sabato 13 ottobre 2012

l’Unità 13.10.12
Scuola e ricerca gridano aiuto
Cortei in 90 città contro i tagli del governo. Studenti e professori in piazza con le carote: «Finora soltanto bastoni»
Camusso lancia la manifestazione del 20 ottobre: risposte sul lavoro o sciopero generale
In Parlamento tutti dicono: la legge di stabilità va corretta
La forza allegra dei centomila studenti
In piazza anche gli insegnanti della Cgil e molti ricercatori


l’Unità 13.10.12
Se manca un progetto è inutile aumentare l’orario
di Benedetto Vertecchi


NON ERA DIFFICILE IMMAGINARE CHE NEL CLIMA GIÀ CALDO CHE IN QUESTO INIZIO D’ANNO DOMINA NELLE SCUOLE parlare di un possibile aumento dell’orario di lavoro degli insegnanti avrebbe aggiunto a quelle già esistenti ulteriori ragioni di disagio.
E ciò non solo per le fosche previsioni che si possono fare circa la capacità del sistema educativo di assorbire nuovo personale o, quanto meno, di collocare dignitosamente quello che da anni ruota in condizione di precarietà attorno alla scuola.
Ma ancor più perché la sortita estemporanea sul nuovo orario di cattedra costituisce un ulteriore prova dell’improvvisazione con la quale si interviene, o si dichiara di voler intervenire, sul funzionamento del sistema scolastico.
L’orario di lavoro non è, infatti, qualcosa che possa essere variato prescindendo da considerazioni che riguardano i modelli organizzativi e didattici dell’attività educativa. Si può anche considerare inadeguato l’orario attuale: ciò non perché sia inadeguato il numero di ore richiesto agli insegnanti, ma perché tale orario rispecchia una concezione dell’educazione scolastica che poteva essere accettata fino ad alcuni decenni fa, mentre oggi risulta incapace di corrispondere alle esigenze che nel frattempo si sono venute manifestando. Per cominciare, non si può seguitare a far coincidere l’orario delle lezioni con quello di funzionamento delle scuole. Poiché l’impegno di lavoro degli insegnanti corrisponde al numero di lezioni necessario per coprire l’orario di funzionamento delle scuole, si capisce che anche solo ventilare un aumento lasci subito intravedere fosche prospettive per l’occupazione.
Non solo. Non c’è bisogno di richiamare i dati delle indagini comparative internazionali per rendersi conto che il sistema educativo fatica ad adeguarsi ai mutamenti intervenuti e a quelli che stanno intervenendo nel quadro culturale e sociale. L’enfasi posta su elementi di modernizzazione proposti alle scuole (per esempio, l’uso di apparecchiature tecnologiche) può dare l’impressione che qualcosa stia cambiando, ma si tratta, appunto, solo di un’impressione. Le nuove dotazioni possono avere una capacità di attrazione finché sono inconsuete (e solo sulla parte più sprovveduta degli allievi), ma non sono in grado di configurare profili culturali la cui validità si estenda per un tempo lungo. Le strumentazioni che oggi appaiono all’avanguardia potranno essere utilizzate, sempre che lo siano davvero, per pochi anni. Per acquisirle saranno state impegnate le poche risorse disponibili per le dotazioni delle scuole. Ma, ammesso pure che i tempi fossero meno grami di quello che sono, avrebbe senso impegnare tali risorse per inseguire le offerte del mercato? Non ci si può non stupire di fronte al tono assertorio con cui si vantano i benefici che verrebbero dall’uso di questo o quel mezzo, in assenza di elementi obiettivi, di ricerche originali, di esperienze condivise. Intanto, per far posto a dotazioni che resteranno nelle scuole meno del tempo degli allievi che potrebbero usarle, non ci si cura più dei laboratori, dei gabinetti per le scienze della natura, delle raccolte bibliografiche e di quelle naturalistiche. Non ci si preoccupa di offrire agli allievi la possibilità di collegare pensiero e azione, di stimolare la loro creatività perché esprima un saper fare intelligente. Ed è proprio questo che gli insegnanti dovrebbero fare se ne avessero il tempo, se gli orari di funzionamento delle scuole non fossero così rachitici.
In Europa, e in genere nei Paesi industrializzati, la scuola assorbe gran parte della giornata, al mattino e al pomeriggio (talvolta, spazi e dotazioni sono fruibili anche di sera). Certo, non per far lezione, ma per trasformare ciò che si apprende in elementi di un profilo culturale che resti attraverso il tempo e possa adattarsi e riadattarsi ai mutamenti che intervengono nella conoscenza e nella società. Quel che serve è elaborare un’idea dell’educazione, e effettuare scelte coerenti con essa. La logica dei rattoppi non produce – l’abbiamo visto nulla di buono. Si attenua il rapporto di fiducia sul quale si fonda l’attività delle scuole. E gli stessi insegnanti sono alla rincorsa d’intenti che non sanno quanto siano condivisi. Quel che manca, e di cui c’è soprattutto bisogno, è una politica per l’educazione.

il Fatto 13.10.12
Fiom: sciopero il 16 novembre. Anche contro il premier


“PRIMA VIENE TOLTO di lì questo governo, meglio è, non sta facendo l’interesse dei lavoratori. La manovra è una truffa”. La Fiom chiede lo sfratto dell’esecutivo Monti e, in questo modo così netto ed esplicito, è la prima volta che lo fa. È la prima notizia dell’assemblea dei delegati del sindacato di Maurizio Landini che si è svolta ieri a Modena. Davanti a circa 5000 delegati, il segretario dei metalmeccanici ha poi annunciato lo sciopero generale della categoria per il 16 novembre con al centro il rinnovo del contratto, specialmente dopo la pretesa di Federmeccanica di siglarlo separatamente con le altre sigle sindacali . Ma la giornata a questo punto si carica di un significato più generale. Landini ha poi attaccato anche Renzi per le sue giravolte su Marchionne ma non ha risparmiato nemmeno quei politici, a partire dal Pd, che ora criticano il sindaco di Firenze e che prima sostenevano lo stesso amministratore Fiat. Infine, la richiesta alla Cgil di non firmare nessun accordo sulla produttività.

il Fatto 13.10.12
Camusso: sciopero generale? Vediamo dopo il 20 ottobre


“COSA faremo dopo il 20? Lo decideremo dopo il 20”. Con queste parole Susanna Camusso, segretario generale Cgil, commenta l’ipotesi di uno sciopero generale durante la conferenza stampa di presentazione della manifestazione del 20 ottobre. "Voglio dire agli amici di Cisl e Uil che è il momento di riprovare a fare delle iniziative insieme. Date le scelte fatte nella legge di stabilità, dobbiamo capire che di tasse e di tagli il lavoro italiano sta morendo. Una politica che non salva il lavoro non salva neanche l’Italia. La ripresa si allontana e la recessione diventa sempre più forte". Intanto a settembre la cassa integrazione è aumentata ancora: +3,6%.

l’Unità 13.10.12
Bersani: «Il coraggio dell’Italia» Oggi il manifesto dei progressisti
Il leader Pd sceglie lo slogan della campagna che inizia domani a Bettola
Chiuso il confronto sulle regole, nella Carta nessun riferimento a Monti
di Simone Collini


ROMA Chiuso il confronto sulle regole e definito il testo della «Carta d’intenti per l’Italia bene comune», le primarie entrano nel vivo. E non è detto che i motivi di polemica siano destinati a diminuire, anzi. Oggi il leader del Pd Bersani, quello di Sel Vendola e quello del Psi Nencini presenteranno il manifesto che andrà sottoscritto da chi vuole correre per essere scelto come candidato premier. Ma questa mattina dovrebbero essere illustrate anche le modalità di voto della sfida ai gazebo. Il condizionale è d’obbligo perché la riunione tra gli sherpa dei tre partiti della coalizione progressista, che doveva essere risolutiva, si è chiusa con il fronte vendoliano recalcitrante ad accettare la norma (benvista da Pd e Psi) per la quale possa votare al secondo turno (fissato per il 2 dicembre nel caso nessun candidato ottenesse il 50% dei consensi il 25 novembre) soltanto chi si è registrato (cioè ha firmato l’appello a sostegno del centrosinistra) entro la domenica precedente. Per di più, quando sono iniziate a trapelare indiscrezioni su quale fosse il punto di caduta della trattativa (si può votare al solo secondo turno esclusivamente in «rari e isolati» casi, ovvero dimostrando che al primo turno si era malati o all’estero), il coordinatore della campagna di Renzi, Roberto Reggi, si è precipitato a Roma per contestare questa norma, quella per cui il luogo dove registrarsi sarà diverso da quello dove si voterà e anche quella per cui i nomi di chi sottoscriverà il manifesto del centrosinistra saranno pubblici e l’albo degli elettori sarà consultabile.
LO SLOGAN DI BERSANI
La discussione è andata avanti ma Bersani ha dato mandato ai suoi di chiudere prima di stamattina questa partita, per poter lanciare oggi manifesto e regole e aprire una nuova fase della sfida. Il leader del Pd apre infatti la sua campagna domani, che tra le altre cose è il giorno del quinto anniversario della nascita del Pd (le primarie che hanno eletto Veltroni segretario si sono svolte il 14 ottobre 2007). Il luogo scelto per la partenza è Bettola, paese natale del segretario democratico, e per la precisione a fornire il set sarà la pompa di benzina che gestiva il padre, Giuseppe. E domani verrà ufficialmente svelato anche lo slogan della campagna di Bersani (la scritta verrà posta sul piccolo palco montato nel piazzale della pompa di benzina) che sarà «Il coraggio dell’Italia». Il leader del Pd, che guarda alle primarie ma soprattutto alla sfida per Palazzo Chigi, lo ha scelto per ricordare che il Paese ha saputo far fronte anche ai problemi più drammatici, ma anche per chiamare gli italiani a una «riscossa civica», insieme a un centrosinistra che dovrà avere il coraggio di «ripensare al lavoro», «fermare i privilegi», «ridare prestigio alla politica» (sarà su queste e altre questioni che verrà declinato lo slogan principale).
UNA CARTA SENZA MONTI
Bersani oggi intanto rischia però di dover fare i conti con due fronti polemici. Agli attriti con i renziani, che esploderanno non appena le regole verranno ufficialmente presentate, rischiano infatti di aggiungersi delle critiche provenienti dai cosiddetti montiani del Pd. La «carta» che verrà presentata oggi non contiene infatti riferimenti espliciti all’operato di Monti, diversamente da quella messa a punto da Bersani prima dell’estate, nella quale si parlava dell’«autorevolezza» dell’attuale premier. Una scelta obbligata, visto che Vendola spingeva per inserire un riferimento a Monti di segno negativo. La decisione di non citare l’attuale capo del governo fa però storcere la bocca a quanti, nello stesso Pd (da Gentiloni a Morando, da Tonini a Ceccanti a Vassallo) guardano con favore all’ipotesi del Monti bis e guardano invece con preoccupazione a una «carta» in cui si critica la linea del rigore a livello europeo.

La Stampa 13.10.12
E ora nel Pd torna il timore di un Monti bis
I democratici: “Le parole del Colle un siluro al premio di coalizione”
di Carlo Bertini


Con aria sorniona, Casini prevede: «La legge elettorale? Eeeeeh», ampio gesto con la mano per far intendere che «il cammino sarà lungo», ne vedremo delle belle. Abbiamo un testo base, è vero. Ma chi segue le cose da dentro non scommette un cent che sarà pure il testo definitivo. Al massimo, un primo passo. Quagliariello e Zanda, i negoziatori per conto di Pdl e Pd, sottovoce riconoscono che «si può, si deve far meglio»: questa riforma va blindata sul piano politico e resa invulnerabile su quello parlamentare, perché così com’è appare troppo fragile. Senza puntelli, rischia di crollare. La prima incognita si chiama premio di maggioranza. Nella bozza vale il 12,5 per cento. A Bersani non è garanzia sufficiente per sentirsi la vittoria in tasca, però gli sembra meglio che nulla, per cui se lo tiene stretto. Anzi, il timore nel Pd è che nel «lungo cammino» della legge scatti qualche tagliola. Ad esempio, che venga votata una soglia percentuale minima per far scattare il premio. Calderoli, il solito guastatore, vuole proporne una del 40 per cento, chi non ci arriva resta senza premio. Va spargendo la voce che sulla soglia «tutti mi verranno dietro, centristi compresi». Nel Pd suona l’allarme.
Però più che su Calderoli, l’attenzione è concentrata sul Capo dello Stato. E in particolare sul passaggio della lettera a Schifani dove si dice basta alle alleanze nate solo per vincere, anziché per governare. «È un evidente siluro al premio di coalizione», lo interpreta un personaggio di spicco del Pd. I cui vertici guardano con forte sospetto tutto quanto potrebbe spingere verso un bis del governo Monti. La grande paura è di ritrovarsi una legge che, come risultato finale, renda inevitabili le larghe intese...
L’altra incognita si chiama Berlusconi. Il testo base della legge gli va a genio o no? Perfino tra i suoi, nessuno riesce a capirlo, per cui regna una paralisi decisionale. L’uomo è confuso, oppure si diverte a confondere gli altri. Qualcuno sostiene che vorrebbe tenersi l’attuale «Porcellum». Col quale perderebbe, però in Parlamento farebbe eleggere chi vuole lui. Si sussurra che alla Camera, quando si voterà a scrutinio segreto, Silvio scatenerà contro le preferenze l’esercito dei «nominati». A quel punto addio riforma, non ci sarebbe più tempo per aggiustarla.
In verità, nemmeno al Pd le preferenze convincono. Anzi, c’è rivolta. Approvare una legge che le contiene creerebbe parecchi grattacapi a Bersani. Per cui sotto sotto in queste ore si sta già studiando la maniera di disinnescare la mina. L’ultima ipotesi sul tappeto ipotizza una sorta di scambio, un ulteriore «do ut des». Al posto delle preferenze, verrebbero indicati sulla scheda 4-5 nomi per ogni simbolo. Scegliendo il partito si eleggerebbero automaticamente i candidati, un ibrido tra listini bloccati e collegi. Una volta tolte di mezzo le preferenze, forse il Pd potrebbe accontentarsi del premio al partito, anziché alla coalizione. Proprio come sembra suggerire Napolitano. E a quel punto sarebbero tutti contenti...

La Stampa 13.10.12
Una versione aggiornata della Prima Repubblica
di Marcello Sorgi


Il testo della nuova legge elettorale votato in commissione al Senato piace al Presidente della Repubblica, che ha scritto al presidente del Senato Schifani per manifestare il suo consenso e spronare i partiti all’accordo finale. Il Capo dello Stato trova convincente soprattutto il meccanismo che, moderando l’effetto maggioritario del premio elettorale, elimina la necessità di giocarsi il tutto per tutto per vincere, anche a costo di mettere insieme alleanze eterogenee che alla prova dei fatti non riescono a governare, e lascia alla trattativa parlamentare il compito di costruire la coalizione che dovrà poi sostenere il governo.
La differenza fondamentale tra il Porcellum e il testo votato, per adesso, solo da Pdl, Lega e Udc, infatti sta in questo: con il Porcellum il partito o la lista che prendevano un voto più degli altri ottenevano il 55 per cento dei seggi della Camera. Con la riforma, se passerà, per avere un premio del 12,5 per cento dei seggi occorrerà raggiungere il 37,5 per cento. Tra voti e premio, insomma, non sarà più possibile superare il 50 per cento. E siccome con la metà dei parlamentari non si governa, il partito o la coalizione che vincerà le elezioni, il giorno dopo i risultati dovrà contrattare l’appoggio necessario alla creazione della maggioranza.
In altre parole, se Bersani e Vendola, al momento accreditati in vantaggio, riescono a toccare la fatidica soglia del 37,5 per cento dei voti (obiettivo realistico, dato che il Pd nei sondaggi è accreditato al 28-29 e Sel al 7), potranno, sì proclamarsi vincitori la sera stessa della chiusura delle urne, ma per formare il governo dovranno necessariamente rivolgersi a Casini. E a un analogo percorso sarebbero portati Pdl e Lega, ammesso che riescano a ricostituire la loro alleanza e il vento elettorale giri in loro favore.
Resta ancora da capire se un sistema come questo, ibrido di proporzionale e maggioritario, rappresenti un’evoluzione della Seconda Repubblica o un suo definitivo accantonamento. La seconda ipotesi è più probabile, dal momento che il centro non sarà più obbligato a schierarsi preventivamente con la destra o con la sinistra, e che l’una o l’altra dovranno chiederne il sostegno parlamentare per governare. Così, anche se è presto per dirlo, più che alle soglie della Terza Repubblica è probabile che ci ritroveremo in una versione aggiornata della Prima: con il Parlamento che torna ad essere centrale e i candidati premier figure simboliche, che dopo il voto, e prima di andare a Palazzo Chigi, dovranno comunque negoziare con gli altri partiti.

Repubblica 13.10.12
L’imbroglio delle preferenze
di Gianluigi Pellegrino


BISOGNA stare attenti a non fraintendere le parole del Capo dello Stato. Napolitano si felicita perché la riforma elettorale è giunta finalmente (se non a tempo scaduto) nella sede propria delle aule parlamentari.
Ma l’apprezzamento del Presidente finisce qui. Nel merito il suo messaggio, pur nel rispetto dei ruoli, è nella sua oggettività assai ben critico se non di autentica bocciatura del testo base approvato in commissione. Che infatti è indifendibile, per ragioni evidenti che certo il Presidente non poteva esplicitare. Dietro la sacrosanta esigenza del superamento del porcellum, si rischia in realtà un approdo quasi peggiore, perché aggravato dal sapore della beffa. Restano infatti per oltre il trenta per cento i listini bloccati e quindi il boccone più indigesto della legge porcata. E per gli altri due terzi si propone un appiccicoso quanto surreale salto nel passato, con ritorno all’inguardabile sistema delle preferenze.
Non è nemmeno necessario, come pure sarebbe sufficiente, richiamare il recente rosario di scandali per ricordare che sono tutti, non a caso, legati alle preferenze. Non solo le vicende dei Fiorito “batman”, degli Zambetti “pisciaturu”, dei Piccolo “superman”, e dei Maruccio di ogni risma; ma anche il decreto di scioglimento del Comune di Reggio Calabria per infiltrazioni mafiose è interamente motivato sugli scambi connessi a quel sistema di raccolta dei voti, purtroppo in vigore nelle elezioni comunali e regionali. Il che già dovrebbe bastare e rendere impensabile la sua estensione alle politiche. Ma la ragione di fondo che deve imporre un no senza condizioni a questa opzione, è persino più rilevante, perché riguarda al fondo la cultura politica e delle istituzioni necessaria per provare a risanare la “democrazia ma-lata”, fotografata con impietoso allarme ieri da Ezio Mauro.
Ed infatti proprio le elezioni politiche devono essere un voto di opinione e non un voto di clientela. I partiti postideologici se vogliono dare un senso alla loro missione devono recuperare la strada della credibilità che invece perdono per sempre se scelgono sistemi che fomentano al loro interno guerre intestine, familistiche se non criminali. Comitati d’affari dei quali infine i partiti medesimi restano vittime e subalterni. Svuotati dall’interno. Nella loro stessa anima.
Optare per le preferenze vuol dire ostentare, in un masochismo accecato, una clamorosa indifferenza a questa esigenza vitale, quando l’alternativa valida la conoscono tutti. Sono i collegi l’unico strumento idoneo a saldare voto di opinione, nuova centralità dei progetti politici, valorizzazione dei candidati, virtuoso collegamento con il territorio. Si deve poi ovviamente azzerare qualsiasi residuo di listino bloccato, cimelio non richiesto del porcellum.
Sul fronte della governabilità infine, Napolitano ha parlato chiaro. Se è vero che si devono evitare coalizioni forzate è altrettanto vero che il premio deve servire a sostenere un governo di legislatura, risultando invece di dubbia costituzionalità se serve solo come cadeau a questo o quel partito. Con il rischio di produrre il medesimo cortocircuito che oggi il porcellum presenta al Senato dove il premio opera persino in danno di chi deve formare la maggioranza di governo.
Vale per la riforma elettorale quel che vale per l’anticorruzione. Non serve una legge purchessia, ma la legge che tutti sanno sarebbe utile per il paese e che però si stenta ad approvare per tornaconti personali o di partito. Lì per avere salvacondotti nei processi, qui per la trasparente tentazione di far finta di ridare la parola agli elettori, ma scegliendo sistemi buoni solo a garantire se stessi e a reclutare i peggiori. Democratici, dipietristi e vendoliani hanno votato contro. Ma non basta. Anche al porcellum dissero di opporsi per poi abusarne abbastanza. Arrivati alla soglia della riforma implorata dai cittadini, il più odioso dei tradimenti deve essere contrastato con forza visibile e senza infingimenti.
La cronaca ogni giorno ci dice che si è giunti al fondo del pozzo. Dovrebbe quanto meno esserci l’istinto a provare a spingere verso l’alto per cercare la risalita. Continuare a scavare, non è sopravvivere, ma solo un cieco cupio dissolvi.

La Stampa 13.10.12
Centrosinistra
Primarie infuocate scontro sulle regole del ballottaggio
I fedelissimi di Renzi: ci vogliono danneggiare
di Carlo Bertini


Se passa la linea del ballottaggio a numero chiuso in cui può votare solo chi si è iscritto al primo turno, è un problema serio per Renzi», ammette uno dei sostenitori dello Sfidante, proprio mentre a Roma va in scena una battaglia di trincea sulle regole: prima anticipate e poi smentite, visto che anche il leader di Sel, sulla carta, non schioda dalla linea del Piave di primarie aperte sempre a tutti fino all’ultimo. E’ la vigilia dello showdown, stamattina Bersani, Vendola e il socialista Nencini lanceranno in pompa magna le tre tavole della Coalizione: la «Carta d’intenti per l’Italia bene comune», che provoca già polemiche a iosa nel Pd per l’assenza di alcun accenno all’opera meritoria di Monti, come richiesto da Sel. Un programma stilato col bilancino che blinda i confini dell’alleanza dentro l’Europa e fissa l’urgenza di uscire dalla crisi guardando all’economia reale più che allo spread. Dieci capitoli: Europa, Democrazia, Lavoro, Uguaglianza, Libertà, Sapere, Sviluppo sostenibile, Beni comuni, Diritti; e infine Responsabilità: è qui che vengono promesse decisioni a maggioranza dei gruppi parlamentari, lealtà agli impegni internazionali e ai trattati, insomma quel complesso di assicurazioni per garantire agli italiani che la coalizione sia affidabile e credibile.
Poi c’è «L’appello agli elettori di centrosinistra» che dovranno firmare tutti quelli intenzionati a votare. E la «Carta delle regole»: sulla quale fino a notte, nella migliore tradizione, si tratta sulle virgole. Uno scontro tale da indurre Roberto Reggi, plenipotenziario di Renzi, a prendere di corsa un aereo da Venezia a Roma per vedersela a quattr’occhi con un altro piacentino, osso duro come lui, Maurizio Migliavacca, fidato braccio destro di Bersani. E anche se i sondaggi del comitato pro-Renzi fotografano una realtà sorprendente (l’EMG dà lo sfidante in testa al primo turno, percentuale tra il 35,6 e il 39,4%, Bersani dietro tra il 33,3-35,2% e Vendola terzo, tra il 17,6-21%), tutti sanno che la partecipazione sarà elemento decisivo.
Per questo al tavolo delle regole, «le stanno pensando tutte per scoraggiare la voglia di andare a votare e per danneggiarci», dicono gli uomini del sindaco di Firenze. Unici finora tra i candidati ad aver superato lo scoglio delle 90 firme di delegati dell’assemblea del Pd necessarie per candidarsi, «ne abbiamo oltre 100 per sicurezza»; ma infuriati per i tiri mancini che «gli altri» provano a tirargli: come il doppio albo, quello dei votanti (solo consultabile) e quello pubblico dei sostenitori dell’Appello; o come l’escamotage dei banchetti per iscriversi sistemati «il più vicino possibile» ai gazebo dove si voterà. Accorgimenti per disinnescare i rischi di inquinamento del voto, ma nella sostanza anche per scoraggiare i votanti dell’ultim’ora che potrebbero essere la maggioranza. Insomma, se voterà un milione o quattro milioni di persone, farà la differenza e Renzi punta a trascinarne il più possibile al primo giro. Per questo, quando domani Bersani avrà terminato il suo show nella piazzola della stazione di servizio in quel di Bettola, lo Sfidante sarà seduto negli studi di Domenica In, ospite di Giletti per una comparsata di una mezz’ora. Piani di esposizione diversi, per il leader Pd che esordisce così nella sua campagna per le primarie e per Renzi ormai in corsa da settimane, ma ancora non così noto in ogni angolo dello stivale come Bersani. E dunque intenzionato a colmare quel gap con ogni mezzo, dall’intervista a “Chi” fino al salotto domenicale di massimo ascolto.

il Fatto 13.10.12
La difesa dei Pm: “Il Presidente non è un sovrano”
di Beatrice Borromeo


Il presidente della Repubblica non è un monarca assoluto: è questa la tesi della procura di Palermo, che in una memoria indirizzata alla Corte Costituzionale spiega perché Giorgio Napolitano proprio non può pretendere l’immunità totale.
Liberi tutti.
Se la Consulta dovesse accogliere il conflitto d’attribuzioni – sollevato dal Capo dello Stato per paura che le sue telefonate con l’ex senatore Nicola Mancino finiscano sui giornali – le conseguenze sarebbero tanto gravi quanto paradossali. Ecco cosa succederebbe se si sancisse che il Presidente non può essere intercettato in alcuna circostanza, neanche indirettamente e casualmente: “Una volta accolto il ricorso - scrivono gli avvocati dei pm palermitani, Pace, Serges e Serio - i magistrati sarebbero indotti, nel dubbio, ad astenersi dal disporre intercettazioni a carico di tutti coloro che, ancorché sottoposti a indagine penale, potrebbero avere titolo, in ragione di attuali o pregressi rapporti o funzioni precedentemente svolte, a comunicare direttamente con il Presidente della Repubblica”. Consiglieri, ex ministri, vecchie fiamme e compagni d’asilo inclusi. E questo - scrivono - costituirebbe una “violazione dell’obbligatorietà dell’azione pena-le”.
Il nastro magico.
Sulle oltre novemila telefonate intercettate sull’utenza di Mancino, la voce di Napolitano si sente solo quattro volte. E dato che la registrazione “si verifica in forma automatica mediante apparecchiature informatiche, non controllabili e non influenzabili, almeno nell’immediato, da intervento di un operatore” (così i pm), risulta difficile accontentare il presidente della Repubblica, che nel decreto dello scorso 16 luglio dice: “Il divieto di intercettazione riguarda anche le cd. Intercettazioni indirette o casuali comunque effettuate mentre il Presidente è in carica”. Proprio in questo passaggio, oltretutto, l’avvocatura dello Stato ammette che le telefonate con Mancino siano state intercettate casualmente, ma sostiene che nulla cambi. Ma il divieto di ascoltare il presidente, scrivono gli avvocati di Francesco Messineo, Antonio Ingroia e Nino di Matteo, “è previsto solo per le intercettazioni dirette” e può al massimo “estendersi a quelle indirette non casuali”.
Istigazione a delinquere.
Se poi le bobine ci sono, secondo gli avvocati di Napolitano, i pm devono “procedere alla distruzione immediata del testo intercettato”. Peccato che il magistrato non lo possa fare (per legge). Spiega la Procura di Palermo che non è possibile “procedere all’immediata distruzione prescindendo dal ricorso del giudice e dalle garanzie del contraddittorio”. E questa è “l’unica azione compatibile con la salvaguardia dei principi costituzionali”, visto che i pm non possono arrogarsi il potere di distruggere bobine (sarebbe illegale: spetta al giudice) e che non si può “inibire all’innocente la possibilità di portare in giudizio la prova, anche irritualmente acquisita, della non colpevolezza”. La paura del presidente è che che se si rispetta la legge (col giudice che decide la distruzione dei nastri in udienza apposita, dopo averli fatti ascoltare agli avvocati difensori degli indagati che ne facciano richiesta) c’è il rischio che il contenuto delle telefonate trapeli all’esterno.
Re Sole.
C’è poi l’articolo 90 della Costituzione, che “sancisce la irresponsabilità del Presidente - salve le ipotesi di alto tradimento o attentato alla Costituzione - solo per “gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”. L’avvocatura dello Stato ne propone un’interpretazione molto ampia: “Il perseguimento delle finalità costituzionali caraterizza l’attività sia formalizzata sia non formalizzata del presidente della Repubblica connotando-la in senso funzionale”. Telefonate con vecchi amici comprese. Ma, dicono i pm, questa affermazione è “infondata giuridicamente” ed è “paradossale”: “Non solo nelle allocuzioni pubbliche ma anche nelle comunicazioni riservate, il Presidente parlerebbe sempre e soltanto come Capo dello Stato”. Un’inviolabilità “che caratterizza il Sovrano”, si legge nella memoria, e che “implicava la totale immunità dalla legge penale”. Ma non di un Sovrano qualunque: la Costituzione spagnola, per esempio, dice l’intercettazione legittima di una telefonata nella quale accidentalmente figuri il Re come mero interlocutore non equivale a “investigare la persona del Re”, e verrebbe valutata dal giudice istruttore che la farebbe distruggere solo se irrilevante ai fini delle indagini. “In caso contrario - spiega la Procura di Palermo - le telefonate resterebbero agli atti”. Per l’inviolabilità che vuole il presidente Napolitano bisogna tornare al Re Sole.

l’Unità 13.10.12
Quei minori «rapiti per legge» che non fanno notizia
di Carla Forcolin


TUTTA L’ITALIA SI INDIGNA O FINGE DI INDIGNARSI davanti al filmato che ci mostra un bambino di 10 anni, conteso dai genitori, mentre viene preso con la forza all’uscita da scuola e caricato in una macchina della polizia. Leonardo si oppone disperatamente al suo trasferimento forzato in una struttura di Cittadella, al suo allontanamento dalla madre, dalla zia, dai suoi compagni ... Ma non viene ascoltato, viene preso a viva forza.
Non entro in merito alle decisioni della Corte d’Appello del Tribunale dei Minorenni di Venezia, non ho gli elementi per farlo, ma non posso non vedere in questo bambino, che tutta l’Italia ha visto combattere una lotta impari contro i poliziotti che lo hanno prelevato all’uscita della scuola, tutti i bambini rapiti per legge. E per bambini «rapiti» intendo coloro che sono costretti a cambiare famiglia, ambiente e tutta la loro vita contro la loro volontà.
Non solo i bambini contesi tra madre e padre, ma anche i bambini posti in affidamento e poi costretti a lasciare la famiglia affidataria, per finire in qualche struttura e da lì passare ad una famiglia adottiva. I bambini tolti ai genitori naturali perché considerati «inadeguati», anche se i bambini li amano e gli stessi genitori, con tutti i loro limiti, amano loro. I bambini sottratti ai genitori ingiustamente accusati di violenza (è successo tante volte). Sono rapiti tutti quei bambini che all’uscita dalla scuola trovano una persona diversa da quella che aspettavano e che da quella persona (assistente sociale o poliziotto) vengono costretti a cambiare residenza e a perdere tutti coloro che amano nel loro cuore.
La giustizia minorile, nei paesi che si ispirano alla «Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989», non potrebbe ignorare i desideri, i sentimenti e la volontà dei bambini, trattandolo come oggetti, ma lo fa lo stesso. La Convenzione, all’art. 12, stabilisce che il fanciullo ha «il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, essendo essa debitamente presa in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità». Leonardo ha espresso ben chiaramente la sua opinione opponendosi a chi lo ha voluto rinchiudere in una comunità e tutto il mondo lo ha visto, ma ci sono bambini portati via da casa o da scuola in modo meno vistoso, ma ugualmente violento.
Già ieri sera il questore di Padova, intervistato in televisione, ci dice che il piccolo Leonardo sta bene. Anche Maria, Felice, Carlotta, che del padre aveva tanta paura ed è stata mandata da lui, stanno bene. Stanno tutti bene questi bambini, anche se costretti a separarsi in un momento da tutto ciò che è loro caro, proprio come succede nella morte.
Ormai tre anni fa fu lanciata dall’ associazione «La gabbianella e altri animali» la petizione «Diritto ai sentimenti per i bambini in affidamento». L’onorevole Francesco Paolo Sisto (PdL) è il relatore della materia, ma nessuna legge è stata ancora fatta. Si farebbe ancora in tempo a discutere le proposte di legge che giacciono in Commissione Giustizia e sono frutto di petizione popolare, se lui e i suoi onorevoli colleghi volessero.
Le migliaia di firmatari della petizione lo pregano di porre la questione di nuovo con urgenza, non lasciar cadere la legislatura senza avere fatto ciò che è in suo potere perché il problema sia risolto.
I bambini vengono rapiti per legge con grande frequenza, ma nessuno se ne occupa se non fanno notizia, se non c’è un filmato che li renda «famosi».
Ora ci si aspetta che almeno Lorenzo sia ascoltato, che la sua richiesta di aiuto urlata al mondo abbia un seguito, anche quando i riflettori della cronaca si spegneranno su di lui.
*(Presidente dell’associazione «La gabbianella e altri animali»)

il Fatto 13.10.12
Luigi Cancrini: “Nel conflitto il figlio resta solo”
di Silvia D’Onghia


L’errore è quello di non riuscire a passare dalla dimensione coniugale a quella genitoriale. E spesso i periti si concentrano sul bambino perdendo di vista l’oggetto: la relazione interpersonale tra i due adulti”. Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta, una vita spesa dalla parte dei minori e delle famiglie, sa che a Cittadella, pur se “in buona fede”, sono stati commessi molti errori.
Quali, professore?
In primo luogo la sindrome da alienazione parentale che è stata diagnosticata al bambino. Una configurazione clinica molto discutibile che ha definito ‘alienato’ il bambino, ‘alienante’, quindi mostruosa, la madre, ‘vittima’ di un sopruso il padre. E una volta che il bambino diventa ‘alienato’, non lo si ascolta più, si dà per scontato che la sua mente non funzioni liberamente, ma che sia soggetta a volontà altrui.
Ma quali dinamiche possono aver portato a quello che abbiamo visto?
Non dimentichiamoci che ci si trova di fronte al fallimento di una coppia, alla sua separazione. La reazioni più comuni sono due: si cerca di dividere il figlio a metà o ci si dimentica completamente del figlio. È come “La guerra dei Roses”: aggrappati al lampadario facciamo venire giù tutto. Nei Tribunali ognuno arriva col proprio legale e col proprio perito, che magnificano l’assistito ai danni dell’altro genitore. Per cui è frequentissimo che i giudici prendano provvedimenti in termini di diritto e non di comprensione e di cura.
Quali sono le conseguenze nel bambino?
Prendiamo due situazioni tipo. Il bambino resta con la madre e non vede più il padre. Fino ai 12/13 anni rimane accoccolato alle esigenze della madre, fa finta di non ricordarsi che il padre esiste. La mamma dice: ‘Va bene a scuola, che se ne fa di un padre così’. Poi arriva l’adolescenza e il bambino comincia a chiedere ragione di quanto accaduto, diventa inquieto. Oppure il conflitto va avanti per anni con alterne vicende, il bambino viene sballottolato di qua e di là. Ogni genitore gli starà accanto e gli dirà: ‘Io ti voglio bene, mica come quell’altro’. Si chiama conflitto di lealtà. Allora avremo un bambino profondamente solo, che tende a diventare anaffettivo.
I giudici, gli assistenti sociali, la polizia sono preparati ad affrontare situazioni come quelle di Cittadella?
A macchia di leopardo. A Roma, Milano, Torino, Napoli ci sono centri di aiuto ai bambini maltrattati che collaborano con i Tribunali, ci sono associazioni e servizi. In altri luoghi ci si muove solo sul piano assistenziale.
Nel suo nuovo libro, “La cura delle infanzie infelici”, lei affronta un “viaggio all’origine dell’oceano borderline”. Ci sono storie che le sono rimaste impresse?
Una proprio sul conflitto di lealtà, una bambina presa nella trappola. L’altra è la storia di un bimbo di tre anni che non voleva più stare con i genitori affidatari. ‘È la mia mamma che non vuole’, diceva al terapeuta. Ma la sua mamma era morta.

Corriere 13.10.12
Come con Salomone vince chi rinuncia per non fargli male
di Silvia Vegetti Finzi


Nel prelievo forzato del piccolo Leonardo, all'indignazione succede ora la riflessione sulla possibilità di prevenire avvenimenti così incresciosi. Sullo sfondo vi è un annoso conflitto sulla gestione del figlio che si rifiuta d'incontrare il padre. Incapaci di trovare un accordo, i genitori delegano all'autorità giudiziaria la loro funzione chiedendole di dirimere una vertenza che riguarda le passioni più che le ragioni. Ma la Legge, incapace di mutare i sentimenti, può agire solo sui comportamenti e i suoi interventi, per quanto giusti, possono risultare contradditori quando i diritti delle parti si equivalgono. Basta considerare la sentenza che toglie alla madre la potestà genitoriale e le conferma l'affidamento del figlio o quella che lo riaffida al padre, pur riconoscendo che, con il ricorso a numerose querele, ha ostacolato l'accordo.
Credo, in questi casi, sarebbe opportuno affrontare subito un percorso di mediazione che mantenga i problemi nell'ambito dell'interazione familiare. Col tempo la contesa per il «possesso» di Leonardo s'inasprisce sino a sfociare nell'intervento «chirurgico» di mercoledì scorso, che ha posto la società di fronte ai limiti del ricorso alla giustizia nei conflitti familiari. Sono soprattutto i padri ad appellarsi al Diritto, ma Re Salomone insegna che, nella contesa del figlio, vince chi rinuncia per non fargli male. Il genitore respinto che sa dire al bambino «ti voglio bene e ti attendo» ha molte probabilità di riavere il suo posto quando, con l'adolescenza, iniziano i fisiologici processi di distacco dalla madre e di emancipazione dalla famiglia. Talvolta l'amore si afferma nella rinuncia, nel sacrificio di sé per il bene dell'altro.

Corriere 13.10.12
Le oomande che non possiamo evitare
di Paolo Di Stefano


E adesso, povero bambino? Quanto tempo dovrà passare perché dimentichi il trauma dell'altro giorno? Quanti anni di terapia? Al netto delle scuse della polizia e delle indagini che seguiranno, non si può fare altro che porsi domande, a proposito della vicenda del piccolo Leonardo, vittima di troppi errori adulti: dell'incapacità della polizia, che non ha trovato di meglio che catturarlo e trascinarlo via dalla scuola afferrandolo per le braccia e per le gambe; della evidente inadeguatezza dei suoi genitori che non hanno saputo dargli la serenità che merita sempre un bambino, e tanto più quando mamma e papà non vanno d'accordo.
Lo dimenticherà mai, quel trauma, Leonardo? Quante volte da adulto rivedrà il filmato di quella giornata? E quante volte lo rivedranno migliaia di altri occhi inorriditi? E per farne che cosa? E quegli occhi restano più inorriditi dalla brutalità dei poliziotti o dal come si sia potuto arrivare a tanto? E i compagni di Leonardo, costretti a lasciare l'aula per non essere testimoni oculari di quello strazio, essendone però, probabilmente, testimoni auricolari, perché figurarsi se non avranno sentito il marasma, gli urli e i lamenti? Che cosa avranno detto i maestri agli alunni per spiegare la tragedia del loro compagno? E cosa capiranno a dieci anni? E come accoglieranno Leonardo se mai farà ritorno — come sarebbe giusto — in quella scuola?
E ancora: quale insensata ragione spingeva i nonni a sorvegliare la scuola ogni giorno, come fossero ronde padane, per evitare il temuto blitz? E lo choc della madre che avrà certamente visto in tv, come tutti noi, il suo bambino urlante che si divincolava trascinato a forza per la strada? E quel padre, che pensando di fare il bene del figlio, ha collaborato con la polizia per trascinarlo via? Davvero pensa, come ha detto, che finalmente adesso il bambino «è libero e sereno»? Da quali catene (o fantasmi?) sarebbe stato liberato, il povero Leonardo, e quale serenità avrà finalmente raggiunto, se sospetta, come è inevitabile, di essere diventato l'arma dell'odio tra i suoi genitori? E quella zia inferocita? Come ha potuto, nel caos di quel momento, avere la prontezza di tirar fuori il cellulare e filmare, urlando «bastardi!», le sequenze del trascinamento per farne un caso nazionale? Ed è stato giusto o sbagliato farne un caso nazionale e televisivo? E parlamentare, e istituzionale? E sbattere in faccia al Paese (e al futuro del piccolo Leonardo) questa tragedia privata che, diciamo la verità, era tragedia ben prima che facesse irruzione la goffaggine della polizia?
Tragedia privata diventata di pubblica utilità? Per chi, alla fine, visto che l'odio è odio, e sappiamo da sempre che non si dovrebbe ma purtroppo si può arrivare ad anteporre le ragioni del proprio dolore, che diventa odio cieco, alla tranquillità di un figlio? Cos'è che induce a pensare che il tuo dolore di genitore sia esattamente uguale a quello, innocente, del tuo bambino? E che i tuoi risentimenti coincidano con i suoi? E che passato il tuo dolore, sia passato anche il suo?
Bisognerebbe fare solo domande, nessuna affermazione, a proposito di questa storia. Ben sapendo che nessuno risponderà mai. Per esempio: quanti utilissimi libri sulla «separazione genitoriale», sul «divorzio consensuale e senza traumi», sui vantaggi dell'affido condiviso, su come vincere l'ansia da separazione, su come curare la «sindrome da alienazione parentale» dovranno ancora uscire perché non si consumino più queste guerre familiari contro i bambini? E quanti eserciti di assistenti sociali e psicologici che ci insegnino come fare bisognerà ancora mettere in campo per evitare il peggio? E infine perché tra l'iperprotezione ansiogena dell'infanzia e lo sfregio violento fatichiamo tanto a trovare una via di mezzo? Ma soprattutto c'è un'ultima domanda che vale per le altre rendendole forse retoriche e inutili: quanti bambini soffrono ingiustamente come Leonardo tra le mura della loro casa, con mamma o con papà, oppure magari con tutti e due?

Corriere 13.10.12
Figli tutti uguali. Legge sullo status in dirittura d'arrivo


ROMA — Entro la fine del mese la commissione Giustizia della Camera dovrebbe dare il via libera per l'Aula alla proposta di legge che equipara in tutto i figli naturali a quelli legittimi (cioè nati all'interno del matrimonio). La proposta è nel calendario dell'Aula di novembre: se venisse approvata senza modifiche sarebbe legge. Se passerà, il provvedimento andrà a modificare l'attuale normativa civile della filiazione naturale, eliminando le distinzioni rimaste tra status di figlio legittimo e status di figlio naturale. La norma riconosce, tra l'altro, ai figli naturali un vincolo di parentela con tutti i parenti e non solo con i genitori: questo fa sì che, in caso di morte dei genitori, il figlio possa essere affidato ai nonni e non dato in adozione come accade oggi. In più, la parificazione ha conseguenze anche ai fini ereditari.

l’Unità 13.10.12
E ora mai più complici
Due giorni per dire no alla violenza sulle donne
di Daniela Amenta


GABRIELLA, LUCIA, ELÈNA, ZINEB. AVEVANO 50, 40, 36, 22 ANNI. ERANO ITALIANE, MOLDAVE, NORDAFRICANE, ASIATICHE. Lavoravano, non lavoravano. Erano madri, non avevano figli. Erano single, erano sposate. La loro storia non esiste mai in questi casi. Cancellata, ridotta a una fototessera di un documento d’identità, icona lugubre ripetuta all’infinito. Un trafiletto su un giornale, se il delitto non è stato particolarmente efferato. «Solo» una coltellata a spaccare in due il cuore. Gabriella, Lucia, Elèna e Zineb morte ammazzate da mariti, fidanzati, amanti e conviventi. Uomini killer che vengono protetti da alibi concettuali, linguistici. Giustificati. «Ha ucciso dopo un raptus, ha ucciso per gelosia, ha ucciso perché aveva paura di essere lasciato». La vittima non esiste mai: il maschio assassino, ancora una volta, è il protagonista.
Novantadue vittime in Italia dall’inizio dell’anno. Sono numeri da guerra. Perché la guerra è in atto ed è un conflitto di genere. Per questo, oggi e domani, le donne di «Se non ora quando» si ritrovano a Torino. Il titolo di questa nuova iniziativa è «Maipiucomplici», scritto così tutto di seguito, un concetto da dire in fretta, memorizzare in un attimo. Un titolo, una campagna lanciata da Snoq a maggio dopo il massacro di Vanessa Scialfa, vent’anni, uccisa dal fidanzato dopo una banale lite.
Spiegano: «Vogliamo affrontare il tema con un nuovo punto di vista, con parole nuove, per superare la dimensione immediata e drammatica della testimonianza. L’intento è provare a raccontare le forme della complicità con la violenza e cercarne le ragioni, ma anche per approfondire insieme ai Comitati Territoriali Snoq ed alle associazioni che operano nel settore gli aspetti giuridici, sociali ed economici relativi al contrasto della violenza e al sostegno delle vittime».
Due giorni per riflettere, per lanciare una denuncia forte. Gli appuntamenti sono fissati per stasera presso le Officine Grandi Riparazioni (corso Castelfidardo 22). Un incontro aperto a tutti in cui si mescolano linguaggi diversi e in cui sarà rappresentata la prima della nuova pièce teatrale di Cristina Comencini L’amavo più della sua vita con gli attori Irene Petris e Edoardo Natoli. La regia è curata da Paola Rota del Teatro Stabile di Torino. Tra gli interventi anche quello della scrittrice Silvia Avallone con il suo racconto inedito La telefonata della danzatrice coreografa Simona Bertozzi e un video La parola ai giovani a cura di Stefanella Campana e Elisabetta Gatto (realizzato da IK Produzioni). Altre iniziative sempre oggi, ma nel pomeriggio: a partire dalle 18.00 in piazza Castello, angolo via Garibaldi una serie di letture su testi legati al tema della violenza con gli scrittori Gianni Farinetti, Alessandra Montrucchio, Alessandro Perissinotto, Margherita Oggero, Giuseppe Culicchia. Parteciperanno anche il direttore artistico del Festival del Cinema di Venezia Alberto Barbera e il presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino Mario Napoli. Domani, invece, una giornata di approfondimento con la ministra Elsa Fornero che farà il punto sulla legge anti violenza. A seguire un monologo di Lidia Ravera.
Una guerra si diceva. Dichiarata dagli uomini che odiano le donne. I dati, per quanto glaciali, danno il senso di un fenomeno in escalation. Per esempio il numero di donne seguite da Demetra, il Centro di supporto alle vittime di violenza delle Molinette di Torino, è in costante aumento: 300 dall’inizio del 2012, due al giorno. I casi erano stati 340 nel 2011, 170 nel 2010, 140 nel 2009.
Mai più complici, allora. Perché questa guerra, oltre ai lutti, lascia sul campo il dolore infinito delle sopravvissute. Il Premio Nobel della Medicina 2009, Elizabeth Blackburn, ha studiato le riduzioni dei telomeri (piccole porzioni di Dna che hanno un ruolo importante nel determinare la durata della vita di ciascuna cellula) presenti nelle donne vittime di violenza come causa di invecchiamento precoce e cancro. I risultati sono inquietanti, devastanti.
Un problema, insomma, che dovrebbe essere in cima all’agenda politica dei governi. Il nostro, in particolare, dopo l’allarme lanciato anche da Rashida Manjoo (ex commissario parlamentare della Commissione sulla parità di genere in Sud Africa, docente Dipartimento di Diritto Pubblico dell’Università di Città del Capo) che ha chiesto al nostro Paese interventi concreti e non parole per fermare il femminicidio. «La violenza contro le donne rimane un problema significativo in Italia ha spiegato -. Siamo alla presenza di omicidi basati sul genere culturalmente e socialmente radicati, che continuano ad essere accettati, tollerati e giustificati, mentre l’impunità costituisce la norma».
«Maipiucomplici». E anche questa volta la battaglia di civiltà di «Se non ora quando» è estesa a tutte e a tutti. Così gli uomini di noino.org dal Web hanno lanciato il loro manifesto. «Per sentirci uomini non abbiamo bisogno di essere violenti scrivono sul loro sito e sui social network -. Noi diciamo no alla cultura del possesso e del controllo, alla disinformazione, alle giustificazioni. La fine delle violenze maschili contro le donne inizia da noi».
Hanno già aderito in molti: da Stefano Benni a Vinicio Capossela, dal calciatore Alessandro Diamanti al regista Giovanni Veronesi. E tanti si stanno aggiungendo in queste ore.
Maipiucomplici. Mai più.

l’Unità 13.10.12
Turchia-Siria, prove di guerra aerea
Due caccia di Ankara intercettano elicottero siriano al confine
L’esercito turco ammassa altri 250 carri armati alla frontiera
Razzi siriani in territorio libanese
Rifugiati, allarme umanitario
di Umberto De Giovannangeli


I due caccia turchi si levano in volo per respingere l’elicottero siriano che si era avvicinato al confine. L’esercito di Ankara ammassa altri 250 mezzi corazzati a difesa dei villaggi frontalieri. Oltre il fronteggiamento: la guerra. Quella che sta montando di giorno in giorno tra Turchia e Siria. Due jet turchi si sono levati in volo dopo il bombardamento degli elicotteri di Damasco della città siriana di Azmarin, a pochi passi dal confine con la Turchia. A riferirlo è la britannica Sky News. Mentre è sempre al massimo la tensione con Damasco dopo l'intercettazione di mercoledì di un aereo di linea siriano nello spazio aereo turco, Ankara ha chiesto alla Nato l’attivazione dei radar antimissili della base di Kurecek e il loro puntamento verso la Siria, riferisce il quotidiano Sabah. La misura rientra fra i provvedimenti decisi dalla Turchia per potenziare il proprio dispositivo militare lungo il confine in caso di possibile conflitto, stando al giornale. La Turchia negli ultimi giorni ha ammassato oltre 250 carri armati sul confine con la Siria.
Il quotidiano turco Hurriyet, ha spiegato ieri che i mezzi militari dell’esercito di Ankara sono arrivati da Sanliurfa, Mardin e Gaziantep, tutte località del sud-est turco a maggioranza curda e che solo l’altro ieri ne sono arrivati un' altra sesssantina Nel frattempo, ad Azmarin è in corso da giorni una massiccia offensiva dell’esercito governativo: la popolazione è in fuga, donne e bambini sono stati aiutati dalla popolazione turca di un villaggio vicino a guadare il fiume che segna il confine tra i due Paesi. Ieri, le forze governative hanno diramato con gli altoparlanti un allerta preannunciando l’avvio dell’offensiva terrestre nel villaggio, considerato una roccaforte della ribellione.
ESCALATION
Intanto, l’esercito turco ha negato che vicino al confine con la Siria siano presenti militari americani e francesi, come scritto dalla stampa estera. In una nota il comando dell’esercito turco, riferisce il giornale Zaman, ha affermato che «non ci sono forze straniere» sul confine con la Siria e che quanto scritto dai media stranieri «è inesatto». Il quotidiano britannico The Times aveva scritto che forze speciali di Usa e Francia si trovano già da settimane nella base turca di Incirlik, vicino al confine con la Siria.
Dalla guerra sul campo a quella «diplomatica». Che dal Medio Oriente si proietta fino alla lontana Russia. Mosca attende ancora una risposta da Ankara sui motivi del divieto imposto ai diplomatici russi di incontrare i connazionali che si trovavano sull'aereo di linea siriano Mosca-Damasco intercettato in Turchia: lo ha detto il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov. Il capo della diplomazia russa ha riconosciuto che «l’equipaggiamento per le installazioni radar è di doppio uso (civile e militare, ndr) ma non è vietato da alcuna convenzione internazionale». Inoltre ha sostenuto che «il trasporto di questo tipo di equipaggiamento con aerei civili è una prassi assolutamente normale». Lavrov ha annunciato anche che il fornitore degli equipaggiamenti, che si trovava a bordo dell'aereo, chiederà la loro restituzione perché tutto è stato fatto regolarmente.
«Non abbiamo segreti», ha sostenuto il capo della diplomazia russa. «Naturalmente non c’era, né avrebbe potuto esserci alcuna arma. A bordo dell’aereo c’era un carico che un fornitore legale russo stava mandando in modo legale ad un cliente legale», ha aggiunto.
BATTAGLIA
In meno di 24 ore i ribelli siriani hanno ucciso 106 soldati, 92 nella giornata di ieri e 14 venerdì mattina in un attacco ad un posto di blocco dell'esercito nella provincia di Deraa. Lo ha riferito l’Osservatorio siriano dei diritti umani, aggiungendo che sei rivoltosi hanno perso la vita nello stesso attacco, avvenuto a Khirbata. Giovedì le violenze in tutto il Paese hanno causato 240 morti: oltre ai 92 soldati, 81 civili e 87 ribelli. Il bilancio provvisorio di ieri è di almeno 70 morti, secondo una stima dei Comitati locali di coordinamento dell’opposizione (Lcc).L’area del conflitto si estende: in serata, dieci razzi lanciati da jet militari siriani durante un attacco contro postazioni dei ribelli, sono caduti fuori bersaglio in territorio libanese, nella Valle della Bekaa, a ridosso del confine. Lo riferiscono i media libanesi, sottolineando che non vi sono state vittime. I missili sono caduti in una zona disabitata nei pressi del villaggio di Tufail. In questo scenario di guerra, cresce l’emergenza umanitaria. Ad oggi sono «340.935 rifugiati siriani registrati o in attesa di registrazione nei paesi che confinano con la Siria», Giordania, Libano, Turchia ed Iraq. È quanto rende noto l'Alto Commissariato dell'Onu per i Rifugiati (Unhcr) ricordando come «2-3mila siriani oltrepassino il confine ogni giorno».

La Stampa 13.10.12
Il letterato più celebre del Paese si discosta per la prima volta dalla linea ufficiale
Mo Yan stupisce la Cina “Fuori Liu dalla prigione”
Appello per il dissidente che vinse il Nobel prima di lui
di Ilaria Maria Sala


La mattina dopo l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura, come è ovvio, tutti i giornali cinesi hanno Mo Yan in prima pagina, sbandierando totale delizia. E’ fatta, la Cina ha un Nobel di cui essere fiera, anche con il regime attuale. Internet, invece, è diviso come non mai: sui Weibo, i servizi di microblogging simili a Twitter (bloccato in Cina), la gioia e l’orgoglio sono onnipresenti, e riportano alla ribalta dettagli che altrove parrebbero impossibili. Come il fatto – forse non proprio un dettaglio – che Li Changchun, il direttore del Dipartimento di propaganda, ha scritto una lettera di congratulazioni all’Associazione degli scrittori cinesi (un’associazione ufficiale filo-governativa, di cui Mo Yan è vice-Presidente) in cui dice che questo onore «riflette la prosperità e il progresso della letteratura cinese, così come la crescente influenza della Cina nel mondo». Il direttore del Dipartimento di propaganda, proprio così. Poi, c’è Twitter: non censurato, accessibile solo a chi sa come scavalcare il muro della censura, dove invece nessuno fa sconti a Mo Yan, con insistenti domande sulla sua tessera del Partito comunista cinese, sul suo aver accettato di far parte di quegli intellettuali che hanno reso omaggio all’anniversario del discorso di Mao Zedong sull’arte e la letteratura di Yan’an, ricopiandolo a mano, anche se uno dei pilastri del discorso è che le arti devono servire «il popolo», e il Partito.
Alle lunghe, la pressione deve essere arrivata fino alla campagna dello Shandong dove si trovava Mo Yan, che ieri pomeriggio ha indetto una conferenza stampa. Nel corso della quale ha strabiliato tutti, affermando che si auspica «la liberazione di Liu Xiaobo», il Premio Nobel per la pace 2010, attualmente in prigione e cancellato da ogni discorso pubblico. Certo, l’inflessione data da Mo Yan poteva essere letta come un’esortazione a renderlo in grado, da libero, di avvicinarsi al Partito, ma lo stesso, si tratta di una dichiarazione straordinaria, fatta in un momento straordinario. Nessuno se l’aspettava: ma forse Mo Yan, che si è attirato così tanti nemici in patria per il suo appoggio al governo e le sue dichiarazioni a favore della censura, ora che è in una posizione tanto privilegiata può permettersi di fare e dire quello che vuole. Parlare di Liu Xiaobo in pubblico è certamente un buon inizio.

l’Unità 13.10.12
Caccia ai classici perduti, a partire da Lucrezio
«De rerum natura»
Composto intorno alla metà del I secolo a.C. nel corso del tempo è apparso e scomparso
di Luca Canali


ROMA È GIÀ IN LIBRERIA IL PRIMO VOLUME DELLA COLLANA «I SESTANTI», IDEATA E DIRETTA DA PAOLO MIELI. SI TRATTA DI UN ROBUSTO E AFFASCINANTE LIBRO DI STEPHEN GREENBLATT, professore di inglese a Harvard, vincitore del National Book Award 2011e del Pulitzer 2012 per la saggistica (Il Manoscritto, Rizzoli, 2012, pag. 365, € 22,00). È davvero un brillante esordio per la ricchezza dei temi e dei personaggi trattati con il rigore della ricerca specialistica e insieme con la disinvoltura dell’alta divulgazione. Lo sfondo è la caccia ai classici ritenuti perduti. In questo caso il cacciatore pertinace e fortunato è l’umanista Poggio Bracciolini, il classico latino la cui opera viene ricercata attraverso mezza Europa, è Tito Lucrezio Caro, autore del poema De rerum natura (La natura delle cose) composto intorno alla metà del I sec. a.C., che avrà la strana sorte di apparire e scomparire per secoli, poi di ricomparire e scomparire più volte nel corso della Storia: ciò perché si tratta di un testo di straordinaria qualità poetica e scientifica, ispirata alla filosofia del greco Epicuro, e animata da uno spirito polemico così «scomodo» da potere persino apparire sovversiva. Già nell’antichità classica, per lo stesso motivo, scrittori e poeti eccettuato Ovidio, ammiratore di Lucrezio, evitarono di fare il nome dell’autore, cercando così di mettere in ombra e di far passare inosservati sia quel loro solitario e scontroso collega e soprattutto la sua unica opera, pur accogliendone suggestioni ed echi, e persino esplicite citazioni. Ad esempio, Virgilio definisce – in materia soprattutto religiosa – «fortunato» chi conobbe la causa (non divina) delle cose, ma fortunato anche chi credette nelle divinità dell’agricoltura, basi della religione pagana. Mentre il pensiero di Lucrezio, rigorosamente laico, aveva anche aspramente polemizzato contro tale religione: basta ricordare, in proposito, il suo severissimo verso tantum religio potuit suadere malorum («a tali crimini poté indurre la superstizione religiosa»), a proposito del sacrificio della figlia del re, Ifigenia, richiesto dai sacerdoti per propiziare il viaggio della flotta greca per raggiungere e assalire Troia.
Certo, Lucrezio nomina gli dei dell’Olimpo, ma soltanto in funzione metaforica: ad esempio, proprio all’inizio del poema, Marte, dio della guerra, riposa in grembo alla dea dell’amore Venere, ma entrambe queste divinità non sono altro che una metafora della pace.
Il lettore attento a tutte le parti del libro, può invece dissentire da una netta affermazione editoriale che sostiene, in assenza di copertina, un concetto molto discutibile: «I grandi libri cambiano la storia del mondo». È vero che i grandi libri (e il De rerum natura è uno di questi) hanno sicuramente influenzato le menti di personaggi eminenti di ogni epoca: ma anch’essi, come Lucrezio, non sono riusciti a sconfiggere l’egoismo umano, il flagello delle guerre, il culto della ricchezza, il dominio della prepotenza, l’uso della menzogna nella diplomazia e nella poetica, tutti pseudovalori della vita delle nazioni, come invece vorrebbe Lucrezio. Il poema di Lucrezio sarà stato scritto, dunque, non da un rivoluzionario vittorioso, ma da un poeta – filosofico «sovversivo» ma infine anch’egli sconfitto nella prassi, e tuttavia trionfatore nella provvidenziale astrazione dell’unico autentico valore immutabile: quello della poesia e dell’arte, di tutte le arti ovviamente.
Questa vittoria nessuno potrà negarla. Persino il suo «nemico» nella teoria filosofica, Cicerone, rispondendo ad una lettera di suo fratello Quinto, così scrive accettandone il giudizio positivo sul poema lucreziano, ritenuto multis luminibus ingeni, multae tamen artis, (ricco di un luminoso talento, ma anche di molta cultura poetica): si ricordi in proposito, che nella concezione critica ciceroniana, ingenium ha appunto il significato di «estro creativo» e ars quello di «preparazione culturale e retorica» necessaria all’esplicarsi di quell’estroso talento letterario. Del resto, l’ideale etico dell’epicureismo, quindi anche di Lucrezio, era la voluttà «statica», cioè il piacere «tranquillo» dei saggi, non quello «cinetico», cioè in continuo e angoscioso movimento. Comunque, a problemi di questa natura (compresa ovviamente la trattazione scientifica della struttura dell’universo) in questo eccellente saggio di Greenblatt sono dedicati interi capitoli, fra i quali, molto belli, quelli riguardanti il viaggio di Bracciolini che lo conduce nei vari monasteri, conventi, biblioteche, dandogli modo di conoscere i dettagli, positivi e negativi, della vita monastica, e persino l’evoluzione dei materiali per la stesura dei manoscritti, dal papiro alla pergamena.

il Fatto 13.10.12
Bibliopride, la lezione dei Girolamini


Si tiene oggi a Napoli la Giornata Nazionale delle Biblioteche, promossa dall’Associazione Italiana Biblioteche. Qui di seguito una testimonianza di Tomaso Montanari.

Non avrei pensato che avrei potuto imparare così tanto, sul mio Paese, da una grande e meravigliosa biblioteca storica di questa città, dove ho l’onore di insegnare da alcuni anni. Alludo, lo avrete forse capito, alla Biblioteca dei Girolamini. Quando, il 28 marzo scorso, ci entrai, pensavo solo che sarebbe stato faticoso strappare condizioni favorevoli di accesso per un mio dottorando a cui avevo suggerito di studiare proprio il primo insediamento oratoriano a Napoli. Invece, quella visita fu una vera, e tragica, rivelazione.
APPRESI CHE si poteva dirigere una simile biblioteca senza essere laureati, e senza avere alcun altro tipo di titolo, in sommo sprezzo della faticosa e solida preparazione dei nostri laureati. Appresi fino a che punto la classe politica avesse trasformato anche il patrimonio storico e artistico della Nazione in un bottino da spartire. Appresi quali letali golfi d’ombra si attestino intorno alla incerta linea che difende gli interessi pubblici connessi a beni ecclesiastici.
Appresi quanto possa essere a rischio una biblioteca che esce dalla vita quotidiana, e poi anche dalla percezione, di una società intellettuale, e quindi della stessa città che la ospita.
Appresi quanto fosse facile insabbiare un’ispezione, fino a che punto potesse essere marcio un ministero, e fino a quale incredibile soglia di ignavia potesse ascendere un ministro della Repubblica. Appresi quanto tetragona fosse l’omertà dei mercanti di libri: nessuno fece notare che forse non era opportuno che un socio espulso dall’Alai diventasse direttore di una simile biblioteca.
Ma, soprattutto, appresi ciò che non si riesce quasi ancora a credere nonostante le confessioni, le ammissioni, i riscontri dell’inchiesta rigorosamente condotta dal procuratore aggiunto di Napoli. E cioè che un consigliere del ministro per i Beni culturali aveva saccheggiato la biblioteca che era stato chiamato – indegnamente – a dirigere. Dopo averne derubate – è notizia freschissima – molte altre. Che almeno quattromila volumi dei Girolamini irroravano da mesi il mercato antiquario – un mercato complice: bene dirlo ancora una volta.
Che – horribile dictu – almeno due libri si trovano nelle mani del senatore presidente della Commissione Biblioteca del Senato della Repubblica.
Suo malgrado, la Biblioteca dei Girolamini ci ha dunque insegnato molte cose, in questi mesi. Ma sarebbe imperdonabile dimenticare che, oltre a tutto questo ineffabile abisso di nequizia e corruzione, questa vicenda ha aperto anche prospettive decisamente più incoraggianti.
SE I GIROLAMINI si sono salvati, il primo, vero e incancellabile, merito a due dei suoi bibliotecari: Maria Rosaria e Piergianni Berardi. E infatti sono solo i loro, i nomi propri di persona che voglio pronunciare in questo discorso. Laddove tradivano i vertici della Repubblica, laddove gli intellettuali togatissimi distoglievano lo sguardo fingendo di non vedere, laddove la Chiesa taceva, ad essere fedeli fino in fondo e, con gravissimo rischio personale, sono stati due bibliotecari. Due bibliotecari precari: precari da quasi quarant’anni.
Il secondo motivo di speranza è legato alla pubblica amministrazione: che nonostante i silenzi, le complicità, i punti ancora oscuri ha saputo affidare finalmente in mani salde e oneste la Direzione generale delle biblioteche e la carica di Conservatore dei Girolamini.
Il terzo motivo di speranza è legato ai cittadini: che, una volta dato l’allarme, hanno risposto subito al durissimo, coraggioso appello scritto da un mio collega dell’università di Napoli. In pochi giorni oltre 5000 cittadini italiani hanno detto: la Biblioteca dei Girolamini ci appartiene, ci sta a cuore, ci interessa. Così come oltre 20.000 altri cittadini stanno chiedendo alla Regione Campania di trovare finalmente una sede ai libri dell’Istituto di Studi Filosofici: una richiesta che si scontra tuttora con uno scandaloso muro di gomma.
ED È DA QUA che dobbiamo ripartire. Perché tutto questo non si ripeta: anzi per far sì che il sacrificio dei Girolamini non sia del tutto vano. Potremmo cominciare, come sempre, dalle parole. Nelle cronache sulla vicenda dei Girolamini, un singolare corto circuito mediatico ha legato alla devastazione di una biblioteca la parola ‘bibliofilo’: quasi che un eccesso di amore per i libri, potesse non dico giustificare, ma almeno spiegare la distruzione di una biblioteca. Ecco, credo si debba dire chiaramente che i libri non sono un lusso per i ricchi, che le biblioteche non servono ai bibliofili, ma ai cittadini. Le biblioteche sono prima di tutto uno strumento attraverso il quale i cittadini possono esercitare appieno la loro sovranità: uno luogo sacro della democrazia, dove si producono libertà ed eguaglianza attraverso il sapere critico.

Repubblica 13.10.12
“Giulio Cesare ucciso alla fermata del tram” gli archeologi svelano il luogo della congiura
“Morì aLargo Argentina”. Lì c’era la Curia di Pompeo. Oggi il capolinea dell’8
di Cinzia Dal Maso

ROMA — Dicono che in un primo momento Giulio Cesare abbia cercato di difendersi, alzandosi dalla sedia dov’era seduto e gridando. Poi però, visto che nessun senatore si levava a difenderlo ma tutti fuggivano terrorizzati, si avvolse tutto nella sua toga e si lasciò trafiggere da ventitré pugnalate senza un lamento. Cadde così il grande dittatore, il 15 giorno delle Idi di marzo dell’anno 44 a. C. E ora Antonio Monterroso, archeologo del Consiglio nazionale per le ricerche spagnolo, dice di aver individuato il luogo esatto dell’assassinio. L’edificio lo conosciamo da tempo: è la cosiddetta “Curia di Pompeo” che faceva parte di un grandioso complesso fatto costruire da Gneo Pompeo nel 55 a. C. e comprendente un teatro, un enorme portico rettangolare addossato al teatro e, al centro di uno dei lati del portico, la Curia. La sua parte estrema si vede ancora oggi nell’Area sacra di Largo Argentina: è un grande podio che sta proprio alle spalle del tempio circolare, mentre il resto dell’edificio è coperto dalla strada moderna e dal settecentesco teatro Argentina.
Indagini di anni passati ci hanno restituito un’immagine abbastanza dettagliata di com’era fatta, ma mai nessuno prima d’ora si era posto il problema di capire in quale punto esatto dell’edificio Cesare spirò. Forse perché in parte già si sapeva.
Gli storici antichi dicono infatti che, dopo essersi alzato dalla sedia, Cesare si mosse verso uno slargo davanti alla statua di Pompeo, e lì i congiurati lo accerchiarono con le spade in mano. Anche la statua è giunta fino a noi ed è conservata nel vicino palazzo Spada. Tutto fila, dunque. E la dichiarazione di Monterroso che dice «fino a oggi non avevamo trovato nessuna prova materiale dell’evento» non è proprio del tutto veritiera: abbiamo la statua. Monterroso dice però di aver identificato una struttura di cemento larga tre metri e alta due, che sarebbe una sorta di Memoriale eretto anni dopo da Ottaviano Augusto per condannare il feroce assassinio. «Le fonti dicono che il luogo esatto dove Cesare cadde fu racchiuso in una struttura rettangolare colmata di cemento», continua Monterroso. E secondo lui questa struttura sarebbe da decenni davanti ai nostri occhi perché sarebbe una parte di quel podio che si ammira tra gli edifici dell’Area sacra di Largo Argentina.
Monterroso ha studiato per anni il teatro di Pompeo e ora sta ampliando le sue ricerche agli altri edifici del complesso. Il suo annuncio odierno, per quanto affascinante, richiederebbe qualche prova in più per convincere. Ma ha comunque il merito di riportare l’attenzione pubblica su un luogo importantissimo dell’antica Roma ma trascurato. Poche persone oggi, mentre vanno a teatro o pigliano il tram lì di fronte,
ricordano che proprio in quel luogo si consumò uno degli eventi più decisivi della storia della romanità. Un evento che affascina da sempre, che ha ispirato la grande tragedia di Shakespeare come i film ispirati all’antica Roma e persino il recentissimo “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani. Magari Monterroso riuscirà ad ancorare l’immaginario storico alla realtà.

Repubblica 13.10.12
Andrea Carandini, autore dell’Atlante di Roma antica: “Vorrei far vedere tutto ai turisti”
“È una tesi che ha bisogno di prove ora bisogna cercare sotto le rotaie”


ROMA - L’archeologo Andrea Carandini, che ha di recente pubblicato il monumentale Atlante di Roma antica, frutto di decenni di lavoro di un’équipe nutritissima di studiosi, è perplesso di fronte alla notizia della scoperta del luogo dell’assassinio di Giulio Cesare. “Io sono come Tommaso — dice — e quel podio lo devo vedere bene prima di giudicare”.
Ma sappiamo com’era fatta esattamente la Curia?
«Certo, è tutta ricostruita, basta guardare l’Atlante. Sono stati trovati frammenti di murature che ci hanno consentito di disegnare le dimensioni esatte dell’edificio. Si è trovato poi un muro parallelo a un lato dell’edificio che era forse la fondazione di una fila di colonne, per cui pensiamo che la curia fosse probabilmente affiancata da un portico. Si sono trovati persino i resti di una nicchia, che con molta probabilità ospitava la statua di Pompeo. Come vede, non c’è molto altro da dire».
La nicchia però è nella parte della Curia che oggi non è a cielo aperto, mentre Monterroso parla di un memoriale di cemento nell’Area sacra.
«Io mi fido dei testi antichi che parlano di assassinio di fronte alla statua di Pompeo. Se Monterroso non porta prove più convincenti, per me il caso è chiuso».
Lei crede dunque che non sia necessario indagare ancora?
«Merita sempre indagare e capire sempre meglio. Anzi, proprio ora che si sta per spostare il capolinea del tram, e sono in programma lavori ingenti nell’area, potrebbe essere il momento propizio per effettuare delle ricerche almeno nel terrapieno sotto il capolinea. Poi si potrebbe ricoprire il tutto e consentire ai turisti di visitare la curia entrando dall’Area sacra, in grotta. Sarebbe affascinante per tutti, e renderebbe giustizia a Cesare».
(c. d. m.)

venerdì 12 ottobre 2012

Repubblica Firenze 12.10.12
Il metodo Fagioli tra scienza e sfide


Scienza e vita, la Resistenza da giovanissimo, l’esperienza dell’Analisi collettiva, sfide ed eterodossia di una vita dedicata alla ricerca sulla psiche fra malattie e cura: tutto questo lo psicoanalista Massimo Fagioli l’ha raccolto, sotto forma delle sei lezioni tenute all’Università di Chieti-Pescara “G. D’Annunzio” nel 2005, ne L’uomo nel cortile(L’asino d’oro edizioni). Tratto profondo del libro lo scontro del pensiero e del metodo di Fagioli con credenze e teorie filosofiche che hanno dominato il Novecento. L’autore lo presenta oggi Firenze, con Francesca Fagioli, Vanina Migliorini, Fernando Panzera e Ludovica Telesforo.
Oggi alle 18 Ibs.it, via de’ Cerretani 16r

l’Unità 12.10.12
Prof e studenti in piazza per difendere la scuola
Manifestazioni in tutta Italia contro i tagli del governo
I docenti della Cgil insieme ai movimenti studenteschi
di Mario Castagna


Gli studenti tornano in piazza ma questa volta lo faranno insieme ai loro professori. Sono quasi cento i cortei che in tutta Italia vedranno oggi sfilare i docenti della Flc-Cgil e i giovani di tutte le sigle studentesche. Al centro della protesta le misure del governo che tagliano 30.000 posti di lavoro e penalizzano i precari nonostante l’aumento dell’orario settimanale che passerà da 18 a 24 ore di lezione
Cento cortei, la scuola torna in piazza
Gli studenti contro i tagli e la legge Aprea che non garantisce più il diritto di assemblea
Protestano anche i docenti che grazie alla manovra perdono 30mila posti di lavoro

ROMA Tornano in piazza gli studenti e questa volta lo faranno insieme ai docenti della Flc Cgil. Oggi saranno più di 90 i cortei che attraverseranno le piazze di piccole e grandi città italiane. Pioggia permettendo, gli organizzatori delle varie manifestazioni, in alcuni casi il sindacato ma in tanti altri gruppi spontanei di ragazzi che hanno aderito alla mobilitazione, si aspettano una grossa partecipazione dal momento che dai circa 50 cortei iniziali si è arrivati quasi a 100. L’idea di questo corteo è partita dagli studenti, sono stati poi gli insegnanti ad aderire, in una inedita alleanza al di qua e al di la della cattedra.
DOPO GLI SCONTRI
Dopo le scene della scorsa settimana, quando in diverse città italiane molti cortei si sono chiusi con i disordini, questa volta gli studenti sperano che al centro dell’attenzione ci siano le loro rivendicazioni vecchie e nuove. In cima alla lista dei desiderata sicuramente maggiori fondi per il diritto allo studio e per l’edilizia scolastica ma ha un posto centrale anche il contrasto alla legge Aprea che è passata da poco alla Camera e che arriva la prossima settimana al Senato. «La legge Aprea avvia un vero e proprio passo indietro per quel che riguarda la democrazia nelle scuole ci dice Roberto Campanelli portavoce dell’Unione degli Studenti non si garantisce più nessun diritto, da quello di assemblea a quello della presenza dei rappresentanti di classe. Dopo le proteste di questi mesi ci aspettiamo che il governo prenda posizione su quel provvedimento. È d’accordo o non è d’accordo? Sembra che nessuno, tranne Valentina Aprea, voglia metterci la faccia».
Ma a scendere in piazza saranno tutte le sigle dell’universo studentesco, dalla Federazione degli Studenti, vicina ai Giovani Democratici fino ad arrivare naturalmente all’organizzazione figlia della Cgil, la Rete degli Studenti Medi. Dario Costantino, portavoce di Fds, ci racconta che anche la sua organizzazione sarà in piazza oggi, seppur il governo sia oggi sostenuto anche dal Partito Democratico: «Noi saremo in piazza soprattutto per ridare centralità alla scuola e al sapere. Oggi la crisi solleva le contraddizioni più evidenti dell'economia di carta: siamo la nazione con il più alto tasso di dispersione scolastica, il più basso numero di laureati e di contro la più alta disoccupazione giovanile nel sistema produttivo meno innovativo d'Europa». Saranno in piazza per dire con forza, come recita il volantino che distribuiranno nei cortei, che l'Italia di domani deve ripartire col sapere di oggi.
Grande sarà anche la partecipazione dei docenti, soprattutto dopo le misure previste dalla manovra correttiva del governo che annuncia nuovi tagli per la scuola già martoriata dalle politiche degli ultimi anni. Le cifre sono imponenti (182,9 milioni di euro nel 2013, 172,7 nel 2014 e 225,5 nel 2015) e saranno tutte a carico dei docenti precari chiamati oggi a fare le supplenze che saranno sostituiti dai docenti di ruolo.
Infatti agli insegnanti di ruolo verrà chiesto di portare il proprio orario settimanale da 18 a 24 ore di lezione. Le ore in più però non verranno utilizzate per ampliare l’offerta formativa, con laboratori, corsi di recupero o progetti speciali, ma per evitare di chiamare i precari per le supplenze. Un risparmio tutto sulle spalle degli insegnanti precari che vedranno ridotte le possibilità di essere chiamati in cattedra.
GLI INSEGNANTI
Sono circa 30.000 i posti di lavoro che si perderanno (più del doppio di quanto messo a bando con il concorso per gli insegnanti appena pubblicato) e molti precari si troveranno per strada. Il ministro Profumo ha chiamato questo meccanismo «il bastone e la carota», un infelice frase che ha scatenato le ire di tanti insegnanti, dichiarando che non ci saranno tagli ma solo un «contributo di solidarietà». A rispondere al ministro non sono solo i docenti ma anche Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera, che ha rimproverato al ministro l’uso di una frase inadatta: «Non si può giocare con le parole, quando queste nascondono concetti dolorosi» ha dichiarato la deputata democratica.
Ma sono in tanti nel Partito Democratico ha dichiarare al ministro che non accetteranno nuovi sacrifici. Il settore in effetti ha sofferto molto negli ultimi anni a causa dei tagli imposti dal duo Gelmini-Tremonti ed il nuovo governo sembra continuare la stessa politica.
Il bastone e la carota animeranno sicuramente le piazze di questa mattina e scateneranno la fantasia degli studenti. I più creativi hanno già annunciato che, se i bastoni li terranno a casa, le carote invece faranno parte del menù della giornata. E nel minestrone delle proteste, tra lo stop ai tagli, le rivendicazioni sul diritto allo studio e la richiesta di un nuovo corso per la scuola italiana, gli studenti ed i docenti che scendono in piazza sperano finalmente di non doversi accontentare come sempre, della solita minestra.

il Fatto 12.10.12
Scuola, un tratto di gesso su 30 mila professori precari
L’aumento delle ore di lavoro per i docenti stabili porterà al taglio dei supplenti
Oggi sciopero di insegnanti e studenti in tutt’Italia
di Salvatore Cannavò


“Mi auguro di cuore che questa storia non si realizzi... Noi precari non riusciremmo più a lavorare. Questa cosa mi spaventa tantissimo, dopo tutti i sacrifici che tutti noi stiamo facendo. Ho una gran paura... Questo governo ci sta massacrando...”. È una delle tante testimonianze che ieri hanno costellato i forum dei docenti, precari e non, di fronte all’ipotesi dell’aumento dell’orario di lavoro di 6 ore per gli insegnanti pubblici che si tradurrebbe in un taglio drastico dei posti di lavoro per i precari. La notizia non ha ancora una conferma ufficiale, semplicemente perché la legge di stabilità non è ancora scritta definitivamente. Però il taglio ci sarà come confermano al Fatto le fonti del Ministero dell’Istruzione. “Però non bisogna creare allarmismo, in una situazione come questa è un dovere di tutti” spiegano al ministero. Il riferimento è ai dati della Cgil che ha quantificato l’aumento dell’orario di lavoro in un taglio di 30 mi-la posti. “Non saranno più di un terzo di questi” rassicurano invece gli uomini del ministro Profumo, che comunque sono di più dei 6000 inizialmente preventivati.
NON LA PENSANO così i sindacati che reagiscono su due linee di condotta. Da un lato, la preoccupazione per i posti di lavoro dei precari che qualcuno arriva a stimare in decine di migliaia. “L’effetto immediato di tale disposizione sarebbe la cancellazione degli spezzoni orari, delle supplenze temporanee e dei corsi di recupero assorbiti dal nuovo regime orario” scrive la Flc-Cgil che oggi scenderà in sciopero in tutta Italia in cortei partecipati anche dagli studenti. “Il saldo in termini di perdita di posti è di almeno 25.000 cattedre per i posti comuni e di altre 4000 se la norma venisse estesa anche al sostegno”. In realtà, se si considerassero tutto l’organico di diritto, che per medie e superiori è di circa 320 mila insegnanti, un aumento di sei ore, dalle 18 attuali, comporterebbe un taglio di 100 mila precari. “Se il ministero operasse in questo modo” spiega al Fatto Gianni Fossati della Flc-Cgil “si arriverebbe addirittura a un esubero degli attuali docenti”. Invece sembra che la norma riguardi solo gli “spezzoni” di supplenze, quelle ore che restano scoperte dopo la formazione degli orari. Posti di lavoro che sarebbero coperti dall’attuale corpo docente. A insorgere sono però tutti i sindacati anche se spesso prevale una logica corporativa. Ma, sottolineano soprattutto i docenti, “non è vero che gli insegnanti lavorano solo 18 ore, vanno calcolate le ore per preparare e correggere i compiti, i consigli di classe, i collegi docenti, i ricevimenti, etc.”. Soprattutto, è l’unanime replica, il fatto che in Italia ci sono gli stipendi tra i più bassi d’Europa, superiori solo a Grecia e Portogallo. “Senza contare” ci spiega una docente romana, “che abbiamo appena avuto l’aumento secco dell’età pensionabile, poi il blocco degli aumenti e ora arriva anche l’aumento dell’orario. E per di più gratis”. Al ministero stanno comunque predisponendo il testo definitivo dicendosi ancora disponibili al confronto: “È una situazione difficile, va tenuto conto di questo”. Non è chiaro però come sarà risolto il nodo contrattuale. L’attuale contratto prevede le 18 ore e un aumento andrebbe contrattato, dicono i sindacati. Quel che è certo, precisano al ministero, è che la misura riguarderà direttamente la famiglia del ministro: sua moglie, infatti, insegna latino e greco in un liceo di Torino. Ma è difficile farla passare per una docente qualsiasi.

Corriere 12.10.12
Stretta sull’orario degli insegnanti medie e superiori, Settimana di 24 ore
Scambio tra 6 ore in più e 15 giorni di ferie. I sindacati: così si tagliano 29 mila posti
di Mariolina Iossa

ROMA — Il governo l'ha deciso martedì notte, inserendolo all'ultimo momento nel ddl di stabilità. Un pezzetto di intervento sulla scuola, probabilmente ottenuto con il pressing del ministero del Tesoro, che avrebbe chiesto ancora risparmi nel settore per 180 milioni di euro nel 2013. Come fare? La «voce», che già era arrivata a docenti e a dirigenti scolastici ma che il ministero dell'Istruzione per ora non conferma, parlando di «bozza» e di voler aspettare il «documento definitivo», è questa: si vuole innalzare l'orario di lavoro settimanale dei docenti di medie e superiori a 24 ore (attualmente sono 18) dando in cambio 15 giorni di ferie estive in più. Sei ore in più a settimana per uniformarlo a quello degli insegnanti delle elementari, che già adesso lavorano 24 ore, di cui 22 in aula e 2 di programmazione.
Un carico maggiore a titolo gratuito, cosa che consentirebbe di utilizzare il personale docente interno per le supplenze brevi e soprattutto per coprire i cosiddetti «spezzoni», cioè quelle ore di attività didattica che rimangono scoperte dopo aver completato l'assegnazione di ogni singolo docente alle classi per le ore previste dai programmi ministeriali. Pier Luigi Bersani ne aveva persino parlato nei giorni scorsi, anticipando ulteriori «tagli al comparto scolastico per oltre seimila posti di lavoro tra gli insegnanti». In realtà, dicono alla Cgil Scuola, il taglio sarebbe ben più consistente. Colpirebbe, ancora una volta, decine di migliaia di precari, perché sono loro che coprono gli «spezzoni» e le supplenze.
Fonti ministeriali avrebbero riferito ai sindacati che nella bozza (ma a quanto pare si tratta di una norma già pronta che solo una decisione in extremis potrebbe cancellare visto che la legge di stabilità deve essere presentata alle Camere entro lunedì) si prevede di fatto un taglio di circa 25 mila posti più 4 mila che riguarderebbero gli insegnanti di sostegno. In tutto 29 mila posti in meno.
«La legge di stabilità potrebbe contenere un ulteriore pesantissimo taglio alla scuola», s'indigna il segretario nazionale della Cgil Scuola Mimmo Pantaleo che per oggi ha proclamato uno sciopero generale al quale parteciperanno anche gli studenti con manifestazioni in 90 città. Le ragioni dello sciopero sono tante e tra queste il blocco contrattuale per i docenti. Anche Cisl, Uil e Gilda annunceranno la prossima settimana uno sciopero generale per protestare contro lo stallo degli scatti stipendiali.
Adesso si aggiunge la questione delle 6 ore in più gratis, che è probabile provocherà un sollevamento dei docenti interessati, circa 170 mila della scuola media e 238 mila delle superiori, considerando oltre ai docenti titolari anche gli incaricati annuali. Per Pantaleo, in questo modo, si va ben oltre i 180 milioni di euro di risparmio aggiuntivo chiesti dal Tesoro: «In termini economici ciò significa un intervento di oltre un miliardo a carico del comparto scuola. Non sono bastati gli otto miliardi della legge 133/2008 e i continui interventi legislativi, non è sufficiente il blocco dei contratti, degli scatti di anzianità e per ultimo la cancellazione della indennità di vacanza contrattuale: siamo all'accanimento e alla barbarie».
Il miliardo di risparmio, spiegano alla Cgil sottolineando che i conti li avrebbero fatti i tecnici del ministero, deriverebbe dalla somma di tutti gli spezzoni e le supplenze che equivalgono ad un monte ore annuo corrispondente a 25 mila, più 4 mila per il sostegno, posti di lavoro e quindi stipendi in meno. Lo stipendio medio si aggira attorno ai 3.500 euro lordi al mese. In verità al ministero dell'Istruzione i tecnici avrebbero sconsigliato il ministro Francesco Profumo di azionare questa leva: sembra che allo studio ci siano anche altre strade per risparmiare ancora.
«Se i sacrifici sono diffusi, anche la scuola deve fare la sua parte — commenta il presidente dell'associazione dirigenti scolastici, Andis, Gregorio Iannaccone —. Ma molto già è stato fatto direttamente sulle scuole. La questione è complessa ma si potrebbe pensare la norma non in via definitiva, come un contributo eccezionale una tantum per un anno. Oppure si potrebbe cominciare a tagliare i costi della burocrazia della scuola, tra ministero centrale, uffici regionali e provinciali». Il ministro Profumo, l'altro giorno a un meeting sull'istruzione tecnologica organizzato a Roma al quale hanno partecipato migliaia di studenti, ha solo detto: «Non sono previsti tagli diretti», solo un «contributo di solidarietà». Il resto lo sapremo lunedì.

Repubblica 12.10.12
“Basta con i diplomifici privati ma a scuola i prof lavorino di più”
Parla Profumo: ecco cosa cambia con la legge di stabilità
di Corrado Zunino


ROMA — Un’altra riforma Profumo, il più prolifico ministro dell’Istruzione da quando esiste la Repubblica italiana. L’ultima arriva alla vigilia di uno sciopero della Cgil scuola che toccherà novanta città italiane e a cui si affiancheranno (in altrettante città) studenti medi e universitari.
In pochi articoli a corredo della legge di stabilità (quella che aumenta l’Iva e abbassa alcune aliquote Irpef) Francesco Profumo vara tre cambiamenti della scuola italiana che somigliano, più che a riforme, a rivoluzioni. La prima, la cui popolarità si peserà immediatamente nel corteo di questa mattina, chiede l’aumento delle ore di lavoro per gli insegnanti dei tre cicli scolastici. Dalle 18 ore attuali a settimana si salirà a 24. Sei ore in più, 85 minuti di straordinario non pagato per ogni giornata a scuola. Alle elementari, va detto, questo è già l’orario di fatto. Il ministro chiede ai docenti italiani di adeguare il livello di impegno agli standard dell’Europa occidentale e orientale e offre tabelle che lasciano l’Italia in fondo alla classifica della produttività. Lo stipendio resterà invariato, gli scatti resteranno congelati, ma il ministero offre ai docenti 15 giorni di ferie in più, da realizzare nel periodo estivo.
In partenza per la Germania, il ministro spiega: «Chiediamo alla scuola un atto di generosità. Di più, un patto che rifondi questo mestiere così importante». Prima del 2014 non si potrà parlare di aumenti di stipendio, «legittimi ma per ora impossibili per il Paese ». Profumo chiede, però, da subito «una crescita dell’impegno sull’insegnamento, soprattutto fuori dalle classi». Con i soldi risparmiati con le ore di supplenza non più necessarie, «investiremo sulla formazione degli stessi docenti e sull’edilizia scolastica». Il Pd, subito contrario all’ennesima riforma, ha contabilizzato in 6.400 supplenti la perdita secca.
Dichiarazioni di guerra sono partite dal presidente del partito Rosy Bindi: «Non voteremo tagli mascherati né uno stravolgimento del contratto». Nell’ultima tornata di rivisitazione della spesa, all’istruzione sono stati tolti altri 184 milioni.
Dice ancora al ministro: «Non abbiamo intenzione di coltivare il luogo comune degli insegnanti italiani che guadagnano poco e lavorano poco, conosco la delicatezza
di quel mestiere avendolo fatto, chiedo solo che siano più flessibili. Si potranno differenziare gli stipendi: più bassi per chi vuole lavorare solo la mattina, retribuzione piena per chi accetta l’aumento delle ore».
La legge di stabilità offre novità anche sul fronte delle scuole paritarie (religiose e no). Il livello medio testato dal ministero è lontano da quello garantito dall’istruzione pubblica e troppe paritarie vengono percepite come il luogo di accesso a una maturità facile. Il ministro ha deciso di introdurre alcuni obblighi da certificare: per trasferirsi in una scuola paritaria bisognerà avere la residenza nell’area dell’istituto privato o avanzare motivazioni serie per giustificare lo spostamento. «I diplomifici usciranno naturalmente di scena».
Infine, i nuovi articoli sradicano le radici del mondo della ricerca pubblica. I dodici enti di ricerca esistenti — tra cui il solidissimo Consiglio nazionale delle ricerche, i prestigiosi istituti nazionali di Astrofisica e Fisica nucleare, realtà con cinque ricercatori come l’Istituto di germanistica e luoghi di spesa allegra e clientelismo come l’Agenzia spaziale italiana — vengono soppressi e con loro cancellati i rispettivi consigli d’amministrazione, avvertiti della novità solo ieri mattina. La ricerca pubblica si farà sotto un nuovo ombrello gigante: sarà il Centro nazionale di ricerche (mantiene per motivi di immagine l’acronimo del suo predecessore più illustre, Cnr appunto). Sul modello tedesco nascono due agenzie, controlleranno il trasferimento tecnologico e il finanziamento. Dice il ministro: «Di ogni euro che l’Italia finanzia per la ricerca in Europa, tornano solo 40 centesimi. I ricercatori italiani sono di valore assoluto, la rete che li governa è parcellizzata, distribuita in troppi edifici e scollegata dall’università. Chiuderemo i cda, non toglieremo un posto di lavoro».
La Gilda parla di legge caos, la Cgil di barbarie. Profumo dice: «Non sono il ministro del bastone, non credo che la scuola sia un’azienda, sono lontano da ogni idea di privatizzazione. Ascolterò le indicazioni della piazza e del Parlamento, ma la scuola italiana deve colmare le distanze che la separano dall’Europa migliore».

l’Unità 12.10.12
Intervista a Maurizio Landini:
La legge di stabilità è un attacco a chi sta peggio: sciopero generale
di Massimo Franchi


«Come non vedo differenze tra Renzi e Marchionne, così chiedo alla Cgil di non trasformare la trattativa sulla produttività in un ulteriore svilimento del contratto nazionale e di essere coerente e indire al più presto lo sciopero generale». Maurizio Landini oggi raduna a Modena i suoi 5mila delegati nell’Assemblea nazionale per «discutere di Fiat, Ilva e di riconquista del contratto».
Landini, cosa proporrà ai delegati di tutt’Italia oggi?
«L’Assemblea nazionale avviene in un momento difficilissimo per i dipendenti metalmeccanici. Sono a rischio milioni di posti di lavoro e la stessa tenuta industriale del Paese. Allo stesso tempo siamo di fronte al nuovo tentativo di Federmeccanica e degli altri sindacati di un nuovo contratto separato che peggiorerà le condizione dei lavoratori. Il nostro messaggio al Paese è: basta contratti separati, introdurre finalmente la democrazia nei luoghi di lavoro e rilanciare la proposta di un Accordo per il lavoro per il 2013 per difendere l’occupazione incentrandolo sulla defiscalizzazione degli aumenti salariali e del cuneo fiscale per le aziende che non licenziano e sulla riduzione di orario, e lanciare nuove politiche industriali con piani straordinari di investimenti pubblici e privati, utilizzando anche il fondo di previdenza complementare dei metalmeccanici, Cometa, che potrebbe aiutare le piccole e medie aziende».
Nel frattempo però è arrivata la Legge di stabilità e si parla di accordo possibile sulla produttività fra imprese e sindacati... «La legge di stabilità è un ennesimo attacco del governo Monti allo Stato sociale con tagli pesantissimi alla sanità e ai lavoratori pubblici. Sulla produttività le cose che si prospettano vanno verso un superamento dell’accordo del 28 giugno, che per i metalmeccanici è già violato perché Federmeccanica e gli altri sindacati si rifiutano di certificare la rappresentanza e ci escludono dal tavolo di rinnovo del contratto. Mi pare che per le imprese produttività significa solo aumento dell’orario del lavoro, senza tener conto che l’Italia è già in cima alle classifiche sull’orario assieme a quelle sulla precarietà. Non è quello di cui oggi ha bisogno il Paese, il problema è la qualità del lavoro: per produrre meglio e di più bisogna mettere i lavoratori nelle condizioni di poterlo fare, non tagliare le pause, come è stato fatto in Fiat».
A proposito di Fiat, il bisticcio Renzi-Marchionne come lo valuta? Il sindaco di Firenze, con due anni di ritardo, è passato dalla vostra parte?
«Guardi, io invito tutti a leggere gli accordi che sono stati firmati, le sentenze della magistratura che ci danno ragione sui licenziamenti e sull’esclusione dalla fabbriche. Lo dico perché mi sembra che in pochi lo abbiano fatto. Non mi sembra che Renzi abbia detto una parola sulla libertà sindacale. Cosa farà se vincerà le primarie? Tutelerà o no i sindacati esclusi? Cancellerà l’articolo 8 che permette di derogare ai contratti nazionali? E sul nuovo articolo 18 che molte aziende stanno già usando per licenziare? Non mi pare ci siano particolari differenze fra quello che dice Renzi e quello che dice Marchionne».
All’Ilva ieri sono arrivati i risultati del referendum sulla vostra piattaforma. Soddisfatto?
«A quanto mi dicono hanno votato più di duemila persone (2.275 con il 98,7% di Sì), il doppio dei nostri iscritti, il tutto in una fabbrica non abituata a votare. Le assemblee a cui ho partecipato sono state affollatissime e abbiamo deciso di proporre ai lavoratori di aprire una vertenza con l’azienda per chiederle investimenti che guardino non al profitto ma all’interesse generale per un recupero ambientale di una città come Taranto che è stata calpestata e che senza l’intervento della magistratura non avrebbe potuto riscattarsi».
Passando al piano interno alla Cgil, sabato 20 si torna in piazza con lo slogan “Il lavoro prima di tutto”. Siete soddisfatti? «È un appuntamento importante per rimettere al centro del dibattito del Paese il lavoro e saremo in prima fila. Noi però, coerentemente con la battaglia cominciata a piazza San Giovanni il 9 marzo, pensiamo che serva di più. Per questo proporrò ai delegati lo sciopero generale della categoria nel mese di novembre. Mi auguro che tutta la Cgil, riprendendo le decisioni degli ultimi Direttivi, decida al più presto la stessa mobilitazione perché la situazione del Paese peggiora ogni giorno che passa e serve una svolta». Oggi è anche il primo appuntamento importante della sua nuova segreteria senza la sinistra interna...
«Non c’è stato alcun cambio di maggioranza. La sinistra interna ha deciso di organizzare una nuova area e la nuova segreteria rispecchia la maggioranza che ha vinto il congresso. È la minoranza interna (vicina alla Camusso, ndr) che non ha voluto far parte della segreteria, a differenza di quanto accade nel 90 per cento delle segreterie territoriali».

l’Unità 12.10.12
Pd, Sel, Psi: ecco il nostro manifesto
Domani a Roma la presentazione: economia, istituzioni, Europa
Nel prossimo Parlamento i gruppi cedono sovranità alla coalizione
di S. C.


ROMA «Portare l’economia fuori dalla crisi. Ridare autorità e prestigio alle istituzioni e alla politica. Rilanciare l’integrazione dell’Unione europea». Sono i «tre compiti per la prossima legislatura» scritti nella «Carta d’intenti per l’Italia bene comune», il manifesto del centrosinistra che sigleranno domani Pier Luigi Bersani, Nichi Vendola e Riccardo Nencini. L’appuntamento al centro congressi Roma Eventi è di fatto la prima uscita pubblica, dopo la «giornata di ascolto» con le associazioni, della coalizione che si presenterà alle elezioni di primavera.
Il documento prevede anche una parte in cui si dice che i gruppi parlamentari di questa coalizione si riuniranno e decideranno a maggioranza come votare, quando nella prossima legislatura si dovrà prendere una decisione su questioni rilevanti sulle quali non c’è un’opinione condivisa. E c’è un’altra parte in cui si dice che gli impegni internazionali siglati dai precedenti governi andranno rispettati. Nessun riferimento esplicito, invece, al governo Monti. Le prime due cose sono state fortemente volute da Bersani. L’assenza di riferimenti a Monti è stata invece chiesta da Vendola.
REGOLE E DATA DELLE PRIMARIE
Domattina verranno rese note anche regole e data delle primarie, che serviranno a scegliere il candidato premier di questa coalizione. La convocazione ai gazebo è per il 25 novembre, con eventuale secondo turno la domenica successiva, nel caso in cui nessuno dovesse ottenere il 50% più uno dei consensi.
L’ultimo nodo da sciogliere, cioè se il 2 dicembre possa votare soltanto chi si è registrato e ha firmato il manifesto a sostegno del centrosinistra entro il primo turno o se invece non ci debbano essere restrizioni, è stato discusso nuovamente ieri dagli sherpa di Pd, Sel e Psi: l’orientamento prevalente è di definire la platea elettorale il 25 novembre (così come avviene per le normali elezioni, per le quali questa si chiude il giorno del primo turno), prevedendo però la possibilità di deroghe motivate: potrà cioè essere ammesso al voto il 2 dicembre chi la domenica prima non ha potuto andare al gazebo per motivi di salute, viaggi all’estero o altre motivazioni, dietro presentazione di certificati o anche di autocertificazioni.
POLEMICA SULL’ELENCO ISCRITTI
Ma intanto un’altra polemica si è innescata. Matteo Renzi, che il giorno dopo l’uscita su «Firenze piccola e povera» non risparmia una stoccata a Sergio Marchionne («È un cittadino italiano, fa benissimo a dire le sue opinioni, se poi paga le tasse in Italia è anche meglio», dice il sindaco fiorentino con chiaro riferimento alla residenza dell’ad Fiat in Svizzera) per candidarsi alle primarie deve raccogliere le firme di 95 membri dell’Assemblea nazionale del Pd o di 18 mila iscritti. E ora chiede al partito di pubblicare l’elenco dei tesserati: «Non c’è nulla da nascondere, no? Se si pretende di rendere pubblico il nome di chi vota alle primarie, come è possibile non rendere pubblico il nome di chi addirittura si è iscritto al partito?».
L’accusa mossa dal comitato del sindaco di Firenze è che si voglia impedirne la candidatura. La risposta arriva dal responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo: «Due giorni fa il comitato Renzi ha richiesto l’elenco degli iscritti al Pd. Pochi minuti dopo, a tutte le strutture provinciali, regionali, e ovviamente al nazionale del Pd, è stato dato mandato di far consultare e utilizzare gli elenchi degli iscritti per la raccolta delle firme, su richiesta dei comitati dei candidati. Tutto questo è stato chiarito con un carteggio mail e diverse telefonate tra il coordinatore della campagna di Renzi e il responsabile dell'organizzazione. Fa specie che un non problema sia stato trasformato, ovviamente ad uso della comunicazione, in un oggetto di polemica».

l’Unità 12.10.12
L’incentivo alla corruzione
di Michele Ciliberto


Sembra un bollettino di guerra: prima il Lazio, poi il Piemonte, ora la Lombardia. Come un temibile e silenzioso serpente la corruzione devasta tutte le Regioni italiane, stringendo in un abbraccio mortale tanto il Nord quanto il Sud.
A Milano un assessore regionale si è messo al servizio della ’ndrangheta ottenendone in cambio dei voti: un fatto di immensa gravità che dimostra, anche sul piano simbolico, a quale livello di corruzione siamo arrivati, cancellando ogni confine tra interesse privato e bene pubblico, fino a coinvolgere e intrecciarsi al potere mafioso.
La corruzione non è un fenomeno tipicamente italiano, come si affannano a sostenere i soliti moralisti, né è fenomeno tipico di questi anni: ci sono stati altri momenti di gravissima crisi nel nostro Paese e non sarebbe difficile elencarli. Ma oggi il fenomeno è assai più vasto e, comunque, non c’è mai stato niente di simile nella storia della Repubblica: oggi sono le strutture dello Stato ad essere direttamente attaccate, inquinate, asservite a interessi privati o di singoli individui o, addirittura, di organizzazioni mafiose. Rispetto al passato, si tratta di una degenerazione e una corruzione di tipo nuovo, alimentate in forme nuove, sostenuta da forze nuove, estranee a ogni legalità.
Il diffondersi di questa corruzione non suscita scandalo o reazioni politiche adeguate. Anzi, i partiti coinvolti si rinserrano in loro stessi, cancellando ogni comunicazione con il mondo, chiusi in una forma di autismo che è il segno preciso della loro fine, del loro appartenere a un mondo ormai finito: la Polverini a Roma cerca di rinviare le elezioni, Formigoni a Milano si dice disponibile, bontà sua, a rifare la sua Giunta, come se in questi anni avesse fatto lo stilita nel deserto e non si fosse goduta la vita a spese del suo amico Daccò. A costoro la democrazia, specie quella rappresentativa, appare un inutile bagaglio di cui liberarsi il prima possibile.
Eppure proprio atteggiamenti come questi la loro arroganza, il totale disprezzo delle istituzioni e di ogni forma di spirito pubblico rivelano con chiarezza l’origine di tanta corruzione. Essa risiede in un processo di integrale «privatizzazione» ad ogni livello della «cosa pubblica» e questo, a sua volta, è il frutto più naturale e organico di quello che è stato definito «berlusconismo». La memoria, specie in politica, è corta e Berlusconi oggi osa addirittura presentarsi come una sorta di padre nobile dello schieramento moderato, dichiarando di essere pronto a mettersi da parte in vista del «bene comune» della Nazione. Pure menzogne, ovviamente: Berlusconi non è un moderato nè ha qualche vago sentore del concetto di «bene comune», non sa nemmeno che cosa significhi. Ma per circa un ventennio è questo il fatto più grave è stato capace di trasformare questa sua visione della vita e dello Stato in sensi comuni diffusi, anche a livello popolare, trasformando l’aggiramento della legge e l’impunità in una sorta di diritto acquisito, come dimostrano ad abundantiam le reazioni e i comportamenti di Formigoni e della Polverini... Del resto perché stupirsi? Questo è stato il berlusconismo: una regressione alla «natura» della dimensione civile, sociale. Sta qui, qualunque sia il giudizio che si voglia dare sulle sue singole decisioni, il valore del governo Monti: si è cominciato ad uscire dalla foresta e a ricostruire la civitas, la città.
È in questo largo e complicato contesto che va situata la questione delle preferenze nella tanto auspicata riforma elettorale. Certo, in linea generale possono consentire un rapporto positivo tra governanti e governati, e persino permettere precise verifiche sull’opera di questi ultimi. Ma come dimostrano le vicende di Milano, questo è possibile solo se le preferenze sono collocate in un saldo quadro democratico, capace di contenerne le degenerazioni di tipo personalistico e privatistico. Oggi i partiti sono, in generale, assai indeboliti; sono stati creati centri di potere neo-feudale che contraggono l’autorità dello Stato; ci sono estesi processi di «privatizzazione» dello spazio politico in tutte le sue componenti: pensare, in questa situazione, di ripristinare un corretto rapporto tra governati e governanti attraverso il tradizionale strumento delle preferenze è una pia illusione che non fa i conti con la realtà.
Il che non significa che il problema non esista o non debba essere affrontato. Si può pensare, per fare un esempio, a collegi uninominali maggioritari o ad altre forme funzionali al ristabilimento di nuovi e vitali canali di comunicazione fra governanti e governati. Ma ne sono convinto non basta agire su questo piano: e lo confermano proprio vicende come quelle del Lazio e della Lombardia. Occorre impegnare una lotta sul piano dell’ethos, dell’autocoscienza civile, etica e anche religiosa della Nazione. I teorici della politica come forza, gli adoratori del kratos, sorrideranno di fronte a una dichiarazione di questo tipo. Sbagliano: quando è autentico, l’ethos è esso stesso forza, kratos, capacità di intervenire sui rapporti materiali e ideali. E di trasformarli.
Come diceva il poeta, è la mente che agita la mole, non il contrario. Non è mai stato così vero come oggi. E sarebbe bene che i partiti che vogliono riformare l’Italia fossero in prima linea in questa battaglia.

Corriere 12.10.12
I veri nemici della politica
di Gian Antonio Stella


«La politica meno costosa la realizzò Mussolini: meno deputati, meno democrazia. Il resto sono chiacchiere e demagogia», discettava sarcastico da destra Gianfranco Rotondi. «Di questo passo visto che la legge dà ai segretari il privilegio di compilare le liste elettorali si potrebbe ridurre il Parlamento ai due leader, della maggioranza e dell'opposizione, col risparmio pressoché totale dei costi della democrazia», ridacchiava da sinistra Enrico Boselli.
Vale la pena di rileggerli, in queste settimane in cui diluvia fango, per dirla con Pirandello, i commenti che a lungo hanno liquidato il tema della bulimia e delle degenerazioni dei partiti, dei palazzi romani, delle Regioni, degli enti locali come un'«invenzione di giornalisti sfaccendati». Anche quando si trattava di bilanci fuori controllo, di indennità da 17.476 euro netti o della moltiplicazione per 41 volte degli affitti per le dépendances della Camera.
Certo, nella scia di Napolitano che ha ricordato a tutti come per salvare la politica seria vada estirpata quella malvagia, si ascoltano infine parole di buon senso. Finalmente, dopo imperdonabili ritardi, viene accantonato l'argomento più peloso: quello che la difesa di un certo sistema equivalesse alla difesa della democrazia stessa. Come se fosse un'equazione: più costi, più democrazia. Meno costi, meno democrazia.
Non è così. E sono in tanti, oggi, a riflettere su ciò che scriveva Famiglia Cristiana: «Purtroppo la vera antipolitica è l'insensibilità dei partiti», la loro incapacità di capire «la gravità del momento» e la loro «resistenza a un profondo rinnovamento». Temi troppo a lungo bollati con un'alzata di spalle e una risatina di compatimento: «Moralismo».
Quale sia il panorama di macerie, etiche e politiche, è sotto gli occhi di tutti. Ma proprio perché la cocciuta riluttanza a curar la piaga ha messo a rischio perfino irrinunciabili valori della democrazia, cioè il nostro sistema solare, occorre ricordare che sarebbe un delitto se anche stavolta finisse come dopo altre ondate di insofferenza dei cittadini verso chi li ha traditi. E come fu meschina nel 2007 la tesi della destra che i privilegi fossero solo di sinistra, sarebbe sciagurato oggi se la sinistra spacciasse i Fiorito e gli Zambetti come bubboni solo di destra.
Sapete quante notizie Ansa uscirono nel 2009 con le parole «costi della politica» nel titolo? Quattro: su centinaia di migliaia. Niente ma proprio niente era cambiato rispetto ai tempi dell'indignazione popolare. Anzi, i costi continuavano a salire. Eppure il problema era stato rimosso. Cancellato. Come non contassero le aberrazioni che si accumulavano ma solo la percezione dei cittadini. Occhio non vede, fegato non si rode.
E siamo andati avanti, per anni, con le intemerate. Marcello Pera tuonava contro «la becera campagna di aggressione al Parlamento che pur di abbattere Berlusconi non esita ad abbattere la democrazia». Giancarlo Lehner contestava la «Gestapo mediatica dell'antipolitica». Luigi Lusi si lagnava del suo arresto «concesso all'antipolitica». Ugo Sposetti ammoniva: «L'antipolitica è un mostro insaziabile. Qualunque cosa gli dai, vuole sempre di più». È vero. Ma quali riforme radicali sono state fatte, in questi anni, per impedire al mostro di mettere spavento?

Repubblica 12.10.12
Grasso, procuratore nazionale antimafia: dalle inchieste sulle Regioni un quadro devastante, a Milano voti comprati come nei rioni poveri di Palermo
“In Italia ormai la democrazia è in svendita bisogna vietare ai politici di gestire affari”
di Francesco Viviano


ROMA — «La democrazia in Italia ormai è in svendita. Comprare il consenso per 50 euro è una vera svendita della libertà di voto. Avveniva nei quartieri poveri di Palermo che il voto si comprasse con un pacco di pasta. Adesso a Milano si scopre che un voto si compra, dalla ‘ndrangheta, con 50 euro. È davvero devastante il quadro che vediamo in questi giorni: lo scioglimento del Comune di Reggio Calabria, l’arresto di un assessore in Lombardia, quello che è accaduto alla Regione Lazio...». Questa la prima considerazione del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso sull’inquinamento della politica che sembra non avere più confini.
Eppure, procuratore, fino ad alcuni mesi fa erano molti i politici che negavano l’esistenza della criminalità al Nord.
«Le inchieste e i fatti dimostrano invece il contrario. La situazione si è aggravata anche se la presenza delle cosche è stata negata, fino all’ultima visita della Commissione parlamentare antimafia in Lombardia, fino alle ultime polemiche sull’allarme lanciato da Roberto Saviano. Oggi non c’è più distinzione tra nord e sud, tutta l’Italia è diventata una questione di infiltrazioni nell’economia, nella politica e nella pubblica amministrazione. Oggi c’è un’altra distinzione: l’Italia dei tartassati e l’Italia di quelli che vengono chiamati furbi, ma vanno chiamati come dice Monti e cioè corrotti, corruttori, evasori».
Fino a poco tempo fa si parlava di inquinamento dell’economia pulita da parte delle organizzazioni criminali. Adesso non basta più: la malavita vuol decidere anche a livello politico direttamente.
«Il problema è che là dove si decidono gli appalti la criminalità organizzata s’infiltra. Accade addirittura che politici o aspiranti politici prendono l’iniziativa chiedendo, a pagamento, il sostegno delle cosche che poi chiedono altri favori, appalti, posti di lavoro... E poi c’è il ricatto successivo da parte dei mafiosi. Bisogna far capire alla politica ed agli imprenditori che una volta che entri in questo sistema non se ne può più uscire».
Zambetti è finito in carcere per avere dato soldi alla ‘ndrangheta in cambio di voti. La legge non prevede invece l’arresto se lo scambio è di altra natura, ad esempio posti di lavoro o appalti. Cosa bisognerebbe fare per migliorare la normativa?
«Noi chiediamo da sempre che il reato di voto di scambio non sia limitato alla dazione di denaro. Deve essere esteso a scambi di qualsiasi natura. In questo senso è opportuno che certe norme previste nel ddl anticorruzione siano ripensate».
Se lei fosse un legislatore, quale “cura” adotterebbe per rafforzare gli anticorpi della politica?
«Farei una norma molto semplice: chi è in politica non può entrare in affari di qualsiasi genere. Bisognerebbe creare una anagrafe, accessibile a tutti, per i politici per i pubblici funzionari, per gli amministratori. Chiunque potrebbe controllare se ci sono arricchimenti ingiustificati».
Alcune Regioni “insospettabili” come Val D’Aosta o Umbria hanno istituito delle commissioni regionali antimafia. Non è allarmante?
«Non è con una commissione che si risolvono problemi come questi. È assurdo, anzi, che si faccia una commissione regionale se poi sono le stessi Regioni, e con tutti i partiti d’accordo, che votano leggi con le quali si attribuiscono compensi assolutamente sproporzionati, mentre il resto dei cittadini italiani sopportano enormi sacrifici».

Repubblica 12.10.12
Come difendere la democrazia malata
di Ezio Mauro


L’unico vero punto in comune con il ’92, è la perdita di efficienza della nostra macchina democratica, che gira a vuoto e non produce risultati proprio perché alimentata in troppe sue parti da una politica che ha obiettivi diversi dalla funzionalità istituzionale, e perché la corruzione alza i prezzi, uccide la concorrenza, sottrae risorse e mentre soffoca ogni autonomia estende il ricatto, la sottomissione e la paura. Siamo una democrazia pesantemente infiltrata e condizionata, abbiamo dovuto imparare a dubitare della selezione della nostra classe dirigente e oggi tocchiamo con mano che anche il giudizio supremo del popolo sovrano, attraverso il voto, rischia di non essere libero e trasparente, per l’infiltrazione dei clan mafiosi e il loro mercato delle preferenze.
Che tutto questo accada a Milano è per molti finalmente uno scandalo. Ma quando comincia e dove finisce questo scandalo? Davvero solo oggi veniamo a sapere che il Nord è infiltrato, quando soltanto negli ultimi due anni sono stati sciolti i Consigli comunali di Rivarolo Canavese, Bordighera, Ventimiglia e Leinì? E non è uno scandalo retroattivo l’indignazione governativa della Lega e dei suoi alleati, un anno fa, quando Roberto Saviano denunciò la fine dell’innocenza mafiosa del Nord e la Rai si piegò ad una puntata di riparazione con il ministro dell’Interno Maroni che recitava le sue giaculatorie ideologiche in diretta? La stessa Lega che oggi si indigna e fa la voce grossa ieri fingeva di non vedere quel che tutti sapevano. Una vera forza politica legata al territorio avrebbe invece avuto il dovere della responsabilità: denunciare il pericolo, chiamare alla vigilanza, organizzare una difesa, una ripulsa popolare e un’azione di contromisura, visto che governava le tre grandi regioni del Nord, una moltitudine di città e guidava il Viminale.
Bisogna avere il coraggio di dire che la vera “infiltrazione” mafiosa è nella politica. I verbali delle intercettazioni telefoniche tra i boss calabresi arrestati per i voti comprati e venduti a Milano parlano chiaro. Le preferenze si pagano a tariffa (50 euro l’una), le mafie garantiscono quasi sempre il risultato e l’elezione del candidato sponsorizzato dal crimine diventa a questo punto un affare perpetuo, per tutti. La presenza mafiosa infatti non si esaurisce con la raccolta dei voti ma si trasforma in ricatto permanente, che mette il politico nelle mani dei clan, i quali pretendono di essere ricompensati con il denaro degli appalti pubblici. È lo stesso meccanismo delle varie P3 e P4 che abbiamo visto crescere e prosperare negli anni della decadenza attorno al potere declinante di un berlusconismo indebolito dai ricatti e dalle paure: debolezze crescenti, favori continui, personaggi pericolosi, ricatti permanenti e appalti richiesti, promessi, assegnati e goduti, con avide risate di felicità notturna quando il terremoto fa tremare L’Aquila.
Bisogna pur dire che il sistema Fiorito a Roma e l’asservimento mafioso dell’assessore Zambetti a Milano prosperano all’ombra del centro-destra, quasi che la decadenza di quel mondo avesse aperto le porte a qualsiasi abuso, dopo che gli anni della dismisura berlusconiana avevano abbassato la soglia della tolleranza e addormentato ogni capacità di reazione. Come ha detto l’ex ministro Galan, “volevamo fare la rivoluzione liberale, e siamo finiti con le teste di maiale”. Ma la sinistra sta ancora balbettando ogni volta che deve pronunciare il nome di Penati, di cui noi chiediamo dal primo giorno le dimissioni dal Consiglio regionale. E Di Pietro dovrebbe prima o poi spiegare alla sua gente quel tocco da Re Mida che gli fa scegliere ogni volta ladroni o voltagabbana da infilare sorridendo nelle sue liste.
Vent’anni fa il sistema politico si sentiva forte, prima di Tangentopoli, tanto da creare un meccanismo di mazzetta naturale e obbligatoria per un’imprenditorialità abituata comunque a essere gregaria e nient’affatto indipendente e libera. Oggi la situazione è molto più grave, se si possono fare classifiche di questo tipo. La politica indebolita è presa a schiaffi dalla criminalità che la possiede nelle sue parti più avide e più fragili, e mentre la domina la disprezza. Il disprezzo dei boss per i politici è la cosa che più colpisce nei verbali di Milano, è la vera cifra dell’epoca. I capiclan si raccontano la scena dell’assessore impaurito quando gli mostrano il “pizzino” del patto scellerato, “piangeva, per la miseria, si è cagato sotto, cagato totale”. Si trasmettono giudizi definitivi: “’sti politici di merda, piccoli e grandi, sono uno peggio dell’altro”. Si vantano: “Grazie a questi spiccioli è stato eletto, altrimenti sai quanto prendeva?”.
Minacciano: “Gli facciamo un culo così”. E infine si rassicurano: “Guarda, Zambetti ce l’abbiamo in pugno”.
Certamente il senso d’impunità seminato in questi anni, l’elogio continuo del malandrino, l’irrisione del moralismo e di ogni giudizio etico, l’attacco al principio di legalità, il sentimento dell’onnipotenza giustificato dall’esercizio del potere spiegano molte cose. Ma è soprattutto la perdita di autonomia della politica, l’indebolimento del suo significato e lo stravolgimento della sua natura (ridotta a pura infrastruttura per la raccolta del consenso prima, e poi per l’esercizio del comando) che ci hanno portati fin qui. In questo senso la democrazia formale è stata salvata, ma la sua sostanza è deperita sotto le sembianze apparentemente intatte. C’è dunque una politica che ha rinunciato a se stessa, diventando pura tecnica di un potere economicopolitico indifferenziato. Perché stupirsi se questa tecnica gregaria e autoriferita, svuotata di ogni valore, di ogni realtà autenticamente popolare, dunque di ogni controllo, finisca in mano a quell’altra gigantesca macchina di potere e di denaro che nel nostro Paese è la criminalità organizzata?
La nostra democrazia era corrosa dalle tangenti nel ’92, oggi è malata. C’è la possibilità di salvarla, prima di tutto evitando i giudizi sommari che impediscono di capire, dunque di distinguere, quindi di giudicare e infine di scegliere con il voto. La parola “casta” è uno degli inganni della fase in cui viviamo, perché annulla questa capacità di distinguere e di discernere, crea il fascio che tutto accomuna, disarmando il cittadino quando lo indigna a vuoto, perché gli fa credere che il cambiamento sia impossibile o peggio inutile, mentre lo rassicura facendolo sentire diverso e migliore.
Tocca invece a noi, cittadini e pubblica opinione, esercitare la fatica della coscienza e della consapevolezza, dunque della responsabilità, sporcandoci le mani. È stupefacente come un’opinione pubblica sedata non voglia oggi essere protagonista davanti a quel che accade: non con le monetine (che sono state poi raccolte da Bossi e Berlusconi), ma con l’indicazione di una disponibilità democratica al cambiamento, con la richiesta forte della vera riforma di cui il Paese ha bisogno, quella dell’onestà, della legalità, del rispetto non soltanto formale della Costituzione e della democrazia repubblicana. Partendo da Milano, dove Formigoni deve dimettersi per gli scandali altrui ma soprattutto per il proprio, incapace com’è di dire la verità ai cittadini sulle vacanze pagate da un faccendiere della sanità regionale.
Tocca poi al governo e alla parte più responsabile del Parlamento fare il resto. Non c’è tempo da perdere, e ci sono almeno tre urgenze: cambiando la vergogna del Porcellum, come si può pensare di riportare sulla scheda elettorale le preferenze, dopo lo spettacolo di Fiorito a Roma e di Zambetti a Milano? Cosa si aspetta a chiedere conto alle banche anche in Italia delle operazioni col denaro sporco, con l’evasione fiscale, col riciclaggio? Come si può infine pensare di varare una legge anticorruzione come chiedono milioni di cittadini (e trecentomila firme di “Repubblica”) scendendo a compromessi con una destra che punta a manipolare fattispecie di reati, pene e prescrizioni in vista di possibili utilizzi privati del suo Capo, con qualche resto per i Penati di turno?
La politica che vuole salvare se stessa ha l’occasione per farlo. Guai se venisse perduta. Oggi una riforma vera del sistema, in nome della legalità, non può trovare resistenze serie che abbiano il coraggio di manifestarsi alla luce del sole. Dunque si può: basta avere il coraggio di parlar chiaro al Paese, chiedendo il sostegno dell’Italia onesta.

il Fatto 12.10.12
Di Pietro sapeva già tutto, ma è “insicuro”: perciò non imparerà nulla neanche stavolta
di Paolo Flores d’Arcais


ANCHE dalla “faccenda Maruccio” Di Pietro non imparerà nulla. Ogni volta che un suo protetto viene preso con le mani nella marmellata (chiamiamola così) cade dal pero. E garantisce che non accadrà più. Ma quando un’inchiesta giornalistica gli segnala decine e decine di casi di suoi dirigenti locali che non olezzano di onestà, prende cappello e li difende. Quella di Marco Zerbino su MicroMega (“C’è del marcio in Danimarca: l’Italia dei valori regione per regione”) è di tre anni fa. Quella di Ferruccio Sansa, sempre su MicroMega, focalizzata sulla Liguria, dell’altro ieri, e la risposta di Di Pietro è stata: “So chi ce l’ha con l’Idv ligure, chi ha dato l’idea di questo articolo. Le solite persone”. Avesse realizzato tre anni fa il “big bang” che gli proponevamo, verso il 20% oggi ci sarebbe Di Pietro anziché Grillo. Potrebbe farlo ora, con più radicalità (vista la diminuita credibilità): liste elettorali Idv di sola società civile, con i mille candidati fatti scegliere da personalità indipendenti come Camilleri, Barbara Spinelli, Gallino, Corrado Stajano e il tentativo di avere come leader un prete (don Ciotti, don Gallo), un sindacalista (Landini, Airaudo), un magistrato (Caselli, Scarpinato, Ingroia). Non lo farà. È troppo insicuro, preferisce “gente fidata”.

il Fatto 12.10.12
Elezioni, vince il Porcello Pdl
Listino bloccato e preferenze
La commissione affari costituzionali approva il testo che piace a Calderoli
di Sara Nicoli


In effetti è simile al sistema greco... ”. Una battuta da brivido, pronunciata da Roberto Calderoli, pochi minuti dopo l’approvazione, da parte della commissione Affari Costituzionali del Senato, del testo base per la riforma elettorale, firmata dal pidiellino Lucio Malan. Che reintroduce le preferenze affossando l’altra proposta, targata Enzo Bianco del Pd, che invece faceva perno sui collegi uninominali.
E così, adesso diventa concreta la possibilità che non si vada a votare con il Porcellum ma con qualcosa di addirittura peggiore, il “Porcellinum”, sempre firmato da Calderoli. Nonostante le divisioni interne al Pdl, infatti, ieri il voto in commissione è andato liscio: a favore hanno votato in 16: Pdl, Udc, Fli, Mpa, Lega e Cn facendo rivivere, per un momento, la vecchia “Casa delle Libertà”. No da Idv, Pd e dal presidente della commissione Carlo Vizzini, eletto nel centrodestra (ma da tempo è passato al Psi di Nencini) e da giorni megafono dei problemi legati alle preferenze anche dopo gli scandali degli ultimi giorni. Da martedì partirà la discussione, con il presidente del Senato, Renato Schifani, che sta facendo pressioni perchè il testo finale possa uscire dall’aula “entro fine del mese: confido nella collaborazione tra i gruppi e i partiti per il massimo della convergenza, che già sui 2/3 del testo si è realizzata”.
IL PROBLEMA, adesso, diventa il dopo. E cioè quando questo testo, che prevede un premio di maggioranza al 12,5%, con 1/3 del listino bloccato e tutto il resto su base proporzionale, diventerà definitivamente legge. Alla Camera, infatti, è difficile pensare che le cose vadano diversamente; l’asse politico che si è formato al Senato si riprodurrà fedelmente anche a Montecitorio. “Penso sia passato il metodo certamente più difficile da governare sul piano etico – ha commentato Vizzini - perché rischiamo di importare un virus che è infettivo: quello delle preferenze”. In pratica, da questa legge elettorale, come sottolinea il politologo Roberto D'Ali-monte, “non può uscire nulla di buono, ma solo una frammentazione del voto che poi non potrà che portare o verso una grande coalizione o una maggioranza, di qualunque colore esse siano, troppo eterogenee e quindi poco coese e fragili per poter durare sulla lunga distanza; l'Italia non ha bisogno di un sistema proporzionale né, tantomeno, delle preferenze che danno i risultati che sono oggi sotto gli occhi di tutti. Abbiamo bisogno di un sistema elettorale con collegi uninominali, maggioritario e a doppio turno, l’esatto contrario di quello che sta facendo il Parlamento.. ”.
DELLO STESSO parere il senatore Pd e costituzionalista Stefano Ceccanti. Che spiega il rischio incombente: “Ammettiamo che la prima coalizione prenda il 36% dei voti. Nell’ipotesi che si disperdano a liste che non superano lo sbarramento più o meno il 10% dei voti, ciò significa che quel 36% diventerà un 40% e quindi la coalizione prenderà 217 seggi sui 542 della parte proporzionale. Sommando 6 seggi della circoscrizione estero e 74 del premio si arriva a 297”. Un numero che non è certo sufficiente a governare. Dunque c’è una “spinta a rifare coalizioni eterogenee per arrivare a tale soglia, ponendosi solo dopo il problema del governo. Per noi il fantasma di Di Pietro si riavvicina.. ”. Ma questa è la legge che vuole Berlusconi per ritagliarsi uno spazio di tribuna privilegiata all’interno della futura maggioranza. E che vuole anche Casini. Che mira, comunque, a diventare l’ago della bilancia dei “nuovi moderati”. Insomma, siamo davanti a un sistema ancora peggiore di quanto veniva temuto, ossia il vecchio Porcellum. “Almeno siamo usciti dallo stallo, però”, ha commentato soddisfatto Fini. Intanto, alla fine del mese, il 28 ottobre, ci sono le elezioni siciliane, da molti indicate come il reale discrimine per ragionare davvero di una nuova legge elettorale.

Corriere 12.10.12
Ma più che il ritorno allo spirito del '94 è un monito al Pd
di Massimo Franco


Le apparenze fanno pensare a una restaurazione: non solo elettorale ma anche politica. La riforma in senso proporzionale che ha preso corpo in Commissione ieri in Senato seppellisce il sistema maggioritario, prefigurando un dopoelezioni nel quale nessuno avrà in mano la maggioranza. Ma lo schieramento che l'ha approvata colpisce ancora di più. Comprende l'intero centrodestra del 1994: Pdl, Lega, Udc, Fli, più altre appendici della vecchia maggioranza. E sembra azzerare per magia la gamma dei conflitti e degli odi che negli ultimi anni hanno diviso i leader. L'impressione, tuttavia, è che si tratti di un'alleanza dalla quale è difficile ricavare presagi di una ricomposizione. L'epilogo parlamentare di ieri, preferenze incluse, sa di monito al Pd e ai suoi alleati di sinistra, più che di una prova della resurrezione dello «spirito del 1994» invocato ripetutamente da Silvio Berlusconi.
Le distanze fra il partito del Cavaliere guidato da Angelino Alfano e l'Udc di Pier Ferdinando Casini rimangono nette; e accentuate sia dalla diffidenza dei centristi nei confronti del passo indietro berlusconiano, sia dal «no» di Alfano a sostenere il «candidato virtuale» Mario Monti a Palazzo Chigi. Per quanto modesta, c'è la componente finiana che avrebbe molti problemi a ricongiungersi col Pdl: anche se il presidente della Camera, Gianfranco Fini, sta attento a non escludere nulla. Quanto alla Lega, l'azzeramento della giunta della Lombardia indica un'alleanza condannata a sopravvivere, e vissuta dal Carroccio come una camicia di forza, che non può togliersi. Tutti aspettano di capire se il compromesso sulla riforma elettorale avrà un seguito, e quale.
Vale anche per il Pd che ha votato contro. La distanza fra il presidente dei senatori, Anna Finocchiaro, che lo ritiene «una buona base di discussione», e dirigenti che lo bollano come «una legge greca» e «un brutto pasticcio», è vistosa. Scopre le contraddizioni di un partito nel quale i fautori del maggioritario e di una maggioranza di sinistra alle elezioni, pur numerosi, devono fare i conti con un fronte meno visibile ma influente: una «corrente» che dà per scontata la difficoltà di andare a Palazzo Chigi con un cartello di sinistra; e ritiene un errore sostenere Monti escludendo a priori la sua permanenza come premier.
Il fatto che un sostenitore storico del bipolarismo come Arturo Parisi imputi al Pd una «corresponsabilità» in quanto sta succedendo, lascia indovinare una partita aperta. Non è affatto scontato che il primo abbozzo di soluzione sia quello definitivo. Non è detto neppure che la maggioranza creatasi ieri regga. Il primo a non farsi illusioni è proprio Casini, che spinge per il proporzionale e per le preferenze. «Il cammino è ancora lungo...», ammette. Insomma, il passo di ieri va registrato soltanto come l'ennesima tappa tattica in vista di alleanze elettorali ancora tutte da inventare. Non esiste una strategia ma si va per tentativi. E il finale è tutto da vivere.
L'elemento più irritante, per chi avversa il proporzionale, è il ritorno alle preferenze. In un'Italia immersa negli scandali della classe politica locale, quell'elemento diventa il bersaglio contro il quale si scaricano tutte le perplessità. È un moltiplicatore della corruzione, si sostiene, e riproporlo adesso significa ignorare quanto sta succedendo. «La cronaca di queste ore ci consegna una nuova questione morale», avverte Anna Finocchiaro. E uno dei modi nei quali la criminalità ha permeato la politica «è stato proprio il sistema delle preferenze». L'argomento ha una sua forza di impatto, sebbene si corra il rischio che diventi un alibi per non fare nulla. Ma forse nasconde anche la paura che, senza volerlo, tutti stiano lavorando per il movimento di Beppe Grillo.

il Fatto 12.10.12
L’Anagrafe degli eletti
Anticorpi contro la malapolitica: come imporre la trasparenza sul Web
di Beatrice Borromeo


Non è un caso, sostiene il segretario nazionale dei Radicali Italiani Mario Staderini, se “nessuno dei nostri è mai stato indagato per faccende di mala politica. Noi Radicali non siamo geneticamente migliori rispetto agli altri, ma a differenza degli altri ci siamo imposti gli anticorpi”.
La proposta non è nuova (nasce nel 2007) ma è più che mai attuale. Si chiama Ape (“Anagrafe pubblica degli eletti e dei nominati”) e contiene alcuni antidoti anti-Casta tanto semplici quanto alla portata di tutti i partiti.
Lo strumento è la trasparenza e l’obiettivo è rendere concretamente difficile, per chi ha l’indole del ladrone, diventare Batman.
Tutto online. Per legge
“Una volta eletto - diceva su queste pagine lo storico Piero Bevilacqua - il politico non può sparire, sfuggendo al controllo della gente per cinque o sei anni”. L’idea è far approvare una legge che obblighi tutti gli eletti (e i nominati) a mettere online una serie di informazioni, a partire da quelle patrimoniali: immobili, titoli, risparmi. “Immaginate se questa norma fosse stata in vigore ai tempi di Scajola”, dice Staderini: “Avremmo saputo subito della famosa casa con vista sul Colosseo, comprata ‘a sua insaputa’. Anzi, probabilmente non l’avrebbe neanche presa, per evitare di essere smascherato”. Pubblicare le azioni che l’eletto detiene in una società, poi, esporrebbe all’istante gli eventuali conflitti d’interesse. “Se il parlamentare vota una legge a sostegno di una società di cui è azionista, deve farlo con la consapevolezza che la gente lo scoprirà in tempo reale”, spiegano i Radicali.
Stipendi&rimborsi
E poi, è sottointeso, stipendi, rimborsi spese e rendicontazione delle spese gestionali del partito devono essere a portata di mouse. C’è già chi (oltre ai Radicali anche il Movimento 5 Stelle, sezione Piemontese) ha in bella vista il link “trasparenza”: basta un click per rintracciare ogni finanziamento, busta paga o caffè rimborsato al consigliere di turno.
Il punto di convergenza tra tutti i sostenitori di una legge per la trasparenza è che non bisogna aspettare che ci sia, per sfruttarla. Nel senso che, alle urne, si può premiare chi segue queste regole già in campagna elettorale. E chi, come suggeriscono i Radicali, dimostra buona volontà rendendo a disposizione di tutti la propria dichiarazione dei redditi e degli interessi finanziari relativi all’anno precedente l’elezione, a quelli in cui ricopre l’incarico e agli anni successivi; oltre a finanziamenti, doni o altri benefici che riceve.
Staderini, da garantista, non è invece d’accordo sulla più popolare delle battaglie di Beppe Grillo: quella contro i condannati in Parlamento. “Anche perché - spiega il segretario dei Radicali - molti dei miei compagni sono stati in galera per spaccio di droga. Anche se l’unica loro colpa è stata distribuire gratuitamente hashish per chiederne la depenalizzazione”.
Il compromesso c’è: di fianco alla fedina penale si può prevedere una finestra dove il condannato, a sua discrezione, può dare spiegazioni. Tanto, in Rete, problemi di spazio non ce ne sono.
Siete nostri dipendenti.
La legge per la trasparenza non sarebbe solo un filtro per scartare gli impresentabili, ma pure un modo per premiare i virtuosi. Il progetto dei Radicali prevede anche di postare online tutte le attività dei politici (che siano deputati o consiglieri comunali o provinciali): dalle presenze in aula alle proposte di legge fino alla divulgazione di ogni voto, intervento o presa di posizione. E alla fine, come riassume Bevilacqua, “stiliamo le pagelle”. Un meccanismo, questo, che avrebbe costi molto bassi. Anche perché migliaia di supervisori controllerebbero i loro dirigenti senza sosta e senza retribuzione: “E così - dice Staderini - riavvicineremmo anche i cittadini alla politica”.

il Fatto 12.10.12
Turco: “Io lascio, ma devono farlo anche gli altri”
La parlamentare Pd: “Vedo solo tre deroghe, Bindi, D’Alema e Veltroni
di Wanda Marra


Sta ferma, incollata alla sedia della Commissione Affari sociali, Livia Turco. Si votano gli emendamenti al decreto sulla Sanità (che va in Aula lunedì) e in questi giorni da fuori si sente quasi solo la sua voce. Non molla un attimo. Eppure è pronta a non ricandidarsi. “L’ho detto parlando a una Conferenza delle donne del Partito democratico: sono pronta a lasciare. Però se lascio io lo devono fare anche gli altri”.

   È PROVATA Livia Turco. È tirata. Ma d’altra parte i numeri parlano chiaro: sono 7 legislature che siede in Parlamento. E lo Statuto del Pd fissa l’asticella a 3. Certo, fatta la legge trovato l’inganno: e c’è sempre la possibilità di una deroga. Questa volta, però, tra il tormentone rottamazione firmato Matteo Renzi e l’odio verso la casta non c’è da stare troppo tranquilli. Massimo D’Alema (7 legislature anche lui) ha appena annunciato che lui di passi indietro non ne fa. E che anzi, “Renzi si farà male”. “Sia chiaro: io per la deroga a D’Alema sono pronta a fare le barricate”, dice con passione la Turco. Lei è da sempre tra le più vicine al Lìder Maximo, è di quelle che quando si parla di lui dice “D’Alema è D’Alema”. Non uno come gli altri. “Le deroghe devono essere tre: D’Alema, Veltroni e Bindi. Per questo sono pronta a battermi. Sì, perchè “D’Alema ha portato il centrosinistra al governo, Veltroni ha fondato il Pd e la Bindi, con tutti i suoi difetti, è la presidente del partito”. E gli altri? “Per gli altri, il discorso è diverso. Perché poi: D’Alema ha fatto la storia di questo partito e di questo paese. Ma anche io, anche io faccio parte della storia della sinistra italiana”. E allora, se io sono pronta a fare “un passo di lato” devono farlo anche gli altri. Dalle 4 alle 7 legislature ci sono tutti i capi - corrente del Pd: 7 legislature, oltre a D’Alema e Turco, Anna Finocchiaro (che qualcuno tira in ballo pure come possibile candidata al Colle). “Perchè, se me ne vado io non se ne dovrebbero andare gli altri? Ci sono altre mie colleghe che hanno qualcosa più di me?” A 6 legislature ci sono Franco Marini e Anna Serafini che sulla possibilità di lasciare non hanno detto una parola. Poi, Giovanna Marini che si è data alla politica filantropica come presidente della Human Fondation. E Veltroni, che sta zitto, ma è “a disposizione” del partito. Per una deroga, ovviamente. A 5, tra gli altri Castagnetti (che ha annunciato il gran ritiro) e la Bindi, che più battagliera non potrebbe essere. La sua insofferenza contro chiunque parli di big che devono lasciare ai giovani (sia Renzi o Matteo Orfini) trasuda da tutti i pori. Chi le è vicino arriva ad augurarsi che nella nuova legge elettorale ci siano le preferenze, perché così nel Pd capirebbero chi prende i voti. Con 4 Sposetti ha annunciato che farà il nonno, ma Fioroni proprio non ci pensa.
 INSOMMA, è una bella richiesta quella che fa la Turco, che le deroghe siano solo tre. “Una cosa però la voglio dire - e l’ho anche scritto - a chi come Orfini e i giovani turchi dice che siamo stati incapaci di resistere al liberismo, che siamo una generazione fallita. Questo non è vero, è inaccettabile. Siamo una generazione che ha fatto tante cose”. Sul dopo Parlamento la Turco non si sente (ancora) di parlare. Quel che è certo è che tiene molto alla Fondazione Nilde Iotti, di cui è Presidente. Obiettivo strategico: “Far diventare le donne classe dirigente”. Lei però, intanto, ha qualche altro sassolino dalla scarpa da levarsi: “Non mi sta bene essere additata come la casta, come quelli che mangiano, che rubano. Io mi sono fatta sempre il culo: è una cosa che non tollero”. Perchè “uno stipendio intero da parlamentare non l’ho mai visto in vita mia. Ho sempre versato al partito: prima al Pci, ora al Pd”. E non è finita qui: Bersani è pronto a chiedere un contributo ulteriore a chi lo sostiene alle primarie. “Faremo tutto, daremo tutto”.

Corriere 12.10.12
Primarie, doppio turno blindato. L'albo dei votanti sarà pubblico
di Monica Guerzoni


ROMA — Il regolamento della discordia è pronto. Stasera gli «sherpa» dei partiti lo metteranno nero su bianco e domani, quando Bersani presenterà con Vendola e Nencini il Manifesto per l'Italia, le norme per votare alle primarie saranno pubbliche. Con buona pace di Matteo Renzi, per il quale «le regole non sono ancora chiare».
Gli addetti ai lavori garantiscono che «non saranno restrittive» e che il segretario «vuole aprire alla partecipazione». Ma, salvo colpi di scena, la bozza non sembra andare granché incontro alle richieste dello sfidante. Si voterà in due turni, mentre Renzi avrebbe preferito il turno unico. Bisognerà iscriversi con nome, cognome e indirizzo e sottoscrivere un appello a sostenere il centrosinistra. I registri per le iscrizioni saranno aperti tre settimane prima del voto, fissato ufficiosamente per domenica 25 novembre. E solo chi si sarà iscritto entro la data del primo turno potrà votare al secondo. Ma almeno, come richiesto dal sindaco e da Nichi Vendola, il gazebo in cui si vota non sarà distante dall'ufficio elettorale.
Roberto Reggi ha provato a convincere il plenipotenziario del Pd, Maurizio Migliavacca, a non rendere pubblici i nomi dei votanti. «È una schedatura da regime comunista», aveva ammonito il capo della campagna di Renzi. Ma qui il segretario non sente ragioni: se il partito «cede sovranità», il cittadino deve rinunciare a un pezzetto della sua privacy. E dunque l'«albo dei progressisti» sarà pubblico, anche se forse non verrà lanciato via web. «Tra noi c'è piena condivisione — tranquillizza il socialista Marco Di Lello —. La logica che abbiamo seguito è la più inclusiva, nessuno sarà scontento». E Francesco Ferrara, al tavolo per conto di Vendola: «Renzi? Bisogna trovare un accordo e lo troveremo».
Ma intanto è polemica sugli elenchi degli iscritti. Al Nazareno insinuano che, se Renzi ha chiesto di averli, è perché «sta incontrando problemi a raccogliere le 18 mila firme». Nella sua newsletter lo sfidante si appella ai sostenitori perché firmino la candidatura. E attacca: «Nel frattempo si consuma l'ennesima gag... Se si pretende di rendere pubblico il nome di chi vota alle primarie come è possibile non rendere pubblico il nome di chi si è iscritto al partito? Non c'è nulla da nascondere, no?». Ma a sera Nico Stumpo, responsabile organizzazione, assicura che il Pd ha «dato mandato» due giorni fa alle federazioni di «far utilizzare» gli elenchi: «Fa specie che un non problema sia stato trasformato in un oggetto di polemica». Come dice Anna Paola Concia «il Pd è in preda a un'isteria collettiva». Si litiga sui due voli privati usati da Renzi e sulle parole di Massimo D'Alema contro il sindaco, riportate da La Stampa. Il presidente del Copasir ha smentito, eppure Matteo resta convinto che si tratti dei «soliti giochini vecchio stile», perché «quella chiacchierata c'è stata». Ma Bersani è più preoccupato per la legge elettorale. Se Pdl, Lega e Udc faranno passare un sistema proporzionale, le primarie rischiano di essere svuotate di senso. Il piano del Pdl, temono al Nazareno, è costringerli ad aprire la coalizione a Di Pietro e a rifare l'Unione... Non a caso Vendola, dal palco del Pantheon, promette: «L'esperienza del governo Prodi come il circo Barnum non è ripetibile, perché questa volta faremo un patto per governare bene».

Repubblica 12.10.12
Primarie, i paletti di Vendola “Pronto a sostenere il vincitore ma l’agenda Monti va chiusa”
Renzi: pubblicare gli iscritti. Il Pd: già fatto
di Giovanna Casadio


ROMA — Il duello delle primarie per ora è tra Vendola e Renzi; tra Renzi e la nomenklatura del Pd, D’Alema in testa. È il leader di Sel, ieri, a sferrare l’attacco contro il sindaco “rottamatore”, accusandolo di seguire le idee liberiste che «strozzano l’Europa», e sfidandolo: «Io perdente? Veramente ho sempre vinto e sono convinto che se uno parla della vita, e non del Palazzo, forse una proposta di riformismo forte com’è la mia, può persino vincere le elezioni». A Repubblica tv Vendola mostra di non essere per nulla rassegnato ad arrivare terzo; ha in mente una bella squadra da portare in un futuro governo (spiegherà poi) coinvolgendo gente come Fabrizio Barca o Carlin Petrini. Torna a parlare del matrimonio e delle adozioni per i gay («Non è un problema privato il mio diritto a sposarmi»), ma soprattutto affronta la questione delle politiche di Monti dopo Monti.
Boccia le ipotesi di continuità, e del resto — afferma — il Pd è a disagio nel sostegno alla politica di Monti: «L’agenda sulla quale stiamo costruendo l’alleanza non è l’agenda Monti ma il capovolgimento di una politica che sta danneggiando
l’Italia». E Renzi? Dovrà farsene una ragione. Perché la discussione e la gara per le primarie ha un punto di caduta: oggi sarà messo a punto il manifesto politico-programmatico del centrosinistra che domani sarà firmato dai leader di partito Nencini, Bersani, Vendola. Quindi, dovrà essere sottoscritto dagli sfidanti: appunto Renzi, Tabacci (che non è d’accordo con la discontinuità con Monti) e gli altri outsider. Non si può fare a meno di un minimo comune denominatore: «Non è che chi vince le primarie, vince tutto - avverte il leader “rosso” - io mi impegno a sostenere chi vincerà ma non mi posso trovare Marchionne come ministro dell’Economia».
Pericolo in realtà scongiurato del tutto, dopo lo scontro durissimo tra Renzi e l’ad Fiat. Il sindaco va lancia in resta contro Marchionne: «Paghi le tasse in Italia». Mentre su twitter spopola l’hashtag “attaccarenzi”, continuano le polemiche con D’Alema e spunta, sempre su twitter, il profilotormentone “l’ombra di D’Alema”; il sindaco nega di avere usato più di una volta voli privati per il suo tour. Chiede a sua volta al Pd trasparenza (sugli iscritti, per raccogliere l’adeguato numero di firme a sostegno). Stumpo, responsabile organizzazione, risponde: da due giorni ci sono già gli elenchi. Renzi bacchetta i Democratici perché non sono riusciti a dimezzare il numero dei parlamentari («Questo ridurrebbe Grillo al 2%»). Bersani sa bene le divisioni che attraversano il centrosinistra. Di quale governo e per fare cosa, il segretario democratico parlerà domenica a Bettola, dando il via alla sua campagna per le primarie dalla pompa di benzina che fu del padre. Nel manifesto (10 pagine, due capitoli) sarà il lavoro al centro del programma di governo. È scritto: «Andare oltre le politiche di Monti»; Vendola vorrebbe il verbo «chiudere» e sabato sarà in piazza per il referendum contro la riforma dell’articolo 18 voluta da Fornero. Oggi si riuniscono gli sherpa: Migliavacca, Ferrara, Di Lello. Si parlerà anche di regole: aperta la questione degli elettori del secondo turno; pubblicità alle donazioni oltre i 500 euro; tetto di spesa massimo 300 mila euro; no a pubblicità a pagamento.

l’Unità 12.10.12
Lo psichiatra: «Tutelati più i genitori dei bambini»
Luigi Cancrini: «L’atto violento è sbagliato ma testimonia il fallimento degli altri tentativi. I giudici valutano reazioni e lacune di coniugi accecati dal rancore, e non le emozioni dei figli»
di Tullia Fabiani


ROMA «Ho assistito a molte situazioni terribilmente simili...». Per Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta, direttore del Centro di aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia del Comune di Roma, il caso del bambino di 10 anni portato via a forza dalla Polizia, davanti alla sua scuola a Padova, «nasce da una di quelle tragedie di coppia, in cui ognuno dà importanza alle proprie ragioni più che alle esigenze di salute mentale e benessere del bambino. E in tal caso i colpi di forza sono comuni». Ritiene si potesse evitare l'intervento della Polizia?
«Quando interviene la Polizia vuol dire che altri hanno fallito prima: i genitori, prima di tutti, e poi anche i servizi sociali: avranno provato a dare corso alla decisione del giudice minorile in modo bonario e pacifico, ma evidentemente non ci sono riusciti. C’è stato un rifiuto a ottemperare alle richieste del giudice e a quel punto è stato necessario l'intervento delle forze dell'ordine».
Ma perché agire in quel modo? Lo stesso capo della Polizia ha espresso «profondo rammarico» per il comportamento tenuto.
«L’intervento è stato certamente sbagliato nella forma. Il bambino non doveva essere preso in quel modo davanti alla scuola. L'azione violenta è sempre sbagliata e ricade soprattutto sul bambino. Questa scena a lui ha fatto male. In certe situazioni c’è bisogno di cura più che di legalità . Anche perché si tratta di un bambino conteso che probabilmente di azioni di forza ne ha subito già altre».
Si riferisce al rapporto con i genitori o alla decisione del Tribunale?
«Mi riferisco al fatto che in queste liti tremende manca il ragionamento terapeutico; il bambino ha bisogno di cure amorevoli da parte del padre e della madre, e ognuno di loro deve agire nel rispetto del
coniuge. Invece spesso questi genitori sono accecati e i giudici prendono le loro decisioni cercando di capire quale genitore ha meno torto dell’altro. Ma i diritti da tutelare sono soprattutto quelli del bambino. In tal senso la legge sull'affido condiviso ha creato un equivoco».
Quale equivoco?
«La falsa idea che i diritti da tutelare siano appunto quelli dei genitori. Questa interpretazione della legislazione sull’affido condiviso andrebbe rivista. È necessario introdurre più un concetto di cura che di difesa dei diritti. Se mia madre mi dice che odia mio padre o viceversa e io ho 8 anni, mi mette in difficoltà. Colpisce il fatto che siano più preoccupati i bambini di proteggere il genitore più fragile che il contrario. Perciò in certi casi è bene che il bambino stia in una casa famiglia». Anche in questo caso?
«La scelta parrebbe adeguata, ma non va eseguita in quel modo. È necessario affidarsi a dei professionisti, capaci di raggiungere la sofferenza dei genitori e dare loro una mano per imparare a governare i propri conflitti e a prendersi la propria parte di responsabilità. Mi viene in mente la decisione presa da un giudice di Roma in una situazione di forte conflitto...». Che genere di decisione?
«Il giudice ha prescritto ai genitori una terapia di coppia, aggiungendo che se uno di loro non fosse andato a una seduta avrebbe dovuto pagare all'altro una penale di 50 euro».
Può risolvere i conflitti?
«L’unica soluzione possibile è la cura infinita e la pazienza di chi, giudici e operatori sociali, si trova a dover affrontare casi famigliari difficili e drammatici e a dover fare certe scelte».

La Stampa 12.10.12
«Un trauma enorme. Sembra un rapimento»
5 domande a R. Rigardetto neuropsichiatra
di Marco Accossato

Il professor Roberto Rigardetto è ordinario di Neuropsichiatria infantile all’Università di Torino.
Che cos’è la Pas, la Sindrome da alienazione genitoriale?
«È eccessivo definirla sindrome e mi pare pretestuoso utilizzarla come origine del tutto. È una situazione temporanea nella quale un bimbo perde i riferimenti genitoriali. Papà e mamma hanno così tanti e gravi problemi nel loro rapporto, e in quello con lo stesso figlio, che il bambino corre il rischio di sviluppare un disturbo psichiatrico grossissimo».
Il padre di Leonardo sostiene che al figlio sia stato fatto il lavaggio del cervello per insegnargli a odiarlo. Poi però racconta che l’altro giorno papà è andato a prenderlo e hanno giocato insieme alla Playstation. E il bimbo era felicissimo. Può, tutto quest’odio, svanire in due ore?
«Assolutamente no. È evidente che il bimbo non odia il padre. Capita sovente che uno dei due genitori “carichi” il figlio contro l’altro genitore. Se Leonardo odiasse il padre non sarebbe mai rimasto con lui, tantomeno avrebbe giocato insieme al papà. Leonardo non è sereno, non è forse neppure completamente tranquillo quando sta col padre, ma non lo odia. Anzi, penserà “Lui si occupa di me... ”».
La comunità può aiutarlo a «resettare» questa situazione così pesante?
«La Comunità può essere utile a recuperare l’equilibrio. Ma un bambino va preparato, motivato, aiutato a capire perché lo allontanano da papà e mamma. A 10 anni è perfettamente in grado di capire».
Invece?
«Invece è agghiacciante il modo in cui è stato portato via. È stato come rapito, strappato alla scuola e ai parenti. Non si farà una ragione del perché è stato preso dalla polizia. La polizia, nella fantasia di qualunque bambino, porta via i ladri, gli assassini, cioè i cattivi. Penserà di essere lui il cattivo in tutta questa vicenda».
Riuscirà a superare il trauma?
«Dovrà essere aiutato moltissimo. È una ferita enorme, dovranno aiutarlo a capire. Certo è che se alla madre è stato impedito di vederlo deve essere accaduto qualcosa di molto grave: è rarissimo che si allontani un figlio dalla madre».

La Stampa 12.10.12
Non si prende un bambino in quel modo
di Elena Lowenthal


Il professor Roberto Rigardetto è ordinario di Neuropsichiatria infantile all’Università di Torino.
Che cos’è la Pas, la Sindrome da alienazione genitoriale?
«È eccessivo definirla sindrome e mi pare pretestuoso utilizzarla come origine del tutto. È una situazione temporanea nella quale un bimbo perde i riferimenti genitoriali. Papà e mamma hanno così tanti e gravi problemi nel loro rapporto, e in quello con lo stesso figlio, che il bambino corre il rischio di sviluppare un disturbo psichiatrico grossissimo».
Il padre di Leonardo sostiene che al figlio sia stato fatto il lavaggio del cervello per insegnargli a odiarlo. Poi però racconta che l’altro giorno papà è andato a prenderlo e hanno giocato insieme alla Playstation. E il bimbo era felicissimo. Può, tutto quest’odio, svanire in due ore?
«Assolutamente no. È evidente che il bimbo non odia il padre. Capita sovente che uno dei due genitori “carichi” il figlio contro l’altro genitore. Se Leonardo odiasse il padre non sarebbe mai rimasto con lui, tantomeno avrebbe giocato insieme al papà. Leonardo non è sereno, non è forse neppure completamente tranquillo quando sta col padre, ma non lo odia. Anzi, penserà “Lui si occupa di me... ”».
La comunità può aiutarlo a «resettare» questa situazione così pesante?
«La Comunità può essere utile a recuperare l’equilibrio. Ma un bambino va preparato, motivato, aiutato a capire perché lo allontanano da papà e mamma. A 10 anni è perfettamente in grado di capire».
Invece?
«Invece è agghiacciante il modo in cui è stato portato via. È stato come rapito, strappato alla scuola e ai parenti. Non si farà una ragione del perché è stato preso dalla polizia. La polizia, nella fantasia di qualunque bambino, porta via i ladri, gli assassini, cioè i cattivi. Penserà di essere lui il cattivo in tutta questa vicenda».
Riuscirà a superare il trauma?
«Dovrà essere aiutato moltissimo. È una ferita enorme, dovranno aiutarlo a capire. Certo è che se alla madre è stato impedito di vederlo deve essere accaduto qualcosa di molto grave: è rarissimo che si allontani un figlio dalla madre».

La Stampa 12.10.12
Ma il giudice ha seguito la legge
di Carlo Rimini
, ordinario di diritto privato nell’Università di Milano

Vedere un bambino braccato dalla Polizia, caricato a forza su una macchina mentre cerca di scappare, davanti ai suoi compagni di scuola, è agghiacciante. Ma come si può arrivare a questo risultato applicando una legge dello Stato? Come può l’interesse del minore passare attraverso un simile strazio? Se un giudice ha ordinato l’allontanamento di un bambino dalla sua casa, ciò è avvenuto sulla base della valutazione di gravi comportamenti tenuti dalla madre e dell’accertamento che questa ha ostacolato i rapporti fra il bambino e il padre. Generalmente si arriva a questo risultato dopo che una serie di misure meno severe sono state disattese. Il problema non nasce dunque dall’ordine del giudice, ma dalle modalità della sua esecuzione. La responsabilità per quanto accaduto non è neppure degli agenti che si sono trovati a fronteggiare una situazione ingestibile.
Il dramma vissuto da questo bambino pone invece sotto gli occhi di tutti una grave lacuna legislativa: il nostro diritto di famiglia non si occupa dell’esecuzione dei provvedimenti relativi alla potestà dei genitori. L’esecuzione - anche forzata - degli ordini che riguardano la vita dei bambini è affidata alle regole generali previste dal codice di procedura civile, come se i bambini fossero delle cose, una merce da consegnare. In Italia non esiste un’autorità, un’agenzia territoriale specializzata, incaricata di verificare l’attuazione dei provvedimenti del giudice relativi ai minori e di garantirne con mezzi adeguati l’esecuzione in caso di conflitto fra i genitori. Il giudice è invece solo. Quel bambino doveva essere seguito da psicologi e assistenti sociali preparati a fronteggiare queste situazioni, preparati a spiegargli che, per il suo bene, dovrà passare un po’ di tempo lontano da casa. Possiamo immaginare come si sarebbero comportati degli operatori qualificati. Avrebbero parlato con gli insegnanti e avrebbero cercato il loro sostegno. Poi avrebbero detto al bambino che la mamma è buona e gli vuole bene e anche il papà è buono; il problema è che litigano per stare più tempo possibile con lui e sbagliano – perché qualche volta anche i genitori sbagliano! – ma presto tutto tornerà a posto. Gli psicologi avrebbero potuto riferire al giudice le reazioni del bambino; il giudice avrebbe così potuto modulare il suo provvedimento alla luce della relazione degli psicologi. Questo accade negli Stati con i quali siamo abituati a confrontarci per livello di civiltà. Invece da noi si mandano i poliziotti con i lampeggianti.

Corriere 12.10.12
Quella guerra da evitare tra i clan delle famiglie
di Fulvio Scaparro


Ad evitare ogni equivoco, coinvolgere bambine e bambini in scene come quella filmata l'altro ieri davanti a una scuola elementare, anche se motivate dall'esecuzione di un ordine dell'autorità giudiziaria, è inaccettabile. Tanto più in quanto gli adulti si sono affrontati in nome del non meglio precisato «superiore interesse del bambino». Al di là delle disquisizioni legali, l'interesse dei figli, quale che sia la loro età, è la pace, cioè affetti e legami stabili e sicuri, legami con un ambiente che è fatto di oggetti, esseri umani e animali, sensazioni e immagini familiari. Guerra è invece perdita, o rischio di perdita, di tutto questo.
In un'altra occasione ho ammesso di non conoscere angoscia più grande per un bambino di quella che ha origine dalle accanite battaglie quotidiane tra genitori e non mi riferivo di certo ai conflitti di normale amministrazione in ogni famiglia che è, da sempre, un'unione di diversi per età, sesso e tanto altro ancora. L'opinione pubblica deve sapere quanto siano numerosi i casi di figlie e figli esposti ogni giorno agli effetti devastanti di guerre tra genitori, spesso con l'intervento dei relativi clan familiari. Guerre combattute senza esclusione di colpi, in cui i rancori, le delusioni, la rabbia, il dolore per un progetto di convivenza fallito accecano i genitori fino a colpirsi reciprocamente attraverso la contesa del possesso dei figli, neanche questi fossero una proprietà dell'uno o dell'altra. Non si tratta di mandare giù ingiustizie o di perdonare l'imperdonabile né di concordare un'ipocrita messinscena di famigliola felice per illudere i bambini, ma di qualcosa di più accettabile, giusto, efficace e soprattutto realizzabile. Mi riferisco a quello che il cardinale Martini chiamava il «patto di stabilità» che prevede, tra l'altro, l'impegno comune di padre e madre, anche se separati, a tenere distinto ciò che ci divide come adulti da ciò che ci accomuna come genitori. È ora di rivedere radicalmente tutta la materia del percorso separativo per pacificarlo ed evitare che i figli e gli stessi genitori siano lasciati a se stessi o in mano a chi per incompetenza o malafede getta benzina sul fuoco e non si sforza invece di indicare vie alternative alla guerra. Legislatori, magistrati, avvocati, servizi pubblici, forze dell'ordine devono trovare il modo di comunicare e collaborare tra loro e fissare linee guida per il raggiungimento di una separazione equa tra genitori. Ripeto ancora una volta che i genitori, conviventi o separati, hanno un compito che da solo basta a dare senso a una vita: dimostrare con l'esempio che anche se non si va d'accordo, anche se la convivenza tra gli adulti non è più possibile, è possibile mantenere un impegno comune per aiutare i figli a entrare nel mondo contando sul sostegno, sulla guida e sull'affetto di padre e madre. Quello che è avvenuto davanti alla scuola elementare del padovano serva almeno a ricordarci cosa deve cambiare con urgenza nel modo in cui i conflitti familiari gravi sono oggi trattati in Italia. Lo dobbiamo a migliaia di bambini che ogni giorno soffrono perché le persone che più dovrebbero essere al loro fianco non riescono a farlo o non trovano chi li aiuti a ritrovare insieme alla ragione anche l'amore per i figli.

Corriere 12.10.12
La sindrome dei «genitori nemici» che divide psichiatri e legislatori
di Mario Pappagallo


C'è un genitore (alienatore) che denigra l'altro genitore (alienato). E c'è un figlio che può essere vittima di questa sorta di «lavaggio del cervello» o non esserlo. La sindrome di alienazione genitoriale, Parental alienation syndrome (Pas), è un'ipotetica alterazione psicologica conseguente a situazioni conflittuali di separazione o divorzio. Genitori nemici all'ennesima potenza che usano i figli come arma. A teorizzarla, nel 1985, è stato lo psichiatra statunitense Richard Gardner, morto suicida nel 2003 all'età di 72 anni. Ma la Pas è ancora oggi al centro di dibattiti in ambito scientifico e giuridico. Non è infatti riconosciuta come psicopatologia da parte della grande maggioranza della comunità scientifica e legale. Negli Stati Uniti è addirittura in corso una «mutazione» concettuale della Pas in Pad (Parental alienation disorder, in italiano Disturbo da alienazione genitoriale). Da patologia a disturbo: «Una grave condizione di disagio mentale che affligge molti bambini e le loro famiglie». Ancora oggetto di ricerche, soprattutto per quanto riguarda la diagnosi. In Italia la Sindrome di alienazione genitoriale è contemplata nelle «Linee guida in tema di abuso sui minori» della Società italiana di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza come «forma di abuso psicologico». E questo è il problema reale, da prevenire con una buona mediazione familiare che impedisca la degenerazione di un «conflitto coniugale» in «conflitto genitoriale». In parte innescato anche dalle regole che governano sia la «separazione» sia l'affido. E che favoriscono ad individuare una parte vincente ed una soccombente. Con i figli che rischiano di divenire vittime inermi, come i civili uccisi in guerra. Non più persone, ma «armi» per vincere il conflitto.

Repubblica 12.10.12
Un mondo di cattivi
di Adriano Sofri


POVERI parenti, poveri giudici, poveri esperti, poveri poliziotti. Già: e il bambino? Prendiamo il fotogramma in cui viene trascinato (vi ricordate le due madri e il giudizio di Salomone?).
Ci sono quattro persone, maschi, tre sollevano di peso e trascinano: il padre, lo psichiatra, e il poliziotto. Il quarto è lui, Lorenzo. Ha dieci anni. Un bambino di dieci anni ha tre svantaggi enormi nei confronti dei grandi: è più intelligente, è più sensibile, è molto più debole. Può reagire (“in modo violento”, ha detto il dirigente della questura, “a testate, calci, pugni”): anche un capretto portato via può scalciare e belare e mordere. È vero, bisogna usare molta cautela, molta discrezione quando si è tentati di giudicare una famiglia andata in pezzi. Ma molta più occorre usarne quando si afferra un bambino che non vuole. Si legge che i giudici della Corte d’Appello avevano prescritto di farlo in modi discreti, poveri giudici. Si sente il padre che dice che la cosa è avvenuta “con le modalità che la situazione richiedeva”, che il bambino “ora è sereno”. Dice quel disgraziato padre: se un bambino fosse stato sequestrato e la polizia lo liberasse dai rapitori, non dovrebbe farlo anche al prezzo di una colluttazione? Dovrebbe, sì, ma tutte le sindromi di Stoccolma non bastano a far immaginare un bambino rapito che corre a nascondersi quando vengono a liberarlo, e prende i liberatori a testate calci e pugni. Bisogna saperne di più, e giudicare è una tentazione terribile: a meno di essere Salomone, e di avere di fronte almeno una parte che vuole il bene del bambino più del bene che vuole al bambino. Qualcosa si è saputo: una prima sentenza aveva affidato Lorenzo alla madre, e la nuova sentenza si fonda su una supposta sindrome di alienazione parentale, formula cento volte più infida della sindrome di Stoccolma. Dunque non c’era un’urgenza tragica, abusi domestici, sfruttamento, botte. Da otto anni Lorenzo vive con la madre. Sono andati a prenderlo nella classe – modalità: svuotamento della classe da tutti i bambini tranne uno, e quando sono usciti tutti (ridevano? avevano paura? si sono voltati a guardarlo?) suo padre “l’ha abbracciato”. Povero padre. Mentre l’aula si svuotava il solo che restava si sarà chiesto che cosa gli avrebbero fatto; da come ha reagito occorre pensare che essere abbracciato lì, in quel modo, in quel momento, gli sembrasse una bruttissima cosa. Dunque è stato “inevitabile” che lo prelevassero di forza. Un bambino tolto alla casa, alla scuola, al suo banco – quali posti sono più protetti per una persona di dieci anni? – per essere portato “in una struttura protetta”, in “una comunità”. Spiegano: siccome il bambino quando lo cercavamo a casa “si nascondeva” – come un capretto – abbiamo dovuto, su ordine dei giudici, prelevarlo “in territorio neutro”. Aggrappato al suo banco, nella sua classe. Che cattivi ricordi evoca tutto ciò, non si ha nemmeno il coraggio di nominarli. “Ha cominciato a scappare attorno alla scuola e altri agenti lo hanno rincorso”. Quanti agenti erano stati mobilitati per l’impresa? La divisione anticrimine! Poveri agenti. E a nessuno di loro è venuto in mente di abbracciare il padre, discretamente, e telefonare al giudice, che non era possibile fare quello per cui erano stati mandati, e che si vergognavano troppo di continuare a rincorrere un primo della classe spaventato e furioso? “Non dovevamo farlo noi”, ha detto il dirigente anticrimine. Ha detto anche: “Non so che filmato abbiate visto voi. Nel nostro non c’è nessun trascinamento”. Povero dirigente: chi l’ha visto? Era un ordine dal quale non si poteva tornare indietro? Eppure tutte le ordinanze sulla patria potestà (è vero che tradizionalmente si privilegiano le madri, ma la potestà è rimasta patriarcale) hanno a fondamento “l’esclusivo interesse del bambino”. Era per il tuo bene, Lorenzo, che ti abbiamo acchiappato e strattonato, per il tuo esclusivo bene: al diavolo tutti gli altri. I nonni, poveri nonni, “si sono avventati sugli agenti”. La madre non c’era, era al lavoro. La zia ha filmato la scena, e intanto gridava: “Bastardi” – e Lorenzo ripeteva: “Bastardi” – e “Siete come la Gestapo” – questo Lorenzo non l’ha ripetuto, non doveva essergli famigliare. “La zia era lì per filmare”, dice qualche commento diffidente: ma no, ormai tutto si filma, e gran parte del filmato riprende piedi e cose mosse e strilli, “Aiutami, nonno”, “Non respiro”. Povera zia, dunque. “Io sono un ispettore di polizia e lei non è nessuno”, le ha detto l’ispettrice di polizia. Peccato davvero. Chi abbia appena frequentato i luoghi della sofferenza in questi anni ha imparato ad apprezzare la passione e la competenza inedite con cui donne della polizia trattano questioni come queste, di bambini da proteggere, di altre donne da liberare dalla strada e dai padroni.
È successo, ormai. Tutti avranno molte cose cui ripensare, fra sé e sé, prima di tutto. Comunque vada, resta Lorenzo, dieci anni. Troppo pochi per aver ragione fisicamente di padri agenti e psichiatri, troppi per non legarsela al dito, invece di un aquilone da far volare col suo compagno di banco perduto. Anche a dieci anni, se non hai fatto niente, e ti fanno il vuoto attorno per abbracciarti, ti rincorrono, ti tirano su di peso e ti deportano dentro una struttura “protetta”, il mondo ti sembra troppo ingiusto, e troppo cattivo.
Ho un poscritto. Ho saputo di una legge, in commissione alla Camera dopo essere stata approvata all’unanimità prima alla Camera e poi al Senato, ma con emendamenti che l’hanno fatta tornare indietro, sull’equiparazione dei figli naturali riconosciuti a quelli legittimi. Oggi i figli naturali, cioè nati fuori dal matrimonio, non hanno parenti, al di fuori dei genitori. Per fare l’esempio estremo, se perdano entrambi i genitori, non restano loro per la legge nonni o zii, e diventano figli di nessuno da dare in affido; la stessa cosa vale per l’eredità (quella dei genitori è riconosciuta dal 1975). È una condizione oltraggiosa della ragione civile e dell’affetto. A opporsi al voto finale (senza il quale la legge andrebbe alla prossima legislatura, cioè a farsi benedire) sono sorte due obiezioni, sulla competenza del tribunale dei minori – mentre per i figli legittimi decide il tribunale ordinario – e sul rischio di riconoscere uguali diritti a figli nati da incesto! Quest’ultima obiezione scambia il ripudio dell’incesto per il bando alle persone comunque venute al mondo, e riguarda un numero surreale, mentre il caso generale riguarda un 20 per cento di bambini italiani. Che, quando la tragedia della perdita dei genitori li colpisse, sarebbero tolti ai loro familiari e messi in una “struttura protetta”, “nel loro esclusivo interesse”.

Repubblica 12.10.12
Quei diecimila figli divisi a metà “Così l’odio fra mamma e papà li rovina”
Gli psicologi: il rigetto per uno dei genitori può diventare una malattia
di Vera Schiavazzi


IL DRAMMA di diecimila bambini italiani contesi nei tribunali ha ormai un nome, “sindrome da alienazione parentale”. E se è vero che quello di Padova è un caso limite è altrettanto vero che il problema è entrato sia nella giurisprudenza sia nello studio delle nuove patologie. Accade ogni volta che, dopo una separazione, il piccolo affidato a un genitore (statisticamente la madre) finisce col rifiutarsi di frequentare l’altro genitore, il quale si rivolge al Tribunale, innescando così un’escalation. Il rifiuto dei figli può spingersi all’estremo, alla “cancellazione” del genitore rimasto fuori casa, fino ad assumere la gravità definitiva di una perdita, un vero e proprio lutto. Può tradursi in un reato (due anni fa la Cassazione ha sancito il diritto di un padre al risarcimento dei danni sanzionando così chi “incoraggia i figli a dimenticare, rimuovere, respingere l’altro genitore”) ma sta cominciando a essere studiata soprattutto come patologia, per le persone e per le famiglie divise. «Il dramma per i bambini spesso non è tanto la separazione, che pure temono molto, quanto la necessità di soccorrere il genitore che crolla emotivamente e che nel suo crollo vorrebbe trascinarli con sé usando la loro assenza come arma contro l’ex coniuge», spiega Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e esperto di problemi dell’adolescenza. Il danno rischia di durare per tutta la vita: «La soluzione non può essere, evidentemente, quella di obbligare il bambino o il ragazzo a rispettare i weekend stabiliti dai giudici, ma una terapia che deve coinvolgere tutta la famiglia e rimettere le cose a posto, restituendo al figlio i due genitori ai quali ha diritto. Senza questo, quel figlio non riuscirà mai a emanciparsi dalla sua situazione, a crescere, ad avere amicizie, amori, interessi».
È d’accordo Tilde Giani Gallino, psicologa e studiosa dell’età evolutiva: «In molti casi il divorzio è il minore dei mali per i figli, ma condizione di essere ben gestito, mantenendo un rapporto di cooperazione tra i genitori». Che fare quando il bimbo dice “da papà non voglio andare”? «Se un figlio non vuole vedere il padre è evidente che esiste un problema e la soluzione non può essere costringerlo ». Si possono ascoltare i bambini? «Si deve — risponde Gallino — e fin dalla più tenera età, dai 3 o 4 anni. Che cosa c’è dietro il loro rifiuto? Purtroppo, non tutti possono permettersi un terapeuta esperto in grado di accompagnarli lungo questo percorso. Invece la presenza di un servizio terapeutico pubblico sarebbe essenziale». La vendetta attraverso i figli, insomma, non è solo un comportamento riprovevole, ma una vera e propria malattia sociale. «La legge sull’affido condiviso non ha risolto tutti i problemi — aggiunge Giulia Facchini, avvocato familiarista — Se da un lato è cresciuta l’idea che le decisioni importanti per i figli vanno prese insieme, dall’altro non si è riusciti ad abbattere il numero di casi nei quali qualunque pretesto, dal ritardo nell’orario a un presunto problema di salute del bambino fino alla comparsa di un nuovo partner dell’ex marito o dell’ex moglie, si trasformano in una faida che va al di là di ogni ragionevolezza». «Quello che è successo ieri — conclude Vincenzo Spadafora, Garante per l’infanzia e l’adolescenza — ripropone l’urgenza di una riforma della giustizia minorile. Ma soprattutto ci obbliga a ripensare alle strade per sostenere i genitori separati nei loro doveri verso i figli».

Repubblica 12.10.12
Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma: quel trauma rimarrà per sempre
“Che errore mandare gli agenti ma a volte un giudice è costretto”
di Elsa Vinci

ROMA — «La polizia a scuola, il bimbo che scappa. Strilli, urla e pure un video-shock. Per “salvare” un bambino dalla madre bisogna farlo soffrire così? Io non credo che l’allontanamento con la forza possa avere un buon effetto. Sono momenti che si preparano con cura nel tempo ». Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma, non apprezza il ricorso alla polizia e preferisce considerare «i provvedimenti eseguiti a scuola solo eventi eccezionali».
La disperazione del bambino ha fatto il giro di tv e web. Lui senza difesa contro gli agenti. Si fa così?
«Quello che si è visto è da evitare. Di solito un bambino va a prenderlo l’assistente sociale, uno psicologo con cui parla da mesi, che conosce benissimo. Una figura di cui si fida. Il ricorso alla polizia è previsto ma sconsigliato. Personalmente preferisco escluderlo. Se diventa indispensabile, deve avvenire con modi e in luoghi che rendano l’evento meno traumatico possibile».
Invece sono andati a scuola.
«Per i bambini la scuola è un luogo sicuro, un allontanamento del genere mette in crisi questo concetto. Vale per lui e per i suoi compagni. Purtroppo l’intervento in classe si sarà reso necessario perché in passato ci sono stati tentativi falliti. A volte il giudice è costretto. La madre non aveva più la patria potestà, la Corte d’appello di Venezia ha deciso per la scuola perché a casa non è stato possibile prendere il bambino».
Il trauma dell’allontanamento da un genitore si pone in ogni caso. Il tribunale come cerca di gestirlo?
«Il ragazzino va assolutamente rassicurato: la separazione non è per sempre. Non si perde né la mamma né il papà. Il magistrato dispone percorsi psicoterapeutici adeguati, il minore viene accompagnato da un’équipe multi professionale. Di solito io nomino un giudice onorario che segue il piccolo per mesi, ci parla spesso, può andarlo a trovare a scuola, cerca di fargli capire il perché. Assistenti sociali e psicologi gli fanno comprendere che se cambierà casa questo non vuol dire che la mamma non ci sarà più. Potrà continuare a vederla, a sentirla, a giocare con lei».
Ma se il figlio con il padre non ci vuole stare?
«Il bimbo deve fare conoscenza col papà e in questo percorso lo si accompagna. Si deve trovare lo spazio nella sua testa per far entrare il padre».
Questo bambino soffre di sindrome da alienazione parentale. Come si fa a tenere in equilibrio il diritto di tutti?
«Non vuole vedere il padre perché alienato verso di lui probabilmente dall’influenza dell’altro genitore. Si deve lavorare con personale specializzato. Tanto più adesso che ha subito un trauma, che resterà per sempre. E non dimenticherà
mai».

Corriere 12.10.12
Tsipras: «Cancellare il debito dei Paesi in difficoltà»
«Anche ai tedeschi nel dopoguerra fu concesso un rinvio nel pagamento degli interessi»
intervista di Davide Frattini


ATENE — Dei tempi ribelli si porta dietro il ciuffo nero alla Elvis Presley, quella foto di Che Guevara all'ingresso dell'ufficio e il gusto per l'azzardo praticato nelle notti di poker con gli altri studenti al Politecnico. Alexis Tsipras è il più giovane tra i capi di partito greci, nei sondaggi risulta più popolare del primo ministro conservatore Antonis Samaras e alle elezioni di giugno è riuscito a scardinare l'alternanza quarantennale tra il centrodestra di Nuova Democrazia e i socialisti del Pasok: il suo Syriza, la coalizione della sinistra radicale, è salito al 27% dal 4 di un paio d'anni fa. Secondo posto e guida dell'opposizione.
Martedì non ha incontrato Angela Merkel. Era davanti al Parlamento con 50 mila manifestanti per ribadire il no alle misure di austerità. «Se avesse chiesto di vedermi, sarei andato — commenta —. A me non interessava ottenere un appuntamento». Non giustifica chi in piazza Syntagma ha bruciato la bandiera nazista, però spiega: «In Grecia è cresciuto un sentimento anti-tedesco dovuto ai tagli imposti da Merkel, una politica criminale che conduce milioni di persone alla miseria. La cancelliera pratica il contrario di quello che invocava Thomas Mann: non vuole costruire una Germania europea, ma un'Europa germanizzata».
Lo sfondo del telefonino è la foto dei due figli (il secondogenito è nato pochi giorni dopo il voto di quattro mesi fa), la compagna Betty Baziana è la stessa ragazza conosciuta al liceo, laureata in ingegneria come lui. Tsipras indossa un abito blu, la camicia a righe è sui toni scuri, la porta così anche in Parlamento. Senza cravatta. Non è l'unico paragone con il socialista Andreas Papandreou che trentotto anni fa aveva scioccato i conservatori scegliendo il dolcevita nero per dimostrare che il cerimoniale e la politica stavano cambiando.
I critici lo accusano di essere un populista che sfrutta la rabbia dei greci, tra gli elettori mette insieme impiegati pubblici che fino alla crisi hanno beneficiato delle sovvenzioni statali e i giovani disoccupati che di quegli sprechi sono le vittime. «La colpa è di chi ha governato negli ultimi trent'anni. I partiti hanno distribuito i soldi europei per alimentare il clientelismo, invece di investire nell'innovazione».
È nato il 28 luglio 1974, quattro giorni dopo la fine della dittatura militare. Considera i neonazisti di Alba Dorata «una minaccia per la democrazia, il loro successo elettorale è il risultato della disperazione economica». Ma a Samaras che paragona la situazione della Grecia alla fine della Repubblica di Weimar risponde: «Sembra dimenticare che quel disastro fu creato dalle misure di austerità provocate dal Trattato di Versailles. Il Memorandum è come quel Trattato e lui è come il cancelliere Heinrich Brüning».
Se diventasse primo ministro, straccerebbe l'intesa tra i governi greci e la Troika (Unione Europea, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale). «Non ha senso proseguire una strategia che ha dimostrato di essere un totale fallimento. La disoccupazione ha raggiunto il 25 per cento, un terzo della gente vive sotto la soglia di povertà, dall'inizio della recessione cinque anni fa il Prodotto interno lordo si è contratto del 20 per cento. La nostra soluzione non è così bizzarra: cancellare il Memorandum perché non funziona».
Non lo preoccupa che la Troika decida di bloccare i prestiti concessi in cambio dei tagli e delle riforme, da pokerista scommette su chi cederà per primo. «Se non riceveremo più soldi, impareremo a sopravvivere da soli. Non credo che Merkel e l'Unione Europea siano pronti a prendersi il rischio di lasciar sprofondare la Grecia: la zona euro è una catena formata da diciassette anelli, se uno si spezza, salta tutta la catena. Sanno che il pericolo è uccidere il sistema bancario, non solo il nostro. Del prossimo pacchetto di aiuti da 31,5 miliardi di euro, 31 servono per ricapitalizzare le banche. All'economia reale vanno solo 5-600 milioni». Dopo la Grecia — dice — toccherà agli altri Paesi del Sud Europa: la Spagna, il Portogallo, l'Italia. «La soluzione deve essere comune: va convocato un vertice sulla linea di quello di Londra nel 1953, quando venne cancellata una gran parte del debito tedesco e venne concesso alla Germania un rinvio sul pagamento degli interessi. Dopo aver estinto il debito per le nazioni in difficoltà, bisogna lanciare un Piano Marshall, liquidità per far ripartire la produttività e la crescita».
Assicura di voler salvare l'Europa, non sfasciarla. Con un sorriso ricorda il mito della ninfa rapita da Zeus e lo ripropone come uno slogan alter-mondialista di quelli che gridava nei cortei contro il G8. «Chi è oggi il padre degli dei che sta violentando l'Europa? La finanza globale, il sistema che vuole imporre a tutti le misure neo-liberiste».

La Stampa 12.10.12
Watson: “Il cancro? Lo batteremo così”
Lezione all’Ircc di Candiolo: “Terapie mirate su geni e cellule”
di Gabriele Beccaria


25 mila È il numero presunto dei nostri geni
98,7 per cento È il Dna comune tra uomini e scimpanzè

Concentrate i soldi sui cervelli, non sui pazienti! ». James Watson fissa la platea e abbozza una risata. «Quarant’anni fa avevo spiegato alle autorità sanitarie americane come gestire i fondi per la lotta al cancro, ma i titoli dei giornali furono pessimi». E nessuno - aggiunge - gli diede retta.
Lo scopritore del Dna - si sa - ama le provocazioni. È arrivato all’Ircc di Candiolo, l’Istituto per la ricerca e la cura del cancro alle porte di Torino, che l’ha invitato per un seminario dal titolo ambizioso: «Come riuscire a vincere la guerra al cancro». E una battuta la regala subito: «Se c’è un conflitto, ci vuole un generale, che decida dove sbarcare le truppe, a Calais oppure in Normandia». Perché battere quello che il bestseller di Siddhartha Mukherjee definisce «L’imperatore del male», secondo lui, è possibile, ma ci vuole una nuova visione creativa, intrisa di coraggio, prima di tutto intellettuale.
A 84 anni sa di essere un monumento vivente. È lo scienziato più famoso del mondo e la sua esistenza è una corsa che ha il respiro della Storia. Da adolescente si fece conquistare dal libro-culto «Che cos’è la vita? » del fisico Erwin Schrödinger, poi neanche diciottenne studiò Biologia all’Università di Chicago con il futuro Nobel Salvador Luria e subito dopo cominciò a esplorare le mutazioni genetiche all’Indiana University. «Era un luogo straordinario - mi racconta prima della conferenza -. La ragione, molto probabilmente, è che lì, a differenza degli altri atenei d’America, c’erano molti ebrei».
A 25 anni scopre con Francis Crick la doppia elica del Dna, nel 1962 vince il Nobel, nel 2000 partecipa alla decifrazione del Genoma e ora, circonfuso della carica di «Honorary chancellor» dei laboratori di Cold Spring Harbor, a tre quarti d’ora d’auto da Manhattan, si è concentrato sull’ossessione del XX e del XXI secolo, il cancro.
«La mia fortuna - racconta sulla strada per Candiolo - è stata la frequentazione di persone estremamente intelligenti. La vita è questione di IQ». Il torinese Luria gli è rimasto nella testa e nel cuore e ha deciso di visitare la città dove nacque il suo mitico Prof. «Sono a Torino per ragioni sentimentali». E ha voluto visitare l’Ircc di Candiolo perché anche qui, come nei laboratori sulla East Coast, si studia il processo che rende molti tipi di cancro intrattabili e mortali: le metastasi.
«Oggi lui è uno dei simboli dei nuovi approcci della ricerca - spiega il direttore scientifico dell’Ircc, Paolo Comoglio -: le terapie mirate che agiscono selettivamente sui geni che scatenano il tumore». Watson si è fatto accompagnare dalla moglie Elizabeth e dalla sua ex allieva (che prima era stata nel team di Comoglio), Raffaella Sordella, diventata,
giovanissima, professoressa di Cancer Science proprio a Cold Spring Harbor. «Là si è fatta la storia della biologia - racconta lei -. Jim ha trasformato la ricerca, andando a cercare i ragazzi più promettenti. E negli anni si sono fatte scoperte straordinarie. Tra le tante, mi viene subito in mente quella di un oncogene. Merito di Mike Wigler».
E allora a che punto è la guerra? A buon punto, ma tra luci e ombre. «I pessimisti dicono che ce la faremo in 20 anni, io dico 5-10. La decifrazione del Genoma è stata una tappa fondamentale - sottolinea Watson - e oggi sappiamo leggere le caratteristiche genetiche del tumore di ciascun individuo, ma sono ancora troppo pochi i farmaci “intelligenti”». Bisogna accelerare i tempi e «concentrarci sulla biologia e sulla chimica».
Insomma, non basta svelare le mutazioni del Dna, ma si deve iniziare un viaggio d’esplorazione dentro le caratteristiche delle cellule malate. Si è scoperto, per esempio, che contengono anomali livelli di radicali liberi. «E quindi agire sugli antiossidanti sarà una strada per farmaci efficaci e non tossici».
Le «slide» si susseguono e il professore e l’oratore si alternano. «Spesso la medicina è fatta da chi non conosce abbastanza scienza». E anche la scienza - aveva confessato poco prima - «ha bisogno di eroi. Di “Mr. Brain”, come Steve Jobs, mentre Google è un team e non suscita emozioni». Lui è uno di questi eroi, gioiosamente provocatorio: «So che molti hanno paura della genetica, a cominciare dalla gente di sinistra. E mi odiano. Non accettano che, a volte, nella vita si fallisca perché si hanno pessimi geni».

La Stampa 12.10.12
Così vide il Dna
Quella scala a chiocciola attorcigliata
di Valentina Arcovio


Sono passati 50 anni da quando la scoperta della struttura a doppia elica del Dna fu riconosciuta e premiata ufficialmente dalla comunità scientifica internazionale. Nel 1962 Jim Dewey Watson e Francis Compton Crick (insieme nella foto sotto) vinsero il Nobel per la Medicina per esser riusciti a descrivere la struttura tridimensionale della molecola della vita nel laboratorio Cavendish dell’Università di Cambridge, osservando la foto a raggi X dei cristalli di Dna scattata da Rosalind Franklin. Risale però al 1953 il primo discusso articolo sull’argomento, pubblicato dai due scienziati sulla rivista «Nature».
«A forma di scala a chiocciola attorcigliata in senso orario, con uno scheletro di zucchero e fosfati, i gradini di basi azotate che costituiscono l’alfabeto del vivente»: queste le semplici parole che gettarono le basi della biologia moderna. La struttura della molecola fu una premessa fondamentale per comprendere i meccanismi di trasmissione dei caratteri ereditari, e quindi per l’avanzamento della genetica. E con la genetica, la medicina e tanti altri campi della ricerca, dalle biotecnologie alle nanotecnologie. Watson e Crick non solo definirono la forma del Dna ma, sulla base di essa, ne dedussero anche i meccanismi fondamentali di replicazione e riparazione dai danni molecolari.
Fu proprio grazie alle loro spiegazioni che il Dna, già noto da tempo, fu accettato definitivamente dalla comunità degli scienziati come la molecola dell’ereditarietà. I tempi non erano ancora maturi per accettare i loro studi: la comunità scientifica pensava che il Dna fosse una molecola troppo semplice dal punto di vista chimico per essere il materiale genetico. Per questo oggi nessuno può negare che il lavoro di Watson, Crick e Franklin abbia rivoluzionato le scienze della vita.

La Stampa 12.10.12
Il primo Nobel cinese al poeta degli umili. I dissidenti contestano
L’autore di Sorgo Rosso è uno scrittore «ufficiale» L’accademia svedese si riconcilia con Pechino
di Ilaria Maria Sala


Ieri l’Accademia Reale Svedese ha assegnato il premio Nobel alla Letteratura 2012 al cinquantasettenne scrittore cinese Mo Yan
Il Premio Nobel per la Letteratura 2012, dato allo scrittore Mo Yan, spezza un incantesimo che da decenni teneva incatenati scrittori e intellettuali cinesi, irritati da quello che ormai era stato chiamato dalla stampa cinese il «complesso del Nobel». Perché, si sono interrogati in migliaia di articoli, dibattiti, e discorsi, perché mai nessuno scrittore cinese ha vinto il Nobel? Perché nessun cinese, perfino, ha mai vinto? Che nel 2000 lo avesse vinto lo scrittore Gao Xingjian, cinese di nascita e di lingua, ma in esilio in Francia dal 1987, sembrava solo aver sparso sale sulla ferita. L’insulto massimo, poi, venne considerato il Premio Nobel per la Pace al dissidente Liu Xiaobo del 2010, che non solo ha messo l’intera Norvegia in seri guai diplomatici con Pechino, ma che ha fatto esclamare con esasperazione che il Nobel era solo un premio «politico», anti-cinese per di più, e nient’altro. Pochi giorni fa, il quotidiano cinese iper-nazionalista Global Times, perfino, si era lanciato con una paginata intera in cui diceva che, semplicemente, i principi del Nobel non sono principi cinesi – senza troppo dire cosa sarebbero questi ultimi. Una volpe e l’uva colossali, immediatamente accantonati ieri, quando il website del Global Times osannava il Nobel a Mo Yan nemmeno fosse stato l’intero medagliere olimpico.
Che il premio, dunque, non sia più politico? Volendo, non proprio, ma ora è andato in direzione opposta: Mo Yan è infatti un autore controverso, vicino al regime, che ha più volte detto che la censura «aiuta a rendere più sottili i miei romanzi», e che nel porre degli ostacoli alla creatività, l’acuisce. Si ritirò dalla Fiera del libro di Francoforte del 2009, dedicata alla Cina, dopo che vi furono invitati scrittori dissidenti. È un autore «ufficiale», vice-presidente dell’Associazione degli scrittori cinese (più che filo-governativa), e per anni ha ricevuto un appartamento e uno stipendio dall’Esercito di Liberazione del Popolo, in cui è entrato a far parte nel 1976, staccandosene solo dieci anni fa. Inoltre, di recente, si è unito a una posse di intellettuali che hanno deciso di commemorare gli scritti di Mao Zedong sull’arte e la letteratura (che deve servire il popolo) del 1942, ricopiandoli a mano.
Dopo la furia scatenata contro Oslo per l’assegnazione del premio per la Pace a Liu, forse ora Stoccolma, con il Premio per la letteratura conferito a Mo, riuscirà a togliere la Norvegia dal purgatorio in cui è sprofondata due anni fa, non riuscendo più a vendere nemmeno un salmone in Cina, per non parlare della caterva di visti rifiutati a chi viaggia con passaporto norvegese. Un ramo d’ulivo dalla Norvegia alla Cina, passando per la Svezia? Vista l’insistenza con cui i media cinesi parlavano di Mo Yan nei giorni scorsi, viene perfino da chiedersi se non ci sia stato qualcosa dietro le quinte a rendere i giornali cinesi così sicuri del fatto loro nel promuovere lo scrittore.
Mo Yan, nom de plume di Guan Moye, significa «quello che non parla». Ma che di certo scrive: nato nel 1955 nello Shandong, Mo Yan, tendenze progovernative a parte, è uno scrittore prolifico e di grande inventiva. L’Accademia di Stoccolma ha giustificato la scelta dicendo che «con realismo allucinatorio ha fuso racconti popolari, passati e contemporanei», riferendosi in modo diretto a quel «realismo magico», di matrice sudamericana, che Mo Yan stesso ha sempre detto di ammirare. La quantità di storie che escono dalla sua penna (non utilizza infatti computer) è strabiliante: i suoi romanzi e racconti, da Sorgo Rosso aGrande Seno Fianchi Larghi, contengono una miriade di personaggi, di intrecci, intrighi, storie. Una scrittura affascinata dal senso epico della narrazione, dove i protagonisti sono quasi sempre uomini e donne del popolo, frequentemente delle stesse campagne dello Shandong in cui Mo Yan è nato. Ma nel loro orizzonte non c’è il prendere posizioni politiche definitive: loro, sono «gli umili della terra», in balia degli eventi, e dei fenomeni, naturali, bellici e per l’appunto politici, che li travolgono.
Ora che il menestrello delle campagne è stato insignito di tanto onore, la Cina ufficiale esulta, felice di avere finalmente un Nobel autoctono che non deve essere coperto dal velo nero della censura, ma che può essere annunciato in diretta interrompendo le trasmissioni televisive. La Cina dissidente invece molto meno. «Fa parte del sistema», ha commentato l’artista Ai Weiwei, tra le voci più scomode per il governo di Pechino. Ai ha ammesso di non aver letto nessun lavoro di Mo Yan, ma ha definito il premio inutile a meno che il neo-laureato non si pronunci per la scarcerazione di Liu Xiaobo, il dissidente Nobel per la Pace nel 2010. Sul web, circolano i commenti su Liu Xiaobo di Mo Yan a caldo («non voglio parlarne, è una circostanza che non mi è chiara», avrebbe detto in una telefonata), e le varie volte in cui si è rifiutato di criticare l’esistenza della censura, o di utilizzare il peso del suo nome per chiedere maggiore libertà di espressione e democrazia. E perfino il satirista Hexie Farm ha messo online una fotografia della medaglia Nobel con un grosso bavaglio nero davanti alla bocca, con scritto di fianco: “Mo” bel!

La Stampa 12.10.12
Cinema, autunno caldo ma non per gli italiani
Dopo un’estate difficile, aumentano gli incassi (+ 41%) anche grazie al 3D, mentre deludono le nostre pellicole
di Fulvia Caprara


Primo in classifica Madagascar 3 (sotto, Gloria l’ippopotamo); in alto, Reality di Garrone
MENO DI 6 MILIONI L'INCASSO TOTALE DEI PRIMI 10 FILM ITALIANI (tra settembre e i primi di ottobre): poco più di quanto ottenuto da un solo film come L'Era Glaciale 4

L’ autunno del cinema italiano non è né caldo né eccitante. In controtendenza con i dati sulla ripresa generale (8317 milioni di biglietti venduti, pari a +34% rispetto al settembre scorso, e quasi 57 milioni di euro di incassi, cioè più 41% rispetto al settembre 2011), i nostri film non incantano e non incassano. La quota dei titoli nazionali (per biglietti venduti) si attesta, nel periodo che va da gennaio a settembre 2012, al 23,71%, contro il 36,29% dei primi nove mesi dell’anno passato. In pratica si passa dai 25,6 milioni del 2011 ai 14,7 milioni di quest’anno. E non è colpa (o merito) del solito, invincibile cinema americano, perchè, stavolta, crescono anche le quote di mercato dei titoli britannici e francesi. E allora bisogna provare a capire, chiedersi perchè anche film importanti e belli come Reality di Matteo Garrone, vittorioso al Festival di Cannes, e come Bella addormentata di Marco Bellocchio, non siano riusciti a portare a casa i risultati sperati: «C’è da riflettere dice Riccardo Tozzi, presidente dell’Anica e gran capo di Cattleya -. Bisogna pensare al tipo di film che stiamo facendo. Se in questo momento l’immagine del nostro Paese ci fa schifo, è chiaro che si tenda a rifuggire da tutto il cinema che rimanda quell’immagine. Non si ha voglia di andare a rivedere sullo schermo quello che leggiamo sui giornali e che non ci piace affatto». Il punto di svolta, osserva Tozzi, risale a dicembre scorso «cioè a quando si è insediato il governo Monti e abbiamo capito come siamo messi». Insomma, nella vita vera non c’è proprio niente da ridere e allora chi ha voglia di andare a soffrire anche al cinema? «È necessario riaprire il dialogo con un pubblico che ha bisogno di venire rincuorato, di ritrovare fiducia, senza essere preso in giro». Quindi non commediacce sguaiate, ma «storie, anche dolci, che abbiano un senso, e film d’autore che si aprano alle sensibilità del pubblico». Se fossimo in politica, aggiunge Tozzi, «diremmo che dobbiamo riguadagnare il centro abbandonato». E il centro, nelle sale, significa anche «cinema di genere firmato dagli autori, un sentiero che non è stato più battuto». Poi, naturalmente, ci sono i problemi strutturali, «la diminuzione del numero delle sale nelle città» e il flagello della pirateria, e quelli strategici: «Da tempo c’è l’abitudine di far uscire, tra settembre e ottobre, i film più difficili, e invece, dopo il vuoto estivo, bisognerebbe ricominciare in un altro modo, evitandodi affollare le sale dei titoli che arrivano da Venezia o da Cannes. Il risultato non esaltante del film di Garrone mi fa pensare che questa tesi abbia un fondamento».
L’altra prospettiva d’analisi riguarda la platea. Il capo di Taodue Pietro Valsecchi, che l’altro giorno, durante la conferenza stampa del Festival di Roma, si è alzato in piedi per dire che «il vero problema sta nel fatto che il cinema italiano non incassa nulla», pensa soprattutto ai giovani: «I ragazzi che vanno in sala con i tablet in mano vogliono trovare quei contenuti oppure no? Ho visto i film di Garrone e di Bellocchio e li ho trovati bellissimi, ma io ho 60 anni, siamo sicuri che c’è ancora chi regge quel linguaggio?». Valsecchi pensa anche a politiche di «diversificazione dei prezzi dei biglietti, per esempio ridurre da 4 a 8 il costo per gli studenti». A Natale, con il marchio Taodue, uscirà il nuovo capitolo dei Soliti idioti e per il prossimo ottobre, annuncia ancora il produttore, è previsto il ritorno di Checco Zalone: «Non è vero che la gente non va al cinema perchè c’è la crisi, Batman lo vanno a vedere eccome, il punto sta in ciò che si racconta. Il mondo non ci riconosce, i contenuti proposti dal nostro cinema non funzionano nè qui nè negli altri Paesi». Tutto da rifare? Sì, iniziando, proclama Valsecchi, dalle «cricche che hanno diviso il nostro cinema in base alle invidie invece che ai meriti». E poi «sradicando la nomenclatura, i critici che pensano di essere i capitani del cinema e invece non sono più seguiti da nessuno». L’autocritica è fatta, adesso bisogna passare all’azione.

Repubblica 12.10.12
La terapia del cuore
Perché il discorso amoroso ha sostituito quello politico
Vittorio Lingiardi, psicoanalista, spiega perché si discute tanto di sentimenti e come le relazioni vadano oltre i ruoli tradizionali
Uno dei compiti dell’analisi è di provare a liberarci quando restiamo prigionieri delle passioni del passato
di Natalia Aspesi


Come poeta (La confusione è precisa in amore, nottetempo) cita Robert Frost, Un poema è l’arresto del disordine. Come psicoanalista (La personalità e i suoi disturbi,
Il Saggiatore) cita film come Spider di David Cronenberg per illustrare ai suoi studenti la schizofrenia. Come autore di Citizen gay (Il Saggiatore), il saggio che viene ripubblicato alla fine di ottobre, cita Michel Foucault: “Se si vedono due omosessuali, o meglio due ragazzi che se ne vanno insieme a dormire nello stesso letto, in fondo si tollera, ma se la mattina dopo si svegliano col sorriso sulle labbra, si tengono per mano, si abbracciano teneramente e affermano così la loro felicità, questo non glielo si perdona”. Vittorio Lingiardi, 52 anni molto eleganti, medico psichiatra e psicoanalista, direttore della Scuola di specializzazione in Psicologia Clinica alla Sapienza, darà una delle dieci “Lezioni d’amore” (ideate da Ginevra Bompiani e David Riondino), iniziate il 27 settembre al Teatro Tor di Nona.
«La mia lezione, dedicata all’amore platonico, sarà il 7 novembre e partendo dal Simposio tratterà il tema dell’omoerotismo. Si sa che nel Simposio è una donna-sacerdotessa, Diotima, a dare a Socrate lezioni d’amore, e io userò questo espediente narrativo per riflettere sui sentimenti di amicizia, e talvolta d’amore, che spesso uniscono donne eterosessuali e uomini anche apertamente gay. Una storia affascinante che ha per protagonisti per esempio, Maria Callas e Pier Paolo Pasolini, Dora Carrington e Lytton Strachey, Ingeborg Bachmann e Hans Werner Henze, Patti Smith e Robert Mapplethorpe.
«Strane coppie, di cui il cinema racconta spesso il legame di amicizia profonda e solidale, che può anche avere risvolti romantici se non addirittura sessuali, e portare pure al matrimonio, al diventare genitori, oltre la barriera delle preferenze sessuali. «Penso al sadomasochismo di tenebra di Riflessi in un occhio d’oro tra Liz Taylor e Marlon Brando, ed era il 1967, quando l’omosessualità non veniva rappresentata apertamente, al triangolo di tormenti di Domenica maledetta domenica, 1971, tra Glenda Jackson, Peter Finch e Murray Head, all’amicizia travolgente e un po’ frivola tra Ruzienti pert Everett e Julia Roberts in Il matrimonio del mio migliore amico, del 1997. Queste coppie, poco studiate dalla psicanalisi, oggi sono popolari anche nelle fiction televisive, come “Commesse”, “Il bello delle donne”, “Girls who likes boys who likes boys”. Come scrive John Ramster nel romanzo Un uomo per amica, “Un uomo gay, single, non misogino, con un quoziente di intelligenza superiore a 95, trascorre la maggior parte del tempo con donne etero”. La strana coppia aiuta a riflettere su identità e sessualità che non seguono la regola patriarcale, e mette in crisi i ruoli di genere tradizionali, il noto binarismo maschile/femminile, attivo passivo, contribuendo a raccontare le infinite pluralità della femminilità e della mascolinità».
La relazione paziente-terapeuta, la necessaria costruzione di un’alleanza e di un legame tra di loro, può avere i tempi e modi di un innamoramento? «Come tutte le relazioni a due, anche questa può sfiorare modi e ritmi del di- scorso amoroso. Freud parlava di “forze assolutamente esplosive” alle quali dobbiamo “prestare un’attenzione scrupolosa, come un chimico”. Sono forze che possono esprimere sentimenti affettuosi ma anche affetti erotizzati che, se riconosciuti e non “agiti”, aiutano a capire anche bisogni e desideri attuali del paziente. La psicoanalisi è in parte nata sull’amore di pazienti donne per i loro analisti, come racconta A dangerous method di Cronenberg ».
Perché è proibito l’amore tra psicoterapeuta e paziente?
«Sarebbe un tradimento della psicoanalisi, l’azione che prende il posto dell’analisi dei sentimenti e delle loro ragioni. La stanza della terapia è un laboratorio per comprendere se stessi e la propria storia, non per vivere una vita parallela, alternativa a quella che non si riesce a vivere fuori dall’analisi. L’analista non deve “amare” il o la paziente, ma capire con lui o lei di che cosa parla quando parla d’amore. La psicoanalisi è una “professione impossibile” che deve saper tenere insieme intimità e astinenza: se una di queste posizioni viene tradita, non siamo più nel campo dell’analisi».
Se durante la terapia il paziente si innamora (non del terapeuta, ovvio), è un bene o un male?
«Un obiettivo del lavoro analitico è “imparare ad amare”. Spesso è “imparare a lasciarsi amare” cosa forse più difficile. Si potrebbe dire che uno dei compiti dell’analisi è accogliere un amore prigioniero del passato per trasformarlo nell’amore per una nuova
relazione».
Cosa è la “terapia riparativa”?
«E’ una brutta espressione che descrive il lavoro di sedicenti terapeuti che vogliono “riparare” qualcosa che non è né rotto né sbagliato, il paziente o la paziente omosessuale, per farlo diventare eterosessuale. Si tratta di interventi basati su pregiudizi morali o religiosi che non hanno nulla di scientifico e che partono dalla convinzione che l’omosessualità sia una patologia da curare, mentre, come la definisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è “una variante naturale del comportamento umano”. Tutte le associazioni scientifiche ne condannano la pratica che oltre a rivelarsi molto dannosa per la salute psicologica del paziente, non ha alcuna possibilità di successo. Il sito noriparative. it raccoglie le firme di migliaia di studiosi».
Alla sua formazione scientifica, fa orrore la cosiddetta “posta del cuore”?
«Leggo con curiosità la posta del cuore proprio perché psicoanalista. L’analista deve stare nella stanza di analisi, sapendo che la pratica si svolge lì e solo lì. Ma, come dice James Hillman, deve saper tenere una finestra sempre aperta sul mondo, stare in dialogo tra interno ed esterno. E poi si sa, il discorso amoroso è fatto di frammenti, e li possiamo trovare e decifrare ovunque. Anche nella posta del cuore o in una canzone di Mina».
Non pensa che si parli troppo d’amore?
«Forse sì. L’amore, che spesso ama il silenzio, sembra sempre più protagonista, forse sostituisce la povertà della politica di oggi. Ma pensandoci meglio, credo che il discorso che ora ci appassiona, al cinema come in psicoana-lisi, è un discorso amoroso e politico al tempo stesso. Basta pensare alla centralità che ha il tema dei diritti affettivi di gay e lesbiche, come coppia e come genitori. Quindi è su un tema “amoroso” che si gioca una grande partita politica e forse anche molte elezioni, e gli Stati Uniti lo dimostrano. Per dirla con la filosofa Martha Nussbaum, è il passaggio dalla politica del disgusto a quella dell’umanità».

Repubblica 12.10.12
Il convegno
Gli studiosi dell’adolescenza


ROMA - “Adolescenza e psicoanalisi oggi” è il titolo di un convegno in programma oggi e domani all’Angelicum di Roma. Nella presentazione, Giovanna Montinari indica gli interrogativi che interesseranno relazioni e dibattiti: ad esempio, chi è oggi il terapeuta degli adolescenti? Che strumenti ha la psicoanalisi per affrontare le loro patologie? Che genere di cura è indicata con i più giovani? Internet è una risorsa o una dipendenza? A prendere la parola, “nomi” di tutto rispetto: da Francesco Mancuso a Massimo Ammaniti, da Sergio Muscetta a Luisa Carbone Tirelli, da Gianluigi Monniello ad Anna Nicolò, a Livia Tabanelli che parlerà del “lavoro con i genitori”. Alla tavola rotonda conclusiva (“Quale futuro per la psicoanalisi dell’adolescenza”), condotta da Paola Carbone, interverrà - tra gli altri - Tito Baldini, grande esperto di Ragazzi al limite (secondo il titolo di un suo libro uscito da FrancoAngeli).