sabato 20 gennaio 2007

l'Unità 20.1.07
«Quel ribellismo veniva da lontano, dal 1968 e dalle stesse avanzate elettorali comuniste. Ma non trovò sbocco»
Asor Rosa: il Settantasette? Una catastrofe per la sinistra
di Bruno Gravagnuolo


ANNIVERSARI Parla lo storico della letteratura italiana che dalle colonne dell’Unità «aprì» al movimento con il famoso articolo incentrato su Le due società: «Il vero limite fu il compromesso storico. E il Pci finì stretto da destra e da sinistra»

Le due società. Fu questa la chiave di lettura che Alberto Asor Rosa, grande italianista, artefice di esperienze teoriche come Quaderni Rossi e Classe operaia, ex Psiup poi passato al Pci nel 1976 e direttore di Rinascita nel 1989, adoperò per spiegare la natura di un movimento indocile e refrattario ad ogni tradizione politica come quello del 1977. Venuto clamorosamente alla ribalta con la cacciata di Lama dall’Università di Roma da parte degli «autonomi» il 17 febbraio di quell’anno. Significava che da una parte c’erano i garantiti, coloro che riuscivano a incamerarre un reddito sicuro, inclusi i ceti subalterni organizzati che godevano dei benefici del Welfare. E dall’altra una vasta massa di giovani precari, marginalizzati, senza prospettiva di inserimento sociale. E che in qualche modo faceva di necessità virtù. Teorizzando e praticando « comunità antagonista», soggettivismo libertario, rifiuto del «progetto» e dell’eticità del futuro. E rigettando le logiche e le pratiche del movimento operaio organizzato.
Quella di Asor era una chiave di lettura originale, messa a punto in un articolo de l’Unità del 20 marzo 1977(poi confluita in un volume Einaudi), tre giorni dopo l’aggressione a Lama. E che non solo metteva a fuoco una fenomenologia di comportamenti inaccettabili, ma inesplicabili per il Pci. Ma che anticipava in qualche modo il futuro degli anni 80 e 90: precariato come fulcro del capitalismo flessibile e globale. Individualismo di massa. Edonismo. E soprattutto - dice oggi Asor Rosa - «anticipava integralmente la perdita di aura e di prestigio etico che avvolgevano il Pci e il sindacato. Il suo ruolo sacrale e la sua missione finalistica».
Ovviamente, e questo Asor lo sa bene, tutti quei germi culturali erano una certa cosa nel contesto di fine anni 70. Diventeranno altra cosa, e con segno conservatore, nel clima caratterizzato dalla sconfitta del Pci dopo l’uccisione di Moro. Con l’ondata neoliberista e con la sfida craxiana. Torniamo allora a riparlare con Asor Rosa di quella stagione oggi, a trent’anni da quei fatti, in un clima integralmente mutato. Per capire se quel ciclo di eventi fu in qualche modo «periodizzante», se rappresenta uno spartiacque tra un prima e un poi. O se invece fu solo un accidente effimero, e non degno di enfasi storiografica. Intanto escono tanti libri e tante rievocazioni, da Ali di Piombo di Concetto Vecchio a 1977 di Lucia Annunziata, che visse i fatti di quell’anno da giovane cronista del Manifesto. Cronista «simpatetica» e schierata con gli studenti, alla quale capitò, come essa stessa racconta nel libro, di doversi scontrare con Rossana Rossanda, molto più critica di Annunziata sui caratteri di violenza e di radicalismo autolesionista insiti nel «movimento» (e tra gli episodi narrati c’è la reprimenda di Rossanda alla cronista che aveva portato in redazione come trofeo un sampietrino).
Ebbene, il giudizio di Annunziata sul Pci dinanzi al movimento è ancora oggi aspro: integrale chiusura settaria, ottusità. Non senza notazioni auobiografiche generazionali: «Odiavamo i nostri padri comunisti». Che ne pensa Asor? Integralmente sbagliate la cautela e la condanna fatte proprie dal Pci di allora? Replica articolata, ma chiara. «Era palese - dice - che quel movimento fosse in rotta di collisione culturale e politica con un partito che allora sperimentava una via ambiziosa e dalla logica ferrea: la cogestione del sistema con la Dc. E il tutto dopo le grandi avanzate elettorali del 1975 e del 1976. Avanzate che avevano condotto il Pci a pochi punti percentuali dalla Dc, e che avevano costretto quest’ultima, visto che non c’era maggioranza, a considerare l’idea di un condominio politico, con il Pci fuori dal governo». E allora, prosegue Asor, se la realtà era questa, se quelli i vincoli internazionali, se quella la logica del sistema politico, «lo scontro con la galassia giovanile di sinistra era inevitabile. E con una galassia di esclusi oltretutto, che a differenza dei giovani del 1968 non avevano in sé la cultura e le categorie del movimento operaio».
Dunque, nessuna mediazione era possibile? Nessuna apertura? Nessuna capacità di inglobare quell’insorgenza? E ancora: che tipo di insorgenza era, da un punto di vista sociale? Risponde ancora Asor: «Era una ribellione piccolo borghese e di massa, agita da una sorta di nuovo semiproletariato intellettuale stazionante dentro l’università, che aveva spalancato le sue porte sotto la spinta operaia e studentesca. E lo dico, sia chiaro, senza nessun moralismo aristocratico. Occorreva capire che si trattava di un processo schiuso dalla stagione del 1968, dalle stesse lotte sociali di dieci anni prima. E soprattutto dalla stessa imponente avanzata del Pci. Invece prevalse il muro del “compromesso storico”, e poi l’involuzione della violenza brigatista». Insomma per Asor il Pci di quegli anni accreditava l’idea di «una società bloccata a controllo totale», in condominio con l’altra forza chiave, la Dc. Società senza sbocchi politici, e che incoraggiava di fatto velleità violente. Senza dubbio, e Asor ci tiene a precisarlo, quella del compromesso storico e della connessa «austerity» - specie di keynesismo berlingueriano - «costituivano una strategia alta». Ovverosia, «erano il massimo limite raggiungibile - sia in chiave di proposta che di autolegittimazione - che una forza politica comunista potesse raggiungere in occidente». E tuttavia, continua Asor Rosa, «io non fui d’accordo con quella linea, perché reputavo che fosse un vicolo cieco. Non portava il Pci al governo, e non dava sbocco alla sua forza, lasciandolo inerme dinanzi all’attacco reazionario, che pure vi fu negli anni di piombo».
D’accordo, ma di là degli errori di «settarismo» e di ingenuità - l’errore di far entrare Lama nell’Università occupata - che cos’altro si poteva mettere in campo dinanzi a quell’esplosione che veniva di lontano, come lei dice? «Intanto ci voleva un’analisi diversa di quel movimento, e del sostrato sociale sotteso. Un’attenzione specifica. Ma soprattutto occorreva offrire una concreta sponda politica all’onda montante. Parlo di una prospettiva di alternativa a sinistra, l’unica capace di rappresentare uno sbocco, in quelle condizioni». E sia professore, il suo non è «senno del poi», visto che proprio quella fu allora la sua posizione. Eppure non ha appena detto che il compromesso storico era altresì la frontiera più avanzata che un partito comunista in occidente potesse lambire? «Certo, ma il punto era esattamente quello: superare la frontiera. E mettere all’ordine del giorno la possibilità di oltrepassare la tradizione comunista. Delineare quindi una nuova identità di sinistra, ben piantata, nelle nuove condizioni, sul movimento operaio e sui ceti subalterni, ma inedita e sostenibile in occidente». E in effetti proprio a questo progetto tentò di lavorare Asor Rosa tra fine anni 70 e anni 80 con la rivista Laboratorio politico (c’erano Tronti, Cacciari, Accornero, Bolaffi, Marramao), tesa a un riformismo di massa, di sinistra, neosocialista (non craxiano, ma anti) e alternativo al sistema politico bloccato (anche dalla perdurante identità comunista di allora).
Progetto fallito, malgrado le speranze del 1989 e malgrado il Pds, che a questo doveva servire. E ritardo destinato a pesare ancora oggi, per Asor Rosa, «in un momento in cui l’idea del partito democratico, oltre che allontanamento da quel compito, è anche a mio avviso deriva e sradicamento dalla prospettiva di una sinistra autonoma, forte e radicata».
Ma torniamo al 1977, e alla violenza terrorista, che in qualche modo ne fu l’epilogo amaro. «Nel 1977- dice Asor - allorché la contrapposizione al Pci e al sindacato si fece totale, il passaggio alla lotta armata non fu più un tabù riservato a poche avanguardie militarizzate. Divenne a suo modo di massa. Cosicché l’anticomunismo di sinistra si saldò a quello di destra. E il fallimento dell’ultima operazione politica del mondo uscito dall’antifascismo e dalla Resistenza - il compromesso storico - genera una tenaglia estremistica: tenaglia della destra e della sinistra». Infine, un’ultima notazione, di nuovo sulla mentalità e sulla cultura di quegli anni. Dalla riscoperta di Nietzsche, alle radio libere, alla creatività, al libertarismo «foucaultiano» e «deleuziano», alla rivalutazione del corpo e del femminismo. Ebbene, benché poi riciclate con segno diverso, e in un’altro contesto, tutte quelle istanze non hanno anche rinnovato il costume e la sensibilità dei nostri anni? «Con tutta franchezza e a decenni di distanza da quel periodo, direi intanto che ricordo quegli anni con enorme tristezza. Li ricordo come anni plumbei, di sconfitta. O almeno come inizio della sconfitta. E infatti il Pci si involve all’opposizione: battuto, isolato, come negli anni 50. Il tutto mentre avanza il craxismo. Quanto al libertarismo e al mutamento di costume, direi che i veri presupposti di quel che esplode nel 1977 stanno nel 1968. Fu quella la vera data spartiacque ed è lì che si piantano i semi di quella gigantesca rivoluzione del costume che investirà da cima a fondo la società italiana, non nel 1977».

venerdì 19 gennaio 2007

Repubblica DIARIO 19.1.07
Il Settantasette quando nei cortei spuntò la P38
Trent'anni fa il terrorismo prendeva il sopravvento
di Adriano Sofri


Gli scontri studenteschi, i gruppi, armati e non, e la violenza che montava
Un movimento diviso tra velleità creative ed estremismo rivoluzionario

«Ci tolgono la gioia, ci tolgono la vita... ». Migliaia di giovani ebbero nel '77 un'iniziazione travolgente, di cui serbano un ricordo geloso, come di qualcosa di riservato, incompreso o violato da chi non c'era, da chi era contro. Non feci allora gran conto delle rivelazioni teoriche, l'operaio sociale e il pensiero desiderante e il resto. Mi impressionava invece l'attaccamento intenerito e spaventato a una vita comune, separata e irriducibile a quella del mondo ufficiale e adulto: una comunità che si rannicchiava nel suo territorio, l'università e le scuole, certe piazze di quartiere e case occupate, e ne usciva come si azzarda una sortita in uno stato d'assedio, e non voleva cambiare il mondo, ma tenersene uno per sé. Di quella comunità romantica in modo adolescente, composta per tanta parte da adolescenti veri, le espressioni migliori si trovano nelle fotografie di Tano D'Amico e nell'effusione delle famose lettere a Lotta Continua, che allora leggevo con esasperazione. Anche la breve allegria, la dissacrazione del mondo ufficiale scemo-scemo, aveva un'aria di comunità a parte, di riserva indiana, appunto. Non aveva voglia, quel movimento, di conquistare il potere e nemmeno di guadagnare alla propria causa la maggioranza, ma di mettersi in proprio. La Repressione fu il suo spettro: non che mancasse la repressione concreta, ché anzi Francesco Cossiga, bersaglio lui stesso di un odio smisurato, sostenne con un oltranzismo infantile il ruolo di duellante, e andò a occhi chiusi al suo appuntamento con la tragedia.
La moltitudine di ragazze e ragazzi che fino all'inizio del '77 erano restati in aspettativa altrove, o non avevano ancora raggiunto l'età per mettersi in corteo, si riconobbe unita da qualcosa – disoccupazione giovanile, massificazione scolastica, ma sono razionalizzazioni prosaiche di un più sfuggente senso di esclusione e di misconoscimento – e subito si sentì minacciata da un Potere che la odiava e la scandalizzava con la morte dei giovani.La morte diventò compagna di quella nuova comunità, e la diede in pegno al vecchio gioco della violenza.
Lotta Continua si era sciolta. In realtà, continuava a esserci, ma con un impulso a ritrasformarsi nel "movimento" - non c'ero più io, smesso. Negli altri gruppi c'era un irrigidimento conservatore e una smobilitazione militante. Il quotidiano di Lc moltiplicò la sua influenza, pagando un doppio scotto: di una reticenza sulle malefatte nel "movimento", e di una esposizione al ricatto dei suoi reparti maneschi. In quel vuoto l'Autonomia operaia e i gruppi che avevano già fatto il passo della clandestinità terrorista ebbero a portata un frutto insperato, e ne fecero un boccone. Non fu affare di ideologia: la loro era poco attraente. Nemmeno di efficienza e brutalità organizzativa, che c'era, ma respingeva le persone, salvo sequestrarle nei momenti dello scontro fisico. Il movente era in quella sensazione di malvagità del potere, di invidia dei giovani e della loro voglia di amicizia e di felicità. Le nuove reclute conoscevano le prime vittime, i primi picchiati o incarcerati, e bisognava votarsi alla solidarietà con loro, disporsi a emularne la pena. Su questo sentimento si innestava il martirologio antico, la sequela dei caduti di cui si imparavano i nomi, i compagni carcerati, lo Stato, la Repressione. Un movimento, anche il più ingenuo e innocente, che non sia educato alla nonviolenza, non si sottrae alla stretta fra violenza repressiva e violenza dello scasso. (A Genova nel 2001 successe di nuovo, e si sono già perdute le molotov d'ordinanza).
La partita si giocò il 12 marzo a Roma. Alla vigilia, a Bologna, Francesco Lorusso, 25 anni, studente di Lotta Continua, era stato ucciso dalla pistola di un carabiniere, a ridosso di un'incursione, malaugurata ma innocua, di militanti di sinistra in un'assemblea di Comunione e Liberazione, cui non aveva partecipato. La manifestazione fu enorme, e si misurò con uno schieramento di polizia a sua volta enorme. Blindato l'accesso a via Nazionale, prevalse la volontà di far valere la forza politica del corteo, che scese per via Cavour. Quando già la testa era a largo Argentina, un gruppo, facendosi scudo di uno spezzone composto da donne, attaccò con le molotov la sede della Dc e la polizia schierata. Le forze dell'ordine, o almeno i loro capi, non aspettavano altro. La città a ferro e fuoco: centinaia di feriti, arrestati, vetrine infrante, auto (utilitarie per lo più) incendiate o sfasciate, armerie svaligiate, sparatorie, caccia all'uomo. Nella gran parte dei manifestanti restò un senso di frustrazione e di inganno. Ma nemmeno quella amarezza bastò a rovesciare il tavolo. Si sentì di muoversi in un vicolo cieco, senza il coraggio di una ritirata, che un ricatto facile faceva passare per diserzione. Nemmeno il giornale di Lc usò parole abbastanza nette. Non che non le pensasse: ma si lasciò a sua volta legare dal senso di responsabilità. Voleva stare dentro il movimento per scongiurarne la resa ai feticisti della violenza e ai reclutatori della lotta armata. Nel corso dell'anno, il giornale arrivò alla rottura piena con l'idolo dell'"unità del movimento", più drammaticamente quando fu ammazzato Carlo Casalegno a Torino. Quella Lc trasfusa nel "movimento" lo convogliò nel convegno di settembre a Bologna e ne sventò un ulteriore esito violento, e ottenne anzi una piccola ricucitura negli strappi che avevano contrapposto la città "comunista" ai giovani, di cui il funerale di Lorusso lividamente confinato in periferia fu la macchia peggiore. Ma dal vicolo cieco il "movimento" non sarebbe più uscito. Il resto dell'anno riservò altri ammazzamenti, e "gambizzazioni" - neologismo d'annata - e attentati e scontri e Giorgiana Masi e odio e rancore senza fine. Gli adolescenti che avevano Aldo Moro.
Fuori gioco, seguivo con trepidazione i miei compagni che si prodigavano per tenere le cose di qua dal precipizio – Alex Langer nella famosa foto, accucciato con le mani giunte accanto al poliziotto che giace in strada colpito il 2 febbraio 1977, Marco Boato che sfida la minaccia teppistica nel Palasport di Bologna, Enrico Deaglio che risponde alla "condanna a morte"» fornendo i percorsi delle sue giornate. Il corteo del 12 marzo lo seguii dai bordi. A un angolo di via Cavour mi intrattenni con Umberto Terracini, trepidante per il più piccolo dei suoi figli, che tante volte mi aveva raccomandato. Massimo aveva allora vent'anni, è morto nel 1995. Ero persuaso che bisognasse impedire che il retaggio dell'estremismo politicante e filoterrorista si saldasse con la nuova leva militante, nel vittimismo e nel lutto. Che fosse essenziale, prima del diluvio, dare un segno di svolta e disarmare la retorica del complotto e del martirio con un'amnistia per tutti, sinistra e destra. Sentendo di essere alla vigilia del diluvio, fare come se si fosse all´indomani del diluvio. Liquidare una partita, perchè la prossima non si caricasse del debito antico. «Vuoi tirare fuori Curcio?», mi chiedevano. Volevo: se non altro, avrebbe impedito ai ragazzi in corteo di gridare, senza sapere perché, "Curcio libero". Qualcun altro rivendicava l'amnistia politica per "i compagni prigionieri", dagli autonomi a Guattari, ma era una parola d'ordine agitatoria, come gridare "Curcio libero". La mia speranza era irrealistica. Questo non toglie che mi interroghi sui suoi eventuali effetti. C'è sempre quel tornante dell'assassinio di Moro, a fare da pietra di paragone.
Il '77 si porta dietro la sensazione soffocante di un angolo in cui si resta inchiodati, senza scampo. Però le cose non sono ineluttabili come diventano una volta consumate. Che cosa sarebbe successo se il Pci non avesse deciso di cercare la prova di forza, se il 17 febbraio Luciano Lama - piuttosto l'esecutore incauto di quella decisione - non fosse andato a sfidare il movimento alla Sapienza? Su questo giornale Eugenio Scalfari commentò l'errore di Lama. Ci sono errori che costano molto cari. Quella giornata scavò fra il movimento operaio e i giovani un fossato mai più colmato. Da parte di professionisti del realismo, fu una prova di imprudenza micidiale. A distanza di tre anni, fu ripetuta a Mirafiori con il comizio di Berlinguer che, a domanda, ammise con un involuto imbarazzo l'appoggio all'occupazione, e il messaggio fu che aveva incitato a occupare. La marcia dei cosiddetti 40 mila fu poi l'equivalente del 12 marzo romano. Due tappe essenziali nella destituzione della classe operaia in Italia.

Repubblica 19.1.07
Un paese diviso e spaventato
Il paese delle urla e delle rivoltelle
di Giorgio Bocca


Per Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse, quel '77 gli piombò addosso come una slavina di giovani selvaggi. Fu qualcosa di imprevedibile

Al megaconvegno contro la repressione a Bologna si andò con la famiglia intera: mia moglie e io all'hotel Jolly, matrimoniale con bagno, i tre figli adolescenti sotto i portici dell'università con i sacchi a pelo. Si diceva che erano arrivati a Bologna in sessantamila: l'Italia ribollente della contestazione, più parole che rivoltelle, che faceva da coro all'avanguardia rivoluzionaria delle Brigate Rosse, molte parole ma anche qualche rivoltella. E subito l'impressione di una festa giovanile più che di un'adunata sediziosa, subito l'impressione che si era lì per divertirsi più che per combattere. Così del resto era avvenuto tutto l'anno. Sì c'erano i brigatisti e i gambizzati, i Prima linea irresponsabili e feroci e ogni mattino fra le otto e le nove c'era l'ora in cui l'uomo-simbolo, la vittima esemplare, poteva cadere sull'asfalto di una strada, nel suo sangue ma la tragedia si mescolava sempre alla festa, alla vacanza; quelli di Prima Linea "staccavano" per andar a sciare al Sestriere, i brigatisti rossi emiliani andavano a Spigarolo per provare i nuovi culatelli e a Bologna al megaconvegno si andava per la politica ma anche per lo scontro teatrale fra studenti anarcoidi e militanti del Pci che era una cosa seria ma sembrava un po' una storia come La secchia rapita. Quei tumulti metà veri e metà recitati piacevano molto a tutti, facevano parte di quelle lotte civili che sono la passione degli italiani, quelle guerre in cui tra una battaglia e un agguato torni a casa per dormire nel tuo letto.
Bologna era al centro di quella tragicommedia esplosa il 12 marzo di quel burrascoso '77. Al centro della città si è formata una sacca di rabbia e di scontento: migliaia di giovani di sinistra che dopo uno scontro con i cattolici di Cl partono in corteo diretti a Piazza Grande. I carabinieri cercano di fermarli, parte un colpo di moschetto e colpisce a morte lo studente Francesco Lorusso di Lotta continua. È la rivolta. I giovani danno fuoco al "Cantunzein", il ristorante dove il professor Zangheri sindaco della città invita gli stranieri che vengono a visitare il "miracolo rosso" di Bologna, il comunismo ricco, la grande trovata del "capitalismo gestito dai compagni". Da lì l'idea della sinistra radicale di fare proprio a Bologna un maxiconvegno contro la repressione. Ne nasce qualcosa di veramente maxicomprensivo di tutta l'Italia intellettuale e politica di allora. Tutti vengono a Bologna alla ricerca della loro identità, che in sostanza rimane l'identità della italica borghesia, ma che tutti vogliono mascherare, rifiutare, deformare. È una colossale commedia degli equivoci che il popolo bolognese dei negozianti e dei ristoratori capisce al volo ricevendo fraternamente i "sovversivi" in cui riconosce i figli che ha mandato all'università perché diventino anche loro dottori, professori. I promotori del maxiconvegno nati e vissuti in Bologna la dotta vogliono la rivoluzione ma anche il corpo accademico, invitano avvocati democratici, psichiatri, magistrati, giornalisti a patto che accettino gli sberleffi e gli "scemo" della base movimentista, vogliono ospitare lo spontaneismo giovanile ma nel rispetto della buona cultura, si rivolgono a una classe operaia immaginaria mentre quella vera, presente a Bologna in carne e ossa sta nei servizi d'ordine delle aziende municipalizzate. Ha risposto bene il sindaco professore ai giovani del convegno che si presentavano come occupanti di Bologna: «Ragazzi, l'abbiamo occupata già noi del Pci».
La città risolve da sola i problemi della coesistenza con i bravi ragazzi che si dicono rivoluzionari. Trasforma l'invasione in affare. Il resto lo fanno gli intellettuali che recitano se stessi, la Maciocchi, Dario Fo, Felix Guattari, Alain Guillaume che fraternizzano con Mimmo Pinto leader dei "disoccupati organizzati" arrivato da Napoli.
Bologna invasa ricorda un po' la battaglia di Alesia del divo Cesare, gli eserciti in campo sono l'uno dentro l´altro assedianti assediati. Potrebbe succedere che un autonomo vestito da poliziotto spari sugli studenti come che un poliziotto vestito da autonomo spari sui carabinieri. Del resto anche i giovani che protestano contro la repressione si sono già divisi fra radicali e moderati. Gli intellettuali, i riformisti, i garantisti si ritrovano a discutere all'università e nei vecchi palazzi forniti dal municipio comunista mentre i duri, quelli venuti a Bologna per menare e magari per sparare, si ritrovano al palazzetto dello sport, i Volsci romani, gli autonomi di Padova, quelli di Potere operaio, quelli di Senza tregua e di Prima linea che urlano "Curcio libero".
Ma nello schieramento concentrico ci sono anche diecimila poliziotti che circondano il palazzetto dello sport senza attaccarlo e attorno ai poliziotti nella periferia della città il governo ha mandato anche i soldati dell'esercito per essere ben sicuro che il vulcano non esploderà. Anche gli studenti giovanissimi delle scuole medie si sono riuniti in un teatro, sono gli ascoltatori di Radio Alice del rivoluzionario Bifo, giovane e divertente che ho preso in giro sul giornale. Entro nel teatro e mi riconoscono. Sale un coro più scherzoso che minaccioso: «Radio Alice non si tocca, sequestriamo Giorgio Bocca». Forse ci sono anche i miei figli a ritmare la filastrocca.
Il '77. Dice Renato Curcio il fondatore delle Br: quel '77 ci è piombato addosso come una slavina di giovani selvaggi. "Slavina" è la parola giusta. Il Movimento, come lo chiamano, è qualcosa di imprevedibile, di inarrestabile. Le Br cercano disperatamente di chiudergli le porte avendo capito che ne sarebbero travolti, una chiusura totale, maniacale, disperata. Il nucleo storico ma anche Moretti e Fenzi, i brigatisti nuovi della O, l'organizzazione che viene dopo il primo slancio rivoluzionario, capiscono a tatto, a odore, a istinto o prima che a ragione che la slavina giovanile è qualcosa di anarcoide che ha tagliato i ponti con la storia di famiglia, con il partito comunista, con gli operai, con la disciplina leninista, con i pugni di acciaio. Ricorda il brigatista Ognibene: noi dal carcere ci rendevamo conto che non saremmo mai riusciti a controllare quella leva giovanile. Nel '77 ogni possibilità di costituire un partito era caduta, le forze sociali in movimento erano troppo composite, i nostri legami con l'esterno erano stati sommersi dalla quantità di lotte ambigue e mutevoli. A un certo punto fra noi del gruppo storico si arrivò a dire: «Compagni noi le Brigate rosse le abbiamo fatte, potremmo anche disfarle».

Repubblica 19.1.07
I libri
La città emiliana fu l'epicentro per tutto il movimento
dentro il precipizio di Bologna la grassa
di Michele Serra


Nel settembre di quell'anno, Bologna si riempì di giovani e intellettuali, arrivati dall'Italia e dall'Europa, per una specie di folle happening rivoluzionario

Manca a certificarlo una fotografia di Robert Capa. Ma pare proprio che il carrello dei bolliti del ristorante "Cantunzein", appena svaligiato, abbia fatto la sua parte nei tumulti attorno a piazza Verdi, pieno centro di Bologna. Tra le armi proprie e improprie di quegli anni, e di quell'anno in particolare, sarebbe bello potere ricordare solo quella: l'icona di una rivoluzione dadaista.
Il carrello sulle barricate è l'immagine più diffusa della vulgata postuma sul Settantasette bolognese. E rappresenta bene l'attitudine teatrale, giocosa, beffarda di una delle anime di quella rivolta rimasta molto local nonostante sia stata goffamente globalizzata da un celeberrimo e surreale intervento di intellettuali francesi, compreso il vecchio Sartre, che promossero la povera Bologna a "capitale mondiale della repressione". (Soltanto il cardinal Biffi, vent'anni dopo, riuscirà a dare di Bologna un'immagine perfino più incongrua e sopra le righe, definendola "sazia e disperata": quando si dice gli opposti estremismi...).
Ma in Italia - altro che dadaismo - si sparava. Ci si ammazzava per la strada, in un crescendo di agguati e regolamenti di conti che hanno avuto per soli emuli, in questo paese, le guerre di mafia. In quei giorni del marzo bolognese lo studente Francesco Lorusso venne freddato sotto i portici dai colpi della polizia. Fu l'anno in cui caddero a Roma Giorgiana Masi, sempre per mano di agenti di Stato, a Milano l'agente Custrà ucciso dagli autonomi, a Torino Casalegno dai terroristi rossi. La P38 era il ripugnante feticcio di una parte minoritaria ma ancora molto contigua della sinistra rivoluzionaria: un pistolone da gangster-movie la cui sagoma omicida veniva mimata a mani nude nei cortei di autonomia.
Il movimento del Settantasette fu strenuamente radicale: in tutto. Nei suoi ribaltamenti linguistici, nel ribollente rifiuto delle convenzioni e perfino del senso della politica; ma anche nella drasticità inappellabile, davvero "estrema" (nel senso che, un passo più in là, non c'era più niente, anzi c'erano la morte della politica e il Riflusso) di molti suoi atti, di molte sue istanze, collettive e individuali. A differenza del Sessantotto, che era stato pura politica, e si era posto la questione del potere fino a diventare quasi la parodia del comunismo dei padri, con piccoli Politburo di ventenni che questionavano di strategia e di tattica, il Settantasette fa semplicemente a pezzi la politica tradizionale, o forse la politica tout court. Parla di "desideri" e non più di bisogni sociali, ignora oppure spregia la questione del potere e dell'egemonia, esalta il soggetto "desiderante", la libertà incondizionata, assoluta, non veicolabile da nessuna autorità. Si fa beffe, anarchicamente, di qualunque forma istituzionale abbia assunto, fin lì, la politica. Inevitabile e fatale il cozzo frontale con il Pci, il sindacato, la sinistra storica, la morale e il moralismo del movimento operaio, l'addolorata prudenza berlingueriana. "Noi odiavamo i comunisti", scrive Lucia Annunziata del suo libro 1977.
Insieme all'assalto al palco di Luciano Lama, all'Università di Roma, la sommossa bolognese fu l'altra conferma, forse perfino più rilevante, della natura anti-comunista (letteralmente) di quel movimento di studenti: circostanza che fu notata, e lodata, anche sul Corriere della Sera. La città allora simbolo del comunismo riformista era anche il simbolo dell'imborghesimento di una classe dirigente e di una base sociale orgogliose delle loro conquiste e della loro egemonia. Perbeniste, moderate, in fin dei conti soddisfatte: imperdonabile e odiosa condizione, la soddisfazione, per quella piccola moltitudine di giovani che incarnava con una foga quasi visionaria, quasi dolorosa, la smania di desiderare, di sperimentare, di godere.
Quell'ostentato sporgersi oltre il limite, verso il precipizio, che è tipico di molte adolescenze, in quel momento, in quel movimento, diventa una specie di anima collettiva: un'esperienza bruciante da consumare tutta intera, tutti insieme e subito, comprese le evidenti pulsioni di morte, di consunzione strenua, e pazienza se dopo rimarranno solo le ceneri. Il movimento è insieme generoso (perché non fa calcoli) e masochista (perché non fa calcoli). La politica è poco, la politica è stretta per istanze e parole d´ordine che sono squisitamente esistenziali, identitarie: i "desideranti" non sanno che farsene di conquiste sociali che si esauriscono nel decoro dei padri operai e delle loro cooperative. La fatica e il sangue che quelle conquiste popolari costarono non riesce minimamente a pesare nello scontro convulso di quei giorni, a calmierarlo. Il Pci bolognese consuma la sua onta facendosi sempre più Stato, chiudendosi astiosamente (odio che risponde a odio) e appoggiando sostanzialmente la repressione dei moti. Ci vorranno molti anni, in città, per ricucire almeno in parte quella ferita: in buona parte grazie alla rimozione.
Nel settembre di quell'anno Bologna si riempì di giovani, arrivati da tutta Italia, per una specie di folle happening rivoluzionario "contro la repressione", con gli immancabili intellettò francesi. Non accade niente di particolarmente sgradevole, semmai qualcosa di divertente: per esempio una discussione pubblica se fondare o non fondare un nuovo partito armato, alla presenza dei giornalisti e probabilmente di qualche decina di agenti in borghese. Tutto si disfa in fretta, smobilita, cessa di essere politica (nella misura in cui è riuscito ad esserlo) e diventa memoria personale. Il Settantasette finisce nel 77: poca cosa. Di lì in poi, parleranno da un lato le armi dei brigatisti, dall'altro una placida, irresistibile restaurazione, che sostanzialmente dura fino ai giorni nostri e della quale non si incaricarono né lo Stato e neanche l'odiato Pci: più banalmente, è avvenuta ad opera del consumismo, della televisione, del conformismo sociale.
Di quel vitalismo irriducibile resta molto controversa, anche oggi, un'interpretazione politica: l'autodefinizione del movimento fu di sinistra estrema, e si deve prenderla per buona. Anche se per l'opinione marxista classica si trattava di velleitarismo piccolo-borghese. Ancora più complicata la discussione se si prova a ragionare sui "desideri" e i "desideranti" con il senno di poi, cioè il nostro: cinicamente, potremmo dire che molti dei desideri che l'ottuso Pci non seppe e non poté esaudire (né reprimere) li ha abbondantemente esauditi il Grande Fratello nel prosieguo dell'epoca...
Non è un caso, comunque, se le tracce più convincenti di quel periodo, le più visibili, le più tipiche e anche le più apprezzabili, sono impresse nella memoria artistica e culturale e non in quella politica. Restando nella sola Bologna: la stagione del rock demenziale, il cabaret surreale del Gran Pavese, un fiorire notevole di scrittura e scrittori, il fumetto d'avanguardia e soprattutto il geniale lavoro di Andrea Pazienza - morto per droga poco più che trentenne - che seppe raccontare con furore quasi céliniano (ma allegro! diamine!) i giorni e soprattutto le notti di quei gruppi di studenti famelici di vita, allucinati dalle droghe, disperatamente amorosi.
Il vitalismo e soprattutto il narcisismo sono, in politica, vizi capitali, anche se magari schiudono le porte del potere individuale meglio e più in fretta, come è avvenuto, del resto, per molti degli ex rivoluzionari di quegli anni. Ma dell'arte, il narcisismo è spesso alimento, ragione fondante. Purtroppo non tutti da quelle parti, e in quell´anno, erano artisti.

Paul Ginsborg: I giovani del movimento del '77 differivano radicalmente dai loro idealisti e ideologizzati predecessori del ‘68.
Vittorio Foa: Il mito della centralità operaia, dell´operaio forte che con le sue vittorie cambia il mond era già contestato "da sinistra" nel 1977
Jean-Paul Sartre: Da febbraio l'Italia è scossa dalla rivolta dei giovani proletari, dei dimenticati dal compromesso storico e dal gioco istituzionale
Giorgio Amendola: Queste anime nobili che protestano per Radio Alice, mi fanno pensar a quelli che, tra il '20 e il '22, degli squadristi dicevano "teste calde"

Repubblica 19.1.07
La frontiera del riformismo
di Tony Blair


Solidarietà, giustizia, uguaglianza: erano i valori in cui credevamo noi progressisti, e lo sono ancora. Ma il mondo in cui quei valori si sono formati è profondamente cambiato. Era un mondo di classi sociali nettamente differenziate, di produzione di massa, di uomini d'affari in doppio petto, di grandi aziende rigidamente distinte dalle piccole. Oggi quel mondo si è trasformato al punto da risultare irriconoscibile. La produzione di massa non esiste più negli stessi termini, tecnologia e globalizzazione hanno reso necessario un costante riadattamento al mercato, un grande business può improvvisamente scomparire e uno piccolo diventare grande con altrettanta rapidità. La parola d'ordine è diventata «liberalizzazione». Per qualcuno, nella sinistra europea, questa è una parolaccia. Eppure descrive il modo in cui vivono e lavorano gli uomini e le donne del nostro tempo.
Un nuovo modello sociale europeo, per fare i conti con questo mondo, deve basarsi di meno sulla protezione dei cittadini e di più sullo sforzo di dare alla gente il potere di controllare le proprie vite. Per realizzare un obiettivo simile, una buona istruzione per tutti è il singolo elemento più importante. Ma non è il solo. Siamo di fronte a una classe sociale in continua espansione. Una classe che io definirei la classe di coloro che aspirano a un maggiore benessere, a un'elevazione della propria condizione sociale, e che perciò è meno tollerante nei confronti della criminalità, più preoccupata per la propria sicurezza, più attenta ai benefici ma pure ai problemi creati dall'immigrazione.
Se le forze progressiste d'Europa non capiscono questo, allora i valori su cui è basato il nostro credo politico, i valori di solidarietà, giustizia, uguaglianza, non servono a niente; allora le forze progressiste diventano forze conservatrici, interessate a difendere uno status quo anziché a innovare. Può anche darsi che, così facendo, riescano a farsi eleggere al governo: ma non riusciranno a restarci a lungo perché non sapranno dare risposte alle aspirazioni della maggioranza. E se c'è una cosa che ho appreso dalla mia esperienza personale, è che un leader e un partito possono attuare i cambiamenti che hanno in mente solo se rimangono al governo per un periodo prolungato di tempo.
Tutto ciò è facile a dirsi, ma difficile a farsi. In Gran Bretagna le forze progressiste ci sono riuscite: hanno vinto tre elezioni consecutive, ora hanno buone possibilità di vincere una quarta volta. Come è stato possibile? Imboccando la Terza Via, che non era una via di mezzo tra conservatorismo e progressismo: era uno stato d´animo, un modo di essere. Alla cui base c'è un concetto fondamentale: ascoltare la gente, non se stessi. Non per diventare prigionieri del populismo, ma semplicemente perché prima viene la gente e poi veniamo noi, i politici di professione, i militanti, gli attivisti. Ascoltare il desiderio di compassione sociale della gente, ma anche il desiderio di avere successo, di elevarsi, di crescere socialmente. Se non lo faremo, non sorprendiamoci se la gente si rivolge alla destra per ottenere risposte. La destra, in Gran Bretagna, oggi è in uno stato politico confusionale. Ci attacca, ma non sa cosa proporre, né su quali principi assestarsi. I Tory sono confusi per una precisa ragione: perché noi abbiamo occupato il centro. Ed è un centro che si muove continuamente. Se lo abbandoniamo, i Tory riprenderanno terreno.
Dunque dobbiamo essere coraggiosi, non timorosi. Certamente non dobbiamo pensare soltanto a questa classe che aspira a un maggiore benessere, ma non possiamo nemmeno schierarci contro di essa. Il futuro del modello sociale europeo continua a essere fondato sui nostri valori tradizionali, ma dipende dalla nostra capacità di cambiare insieme al mondo in cui viviamo. I partiti progressisti continueranno naturalmente ad avere bisogno dei loro militanti, ma io penso a partiti che rispondano soprattutto a quelli che vorrei chiamare i nostri «azionisti» più che ai nostri attivisti: gente che ci vota e ci assegna la fiducia perché sa di poter ricevere in cambio quello che chiede.
Facciamolo e potremo rimanere partiti di governo per lungo tempo. Senza abbandonare i nostri valori, ma imparando a farli funzionare nel mondo moderno. Impariamo a coniugare insieme aspirazioni e compassione. Se un mondo più individualista contrasta con la nostra visione di progressismo, allora secondo me abbiamo un problema: perché non c'è niente di male nell'individualismo, nel mondo d'oggi la gente vuole più individualismo, significa maggiore controllo della propria vita, maggior capacità di scegliere, maggiori opportunità. Non c'è nulla di male nemmeno nel materialismo: la gente vuole più beni materiali, è normale, a patto di ricordarsi, come forze progressiste, di salvaguardare coloro che hanno di meno. La distinzione tra noi e la destra sta appunto in questo: i progressisti si battono affinché la maggiore libertà di scelta si espanda il più possibile, affinché non siano solo i più privilegiati a beneficiarne. Ritorno al punto iniziale, fondamentale: non dobbiamo essere noi politici a dire alla gente quello che deve volere, dobbiamo ascoltare la gente, lasciare che sia la gente a dirci ciò che vuole e capirla. I progressisti, nell'Europa odierna, devono porsi sulla frontiera del cambiamento continuo. E su quella frontiera devono restare.

(dal discorso del premier britannico al convegno "Britain and Europe in the global age", organizzato a Londra dalla fondazione Policy Network)


Repubblica 19.1.07
L'ansia di sapere chi siamo davvero
di Umberto Galimberti


Non ci sarebbe tanta inquietudine se un valore comparisse nell'età della tecnica
Eugenio Scalfari sull'Espresso è intervenuto sul tema cruciale della nostra identità in un'epoca di grandi cambiamenti
Si sono infatti indebolite tutte le appartenenze culturali, ideologiche, famigliari, religiose e sessuali che ci connotavano

Eugenio Scalfari, sull'Espresso del 18 gennaio, interviene su un tema che entrambi consideriamo molto importante e che potrebbe essere formulato così: che ne è della nostra identità, oggi, in cui assistiamo all'indebolirsi di tutte le appartenenze territoriali, culturali, religiose, ideologiche, familiari, di genere, sessuali, che finora hanno costituito il perimetro, all'interno del quale, si è costituita, è cresciuta, ha preso forma la nostra identità?
Non stiamo diventando anime perse, senza punti di riferimento, che vagano come naufraghi nel mare di quella malintesa libertà che, svincolata da tutte le appartenenze, ritrova se stessa nella semplice possibilità di revocare tutte le scelte, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti, senza la possibilità di costruire una vera biografia?
Entrambi conveniamo che questa è la tendenza del nostro tempo, determinata dai processi di de-territorializzazione indotti dalla globalizzazione e dai processi migratori; dal relativismo culturale conseguente alla conoscenza delle altre culture resa possibile dall'enorme espansione dei mezzi di comunicazione; dal relativismo religioso per cui, chi aderisce a una fede oggi non giudica miscredente e tanto meno combatte chi aderisce ad altre fedi, preferendo, alla posizione di Ratzinger, quella relativista del vescovo del Quattrocento Niccolò Cusano, che giudicava le diverse religioni una semplice variazione di riti dell'unica religione («una religio in varietate rituum»).
Ancora, entrambi conveniamo che forse incominciano a trovare concreta attuazione i principi illuministici della libertà individuale e della tolleranza in ordine alle modalità di convivenza che possono assumere la forma della famiglia nucleare, allargata o di fatto, in ordine all'appartenenza di genere e all'orientamento sessuale, su cui più non pesano le condanne sociali di un tempo con conseguenti pratiche di emarginazione. Ma se è vero che, da che mondo è mondo, l'identità di ciascuno è stata determinata dalle reti delle proprie appartenenze che la definivano e la identificavano, che ne è della nostra identità oggi che tutte le appartenenze si indeboliscono, si smarginano, si contaminano, diventano ciascuna permeabile all'altra?
Io vedo nell'abbattimento dei confini, entro cui la storia finora ha «confinato» popoli e individui, una grande occasione in ordine non solo a una maggior attuazione del concetto di «tolleranza», su cui anche Eugenio Scalfari, conoscendo la matrice illuminista del suo pensiero, credo convenga, ma anche la possibilità offerta a tutti di costruire una propria identità senza la comoda protezione dell'appartenenza, e quindi un esser-se-stessi senza che nessun dispositivo territoriale, culturale, religioso, possa davvero codificarci.
Su questo punto Scalfari muove due obiezioni che vanno al cuore del problema. La prima è che «costruire un'identità deprivata delle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia», perché le appartenenze non sono solo comodi rifugi per chi non è in grado altrimenti di darsi un'identità, ma sono quelle basi culturali che, trasmesse da generazioni a generazioni, consentono a ciascuno individuo di non partire ogni volta da zero, e soprattutto di non «appiattirsi sul presente» che, senza passato e senza futuro, o come dice Scalfari «senza storia» finisce col non sapere come orientarsi, e soprattutto col non avere alcun punto di riferimento che non siano le occasioni del presente.
Vero. Ho sempre in mente un mio bravissimo studente, che dopo essersi laureato in Filosofia con un'ottima tesi, mi chiese se poteva concorrere per un dottorato. Alla mia osservazione che un dottorato in Filosofia non gli avrebbe dato, rispetto alla laurea, maggiori occasioni per inserirsi nel mondo del lavoro, mi rispose: «Lo so, ma almeno per tre anni faccio quello che mi piace e quindi sto bene». Appiattimento sull'assoluto presente, perché la formula del passato, che premiava con una carriera accademica i migliori, oggi non trova più attuazione, e il futuro non appare più come una promessa, ma come un'incognita, quando non come una minaccia.
La storia, fatta di presente, passato e futuro, sembra abbia perso la sua capacità di costruire identità, sostituita in questo dalla tecnica, che ha risolto l'identità di ciascuno nella sua «funzionalità» all'interno degli apparati di appartenenza che si incaricano di distribuire identità. Del resto che significato ha quel gran circolare di biglietti da visita, dove l'identità di ciascuno è data dalla sua collocazione all'interno dell'apparato di appartenenza, e dove il proprio nome e cognome acquista rilievo solo a partire dalla funzione che all'interno dell'apparato ciascuno svolge?
Nell'assegnare identità e appartenenza la tecnica ha sostituito la storia. E questo non è un inconveniente da poco perché, mentre la storia è percorsa dall´idea di «progresso» che porta in sé quel tratto «qualitativo» tendenzialmente indirizzato al miglioramento delle condizioni umane, la tecnica segue solo linee di «sviluppo» che segnano un incremento «quantitativo» molto spesso afinalizzato. Non ci sarebbe infatti tanta inquietudine, tanto stress, tanto consumo di psicofarmaci, tante domande circa il senso della propria esistenza, se un fine, uno scopo, un'idea, un ideale, un valore facesse la sua comparsa nell'età della tecnica.
Nasce da qui quel risveglio religioso che fa contenti gli uomini di fede, i quali promettono un senso al di là della terra. Ma è su questa terra che, sia io sia Scalfari, vorremmo trovare tracce di sensatezza, magari potenziando la cultura e quindi la scuola, dove la cultura si trasmette, affinché l'uomo non si rassegni a diventare un semplice ingranaggio nel meccanismo della tecnica, per giunta con qualche inconveniente e qualche inadeguatezza rispetto alle macchine che quotidianamente utilizza (Günther Anders, L'uomo è antiquato, Bollati Boringhieri).
E qui si affaccia la mia seconda proposta che invita ciascuno di noi, nel desertificarsi di tutte le appartenenze, a riprendere l'antico messaggio dell'oracolo di Delfi: «Conosci te stesso». A questo proposito Eugenio Scalfari interviene obiettando che, dopo aver seguito per molto tempo questo invito, è giunto alla conclusione (che potrebbe far impallidire tutti gli psicoanalisti) che questa conoscenza di sé è di fatto impossibile perché, scrive opportunamente Scalfari dall'alto della sua biografia: «Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l'io, la nostra mente a capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il «sé», cioè l'essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell'inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza».
Se la psicoanalisi facesse tesoro di queste considerazioni avrebbe una buona occasione per riattivare il proprio pensiero, oggi un po' pigro e stantio, abbandonare la propria pretesa, talvolta eccessiva, di trasformare o cambiare la condizione di quanti a lei si rivolgono, e indirizzare la conoscenza di sé là dove Nietzsche la indica: «Diventa ciò che sei». Prendi coscienza, nei limiti che ti è consentito, delle tue potenzialità e delle tue non idoneità, sviluppa le prime e rinuncia alle seconde, evitando di sognare di poter diventare ciò che non sei, perché attratto dai modelli che questa società ti propone e che non ti corrispondono.
«Diventa ciò che sei» potrebbe essere allora il modo di costruire un'identità nel deserto delle apparenze dovuto al defilarsi della storia, e nella coercizione in quell'appartenenza a cui la tecnica ci costringe, senza che noi ci si possa davvero identificare.
Riconosco che le mie, più che proposte, sono possibili vie d'uscita dal dominio incontrastato che la tecnica e l'economia, e non più la storia, sembrano esercitare nella nostra epoca. E perciò ringrazio Eugenio Scalfari per aver prestato attenzione a questo tema, che a me pare alla base delle ansie e anche dei dissesti esistenziali dell'uomo d'oggi. E di essere intervenuto con osservazioni perfettamente mirate che hanno consentito di approfondire il problema venendo così incontro all'inquietudine del nostro tempo in cui, per dirla con Hölderlin: «Più non son gli dèi fuggiti, e ancor non sono i venienti».

Repubblica 19.1.07
Come cambia il cervello di una madre
Una lezione oggi all'Auditorium
di Massimo Ammaniti


Le ricerche scientifiche illuminano il mondo della maternità e dello sviluppo infantile
Le modificazioni psichiche possono scivolare anche verso la patologia
Sotto la spinta degli ormoni la donna migliora le prestazioni e addirittura i suoi neuroni diventano più grandi
È durante la gravidanza che si attiva quello che è stato definito il "circuito cerebrale materno"

Pubblichiamo parte della "lectio" che Massimo Ammaniti terrà oggi all'Auditorium di Roma alle 15,30, nell'ambito del Festival delle Scienze

Se nel famoso e discusso quadro del pittore francese Gustave Courbet L'origine del mondo la creazione umana viene collocata nel corpo o meglio nei genitali femminili, la ricerca psicologica e neurobiologica più recente ha spostato l'attenzione sulla mente e sul cervello delle madri.
Nella storia della specie umana la maternità è profondamente cambiata, con tutta probabilità con l'acquisizione della posizione eretta, che ha favorito la cura e l'allevamento dei figli. Infatti, a differenza degli altri primati, con la posizione eretta il contatto e lo scambio visivo fra madre e figli sono divenuti quanto mai determinanti nella comunicazione e nella condivisione dei reciproci stati d'animo, confermato anche dal fatto che nell'occhio umano si può cogliere la direzione dello sguardo in quanto la pupilla e l'iride sono ben distinguibili.
Queste particolari capacità umane sono divenute via via più importanti per l'allevamento dei figli, dal momento che i lattanti, se sono relativamente immaturi sul piano motorio, sono allo stesso tempo precoci nello sviluppo delle competenze comunicative, requisito indispensabile per far parte della comunità umana. Per tal motivo le madri e i padri si preparano per molto tempo a prendersi cura e ad interagire con i figli fin dalla nascita accompagnandoli fino alle soglie dell'età adulta.
Già Freud, nel suo scritto del 1914 Introduzione al Narcisismo, aveva parlato della tendenza dei genitori «ad attribuire ogni perfezione al figlio» che viene al mondo, con la missione di mettere in atto i sogni e i desideri irrealizzati dei genitori, in altri termini un amore fortemente contrassegnato dal narcisismo. Ma nella maternità, come ha messo in luce la ricerca più recente di Daniel Stern, vi è anche un profondo cambiamento psichico in ogni donna, caratterizzato dall'emergere della costellazione materna. Dopo la fecondazione ogni donna, in modo più o meno consapevole, si comincia a chiedere se sia in grado di mettere al mondo un figlio e farlo crescere, se saprà amarlo rispondendo alle sue esigenze psicologiche e infine se sarà come la propria madre o addirittura più brava.
Durante la gravidanza si creano le condizioni perché una donna diventi anche madre e si prepari a pensare per due, ossia per quando si dovrà occupare del figlio ormai nato. In modo quasi sotterraneo ogni donna si comincia a vedere come madre e si costruisce un'immagine mentale del figlio, che in questa fase è solo una presenza all'interno del proprio corpo via via più evidente. Naturalmente ogni donna ha un suo percorso personale guidato da una sorta di navigatore mentale che ha preso corpo nei primi anni della sua vita, costituito dai legami di attaccamento con i propri genitori che adesso sono il riferimento essenziale nel diventare madre. Va segnalato che i legami di attaccamento che una donna ha avuto con i propri genitori permettono di predire, addirittura con una probabilità del 75%, l'attaccamento del figlio ad un anno, una trasmissione intergenerazionale che costituisce una sorta di deriva tipica di ogni famiglia.
Negli ultimi mesi di gravidanza il pensiero di ogni donna si focalizza sempre più sul figlio, uno stato mentale caratterizzato da preoccupazioni insistenti sullo stato di salute del figlio che obbligano la donna ad occuparsi del figlio e di se stessa e verificare che tutta proceda nel migliore dei modi. Si tratta di uno stato psichico specifico - «quasi una malattia» - descritto dallo psicoanalista inglese Winnicott, ossia la preoccupazione materna primaria. Si è parlato fino ad ora quasi esclusivamente della madre, ma anche il padre compartecipa, oggi ancora di più rispetto al passato, all'attesa e alla nascita del figlio e anche lui manifesta le stesse preoccupazioni, anche se meno intense.
Proprio in queste ultime fasi della gravidanza e subito dopo la nascita del figlio vi è il rischio che queste modificazioni psichiche comportino uno scivolamento verso la patologia: non è infrequente che compaiano disturbi ossessivi oppure stati depressivi, che possono riguardare il 10% delle madri. La cronaca ha raccontato negli ultimi anni i comportamenti di madri che hanno colpito anche con violenza i figli, spesso senza che le persone di famiglia si rendessero conto della presenza di queste difficoltà.
Se questo avviene nella mente delle madri, anche a livello del cervello avvengono grandi cambiamenti durante la gravidanza, come viene raccontato nel libro The mommy brain (Il cervello delle madri, Basic Books) di Katherine Ellison. Tramite questi cambiamenti il cervello delle madri sotto la spinta degli ormoni migliora le sue prestazioni, addirittura i neuroni diventano più grandi.
In campo animale sono state effettuate delle prove mettendo a confronto il comportamento delle topoline che avevano avuto da poco una cucciolata con topoline ancora vergini. Messe all'interno di un labirinto le topoline dovevano trovare il cibo nascosto in uno dei bracci e mentre le topoline vergini ci mettevano sette giorni a scovarlo, le topoline madri ci impiegavano solo tre minuti. Occuparsi dei figli obbliga ad aguzzare l'ingegno per farli sopravvivere, questa conclusione potrebbe ribaltare il luogo comune che avere figli ostacola la realizzazione femminile ad esempio in campo lavorativo.
Ma passiamo ora alle madri nella specie umana. Durante la gravidanza si attiva quello che è stato definito il circuito cerebrale materno, che indubbiamente facilita la comunicazione col figlio neonato e permette di focalizzare su di lui tutte le proprie energie. Anche la recente scoperta dei neuroni specchio a livello cerebrale apre interessanti sviluppi per studiare il comportamento delle madri. Infatti le madri anche osservando il comportamento del figlio, ad esempio se questo pianga o rida, entrano in risonanza emotiva col figlio come se stessero anche loro provando le stesse emozioni. Naturalmente le madri non si limitano ad osservare i comportamenti dei figli, sono anche in grado - come abbiamo messo in luce tramite le nostre ricerche - di attivare le aree cerebrali che predispongono le risposte motorie quando il bambino pianga o manifesti un malessere.
Se l'uomo è riuscito a sopravvivere anche in condizioni difficili e addirittura avverse questo è dipeso dalle sue grandi capacità di adattamento e di comunicazione, che si cominciano a sviluppare fin dalla nascita con l'aiuto dei genitori e della famiglia. La ricerca sta illuminando il mondo della maternità e dello sviluppo infantile, ma non dimentichiamo che - come Freud annotò - scrittori ed artisti hanno spesso intuito, anche molti secoli prima, quello che stiamo scoprendo oggi: basta guardare il disegno di Raffaello Le teste della Madonna e del bambino in cui vengono colte con grande intensità le espressioni emotive di una madre e del figlio nell'unicità del loro incontro.

il manifesto 19.1.07
Quel tribunale custode del potere temporale
In nome dell'ortodossia La complicità degli stati, il silenzio del Vaticano. «L'inquisizione in Italia» di Andrea Del Col.
di Vincenzo Lavenia


«Se volete somigliare a Gesù Cristo, siate martiri e non carnefici». Lo scriveva Voltaire nel Trattato sulla tolleranza, bollando i roghi della giustizia ecclesiastica. Lo ripete Andrea Del Col nel ponderoso volume L'Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo (Mondadori, pp. 964, euro 15,80). La sua coscienza di cristiano è turbata dai mille anni di coercizione religiosa promossa da Roma, ma il lettore non dovrà aspettarsi cedimenti al facile moralismo che domina le indagini storiche degli ultimi anni. Chi di recente ha tentato di assolvere l'Inquisizione vinto da nostalgie reazionarie non ha mai messo piede in archivio, ricorda l'autore; chi ancora ne dipinge le procedure a tinte «neogotiche», ignorando i risultati di molte ricerche rigorose, ricicla stereotipi della propaganda di quei protestanti che in età moderna non furono meno teneri dei cattolici quando si trattò di annientare i «nemici».
Del Col ha la capacità di esporre i fatti in modo chiaro anche a chi nulla sa dei dibattiti che impegnano gli storici di professione (virtù rara); e ha il coraggio di raccontarne per la prima volta tutta la lunga vicenda dalla lotta anticatara alla condanna della Teologia della liberazione. Poiché Roma ospita il papato parlare di Inquisizione nel nostro paese significa interrogarsi sulla «mancata Riforma» in Italia: una questione che ha alle spalle una lunga (e stanca) tradizione. E tuttavia il libro non assume né la prospettiva giacobina di De Sanctis né quella, più sfumata, di Croce (e di Gramsci). Più che di eretici l'autore parla di giudici, per dirci che l'Inquisizione non costituì un incidente di percorso nella storia della Chiesa. Fondato sul diritto canonico e radicato in una teologia che giustifica la coercizione religiosa, il Sant'Uffizio condizionò la struttura dogmatica e lo scontro di potere interno alla gerarchia. Che dopo due secoli un papa provenga di nuovo da una carriera interna alla Congregazione per la Dottrina della Fede (il nome che il Sant'Uffizio ha assunto dopo il Vaticano II) rivela che quella storia non è affatto conclusa. Né si può dire, con la domanda di perdono pronunciata da Giovanni Paolo II, che l'errore è stato dei singoli e non dell'intera istituzione, se di errore si deve parlare in sede storica.
Il Giubileo del 2000, ricorda Del Col, ha permesso agli studiosi di accedere a fonti sino ad allora inaccessibili, ma la riflessione sull'Inquisizione deve molto alla caduta del franchismo in Spagna e alle ricerche di storici della cultura popolare (Carlo Ginzburg), a interpreti del peso dell'egemonia cattolica in Italia (Adriano Prosperi), a chi ha posto in rilievo quanto abbia contato l'apparato penale dell'Inquisizione nella nascita del reato d'opinione (Elena Brambilla) e a chi ha ricostruito le vicende dei processi e della censura (Massimo Firpo, Gigliola Fragnito) o l'assenza di cacce alle streghe nell'Italia moderna (Giovanni Romeo).
Del Col sistema decenni di ricerche; ricorda che la lotta antiereticale fu condotta con il consenso degli Stati, della rete ecclesiastica ordinaria e di larghi settori della popolazione; rileva ancora una volta che i roghi di streghe in età moderna furono pochi se li si paragona a quelli d'Oltralpe, anche se fu l'Inquisizione a creare il paradigma demonologico. E tiene conto di nuove domande: che peso ebbe l'Inquisizione nel formare la disciplina quotidiana del cristiano; se incise di più l'espurgazione o la condanna dei libri, e quanta efficacia ebbe la censura; se si passò il confine che separa antigiudaismo e antisemitismo; come quell'istituzione maschile contrastò i carismi femminili; come mise sotto controllo il culto dei santi e come arginò gli scandali sessuali in confessionale (facendo però sapiente uso del perdono sacramentale per indurre pentiti e fedeli alla delazione e abbreviare così le cause con procedure sommarie).
Infine, Del Col fa un passo in avanti, e si mette a contare. Può apparire oziosa la numerologia delle vittime, ma sapere che i roghi sono stati poco più di mille in trecento anni, in una percentuale piuttosto bassa sul totale dei processi, e concentrata durante l'emergenza ereticale del Cinquecento, mette davanti a dati di fatto prima che alle interpretazioni. Fa riflettere che le Inquisizioni spagnola e portoghese abbiano ammazzato di più; che abbiano ammazzato di più (e con minore rispetto delle regole del tempo) i tribunali riformati e quelli statali, che dai giudici papali impararono.
D'altra parte, Del Col non intende sostituire la leggenda nera con un mito opposto. La misura dell'attività giudiziaria prova che il tribunale fu pervasivo, che seppe uniformare. Né, si legge, la sua attività calò nel Settecento, come si sostiene in base alla burocratizzazione del Sant'Uffizio e all'inefficace contrasto opposto a giansenisti, illuministi e massoni. La sindrome da assedio di cui si nutrì per secoli alimentò in età contemporanea la condanna del marxismo, dell'evoluzionismo, del liberalismo e dell'emancipazione ebraica. E sapere che Angelo Roncalli (più tardi Giovanni XXIII) finì nella rete di delatori negli anni dell'ossessione antimodernista, certo non consola.

l'Unità 19.1.07
Eskimo e grisaglia
di Vincenzo Vasile


Abbiamo un problema. Un problema, tra gli altri. Che potrebbe diventare un grosso problema. In pochi giorni sono rimbalzati in prima pagina e sui teleschermi le immagini di un vecchio, brutto film. Intendiamoci, l'effetto minestrone è soprattutto mediatico, e nel raccontare il sommario di uno dei tanti tg (pubblici e privati) sappiamo di mettere in fila episodi di natura e origini diverse e complesse. Ecco cosa dice il telegiornale, senza battere ciglio.
Dice che il ministro Padoa Schioppa è stato accolto l'altra sera all'Università di Torino da petardi e fumogeni perché ritenuto un pericoloso «agente delle multinazionali». E lo stesso tg mostra uno striscione con la «A» dell'anarchia davanti a un corteo abbastanza pacifico di gente abbastanza pacifica che non vuole l'«allargamento» della base Usa a Vicenza. E ci sono le bombette, inesplose, ma innescabili, firmate dagli «insurrezionalisti» e «separatisti» sardi recapitate a due sottosegretari. E si rivede, in collegamento da Parigi, Oreste Scalzone, che annuncia una sua prossima turnè italiana per rilanciare «nelle nuove condizioni vecchie battaglie». Sempre su maxischermo il professor Toni Negri riappare in un'altra epifania televisiva per insultare Sergio Cofferati, sul tema - guarda un po' - della legalità. Per indebito ossequio dei conduttori dei talk show e dei programmi di «approfondimento», costoro - «ex-latitanti» - possono fregiarsi dell'eufemismo ammiccante di «ex-rifugiati». Il deputato Caruso che a quei tempi era sul passeggino s'è entusiasmato per l'aria di revival che tira, al punto da annunciare la presenza di bombe molotov nel cortile di Montecitorio. Si annuncia da altre fonti anche un blitz anti-Prodi per il prossimo fine settimana.
In attesa del prossimo notiziario, interi scaffali di biblioteche e archivi giudiziari ci possono far riflettere sul confine labile tra disobbedienza, culto dell'illegalità, sovversivismo, pericoli di tenuta democratica. Chi non li ha vissuti, quegli anni cui alludono i vecchi/nuovi disobbedienti che affollano i nostri telegiornali, non sa che a quei tempi si cominciò con gli epiteti, si passò ai sampietrini, e infine alle P38 e alle mitragliette armate di geometrica potenza.
Stavolta c'è una novità: a differenza del passato, essi sono i beniamini di una Destra ad alto tasso becero che si rispecchia e gode di tante immagini deformate, e può sentenziare che il governo sarebbe «ostaggio» delle spinte e delle forze più «radicali». È questo un discorso che vorremmo fare sommessamente soprattutto a chi - a sinistra - corteggia, anche solo con il silenzio, i laudatori del brutto tempo andato, e i loro più o meno consapevoli giovani seguaci.
Sia chiaro. Nulla da dire se il presidente della Camera Bertinotti proclama in queste ore il suo pacifismo: non ci sembra che con ciò stia violando i vincoli del suo incarico istituzionale. Ma dovrebbe spiegare meglio che cosa volesse intendere, intervistato l'altra sera da Grparlamento, quando ha detto che «ogni atto» che impedisca il rafforzamento di basi militari «è buona cosa». A noi pare che non solo Bertinotti abbia detto qualche parola di troppo. Ma che finora un po' tutti - ed è una riflessione da farsi senza insulti - ci eravamo illusi che dando «rappresentanza» a un certo mondo, come, per esempio, con certe candidature di «indipendenti» nelle file di Rifondazione, se ne potessero smorzare spinte e velleità agitatrici.
È questo un tema che la sinistra radicale che sta al governo, diciamo la sinistra radicale che veste in grisaglia, o quanto meno in giacca e cravatta, dovrebbe porsi con maggiore serietà e coerenza di quanto non stia mostrando in queste ore confuse. Vogliamo segnalare questo punto critico. E preveniamo, anche, una prevedibile risposta. Se si vuol dire che profonde sono le ragioni che spingono una parte forse marginale della sinistra a inseguire vecchi e ambigui miti, siamo d'accordo. Ma se ci fermiamo su questa soglia giustificazionista, non ne usciamo. L'auto-assoluzione ideologica è un vecchio vizio, comune alle nostre diverse anime. Nella Giornata dello scrutatore, splendido racconto-pamphlet degli anni del primo centrosinistra, Italo Calvino raccontava di quella «compagna» che ripeteva che «ben altro» era/è il problema: la sinistra riformista degli anni Sessanta, non si accorse, rinviando a «ben altro», come le suore democristiane portassero in cabina elettorale al Cottolengo vagonate di ciechi e di dementi.
Oggi c'è una questione urgente, che riguarda invece la sinistra cosiddetta «radicale», e ancora una volta non si può rinviare tutto alla soluzione di «ben altro». Eskimo e giacca e cravatta, indossati assieme, non stanno bene addosso a nessuno, formano un look pasticciato che non si addice a nessuna forza politica che abbia scelto la strada del governo del paese. Anzi, bisogna convincersi che l'eskimo di Oreste Scalzone è semplicemente un capo d'abbigliamento fuori tempo: per quel che ricordiamo, anche quand'era in auge assorbiva unto e umidità, non riparava dal brutto tempo. Meglio metterlo in soffitta.

giovedì 18 gennaio 2007

l’Unità 18.1.07
Editoriale
L’interesse nazionale

di Antonio Padellaro


Il ministro degli Esteri D’Alema ha detto che per il governo è stato complicato dare il via libera all’allargamento della base Usa di Vicenza, non tanto per ragioni politiche quanto per «un problema di valutazione dell’impatto socio-ambientale e urbanistico di un intervento così invasivo per la città». Eppure, il dibattito politico è dominato dalle implicazioni internazionali, dal grado di filo o anti-americanismo del governo Prodi, dai ringraziamenti di Washington a palazzo Chigi, senza contare le polemiche nella maggioranza, condivise non solo dalla cosiddetta sinistra radicale. Mentre a ciò che pensa Vicenza, e a ciò che pensano i vicentini non sembra venga dedicata grande attenzione. Forse bisognava domandarglielo prima, magari con quel referendum che adesso appare una pezza tardiva e insufficiente a coprire il vistoso strappo. E forse qualche buco nella ricostruzione dei fatti andrebbe colmato: a cominciare dalle riassicurazioni fornite a suo tempo da qualche ministro sulla base che non sarebbe stata raddoppiata. Peccato, perché in un momento di non altissimo gradimento per il governo dell’Unione, la politica estera viaggiava a pieni voti.
Visto però che ormai dalla decisione non si torna più indietro (Prodi) e che da un sindaco e da una giunta proni ai voleri di Berlusconi (e dell’amico George) non è lecito attendersi barlumi di senso civico, ci chiediamo se il danno alla città non possa essere almeno circoscritto. Perché il governo non delega un suo rappresentante ad ascoltare le ragioni di chi la base non la vuole, in modo da limitare nei fatti le conseguenze dell’impatto invasivo di cui D’Alema parla con preoccupazione?
E ancora: il progetto americano con le sue piste, i suoi autopark, le sue palazzine è intoccabile, come se fossimo nel Minnesota? O da parte italiana si può ancora esercitare una qualche sovranita urbanistica sul territorio?
Poi, ferma restando l’alleanza strategica con l’America c’è il problema dell’ospitalità concessa a basi militari straniere, sollevato ieri da Franco Venturini sul «Corriere della sera». Quale giurisdizione, per esempio, per evitare che i responsabili di tragedie (vedi il Cermis) possano essere giudicati soltanto dalla magistratura militare americana? Ma, soprattutto, il problema del consenso italiano alle operazioni militari che partono dalle basi Usa sul nostro territorio.
Mantenere gli impegni assunti (da altri) con l’alleato Usa e confermare il nostro appoggio alla Nato per rafforzare la sicurezza comune non è il solo interesse nazionale che va tutelato.
apadellaro@unita.it

l’Unità 18.1.07
«Con Welby è morto il dibattito sull’eutanasia»
Parla Riccio, il dottore che ha staccato il ventilatore che teneva in vita Piergiorgio, e poi lo ha sedato
di Paolo Calcagno


POLITICI di primo piano e firme autorevoli gli hanno dato dell’”omicida”: Luca Volonté del’Udc ne ha invocato addirittura l’arresto immediato. Con il suo gesto,
la sera (alle 23,40) del 20 dicembre scorso, quando ha staccato la spina del ventilatore che consentiva a Piergiorgio Welby di restare in vita e, contemporaneamente, ha sedato il 60enne scrittore che da oltre 40 anni soffriva di distrofia muscolare progressiva, il dottor Mario Riccio ha tracciato un solco a ridosso del quale si fronteggiano le coscienze delle persone. Per Riccio non ci sono soltanto critiche, accuse e insulti. In difesa del medico-anestesista si è levato un saldo e alto muro di solidarietà, dalle 1300 firme raccolte a Cremona . Fra loro, medici come Umberto Veronesi, politici come il sindaco di Cremona Giancarlo Corada, il predecessore Paolo Bodini (senatore della Sinistra indipendente), fino a Marco Pannella e altri.
Mario Riccio, 47 anni, napoletano, da 30 anni a Cremona, medico rianimatore e anestesista del locale Ospedale Maggiore, membro della Consulta di Bioetica onlus di Milano, sposato e padre di una bimba di 5 anni, appassionato subacqueo e velista dilettante, ha confidato di attendere non senza qualche timore la decisione del 26 gennaio da parte della commissione dell’Ordine dei Medici di Cremona, per cui rischia sanzioni fino alla radiazione dall’albo. E con altrettanta preoccupazione attende lo sbocco degli accertamenti chiesti dalla procura di Roma che potrebbero condurre all’archiviazione, ma anche all’accusa di omicidio volontario, o di suicidio assistito, oppure di omicidio colposo.
Dottor Riccio, è più preoccupato per la decisione della commissione medica o per gli esiti giudiziari?
«Mi preoccupa di più ciò che deciderà la commissione dell’Ordine dei Medici: confesso che l’eventuale interruzione della mia attività professionale è un’ipotesi che mi spaventa molto. Ma ribadisco che ciò che mi preme veramente è il pieno riconoscimento dell’autonomia del paziente e del suo diritto a curarsi, così come quello del rifiuto e dell’interruzione della terapia. È da tempo che mi occupo di consenso informato e di volontà del paziente. Poi, attraverso il rapporto con la Consulta di Bioetica e l’associazione Luca Coscioni, mi sono avvicinato al caso-Welby».
Coscioni, però, non era collegato a un ventilatore che l’aiutava a respirare.
«No, perché Coscioni aveva dato disposizione di non farlo. Come del resto aveva fatto quell’altro illustre paziente che tutti conoscono: Papa Wojtyla. Giovanni Paolo II aveva una patologia molto simile a quella di Welby: ebbe una crisi respiratoria e fu sottoposto a trachetomia. Dopo qualche giorno, gli suggerirono di utilizzare il ventilatore, ma lui rifiutò. Così, mentre Welby ha accettato per 10 anni di soffrire e di affidarsi al respiratore meccanico, il Papa non l’ha voluto neanche un minuto. Il Papa è stato meno religioso di Welby...».
L’autopsia di Welby è stata eseguita, la magistratura è già a conoscenza della quantità e della qualità dei farmaci che gli ha iniettato.
«Vorrei chiarire che non c’è stato da parte mia un atto eutanasico: mi sono limitato a sedare il paziente. L’atto eutanasico, che sarebbe un omicidio volontario del consenziente, oppure un suicidio assistito, si pratica attraverso quello che i giudici chiamano “l’elemento psicologico del reato”. Cioè, se avessi somministrato a Welby un farmaco che andava a colpire il cuore o i polmoni, bloccando le facoltà respiratorie o l’attività cardiaca, ci sarebbe stato “l’elemento del reato” e io avrei praticato un’eutanasia. Invece, Welby si è sedato, si è addormentato. E non ha vissuto il momento dell’arresto respiratorio».
Aveva già fatto una cosa simile?
«Voglio chiarire che la pianificazione delle cure avviene tutti i giorni, in tutto il mondo, regolarmente. Ha presente quando si dice: lo ventiliamo per 8 giorni, verifichiamo i risultati e poi decidiamo se continuare o no? Certo, serve il parere del paziente se è “competent”, o dei suoi familiari se non lo è più; oppure seguendo le indicazioni del “testamento biologico in vita” del paziente, qualora ci sia».
Altri medici, però, si sono rifiutati di bloccare il ventilatore di Welby. Evidentemente, per alcuni, c’è differenza tra rifiuto della cura e interruzione della terapia.
«Forse, ma solo sul piano emotivo. Tra interruzione e non inizio della cura, in realtà, non esiste nessun problema di tipo etico e nemmeno giuridico. Rifiutare la terapia o interromperla è perfettamente uguale, nel senso che la problematica etica per la signora che si oppone a che le operino la gamba e se ne va in Sicilia a morire, e chi decide di interrompere la terapia è esattamente la stessa».
Il suo gesto ha segnato un solco tra le convinzioni della gente. Le pesa il ruolo di agitatore internazionale di coscienze?
«Sono solo un modesto medico ospedaliero. È stato Welby che ha voluto portare il suo caso all’attenzione mediatica. Io ho fatto solo il gesto finale, ho messo in pratica ciò che avviene tutti i giorni, in tutti gli ospedali del mondo, cioè l’interruzione della terapia».
Sul versante politico dopo le prime reazioni, si registra un calo di attenzione verso il problema dell’eutanasia: ci vorrà un nuovo caso-Welby per riattualizzarlo?
«La politica ha perso un’occasione, come dimostra il rifiuto delle Camere all’invito di Giorgio Napolitano e Fausto Bertinotti ad aprire un discorso sull’eutanasia. Però vedo che il ministro Turco si propone di applicare la convenzione di Oviedo e dare spazio ai testamenti biologici in vita. Basterebbe un decreto-legge per consentire a chiunque di donare i propri organi, cosa che in Italia è concessa solo ai parenti dei deceduti (se non si oppongono). Non è un fatto culturalmente avanzato la mancanza di una legge che permetta di decidere in vita se donare gli organi o no».

Repubblica 18.1.07
Ma la chiesa è davvero contro la pena di morte?
di Giorgio Marinucci, Prof. Diritto Penale, Univ. Milano


Dopo l'esecuzione di Saddam Hussein la sala stampa del Vaticano diffuse un comunicato: è una "notizia tragica, motivo di tristezza anche quando si tratta di una persona che si è resa colpevole di gravi delitti", essendo "la Chiesa Cattolica contraria alla pena di morte". Nessun comunicato di tenore analogo dopo le ultime due esecuzioni.
Ma davvero la Chiesa Cattolica è contraria alla pena di morte? E' vero l'opposto. Il "Catechismo della chiesa cattolica" (n.2267), come il relativo Compendio (n.469), prescrive il rispetto "dell'insegnamento tradizionale della Chiesa" che non esclude il ricorso alla pena di morte, "quando questa fosse l'unica via praticabile", cioè nei "casi di assoluta necessità".
E' una cambiale in bianco rilasciata, nel 1995, anche dall'enciclica "Evangelium vitae": le pene "non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità" (n.56).
C'è da interrogarsi sul perché la Chiesa non si allinei alle posizioni degli europei, eredi dell'insegnamento di Beccaria ("parmi un assurdo che le leggi che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio").
Teme di essere tacciata di antiamericanismo, prendendo le distanze dagli orientamenti dominanti anche tra i cattolici statunitensi? Una ponderata riflessione del magistero cattolico sarebbe desiderabile, se aspira ad essere preso sul serio quando si fa paladino quotidiano della difesa della vita dell'uomo di ogni uomo sino alla fine.

Repubblica 18.1.07
Lapsus, se la scienza assolve l'inconscio
di Elena Dusi


"Certo, se una persona usa il termine mamma al posto di moglie, probabilmente qualche significato profondo ci sarà"
"Molto più spesso l'errore sta tutto nel richiamare dalla memoria lo schema sbagliato: lava il letto e rifatti i denti"

ROMA - Non sempre c´entra Freud, anzi. Si bolla come lapsus ogni frase mal pronunciata. Ma altri coimputati vanno citati in giudizio, accanto all´inconscio. Spesso dietro allo "sdrucciolamento" della lingua non c´è altro che un problema di articolazione delle parole. O una scarsa dimestichezza con la lingua, come dimostrano la maggior parte dei lapsus di George W. Bush. Smitizzando il ruolo dell´inconscio dietro all´uso della parola sbagliata, le nuove ricerche spostano infatti l´attenzione sui problemi del linguaggio e dell´articolazione delle parole. Nessun analista attribuirebbe ad altro se non a una scarsa dimestichezza con la sintassi la frase "Parlare un buon inglese è qualcosa di cui non sono spesso accusato", uno dei pezzi forti del bushismo.
Parlare, d´altronde, è compito banale solo all´apparenza. Lo spiega bene il servizio che il nuovo Mente&cervello (da periodico diventa mensile) dedica alla lingua che inciampa. «Quando facciamo un discorso - si legge sul numero in edicola da domani a 20 centesimi più il prezzo di Repubblica o L´Espresso - scegliamo in media 3 parole al secondo da un vocabolario che ne contiene almeno 40mila, producendo contemporaneamente 5 sillabe e una dozzina di fonemi, nella cui emissione sono coinvolti 100 muscoli diversi». Non solo. Uno studio pubblicato alla fine del 2004 da Zenzi Griffin del Georgia Institute of Technology sulla rivista Psychological Science ha dimostrato che quando un individuo sbaglia a nominare un oggetto che ha davanti, spesso rivolge a esso lo sguardo. L´errore avverrebbe dunque a livello linguistico o fonatorio, più in superficie rispetto a quanto teorizzato da Freud.
«Certo, se una persona usa il termine "madre" al posto di "moglie" probabilmente qualche significato profondo esiste» spiega Alberto Oliverio, psicobiologo del Cnr e dell´università La Sapienza. «Ma a volte l´errore sta tutto nel richiamare dalla memoria lo schema motorio sbagliato. A ogni parola è associato infatti un determinato movimento dei muscoli dell´apparato fonatorio. Il cervello può sbagliarsi, ripescare dalla memoria e "mandare in onda" lo schema motorio sbagliato». Un tipico esempio di lingua che inciampa è il "Romolo e Remolo" dell´allora premier Silvio Berlusconi. «A volte - prosegue Oliverio - cerchiamo di attribuire a tutti costi un significato psicologico al lapsus, ma non sempre è il caso di ricorrere all´inconscio. Di certo, però, quando l´inciampare produce un doppio senso, magari in campo sessuale, quello che sarebbe un trascurabile difetto nel flusso delle parole diventa un aneddoto scolpito nella memoria di tutti. In questo senso, i lapsus freudiani sono quelli che si ricordano più facilmente».

il manifesto 18.1.07
Salta ogni mediazione La segreteria dice no alle richieste della sinistra sulle regole
Ds a congresso senza rete
Fassino va avanti a testa bassa verso il partito democratico.
Veltroni lo lascia andare. D'Alema pure, ma intanto chiama Bersani e Bassolino
di Andrea Fabozzi


Roma. Congresso nazionale a Genova il 18 aprile, senza voto segreto sulle mozioni e senza una verifica condivisa del tesseramento. La decisione della segreteria dei Ds è la decisione del partito. Inutile la riunione della commissione per il congresso che ieri sera si è trovata davanti a una scelta già fatta e anticipata nei comunicati stampa. Così i rappresentanti della sinistra hanno deciso di non partecipare: «La commissione è stata esautorata». C'erano invece quelli della mozione Angius, ma anche loro molto critici: «Decidere in segreteria e poi comunicarlo alla commissione è stato un errore formale, uno strappo allo statuto e uno sbaglio politico», il giudizio di Alberto Nigra. Il quarto congresso dei Ds, quello che deciderà il matrimonio con la Margherita e la confluenza nel partito democratico, sarà il primo senza un'intesa nemmeno minima sulle regole.
Circondato dalle defezioni e dalle critiche - ieri ha reagito con una lunga lettera di autodifesa alla Repubblica -, Fassino accelera. Col consenso esplicito di D'Alema (i due ieri mattina hanno messo a punto la strategia prima della riunione di segreteria) e nel silenzio di Veltroni. Quello che però si gioca tutto è lui soltanto. D'Alema già propone di «rafforzare» la guida del partito coinvolgendo Bersani e Bassolino, che subito risponde all'appello: «Il partito democratico è una prospettiva per la quale vale la pena impegnarsi e dare un contributo totale».
La direzione di oggi darà il via libera formale alle decisioni del segretario. Si annuncia però tutt'altro che facile per Fassino. La scelta di chiudere ogni confronto sulle regole è interpretata come un segno di debolezza. «Alla crisi del partito che è sotto gli occhi di tutti la maggioranza risponde con la chiusura al confronto e negando i problemi», dicono in coro le minoranze. La sinistra aveva bisogno di un gesto pubblico di rottura dopo che le prese di distanza dalla linea del gruppo dirigente e persino gli abbandoni al partito erano venuti in questi giorni solo dal fronte «riformista». L'occasione le è stata offerta quasi costringendola a disertare la commissione per il congresso. «Lunedì avevamo deciso di darci 48 ore per ragionare su ipotesi di mediazione - spiega Luciano Pettinari - e invece già martedì abbiamo sentito la compagna Martina Sereni che ci anticipava le decisioni della segreteria». Fassino, che secondo i suoi sostenitori nel partito «dà il massimo quando è sotto pressione» e secondo i suoi detrattori «è un buon organizzatore ma sta dimostrando molti limiti politici», non ha altra strategia che andare avanti a testa bassa. «Capirei se ci fossero le piazze piene che invocano il partito democratico, ma non mi pare proprio...», commenta Nigra. «E' un caso di nervosismo che si tramuta in linea politica», scrive Gianni Zagato su Aprile on line, l'organo della sinistra.
Non è piaciuta nemmeno a tutti gli esponenti della maggioranza del partito la prima pagina dell'Unità di ieri, in puro stile fassiniano: «Non si processa chi ha vinto tutto». A qualcuno ha ricordato l'Aldo Moro del «non ci faremo processare nelle piazze». In molti pensano senza volerlo dichiarare pubblicamente che almeno una mediazione sul voto segreto alle mozioni era possibile. Non sulla data del congresso, però. Farlo dopo le amministrative avrebbe significato per Fassino offrirsi come vittima sacrificale, visto il prevedibile insuccesso del partito. Anticiparlo però per il segretario, che vuole stringere e contarsi anche a costo di scendere al 70% dei consensi, presenta un rischio persino maggiore. Quello di battezzare a tappe forzate il partito democratico per poi trovarsi, dopo il voto e alla prima crisi con la Margherita, di nuovo spiazzati. Ieri Fassino si è chiuso un'altra porta alle spalle. Ma quello che si gioca tutto è soltanto lui.

notizie.alice.it 18.1.07
DS/ INGRAO: IL GROSSO E' MODERATO, INUTILE TENERE INSIEME PARTITO
"Sinistra della Quercia crei qualcosa con Rifondazione e altri"


Roma, 18 gen. (APCom) - Il fatto che sia la sinistra massimalista a dettare l'agenda al governo Prodi "sono favole". Il "grosso del centrosinistra è prodiano, ovvero democratico-moderato. Questa è l'area che prevale nel centrosinistra e non viene certo cancellata dalla presenza, pure importante, di partiti che si dichiarano marxisti". Questa la lettura di Pietro Ingrao della situazione politica italiana. Poi l'invito: "i moderati stiano con i moderati, e gli altri, se vogliono, facciano un'altra cosa, diciamo, di sinistra".
Quindi, l'analisi su casa Ds, gli eredi del Pci da cui proviene Ingrao. "Il grosso della Quercia - spiega Le Grand Vieux in una intervista alla stampa - è centrista e moderato, a cominciare da Fassino e D'Alema. Come Rutelli e Prodi". Ecco quindi che "in fin dei conti" farebbero bene a mettersi nello stesso partito. "Non capiso, e lo dico ai miei amici e compagni della sinistra diessina, Mussi, Salvi, Silvia Bandoli, che senso avrebbe restare tutti insieme quando la si pensa in modo così diverso. Mi sembra insomma un perdita di tempo cercare di tenere uniti i Ds, perchè alla fine stare insieme per forza produce solo un pasticcio".
Se fosse dunque ancora nella politica attiva, Ingrao ammette che si occuperebbe "di costruire qualcosa di sinistra, insieme a Rifondazione e a tutti quelli che di moderati non sono. E che, mi auguro, non la pensano nello stesso modo di Rutelli o del placido Prodi. Lascerei inoltre - conclude Ingrao - che Prodi, Rutelli, D'Alema e Fassino facciano quello che vogliono fare. Se vogliono mettersi insieme nello stesso partito moderato si accomodino".

l’Unità 18.1.07
«Prescritti i reati»:
Scalzone può tornare in Italia
Da Parigi esulta l’ex leader di Potere Operaio: «Combatterò la mia vecchia
battaglia». Mastella accusa: sulle estradizioni la Francia è reticente
di Massimo Solani


«PER INTERVENUTA PRESCRIZIONE», Oreste Scalzone è da ieri un uomo libero di rientrare in Italia senza rischiare di essere arrestato. Lo ha deciso la prima corte d’assise del Tribunale di Milano che dopo una breve camera di consiglio ha formalmen-
te dichiarato prescritti i reati commessi dall’ex leader di Potere Operaio condannato a 16 anni di reclusione nel 1984 per partecipazione ad associazione sovversiva, banda armata e rapine e latitante in Francia dal 1981. A favore della dichiarazione di prescrizione, richiesta al tribunale dagli avvocati di Scalzone Ugo Gianangeli e Gabriele Fuga, si era espressa anche il pubblico ministero Rossana Penna.
Scalzone era stato arrestato il 7 aprile del 1979 ma dopo un anno e mezzo di detenzione aveva ottenuto per motivi di salute la libertà provvisoria, riuscendo però a far perdere le proprie tracce (nel marzo del 1981) dalla casa romana in cui era in soggiorno obbligato. Condannato a 16 anni, nel 1987 la sua pena venne ridotta in appello a 9 anni (assolto per l’accusa di rapina), mentre fu la Cassazione ad annullare entrambe le sentenze dal momento che la Francia non ha mai concesso l’estradizione. Dichiarando l’«intervenuta prescrizione» (dopo 22 anni e mezzo) il collegio presieduto da Luigi Domenico Cerqua ha deciso di ordinare anche la revoca dell’ordine di custodia che era stato emesso dalla magistratura milanese.
Raggiunto dalla notizia nella sua casa parigina dove negli anni si è imposto quale portavoce “de facto” della nutrita comunità dei fuoriusciti italiani dopo gli anni di piombo, Scalzone ha commentato con evidente soddisfazione la novità che pone la parole fine alla sua vicenda giudiziaria: «Torno in Italia per condurre in condizioni nuove una vecchia battaglia - ha spiegato - La condurrò a voce nuda, se serve sul selciato, on the road, o in luoghi adattabili all’antica congiunzione fra politica, ragionamento filosofico e teatro. In Francia - ha proseguito - avevo bisogno dell’elettricità e delle onde hertziane, ma in Italia è meglio che si sappia che posso fare a meno dei magafoni da ’68 e che un giornale accartocciato può fare da portavoce ed infastidire quanto basta».
In merito alla decisione del tribunale di Milano il ministro della Giustizia Clemente Mastella non ha voluto rilasciare alcun commento, limitandosi a sottolineare che «chi si era fermato in maniera più che compassata a riflettere come se tutti i mali fossero quelli dell’indulto oggi può vedere come purtroppo i mali sono da imputare alle prescrizioni, a prescindere da chi ne fruisca». Ma la vicenda relativa a Oreste Scalzone è servita a riaccendere la polemica relativa all’atteggiamento dei governi francesi nei confronti dei terroristi italiani rifugiati Oltralpe. «Ho provato a parlare della estradizione di 13 terroristi - ha spiegato Mastella - ma come era accaduto nel precedente governo la Francia è reticente. Ne prendo atto».

l’Unità 18.1.07
IL RITRATTO
Il «comiziante torrenziale»
da Potop ad Autonomia
di Susanna Ripamonti

Milano. La sua foto formato tessera, che lo ritrae poco più che trentenne, forse è ancora appesa nelle bacheche della Digos, sotto la scritta: «ricercati» se un solerte funzionario non ha pensato, in tempo reale, ad aggiornare l’elenco. In tutti questi anni quell’inutile foto segnaletica, è stata il simbolo di una giustizia, che in assenza di uno Stato capace di trovare una soluzione politica a crimini commessi negli anni di piombo, ha simulato un’efficienza di fatto impotente, rimuovendo con tollerate latitanze il problema di ridefinire delitti e pene. Oreste Scalzone non poteva essere estradato, perché la Francia di Mitterand aveva offerto asilo politico a chi, come lui, era accusato di associazione sovversiva: un reato che il paese della «Marianne» non riconosce. Nessuna Digos poteva ricercarlo, anche se tutti sapevano che da 25 anni ormai viveva a Parigi, la sua seconda patria. In attesa di una soluzione politica, per la quale continua a battersi e che riguarderà forse altri figli della sua generazione, Scalzone ha atteso la consueta soluzione all’italiana, la prescrizione.
Negli anni 70 apparteneva a quel limbo di «compagni che sbagliano» non dichiaratamente schierati con il terrorismo, non rifluiti nella clandestinità, ma con quel ruolo molto border-line che caratterizzò l’Autonomia Operaia degli anni 70.
Ex leader di Potere Operaio del quale era stato co-fondatore con Franco Piperno e Toni Negri, ha una storia che si intreccia a doppio filo con quella dell’ultrasinistra italiana. Nato a Terni nel ’47, ha 21 anni nel ’68, quando si iscrive a Roma nell’università in rivolta. Oratore torrenziale, diventa in fretta uno dei leader del movimento studentesco, è in prima fila negli scontri di Valle Giulia. Ma le fabbriche, il mitico movimento operaio erano a Milano, dove si trasferisce nei primi anni 70. Partecipa all’organizzazione dei «Comitati comunisti», emanazione di Potere Operaio, attivi soprattutto alla Pirelli e all’Alfa di Arese. Alla Pirelli dove, in quegli stessi anni, Sergio Cofferati lavorava come analista tempi e metodi.
Nel ’72 «Potop» chiude i battenti e Scalzone si schiera con la nascente «Autonomia operaia» considerata dal giudice Calogero la culla di tutte le organizzazioni armate, «Brigate Rosse» comprese. È sulla scorta di questo teorema che il 7 aprile del ’79 arrivano le manette, nella sede della rivista «Metropolis». Il provvedimento contro di lui, Toni Negri e Emilio Vesce, decapita il vertice di Autonomia, i suoi leader sono accusati di associazione sovversiva e banda armata e successivamente anche di insurrezione armata contro i poteri dello Stato.
Dopo un periodo di detenzione espatriò mentre era stato scarcerato per malattia, con l'aiuto di Gian Maria Volontè. Prima tappa la Danimarca, poi nell’81, quando Mitterand vinse le elezioni e dichiarò la Francia terra di asilo politico, approdò a Parigi, dove vive tuttora, ormai sessantenne.
Dal suo blog ha mantenuto un contatto continuo con l’Italia, conducendo la sua battaglia per un definitivo regolamento di conti con gli anni di piombo, a partire dalla mobilitazione per la scarcerazione di Paolo Persichetti, uno dei pochi esuli italiani in Francia estradato in Italia e incarcerato. All’ombra della Tour Eiffel, Scalzone è diventato il punto di riferimento di quel centinaio di italiani, rifugiati degli «anni di piombo». Nel ’98, dannunziana beffa, non a Buccari ma a Roma, davanti all’Altare della Patria, dove, dopo essere rientrato in Italia clandestinamente, si è fatto fotografare e immortalare dal settimanale L’Espresso.
«Il mio viaggio - spiegava - ha avuto un senso simbolico-provocatorio: da più di dieci anni si parla di amnistia per i detenuti e gli esuli politici ma non è mai successo niente». L’amnistia resta al centro della sua battaglia: nel febbraio 2005 lanciò un appello a Ingrao, Cossiga e Pannella offrendosi come «capro espiatorio simbolico » disposto a farsi arrestare in cambio di un dibattito sull’amnistia. Battaglia che ora proseguirà a piede libero.

il manifesto 18.1.07
Oreste Scalzone, a Parigi da 27 anni, ottiene la prescrizione per la sua condanna
«E ora all'Italia chiedo l'amnistia»
Processo «7 aprile» Accusato di associazione sovversiva e banda armata, nell'83 fu condannato a 16 anni di carcere, poi ridotti a 9
di Anna Maria Merlo

Parigi. Contento? Oreste Scalzone, il rifugiato italiano più rappresentativo, da 27 anni a Parigi, ha ottenuto la prescrizione per la condanna dell'83 a 16 anni di carcere (poi ridotta a 9 nell'87), con l'accusa di associazione sovversiva e banda armata, nell'ambito del processo del «7 aprile» su Autonomia operaia. «Non volevo troppo sperare - dice - è un fatto oggettivo, una ratifica della prescrizione che già c'era. Prenderei il treno stasera - aggiunge - ma non lo faccio».
A chi pensi?
«Mi danno il mio, ma ad altri nemmeno il loro. Paolo Persichetti, l'unico fisicamente estradato contro la sua volontà su un migliaio di salvati qui. E' stata una vicenda senza equità. La prima cosa che farò, quindi, sarà di lottare, in Italia, su questo argomento quasi trascurabile, che è il trasferimento di Persichetti».
In Italia, uno dei tuoi legali, Ugo Gianangeli, ha spiegato che «dispiace ricorrere a percorsi individuali per risolvere il problema consenguente ai cosiddetti anni di piombo». Ci vuole una soluzione politica, un'amnistia-indulto che risolva un problema collettivo»? Ma il ministro della giustizia, Clemente Mastella, non sembra d'accordo. Ieri ha ancora ricordato che ci sono «13 latitanti in Francia» e che anche il nuovo governo ha preso contatti con la Francia, che si è mostrata però, secondo Mastella, «reticente».
Mastella dice di voler abolire la prescrizione, una primizia per uno stato di diritto. Straparla. Ha due sottosegretarti, l'avvocato Ligotti, un avvocato dei pentiti, promosso tramite l'Italia dei valori, che non mi conosce, e Luigi Manconi, che invece mi conosce. Io andrò solo, a voce nuda, farò quello che so fare: con un megafono o con le mani a cartoccio, nei teatri, negli squat, nelle università, se mi chimano, andrò a reclamare la liberazione di Persichetti. Li sfido: mi mettano dentro. Fino a nuovo ordine posso parlare. Su Persichetti, penso di spuntarla».
La Francia diventa passato?
Ventisette anni fa sono stato tirato via dal mondo, ho lasciato tutto ma qui ho trovato gente straordinaria, qui ho anche un nipotino. In Italia ho delle tombe da vistare, a Merate, a Terni. Non farò il pendolare con due cuori, ma il girovago, il nomade come i guitti di una volta, farò il «giornale immaginario», da Bologna a Parigi passando per Palermo. Farò il girovago su alcune tematiche.
Oltre alla richiesta di liberazione di Persichetti e l'amnistia, cos'altro?
Sull'idea che i governi non possono essere amici, sull'idea dell'autogoverno, dell'autonomia come idea direttrice. Poi, in questo mondo terribile è mai possibile che tutti si ritrovino su una soluzione penale? Nell'immensa cronaca nera mondiale si susseguono massacri, fatti in nome della democrazia, della patria o di altro, tutti trovano una giustificazione. Io chiedo: è possibile essere riconosciuti come nemici? Chiedo questo: un'amnistia, per venire riconosciuti come nemici.
Scalzone nel 2005 aveva lanciato un appello, durante uno sciopero della fame: voleva trasformarsi in «capro espiatorio simbolico», per riportare l'attenzione non solo sulla condizione dei rifigiati in Francia, ma anche sulle persone che, malgrado l'impegno preso da François Mitterrand e poi riconfermato da Lionel Jospin, sono state comunque arrestate in Francia, a cominciare da Paolo Persichetti, oggi in carcere in Italia.
Secondo l'avvocato Gianangeli, «la decisione della Corte d'assise sancisce a livello giudiziario il tempo trascorso, stiamo parlando di trent'anni fa e di sentenze emesse in primo grado nell'84 e in secondo grando nell'86 e poi annullate dalla Cassazione per omessa estradizione». In altri termini, il legale di Scalzone riprende la tesi del suo cliente: ci vuole una soluzione politica. In Francia, negli ultimi tempi, la situazione dei rifugiati politici italiani era di nuovo venuta in primo piano con il caso Battisti, per il momento latitante, ricercato dalla polizia francese su richiesta italiana.

Repubblica 18.1.07
IL CASO SCALZONE
Reati in prescrizione Scalzone può tornare
In fuga a Parigi da 25 anni. È già polemica sull´amnistia
di Piero Colaprico

Era considerato responsabile di rapine e di banda armata
La protesta dei familiari delle vittime del terrorismo: un insulto alla memoria
Mastella: il vero male non è l'indulto ma i tempi lunghi della nostra giustizia

MILANO - La soluzione trovata apparirà, soprattutto a chi non mastica di diritto, come il frutto di un abile cavillo. Ma da ieri mattina il latitante Oreste Scalzone, in esilio non volontario a Parigi dagli anni Ottanta, ha visto liquefarsi le condanne penali ed è tornato un libero cittadino. Può girare in Italia come e quanto vuole grazie alla prescrizione, e cioè al troppo tempo passato tra la commissione del reato e il processo. Le accuse per l´ormai sessantenne «movimentista» s´erano già ridotte in aula. Non era più considerato un capo terrorista, ma più semplicemente il responsabile di una serie di rapine e di due tentati omicidi che vennero ritenuti lesioni gravissime (reato meno grave), nel quadro di una «partecipazione alla banda armata». Una contestazione, quest´ultima, sempre negata da molti leader dei gruppuscoli: «Non eravamo le Br». In tutto, Scalzone avrebbe dovuto scontare nove anni.
Non pochi politici - dopo aver appreso la notizia della ritrovata e piena libertà di uno dei cosiddetti «cattivi maestri» di Potere Operaio, di un uomo considerato ai tempi dell´inchiesta «7 aprile» un anello di congiunzione tra la lotta politica e la lotta con le P-38 - hanno sollevato il livello della polemica tra partiti. Gli arriva il «bentornato» dall´ala più estrema di Rifondazione, con Francesco Caruso che vorrebbe «invitarlo nelle stanze del Parlamento». Ma anche il totale rifiuto da parte dei parenti delle vittime, che attraverso Salvatore Berardi, figlio del maresciallo ucciso, parla di «insulto». C´è il verde Paolo Cento che chiede di una soluzione politica «per gli esiliati» del terrorismo e parla di amnistia, ma il forzista Maurizio Sacconi la rifiuta. Anche nel centrosinistra c´è chi protesta come l´Italia dei Valori: «Perché esultare? Scalzone non è Mazzini, ma un terrorista macchiatosi del reato di banda armata». E mentre da An si leva la protesta di Alfredo Mantovano e di Maurizio Gasparri, solo Ignazio La Russa dice: «Mi dispiace, ma è regolare».
Molti, però, preferiscono non intervenire su un tema che divide coscienze e schieramenti. Anche il ministro della Giustizia Clemente Mastella sceglie di collocarsi su una prospettiva più istituzionale: «Il vero male della giustizia italiana non è l´indulto, ma i tempi lunghi che provocano troppe prescrizioni». Nel caso Scalzone, però, i tempi sono stati lunghissimi. E le lentezze estenuanti hanno coinvolto parecchi governi, anzi tutti.
A tenere sino a ieri sotto il rischio del carcere l´ex leader di Potere Operaio e dei Comitati Comunisti, riassumono i suoi avvocati Arturo Gianangeli e Gabriele Fuga, «era l´ordinanza di rinvio a giudizio della dottoressa Elena Paciotti. Perché nell´87 la corte di cassazione presieduta dal giudice Corrado Carnevale aveva detto, in buona sostanza, che i giudici che l´avevano giudicato e condannato in primo grado nell´84 e in appello nell´86, non potevano farlo, anche perché mancava l´estradizione dalla Francia. Ma dal ministero di Grazia e Giustizia non s´è mai mosso nessuno, né a livello giudiziario né politico».
E sul fattore del tempo che scorre hanno puntato a sorpresa gli avvocati: «Abbiamo chiesto noi di aprire il dibattimento oggi (ieri mattina, ndr) e facendo istanza di prescrizione del reato, abbiamo ottenuto - spiega Gianangeli - una sentenza che revoca i mandati di cattura». Come si sa, alcuni latitanti sono stati catturati (Paolo Persichetti). Altri sono fuggiti, facendo perdere del tutto le tracce (Cesare Battisti). Altri vengono lasciati perdere. Scalzone, che a Parigi è un po´ l´anima rossa dei fuoriusciti italiani, è l´unico che può tornare con una carta processuale di «liberatoria» in tasca. Lui, che entrò nelle cronache già dalla fine degli anni Sessanta, quando a Roma un gruppo di picchiatori del Msi, guidati addirittura dal segretario Giorgio Almirante, dettero l´assalto all´università occupata e che ha attraversato tutti gli «anni di piombo».
Sono passati ventisei anni da quando, dopo aver provato le celle di Cuneo e di Palmi, e rilasciato per le pessime condizioni fisiche, sparì. E perciò «che un ministro della Giustizia dica che i mali sono da imputare alle prescrizioni è divertente», replica Scalzone a Mastella. «Vuol dire che il ministro pensa ad una pena infinita. Io invece torno per condurre in condizioni nuove una vecchia battaglia».

Repubblica 18.1.07
Fu l'accusatore, da lui il famoso "teorema"
Il giudice Calogero "Applicata una norma"

PADOVA - Pietro Calogero è il magistrato al quale si deve il "teorema", che portò all´arresto di Scalzone, Piperno e Negri il 7 aprile del 1979, secondo cui c´era un collegamento tra gli ex leader di Potop e le Br.
Scalzone tornerà in Italia da libero cittadino. Che ne pensa?
«Non ne so molto, qualcuno mi ha telefonato per darmi la notizia ma francamente non ho nulla da dire al riguardo. E´ stata applicata una disposizione di legge, è l´effetto del decorso del tempo. L´applicazione del provvedimento di prescrizione non è discrezionale, è un fatto oggettivo».
E il suo teorema, il teorema Calogero?
«Su questa vicenda si disse già molto, non ho più nulla da aggiungere». (a. i.)

Repubblica 18.1.07
LE FRASI
"Creerò una compagnia di giro per fare agitazione filosofica, culturale e sociale"
Il proclama dell'ex leader "Libertà anche per gli altri"
"Il primo caso è Persichetti, io nomade fra Italia e Francia”
di Giampiero Martinotti

La barca. Nell'81 andai via con la barca di Gianmaria Volontè dalla Maddalena Ero con lui e una ex partigiana, Neva Maffii
Mitterrand. Perché decidemmo di venire tutti qui? Fu come una specie di tam tam dopo l'elezione a presidente di Mitterrand

PARIGI - Oreste Scalzone è uguale a sé stesso. Ha appreso da poco di essere libero di tornare in Italia, ma non riesce a rispondere con un sì o con un no a chi gli chiede se è felice o se gusta la sua nuova libertà («una parola enorme, definirla è difficile»). Un´intervista con lui è un percorso a ostacoli in mezzo a digressioni, citazioni giuridiche, accenni a Marx, riferimenti a Machiavelli, ricordi personali e teorizzazioni politiche.
Contento ?
«Come potrei non esserlo ? Ma la vita è fatta di ambivalenze: io ho avuto quello che mi spettava, la prescrizione, altri no».
Tornerà in italia ?
«Dopo tanti anni passati qui, non posso dire che mi sono sentito fuori posto. Ho sempre capito chi fra di noi aveva una struggente nostalgia, non è stato il caso mio. Non farò il pendolare, perché non ho due cuori. Farò il nomade».
Lei è fuggito dall'Italia ventisei anni fa, nel gennaio del 1981. Ma all'iniziò non restò in Francia: come mai ?
«Ce lo avevano sconsigliato. Ma passai in Francia. Con la barca di Gianmaria Volontè».
Come andò esattamente ?
«Dopo essere stato liberato per ragioni di salute, andai a casa sua a Roma. Mi ero tagliato la barba, temevo di essere riconosciuto. Partimmo in tre: io, Gianmaria e Neva Maffii, un'ex partigiana che non simpatizzava con l'Autonomia. Prendemmo il traghetto per andare a Olbia. La sua barca era alla Maddalena, sulla fiancata c´era scritto un verso di Paul Valéry: «Il vento si alza, bisogna tentare di vivere». In realtà, non c´era un filo di vento. (Scalzone si mette a cantare Verdi : "Oh mia patria sì bella e perduta", ndr.). Il viaggio fu lungo e si fece a motore. Una volta in Corsica passai sul continente. Avevo un passaporto che mi era stato prestato. Sono arrivato a Copenaghen, dove mi aspettavano Lucia e Linda, mia moglie e mia figlia. Sono rimasto lì fino a settembre, quando sono arrivato a Parigi».
C´è stato qualcuno che ha avuto l´idea di venire qui?
«No, l´abbiamo avuta in tanti, malgrado fossimo dispersi in tanti paesi diversi. E´ stato come una specie di tam-tam subito dopo l´elezione di François Mitterrand, che parlava della Francia come terra d´asilo».
In quanti eravate qui nell´81-82?
«Il governo ha sempre parlato di un trecento persone, alcuni avvocati del doppio. Tenendo conto delle famiglie, io direi piuttosto un migliaio di persone».
E lei divenne l´animatore della comunità.
«Me ne sono occupato molto. C´era sempre qualcuno che arrivava, i processi per le estradizioni, una novantina in tutto».
Ma tutti i governi vi hanno protetto e vi hanno consentito di restare qui.
«Sì, con due eccezioni : Paolo Persichetti, che è in carcere a Viterbo, e Cesare Battisti, fuggito prima di essere consegnato alla polizia italiana».
A differenza di quasi tutti gli altri terroristi o autonomi che hanno trovato rifugio qui, lei non si è trovato un nuovo mestiere: come ha campato?
«Le famiglie ci hanno sempre dato una mano. Mia moglie ha fatto lavori saltuari, per un certo tempo ho lavorato in una rivista. Non abbiamo cercato di integrarci e di fare una nuova vita perché non ne avevamo il tempo: ci occupavamo di chi arrivava, dei processi».
E adesso cosa farà?
«Prima di tutto voglio finire "Camminamenti", un libro che uscirà da Immaginapoli. Poi mi metto a fare una compagnia di giro, composta da me stesso e da chi ci vuol stare. Mi porto dietro anche la fisarmonica».
Per far che?
«Agitazione filosofica, culturale e sociale. Ma voglio occuparmi anche di un caso cui tengo molto».
Quale?
«Quello di Paolo Persichetti. Non vogliono concedergli nemmeno la semilibertà prevista dalla legge Gozzini. Ma io chiedo almeno che venga trasferito da Viterbo a Roma, dove vuole iscriversi a Giurisprudenza. Mi batterò con i mezzi della non violenza: o lo trasferiscono o mi mettono in galera. E se non sanno chi è Persichetti, il sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi (ex di Lotta Continua, ndr.) potrà spiegarlo a Prodi e agli altri membri del governo».
Con la prescrizione sono finiti gli anni di piombo?
«No, perché nessuna guerra è mai finita finché non tornano a casa i prigionieri. E l´unica soluzione per finirla davvero è l´amnistia. Continuerò a battermi anche per questo».

Repubblica 18.1.07
IL RACCONTO
Le scorribande di Scalzone con Pace e Piperno mentre i cinematografari civettavano con L´estremismo
Da Valle Giulia al 7 aprile così tramontò Potere operaio
Cani sciolti e lotta di classe nell´Italia degli anni ‘70
di Silvana Mazzocchi

Arrestato nel 1979 con Negri, Dalmaviva e Vesce con l'accusa di insurrezione armata
L'ispirazione della scuola operaista che affascinò gli studenti più politicizzati

ROMA - "Pendolare di vecchie battaglie di libertà" e, se necessario, con un giornale accartocciato a fare da megafono. Lo ha promesso e lo farà. Oreste Scalzone, è sempre stato un bulimico della protesta, "un cane sciolto senza collare", come si definiva da sé, "un alcolista della lotta di classe", come lo racconta Aldo Grandi in "La generazione degli anni perduti". Un personaggio d´epoca, un vintage di quei tempi furiosi e per niente innocenti, un errante senza vita privata, un eterno "ex" affetto da overdose di militanza e onnivoro di letture discontinue e coinvolgenti, come fu per i libri dell´operaista Mario Tronti che, raccontò, furono per lui "un vero punto di svolta". Fisico febbrile, occhi accesi e tendenza a scrivere e a parlare oltre misura; una tensione esagerata messa per decenni al servizio del Movimento studentesco, di Potere operaio, della "causa rivoluzionaria" e della deriva illegale, della violenza diffusa e degli "esiliati" a Parigi, dove lui stesso si stabilì fin dal 1981 (si allontanò dal nostro paese approfittando di una scarcerazione momentanea per motivi di salute), quando la Francia di Francois Mitterrand accolse decine di "rifugiati politici" fuggiti dall´Italia ferita dal piombo. Nello stesso anno venne condannato a 16 anni di reclusione nel processo ai Comitati comunisti rivoluzionari, per banda armata e rapine..
Era stato arrestato nell´aprile del ‘79 Oreste Scalzone, insieme con i leader di Autonomia Operaia, Toni Negri, Mario Dalmaviva ed Emilio Vesce, mentre Franco Piperno rimase latitante. I giudici di Padova del processo "7 aprile" lo accusarono di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, convinti che Potop e Autonomia avessero concordato una strategia comune con le Brigate rosse per abbattere la democrazia. Un´accusa che per gran parte degli imputati di quel dibattimento si disfece come neve al sole al processo d´appello del 1987.
Nato a Terni nel ‘47, Scalzone era stato un allievo "creativo" di quella scuola operaista alla quale dopo la metà degli anni Sessanta si erano andati formando tanti studenti di estrazione piccolo e medio borghese. E come l´amico Franco Piperno, classe ‘42, era anche lui cresciuto nella Fgci, l´organizzazione giovanile comunista. Senza mai però piegarsi del tutto all´obbedienza di partito. E con Piperno, così diverso da lui nel fisico e nel carattere, aveva fondato nel ‘69 Potere Operaio, "Potòp", come recitavano gli slogan dell´epoca. Fianco a fianco per affinità politiche, Scalzone e Piperno erano diventati i leader di quell´ala del Movimento studentesco, ed erano insieme quando, nel ‘68, all´Università la Sapienza di Roma, Scalzone rimase ferito da un banco che gli piovve addosso, lanciato dai giovani fascisti asserragliati nella facoltà di legge. E ancora insieme erano nel marzo dello stesso anno a Valle Giulia, quando centinaia di giovani del Movimento attaccarono i poliziotti che avevano sgombrato la facoltà di Architettura, occupata dagli studenti.
Ed ecco gli anni di "Potop", la Roma dei cinematografari che civettavano con l´estremismo, le scorribande con Lanfranco Pace e con Piperno, l´ambizioso progetto del giornale "La Classe", il divorzio dall´allora nascente Lotta Continua e la stagione "operaista" a Torino, davanti a Mirafiori, con le continue assemblee tra studenti e operai, ogni giorno e sabato compreso, alle quali Scalzone non mancava mai.
Quando nel ‘72 Potere Operaio declina e l´Autonomia avanza, Scalzone è sempre in prima fila, né si tira indietro di fronte alla deriva illegale, rapine comprese, (un testimone ne raccontò una, descrivendolo fra gli autori come "un tipo gentile e con una parrucca bionda"). Intanto, nel ‘70, aveva sposato una ragazza mite e determinata, Lucia Martini, che inutilmente avrebbe tentato di convincerlo a riprendersi almeno qualche spazio di vita privata.
Fumatore accanito, da sempre magrissimo, instancabile e in perenne movimento, a Parigi Oreste Scalzone è stato indiscusso protagonista nella colonia dei rifugiati politici. Ha imparato a suonare la fisarmonica e con quello strumento è stato visto spesso guidare le manifestazioni organizzate con i fuoriusciti nella capitale francese, contro ogni ipotesi che Parigi potesse decidere di restituire al nostro paese i latitanti. Per fortuna non senza qualche vena autocritica. Come quando, un anno fa, ammise di "vergognarsi" e di voler chiedere scusa alla famiglia Mattei per il rogo di Primavalle, avvenuto il 16 aprile del 1973. Quella notte due ragazzi vennero uccisi dal fuoco appiccato alla porta della loro casa da tre esponenti di Potere Operaio.
Per trent´anni Scalzone ha lanciato proteste, interviste, appelli e documenti "contro la tossicomania penale e per l´abolizionismo del carcere". Nell´aprile 2005 smise di mangiare per settimane. Con lo sciopero della fame a favore dell´amnistia arrivò a pesare 42 chili. Ci ripensò a un soffio dal collasso.