obama che ha dato anche un chiaro giudizio politico della scelta del Comitato di Oslo.
PRESSIONI SU PECHINO
Sottolineando come in questi ultimi tre decenni la Cina ha fatto importantissimi progressi economici facendo uscire centinaia di milioni di persone dalla povertà, il capo della Casa Bianca ha sostenuto che «questo premio ci ricorda che la riforme politiche non hanno tenuto il passo e che i diritti fondamentali di ogni uomo, donna e bambino vanno rispettati». Per la liberazione di Liu si schiera Parigi. «La Francia, come l'Unione Europea, ha espresso la sua preoccupazione al momento del suo arresto e ha chiesto in più occasioni la sua liberazione ha affermato il ministro degli Esteri Bernard Kouchner in un comunicato ribadiamo questo appello. La Francia riafferma il suo sostegno alla libertà di espressione ovunque nel mondo. Il Comitato Nobel, che fa le sue scelte in modo indipendente, ha voluto inviare un messaggio forte a tutti coloro che militano in modo pacifico per la promozione e la tutela dei diritti dell'uomo». Da Parigi a Berlino. La Germania si augura che il dissidente cinese Liu Xiaobo venga rimesso in libertà dalla Cina e possa così ricevere di persone il Nobel per la pace: a dichiararlo è il portavoce del governo di Berlino, Steffen Seibert. «Il governo tedesco auspica che (Liu Xiaobo) sia presto liberato per poter ricevere di persona il premio», afferma Seibert in un briefing con la stampa. «Il governo si è già impegnato in passato per la sua liberazione e continuerà a farlo», ha aggiunto il portavoce del governo della premier Angela Merkel.
L’UE PLAUDE
L'Unione europea si felicita per l'assegnazione del Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, ma non chiede esplicitamente la sua liberazione. Nel suo messaggio di felicitazione, il presidente della Commissione Ue, Josè Durao Barroso, rileva che il premio a Liu Xiaobao è un sostegno a tutti quelli che nel mondo lottano per la libertà e i diritti umani ma non fa esplicito riferimento alla Cina e neppure chiede la liberazione del leader cinese dissidente. Parlano Obama, Merkel, Sarkozy....Parole chiare e forti verso Pechino. Silenzio da Palazzo Chigi. Ed è un silenzio assordante. A parlare è Franco Fratti-
ni. «L'assegnazione, in maniera, come noto, del tutto indipendente, del Premio Nobel al dissidente cinese Liu Xiaobo incarna il riconoscimento internazionale per tutti coloro che, a prescindere dalla nazionalità di appartenenza, lottano per la libertà ed i diritti della persona», commenta il titolare della Farnesina. « Sono valori che, come ha sottolineato il Presidente della Commissione Barroso, aggiunge Frattini sono alla base della costruzione europea e che l'Europa deve continuare a sostenere ovunque nel mondo, senza eccezioni...». Ma Roma non segue Washington, Berlino, Parigi nel chiedere la liberazione di Liu.

l’Unità 9.10.10
«La Cina una prigione. Il premio aiuterà i paladini dei diritti»
Il portavoce Italia di Amnesty International: «L’Occidente deve far tesoro della scelta del Comitato di Oslo, la difesa delle libertà non può rimanere all’ultimo posto, dietro gli affari»
di U. D. G.


Il Nobel per la pace a Liu Xiaobo visto da Amnesty International (AI). L’Unità ne parla con Riccardo Noury, portavoce in Italia di AI. «Vorremmo che questo Nobel sottolinea Noury portasse l’Italia a considerare la Cina non solo come un enorme mercato ma anche come una grande prigione». E al Governo cinese che bolla come una «oscenità» il riconoscimento a Liu Xiaobo, il rappresentante di Amnesty International ribatte: «A suscitare oscenità è il fatto che un difensore dei diritti umani stia scontando una condanna a 11 anni di carcere».
Qual è il significato del Nobel per la pace assegnato a Liu Xiaobo? «Da parte di un Premio Nobel per la pace qual è Amnesty International, la scelta di conferire il premio a Liu Xiaobo è molto importante e coraggiosa. È un “premio alla carriera” che onora decenni di impegno per i diritti umani in Cina».
Il Governo cinese ha definito una «oscenità» l’assegnazione del Nobel per la pace al «criminale» Liu Xiaobo... «A suscitare oscenità è il fatto che un difensore dei diritti umani stia scontando una condanna a 11 anni di carcere. Piuttosto che bollare come una inammissibile interferenza negli affari interni ogni occasione in cui si parla di diritti umani, il Governo di Pechino dovrebbe considerare la decisione del Comitato di Oslo come un autorevole, ulteriore stimolo per rilasciare immediatamente Liu Xiaobo e tutti gli altri prigionieri di coscienza».
E all’Occidente cosa dovrebbe insegnare questo Nobel? «Il riconoscimento a Liu Xiaobo dà un monito fondamentale. i diritti umani devono essere in testa e non in fondo all’agenda dei rapporti con la Cina. Se Liu Xiaobo si trova ancora in carcere è anche perché, in questi anni, il mondo ha rinunciato a parlare di diritti umani con Pechino».
Gli affari «silenziano» le coscienze?
«Non tutte le coscienze, per fortuna, ma certamente in nome degli affari i diritti umani sono stati ampiamente sacrificati. Anche per questo la decisione di Oslo è importante, perché consente di riaccendere i riflettori sulla drammatica situazione dei diritti umani in Cina». In una metafora, si può dire che oggi (ieri per chi legge, ndr) Davide-Liu ha sconfitto il Golia cinese?
«Si ma solo in parte, perché “Davide” è ancora in carcere». Stando agli ultimi rapporti di Amnesty International è possibile dimensionare il fenomeno dei dissidenti imprigionati in Cina?
«Molti dei cofirmatari di Charta 08 condividono la stessa sorte di Liu Xiaobo e fanno parte di un gruppo di decine e decine di persone che si trovano in carcere per aver chiesto riforme e difeso i diritti umani».
Gli Stati Uniti, la Francia e la Germania hanno chiesto ufficialmente alle autorità cinesi di liberare Liu Xiaobo. E l’Italia?
«Mi auguro che faccia lo stesso, anche alla luce dell’assenza di un qualsiasi riferimento ai diritti umani nella visita dell’altro ieri del primo ministro cinese a Roma. L’Italia negli ultimi quindici anni è stata in prima fila per chiedere la fine dell’embargo dell’Unione Europea sulle armi alla Cina. Nello stesso arco di tempo abbiamo sentito poche voci chiedere la fine delle violazioni dei diritti umani in Cina. Vorremmo che questo Nobel portasse l’Italia a considerare la Cina non solo come un enorme mercato ma anche come una grande prigione».

l’Unità 9.10.10
In Campania Gli immigrati occupano le rotonde della vergogna
«Oggi non lavoriamo per meno di cinquanta euro al giorno»
Diritti e salario Il popolo invisibile del lavoro nero incrocia le braccia
Protesta in Campania degli immigrati irregolari impiegati nell’agricoltura o nell’edilizia. Il sindaco di Castel Volturno, che il 18 settembre ha rifiutato di ricordare i due anni dalla strage di camorra, li ha ricevuti.
di Massimiliano Amato


CASERTA. Ai “kalifoo round”, le rotonde della vergogna, stamattina non ci sono braccia in vendita, solo uomini che chiedono rispetto e una paga decente. E i caporali si tengono prudenzialmente alla larga: troppe telecamere e giornalisti. Baia Verde, dove due anni fa Miriam Makeba, “Mamma Africa”, dopo un concerto memorabile reclinò il bel capo altero e se ne andò a volteggiare libera nei prati del cielo, e i ragazzi del Ghana e della Nigeria la ricordano intonando i suoi must. E Villa Literno, Giugliano. E ancora: Casal di Principe, Qualiano, Scampia, Pianura. Sono 16 le rotonde della vergogna occupate pacificamente dagli “invisibili” di colore costretti a lavorare per poco più di 20 euro al giorno: la paga base è di 25 euro per dodici, anche tredici ore di lavoro filate nei campi, nell’edilizia, nei piccoli lavori di facchinaggio. Due euro e mezzo, il 10%, vanno al caporale, il resto è sufficiente a malapena per la cena. Così per mesi, per anni. Con una folla di incubi per compagnia. Le ronde della camorra e quelle dello Stato. Le prime ammazzano senza pietà, come avvenne la sera di San Gennaro di due anni fa a Castel Volturno: sei ghanesi crivellati da una banda di pazzi sanguinari capeggiati da un boss casalese che si era finto cieco per uscire dal carcere. Le seconde sono meno rumorose ma fanno male lo stesso: braccano i richiedenti asilo in attesa di risposta e i clandestini. La prospettiva di un futuro rispettabile nell’Occidente opulento può evaporare nello spazio di un blitz.
Lo spirito dello sciopero che gli “invisibili” inscenano rinunciando anche ai 22 euro e mezzo di una giornata di lavoro, va quindi oltre i cartelli inalberati sulle rotonde della vergogna: «Noi non lavoriamo per meno di 50 euro al giorno». Da Salerno, dove nel 2006 organizzò il primo grande sciopero dei braccianti “invisibili” della Piana del Sele, Anselmo Botte, sindacalista della Cgil che martedì prossimo presenta il suo secondo libro sui dannati di San Nicola Varco, argomenta: «Spero che la richiesta sia per il datore di lavoro, altrimenti suonerebbe come una legalizzazione del caporalato. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che dietro ogni caporale c’è un datore che calpesta le leggi sull’avviamento al lavoro». «È stato solo un primo appuntamento – spiegano i ragazzi della rete antirazzista – perché l’impegno per far terminare la spirale dello sfruttamento è molto lungo». Gli obiettivi sono due, molto ambiziosi: estendere l’articolo 18 del testo unico anche a chi denuncia di essere stato costretto all’irregolarità del lavoro e avviare «un percorso permanente di emersione dalla clandestinità».
Un primo risultato, la mobilitazione lo ottiene a fine mattinata, quando anche il sindaco di Castel Volturno Antonio Scalzone, che il 18 settembre scorso si era rifiutato di celebrare il secondo anniversario della strage dei ghanesi davanti alla sartoria Oba Oba, capitola. Accetta di incontrare le associazioni in Comune, ed è la prima volta dal giorno dell’insediamento della nuova Amministrazione. «È servito a conoscerci meglio», commenta laconico il primo cittadino. «Ho l’impressione che si sia tornati indietro sulle dichiarazioni fatte in precedenza», è invece la versione di Gianluca Castaldi, della Caritas casertana. Oggi seconda tappa della protesta: corteo a Caserta contro il razzismo, lo sfruttamento e le camorre (tutte) per il permesso di soggiorno e i diritti di cittadinanza. Previsti 2000 migranti, oltre a studenti e lavoratori.

il Fatto 9.10.10
La rivolta degli schiavi parte dal litorale domizio
di Vincenzo Iurillo


I luoghi simbolo del caporalato sono le rotonde stradali sparpagliate tra i vialoni del casertano, del litorale domiziano, della provincia Nord di Napoli. È nei pressi di questi slarghi di cemento che ogni mattina migliaia di immigrati, per lo più africani, vengono ingaggiati per pochi euro al giorno. Per lavorare in nero nell’edilizia, nella grande distribuzione, nelle campagne. Senza assicurazione, senza tutele, senza contributi. Senza
nessun diritto. Ieri mattina all’alba questo esercito di manovalanza clandestina e silenziosa – stimato in quasi 7000 persone secondo i movimenti dei migranti e dei rifugiati – ha deciso di protestare incrociando le braccia. Per dire no alle condizioni finora imposte loro dai caporali, alle paghe giornaliere da fame ancora più basse con la crisi in atto, alle trattenute di 3 o 5 euro imposte dagli schiavisti del Terzo millennio.
SOSTENUTI dai centri sociali, dai movimenti anti-razzisti e dalle associazioni di volontariato, gli immigrati si sono radunati a Baia Verde, Villa Literno, Castelvolturno, Casal di Principe, Pianura, Scampia, Afragola, Giugliano, Quagliano, Licola, Quarto, portando appeso al collo il cartello: “Oggi non lavoro per meno di 50 euro al giorno”. Distribuendo un volantino dal titolo “Siamo uomini o caporali”, hanno spiegato le proprie ragioni agli automobilisti e ai passanti incuriositi. Raccontando storie di agghiacciante sfruttamento. Come quella del nordafricano 30enne che si spacca la schiena 10 ore per 15-20 euro al giorno, a seconda dell’umore del caporale di turno. O del giovane nigeriano che scarica cassette di frutta e di latte in un supermercato gratis per giorni, nella speranza, che non sempre si avvera, di ricevere un salario a fine settimana.
JOSEPH, 39 ANNI, ghanese vive da nove in Italia, è sposato e ha due figli. Vive nella periferia di Villa Literno, dice di arrangiarsi con lavoretti da 25-30 euro al giorno e confessa di non riuscire a farcela. D’estate Joseph fa il bracciante agricolo: raccoglie la frutta per 12 ore al giorno. In alternativa, si presta a fare il giardiniere, il facchino, il muratore. Non raggiunge i mille euro al mese e al netto delle bollette e del cibo c’è davvero poco da scialare. “Qui circola una battuta che non è tanto lontana dalla realtà: c’è chi lavora soltanto per un panino” dice Mimma D’Amico del centro sociale ex Canapificio, uno degli enti che ha promosso lo sciopero. “Ma stiamo assistendo a una situazione paradossale: nei controlli incappano solo questi lavoratori, perché clandestini o irregolari, e non gli sfruttatori. Che approfittano di loro proprio perché sono privi di permesso di soggiorno, obbligandoli ad accettare condizioni davvero assurde. Cose che denunciamo da anni, nel silenzio assordante del governo e delle istituzioni, a cui ci rivolgiamo affinché favoriscano interventi per l’emersione del lavoro nero”.
LA SITUAZIONE è peggiorata da quando negli ultimi tempi alle storiche comunità di immigrati asiatici e africani si sono aggiunti i romeni e i cittadini dell’Est europeo, che accetterebbero di lavorare a condizioni peggiori (i romeni ieri hanno lavorato lo stesso). La protesta degli immigrati è comunque stata pacifica e composta. “Una bella manifestazione – commenta Alfonso De Vito, della rete antirazzista – perché queste persone hanno avuto il coraggio di scendere in piazza, metterci la faccia e sfidare i caporali”. A Baia Verde, nella piazzetta dove morì Miriam Makeba al termine di un concerto per le vittime della strage di San Gennaro a Castel Volturno, in molti si commuovono e dedicano un pensiero a Mamma Africa. Pregando per un futuro migliore.

Corriere della Sera 9.10.10
«Ammissione a punti» La nuova sfida di Veltroni è sull’immigrazione
di Maria Teresa Meli


BUSTO ARSIZIO (Varese) — È una piccola rivoluzione per il Pd. E il fatto che avvenga qui, a Busto Arsizio, a due passi da Varese, in terra leghista per intendersi, è senz’altro significativo. Si tratta della decisione di Movimento Democratico, l’area del partito che fa capo a Walter Veltroni, di presentare all’Assemblea nazionale un documento sull’immigrazione che non ricalca le parole d’ordine care alla sinistra, ma affronta il problema in maniera del tutto inedita per una forza politica come il Pd. L’ha elaborato il vice capogruppo alla Camera Alessandro Maran, e l’hanno sottoscritto tutti i leader della corrente, dall’ex segretario a Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni. Ma a queste firme si sono aggiunte anche quelle di alcuni esponenti della maggioranza interna, come Daniele Marantelli, il deputato «padrone di casa» che ha organizzato l’Assemblea, o di rappresentanti dell’area Marino, come Paola Concia.
La premessa dell’ordine del giorno è chiara: «Vogliamo assicurare attraverso l’introduzione di un sistema d’ammissione a punti che avremo gli immigrati di cui la nostra economia ha bisogno, ma non di più. Con il ritorno della crescita vogliamo vedere crescenti livelli di occupazione e salari crescenti, ma non crescente immigrazione». Un’innovazione per il Pd, senza ombra di dubbio. Tanto più se si pensa che il sistema a punti è quello che il ministro dell’Interno Roberto Maroni vuole introdurre nel nostro Paese. Naturalmente, nella proposta di Movimento Democratico alla fine di questo percorso è prevista per gli immigrati la cittadinanza italiana e i toni del documento sono molto diversi da quelli adottati dai leghisti, ciò non toglie però che l’impostazione sia differente da quella ufficiale seguita fin qui dal partito.
«Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna e Danimarca — si legge ancora nel testo presentato ieri sera – hanno adottato strategie di questo tipo. Età, sesso, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento del paese, si combinano in un punteggio, o valutazione, dell’ammissibilità dei candidati all’immigrazione. L’esito normale del processo di inclusione, in queste società è l’acquisizione della cittadinanza, e questo avviene per la maggioranza degli immigrati». Dunque, «si tratta di una politica migratoria selettiva: l’ammissibilità legata ad una valutazione delle caratteristiche degli immigrati», perché «venire, a ancor più restare in Italia, è un’ opportunità e non un diritto».
Ma non finisce qui. Il documento prevede anche un’altra proposta «forte» che rappresenta un’ulteriore novità per la tradizionale politica dell’immigrazione adottata dal Partito democratico. «Riconosciamo inoltre — è scritto nel testo — che l’immigrazione può mettere pressione sulla disponibilità di abitazioni e di servizi pubblici delle nostre comunità, perciò dobbiamo costituire un Fondo Impatto Immigrazione pagato dalle contribuzioni degli immigrati per aiutare le aree locali». Anche in questo caso, una piccola rivoluzione per il Pd, mutuata dalla Gran Bretagna. Una proposta di tassazione degli immigrati che farà discutere.
Il documento presentato da Movimento Democratico e fortemente voluto da Veltroni, ovviamente, non prevede solo paletti. Nell’ultima pagina vi è un paragrafo tutto dedicato ai diritti degli immigrati: «Poiché buona parte dell’immigrazione è di lungo periodo o permanente deve essere in grado di acquisire pieni diritti, politici e di cittadinanza. E le riforme devono riguardare lo snellimento delle procedure per ottenere la carta di soggiorno per “lungo residenti”; la concessione del voto amministrativo; l’accesso alla cittadinanza ai nati da residenti stranieri legalmente soggiornanti e ai minori cresciuti e formati in Italia».
Oggi, dopo una nottata di trattative in un’apposita commissione di lavoro, si saprà se il gruppo dirigente del Pd è disposto ad accettare la sfida sull’immigrazione lanciatagli dalla minoranza di Veltroni (tanto più che il documento è piaciuto anche a una parte della maggioranza interna e a una fett a degli a mministratori l ocal i del Nord), o se preferirà attestarsi sul documento elaborato da Livia Turco, in linea con i temi e gli slogan tradizionali della sinistra.

Corriere della Sera 9.10.10
La barriera di silenzio che nasconde il mostro tra le mura domestiche
di Gianna Schelotto


Come riconoscere l’orco in casa? Purtroppo non esistono decaloghi. Le sensazioni più inquietanti e spaventose creano fortissima la rimozione. Può accadere di essere lambiti dal dubbio, ma di fronte a certe realtà troppo inquietanti si tende a negare, a non capire e non vedere. Le mamme delle ragazzine molestate dai papà non sono complici, ma si trincerano dietro muri di involontarie omertà. Qualunque cosa è meglio dell’indicibile.
Ma c’è un limite a tutto. Cosa succedeva a casa di Michele Misseri non lo sappiamo. Per noi osservatori esterni nessuna espressione, nessun gesto, niente nell’aspetto fisico di quell’uomo poteva far pensare che fosse l’orco. Soltanto quando ha pianto, dopo aver ritrovato il cellulare della nipote, si è insinuato il dubbio che quelle lacrime fossero il segno di una colpa non più sopportabile.
Non sono i gesti, dunque, non è lo sguardo. Dobbiamo piuttosto guardarci da certi profondissimi isolamenti. Sarah è entrata nell’oscurità di quel garage, nel buio di quell’uomo con tutta la luminosità dei suoi quindici anni, il suo sorriso, la sua freschezza. E l’orco ha voluto catturare quella luce. Si parlavano in casa Misseri? Comunicavano tra di loro? Quest’uomo chiuso che lavorava nei campi e si chiudeva nel suo garage con quali spettri si misurava? Quanta solitudine conteneva?
Forse era una famiglia silente. La caduta della confidenza, l’incapacità di trasmettersi emozioni dovrebbero destare allarme in ogni famiglia. Certi silenzi vuoti possono diventare abissi tra chi non sa più dirsi niente o vive nell’angoscia di dirsi qualcosa.
Michele Misseri è sicuramente un mostro e il suo è un delitto atroce. Ma le donne della la sua famiglia hanno emesso per lui una condanna senza appello.
Anche questo desta sgomento perché rivela in quale sconfinato deserto vivesse l’orco.

Corriere della Sera 9.10.10
Severo e distante, il Dio degli americani
Sondaggi e interviste. Solo per il 22% è benevolente (come crede anche Obama)
di Armando Torno


È apparso ieri su Usa Today un articolo di Cathy Lynn Grossman riguardante le opinioni degli americani su Dio («How America sees God»). Come lo vedono o immaginano, cosa ne pensano, quali domande si pongono e come talune figure delle Chiese lo testimoniano. Prima di offrire i dati, varrebbe la pena ricordare che soltanto il 5% si è dichiarato «ateo/ agnostico», percentuale che sarebbe stata ben più alta se questa ricerca fosse stata fatta in Russia (una recente statistica dell’Università di Mosca offre indicatori oltre il 20%) o in qualche Paese europeo.
Le domande rivolte erano chiare, e possono essere riassunte in due quesiti. Quando pregate Dio a chi o a che cosa pensate di rivolgervi? E quando cantate «God bless America» a chi chiedete di benedire la vostra terra? Non si può dimenticare che negli Stati Uniti, Dio — o l’idea di un Dio — permea la vita quotidiana. Il suo riflesso nelle coscienze è un elemento essenziale per spiegare il passato degli Usa, molti dei conflitti a cui hanno preso parte o si sono trovati coinvolti; anzi, sottolinea l’estensore dell’articolo, «potrebbe offrire un indizio di quanto riserva il futuro». Insomma, Dio è al nostro fianco, o se ne sta oltre le stelle? È adirato, geloso, vendicativo come in alcuni passi dell’Antico Testamento o misericordioso e capace di confondersi con un amore infinito? Sino a dove il suo occhio scruterà le cose?
I sondaggi dicono che nove americani su 10 credono in Dio, ma il modo di immaginarlo rivela — sottolinea la ricerca — anche l’atteggiamento in materia di economia, giustizia, morale sociale, guerra, calamità naturali, scienza, politica, amore e anche altro, come sostengono Paul Froese e Christopher Bader, due sociologi della Baylor University di Waco (Texas). Il loro nuovo libro, America’s Four Gods, dove ci si chiede essenzialmente «cosa possiamo dire di Dio?», esamina le diverse visioni dell’Onnipotente. Il metodo di ricerca utilizzato si ba-sa su indagini telefoniche (1.721 adulti nel 2006 e 1.648 nel 2008), ma soprattutto trae c onclusioni qualitative da 200 «interviste in profondità», dalle quali, tra l’altro, si sono avute risposte intorno a una dozzina di immagini evocative dell’Altissimo. Froese ricorda che una simile ricerca ha un fine pratico, giacché si possono meglio comprendere le reazioni di una popolazione — per un fatto di cronaca o per la politica estera — conoscendo l’idea che ha di Dio.
Passando ai dati, diremo che un 28% crede in un Dio autoritario, impegnato nella storia e capace di fulminare con punizioni severe coloro che non lo seguono. C’è poi il Dio benevolente, che per questa ricerca vale il 22%. Si identifica anche in azioni di politica contingente, simili a quelle in cui il presidente Obama dichiara di essere spinto a vivere la sua fede cristiana nel servizio pubblico. È un Dio impegnato e ama e ci sostiene quando ci prendiamo cura degli altri. C’è poi il Dio critico. Vale il 21%. Chi crede in Lui? I poveri, i sofferenti e gli sfruttati. Sono convinti che non perda di vista le cose di questo mondo. Come rappresentarlo? Si può immaginare attraverso una battuta ascoltata in un sermone nella chiesa Open Door, a Rifle (Colorado): «I nostri conti bancari vuoti saranno i magazzini del Signore». C’è infine il Dio lontano: lo crede il 24%. Quasi un americano su quattro lo considera distante, ma ciò non significa che non abbia alcuna religione. È un’idea che i ricercatori hanno trovato in molti ebrei e nei seguaci di religioni e filosofie come il buddismo o l’induismo. Sovente questa categoria parla di un Dio inconoscibile, che si cela in dimensioni non percorribili dalla ragione, quasi fosse racchiuso in un teorema di matematica indimostrabile; oppure lo spiritualizzano sino a trasformarlo in qualcosa di incomunicabile.
Una ricerca come questa va presa con il beneficio di inventario, ma è estremamente importante il motivo che l’ha suggerita: le opinioni che gli uomini hanno su Dio permettono di comprendere meglio le loro scelte. Potrà sembrare a taluni una vecchia questione riportata alla luce e scritta in margine a Voltaire — il quale riteneva indispensabile la religione per il buon funzionamento degli Stati — ma in realtà è attualissima. Dio, per intenderci, non è morto, non è tramontato, non è quello che hanno cercato di dimostrare o distruggere i filosofi; anzi dopo il crollo delle ideologie, dei totalitarismi e di molte illusioni del Novecento si è presentato di nuovo sul palcoscenico della storia. Se Heidegger aveva scritto che soltanto un Dio ci può salvare, noi ora ricominciamo a capire quanto sia ancora indispensabile per spiegare l’uomo.

l’Unità 9.10.10
L’essere fuori luogo secondo Derrida
Il filosofo francese accosta il nostro tempo a quello  ́sconnessoÆdi Amleto. Epoca ambigua dove tutto è fuori asse
di Beppe Sabaste


In  un’epoca in cui sempre più violentemente si assiste a una messa al bando delle idee, della scrittura, della memoria, della gratuità, quindi della vita, Jacques Derrida teneva alta la complessità del pensare e della lingua, e assicurava con la sua statura e la sua fama una sorta di barriera difensiva sia che parlasse di Sant’Agostino, dell’essere marrani, di scrittura e teologia apofatica, del concetto di democrazia, del divario tra giustizia e diritto, tra legge e forza, o del concetto di Stato-canaglia. Per dirlo con parole povere, Derrida allargava costantemente l’area del pensiero e della teoria, come i migliori scrittori allargano l’area del narrare. Nel 2004 Derrida aderì a un appello «contro la guerra all’intelligenza» lanciato dalla rivista Les Inrockuptibles: pur esprimendo riserve su quel soprannome, esso disse Derrida «designa chiaramente una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, il risentimento, anche, di tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope, quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, la società civile, lo Stato e anche l’economia». Insomma, Jacques Derrida parlava molto del proprio tempo (che è il nostro), anche se agli antipodi dell’esaltazione del «presente vivente» con cui Jean-Paul Sartre inaugurava nel 1948 Les Temps Modernes (...).
DA SHAKESPEARE A PHILIP DICK
Il nostro tempo, ha suggerito Derrida in Spettri di Marx (Cortina 1994), è molto simile al tempo sconnesso di Amleto, quando grazie allo spettro conosce la vera ragione del nuovo ordine del regno e prende atto che «The time is out of joint». Analoga profetica disgiuntura fu annunciata da Marx, della cui descrizione economico-antropologica del capitalismo dell’alienazione tramite il feticcio della merce, del valore del valore e altri spettri, che non era già mai solo alienazione del lavoro, ma alienazione dell’uomo e «della specie» si traggono soprattutto oggi le conseguenze. È il tempo out of joint del liberismo selvaggio e della crescente esclusione dalla vita democratica, della disseminazione di armi atomiche e degli «Stati-fantasma», come la mafia, il consorzio della droga, ecc. Scrive Derrida: «(I)l tempo è disarticolato, lussato, sconnesso, fuori posto, il tempo è serrato e disserrato, disturbato, insieme sregolato e folle. Il tempo è fuori di sesto (hors de ses gonds), il tempo è deportato, fuori di sé, disaggiustato. Dice Amleto». Derrida passa in rassegna le traduzioni di questo verso di Shakespeare (...)fino a quella magniloquente di Gide, «cette époque est déshonorée». Altrettante versioni esistono in italiano.
Derrida non ha letto, credo, lo scrittore americano Philip K. Dick, e in particolare il suo romanzo del 1959 dal titolo Time out of joint. Interessante è la variante del traduttore italiano per Sellerio, del resto assolutamente fedele al senso del romanzo: «Tempo fuori luogo». Come tutte le storie di Dick parla di un dis-astro, un deragliamento, un andare fuori asse del tempo che comincia in modo impercettibile e deve assolutamente trasformarsi. Narra di quella situazione così letteraria del percepire qualcosa fuori posto, sconnesso, disaggiustato nell’ordine delle cose (...); un oscuro disagio il cui crescendo spettrale ricorda la situazione filosofica dell’aporia descritta da Derrida in, appunto, Aporie. Tralascio la trama. Il problema narrativo, qui come nel genere di romanzi detta dei «mondi possibili», è sempre l’amletico problema di Hamlet, vorrei dire dell’homeless: quello di tornare a casa. Come tornare, e come «sentirsi» a casa. Nello spettro dell’abitare, lo sappiamo, hanter, «infestare», è una delle non tantissime modalità.
Il «fuori luogo» dice la dislocazione, la dis-giuntura su cui indugia Derrida nel libro su Marx; ciò che Amleto chiama il tra, l’interim, ovvero il passaggio impossibile, l’aporia; percorso dal Ghost al Guest e viceversa, secondo l’etica dell’ospitalità e dell’accoglienza più volte ribadita da Derrida. Fuori luogo sono i discorsi inattesi e paradossali (come minale, poiché «essere clandestini» oltre a un pleonasma è un reato). Il fuori luogo, faglia o rottura spazio-temporale, è la sensazione così attuale di essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso, come in una diaspora universale in cui si è dappertutto ma mai a casa (forse per questo abbiamo bisogno di una home page). È una dislocazione (o «delocazione», come le opere straordinarie di Claudio Parmiggiani ottenute col fumo e le tracce dell’assenza delle cose), che connette la questione dello spettro e dello spettrale alla speculazione e la scrittura delle storie di fantasmi alla scrittura fantasma, ghost writing. (Questione in sospeso, quindi, di cosa e come sia una lingua di fantasmi). La disgiuntura, il «tempo fuori luogo», dice l’urgenza, come ha scritto altrove Derrida, «faticosamente, dolorosamente, tragicamente, (Di) un nuovo pensiero delle frontiere, una nuova esperienza della casa, del chez-soi e dell’economia». Questa nuova esperienza dell’abitare è naturalmente anche una nuova esperienza del linguaggio: leggendo Shakespeare (ma anche leggendo Derrida, Marx e Philip K. Dick), il lettore investito da questa dislocazione è trasformato in un guest-writer.
Ovvero, per esempio, un testimone, che è sempre un, o il, fantasma revenant, colui che ritorna. Un arrivante, un ritornante, un superstite.
(...) In realtà è un’esperienza molto antica. È quella dell’unica vera avventura, di fronte alla quale ogni altra ne è solo l’insoddisfacente surrogato, del «parlare con i morti», su cui da anni sto scrivendo il mio, chiamiamolo così, «romanzo», e che ritrovo, sempre in anticipo e insieme in differita, in différance, in Derrida.
Trasformare il ritorno in rivolta, ha scritto Derrida, a proposito di Marx, e dello spettro del comunismo.
Il tempo del fantasma (come l’archivio) è l’avvenire, ha scritto altrove Derrida, e la sopravvivenza è «la vita più intensa che sia possibile».

Ansa.it 8.10.10
I gemelli socializzano in utero, prima di nascere 'giocano'
Studio ricercatori diretti da docente Universita' Padova

qui segnalazione di Francesco Maiorano
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2010/10/08/visualizza_new.html_1734592913.html

Terra 9.10.10
Farmaci e bugie
di Federico Tulli


Terra 9.10.10
Alice e la conoscenza
di Alessia Mazzenga

venerdì 8 ottobre 2010

Apcom e Virgilio Notizie 7.10.10
Editoria/ Asino d'oro e Stroemfeld pubblicano Fagioli in tedesco
L'edizione per la Germania verrà presentata a marzo 2011 a Lipsia
Milano, 7 ott. (Apcom) - La casa editrice Asino d'oro e l'editore Stroemfeld pubblicano un'edizione in tedesco di "Istinto di morte e conoscenza", opera prima dello psichiatra Massimo Fagioli. La casa editrice romana presente alla "Buchmesse" del libro di Francoforte, presenterà il libro di Fagioli alla fiera di Lipsia, che si terrà il marzo prossimo.
Dal 2009 a oggi l'Asino d'Oro ha pubblicato libri sul tema della bioetica come "Ru 486, non tutte le streghe sono state bruciate" e "La pillola del giorno dopo" di Carlo Flamigni, altri di tema filosofico-psicologico come l'identità umana" di Livia Profeti o "Il ritorno di Lilith" di Joumana Haddad. Entro la fine del 2010 è prevista l'uscita di "Chiesa e Pedofilia", inchiesta del giornalista Federico Tulli. Nel 2011 verranno inaugurate le collane di psichiatria, letteratura,cultura araba e una di saggistica cinese intitolata "Cina".

Adnkronos 7.10.10
Fiera Francoforte: In Germania L’Asino d’oro con “Istinto di morte e conoscenza”: L’opera di Massimo Fagioli esce a Marzo 2011


Francoforte, 7 ott. (Adnkronos) - La casa editrice romana l'Asino d'oro approda alla Fiera del libro di Francoforte con undici titoli pubblicati nell'ultimo anno e mezzo. E annuncia l'uscita in Germania, nei primi mesi del nuovo anno, con lo storico editore Stroemfeld, della traduzione in lingua tedesca di 'Istinto di morte e conoscenza', prima e fondamentale opera di Massimo Fagioli. Il volume verra' presentato nel marzo 2011 alla Fiera di Lipsia. Nel 2011, inoltre, L'Asino d'oro inaugurera' una nuova collana di letteratura ed una nuova collana di psichiatria.
La giovane casa editrice fondata a Roma nel 2009, che deve il suo nome alle 'Metamorfosi' di Apuleio del II secolo d. C., presenta come asse portante i libri di dello psichiatra dell'Analisi Collettiva Massimo Fagioli, ai quali si affiancano nel catalogo un'ampia collana di saggistica (storia, politica, societa'), una collana di poesia letteratura e saggistica cinese, intitolata ''Cina'' ed un'altra dedicata alla cultura araba.
'Istinto di morte e conoscenza', scritto dallo psichiatra romano quaranta anni fa e pubblicato in una nuova edizione italiana da L'Asino d'oro nel 2010, contiene i fondamenti della teoria della nascita, nota ormai a livello internazionale ed espressione di un nuovo movimento culturale, scientifico e umanistico. Oltre ai nuovi libro di Fagioli ('Fantasia di sparizione', 'Left 2006' e 'Left 2007'), dal marzo 2009 ad oggi, L'Asino d'oro ha gia' pubblicato: 'Il ritorno di Lilith' di Joumana Haddad, 'Lombardi e il Fenicottero' di Carlo Patrignani, 'L'identita' umana' di Livia Profeti, 'RU 486, non tutte le streghe sono state bruciate' e 'La pillola del giorno dopo' di Carlo Flamigni e Corrado Melega, 'La rosa e la peonia' di Valentina Pedone, 'Italia a lume di candela' di Marzio Bellacci.

Agi 7.10.10
Buchmesse: L’Asino d’oro, “Istinto di morte e conoscenza in tedesco


Roma, 7 ott. - 'Istinto di morte e conoscenza' l'opera fondamentale dello psichiatra Massimo Fagioli uscira' anche in Germania, quindi in tedesco, per l'editore Stroemfeld: e verra' presentato alla Fiera di Lipsia di marzo 2011. Lo si legge in una nota della casa editrice 'L'Asino d'oro' - undici i titoli pubblicati nell'ultimo anno e mezzo - presente alla Buchmesse di Francoforte e che di recente ha ristampato Istinto in una nuova edizione a 40 anni da quando e' stato scritto. Nel 2010 la casa editrice, fondata nel 2009 da Matteo Fago e Lorenzo Fagioli, prevede una nuova collana di letteratura ed un'altra di psichiatria. "L'asse portante - precisa la nota della casa editrice italiana, che deve il suo nome alle Metamorfosi di Apuleio, romanzo del II secolo d. C., che a sua volta contiene la favola di 'Amore e Psiche' - sono i libri dello psichiatra dell'Analisi Collettiva Massimo Fagioli, ai quali si affiancano nel catalogo un'ampia collana di saggistica (storia, politica, societa'), una collana di poesia letteratura e saggistica cinese, intitolata "Cina" ed un'altra dedicata alla cultura araba. "Istinto di morte e conoscenza", che reca in effige sulla copertina rossa l'immagine di "Amore e Psiche", contiene i fondamenti della teoria della nascita, nota ormai a livello internazionale ed espressione di un nuovo movimento culturale, scientifico e umanistico. Oltre ai nuovi libri del professore Fagioli ("Fantasia di sparizione", "Left 2006" e "Left 2007"), dal marzo 2009 ad oggi, L'Asino d'oro - prosegue la nota - ha gia' pubblicato: "Il ritorno di Lilith" di Joumana Haddad, "Lombardi e il Fenicottero" di Carlo Patrignani, "L'identita' umana" di Livia Profeti, "RU 486, non tutte le streghe sono state bruciate" e "La pillola del giorno dopo" di Carlo Flamigni e Corrado Melega, "La rosa e la peonia" di Valentina Pedone, "Italia a lume di candela" di Marzio Bellacci. Entro la fine del 2010, e' prevista l'uscita di "Chiesa e Pedofilia", sconvolgente saggio- inchiesta del giornalista Federico Tulli e una raccolta delle Storie di Amore e Psiche, sull'origine e diffusione della favola "in ogni parte del mondo", dall'India al Mediterraneo, fino ai mari del Nord, di Annamaria Zesi". In fase di pubblicazione, conclude la nota, "L'Asino d'oro ha una serie di biografie parallele tra figure di letterati, pensatori e artisti vissuti nella stessa epoca (Dante e Cavalcanti, di Noemi Ghetti; Caravaggio e Giordano Bruno, di Annamaria Panzera), la cui vita ed opera hanno avuto sviluppi e fortuna completamente diversi".


l’Unità 8.10.10
Cortei degli studenti in sessanta città italiane, con loro anche i ricercatori delle università
Ddl Gelmini in aula alla Camera il 14 ottobre. Non c’è copertura finanziaria per la riforma
In piazza per difendere scuola e atenei pubblici
Le manifestazioni indette per difendere il diritto allo studio e all’offerta formativa. Pantaleo (Cgil): «Lo studio sta diventando un diritto per pochi, il sistema dell’istruzione al centro del modello per uscire dalla crisi».
di Iolanda Bufalini


Macerie: è quel che resta della scuola pubblica dopo i tagli che hanno riportato il numero degli studenti per aula a cifre da dopoguerra, abolito laboratori anche nei professionali e la possibilità di studiare due lingue, cancellato l’informatica e ridotto le ore di italiano. Caschetti gialli in testa, dunque, gli studenti delle superiori saranno oggi in 80 cortei annunciati dall’Uds, nelle strade e nelle piazze di 60 città italiane. Ma non saranno soli. Ci saranno anche gli universitari, perché il disegno di legge del ministro Gelmini, in discussione alla Camera, mina anziché riformare le fondamenta dell’università pubblica. l’Unione degli universitari ha lanciato sul sito costruttori di sapere (costruttoridisapere.it) una foto-petizione: 1600 fotografie con caschetto giallo in testa. Anche Roberto Saviano raccontano gli studenti dell’Udu di Pavia ha solidarizzato, accettando una maglietta con la scritta «costruttori di sapere», dopo una conferenza sulla lotta alle mafie.
Insieme a ragazze e ragazzi che hanno coniato lo slogan «chi apre una scuola chiude una prigione», ci saranno i sindacati e la rete dei ricercatori e dei precari delle università.
Sciopera Unicobas mentre l’indicazione della Flc-Cgil, è di scioperare alla prima ora (all’ultima nei turni pomeridiani o serali). «Saremo in tanti alle manifestazioni studentesche», spiega il segretario Domenico Pantaleo, perché saranno tanti «i precari licenziati, i ricercatori, le rappresentanze delle Rsu». Quella di oggi, secondo il sindacalista, «è solo una prima tappa di una mobilitazione che non deve spegnersi con un unico grande fuoco». Mobilitazione che vedrà un altro momento importante il 14 ottobre (e un altro sciopero di un’ora), quando alla Camera si discuterà il Ddl Gelmini. «Il baratto accettato dai rettori sostiene Pantaleo e scandaloso, si sono accontentati di briciole, anzi di promesse vuote». Finanziamenti, superamento della precarietà e diritto allo studio sono gli obiettivi della mobilitazione nelle università. Offerta formativa che «è sempre più povera, particolarmente nel Mezzogiorno» e lavoro per «le migliaia di precari licenziati», gli obiettivi per la scuola. E poi il pericolo che accomuna i diversi gradi: «la privatizzazione del sistema dell’apprendimento, che sta diventando un diritto per pochi». È, sostiene Pantaleo, «un arretramento culturale simboleggiato dalla farsa degli sponsor privati, leghisti a Adro, da supermercato nella provincia Andria Trani Barletta».
14 OTTOBRE
L’assenza di risorse nella riforma dell’università ha avuto, ieri, la prova del nove in commissione cultura alla Camera. Nella discussione alcuni emendamenti delle opposizioni sono stati accolti ma «nulla di sostanziale», precisa Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd. L’unico emendamento presentato dalla maggioranza per 1500 concorsi ad associato, «meno di un terzo sostiene Giovanni Bachelet del necessario», non ha copertura finanziaria, la commissione bilancio si pronuncerà mercoledì. Riformulato, su indicazione dell’opposizione, l’articolo che avrebbe consentito ai rettori di restare in carica fino a 78 anni, «una vera gerontocrazia», secondo Manuela Ghizzoni.
Il Ddl Gelmini andrà, dunque, alla discussione in Assemblea, immutato nei punti sostanziali del centralismo e del reclutamento dei docenti. La maggioranza (compresa la componente Fli che chiede il ripristino degli scatti di anzianità), chiederà probabilmente alla conferenza dei capigruppo, lunedì, di anticipare la discussione prevista per il 14. Ma, a parte obiezioni di tipo regolamentare, sostiene Manuela Ghizzoni che «è giusto giocare a carte scoperte», sapendo, cioè, «cosa si prevede nella sessione di Bilancio per la riforma universitaria, a cominciare dal maltolto, un milirado e mezzo di tagli».


Repubblica 8.10.10
"Bersani più adatto di Vendola per sfidare Silvio alle elezioni"     


In un sondaggio di Ipr Marketing viene valutata la fiducia nei leader che possono sfidare Silvio Berlusconi. Al primo posto si piazza il segretario del Pd Pier Luigi Bersani con 47 punti, seguito da Nichi Vendola (45). È stato chiesto un giudizio su Montezemolo e Profumo. Il presidente Ferrari è al terzo posto, dietro di lui Gianfranco Fini. Un risultato simile emerge anche dallo studio sul profilo d´immagine: Bersani è sempre avanti, alle sue spalle Vendola e Montezemolo.


Repubblica 8.10.10
Pre-intesa sulla legge elettorale Fini, Bersani e Casini accelerano
Ma è già lite coi fan dell´uninominale. Schifani cauto
di Giovanna Casadio


ROMA - Cancellazione o modifica del premio di maggioranza. Soglia di sbarramento. Nuovo rapporto tra eletto e elettore attraverso i collegi uninominali o ripristinando le preferenze. La pre-intesa tra Bersani, Casini e Fini sulla legge elettorale c´è già, anche se per ora sono stati fissati solo i principi-base e su molte questioni - come l´indicazione del premier - la distanza tra democratici e centristi resta. Ci sono stati due incontri tra i leader e altrettanti tra gli "ambasciatori" per giungere a un "modello" elettorale di massima. Fini ribadisce che la riforma elettorale è indispensabile: «È un´eresia dire che la democrazia è restituire all´elettore la possibilità di scegliere i suoi rappresentanti? Ho votato questa legge, ho fatto autocritica. D´altronde se chi l´ha formulata la chiama Porcellum un motivo ci sarà». Insomma, discutere di legge elettorale «non è una provocazione, né un tentativo di minare una solida maggioranza ma un elemento di discussione che in tanti, anche nel Pdl, dovrebbero fare».
Frena invece il presidente del Senato, Renato Schifani sostenendo che una riforma della legge elettorale va vista «all´interno di un pacchetto complessivo di riforme del funzionamento del nostro paese». Anche perché, ragiona la seconda carica dello Stato, «se si dovesse passare al Senato federale, non v´è dubbio che occorrerebbe approvare una legge elettorale diversa rispetto a quella della Camera che dà la fiducia al premier». Comunque, a Palazzo Madama in commissione Affari costituzionali l´iter per la legge elettorale è già cominciato. Anche se a Montecitorio Pd, Udc, Fli, Idv e Api reclamano di potersene occupare. Chi la spunterà? Difficilmente la Camera. Schifani minimizza: «Sono fattori procedurali che valuteremo. Col presidente Fini mi sento quotidianamente. Quindi sicuramente non sarà necessario un incontro formale».
Nella Lega l´unico spiraglio al cambiamento della legge viene dal ministro Roberto Calderoli, l´ideatore del Porcellum, ma solo per affermare che, una volta approvato il Senato federale, allora «la riforma elettorale sarà obbligata». Intanto si costituisce ieri formalmente la "lega per l´uninominale" maggioritario. A darle vita un gruppo bipartisan che raccoglie i democratici più convinti del bipolarismo e del maggioritario (Ceccanti, Ichino, Chiti, Gentiloni, Marino, Verini), Emma Bonino, Marco Pannella e i radicali, i finiani Urso, Viespoli, Baldassarri (presso il suo centro studi avrà sede il comitato), Germontani. I fan dell´uninominale pensano anche a un referendum di consultazione per capire verso quale riforma si orienterebbero gli elettori. Evidente che la "lega per l´uninominale" va nel senso opposto rispetto ai tentativi di intesa che si stanno facendo tra i leader di Pd, Fli e Udc. Dario Franceschini, il capogruppo dei Democratici, parla dello sforzo per tessere un patto e cambiare davvero la legge. Gianclaudio Bressa (che è il "tecnico" del Pd in commissione affari costituzionali alla Camera) non apprezza l´insistenza sull´uninominale: «È il narcisismo della politica italiana: se fai un´azione blindandoti su un modello preciso, è difficile arrivare a un risultato». Il "futurista" Carmelo Briguglio in un´intervista all´Unità, ritiene che dovrebbe essere Berlusconi stesso a dare il via per cambiare la legge elettorale, «se non lo fa, sappia che potrebbe nascere un governo di transizione per farlo». Alla vigilia dell´assemblea nazionale del Pd a Varese (oggi e domani), Walter Veltroni avverte: «Il maggioritario non va messo in discussione».


l’Unità 8.10.10
Intervista a Michael H. Gerdts
«Rom e immigrati? In Europa vogliamo società aperte»
Il nuovo ambasciatore tedesco riflette sui 20 anni dalla riunificazione: «L’integrazione è il tema centrale le spinte localiste non freneranno la corsa europea»
di Roberto Brunelli


Lui c’era, lì a Praga, quando il ministro degli Esteri della Repubblica federale Genscher pronunciò il fatidico discorso dal balcone dell’ambasciata: c’erano migliaia di tedeschi dell’Est accalcati sotto quel balcone, e Genscher disse loro cose fino a quel momento inconcepibili: «Siete liberi». Disse loro che la Ddr aveva ceduto, che aveva dovuto accettare di farli transitare verso l’Ovest. Era il 30 settembre 1989: dopo poche settimane cadde il muro di Berlino e poco più di un anno dopo, il 3 ottobre 1990, la Germania divenne un Paese solo. Oggi Gerdts, all’epoca vice capo gabinetto del ministro, è il nuovo ambasciatore tedesco a Roma. Ruolo che aveva ricoperto già dal 2004 al 2007. Il suo ritorno avviene nel pieno di un ventennale che vede la Germania porsi sempre di più come baricentro politico ed economico dell’Europa.
Signor ambasciatore, grazie ai dati economici e alla sua forza politica, spesso la Germania viene definita un gigante, un gigante oramai soprattutto centro-europeo che guarda a Est... «Quella tedesca è stata un’unificazione nel cuore d’Europa. La Germania è circondata, per la prima volta nella sua storia, solo da Paesi amici: la priorità primaria è quella di contribuire a formare un’Unione europea sempre più stretta. A questa si aggancia l’esigenza di porsi sempre di più come grande soggetto di stabilizzazione nei confronti sia di quei Paesi che ancora devono entrare nell’Unione, sia nella capacità di sviluppare l’amicizia transatlantica e di costruire una partnership sempre più stabile nei confronti della Russia, che è il più grande dei nostri vicini, sia di sapersi confrontare con le potenze emergenti politicamente ed economicamente come la Cina, l’India, anche l’America latina. Il nostro punto di vista, ripeto, è esclusivamente la prospettiva europea, che è l’unica che ci permette di essere incisivi a livello globale». Lo ha detto, qualche sera fa proprio qui a Roma, anche l’ex ministro Genscher: con la riunificazione tedesca i popoli si unirono «con un’unico sentimento». Oggi però vi sono sintomi di crescenti egoismi nazionali e locali... «Vede, in passato, la storia europea è stata caratterizzata da guerre, da conflittualità sulle linee di frontiera. Oggi per la prima volta vi è grande stabilità politica, armonia economica e culturale, sicurezza comune. Lo spazio di questa stabilità si è espansa anche nei confronti dei vicini europei che non sono componenti dell’Unione grazie anche alla nostra politica di buon vicinato. Singoli movimenti o determinate realtà importanti sotto il profilo regionale non incideranno più di tanto».
Qualcuno pensa che ci possa essere il rischio che il gigante tedesco possa diventare troppo ingombrante... «Quella di “gigante” è un’espressione sbagliata. L’Europa è il lavoro comune di quasi 500 milioni di persone, l’euro è la moneta comune di 16 Paesi, per ora, altri ancora intendono entrare nel sistema dell’euro: è una zona monetaria che già di per sé produce stabilità. Quello che vedo è il comune sforzo di uscire insieme dalla crisi economica attraverso la solidarietà degli Stati, attraverso il lavoro comune volto ad impedire che crisi di questo genere possano ripetersi. È questo l’unico modo di essere politicamente ed economicamente un attore centrale di un mondo globalizzato».
Di recente c’è stata la vicenda francese che ha visto al centro le popolazioni rom. Che ruolo intende giocare la Germania in questo tipo di contrapposizioni?
«Il nostro è un Paese con otto milioni di stranieri, circa il 10% della popolazione. Abbiamo un approccio molto aperto nei confronti dei temi dell’immigrazione e dell’integrazione, nonché molta esperienza: basti pensare ai 2,2 milioni di turchi che vivono in Germania. Oggigiorno quello dell’integrazione è il tema centrale in Europa. Anche considerando la sempre minori crescita demografica ed il calo delle nascite, pensiamo che gli stranieri rappresentino una realtà imprescindibile se vogliamo mantenere i nostri standard di benessere: le nostre società devono essere aperte per le persone che condividono i nostri valori e che vogliono lavorare insieme a noi per un futuro migliore. Riteniamo che una concezione moderna di mobilità non possa prescindere dall’arricchimento di persone derivanti da altre realtà culturali».
Quant’è cambiata la Germania in questi ultimi vent’anni? «La Germania è stata capace di prendere in mano degli importanti processi, e di liberarsi anche dalle ferite psicologiche legate alla divisione del paese. Abbiamo assistito alla crescita comune delle due Germanie, ci siamo impegnati a far sviluppare la Germania dell’est, la cui economia era stata letteralmente distrutta dal socialismo reale. Le persone sono davvero “cresciute insieme” in questi anni. Oggi siamo orgogliosi di una nuova normalità che la Germania ha saputo riconquistare. Un Paese che in questi anni ha dimostrato un grande dinamismo nelle riforme, nel mercato del lavoro, nelle sue strutture sociali. Il simbolo più bello di questo dinamismo è Berlino, una realtà pulsante che rappresenta un’indicazione importante per il futuro».


il Fatto 8.10.10
Rom in Francia: schedati su base etnica
Rivelazione imbarazzante alla vigilia dell’incontro di Sarkozy con il Papa
di Alessandro Oppes


Non si poteva presentare con un biglietto da visita peggiore. Nicolas Sarkozy arriva oggi in Vaticano per un’udienza con papa Benedetto XVI sulla scia dell’ultima polemica provocata dalla rivelazione del quotidiano Le Monde: la gendarmeria francese utilizza un database “illegale e clandestino” per colpire i rom e i nomadi. Un file della vergogna battezzato “Mens” (minoranze etniche non sedentarie), costituito presso l’Ufficio centrale per la lotta contro la “delinquenza itinerante”, secondo la denuncia presentata dagli avvocati di quattro associazioni che protestano per la schedatura realizzata in base alle origini razziali ed etniche.
UN NUOVO SCHIAFFO alla credibilità del capo dell’Eliseo proprio nel giorno in cui Sarkozy dovrebbe tentare, attraverso il suo incontro con il Pontefice, una difficile ricucitura con la Chiesa e, quel che più gli sta a cuore, l’elettorato cattolico francese che non ha ancora digerito la politica del pugno di ferro imposta con l’espulsione di massa dei rom dall’agosto scorso. Con l’articolo pubblicato ieri in prima pagina, Le Monde smentisce anche la dichiarazione rilasciata nelle scorse settimane ai microfoni di Rtl dal ministro dell’Interno Brice Hortefeux, secondo il quale “non esistono statistiche su comunità specifiche”.
E mentre da Bruxelles, la polemica commissaria alla Giustizia – la lussemburghese Vivian Reding – ricordava ancora in questi giorni che “il caso non è chiuso” (la Francia ha tempo fino al 15 ottobre per adattarsi alla legislazione europea, in caso contrario potrebbe incorrere nei fulmini della Corte di giustizia), contro l’Eliseo si levano voci critiche sempre più autorevoli. Come quella del grande storico e sociologo Émile Poulat, uno dei maggiori esperti sulla questione religiosa nell’Europa contemporanea. “I rom in Francia? Non sono un grande problema, ma vengono utilizzaticome pretesto per una politica della mano dura”, dice lo studioso al Fatto Quotidiano nella hall di un grande albergo di Barcellona, dove ha partecipato al Meeting internazionale per la pace della Comunità di Sant’Egidio. “Siamo alla politica spettacolo e alla politica elettorale. Del resto, se c’è un problema rom, esistono soluzioni diverse da quella dell’espulsione che, tra l’altro, non è accompagnata da un divieto di ritorno. Il fatto è che in un momento in cui abbiamo più povertà, più scontento e più problemi non risolti, si cerca sempre un capro espiatorio. Si impone la politica muscolosa del governo, pensando che attiri nuovi elettori”.
VITTIME DESIGNATE per sviare l’attenzione in tempo di crisi? Ne è convinto anche il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo: “In altre epoche, furono altri popoli: pensiamo a quel che accadde dopo la crisi del ’29, quando gli ebrei vennero indicati come una delle cause. Gli zingari sono una popolazione che sembra tanto diversa dagli europei, che non ha un nazionalismo, che non sa difendersi. Quale minoranza in Europa sopporta in silenzio come loro? Però noi non possiamo approfittarci del fatto che non sono organizzati. Certe posizioni che stanno emergen-
do sono frutto di una politica gridata e non pensata”. E allora, conta più il pregiudizio esistente nelle nostre società o la politica di alcuni governi? Secondo Impagliazzo, “la cosa più grave è che i politici alimentino il pregiudizio. È una questione centrale per la coscienza europea. Non abbiamo ancora fatto i conti con lo sterminio avvenuto durante il nazismo: su questo restiamo colpevolmente in silenzio. E allora, noi diciamo: come è esistito ed esiste l’antisemitismo, oggi denunciamo l’anti-gitanismo”.
Una soluzione? Intanto fare in modo che si imponga la volontà dell’Unione europea, “che ha leggi molto più avanzate rispetto a quelle nazionali”. Ma anche guardare a casi concreti di integrazione che hanno avuto successo, come quello di Barcellona. Qui negli anni ’60 e ’70 esistevano molti campi nomadi. Poi il Comune decise di costruire un nuovo quartiere, La Mina: 15mila abitanti, molti di loro sono rom. Non un ghetto, ma un esperimento vincente per l’inserimento.


l’Unità 8.10.10
Via libera del premier Netanyahu al progetto di legge caldeggiato dal falco Lieberman
Laburisti contro. L’ira del ministro Barak. Gli arabi-israeliani: quelle sono norme razziste
Israele, nazionalità a chi giura fedeltà allo Stato ebraico
Il premier israeliano ha detto ancora una volta sì alla destra nazionalista che condiziona il suo governo. Ha dato il via libera al progetto di legge sulla nazionalità israeliana. Polemica sul giuramento di fedeltà.
di Umberto De Giovannangeli


Una vittoria della destra religiosa. Uno schiaffo in faccia all'Israele che prova a difendere ciò che resta della laicità statuale. In chiave politica, è il successo del ministro degli Esteri e leader di Yisrael Beitenu (destra nazionalista) Avigdor Lieberman, e l'ennesima debacle del ministro della Difesa e segretario generale del Labour, Ehud Barak. Esulta Avigdor il falco per il progetto di legge del primo ministro Benjamin Netanyahu che obbligherà i candidati alla cittadinanza a prestare giuramento a «Israele, Stato ebraico e democratico». Il progetto, che sarà presentato domenica al Consiglio dei ministri, modifica l'attuale legge sulla cittadinanza e introduce il seguente paragrafo:«Giuro di rispettare le leggi dello Stato d'Israele come Stato ebraico e democratico», riferisce un comunicato dell'ufficio di Netanyahu. L'emendamento è stato proposto dal ministro della Giustizia, Yaakov Neeman.
BUFERA POLITICA
Di segno opposto è la reazione di alcuni ministri laburisti. «Si tratta di una decisione scandalosa e irresponsabile», dichiara a l'Unità il titolare per gli Affari delle minoranze, Avishai Breverman. «Chiedo a Ehud Barak – aggiunge – una riunione urgente del gruppo parlamentare e della direzione del partito per decidere come contrastare questa deriva fondamentalista». A fianco di Braverman si schiera un altro ministro laburista, Yitzhak Herzog, titolare del dicastero del Welfare. «Spero che il sostegno di Netanyahu sia il rimborso a Lieberman, così il primo ministro potrà estendere il congelamento (delle costruzioni) senza rompere la sua coalizione», azzarda un terzo ministro laburista parlando in condizione di anonimato. Ma a gelare le aspettative è il numero due di Yisrael Beiteiu, il ministro della Sicurezza interna, Yitzhak Aharanovitch: «Non c'è stato nessuno scambio – taglia corto Aharanovitch – la nostra posizione sulla moratoria non è cambiata: siamo contrari». Per Ehud Barak è un doppio affronto: Netanyahu ha deciso senza consultare i laburisti, e ora i partiti religiosi e ultranazionalisti cantano vittoria. In serata Barak convoca gli altri ministri del Labour. È una riunione tesissima. C'è chi chiede l'uscita da un Governo «ostaggio dei fondamentalisti». Barak propone di votare contro nella riunione di domenica dell'esecutivo. Ma Netanyahu insiste. E rilancia: «Israele – afferma il primo ministro – è la patria del popolo ebraico. Lo è nella sua essenza, nei suoi simboli, nelle sue feste, nel suo governo e ciò si deve riflettere nella legge sulla cittadinanza». Secondo diversi commentatori in Israele, l'emendamento che dopo il placet del Governo dovrà essere sottoposto al voto della Knesset è rivolto soprattutto contro quei palestinesi che, avendo sposato arabi israeliani, mirano a ottenere la cittadinanza o almeno la residenza permanente nel Paese.
GRIDO D'ALLARME
«Il presente d'Israele è nelle mani di fanatici oltranzisti che stanno smantellando le fondamenta stesse di uno Stato plurale. Lo stravolgimento della legge sulla cittadinanza ne è una riprova», dice a l'Unità Yael Dayan, scrittrice, paladina dei diritti delle donne , più volte parlamentare laburista. «La logica che sottende questa decisione è la stessa che anima i coloni oltranzisti: è la logica del più forte che, come tale, considera l'altro da sé come un'anomalia da emarginare se non come una minaccia da estirpare. Questa logica si fa Stato e crea leggi che ipotecano il futuro d'Israele», aggiunge la figlia dell'eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan. «Lieberman si muove come fosse il padrone d'Israele. Fosse per lui, noi arabi israeliani saremmo deportati a forza, ci considera razza inferiore, pensa e agisce come un razzista», denuncia il parlamentare arabo-israeliano Ahmed Tibi, raggiunto telefonicamente dall'Unità. E di razzismo parla anche il deputato Mohammed Barakeh, leader del partito Hadash( sinistra comunista, i cui elettori sono in prevalenza arabi) Non si mostra sorpreso Zeev Sternhell, tra i più autorevoli storici israeliani. «Da tempo – ci dice – ho espresso pubblicamente ciò che penso di Lieberman: si tratta dell'uomo politico più pericoloso della storia d'Israele perché rappresenta un insieme di nazionalismo, autoritarismo e mentalità dittatoriale. La realtà ha confermato questo giudizio. E ciò non induce certo all'ottimismo sia per le nostre vicende interne che per il proseguo del negoziato con i palestinesi». A protestare è anche Kadima, il partito centrista guidato da Tzipi Livni.
Durissima è la presa di posizione dell'Associazione per i Diritti Civili in Israele, secondo cui l'emendamento «è' fondamentalmente antidemocratico, discrimina su basi religiose tra aspiranti cittadini e chiede a una minoranza etnica di aderire a un principio al quale si ancora la discriminazione nei suoi confronti».


Repubblica 8.10.10
Cittadinanza, svolta a Gerusalemme si dovrà giurare sullo "Stato ebraico"
Netanyahu cede a Lieberman per salvare i negoziati
di Alberto Stabile

GERUSALEMME - «Niente giuramento di fedeltà, niente cittadinanza». Alla fine, Benyamin Netanyahu è capitolato davanti al discusso slogan lanciato mesi fa dal più scomodo dei suoi alleati di governo, l´ultra conservatore ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, e, domenica prossima, proporrà al Consiglio dei ministri di approvare un emendamento alla Legge sulla cittadinanza che impone agli stranieri che aspirano a diventare cittadini israeliani di giurare fedeltà a Israele in quanto «stato ebraico e democratico». Quest´obbligo, e qui si nasconde l´aspetto discriminante dell´emendamento, si applica ai non ebrei, mentre non vale per quanti chiedono la cittadinanza in base alla Legge del ritorno, vale a dire per gli ebrei.
Il giuramento di fedeltà ad uno stato del quale si voglia acquisire la cittadinanza, di per sé non deve scandalizzare. Basta citare la promessa di fedeltà che viene imposta dagli Stati Uniti e da molti altri paesi democratici. Una promessa molto semplice, del resto, è stata finora richiesta anche in Israele: «Prometto di essere leale allo stato d´Israele e alle sue leggi».
Ma non è parsa sufficiente. L´intento di Lieberman era originariamente quello di costringere tutti i cittadini, e soprattutto gli arabi-israeliani sulla cui lealtà il ministro degli Esteri nutre sospetti e pregiudizi, a proclamare la loro fedeltà allo stato ebraico come precondizione per acquisire i diritti di cittadinanza. Sta di fatto che l´emendamento sulle naturalizzazioni era, ed è, parte di un complessa normativa che ha sollevato le ire della minoranza araba, di buona parte della sinistra e delle organizzazioni israeliane di difesa dei diritti umani.
Come sempre quando si trova davanti ad una questione spinose, Netanyahu ha preso tempo. L´estate scorsa ha persino preparato un suo emendamento, in cui Israele veniva definito «lo stato nazione del popolo ebraico che garantisce piena uguaglianza a tutti i suoi cittadini». Ma ieri il premier ha deciso di dare il via libera al testo formulato dal ministro della Giustizia Neeman, un religioso oltranzista in sintonia con Lieberman.
Perché proprio adesso? Il motivo è semplice, dicono gli avversari di Netanyahu, fra i quali nelle ultime ore si rivedono quei laburisti che pure fanno parte della coalizione di governo. L´emendamento sulla cittadinanza sarebbe la contropartita offerta dal premier a Lieberman in cambio del tacito consenso del ministro degli Esteri al nuovo, temporaneo congelamento degli insediamenti (due mesi) richiesto dagli americani per salvare il negoziato di pace.
Il sì, o "ni" di Lieberman, consentirebbe a Netanyahu di salvaguardare la coalizione e mantenere buoni rapporti con Obama. Al quale Netanyahui avrebbe chiesto, in cambio del mini congelamento, la conferma degli impegni presi da Bush con la lettera a Sharon dell´aprile del 2004, nella quale il presidente americano affermava che un accordo sui confini con i palestinesi avrebbe dovuto tener conto dei mutamenti demografici intervenuti nei territori, vale a dire i grandi insediamenti ebraici che dovrebbero essere assorbiti da Israele. Principio che Obama finora non ha mostrato di condividere.

il Fatto 8.10.10
E il governo lanciò il master “W Hitler”
Il professor Moffa nega la Shoah nel corso presentato a Palazzo Chigi
di Giampiero Calapà


Un master dedicato a “Enrico Mattei” e alle politiche dell’Eni in Medio Oriente, in realtà libero sfogo del negazionismo (della negazione della Shoah: 6 milioni di ebrei sterminati dal nazifascismo) professato da Claudio Moffa dell’Università di Teramo e presentato in pompa magna addirittura a Palazzo Chigi, sede del governo italiano.
Il caso scoppia ieri. Repubblica racconta una lezione del 25 settembre scorso – finita online su YouTube – in cui il professore si spinge a giustificare il capo del nazismo Adolf Hitler: “Non c’è alcun documento di Hitler che dicesse di sterminare tutti gli ebrei”. Moffa, però, non è nuovo a episodi di questo tipo, tanto che nel 2007 l’Ateneo di Teramo chiuse le porte al master “Enrico Mattei”, per prendere le distanze dall’invito in aula a uno dei capi del “negazionismo” mondiale, Robert Faurisson, docente di Letteratura (non di storia). Nonostante questo precedente, grande come una trave in un occhio, l’Università di Teramo e la Facoltà di Scienze politiche – che nel frattempo hanno cambiato rettore e preside – ha riaccolto il master di Moffa.
Le scuse del ministro
MA IL GOVERNO, soprattutto, ha ospitato nella “sala polifunzionale” di Palazzo Chigi la presentazione del master, il 6 maggio scorso, alla presenza di Moffa, del rettore di Teramo Rita Tranquilli Leali e dello storico Franco Cardini. Tardiva, quindi, la condanna del ministro Maria Stella Gelmini, in un intervento di ieri al Tg5: “Le parole pronunciate sono inaccettabili, offendono profondamente la memoria degli ebrei morti nelle camere a gas. Non è possibile che nelle università italiane insegnino professori che seminano odio”. Già, perché in quella lezione del 25 settembre il professor Moffa, cita proprio il docente francese di letteratura Faurisson: “L’edificio che viene mostrato ad Auschwitz è un edificio che non ha nessuna delle caratteristiche tecniche atte ad essere stato una camera a gas. Il Zyklon B veniva usato per disinfestare gli abiti dei reclusi”.
La posizione della Facoltà
IL PRESIDE di Scienze politiche, Enrico Del Colle (succeduto a Adolfo Pepe che si spese contro il master di Moffa nel 2007) si giustifica: “Sul tema e ovviamente non sulla persona, la posizione dell’Università è chiara, ed è la stessa di tre anni fa quando già si era pronunciata ufficialmente in una occasione simile”. Appunto. Peccato che il master sia poi ricominciato. Il 13 ottobre è in calendario un Consiglio di Facoltà, ma il preside precisa subito che “non è organo competente per simili azioni”, in riferimento a un possibile provvedimento contro il professor Moffa, ma almeno ammette “una posizione di disagio gravissimo”. Nel 2007 in seguito al caso Fourisson, contro Moffa presero posizione numerosi storici dell’Ateneo di Teramo: “Abbiamo lavorato e continueremo a lavorare, nella ricerca e nella didattica, sui temi dell’antisemitismo, dei sistemi concentrazionari, della Shoah e della trasmissione della sua memoria”. Alla fine Faurisson non parlò in aula, l’università quel giorno venne addirittura chiusa dal rettore di allora, Mauro Mattioli. In quei giorni il ministro dell’Istruzione era Fabio Mussi (Sinistra e libertà): “All’Università di Teramo un professore, organizza un corso per negare l’Olocausto, presentandolo a Palazzo Chigi nel maggio scorso. Ci aveva già provato nel 2007, invitando a tenere una lezione il noto negazionista Faurisson. Il ministro di allora sollecitò e sostenne il rettore di allora, che giustamente la impedì, chiudendo l’ateneo abruzzese. Qui non c’entra niente la libertà d’espressione: c’entra l’odio razziale e l’apologia del nazismo, che fino a prova contraria sono reati. Quanto ci metterà il ministro Gelmini a capire che è un suo dovere intervenire a nome del governo con una chiara posizione?”.

Avvenire 8.10.10
Emilia ’45, caccia al prete
Nell’opera monumentale dello storico Sandro Spreafico, dedicata alle vicende della Chiesa reggiana tra fascismo e dopoguerra, la descrizione dell’impressionante tributo di sangue versato dai cattolici
di Edoardo Tincani


Da tempo le pagine di Avvenire ospitano un interessante dibattito sul ruolo della Chiesa – ministri e popolo di Dio – nei sanguinosi tornanti della prima metà del XX secolo. Un contributo fondamentale viene ora dall’opera dello storico Sandro Spreafico, I cattolici reggiani dallo Stato totalitario alla democrazia. La Resistenza come problema. La monumentale antologia, composta da cinque volumi in sei tomi – quasi seimila pagine di grande formato – e recentemente completata con l’uscita della «Guida alla consultazione», sarà presentata questo sabato, alle ore 16, all’Hotel Posta di Reggio Emilia (piazza del Monte 2), in un incontro pubblico promosso dall’Istituto per la storia della Resistenza e della Società contemporanea (Istoreco) insieme ad altre associazioni civili ed ecclesiali.
Una città di provincia come Reggio Emilia si conferma così osservatorio affatto centrale per chi voglia affrontare in tutte le sue sfaccettature il complesso rapporto tra la coscienza religiosa di un popolo e le lacerazioni del trentennio 1919-1950.
Nell’analisi di Spreafico, capace di accostare centinaia di testimonianze, diari e tavole fotografiche a riflessioni sofferte sulle contrastanti passioni che portarono al rovesciamento del fascismo e alla nascita della Democrazia Cristiana, storia patria e locale s’intrecciano.
Sul finire del secondo conflitto mondiale e nell’immediato dopoguerra il clero reggiano pagò un tributo di sangue altissimo e diversificato, con sacerdoti uccisi dai nazifascisti – don Pasquino Borghi, fucilato a Reggio Emilia il 30 gennaio 1944, don Battista Pigozzi, fucilato dai tedeschi a Cervarolo con 23 suoi parrocchiani il 20 marzo 1944, e don Giuseppe Donadelli, parroco di Vallisnera, assassinato dai fascisti il 2 luglio 1944 – e altri soppressi dai partigiani – don Luigi Manfredi, parroco di Budrio di Correggio, che fu ucciso il 14 dicembre 1944 perché erroneamente ritenuto implicato nella cattura di don Borghi, don Dante Mattioli di Cogruzzo, 11 aprile 1945, e don Carlo Terenziani, parroco di Ca’ de’ Caroli, 29 aprile 1945. Altri presbiteri caddero per mano comunista 'semplicemente' a causa della loro condanna del giustizialismo sanguinario.
Rientrano in questa casistica l’agguato mortale a don Umberto Pessina, parroco di San Martino Piccolo di Correggio, 18 giugno 1946, e i martirii in odio alla fede di don Giuseppe Iemmi, curato di Felina, 19 aprile 1945, e del seminarista quattordicenne Rolando Rivi, ucciso a Piane di Monchio il 13 aprile 1945, per il quale è a buon punto la causa di beatificazione. E in contesti non dissimili persero tragicamente la vita anche i parroci di Garfagnolo di Castelnovo Monti don Luigi Ilariucci, 19 agosto 1944, di Nismozza don Sperindio Bolognesi, a causa di un ordigno il 25 ottobre 1944, e di Grassano don Aldemiro Corsi, 22 novembre 1944.
La lente d’ingrandimento di Spreafico risale però più indietro nel tempo e indaga le cause di quei delitti con grande sforzo di obiettività e con spirito costruttivo, nel tentativo di portare in superficie una memoria il più possibile acclarata e condivisibile, 65 anni dopo la Liberazione. Grazie all’abbondante documentazione pubblicata, raccolta in circa trent’anni di ricerche attraverso la consultazione di decine di archivi parrocchiali e l’intervista a centinaia di protagonisti minori sopravvissuti, lo storico reggiano si spinge oltre il martirologio ufficiale della Chiesa e la doverosa condanna di ogni efferatezza per offrire un panorama veramente popolare e diffuso della Resistenza in territorio emiliano.
Spiccano infatti, nella storia dei cattolici reggiani, elementi di singolarità che fanno ben risaltare le dinamiche resistenziali. Le pagine dell’antologia mostrano la tempra di un cattolicesimo reggiano minoritario che, anziché deprimersi per l’opposizione delle forze antagoniste, reagisce con una vivacità orgogliosa della propria fede, incarnata in una sequela di umili membri e dirigenti di opere cattoliche. La lettura critica si sofferma sulle dialettiche interne alle forze che si confrontarono, dalla minoranza di clero filofascista che pensava a una 'cattolicizzazione' del fascismo dall’interno, alle spinte laiche dell’intransigentismo, con l’Azione Cattolica impegnata a 'salvare' la fede dal socialismo anticlericale e dal massimalismo comunista.
Il principale, vasto nucleo tematico dell’opera consiste proprio nel raccontare le premesse alla scelta resistenziale da parte dei cattolici, la maturazione dapprima di un antifascismo critico e 'coscienziale' e poi militante, fino all’opzione armata, la nascita della Dc clandestina, il rapporto fra i partigiani cristiani e quelli comunisti, in maggior numero e meglio organizzati, sull’asse tracciato da Domenico Piani, Giuseppe Dossetti e Pasquale Marconi. A partire dal comandante delle 'Fiamme Verdi' don Domenico Orlandini, 'Carlo', i nomi di alcuni resistenti cattolici sono noti: Luigi Ferrari, don Angelo Cocconcelli, Ettore Barchi, Lina Cecchini.
Altre storie si sono aggiunte col tempo, con un ritardo a volte sorprendentemente cospicuo, se si pensa – puntualizza Spreafico – che solo a distanza di decenni sono stati pubblicati i memoriali di internati cattolici in Germania, come Alberto Codazzi e Giorgio Gregori, o che ne restano tuttora di inediti, come quello di Mirco Piccinini.
Ancora, solo per citare un paio di altri casi tra i più clamorosi, i quaderni di Deblin-Thorn, scritti di getto nei lager dal medico cattolico Giorgio Emilio Manenti, sono rimasti sigillati per sessant’anni. E il diario di Dante Zobbi 'Rinaldo', collaboratore di don Pasquino Borghi e uno dei primi uomini fidati di 'Carlo', ha atteso per mezzo secolo l’arrivo di uno storico.
I partigiani cattolici diedero un contributo determinante alla 'tenuta' del movimento resistenziale, e non è un caso che 60 di loro figurino nella prima Dc 'ufficiale' all’indomani della Liberazione.
L’opera di Spreafico racconta la fatica di mantenere la lotta armata entro binari minimi di 'legalità', le stragi e le vendette del giustizialismo più sanguinario, i contenziosi causati da 'incidenti' e incomprensioni tanto tra militanti delle Fiamme Verdi e Garibaldini, quanto all’interno delle due formazioni combattenti.
Ecco spiegata la Resistenza come 'problema'. Tra gli estremi di un’apologetica inamovibile e di un frettoloso revisionismo, Spreafico concede l’ultima parola ai morti di tutti gli schieramenti, tanto che se il suo fosse un romanzo, parafrasando Giampaolo Pansa, potrebbe dunque intitolarsi «Il sangue di tutti». La sua speranza, più che mai 'cattolica', è che la ricerca storica possa contribuire ad una grande catarsi collettiva, capace di vincere una volta per sempre i risorgenti rancori. E così lasciare, far 'resistere', solo la memoria dei nostri avi caduti, anche per noi.
Trent’anni di ricerche attraverso la consultazione di decine di archivi parrocchiali e l’intervista a centinaia di protagonisti minori sopravvissuti, andando oltre il martirologio ufficiale Da don Pasquino Borghi e don Battista Pigozzi, fucilati dai nazifascisti, al seminarista quattordicenne Rolando Rivi e don Giuseppe Iemmi, uccisi dai comunisti in odio alla fede


l’Unità 8.10.10
Una giornata tra autorità e incontri con esponenti dell’economia
Napolitano: «Cina e Italia hanno eccellenti relazioni»
Il premier cinese a Roma Accordi per 2,25 miliardi
Prima tappa al Quirinale, poi incontri con le altre alte cariche dello stato. La giornata romana del primo ministro della Repubblica popolare cinese è stata segnata da accordi commerciali per più di due miliardi.
di Marcella Ciarnelli


E’ stata una giornata intensa quella trascorsa a Roma dal primo ministro della Repubblica popolare Cinese, Wen Jiabao, caratterizzata da incontri politici ai massimi livelli e una serie di accordi commerciali per oltre due miliardi di euro. Il primo a ricevere il premier cinese è stato il presidente della Repubblica, atteso a Oporto per la riunione del Cotec, ma che non ha voluto mancare l’incontro col rappresentante di un Paese con cui «l’Italia ha eccellenti relazioni». Napolitano si recherà in Cina nell’ultima settimana di ottobre in visita di Stato. Nel corso del colloquio è stato sottolineato che «l’apertura dell’anno della Cina in Italia costituisce una importante occasione di rafforzamento delle relazioni bilaterali »cominciate quaranta anni fa. Ma si è parlato anche di Europa e dell’importanza che l’Unione, nel suo complesso, diventi un interlocutore del colosso cinese. «L’Italia è in prima fila tra i Paesi dell’Ue nel promuovere energicamente le relazioni Cina-Ue» ha detto Wen Jiabao.
LANTERNE ROSSE
L’incontro con il presidente della Camera, Gianfranco Fini, poi quello con Silvio Berlusconi per firmare una serie di accordi che segnano una sempre più stretta collaborazione economica tra i due Paesi. Per raggiungere le sedi degli incontri, la successiva conferenza stampa a Villa Madama e il Teatro dell’Opera per l’apertura ufficiale dell’anno della cultura con un concerto, il premier cinese ha attraversato una città addobbata per l’occasione con lanterne rosse. Ed anche il Colosseo è stato coinvolto nella scenografia. C’è stato chi non ha gradito la disponibilità. La questione dei diritti civili in quel grande paese è ancora aperta. «Ne parleremo tenendo presente che la Cina è un grande paese» ha detto il ministro Frattini. La Cina è nell’elenco dei 43 Paesi a cui l’Unione europea, con un documento votato a stragrande maggioranza, ha chiesto una moratoria sulla pena di morte. Oggi al dissidente Liu Xiaobo potrebbe essere assegnato il premio Nobel per la pace.
Ma la visita del premier ha avuto più che altro un importante significato economico nell’obbiettivo di portare l’interscambio tra Italia e Cina dagli attuali 40 milioni a 100 miliardi di dollari in cinque anni pari a settantadue miliardi di euro. I rapporti «eccellenti» hanno portato a sottoscrivere accordi per 2,25 miliardi di euro. Porti, alta velocità ferroviaria, aeroporti, autostrade. Ma anche lo sviluppo delle piccole e medie imprese e delle telecomunicazioni. In questo ambito Tiscali e la cinese Zte, leader mondiale, hanno firmato un accordo per accelerare la diffusione della banda ultra larga in Italia. Ogni ramo di impresa è stato coinvolto. Gli imprenditori italiani sono «i Marco Polo di oggi». Definizione di Berlusconi che prevede a breve il sorpasso della Cina sugli Usa.


il Fatto 8.10.10
Anatomia del paese dei record
“Una popolazione immensa, una crescita squilibrata”: parola di Wen Jiabao
di Giuseppe Cassini


Si può scattare un’istantanea della Cina moderna? È difficile, ma ci si può almeno provare. La Cina è un quinto della popolazione mondiale e la seconda potenza economica del pianeta, avendo ora superato anche il Giappone. Al ritmo attuale di crescita sarà quindi normale che, di ogni cinque prodotti fabbricati nel mondo, uno sia Made in China. E la Cina ci riuscirà, grazie a un yuan sottovalutato come a suo tempo faceva l’Italia per conquistare mercati esteri a beneficio delle proprie infant industries. La Cina è il paese dove la nascita di una femmina era accolta come una disgrazia, fino all’arrivo del comunismo. Da quando Mao definì la donna “l’altra metà del cielo”, la liberazione femminile non si è più fermata: oggi sono donne i due terzi dei dirigenti statali, un terzo dei top executives delle società private e un quinto dei parlamentari. Né gli Stati Uniti né l’Europa (salvo la Scandinavia) possono vantare queste percentuali. La Cina è il paese che un tempo mandava migliaia di giovani a studiare in università straniere. Oggi il flusso di stranieri che vanno a studiare in Cina supera quello dei cinesi che studiano all’estero. La Cina è il paese che in un ventennio ha costruito più infrastrutture e manufatti del resto del mondo: le reti metropolitane più estese, il numero più cospicuo di grattacieli, la ferrovia a più alta quota (sopra i 5000 metri), il sommergibile in grado di scendere alle profondità più abissali (e quindi vincere la corsa allo sfruttamento dei preziosi minerali sottomarini).
Produce un quinto di Co2 del pianeta
LA CINA È QUEL PAESE dove 300 milioni di abitanti hanno lasciato le campagne e altri 300 milioni dovranno inurbarsi presto; passeggiando in qualsiasi città si riconoscono a prima vista le facce smunte dei contadini inurbati. Ma è anche il paese dove 100 milioni di persone oggi soffrono di obesità, un tempo appannaggio dei pochi benestanti e delle statue del Buddha. La Cina è il paese che, essendo ancora dipendente dal carbone, sta investendo 750 miliardi (poco meno di quanto stanziato da Washington per salvare gli Usa dalla crisi finanziaria) per avere entro il 2020 il 15% di energia prodotta da fonti rinnovabili. Già oggi è il primo produttore mondiale di energie rinnovabili. La Cina è il paese che emette un quinto della Co2 del pianeta, in linea dunque con la sua popolazione ed esattamente quanto ne produce l’America. Con la differenza, però, che gli americani sono 300 milioni, non un miliardo e 300 milioni.
La Cina è Chongqing. Dov’è Chongqing? È la metropoli situata al centro del paese e siccome Cina si dice in cinese Zhong Guo (che significa Terra di Centro), si potrebbe dire che Chongqing sta al centro del mondo. Vale quindi la pena di visitarla, anche perché – con i suoi 32 milioni di abitanti – è la metropoli di gran lunga più popolosa della terra. Entrando in città si fa fatica a riconoscere le sue colline un tempo verdeggianti, immerse come sono in una nebbia impastata di smog; si fa fatica persino a ritrovare lo Yangtze, il Fiume Azzurro (azzurro forse un tempo) che scendendo dal Tetto del Mondo l’attraversa per poi irrigare le vaste pianure dell’Est. Fino al dopoguerra la città non aveva neppure un milione di abitanti né fabbriche né grattacieli né smog. Ecco perché Chongqing è la Cina.
La Terra di Centro, ombelico del mondo
LA CINA È IL GIGANTE dai piedi d’argilla. Quest’estate Pechino moriva di sete, mentre a sud frane alluvionali provocavano duemila vittime. Lo sversamento di petrolio nel porto di Harbin è stato un disastro senza precedenti, messo in ombra solo da quello contemporaneo nel Golfo del Messico. E tuttavia, nella fantasmagorica Expo di Shanghai, il padiglione più gettonato era l’Oil Pavilion, realizzato dalla maggiore compagnia petrolifera mondiale (che è cinese): erano migliaia i cinesi ad estasiarsi davanti agli spot sul petrolio come elemento base per produrre tutto, dalle auto al cibo. La leadership cinese è comunque cosciente dei costi ambientali che questo sviluppo comporta. Le autorità locali che s’incontrano si dicono preoccupate dell’ambiente urbano e il governo centrale comincia discretamente a frenare l’esuberanza delle imprese private restituendo fondi e potere alle imprese statali. Questa settimana il premier cinese Wen Jiabao è sbarcato in Europa. Intervenendo davanti al Parlamento greco, ha dato del suo paese una definizione lapidaria: “Una popolazione immensa, una base economica debole, una crescita squilibrata: questa è la realtà”. Mi era capitato di accompagnarlo, durante la sua precedente tournée europea, a visitare Firenze, Pisa, la Piaggio a Pontedera e il polo industriale del cuoio sull’Arno. Come tutti gli asiatici si era estasiato davanti alla Torre Pendente, ma da vero ingegnere gli interessava conoscere come se la cavavano i poli industriali toscani, noti per essere composti da una miriade di piccole industrie complementari tra loro. Ne rimase impressionato e i suoi presero molti appunti. A forza di prendere appunti, la Cina è ridiventata un impero.
Chi ha tardato ad accorgersene è rimasto penalizzato. Fra il 2001 e il 2006 – anni cruciali per la conquista del mercato cinese – tutti i governanti europei prendevano la via di Pechino una volta l’anno; Berlusconi si scomodò solo nel 2003, ma in veste di presidente del Consiglio europeo e quindi impossibilitato a tirare la volata all’imprenditoria italiana. Dovette pensarci Prodi, appena tornato al governo nel 2006, a guidare una folta delegazione confindustriale e scusarsi della miserevole battuta con cui il suo predecessore aveva irritato Pechino pochi mesi prima. Ricordate? “I comunisti cinesi non mangiavano i bambini, li bollivano per concimare i campi”.


il Fatto 8.10.10
Tiro alla Fiom, sport nazionale
Assodato che violenza è sinonimo di demenza, contro il sindacato dei metalmeccanici è in atto una campagna tesa a indicarli come squadristi: un metodo filologico che non rispetta nessun dissenso
di Paolo Flores d’Arcais


La Fiom è sotto tiro, contro l’organizzazione dei metalmeccanici e contro i suoi dirigenti è iniziata una vera e propria campagna di criminalizzazione. Siamo ormai alle velate accuse di proto-terrorismo, mentre quelle di violenza e di squadrismo si sprecano. Il pretesto sono due episodi avvenuti a Roma e a Merate (provincia di Lecco) due giorni fa. Ma il “la” era stato già dato in precedenza dal Corriere della Sera con un articolo in prima pagina di Dario Di Vico (ex dirigente della Uil ed ex vicedirettore del quotidiano) dall’appetitoso titolo “La Fiom e la strategia delle uova”, nel quale si addebitavano senza tante distinzioni a Maurizio Landini e all’organizzazione che dirige la responsabilità di “ripetuti assalti alle sedi della Cisl” (a Treviglio e a Livorno). Ora, è ben noto che “le parole sono pietre” e parlare di “assalti a sedi sindacali” significa rievocare lo squadrismo di Mussolini che devastava con gli opimi finanziamenti degli agrari gli ultimi ridotti delle organizzazioni dei lavoratori. Ma tutto quello che è stato invece imputato ai lavoratori di Treviglio, perfino secondo la ricostruzione unilaterale della Cisl, è un lancio di uova dai trenta metri di “debita distanza” cui li teneva un cordone di polizia. Quale “assalto” si possa compiere in tali condizioni è più enigmatico della sfinge. Stessa storia per l’analogo episodio a Livorno.
Quando la verità raccontata è di parte
QUANTO a Merate, “le cose sono andate in tutt’altro modo” come ha spiegato puntualmente il segretario generale della Fiom Lombardia, Mirco Rota (noto oltretutto come esponente dell’ala più moderata del sindacato): “Fosse vera l’irruzione nella sede Cisl, si tratterebbe di un atto gravissimo. Ma a Merate le cose sono andate in tutt’altro modo. Lo dicono i fatti, non la Fiom. Attorno alle 10, quattro lavoratori – tra i quali due delegati della Fiom – si sono presentati davanti alla sede della Cisl. Dopo aver preavvisato le forze dell’ordine, due di loro – sotto gli occhi della forza pubblica – sono entrati nei locali e hanno consegnato un volantino. Gli altri due sono rimasti all’esterno. La storia è finita. Non abbiamo altro da aggiungere, se non il nostro profondo dissenso verso qualunque forma di protesta non civile, sbagliata e dannosa”.
A Roma, poi, l’estraneità della Fiom alle scritte che hanno imbrattato la sede Cisl è addirittura conclamata, visto che tali scritte sono firmate “Action diritti in movimento” (sigla enigmatica, ma certamente non Fiom) e che Maurizio Landini ha condannato “con la più netta contrarietà gli episodi di intolleranza che hanno interessato sedi della Cisl”. (Poiché, aggiungiamo noi, ogni gesto di violenza è demenza).
Perché allora questa insistenza insensata – attenendosi ai fatti – sul clima di violenza e squadrismo che verrebbe alimentato dalla Fiom? In realtà, il motivo per cui è iniziata la campagna di criminalizzazione contro il sindacato metalmeccanico era stato “confessato” nell’articolo di Di Vito: i dirigenti Fiom sono refrattari a piegarsi alle “relazioni industriali orientate alla collaborazione”,nelsensopreteso da Finmeccanica e Confindustria secondo il ben noto e anticostituzionale diktat Marchionne.
Ecco perché Landini, Cremaschi e gli altri dirigenti Fiom vengono accusati di “surriscaldare la temperatura in fabbrica”, come se non fossero Marchionne e Sacconi e la loro politica selvaggiamente anti-operaia a far salire la tensione. Ecco perché vengono accusati di voler impedire che si firmino i contratti di altre categorie, come se non si trattasse esattamente dell’opposto: la Fiom non rifiuta né la contrattazione né il suo esito positivo (un sindacato fa questo per mestiere), rifiuta invece che l’esito delle prossime vertenze segni un arretramento delle condizioni dei lavoratori di oltre mezzo secolo, arretramento tale da far rimpiangere addirittura la politica anti-sindacale dell’ingegner Valletta. Quanto all’accusa contro la Fiom di “presentare Raffaele Bonanni come il nuovo campione del sindacalismo giallo”, nonsonocertoidirigentimetalmeccanici a farlo, sono semmai molti lavoratori a pensarla così.
La criminalizzazione secondo Di Vico
INFINE la Fiom va criminalizzata perché, come sottolinea Di Vico, sta diventando il punto di riferimento e di aggregazione di altri settori sindacali, anche non operai, quello del pubblico impiego e soprattutto quello della scuola. Insomma, la Fiom va criminalizzata perché potrebbe diventare il modello di un sindacato che lotta, pensate un po’! Eppure proprio di questo hanno bisogno i lavoratori, le cui condizioni salariali e normative hanno conosciuto un peggioramento tragico proprio mentre cricche di grassatori e di evasori prosperano con redditi (illegali) a sei zeri. Proprio di questo, anzi, ha bisogno l’intero Paese.
Infine, non è certamente un caso – anzi è una sincronia evidente – che la campagna di criminalizzazione del sindacato di Maurizio Landini (“che fa rima con la vecchia segreteria di Rinaldini”, accusa Di Vito, come se Rinaldini non fosse ancor oggi il miglior candidato alla segreteria generale della Cgil, come se il passaggio dalla segreteria Fiom a quella Cgil non fosse stata la norma in tutti i decenni della “grandezza” del sindacato fondato da Di Vittorio) si apra quando mancano pochi giorni alla manifestazione Fiom del 16 ottobre a Roma, attorno a cui si sta mobilitando – per la liberazione dal regime di Berlusconi-Marchionne e per la realizzazione della Costituzione – l’intera società civile, dai cristiani di base ai precari della scuola, dalle associazioni antimafia ai gruppi viola. Una manifestazione a cui hanno aderito Altan e Tabucchi, Sabina Guzzanti e Ascanio Celestini, Moni Ovadia e Corrado Stajano, Sonia Alfano e Luigi De Magistris, Furio Colombo e Pancho Pardi, Gianni Vattimo e Lidia Ravera, Giorgio Parisi e Carlo Lizzani, Giuliano Montaldo e Valerio Magrelli, per non parlare di don Mazzi, don Farinella, don Barbero, don Fiocchi, don Sudati, don Fiorini, don Antonelli...
La Fiom non è affatto isolata. Sono anzi certo che la mobilitazione dell’Italia civile accanto e in sinergia con la Fiom crescerà ancora, anche per rispondere alla criminalizzazione di cui viene fatta oggetto.


l’Unità 8.10.10
Martin Lutero, che gettò le basi della laicità
Al padre della Riforma protestante, che visitò Roma nel 1510, la capitale dedica due giornate e forse pure una strada...
di Roberto Monteforte


Celebrare Martin Lutero a Roma, nella città del Papa, la capitale della cattolicità. Quello che forse sino a ieri era impensabile, ora è possibile. Non per provocazione, ma quasi a sottolineare l’apertura al confronto della capitale. L’occasione è un anniversario: i cinquecento anni della visita del padre della Riforma protestante a Roma, avvenuta nel 1510. Due e non a caso distinti i momenti per ricordarlo. Quello «laico», legato all’attualità del suo pensiero, si terrà lunedì 11 ottobre presso la sala della Protomoteca in Campidoglio. Il secondo, invece, religioso, sarà la celebrazione ecumenica e intereligiosa prevista per il 31 ottobre presso il Tempio valdese di piazza Cavour. Data non casuale: è quella in cui Lutero presentò le sue 95 tesi ed è considerata la nascita della Chiesa Luterana.
L’UTILE ERESIA
Non deve stupire che in tempi come questi, in una Europa che ricerca la sua anima, ci si interroghi sul contributo dato dal teologo «eretico» per eccellenza alla costruzione dell’identità dell’uomo contemporaneo. Non si devono forse anche al suo insegnamento quella separazione tra Stato e Chiesa, quell’affermazione della libertà religiosa e di coscienza che è alla base della moderna idea di laicità? Lo chiarisce il teologo e storico valdese Paolo Ricca che ieri con Dora Bognandi della Chiesa Avventista, il pastore luterano Jens-Martin Kruse e la coordinatrice dell’iniziativa «Lutero a Roma», Anne marie Dupré con il direttore della rivista Confronti, Gian Maria Gillio, ha presentato l’iniziativa. La mattina incontro con gli studenti. Nel pomeriggio confronto sull’attualità del suo pensiero.
L’obiettivo è guardare all’oggi. Non solo approfondire il valore storico della proposta di Lutero, che portò «alla frattura della cristianità occidentale», alla nascita delle Chiese riformate e ad una stagione di radicale cambiamenti anche nella Chiesa di Roma, con il Concilio di Trento e con la Controriforma. Il teologo Ricca attualizza la provocazione di Lutero. Invita ad interrogarsi su cosa posa rappresentare oggi «la buona notizia cristiana». Su cosa si costruisce «attorno a questo annuncio di verità e di libertà». È un invito a riavviare il confronto ecumenico osserva fattosi negli ultimi anni più difficile. «Non vi è più alcun tavolo nazionale dove confrontarci con la Chiesa italiana. E non si aiuta l’ecumenismo quando ciascuno pretende di parlare per tutti». I temi da approfondire non mancano dal fine vita, all’aborto, all’educazione religiosasu cui verificare convergenze o dissensi.
L’appuntamento «Lutero a Roma» dovrebbe servire anche a questo. A riconoscere quanto la cultura contemporanea, l’idea stessa di laicità, sia debitrice nei confronti del monaco agostiniano. Per questo le Chiese della Riforma hanno chiesto all’amministrazione capitolina di intitolare una strada a Martin Lutero.


l’Unità 8.10.10
Telecom e Mondadori: ecco la prima libreria digitale
di Maria Serena Palieri


Si chiama «Bibletstore» e, con 1.200 titoli, è da ieri sera la prima libreria digitale italiana online (fatta salva la sperimentazione in chiave gratuita avviata in agosto da BookRepublic). Con una particolarità: parte con 1.200 titoli tutti rigorosamente Mondadori (cioè oltre Mondadori Piemme, Einaudi e Sperling & Kupfer) 800 di catalogo e 400 novità, compreso il neo-uscito ultimo Ken Follett. E un’altra particolarità: a idearla e gestirla è Telecom Italia. L’annuncio ieri, in gran spolvero, alla Buchmesse, presenti per Telecom Franco Bernabè e per il gruppo di Segrate il vice ad Maurizio Costa.
Bibletstore in senso tecnico offre nell’ordine una piattaforma di caricamento, un data-base, un back-office di gestione e un sistema per proteggere i diritti di autori ed editori. In senso gestionale la possibilità di raggiungere i clienti senza passare per librerie stile Amazon e determinando in proprio prezzi e scelte commerciali. E con una facilitazione in più: la possibilità di pagare l’ebook tramite scheda telefonica. Di qui a Natale, poi, il lancio di «canali tematici», prime modalità nuove di coinvolgimento coi lettori-clienti. Tramite lo «store» i libri in formato digitale saranno scaricabili su qualunque «device». Ma qui si fa anche l’annuncio dell’uscita sul mercato, in tempi ravvicinati, di un «tablet» Olivetti, tutto italiano.
L’alleanza strategica Telecom-Mondadori (dobbiamo ricordarlo? Il gruppo editoriale del presidente del Consiglio) alla vigilia dell’annuncio suscita orticaria nella santa alleanza Gems-Rcs-Feltrinelli unita per la piattaforma digitale Edigita. Ma Bernabé butta acqua sul fuoco: «Bibletstore è per tutti, per chi voglia accedere al servizio» dice. Intanto Gems annuncia che già dal prossimo 18 ottobre saranno online i primi titoli (700 entro Natale). Tra gli autori che distribuirà con Edigita Altan, Gianni Biondillo, Catherine Dunne, Nick Hornby, Arundhati Roy.

Corriere della Sera 8.10.10
Se la famiglia diventa una trappola
Di Vittorino Andreoli

La famiglia è diventata il luogo della violenza, dove dominano le pulsioni, gli istinti e non le regole, come se un luogo di pace e persino il nido che i poeti chiamavano dell’amore non ne avessero bisogno. Il pozzo dell’orrore nel quale ci ha portato la triste vicenda di Sarah, la ragazza assassinata dallo zio, riapre una questione cruciale del nostro tempo. Perché la famiglia ha dimenticato regole e riti e si è trasformata in un insieme caotico in cui non ci sono ruoli, ma domina un padrone violento che insidia una nipote, o una figlia, dove la donna è diventata una vittima che deve accettare ogni sopruso per arginare il rischio di farsi preda, colpita sul piano psicologico prima e poi nel corpo dominato dalla violenza che è una forma di potere e di padronato.
Penso sempre all’abitudine che porta a togliersi, appena entrati in casa, la giacca elegante, la cravatta delle occasioni importanti e indossare una casacca qualsiasi, sgualcita e priva di forme, come se il sacerdote salisse l’altare in tuta invece che con la pianeta antica e sacra. I rituali servono a controllare il nostro comportamento. E altrettanto fa la cultura. Aveva ragione Vico quando vedeva lo sviluppo dell’umanità nel passaggio dagli istinti alla cultura che nella sua espressione più semplice percepiva come un insieme di regole per vivere insieme rispettandosi.
Oggi ritorna il selvaggio che gli antropologi pensavano chiuso nell’archeologia e che invece si è rifatto cronaca. E se per diventare persone e formare insiemi civili e animati dal rispetto servono epoche storiche, basta una generazione per regredire, per ritornare a stadi che sanno di primitivo. Non si può non lamentarsi del ruolo che la cultura ha nella nostra società, è vista come qualcosa di inutile poiché il potere sembra non averne bisogno e allora i potenti la deridono e giungono a esibire la propria animalità. E basterebbe valutare con un poco di critica la nostra televisione, la nostra politica e il livello in cui è tenuta la scuola che dovrebbe essere il luogo in cui si insegna a vivere. Non c’è dubbio alcuno che un segno della cultura lo si legge nel significato che una società attribuisce alla donna, tolta dagli oggetti della sessualità e posta nel rango di madre e di educatrice. Mentre oggi viene esibita come corpo e come corpo volgare, usata per la pubblicità dell’auto poiché la si usa e la si guida e poi la si ficca nel garage pronta a partire quando si vuole. Certo l’antropologia è piena di storie di donne ridotte a oggetti del piacere, ma si tratta di una antropologia pulsionale che dovrebbe essere superata dalla conquista culturale. Oggi assistiamo invece ad un aumento di delitti in famiglia che non sono solo da attribuire al bisogno di violenza dei mass media e alla loro spettacolarizzazione. Tra il numero di omicidi che nel nostro Paese sono stabili (intorno a 1400-1500 l’anno) quelli dentro la famiglia sono aumentati di 4-5 volte e mostrano che la famiglia è un luogo di massacro con vittima la donna che diventa ancora una preda delle pulsioni, della sessualità. E in questa prospettiva ogni donna perde tutte le proprie specificazioni e una figlia o una nipote non ha nulla di distinto da una donna di strada, e non di casa, anzi quella che si ha a portata di mano è privilegiata, perché non costa nulla. E il dominio giunge fino a uccidere, segno che l’oggetto appartiene totalmente al padrone e non è altro se non il proprio oggetto di cui si può fare di tutto fino a buttarlo in un pozzo.
La famiglia è agonizzante, non ha più un’anima, manca di quel senso dell’appartenenza che è un legame sentimentale. E i sentimenti danno sicurezza, mentre ormai ci sono figlie che non riescono a stare tranquille proprio a casa loro e temono di venire aggredite, e vogliono scappare e non sanno dove andare. Dove va una adolescente, una madre che subisce violenza con continuità e che sente addosso la paura dentro casa? Tende ad accettare tutto senza opposizione favorendo così la propria condizione di vittima designata che si immola sull’altare della casa.
Il nostro Paese era un esempio della forza dei legami familiari e ora una simile affermazione appare persino paradossale. Quel legame è diventato una trappola poiché abbiamo meno forza di staccarci dalla famiglia anche quando sa di violenza e di pericolo, proprio perché l’abbiamo innalzata a luogo della nostra identità. Siamo il Paese in cui si fanno sacrifici enormi per la casa, perché divenga una proprietà e poi la usiamo come calvario per le donne, poiché occorre dirlo sono le donne a morire di casa e di famiglia. L’asimmetria è netta, è l’uomo selvaggio a uccidere, il cacciatore di prede umane. La casa come serraglio. Lo so bene che ci sono famiglie diverse, per bene, ma non ci si può consolare in nessuna maniera quando le cronache sono piene di donne stuprate e poi buttate via come oggetti consumati. Il consumo dei sentimenti e degli attaccamenti.
È tempo di fare della crisi familiare un tema di cultura, di impegno sociale. Ci troviamo nel corso di una regressione rapidissima in cui si stanno perdendo le conquiste fatte in tempi lunghi. Non sentiamo nemmeno più la Chiesa parlare della famiglia come di un principio che sa persino di cielo, occorre svegliare uno Stato che sta delirando su questioni ridicole mentre nessuno si occupa di emergenze. È difficile quando la violenza sa di morte come in questi giorni, ricordare che oltre ad una violenza del corpo esiste quella della personalità che può ferire senza una goccia di sangue. Ed esiste anche una violenza sociale che impedisce di avere un ruolo e di mostrare una dimensione umana, chiusi o abbandonati nella solitudine dentro il numero sempre più vasto dei «nessuno». La violenza e la paura sono le vere emergenze del tempo presente.