sabato 31 maggio 2014

l’Unità 31.5.14
Ai lettori

I giornalisti dell’Unità continuano lo sciopero delle firme. Mancano pochi giorni alla data dell’assemblea dei soci chiamata a fare scelte decisive per la testata. Non accetteremo ulteriori rinvii. Il giornale non può permettersi di «galleggiare», di restare ancora senza un vero piano industriale e chiari obiettivi di sviluppo, soprattutto alla vigilia dei mesi estivi.

Repubblica 31.5.14
Costituzione per la rete
di Stefano Rodotà



POSSIAMO dire che comincia a prendere forma una costituzione per la Rete, un vero Internet Bill of Rights? Proprio negli ultimi due mesi vi è stato un affollarsi di novità che non solo giustificano la domanda, ma sono il segno concreto di una tendenza in atto, che ritroviamo in sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea, nell’imminente nuovo regolamento europeo sulla privacy, in una importante legge brasiliana su Internet. Si manifesta così la consapevolezza della impossibilità di lasciare il Web al dominio delle sole logiche del mercato o della sicurezza. E soprattutto viene smentita la tesi della morte della privacy. Questa è tornata al centro dell’attenzione planetaria dopo le rivelazioni sul Datagate, tanto da indurre uno dei più convinti certificatori di quella morte, Mark Zuckerberg, ad affrettarsi ad assicurare che Facebook garantirà a questo diritto una più forte tutela.
LA CORTE di giustizia è intervenuta fondando le sue sentenze sull’articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantisce la protezione dei dati appunto come un diritto fondamentale della persona, al quale viene data protezione costituzionale. L’interesse economico di Google, e in generale dei motori di ricerca, non può prevalere su un diritto fondamentale che la Carta dei diritti colloca nella parte dedicata alla dignità della persona. Inoltre, si è affermato che ai motori di ricerca, se hanno nei paesi dell’Unione una loro presenza organizzata, si applicano le norme contenute nelle direttive europee.
Quest’ultima è una affermazione di grandissimo rilievo. L’idea di un mondo globale vuoto di diritto e soggetto solo al potere incontrollato delle imprese multinazionali viene rigettata. Si manifestano così, concretamente, i segni di un Internet Bill of Rights, di un riconoscimento alle persone di una effettiva garanzia del libero governo della loro sfera privata, quali che siano i soggetti che trattano le loro informazioni e i luoghi dove vengono conservate. Molto di più del solo riconoscimento del “diritto all’oblio”, per il quale comunque Google ha già predisposto una procedura per presentare e valutare le richieste di deindicizzazione.
Il Parlamento europeo aveva detto chiaramente che lo spazio comune di Internet deve essere libero dal rischio che se ne impadroniscano le grandi società, e rimanere uno spazio dove possano prosperare la libertà di comunicazione e l’innovazione. Con la sentenza della Corte di Giustizia si fa un passo importante in questa direzione, restituendo anche rilevanza a principi già previsti dalle direttive europee, ai quali quei motori di ricerca avevano cercato di sottrarsi. Ricordo i principi di finalità, proporzionalità, necessità e la norma che già dava alla persona interessata il potere di opporsi, per “motivi legittimi”, al trattamento dei suoi dati, anche se raccolti in maniera legale. Proprio partendo da queste premesse, erano già state rivolte molte richieste ai motori di ricerca, che potrebbero ora essere anche classificate come manifestazione del diritto all’oblio. Ma oggi il fondamento della garanzia discende direttamente dalla Carta dei diritti. Ragionare trascurando questa sostanziale novità, impedisce di cogliere il valore profondo della sentenza come tassello di una più generale costruzione costituzionale dei diritti sul Web.
Vi è poi un significativo legame tra questa sentenza ed una precedente che ha dichiarato l’illegittimità della direttiva europea sulla conservazione dei dati. In entrambe, infatti, compare il riferimento alla necessità di evitare che possano essere costruiti “profili” delle persone fondati non solo su informazioni sgradite all’interessato, ma nell’ambito di un contesto che può distorcerne la personalità. La crescita quantitativa delle informazioni disponibili ha determinato un mutamento qualitativo, che investe la stessa identità delle persone, che ha messo in evidenza l’enorme potere di Google e la necessità di controllarlo giuridicamente e socialmente, tanto che si è sottolineato che Google è vittima del suo stesso successo. Non a caso si è detto che “tu sei quello che Google dice che tu sei”, considerazione particolarmente rilevante in Europa, dove Google controlla il 90% degli accessi. La linea indicata dalle due sentenze, infatti, non ci ricorda soltanto che le ragioni di sicurezza non possono giustificare qualsiasi forma di raccolta di dati personali e qualsiasi periodo di conservazione, da una parte, e che, dall’altra, che vi è un diritto all’oblio. Si definiscono limiti all’azione di soggetti pubblici e privati per garantire alla persona interessata la possibilità di tornare ad essere quella alla quale viene riconosciuto il potere di governare la costruzione della propria identità.
Proprio per la sua radicalità, la sentenza riguardante Google si è attirata diverse critiche. L’argomento del pregiudizio per il mercato, tuttavia, trascura la nuova gerarchia istituita tra diritti fondamentali e interessi economici. Il mercato non può essere considerato come una sorta di legge naturale, che prevale su ogni altra. Più seria è la preoccupazione riferita ai possibili rischi per la libertà di espressione, ma la Corte ha escluso che le “figure pubbliche” possano invocare il diritto all’oblio e ha sottolineato che in casi specifici si dovrà confrontare la natura delle informazioni e il loro carattere sensibile per l’interessato con l’interesse alla conoscenza dell’opinione pubblica.
Si è dunque aperta una fase di riflessione che richiederà una valutazione del bilanciamento tra i vari diritti e interessi in gioco. Ma questo non può divenire un pretesto per rimettere in discussione il primato attribuito al diritto fondamentale alla protezione dei dati. Qualcuno teme che, muovendo da queste premesse, si possa giungere a un Web 3.0 dominato dal potere dell’interessato di controllare i dati che lo riguardano. Questo è un modo per travisare la questione. A quel Web 3.0 si dovrà guardare come ad uno spazio costituzionalizzato, dove gli Over the Top o altri padroni del mondo non possano considerarsi liberi da ogni regola o controllo. La versione integrale di quest’articolo esce su Eutopia, rivista web europea promossa da Laterza © Commons creative eutopia magazine

Repubblica 31.5.14
8xMille, lo Stato cresce e la Chiesa cala
di Valentina Conte

ROMA. Più 8 per mille allo Stato. In sei anni raddoppiano i contribuenti che sbarrano la casellina a favore delle casse pubbliche. Così come raddoppia il gettito. Briciole però rispetto a quanto incassato dalla Chiesa cattolica, il vero asso pigliatutto dell’opzione Irpef, nonostante un calo nelle preferenze. Anche perché la Conferenza episcopale beneficia non solo delle scelte esplicite di circa 15 milioni di italiani, ma anche (per legge) di buona parte del non espresso. Il risultato è schiacciante: 200 milioni per lo Stato e un miliardo per la Chiesa, quasi l’intera torta, nel 2009. Torta cresciuta in sei anni da 1,1 a 1,3 miliardi.
La serie storica dell’8 per mille, pubblicata ieri dal Dipartimento finanze, copre il periodo 2004-2009 (ma la ripartizione dei denari avviene solo a tre anni dalla dichiarazione dei redditi, cioè tra 2008 e 2013). Ebbene, nel 2004 solo 1 milione e 300 mila italiani sceglieva lo Stato. Sei anni dopo erano due milioni e mezzo. Nello stesso periodo il gettito è passato da 100 milioni (9% della torta) a 192 milioni (15%). Nel frattempo la Chiesa incassava, come detto, circa un miliardo all’anno (ma nel 2005 è scesa a 968 milioni), cioè il 90% delle risorse totali nel 2004, l’81% nel 2009. Benché dunque i due gettiti siano incomparabili, lo Stato ha recuperato contribuenti (dall’8 al 14%), la Cei ne ha perso qualcuno (dal 90 all’82% delle scelte). In totale però solo il 45% sbarra la casella, gli altri lasciano in bianco, consentendo il riparto.
Nel 2009 gli italiani hanno poi destinato 38 milioni ai Valdesi, 5 milioni e 300 mila euro alle Comunità ebraiche, 4 milioni ai Luterani, 2 milioni e 300 mila alle Chiese avventiste del settimo giorno, un milione e 300 mila alle Assemblee di Dio in Italia. Soldi fisicamente arrivati però solo l’anno scorso

Repubblica 31.5.14
I datori incassano fino a 7 volte più dei dipendenti
Il Tesoro aggiorna i dati sui redditi italiani E spunta l’aumento dei bolli sui passaporti
di Roberto Petrini



ROMA. L’imprenditore può arrivare a guadagnare e a dichiarare sette volte più del suo dipendente. L’operaio guadagna più del contadino. I professionisti quattro volte più dei commercianti.
Il ministero dell’Economia aggiorna i dati dei redditi Irpef dichiarati nel 2012 e scopre un’Italia fatta a scale. Ma emerge anche un Paese dove il carico fiscale pesa sul lavoro dipendente e la crisi colpisce duramente le imprese. I lavoratori dipendenti rappresentano infatti l’82,7 per cento dei 41,4 milioni di concittadini che pagano le tasse. Mentre le imprese vedono flettere i propri redditi: nonostante l’aumento del numero degli studi di settore (riguardano 3,7 milioni di soggetti), il reddito dichiarato è sceso del 5,8 per cento rispetto al 2011.
Intanto il decreto Irpef (quello sugli 80 euro) si avvia martedì prossimo a sbarcare in aula. Nel corso dell’esame spuntano due nuove microtasse: a firma di Tonini (Pd) aumentano i bolli sui passaporti, da 40,29 euro a 73,50; inoltre viene introdotto un contributo di 300 euro al momento del rilascio della cittadinanza italiana presso le ambasciate.
Ma a catturare l’attenzione sono le disparità delle remunerazioni tra i datori di lavoro e i propri dipendenti. La forbice, almeno stando alle dichiarazioni, è piuttosto ampia: i datori guadagnano da tre a sette volte di più dei propri dipendenti. Naturalmente si tratta di medie, che tuttavia i dati del ministero dell’Economia articolano per le varie tipologie di imprese. Si parte dalla situazione in cui il datore di lavoro è una persona fisica: in questo caso i dipendenti di questa categoria guadagnano tre volte meno del proprio “principale”, in media circa 10.450 euro lordi annui contro 31 mila. All’interno di questa tipologia di imprese che fanno capo ad una persona fisica ci sono tuttavia delle disparità: i professionisti arrivano a guadagnare, o almeno così dichiarano, cinque volte più della propria segretaria, mentre un commerciante o imprenditore edile si limiterebbe al doppio del proprio dipendente. Rapporto identico tra stipendio del lavoratore e stipendio del datore di lavoro nel caso delle società di persone: tre volte.
Le cose cambiano per i circa 10 milioni di dipendenti che sono impiegati nelle grandi imprese o società di capitali: in questo caso lo stipendio sale a 23.390 euro lordi annui, ma lievita molto di più per i datori di lavoro che arrivano a guadagnare sette volte tanto, ovvero 175.590 euro. Il documento del Mef cita anche lo stipendio medio degli oltre tre milioni di dipendenti della Pubblica amministrazione, pari a 23.108 euro: il termine di confronto tuttavia, trattandosi di un datore di lavoro pubblico, non viene citato. Sipotrebbe tuttavia raffrontare con gli stipendi dei dirigenti che la legge fissa al massimo di 240 mila euro: in questo caso il rapporto sarebbe di uno a dieci.
«Questi dati - dichiara il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti - nell'evidenziare che i datori di lavoro dichiarano in media redditi tripli dei dipendenti, mette la parola fine allo stereotipo “partite Iva uguale evasori”».
Nella giungla dei guadagni e dei redditi dichiarati emergono conferme e novità. Nel lavoro dipendente, ad esempio, resta marcata la differenza tra industria e agricoltura: nel 2012 il reddito medio più elevato si è registrato per coloro che operano nel settore industriale (25.066 euro), mentre i redditi più bassi si osservano nell'agricoltura (8.389). Alla base della piramide dei redditi si scoprono invece sarti, calzolai, corniciai, ma anche estetiste, cartolai e profumieri: queste categorie, secondo i dati del Mef sugli studi di settore, hanno dichiarato nel 2012 meno di 10 mila euro.

La Stampa 31.5.14
I contribuenti dichiarano sempre meno
Tassisti e gioiellieri sotto i 20mila euro
I dati del ministero dagli studi di settore: il reddito totale in calo del 5,6%.
Gli addetti delle società di capitali guadagnano sette volte meno dei datori

qui

Il Sole 31.5.14
La forbice. Dichiarazioni in media tre volte più elevate
Il datore supera il dipendente
di G.Tr.


I redditi dichiarati dai datori di lavoro sono in media il triplo di quelli dei loro dipendenti, e quando si guarda alle società di capitali, cioè a realtà mediamente più grandi rispetto alle altre realtà, la distanza che separa le dichiarazioni degli imprenditori da quelle dei loro dipendenti sale a sette volte.
Con queste due cifre semplici, ma rese possibili dai miglioramenti nei sistemi di analisi e open data che ora rendono disponibili le informazioni sui contribuenti in base al «reddito prevalente» di ogni dichiarazione, il dipartimento Finanze sfata uno dei luoghi comuni più diffusi quando si parla di redditi in Italia: quello dei «dipendenti che dichiarano più dei loro datori di lavoro».
Nelle medie nazionali, ovviamente, un fenomeno del genere è impossibile, e la sua fortuna mediatica è figlia di un confronto distorto: nel caso dei dipendenti il reddito da "persona fisica" abbraccia la quasi totalità dei guadagni, mentre per i datori di lavoro rappresenta solo una parte, che si aggiunge al reddito da società. Se si prende solo la quota etichettata come "persone fisiche" si confronta un reddito parziale (del datore) e un reddito complessivo (del dipendente), con il risultato di trasformare in prassi nazionale una situazione che si incontra solo in casi estremi, messi sotto esame da Guardia di Finanza e agenzia delle Entrate.
Rimesse insieme le tessere del puzzle, e messi a confronto i datori con i "loro" dipendenti e non con i lavoratori in genere, il quadro diventa più chiaro e permette anche analisi più specifiche per tipologia di società. Nelle società di capitali, il reddito medio dell'imprenditore arriva a quota 175.590 euro, cioè sette volte i guadagni dichiarati dai dipendenti di queste stesse aziende; se la società è di persone, il rapporto fra redditi dei datori di lavoro e redditi dei dipendenti è di tre a uno, e lo stesso si verifica quando il datore è una persona fisica. «Finalmente – conclude Enrico Zanetti, sottosegretario all'Economia – i dati mettono la parola fine alle patetiche letture dei dati medi per categoria economica».
Anche per i dipendenti, la situazione naturalmente cambia da settore a settore: nell'industria la dichiarazione media è di poco superiore ai 25mila euro, nell'agricoltura si ferma a 8.389 euro.

l’Unità 31.5.14
«Sel è terra di mezzo tra Pd e Tsipras»
Vendola dopo la direzione: «Dialogo con parte dei Democratici, come Civati
Vogliamo scongelare i rappresentanti del M5S». Sei ore per la mediazione


Noi siamo una sinistra di governo, non nel governo. Ma incoraggeremo Renzi se vuole usare il grande consenso ottenuto per scardinare il nuovo muro di Berlino, il muro dell’austerità». Parole chiave della relazione - approvata all’unanimità - con cui Nichi Vendola chiude sei ore di direzione di Sel, dalle undici alle cinque del pomeriggio.
MEDIAZIONE
Un’apertura al premier senza rinunciare a «contributi critici» su riforme, sul provvedimento degli 80 euro (che Sel non esclude di votare) crisi economica. Ma anche una battuta d’arresto sul progetto di costituente con la lista Tsipras e con le forze con cui si è fatto il cartello elettorale per le Europee: vicini sì, una cosa sola no. «Vogliamo essere la terra di mezzo che va da Tsipras al Pd e molto oltre. Guardiamo al mio amico Alexis e a Civati. Tessiamo alleanze guardando a un campo più largo».
Una mediazione che nella serata di ieri permette al leader di considerare depotenziate le voci di scissioni o fughe di parlamentari: «In casa mia c’è aria di dibattito e l’importante è non trasformarlo in una guerra con morti e feriti - continua Vendola - Occorre trovare un equilibrio, una sintesi. Oggi, tutti insieme, il nostro compito è rilanciare la sfida a Renzi e al M5S». Si trova, insomma, la quadra tra l’ala guidata da Gennaro Migliore, favorevole all’idea di un partito unico con Largo del Nazareno, e quella contraria, guidata dal coordinatore nazionale Nicola Fratoianni e da Giorgio Airaudo che temono l’annacquamento della loro forza politica. «Sono soddisfatto - commenta Migliore a fine riunione - C’è stata la condivisione di un percorso, sono stati fatti passi avanti sul rilancio di una prospettiva di centrosinistra ».
OBIETTIVO M5S
Vendola punta anche a «scongelare» il M5S, a approfittare delle crepe nella linea finora imposta da Grillo e Casaleggio apertesi dopo le elezioni Europee. «A noi interessano i votanti del M5s - ha detto ai suoi - e ci interessa anche scongelare una rappresentanza politica arrivata in Parlamento col mandato del cambiamento e che invece si è autocongelata. Quella di Grillo è una leadership che andrebbe rimossa ».
Intanto, però, evita accuse di “poltronismo”: «Non bramiamo poltrone o sgabelli, ma cerchiamo di migliorare le condizioni di vita dei cittadini». Adesso si tratterà di calare la mediazione politica nel rapporto con il governo. Contro l’austerity di Angela Merkel, contro le troppe tasse, a favore dei redditi più bassi. Occhi puntati sul provvedimento degli 80 euro in busta paga per circa 8 milioni di italiani. Ci sono le coperture da vagliare, ma per il momento Vendola non ha chiuso la porta.
Prossimo appuntamento con l’assemblea del partito, che si terrà dopo i ballottaggi delle amministrative. A metà giugno, al massimo entro la fine del mese. Quasi in concomitanza con quella del Pd che dovrebbe sancire l’approdo alla gestione unitaria del partito a cui sta lavorando Renzi.

Repubblica 31.5.14
Il partito di Vendola
È scontro dentro Sel per l’abbraccio ai Dem ma votano gli 80 euro
di G. C.


ROMA. Più del discorso è il volto a parlare. Quello di Gennaro Migliore è cupo, preoccupato: «Su Facebook e Twitter è stata una barbarie...». Un vero e proprio linciaggio con insulti tipo “poltronista”, “vattene”, “merda”, “venduto”. Migliore, il capogruppo di Sel a Montecitorio, chiede che il partito chiuda con la Lista Tsipras («E’ stata una lista di scopo») e riprenda a muoversi nel centrosinistra guardando al Pd. Il Pd di Renzi al 40,8% è una tentazione forte. Soprattutto perché - come ha spiegato il vice segretario dem, Lorenzo Guerini - il Pd deve muoversi nella prospettiva di un partito-contenitore, stile Labour o Democratic Party.
Alla fine di una lunga direzione, Migliore non presenta nessun ordine del giorno. Nicola Fratoianni, il coordinatore del partito, neppure. Nichi Vendola, il leader, riesce a mantenere Sel in equilibrio: il fronte che vorrebbe fare di Sel la Syriza italiana non vince; l’altra parte che vuole il dialogo con i Dem non perde. Scontro rinviato all’Assemblea del 14 giugno. Ma la divisione resta, e profonda. Vendola scherza: «Deluderemo ancora chi voleva vedere scorrere il sangue». Tuttavia il bivio si presenterà presto: nel voto sul decreto Irpef, quello degli 80 euro, Sel dovrà decidere se votarlo. Vendola annuncia: «Forse votiamo gli 80 euro, se non ne tolgono poi 100 tagliando welfare ». A quel punto la manciata di parlamentari vendoliani in bilico, tra cui Ileana Piazzoni, deciderà. Vendola intanto strizza l’occhio a Renzi: «Lo incalzeremo e ogni gesto che lui farà per superare l'austerità della Merkel troverà il nostro incoraggiamento. Ma noi non siamo nel governo». Sel è sinistra “di” governo ma non “nel” governo in cui ci sono Alfano e il Nuovo centro destra. Per ora, «Vendola rimette nelle mani di Sel il proprio destino», spiega Titti Di Salvo. Il dibattito si svolge a porte chiuse. Vendola neppure lo sa che i giornalisti non possono entrare. Il segno della tensione che circola. Il leader pensa a attrarre i 5Stelle smarriti e a parlare con la sinistra del Pd di Civati .

Corriere 31.5.14
Vendola, segnale al premier: pronti a votare il decreto Irpef
di Alessandro Capponi


ROMA — Per spiegare il momento di Sel basta forse un passaggio dell’intervento di Ileana Piazzoni (parlamentare, secondo molti sul punto di trasferirsi nel Pd): «Ricevo continui insulti e messaggi minatori da un membro della segreteria provinciale di Roma, è ora di finirla, basta!». Mica facile: le voci si sono rincorse per giorni, «c’è una manciata di parlamentari pronta a passare col Pd», e soprattutto c’è Gennaro Migliore che punta a «un soggetto unico di sinistra» e la maggioranza interna che guarda a Renzi e al governo con spontanea diffidenza. «È folle anche solo parlare di scissione dopo il voto — tuona il vicepresidente del Lazio, Massimiliano Smeriglio — il risultato è che abbiamo anche impedito ai compagni di festeggiare». Infatti non c’è scissione, non ora, non qui: se ne riparlerà all’assemblea di metà giugno, forse, ma per il momento viene approvata solamente la relazione di Nichi Vendola, e in sintesi è ormai ufficiale che non ci sarà la costituente della sinistra, che con la lista Tsipras ci sarà una collaborazione leale ma ognun per sé, e che Sel, adesso, rimane all’opposizione.
Che il discorso sul futuro sia solamente rimandato è abbastanza chiaro. Ciò che faranno i singoli — sembra che almeno due siano sul punto di scegliere il Pd — è tutto da vedere: «Il mio problema è come, adesso — spiega Ileana Piazzoni — il gruppo dirigente legge la realtà italiana, quasi a non cogliere il messaggio che viene dato ai cittadini, di voler cambiare il Paese. Io vorrei invertire la rotta e rimarrò finché non sarò certa che la prospettiva di Sel è quella di chiudersi in un angolo. La mia sensazione è che adesso, dopo il voto, tutto si sia rimesso in moto, anche il Parlamento. Ma non vorrei che l’atteggiamento di altri sia quello di mettere assieme tutto quello che non va di Renzi, come se gli augurassero il fallimento...». In verità qualche parziale apertura parrebbe arrivare anche dai vertici del partito: «Dobbiamo prima leggere il decreto Irpef — sorride Nichi Vendola — io penso che sia sempre positivo dare dei soldi ai lavoratori. Nell’ultimo trentennio la ricchezza è stata trasportata dal lavoro alla rendita. Se ci sono misure che capovolgono questa prospettiva, per noi va bene». Voterete sì? «Bisogna vedere com’è il decreto: si possono scrivere tante cose, buone o meno. Vedremo le coperture, dove il governo ha intenzione di andare a prendere i soldi». Di certo «noi non abbiamo detto che gli 80 euro sono una mancia per il voto di scambio. Non abbiamo fatto questa polemica». Si vedrà, dunque: Vendola si augura che «la leadership del M5S venga rimossa» e tende la mano «a chi, nel Pd, vuole costruire la sinistra, come Civati». Ma di certo le voci contrarie a un avvicinamento al governo sono la stragrande maggioranza. Fabio Mussi aspira una boccata dal sigaro e ragiona: «Il Paese si muove con sveltezza, non è detto che questo sia trionfalismo sia duraturo, gli assetti cambiano, c’è la crisi, ci sono le politiche di austerity dell’Europa, potrebbero arrivare guai...». Nicola Fratoianni: «Entrare in questo governo è una prospettiva insensata». E poi c’è Gennaro Migliore, che nell’intervento ricorda «gli insulti ricevuti sui social network» e poi, mentre Vendola parla, se ne sta seduto sul fondo della sala, non alza mai la testa.

il manifesto 31.5.14
Sel non si divide, è tregua: «Ma no a guerre interne»
Vendola tiene uniti i suoi, ma alla presidenza è scontro duro fra chi chiede di proseguire l’esperienza di Tsipras e chi vuole aprire un dialogo con il governo: «Renzi un pericolo? No, un’opportunità»
di Daniela Preziosi


«La mia idea è con­ti­nuare a delu­dere la pat­tu­glia di eroici gior­na­li­sti che seguono le nostre riu­nioni in attesa di vedere scor­rere il san­gue». Alla fine di una tor­men­ta­tis­sima riu­nione di pre­si­denza, in cui volano parole grosse e si scon­trano due fazioni oppo­ste — da una parte i soste­ni­tori del «pro­cesso» uni­ta­rio a sini­stra inne­scato dalla lista Tsi­pras, dall’altra quelli che chie­dono un avvi­ci­na­mento al Pd e una ridi­scus­sione del rap­porto con il governo Renzi, in mezzo un drap­pello di pon­tieri — Nichi Ven­dola non resi­ste alla ten­ta­zione di pren­der­sela con «i gior­na­li­sti». Non che possa negare che il dis­senso in Sel c’è ed è pro­fondo: «Da noi i capi del dis­senso interno», spiega, per riven­di­care demo­cra­zia interna rispetto all’M5S, «sono uno capo­gruppo alla Camera e un altro teso­riere del par­tito. Non vedo vicende ana­lo­ghe in altri par­titi. Nes­suno ha detto a nes­suno: se vuoi man­te­nere il tuo inca­rico o cambi linea poli­tica o rimetti il tuo mandato».
Durante la riu­nione, Ven­dola media senza tre­gua. Si sforza di tenere unita «la nostra comu­nità», bac­chetta chi alza i toni — qui ci vuole una paren­tesi sulla sini­stra pri­mi­tiva che dopo tante scis­sioni non non ha smesso dare del tra­di­tore, se va bene, a chi la pensa diver­sa­mente — «le voci dif­fe­renti non sono una minac­cia ma una ric­chezza. Piut­to­sto che repri­mere, ci piace discu­tere», «l’importante è non tra­sfor­marlo in una guerra con morti e feriti. Occorre tro­vare un equi­li­brio, una sin­tesi». Ma la «sin­tesi» sta­volta è un’esercizio dif­fi­cile fra le posi­zioni in campo, in un dopo-europee che poteva essere di festa (la lista Tsi­pras ha supe­rato di un sof­fio lo sbar­ra­mento, tre gli eletti) e invece è l’annuncio di una bat­ta­glia interna: chi chiede il par­tito unico fra Pd e Sel, date le pro­por­zioni (40,8 per cento con­tro il 4,03) è sospet­tato di fare domanda di iscri­zione al Pd. Chi chiede il «pro­cesso» uni­ta­rio a sini­stra sconta il sospetto di voler far scio­gliere Sel in una even­tuale ’cosa rossa’. Dalla prima parte Gen­naro Migliore, Ser­gio Boc­ca­du­tri (appunto il capo­gruppo e il teso­riere), Ileana Piaz­zoni, Clau­dio Fava, e una decina di depu­tati; dall’altra Nicola Fra­to­ianni, Mas­si­mi­liano Sme­ri­glio, Lore­dana De Petris, Paolo Cento, Fabio Mussi.
La gior­nata fini­sce con una tre­gua: le con­clu­sioni di Ven­dola sono votate all’unanimità, un po’ per­ché ecu­me­ni­che (e infatti i pro-Tsipras scal­pi­tano), un po’ per­ché i ’dis­si­denti’ sono par­la­men­tari quindi invi­tati senza diritto di voto. La sin­tesi di Ven­dola è: «Una sini­stra di governo non è una sini­stra nel governo». Rie­cheg­gia la for­mula ber­ti­not­tiana «siamo uomini in que­sto mondo, non di que­sto mondo» che apriva uno spa­zio di dia­logo con Prodi (a sua volta era una cita­zione di Paolo Tarso). Ma del resto que­sto pre­lu­dio di una nuova divi­sione è per forza un gioco di rimandi alle (tante) scis­sioni pre­ce­denti e infatti anche Migliore lan­ciando il suo avvi­ci­na­mento al Pd usa la for­mula «stare nel gorgo» che fu quella di Pie­tro Ingrao ad Arco di Trento nel 1990 quando annun­ciò di restare nel Pds.
Fin qui nes­suno cam­bia posi­zione. Alla fine Migliore può apprez­zare le parole di Vendola e quasi annun­ciare vit­to­ria: «Si è evi­tata la costi­tuente della sini­stra che era pro­mossa da alcuni espo­nenti della lista Tsi­pras. Ipo­tesi archi­viata per pun­tare invece sul rilan­cio del cen­tro­si­ni­stra, sul futuro del cen­tro­si­ni­stra». Dall’altra parte se di ’costi­tuente’ non parla nes­suno, la cer­tezza di aver avviato un per­corso con la lista Tsi­pras è gra­ni­tica. Fra i due fronti la terra di mezzo di quelli che «se la discus­sione è fra ade­rire al Pd o alla costi­tuente allora io mi iscrivo al gruppo misto», come dice Cic­cio Fer­rara. È una bat­tuta, ma in effetti alcuni depu­tati vedono ormai il gruppo misto come un approdo pos­si­bile.
Ven­dola smina il campo anche sul decreto sugli 80 euro, prov­ve­di­mento diven­tato sim­bolo della bat­ta­glia dei ’miglio­ri­sti’ che vogliono votare sì. Dice il pre­si­dente della Puglia: «Noi non abbiamo detto che gli 80 euro sono una man­cia per il voto di scam­bio. Vedremo, se è ottimo lo votiamo, se è pes­simo lo boc­ciamo, se è pos­si­bile miglio­rarlo non ci tire­remo indie­tro, come sem­pre».
L’eventuale conta è riman­data all’assemblea nazio­nale del 14 giu­gno. Nel frat­tempo oggi a Roma si riu­ni­scono i can­di­dati della lista Tsi­pras, poi toc­cherà ai comi­tati e ai garanti e biso­gnerà vedere qual è la pro­po­sta per pro­se­guire l’esperienza della lista. Se fosse già una «costi­tuente», per la quale spinge anche Rifon­da­zione, per Sel sarebbe un grosso guaio.
«Comun­que una dire­zione dob­biamo pren­derla», dice dal palco Nicola Fra­to­ianni. Ed è così, e il 40,8 per cento di Renzi non lascerà mar­gini di inde­ci­sione. Il segre­ta­rio Pd si schiera nel campo del bipar­ti­ti­smo. Con que­ste per­cen­tuali, e con una legge come l’Italicum, il Pd sarebbe auto­suf­fi­ciente a gover­nare da solo e «cor­rere soli» di vel­tro­niana memo­ria. Archi­viando il cen­tro­si­ni­stra, come fece Vel­troni in quel 2008. O, come dicono i dis­si­denti, «tra­sfor­mando il Pd nel centrosinistra».

il manifesto 31.5.14
Con la lista Tsipras «abbiamo rotto autarchia e provincialismo»
Dobbiamo rispettare il voto e fare i primi passi, dall’alto e dal basso, verso una Syriza italiana
di Raffaella Bolini

can­di­data della lista “L’altra Europa con Tsipras”

Prima di tutto, due dati ogget­tivi sull’esito del voto alla lista per “L’altra Europa con Tsi­pras”: l’analisi dei flussi dimo­stra che il mira­colo del 4% in tre mesi, senza soldi e oscu­rati dai media, non è la sem­plice somma dei voti delle forze già esi­stenti; il più alto numero di pre­fe­renze sono state rac­colte dalle per­so­na­lità cono­sciute, da can­di­dati dei par­titi ma anche da can­di­dati for­te­mente soste­nuti da dina­mi­che sociali e di movimento.
Dai tre mesi di cam­pa­gna elet­to­rale nel col­le­gio cen­tro traggo due valu­ta­zioni que­sta volta sog­get­tive: la mag­giore capa­cità di lavoro sul ter­ri­to­rio, il più grande entu­sia­smo, il coin­vol­gi­mento di atti­vi­sti nuovi e la capa­cità di reale dia­logo con la cit­ta­di­nanza l’ho tro­vata nei comi­tati dav­vero uni­tari – lad­dove tutti gli attori della lista hanno lavo­rato quo­ti­dia­na­mente insieme; la stra­grande mag­gio­ranza degli atti­vi­sti della lista, nelle ultime fasi di cam­pa­gna, erano sicuri che avremmo pas­sato lo sbar­ra­mento e chie­de­vano che l’esperienza della lista pro­se­guisse. Tanto più lo chie­dono ora.
Ci sono poi atre due con­si­de­ra­zioni gene­rali. La prima: la cam­pa­gna elet­to­rale è stata anche un grande corso di edu­ca­zione popo­lare sull’Europa, che mai era stata dav­vero con­si­de­rata come ambito prio­ri­ta­rio di impe­gno poli­tico e sociale –dele­gato anche a sini­stra agli addetti ai lavori, pen­sato ancora come “poli­tica estera” e non come spa­zio pub­blico da occu­pare con l’attivismo poli­tico e le pra­ti­che di cit­ta­di­nanza attiva. In secondo luogo il rife­ri­mento a Tsi­pras e a Syriza ha obbli­gato a rom­pere i con­fini pro­vin­ciali e autar­chici in cui la discus­sione anche a sini­stra da tempo era rin­chiusa, ha aiu­tato a rico­struire senso e neces­sità di alleanze e soli­da­rietà inter­na­zio­nali, e a tema­tiz­zare la ricon­nes­sione fra poli­tica, rap­pre­sen­tanza e mutuo soc­corso popo­lare su cui fonda il suc­cesso della espe­rienza greca.
Da que­ste con­si­de­ra­zioni traggo alcune pri­mis­sime con­clu­sioni, che aspetto di met­tere a con­fronto con gli altri can­di­dati, il comi­tato ope­ra­tivo, i garanti e i comi­tati nelle riu­nioni pre­vi­ste nei pros­simi dieci giorni. Il primo com­pito a cui siamo obbli­gati, se non vogliamo tra­dire la fidu­cia di chi ci ha votati, è strut­tu­rare il lavoro per­ma­nente, quo­ti­diano e ter­ri­to­riale della lista sul pro­gramma con cui ci siamo pre­sen­tati e sul raf­for­za­mento delle rela­zioni euro­pee. Man­dare in Europa tre par­la­men­tari non sarà ser­vito a niente, se non saremo capaci di tenere fede all’impegno di ricon­net­tere e sal­dare la poli­tica locale e nazio­nale con il dibat­tito, le alleanze, le ver­tenze e le lotte in Europa e nel Mediterraneo.
Biso­gnerà dun­que dotarsi di un piano di azione, di un livello orga­niz­za­tivo, di stru­menti per il coor­di­na­mento e la comu­ni­ca­zione – e que­sto è un obbligo che viene dal voto, non un optio­nal da sot­to­porre a discussione.
Tutto que­sto deve valo­riz­zare e non ridurre il senso inno­va­tivo della lista, che non è nata come un par­tito ma come una espe­rienza nuova e diversa – una sorta di movi­mento uni­ta­rio con capa­cità di rap­pre­sen­tanza poli­tica e isti­tu­zio­nale. E dun­que dob­biamo essere capaci di iden­ti­fi­care moda­lità demo­cra­ti­che e meto­do­lo­gie più vicine a quelle dei movi­menti uni­tari strut­tu­rati che a quelle tipi­che delle orga­niz­za­zioni tra­di­zio­nali – pri­vi­le­giando l’orizzontalità, la col­le­gia­lità, la ricerca del con­senso, piat­ta­forme pro­gram­ma­ti­che e non iden­ti­ta­rie e così via.
Essen­ziale è rinun­ciare a pra­ti­che musco­lari o di potenza, anche se fos­sero orien­tate a fin di bene — ricor­dia­moci che dob­biamo dare giu­sto valore per esem­pio a comi­tati locali pic­coli nume­ri­ca­mente ma che hanno fatto uno splen­dido lavoro sul territorio…..Se strut­tu­riamo la lista per fare il lavoro che ci siamo impe­gnati a por­tare avanti in cam­pa­gna elet­to­rale, riu­sciamo a tenere assieme due esi­genze che altri­menti rischiano di met­tersi in contrapposizione.
Vale a dire pro­se­guire l’esperienza uni­ta­ria della lista, come dob­biamo agli elet­tori e come vuole la stra­grande mag­gio­ranza di chi l’ha fatta, con­ti­nuando il lavoro di aper­tura e di inclu­sione di altri sog­getti col­let­tivi e di sin­gole per­sone. E con­sen­tire il dispie­garsi del legit­timo dibat­tito sulle pro­spet­tive più gene­rali della rico­stru­zione della sini­stra in Ita­lia, che si deve svol­gere nelle sedi uni­ta­rie e all’interno delle sin­gole com­po­nenti della lista con il tempo e le moda­lità neces­sa­rie per­ché sia serio e profondo.
Per­so­nal­mente spero, come ho detto in tutte le sedi e in tutte le salse, che l’esperienza elet­to­rale rie­sca dav­vero ad essere il primo passo verso una Syriza ita­liana. Ma sono anche sicura che non basta una deci­sione affret­tata per farla, tirando per i capelli chi vuole e deve discu­terne. Faremo Syriza se lavo­re­remo come Syriza – ini­ziando a pra­ti­care forme con­crete di ricon­nes­sione fra lavoro sociale, poli­tico, rap­pre­sen­tanza e dimen­sione inter­na­zio­nale. Non la faremo di impe­rio, ma con­ti­nuando a lavo­rare insieme, spe­ri­men­tando, met­ten­doci alla prova ogni giorno.

il Fatto 31.5.14
“Mai con l’estremista”, a M5S Farage non è “simpatico”
L’accordo con i populisti britannici mette in difficoltà Grillo che pensa anche alla seconda opzione: l’alleanza con i verdi
di Luca De Carolis


Cristo per finta, in affanno per davvero. Perché il suo Movimento dice no a Farage, a larga maggioranza. Dai parlamentari agli attivisti, fino ai 17 eurodeputati, spira un vento contrario. E pazienza se lui, il leader, assicura che il capo dell’Ukip “non è razzista”, anzi ha “pure il senso dell’umorismo”. Rimane il pollice verso di tanti, che ieri hanno accolto come un’ancora di salvezza l’apertura dei Verdi. E rimangono i tanti nodi dei 5 Stelle sconfitti: dagli stracci tra membri dello staff, alle discussioni su errori e rotta da correggere. Dopo la scorpacciata di maalox, Beppe Grillo la butta sul mistico, e si fa fotografare in riva al mare adornato di una finta corona di spine. Vari scatti sulla spiaggia di Marina di Bibbona (Livorno), dove ha una villa. Maglietta e calzoncini, cuffiette nelle orecchie. In testa un groviglio di alghe, a simulare gli aculei. Ma la spina, quella vera, si chiama Nigel Farage. Il leader dell’Ukip, assieme a cui vorrebbe confluire nell’Efd, gruppo del Parlamento europeo.
IN UN’INTERVISTA al Daily Telegraph, Grillo lo difende: “Non è vero che lui sia razzista, come io non sono il fascista e nazista che descrivono i giornali italiani. Fa-rage vuole controllare l’immigrazione in Europa, come noi”. Precisa: “L’incontro è servito per conoscerlo”. Non c’è ancora l’accordo, insomma. Ma non è lontano: “Non cambieremo il nostro programma, ma se stiamo parlando di principi come la democrazia diretta allora abbiamo qualcosa in comune”. Nel pomeriggio, sul blog di Grillo compare un testo: “Nigel Farage, la verità”. Da Napoli, le parole di Luigi Di Maio: “Su Farage non bisogna cadere nella trappola mediatica, e comunque la formazione di un gruppo è una mossa tattica che serve per calendarizzare provvedimenti ed eleggere vicepresidenti del Parlamento e presidenti di commissione”. Ma l’ipotesi di un accordo con Farage sconcerta tanti parlamentari. “Sono un paio di giorni che Beppe viene bombardato da sms di colleghi preoccupati” racconta un senatore di peso. Cupo: “La nostra base non capisce e non capirebbe”. Sui meet up e sui social network fioccano proteste: “Farage è un estremista”. Grillo insiste: “L’Efd rifiuta l’antisemitismo e qualsiasi altra forma di discriminazione”. La novità arriva da Monica Frassoni, co-presidente dei Verdi europei, che al Fatto.it   dichiara: “Col Movimento 5 Stelle a Strasburgo? Per ora non ci sono stati contatti. Ma se vogliono chiamarci per un incontro, una nostra delegazione ci sarà”. Le ricordano il no secco dell’eurodeputato tedesco Albrecht (“Escludo categoricamente un’alleanza con i 5 Stelle”). Frassoni ribatte: “Albrecht non è mandatario di niente, dopo la sua dichiarazione ci siamo parlati e lui non esclude proprio nulla”. È un’apertura, cauta ma rumorosa. In diversi dentro il Movimento respirano di sollievo. Anche tra i 17 neo-parlamentari europei del Movimento, che alle 14 entrano alla Casaleggio Associati, a Milano, per una riunione programmata da giorni. Padroni di casa, ovviamente, Casaleggio e il figlio Davide (ormai in pianta stabile ai vertici dell’M5S), mentre Grillo è collegato via Skype. C’è anche Claudio Messora, responsabile in pectore dell’Ufficio comunicazione a Bruxelles.
I FONDATORI si ritrovano di fronte a eurodeputati in ansia. “I territori stanno impazzendo per questa storia dell’accordo con Farage, diteci come stanno le cose” chiedono. Vogliono capire quanto è avanzata la trattativa con l’Ukip, che cosa riportare agli attivisti. Un eletto, in particolare, si espone: “Non dobbiamo assolutamente allearci con l’Ukip”. Casaleggio non si scompone. E risponde: “Siamo stati contattati prima delle elezioni da Farage, ma parliamo e parleremo con tutti, perché molti ci cercano. Lui ha fatto cacciare Borghezio e ha smentito le frasi omofobe”. Non chiude all’opzione Verdi: “La Frassoni l’abbiamo conosciuta nel 2007 per discutere di temi ambientali in Europa, parleremo anche con il suo gruppo”. Casaleggio chiosa: “La decisione finale la prenderà la Rete, ma noi andremo con quelli che ci garantiscono autonomia e incisività. Di certo non parliamo con Le Pen”. Grillo conferma: “Non è ancora deciso nulla, sono incontri che dobbiamo fare”. Ma ricorda: “Bisogna chiudere un’alleanza in fretta, senza non conteremmo nulla”. Esce Messora: “È ancora tutto aperto”. Pochi commenti da Roma. Alessandro Di Battista protesta: “Grillo incontra Farage e questo per i media è più grave del patto del Nazareno Berlusconi-Renzi?”. Il senatore lucano Vito Petrocelli spariglia: “Né con Farage né con i Verdi, ogni riferimento agli anni di piombo è puramente voluto”. Il punto sulla questione lo farà una delegazione di parlamentari con Grillo e Casaleggio, la prossima settimana (forse giovedì) a Milano. Una riunione che potrebbe essere anticipata dall’assemblea congiunta. I deputati il loro confronto l’hanno già avuto. Raccontano: “I big sono rimasti tutti zitti, hanno parlato solo gli ortodossi meno esposti”. Come Angelo Tofalo, che ieri sul suo profilo Facebook ha chiesto ai militanti se Grillo debba dimettersi, ricevendo un plebiscito contrario. Dentro l’assemblea, critiche ai vertici anche da ortodossi e deputati finora silenti. Perfino fendenti contro il blog di Grillo: “C’è troppa pubblicità. E perché i post non vengono mai concordati prima?”. Altre spine, per il finto martire.

il Fatto 31.5.14
Affinità e divergenze tra Ukip e Cinque Stelle
Il blog del comico ospita la nota stampa del partito inglese che nega di essere razzista. Ma all’Europarlamento gaffe su donne e omosessuali
di Alessio Schiesari


Una lunga lettera scritta dall’ufficio stampa di Nigel Fa-rage per rispondere alle accuse di xenofobia, razzismo e sessismo; spiegare che cos’è l’eurogruppo Europa per la libertà e la democrazia e spiegare che la coabitazione tra il M5S e l’Ukip non implicherà un’alleanza organica su tutti i temi. Ieri il blog dell’ex comico si apriva così, lasciando campo libero alla penna dei responsabili comunicazione Ukip. Una scelta che pare avvicinare Grillo e Farage. L’Efd, l’eurogruppo in cui coabiteranno, è meno spostato a destra rispetto a quello di Le Pen. La lista dei partiti italiani che vi hanno aderito però ha poco a che vedere con i 5 Stelle: Magdi Allam, Lega e, prima che il gruppo cambiasse nome, anche An.
IN COMPENSO, i punti in comune tra i due leader non mancano: le straordinarie capacità da tribuni, l’insofferenza per le critiche interne (e l’attitudine alle espulsioni facili), la lotta senza quartiere all’eurocrazia. Eppure, se Grillo ha accolto sul blog l’arringa difensiva di Farage, significa che le contraddizioni che aleggiano su questo ex broker della borsa metalli londinese sono tante. Questa la più pesante: Farage e l’Ukip sono razzisti. Lui nega. La lotta all’immigrazione è uno dei suoi cavalli di battaglia. certo. Il programma Ukip del 2005 proponeva visite epidemologiche obbligatorie all’ingresso per tutti gli immigrati. Più di recente, si è speso per restringere l’uso di burqa e niqab, perché “nemmeno io non posso entrare in banca col casco”. Di recente, il suo delfino, Paul Nuttall, in missione in Polonia c’ha messo del suo: “Tranquilli, i britannici non hanno paura dei bulgari, ma di tutti gli immigrati. Non importa da dove vengano”. Ma lo scivolone più celebre rimane quello di un volantino del 2010, che mostra l’immagine di un indiano su cui campeggia la scritta: “Anche a lui se ne fregava dell’immigrazione. Oggi vive in una riserva”. Negli ultimi anni però Farage ha chiuso la strada a derive lepeniste. L’Ukip proibisce l’iscrizione ai militanti del Bnp, il partito dell’estrema destra inglese, ed è stato proprio lui a cacciare Mario Borghezio dall’eurogruppo (per tutta risposta il leghista l’ha definito “una puttana”).
Se con gli immigrati andiamo così così, ancor più difficile è il rapporto con le donne. Per sua stessa ammissione frequentatore di lap dance, ha rotto con tutte le eurodeputate Ukip. Marta Andreasen se n’è andata dandogli del “misogino dittatore stalinista”, mentre Nikki Sinclaire ha denunciato il partito per discriminazione sessista, vincendo la causa. Nella lettera pubblicata ieri sul sito di Grillo, Farage sostiene di averla cacciata per un presunto peculato. Non è vero: Sinclaire è stata messa alla porta nel 2010, mentre i suoi guai giudiziari sono emersi solo due anni dopo. Nel 2004 un suo eurodeputato, Godfrey Bloom, davanti alla commissione sui diritti delle donne ha esordito: “Nessun uomo d’affari con un cervello darebbe lavoro a una giovane donna single”, beccandosi il plauso dello stesso Farage. Nove anni dopo, quando Bloom ha chiamato le colleghe di partito “mignotte” Farage l’ha però cacciato. Un altro dei cavalli di battaglia dell’Ukip – e qui c’è grande sintonia con il M5S – è la lotta all’evasione. L’anno scorso però Farage è stato pizzicato a gestire un fondo fiduciario sull’Isola di Man che, per sua stessa ammissione, serviva a pagare meno tasse. A cementare l’alleanza tra il leader Ukip e Grillo (che era già stata anticipata su twitter dal portavoce dell’Efd, Hermann Kelly, il 7 maggio, ma non se n’era accorto nessuno) potrebbe essere la lotta all’eurocrazia. Le spassosissime requisitorie di Farage a Bruxelles hanno il pregio di rompere la grigia monotonia del parlamento. Anche su questo punto, però, la stampa inglese l’ha spesso attaccato. I deputati dell’Ukip sono in cima alla lista degli assenteisti cronici e Farage durante il suo lungo trascorso a Bruxelles ha guadagnato quasi 2 milioni di euro.

il Fatto 31.5.14
Conflitto d’interessi
Chi rottamerà le Marcegaglia?
di Salvatore Cannavò


Il conflitto di interessi non è stato ancora rottamato e, a giudicare dalle mosse di Matteo Renzi, mai lo sarà. La scena dell’altroieri al ministero dello Sviluppo economico, dove Emma Marcegaglia, noncurante della nomina alla presidenza dell’Eni, si è seduta, per conto della famiglia, al tavolo sulla siderurgia, è riassuntiva di un’Italia che non cambia verso per niente. La ex presidente di Confindustria era stata già avvertita del possibile conflitto tra gli affari della Marcegaglia Spa e quelli nell’energia da parte dell’Eni. E aveva assicurato, dimettendosi dalle cariche di famiglia, che sarebbe stata inappuntabile. Eppure, eccola lì, senza remore, a discutere di come formare una cordata di imprenditori per rilevare l’Ilva di Taranto.
Davanti aveva una ministra, Federica Guidi, che le ha fatto da vice alla guida di Confindustria. Che dell’associazione industriale ha diretto i Giovani ma, soprattutto, viene da un’azienda, la Ducati Energia che, con la multinazionale presieduta oggi da Marcegaglia, ha più di un interesse. Roba che “la mano invisibile” di Adam Smith non può che fare “marameo”. Del resto, un’altra fresca nominata, Luisa Todini al vertice delle Poste, non ci pensa nemmeno a lasciare l’incarico nel Cda della Rai. Il capitalismo italiano, fatto di reticoli e favori reciproci , è in crisi, lo scriviamo da tempo. Ma quel tic resta un caposaldo che muove la tolda di comando. Incarichi e ruoli vengono discussi tra un Martini Dry e una partita a tennis, tra un bagno caldo nel resort di turno e una cena discreta tra i soliti noti. Mentre con un braccio si occupava di siderurgia e con l’altro dirigeva l’Eni, Emma Marcegaglia trovava il tempo di congratularsi con il nuovo presidente delle Ferrovie, Marcello Messori, “che riempie di orgoglio” la Luiss, l’università di cui lei stessa è ancora presidente e in cui il neo presidente Fs è docente ordinario. Per restare nei paraggi di Confindustria, Luigi Abete, uomo di ambizioni e di senso pratico, già presidente di Confindustria, presidente della Bnl e proprietario, tramite le partecipate, delle agenzie Asca e Tmnews e del settimanale l’Internazionale da ieri è il nuovo presidente di FebaF. La Federazione delle banche assicurazioni e finanza raggruppa tutte le strutture del settore e Abete è stato chiamato a sostituire l’indagato, per la vicenda UnipolSai, Fabio Cerchiai di cui era vicepresidente. Insieme a lui ci sarà, come vicepresidente, Innocenzo Cipolletta che è stato direttore generale di Confindustria, quando Abete ne era presidente e, tanto per confermare le coincidenze, è stato anche presidente delle Ferrovie.
Nelle recenti nomine di Eni, Enel, Terna e Fin-meccanica, Matteo Renzi è stato accusato di aver piazzato molti dei suoi amici “fiorentini”.
Ma la stimmate delle appartenenze vanno oltre. Vedi Marta Dassù, in Finmeccanica, che nonostante si sia occupata di Esteri e Sicurezza nei governi Monti e Letta, in esplicito conflitto di interessi, non ha esitato ad accettare l’incarico. Dassù, del resto, è autorevole esponente dell’Aspen Institute nel cui comitato esecutivo ritroviamo tutti: Luigi Abete, Emma Marcegaglia, Cesare Romiti, Giuliano Amato, Mario Monti, Romano Prodi e anche Gianni Letta e Fedele Confalonieri. Renzi ha fatto della “rottamazione” il simbolo di un’epoca. Ma, forse, mettere da parte solo Massimo D’Alema non basta.

La Stampa 31.5.14
Renzi: “Governerò per quattro anni
Pronti a guidare l’Ue. L’Italia ha scelto la stabilità”
Il premier a La Stampa: “Prima dei nomi, mettiamoci d’accordo sull’agenda.
La Germania è un modello, ma basta austerità: dobbiamo cambiare l’Europa”
intervista di Fabio Martini

qui
 

La Stampa 31.5.14
La grandeur di Renzi “Il Pd ora diventi partito della nazione”
Il premier alla Direzione: mettiamo casa nel 40%
di Fabio Martini


Stavolta - e non era mai accaduto prima - quelli della Direzione del Pd lo accolgono con un applauso caldo e Matteo Renzi contraccambia con un discorso dai toni dolci con la minoranza interna, ma soprattutto dispiegando tutta la sua ambizione, delineando un partito desideroso di “grandeur”, capace di diventare egemone per i prossimi anni. Per connotare il Pd del futuro, Renzi prende a prestito la definizione di un vecchio comunista, uno degli ultimi dirigenti del Pci della covata togliattiana: «Ho letto un articolo di Alfredo Reichlin sull’Unità: ha ragione a parlare di partito della nazione, perché il consenso ci impone a provare a cambiare in modo forte l’Italia e l’Ue». La nazione, in politica è una parola ambigua che può portare in direzioni opposte: verso destra se scritta con la maiuscola, verso sinistra se quello della nazione è un partito del popolo, aperto a tutti. Renzi - invertendo in cuor suo la celebre definizione di De Gasperi - pensa ad un partito di sinistra che guarda al centro, tanto è vero che davanti alla Direzione racconta un gustoso aneddoto che si è verificato durante la notte elettorale: «Una volta arrivati i sondaggi, arriva Bonaccini, che era già “fuori” e dice: se facciamo più del 34 per cento abbiamo fatto il record di tutti i tempi... E non osa nemmeno citare...». Chi? Renzi non lo dice, ma facendo quella battuta, il pensiero di Bonaccini era andato chiaramente al Pci di Berlinguer. Renzi riprende il racconto della nottata: «A quel punto interviene Guerini e dice: noi con Alcide siamo andati al 48...». Morale dell’aneddoto: dentro al Pd convivono tranquillamente l’ex Pci Stefano Bonaccini e l’ex Dc (andreottiano) Lorenzo Guerini e dunque il Pd è il partito che tiene dentro l’eredità sia di De Gasperi che di Berlinguer.
Certo, Renzi non l’ha detta così, ma il senso del suo intervento è stato proprio quello di delineare un partito dalle grandi ambizioni. Passaggio-chiave: «Vogliamo metterci casa in questo 40%». Come dire: quel risultato non è acquisito una volta per sempre, bisogna investirci sopra. Come? Anzitutto avendo la sfrontatezza di diventare partito leader non soltanto in Italia ma anche nella Ue: «In Europa il cambiamento, se non lo fa il primo partito d’Europa, non lo fa nessuno!». E il Pse? Renzi si propone come garante della sua potenzialità innovatrice: «Dobbiamo richiamare il Pse a fare quel che ha detto in campagna elettorale». 
E in casa? «Il Pd deve diventare il partito d’Italia, votato - come accaduto stavolta - dalla volontaria del tortellino e dall’artigiano del Nord-Est». Propone un lungo elenco di riforme, da realizzare entro l’estate, ma poi se ne esce con una battuta curiosa: «Nessuno di noi farà campagna acquisti in Parlamento, ma la disponibilità a riflettere nell’orizzonte del 2018 è fisiologica, non perché lo vogliamo noi, ma perché si sono verificate» circostanze come la «scomparsa di altri partiti, una cosa positiva per dei sinceri bipolaristi». Come dire: cara Scelta civica non resta che prender atto della realtà.
Ovviamente Renzi non lo dice così esplicitamente, anche perché in questi giorni, anche i detrattori lo riconoscono, l’uomo è in uno stato di grazia che gli fa dire le cose più complicate e ambiziose col tono “giusto”. Strada spalancata invece per la difesa di Napolitano: «Gli insulti al Capo dello Stato dal palco dei 5 Stelle sono stati il momento in cui si è toccato il punto più basso, perché la dimensione dell’odio andava oltre il rispetto della civiltà politica, si andava verso l’odio personale».
Poi la stoccata: «Mi ha colpito un fatto: che in streaming si fanno i dibattiti, a trovare i populisti inglesi si va di nascosto...».

La Stampa 31.5.14
Renzi e le riforme giugno sarà un mese difficile
di Marcello Sorgi


Il giro d’orizzonte che tra mercoledì e ieri Renzi ha avviato con i ministri più esposti sul fronte delle riforme lascia prevedere un giugno molto impegnativo per il governo. Il premier ha cominciato con Boschi e Alfano, e ha proseguito con Padoan, Lupi, Franceschini, Madia e Orlando, proprio nelle stesse ore in cui il Governatore della Banca d’Italia Visco in via Nazionale leggeva la sua analisi della situazione del Paese. Con un ammalato ormai cronico come l’Italia, la relazione del Governatore rappresenta una diagnosi delle tendenze, più che dei mali. E forse perchè veniva dopo una campagna elettorale esagerata dal punto di vista della propaganda, e dopo un risultato a sorpresa che ha spinto il Pd a un ottimismo oltre il consentito, le parole di Visco sono risuonate come un brusco richiamo alla realtà. Una recessione ancora in corso e «travagliata»; una ripresa appena accennata, «fragile e incerta». Di qui, ha insistito il Governatore, all’indomani di un richiamo altrettanto drammatico del presidente di Confindustria Squinzi, la necessità di un’accelerata delle riforme, per avere a breve risultati concreti dopo tanti impegni presi a parole. Forse perchè si aspettava un messaggio così impietoso (ma Visco, sugli 80 euro, ha dato un giudizio positivo), Renzi ha voluto dare un segnale quasi in contemporanea all’appuntamento di via Nazionale. Il calendario di inizio estate per il premier prevede nel prossimo mese il primo voto sulla riforma del Senato, la riapertura del confronto sulla legge elettorale, che richiederà sicuramente qualche aggiustamento, la presentazione del testo della riforma della Pubblica amministrazione, sulla quale i sindacati preparano una levata di scudi.
Ma la valutazione che Renzi ha fatto con i suoi ministri riguarda anche il clima parlamentare in cui le riforme dovranno riprendere il loro cammino. Quello preelettorale si era talmente deteriorato da convincere il premier a una pausa in attesa del voto. Quello attuale sconta una difficile metabolizzazione di risultati che sono stati molto buoni per il Pd, ma non altrettanto per alleati e avversari. Basta guardare a ciò che sta accadendo tra centro e centrodestra, con la resa dei conti in corso tra Ncd e Udc, dopo il faticoso raggiungimento della soglia di sbarramento del 4 per cento che pure ha consentito ad Alfano e alla pattuglia ex-berlusconiana di tirare un sospiro di sollievo, e al ribollire di Forza Italia dopo la sconfitta, e dopo che Berlusconi ha gelato le richieste di un cambio al vertice. Così, nelle prossime settimane, i due tronconi del centrodestra, quello al governo e quello all’opposizione, potrebbero essere tentati di rallentare la marcia trionfale di Renzi verso le riforme.

il Fatto 31.5.14
L’ex vice
Nardella, il Bondi di Matteo: nomine facili e Compagnia delle Opere
di Davide Vecchi


Il G8, i fondi per il polo museale, il rilancio dell’aeroporto: il Comune di Firenze si aspetta molto dal governo, ora che è guidato da Matteo Renzi e che il suo ex vice sindaco nonché fedelissimo amico, Dario Nardella, è diventato primo cittadino del capoluogo toscano. I due ieri si sono incontrati a Palazzo Chigi per parlare “delle questioni aperte tra la città e il governo e dei progetti che riguardano il futuro della nostra città”, ha scritto Nardella su facebook ancor prima di lasciare gli uffici della Presidenza del Consiglio. Tra i due c’è un legame profondo. Se Marco Carrai è il Gianni Letta di Renzi, Nardella ricorda l'entusiasta e fedele Sandro Bondi. Lunedì sera, per dire, festeggiando la conquista di Palazzo Vecchio, commosso ha annunciato: “Spero di vedere presto Matteo”.
NATO A TORRE DEL GRECO, nel 1975, Nardella nel 2004 viene eletto consigliere comunale a Firenze nelle file dei Ds e qui conosce Marco Carrai, già intimo di Renzi. Tra i due nasce un’amicizia e sboccia un’associazione. Nel 2005 danno vita a Eunomia, che ancora oggi organizza master per la formazione politica per amministratori: 2.500 euro per partecipare a una serie di incontri con relatori che vanno da Denis Verdini a Massimo D’Alema, da Lorenzo Bini Smaghi a Giulio Napolitano (figlio di Giorgio) . Una associazione che fa da bacino di consensi e che, negli anni, unirà molti degli amici renziani di oggi. Patrocinata da Comune e Provincia di Firenze, finanziata, tra gli altri, da Eni, Coop e Ente Cassa di Risparmio di Firenze, dove Carrai è consigliere.
Di Eunomia Nardella è tuttora direttore, presidente è Enzo Cheli, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale; Carrai è responsabile delle relazioni esterne mentre tesoriere è Francesco Neri, presidente del Consorzio nazionale Con.Opera della Compagnia delle Opere, associazione di imprese fondata da Comunione e Liberazione. Non a caso Eunomia ha ospitato anche Giorgio Vitta-dini, tra i fondatori del Meeting di Rimini, fondatore e presidente fino al 2003 proprio della Cdo. Anche Nardella è legato alla Cdo. O meglio: la moglie Chiara Lanni. Consigliere di Con.Opera, già vicepresidente del Cda della cooperativa Acchiappastelle, oggi vicepresidente del Cda della cooperativa Cavallo Bianco, entrambe legate al consorzio della Cdo, presieduto come detto da Neri e guidato, in veste di direttore generale, da Guido Boldrin, dal 2001 al 2009 direttore generale di Compagnia delle Opere Opere Sociali. Ovviamente, come tutte le associazioni che gestiscono asili nidi, partecipa alle gare indette dal Comune. E qualcuna la vincono pure. Ma l’amicizia con Renzi sindaco prima e la parentela con Nardella ora non c’entrano nulla. Al momento. C’è un’interrogazione presentata da Tommaso Grassi, consigliere di Sel, il 27 gennaio 2014 per sapere “se il Comune di Firenze a partire dall’anno 2004 a oggi ha avuto o ha ancora in essere collaborazioni, contatti, appalti, contratti, con le cooperative” riconducibili a Lanni. Risposta non pervenuta. Certa invece la firma di Nardella sotto le ultime nomine affidate da Palazzo Vecchio appena otto giorni prima del voto. Simone Tani nuovo amministratore unico della controllata Sas; insediati nel Cda della Mercafir Bianca Maria Giogoli, ex Pdl, poi Fli e da poco nelle liste “noi con Matteo Renzi”, e Lorenzo Petretto, figlio dell’assessore al bilancio. Il sindaco gioca d’anticipo, con la benedizione dell’amico premier. Già nel 2006 lui e Carrai tastano il terreno al posto dell’allora presidente della Provincia criticando il Pd. “Il futuro non può attendere oltre” è l’appello che il 22 aprile lanciano Nardella e Carrai per una “nuova forza politica solida e rassicurante”, anticipando i temi della rottamazione. Tra i firmatari che raccolgono l’invito: Enzo Cheli, Lucia De Siervo, Salvatore Scino e altri fedelissimi di oggi. Matteo di Nardella si fida. Come si fidava l’ex sindaco di Firenze Domenici di cui il Bondi di Renzi è stato consigliere. L’attuale primo cittadino fa le sue apparizioni nelle carte di diverse inchieste. Il due gennaio 2008 l’architetto Gaetano Di Benedetto, tecnico di Palazzo Vecchio accusato di truffa e ritenuto vicino alla Cricca di Angelo Balducci, viene intercettato mentre spiega all’ingegnere Vincenzo Di Nardo, altro tecnico legato alla Cricca, come arrivare a ottenere gli appalti che interessano “gli amici”. E dice: “C’è una persona emergente, preparati, te lo troverai avanti nel futuro: Nardella, Dario Nardella”. Aveva visto giusto. Dopo poco più di un anno è Riccardo Fusi, indagato nell’inchiesta Grandi Opere e arrestato per il fallimento di alcune società, a raccontare degli incontri avuti con Renzi “e il vicesindaco lì, il Nardella” organizzati per capire come conquistare i lavori del Panificio Militare e di altre aree nella città di Dante.
LEGGENDO LE INTERCETTAZIONI dell’inchiesta sulla Btp , in realtà, si comprende come Fusi e il suo socio Nencini giochino su tutti e tre i fronti: Renzi, Nardella e Carrai. Fusi li aveva conosciuti il 22 ottobre 2007: aveva partecipato da invitato alla prima iniziativa di raccolta fondi pro Renzi organizzata dall’associazione Noi Link, embrione della fondazione Big Bang che nascerà nel 2012. All’hotel Brunelleschi, quel giorno, siedono 106 persone pagando mille euro per pranzare con il futuro rottamatore, guest star: l’allora ministro Francesco Rutelli. Con Fusi, Neri, Antonio Cantini e Alfiero Poli di Polistrade, il direttore della Cna Luigi Nenci, imprenditori vari; mentre al fianco di Renzi sedeva, oltre a Carrai e all’avvocato Alberto Bianchi (ora nel Cda dell’Enel), Giorgio Gori, candidato sindaco di Bergamo costretto al ballottaggio. Nardella ha conquistato Firenze con il 60%. Ma non si è preso meriti. L’ha detto subito: “Grazie Matteo”.

l’Unità 31.5.14
La Rai scende in piazza contro i tagli del governo
I sindacati protestano l’11 giugno: il prelievo di 150 milioni presenta «profili di incostituzionalità»


I 150 milioni di tagli alla Rai annunciati dal premier Matteo Renzi? Mostrano «evidenti profili di incostituzionalità» per le segreterie nazionali Slc Cgil, Fistel Cisl, Uilcom Uil, Ugl Telecomunicazioni, Snater, Libersind Conf Sal e Usigrai. E i sindacati in risposta a Palazzo Chigi decidono di scendere in piazza il prossimo 11 giugno per protestare contro la cura dimagrante della televisione di Stato imposta dalla spending review. Per quel giorno è stato indetto uno sciopero di tutti i dipendenti del servizio pubblico. Il primo a parlare di possibili tagli fu proprio Renzi durante un duro scontro a Ballarò con il conduttore Giovanni Floris. «Anche la Rai deve partecipare dei sacrifici, tocca anche a voi», aveva detto il premier in quella serata, facendo una distinzione tra «tagli agli sprechi e ai cda» e licenziamento di lavoratori che, anzi, «non ci saranno» aveva precisato Renzi. Alla fine di quella trasmissione il premier fu anche apertamente contestato dai lavoratori della Rai. A distanza di qualche settimana la tensione non accenna a placarsi, anzi il clima si è fatto addirittura più teso. E lo sciopero annunciato non è che la punta dell’iceberg di una situazione che potrebbe diventare ancora più calda. A questo punto non è neanche escluso che la protesta possa toccare la messa in onda delle partire della Nazionale di Prandelli al mondiale brasiliano.
Per i sindacati si tratta di «Un taglio drastico che non colpisce gli sprechi mai posti di lavoro creando le condizioni per lo smantellamento delle sedi regionali e ancor peggio per la svendita di RaiWay alla vigilia del 2016 (data in cui dovrà essere rinnovata la concessione per il servizio pubblico), lasciando intravedere inquietanti ritorni a un passato fatto di conflitti di interessi e invasione di campo dei partiti e dei governi. Indicare in Raiway e nelle sedi regionali i luoghi verso cui operare vendite o riduzioni significa infatti - continuano - far morire la Rai e compromettere seriamente il rinnovo della concessione per il servizio pubblico».
In attesa di capire se la Rai presenterà un ricorso verso il decreto, l’Azienda ha chiesto un parere al costituzionalista ed ex presidente dell'AgCom Enzo Cheli, a rendere ancora più complicata la situazione sono state le dichiarazioni, anche se caute, del Direttore Generale Luigi Gubitosi davanti alla Commissione di Vigilanza Rai. Per il top manager «Il Piano industriale, già approvato per gli esercizi 2013-2015, alla luce delle disposizioni del decreto Irpef, non è più sostenibile (...). Occorrerà parallelamente ridefinire i livelli occupazionali compatibili con il nuovo perimetro». Come dire che non è irrealistico parlare di possibili licenziamenti. Chi tenta di buttare acqua sul fuoco è la presidente della Rai Anna Maria Tarantola. Da Trento a margine del Festival dell’Economia precisa che: «La Rai in Italia, così come nelle altre democrazie occidentali, è garanzia del servizio pubblico ed è sostenuta dai sacrifici degli italiani.
Questo impegno, sul piano dell'informazione, in attuazione dell'Art.21 della Costituzione, si poggia sull'alta qualità dei professionisti Rai. È un patrimonio da tutelare, pur nell'ambito di una efficace spending review e di una rigorosa lotta agli sprechi». Quanto allo sciopero dell’11 giugno non si sbilancia: «Per cortesia istituzionale non commento, avendo noi un'audizione il 4 giugno». Per quel giorno alle ore 8.45 infatti la Commissione di Vigilanza Rai ascolterà Tarantola, e il Consiglio di amministrazione della Rai. «Il dibattito sul fatto che in tempi di crisi anche la Rai deve contribuire al risanamento del paese risulta tanto affascinante quanto fuorviante, perché nasconde, dietro un'affermazione condivisibile, un'operazione poco trasparente, che rischia di mettere in ginocchio il servizio pubblico e la tenuta occupazionale nella più grande azienda culturale del Paese. Altro tema è quello della discussione su come ridurre gli sprechi e riformare la più grande azienda culturale del Paese, rispetto al quale i sindacati sono come sempre disponibili al confronto» è la posizione dei sindacati dell’Azienda pubblica. D’accordo con loro il leader di Sel, Nichi Vendola.

l’Unità 31.5.14
Salvini, Marine Le Pen e le ambasce di Pacifici
di Moni Ovadia


MATTEO, MARINE E LE AMBASCE DIRICCARDO & C. SONO ALL'ORDINE DEL GIORNO DI UN TIMIDO ABBOZZO DI QUERELLE, quella fra il leader della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici e il segretario della Lega lombarda Matteo Salvini, aspirante futuro sindaco della capitale meneghina, la mia amata ed esiliata Milano. Il vittorioso capopopolo leghista, tutto felpe, magliette e baldanza xenofoba, aspira a impalmare in Europa la poderosa e charmante dama bionda della destra nera francese. Non inganni il talento oratorio e il superbo maquillage di quella che oggi è, de facto, la première dame di Francia. Il suo appello alla «grandeur de la patrie» di evocazione gaullista, i suoi ammiccamenti alla revolution, si fermano solo alla liberté chauvinista, mancano egalité e fraternité, ca va sans dire. Il grande e pomposo general fu fieramente, irriducibilmente ed ineludibilmente antifascista. Disprezzò con tutte le sue forze il suo omologo Petain, traditore fantoccio dei nazisti e zelante deportatore e massacratore di ebrei e di oppositori ad ogni titolo.
La falsa Marianne Marine, non credo che rinnegherebbe pubblicamente il criminale Petain e il suo regime fascista, dubito che pronuncerebbe un discorso vibrante e impegnativo come quello del nostro Gianfranco Fini proprio nel memoriale della Shoà a Yad Vashem. L’afflitto Riccardo Pacifici comincia a sentirsi orfano di quella destra che ama tanto perché fa le moine al governo Nethanyahu. Il suo Matteo vuole imparentarsi con la bella antisemita, che fare? Ma dove è vissuto er Riccardo de noantri? Su Marte? Scopre adesso che Matteo Salvini è xenofobo o, per essere più precisi, fa lo xenofobo di mestiere? Mestiere che rende ancora, soprattutto in tempi di crisi. Non lo sapeva che al simpatico e astuto Matteo, degli ebrei non gliene fotte una mazza perché non sono il suo elettorato?
Evidentemente Pacifici è distratto e mentre è tutto preso a stanare l’antisionista - leggi il critico della politica di occupazione e di colonizzazione del governo israeliano - magari considera veniale la presenza dei neonazisti Jobbik nel governo ungherese Orbàn o la sinistra avanzata di Alba Dorata in Grecia. Deve essere dura per gli ebrei conservatori e reazionari scoprire che la radice endemica dell’antisemitismo alligna sempre e inesorabilmente dove è sempre stata e che il «socialismo degli imbecilli», come lo chiamava Lenin, ovvero l’antisemitismo di sinistra, pur con tutto il suo carico di stupidità e di vergogna, nulla ha a che fare con la pandemia nazifascista pronta a risorgere con il suo carico di odio e di violenza, soprattutto se si abbassa la guardia con le destre xenofobe.

La Stampa 31.5.14
Iene e sanità: vergognose falsità trash
di Elena Cattaneo


Siamo cittadini italiani di una generazione che ha epigeneticamente introiettato la tolleranza, ma non troviamo un argomento etico valido per giustificare coloro che gettano benzina sul fuoco della sofferenza causata da gravissime malattie, per generare conflitti tra malati, scienziati, medici e politici. In sostanza, tra scienza e società. Stiamo parlano degli autori e realizzatori del programma «Le Iene». Dopo aver «pubblicizzato e dato luce» all’imbroglio di Stamina, coinvolgendo pazienti con gravi patologie neurodegenerative, il programma di Davide Parenti si è lanciato nell’esplorazione di tutte le possibili operazioni di disinformazione ai danni dei malati che fossero mediaticamente appetibili. Occorre una buona dose di malvagità, malevolenza, narcisismo, assenza di vergogna, etc. per perseguire così insistentemente nell’opera di aggravare le sofferenze altrui. E’ per questo, anche, che non troviamo argomenti validi per evitare di sollevare un problema che Davide Parenti e i suoi hanno già provato a far passare, cosa che non è, come la richiesta di un bavaglio alla loro libertà di espressione. Infatti, vediamo cosa stanno facendo, ancora, costoro.
Con Stamina, fatti e informazioni rilevanti erano stati omessi o rappresentati in modo distorto, e di questo abbiamo già scritto lo scorso gennaio su questo quotidiano. La possibilità di spremere audience usando Stamina, dando una serie di giustificazioni arroganti e ulteriormente fuorvianti alle richieste di spiegazioni per aver fatto da megafono a un procedimento che è oggetto di un dibattimento processuale per una serie di gravi reati, si è chiusa. Ma «Le Iene» ha subito individuato utili «vittime» nei malati di cancro, decidendo di farsi portavoce in Italia delle infondate tesi di T. Colin Campbell degli effetti millantati «terapeutici» di una dieta alimentare esclusivamente vegetariana, spacciata per «cura» dei tumori. E’ stato un ulteriore pericolosissimo messaggio che può indurre malati ad abbandonare trattamenti scientificamente provati per inseguire delle mortali illusioni di pseudo-cure.
L’ultima vergognosa puntata del programma non poteva non essere dedicata ai vaccini, mettendo perversamente insieme un disegno che può generare danni a diversi livelli della salute nazionale. In uno stesso servizio «Le Iene» hanno accostato la vicenda di un ragazzo con un danno encefalico causato da un vaccino (e per questo risarcito dal sistema sanitario) e la vicenda di un ragazzo autistico per il quale assumere come scontato un rapporto tra la sua patologia neurologica e una vaccinazione (trivalente). Quindi hanno fatto sia propaganda contro i vaccini, sia hanno - col solito subdolo metodo strisciante - generato il sospetto che esistano interessi di qualche genere per cui alcune persone danneggiate sono rimborsate e altre no. Prima di tutto va decisamente detto che gli effetti collaterali dei vaccini sono oggi rarissimi, che nessun vaccino causa o è correlato statisticamente con le possibili cause dell’autismo e che le istituzioni che presiedono la sanità pubblica italiana seguono le migliori procedure esistenti per garantire la sicurezza dell’uso dei vaccini. E questo, ovviamente non lo hanno detto. Così come non hanno detto quante malattie terribili sono state debellate grazie vaccini.
Infatti, adagiati su rendite personali ben più consistenti di quelli di insegnanti e ricercatori, non pochi pseudogiornalisti scientifici o «racconta-storie» in questo Paese possono pontificare senza sapere e capire alcunché di ciò di cui parlano. Così offendono la dignità di milioni di malati e cittadini e causano loro danni diffondendo pericolose «falsità-trash». In aggiunta, questi cosiddetti giornalisti, insultano – probabilmente perché ne disprezzano l’intelligenza e l’impegno – anche migliaia di giovani e meno giovani ricercatori italiani, dediti allo studio di gravissime malattie rare o non rare, come il cancro o la Sma («cui non fregherebbe nessuno studiare», sempre secondo le dichiarazioni di «Le Iene»), con stipendi da fame, senza alcun orizzonte personale, in laboratori che ricevono nessuna attenzione e pochissimi finanziamenti, ma che comunque producono straordinari risultati su malattie complesse e in grado di competere nel mondo. Senza dimenticare le centinaia di migliaia di studenti che a scuola e all’università lavorano con i loro insegnanti per apprendere come separare i fatti dalle opinioni, dalle preferenze soggettive e soprattutto dalle stupidaggini infondate. Imparano cioè a distinguere la scienza dalle credenze magico-superstiziose.
Vada per i ricercatori e per noi, che ci sappiamo difendere e riconosciamo al volo gli incompetenti e i ciarlatani, anche se compaiono in televisione e si ammantano dell’aurea di censori e moralizzatori. Si dovrebbe però, seriamente, intervenire sia con un codice etico condiviso dagli enti televisivi e d’informazione, sia mettendo sull’avviso i malati e i cittadini di non prender sul serio certi programmi televisivi o mezzi d’informazione attraverso specifiche avvertenze circa l’assenza di vaglio scientifico di quanto trasmesso. Così come si fa per i programmi con contenuti pericolosi o inadatti per un certo genere di pubblico, forse servirebbe un avvertimento del tipo: «Attenzione - in questo programma si parla a vanvera e anche pericolosamente, senza prova alcuna di ciò che si trasmette».
A parlare in tale direzione è anche l’articolo 661 del Codice Penale, sul reato di abuso di credulità popolare. Anche in ambito medico.
Elena Cattaneo, Università degli Studi di Milano,  senatrice a vita
Gilberto Corbellini, Sapienza Università Roma
Michele De Luca, Università di Modena e Reggio Emilia

Il Sole 31.5.14
Istruzione. Definiti gli organici per il prossimo anno scolastico
Stabilizzati quasi 14mila insegnanti di sostegno
di Eugenio Bruno e Claudio Tucci


ROMA Più 559 cattedre alle superiori, di cui circa 290 per la reintroduzione di un'ora di geografia nei primi due anni degli istituti tecnici e professionali. Stabilizzazione di 13.342 docenti di sostegno. Qualche posto in meno invece nella primaria (-63 rispetto al 2013/2014) e alle medie (-915), che si compensano però con l'aumento di 419 unità nella scuola dell'infanzia e con quello appena citato delle superiori. È il saldo della dotazione di professori di ruolo prevista per l'anno scolastico 2014/2015, che si conferma a quota 600.839: la stessa degli ultimi tre anni per effetto della legge Monti di fine 2011 che ha congelato la consistenza del personale ai valori del 2012-2013 (nonostante a settembre, secondo gli ultimi dati provvisori del ministero dell'Istruzione, si registri un incremento degli alunni sui banchi di quasi 40mila unità). A prevederlo è il decreto interministeriale Mef-Miur che la prossima settimana sarà all'esame della Conferenza unificata e che Il Sole 24 Ore è in grado di anticipare.
A settembre entreranno in vigore le novità previste dal decreto Carrozza. Cioè il ripristino dell'ora di geografia nei tecnici e professionali. Gli oneri per i professori in più sono coperti da uno stanziamento di 3,3 milioni per il 2014 e di 9,9 milioni a regime dal 2015. Si stabilizzerà anche la seconda tranche di 13.342 di docenti di sostegno (finora utilizzati in organico di fatto), e anche in questo caso la relativa spesa (108 milioni annui) è già conteggiata dal Dl 104. Nel 2015 si dovrebbe completare poi il piano con l'assunzione della terza e ultima tranche di altri 9mila professori di sostegno, per arrivare a un organico di diritto complessivo di 90.469 docenti e rispettare così le indicazioni della Consulta che ha cancellato ogni restrizione nell'utilizzo degli insegnanti di sostegno per garantire le esigenze degli studenti disabili.
Passando agli organici, alla scuola dell'infanzia sono attribuiti 81.771 posti; alla primaria 198.787; alle medie 130.846 posti e alle superiori 189.435. La ripartizione è affidata ai direttori scolastici regionali tra le circoscrizioni provinciali di competenza (e tra i gradi di scuola). Il decreto ripartisce anche le cattedre tra le singole regioni. Rispetto all'anno scolastico che si sta per concludere la Sicilia ne avrà 504 in meno, scendendo così a 58.463. Anche Campania (-387), Puglia (-340) e Calabria (-183) ne perderanno alcune mentre Lombardia (+410), Emilia Romagna (+396), Toscana (+269) e Lazio (+246) avranno un saldo attivo.
Nella determinazione dei contingenti provinciali si terrà conto delle situazioni di disagio (zone montane e piccole isole) e una particolare attenzione dovrà essere riservata ai luoghi caratterizzati da un forte tasso di abbandono scolastico. L'istituzione di nuove sezioni di scuola dell'infanzia dovrà avvenire in collaborazione con gli enti territoriali, mentre nella scuola primaria si conferma l'opzione delle 40 ore (il tempo pieno), su richiesta delle famiglie (ma potrà essere realizzata solo in presenza di strutture idonee). Il tempo scuola nelle ex elementari è di 24, 27, 30 ore settimanali, nei limiti delle risorse dell'organico assegnato. La dotazione organica viene comunque fissata in 27 ore settimanali per classe, senza compresenze (ciò dopo il riordino operato dalla legge 169 del 2008). Nelle secondarie di secondo grado, poi, è confermata la possibilità delle scuole di utilizzare la quota di autonomia del 20% dei curricoli per potenziare gli insegnamenti obbligatori per tutti gli studenti, e in particolare le attività di laboratorio. Ma anche per attivare ulteriori insegnamenti con cui potenziare l'offerta formativa. Il decreto interministeriale, infine, conferma l'avvio delle sezioni sportive dei licei scientifici (si parte con la prima classe e non ne ce potrà essere più di una per istituto) e dei nuovi Cpia, i centri provinciali per l'istruzione degli adulti. Qui, in particolare, si specifica che l'organico dei corsi è determinato con riferimento al rapporto non superiore a 10 docenti ogni 160 studenti (fermo restando, in ogni caso, il limite di organico definito dal decreto Miur-Mef).

Corriere 31.5.14
Il rapinatore di banca che restituisce a rate il bottino di 6.500 euro
di Andrea Galli


MILANO — C’è un criminale che gira per la città. Non pare pazzo, non dovrebbe esser pericoloso, magari non possiede armi; è un po’ confuso ma, a modo suo, è anche uno di parola. Per la verità, a suo dire, non sarebbe nemmeno un criminale. Un signore italiano di mezza età ha assaltato una banca con la sola imposizione verbale. Nella tasca dei pantaloni c’era la sagoma d’una pistola, forse semplicemente formata dall’apertura di due dita: pollice e indice. Comunque, ha urlato ai presenti di dargli il denaro. L’impiegato ha eseguito. Il malvivente ha preso i soldi in cassa. Seimila e cinquecento euro. Con la promessa che, siccome non era una rapina ma, testuale, era «un prestito senza interessi», avrebbe restituito la somma. Giusto il tempo di rimettersi un attimo in sesto. Chissà. Avrà perso il lavoro. Avrà avuto una disgrazia in famiglia. Gli sarà andato male un carico di droga. Ha un debito con gli strozzini. «Giuro, ve li restituirò».
Le promesse dei banditi son peggio di quelle dei marinai. Non gli hanno creduto. Tempo una settimana ed è arrivata una busta, via posta. C’erano cinquecento euro in banconote e un foglietto con due righe. «Questa è la prima tranche». Il direttore dell’istituto di credito sorride, sbuffa e supplica, in preciso ordine cronologico: «Non dica chi siamo... La banca intendo... Mi lasci in pace... Senta i carabinieri, o i poliziotti, insomma chi indaga». Il colpo e la restituzione parziale del bottino risalgono a qualche mese fa. C’è un fascicolo aperto in Procura. Ci sta sopra la Questura. C’è una certa suspense, in quartiere. Per esempio bisogna vedere quanto dell’intera somma tornerà indietro; se in altre rate; e se saranno rate mensili oppure annuali.
A Milano i banditi impuniti sono razza in estinzione. Tra capacità investigative e supporto tecnologico, proprio non c’è partita. Dunque prenderanno anche questo. E riceverà la sua bella condanna. Ma la caccia potrebbe essere lunga. Il ricercato è un incensurato e di lui non c’è traccia nel database delle forze dell’ordine. Il bandito era parzialmente travisato, raccontano i dipendenti di un ufficio vicino i quali, naturalmente, dicono che, a pensarci, un tipo sospetto che perlustrava la zona, i giorni prima, c’era. Come no: il quartiere è uno dei più trafficati di Milano.
Forse il bandito indossava un berretto, il bavero alzato. Aveva una sciarpa al collo fin sulla bocca. Ci sono telecamere sia all’interno sia all’esterno dell’istituto di credito, posizionato in una zona non centrale, in prossimità di un semaforo che immette su un lungo viale. Il rapinatore non era in macchina, anche se c’è un largo spiazzo con le automobili addossate ai platani, le cortecce graffiate dai paraurti. Avrà usato uno scooter, con la via di fuga individuata sui marciapiedi. Il marciapiede della banca è pieno di crepe e ci sono archetti contro la sosta alle cui basi hanno dovuto spalmare del cemento per evitare la caduta.
Del malvivente, a impiegati e direttore, sono rimasti impressi il timbro di voce, il tono perentorio, la rapidità delle frasi, come se si fosse preparato la parte, avesse imparato a memoria cosa dire, come se volesse chiudere la storia in fretta. Ma quando ha avuto in mano i soldi ha cambiato i modi e pure la filosofia di vita. Ha rallentato, ha attaccato ad articolar discorsi, con sconfinamenti nella logorrea. Ci teneva a ribadire il concetto: non sono tipo che deruba la gente, non l’ho mai fatto. Quasi quasi, dall’altra parte, gli stavano per rispondere male: d’accordo, abbiamo capito, ma adesso basta, per piacere vattene a casa.

Corriere 31.5.14
Gli intellettuali contro il raduno scout
«Rovineranno il parco a San Rossore». Appello di Settis e Prosperi
La replica: noi curiamo l’ambiente
di Marco Gasperetti


L’hanno già ribattezza l’assurda guerra di San Rossore. E un po’ strampalata è davvero questa contesa che da un mese vede come avversari da una parte intellettuali e ambientalisti e dall’altra gli scout dell’Agesci, trentamila esploratori cattolici dai 16 ai 21 anni che tra il 6 e l’11 agosto si ritroveranno per il grande raduno della Route nazionale 2014 (il terzo in quarant’anni), un evento educativo di altissimo livello al quale sono stati invitati anche il Papa e il premier Matteo Renzi, pure lui un passato da scout.
Professori ed ecologisti non li vogliono nel parco di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli, un polmone verde di 27 mila ettari che si estende da Pisa sino alla Versilia e al lago dove Puccini compose i suoi capolavori. Sostengono, intellettuali ed ecologisti, che quei ragazzi inquineranno e deturperanno l’ambiente e hanno preparato una petizione, firmata tra gli altri dall’ex direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, Salvatore Settis, dal presidente onorario del Wwf, Fulco Pratesi, e dallo storico Adriano Prosperi, professore emerito della Normale.
«Si insedieranno nel parco con 10 mila tende — scrivono — un presidio sanitario, due palchi, un magazzino per i generi alimentari, una segreteria, 1.400 servizi igienici di tipo chimico (220 divisi in sei zone), 80 dei quali nell’area centrale, da vuotare due volte al giorno tramite autobotti, 750 docce e 750 lavabi con rete di distribuzione idrica fornita dall’acquedotto comunale (405 mila litri d’acqua ogni ora, in agosto!), con scarichi nel bosco, spazi espositivi coperti per mostre, biblioteca, cinema, stampa».
Sono così arrabbiati, i «blocca-scout», che dopo la petizione hanno inviato un appello all’Unesco per fermare l’invasione. Non solo. «Adesso stiamo preparando una denuncia da inviare all’Ue perché la zona interessata all’evento è compresa in un sito di interesse comunitario», spiegano i promotori dell’iniziativa. E il professor Prosperi chiede «rispetto per un parco, non pubblico ma protetto, dove la natura non può essere consumata» e per evitare problemi all’ecosistema molto delicato raccomanda «di spostare l’iniziativa in zone non invasive ai limiti dell’oasi già indicata dai promotori dell’iniziativa».
Il problema è che, secondo i tecnici del Parco e della Regione Toscana, gli scout non metteranno neppure un piede nell’area protetta, ma solo in una zona (circa 70 ettari) alla quale da sempre l’accesso è libero e dove nei giorni festivi arrivano migliaia di persone (auto comprese) a fare pic-nic.
«L’impressione è che chi contesta il raduno non abbia letto con attenzione il piano — spiega il direttore del Parco, Andrea Gennai — . La zona dove sarà ospitata la Route si chiama Cotoni, si trova nella parte ovest della tenuta ed è da sempre aperta al pubblico. Le attività sono state concordate con regolamenti e divieti rigidissimi e dunque non ci sarà alcun attacco alla natura. Infine gli scout offrono garanzie di profondo rispetto dell’ambiente. Mi sarebbe piaciuto dagli intellettuali un altro tipo d’appello, contro le discariche e i campi rom abusivi che affliggono San Rossore e contro lo sbarco alle spiagge interdette dei natanti soprattutto a primavera e in estate».
E gli scout che cosa dicono? Guardano con un certo sconcerto la disputa e continuano a preparare il super campo, convintissimi nell’organizzazione di un’iniziativa che vuole avere valore pedagogico e insegnare ai ragazzi non solo ad amare e rispettare la natura ma anche, se possibile, a lasciarla più bella di come l’hanno trovata. «Non siamo turisti e lo scoutismo è un’educazione di vita — spiega Elena Bonetti, incaricata nazionale Branca Rover e Scolte dell’Agesci e nella vita docente universitaria alla facoltà d’Ingegneria di Pavia —. Noi ci prendiamo cura della natura, non la consumiamo ma la preserviamo e faremo così anche a San Rossore. Lasceremo il Parco intatto. Ci impegniamo con il nostro onore e con una fideiussione firmata in caso di danni assolutamente improbabili. La Route è un’esperienza straordinaria per tanti ragazzi. E così dev’essere».

il manifesto 31.5.14
Spagna
A sinistra scoprono Podemos
Intervista a Pablo Iglesias, professore e icona della tv, leader della lista anticasta che ha catalizzato il voto indignados e ottenuto un incredibile 8% alle europee. E 5 deputati a Bruxelles nel Gue
di Luca Tancredi Barone


Gli indi­gna­dos son tor­nati. È effi­cace l’incipit dell’Eco­no­mist sull’inaspettato suc­cesso del par­tito Pode­mos (“pos­siamo”) – nato solo a gen­naio di quest’anno – e ben rias­sume il senso di una pic­cola rivo­lu­zione nella poli­tica spa­gnola. Per la prima volta dalla Tran­si­zione alla demo­cra­zia, i due prin­ci­pali par­titi rac­col­gono meno della metà dei con­sensi. La stessa fru­stra­zione che in Fran­cia, in Olanda e in Inghil­terra prende tinte xeno­fobe in Spa­gna si tra­sforma in un impor­tante affer­ma­zione delle forze della sini­stra non socia­li­sta che insieme rag­giun­gono quasi il 25% dei voti. Izquierda Unida (IU) e alleati pas­sano da meno del 4% al 10%, i verdi di Equo otten­gono quasi il 2% dei voti. I tra­di­zio­nali par­titi della sini­stra nazio­na­li­sta anti­ca­pi­ta­li­sta otten­gono un seg­gio – altri tre seggi vanno alla sini­stra cata­lana Esquerra Repu­bli­cana. E, appena affac­cia­tosi sulla scena,Podemos irrompe con ben 5 seggi — quando i son­daggi gliene davano al mas­simo uno — e l’8% dei voti.
Nata dall’iniziativa della star tele­vi­siva con coda di cavallo, il 35-enne pro­fes­sore di scienze poli­ti­che all’Università di Madrid Pablo Igle­sias (si chiama pro­prio come il padre fon­da­tore del Psoe), la lista Pode­mos è addi­rit­tura arri­vata terza in alcune comu­nità, fra cui quella di Madrid. Segni di un vento nuovo, lo stesso che ha por­tato il 28-enne Alberto Gar­zón a pas­sare dalle piazze del 15M alle Cor­tes di Madrid e che ha agglu­ti­nato entu­sia­smi fra le file di IU. Con cen­ti­naia di cir­coli in tutta Spa­gna e una comu­ni­ca­zione web ele­gante e pulita – che non manca di cer­ti­fi­care le spese soste­nute per la cam­pa­gna – Pode­mos ha l’ambizione dichia­rata di costruire un’alternativa alla “casta” – un’alternativa di sini­stra, che usa con sciol­tezza il lin­guag­gio e lo stile tele­vi­sivo del suo media­tico por­ta­voce. Con poco più di cen­to­mila euro, Pode­mos ha con­qui­stato cin­que seggi (2 donne e tre uomini, tra cui un fisico tetra­ple­gico), che si iscri­ve­ranno tutti, assi­cura Pablo Igle­sias, nel gruppo della Sini­stra Euro­pea. Il mani­fe­sto ha impie­gato quat­tro giorni per riu­scire a par­larci. «Siamo obe­rati di richie­ste», si giustifica.
I son­daggi davano una cre­scita dell’astensionismo. Invece è rima­sto sta­bile. Merito vostro
È ancora pre­sto per fare que­sta valu­ta­zione. Biso­gnerà aspet­tare i dati sulla par­te­ci­pa­zione e sulla com­po­si­zione del voto. Ma, a occhio, abbiamo cer­ta­mente mobi­li­tato molte per­sone che non avreb­bero votato.
Quali saranno le vostre prio­rità all’Eurocamera?
Diremo che non vogliamo essere una colo­nia della Ger­ma­nia. Vogliamo dignità per i paesi del sud. Non è accet­ta­bile che le poli­ti­che eco­no­mi­che che stanno con­dan­nando alla mise­ria una parte delle popo­la­zioni siano decise da orga­ni­smi non demo­cra­tici come l’Fmi o la Bce. Degli 8.000 euro dello sti­pen­dio, noi trat­ter­remo solo l’equivalente di tre salari minimi (3x645 euro, nd). Il resto lo done­remo. Non è accet­ta­bile che un euro­de­pu­tato gua­da­gni più di un chi­rurgo della sanità pub­blica, o di un pro­fes­sore uni­ver­si­ta­rio o di un ispet­tore del lavoro. È neces­sa­rio finirla con le “porte gire­voli” fra poli­tici e con­si­gli di ammi­ni­stra­zione delle grandi imprese. Pro­por­remo di fare un audit del debito che metta gli inte­ressi della gente davanti a quelli delle banche.
Pro­po­nete l’adozione di quella che chia­mate «la diret­tiva Vil­la­rejo», una bat­te­ria di misure dal nome del giu­dice anti­cor­ru­zione, numero tre nella vostra lista.
Il docu­mento è il risul­tato di un pro­cesso di ela­bo­ra­zione col­let­tiva con un metodo aperto a cui hanno par­te­ci­pato e che hanno votato migliaia di per­sone. In sin­tesi, pre­vede un tetto ai salari. La limi­ta­zione dei man­dati par­la­men­tari a due o al mas­simo a tre con ragioni molto giu­sti­fi­cate. E la fine dei pri­vi­legi otto­cen­te­schi, come il tri­bu­nale spe­ciale per i mini­stri. Per non par­lare del re. Le cari­che pub­bli­che devono essere giu­di­cate da tri­bu­nali ordi­nari. La legge è uguale per tutti.
Per­ché avete deciso di pre­sen­tarvi alle elezioni?
Rispetto a IU, noi abbiamo pun­tato su due chiavi fon­da­men­tali. La prima è il pro­ta­go­ni­smo cit­ta­dino. Per le nostre liste si poteva pre­sen­tare e votare qual­siasi cit­ta­dino. Era impor­tante che non fosse una lista decisa da un organo di dire­zione. La seconda è che cre­diamo che l’asse fon­da­men­tale per capire quel che accade non è il gioco destra, cen­tro, sini­stra. Ma la con­trap­po­si­zione cit­ta­dini con­tro elite, cit­ta­dini con­tro casta. La mag­gio­ranza dei cit­ta­dini è d’accordo con quello che pro­po­niamo: una riforma fiscale per­ché paghino i ric­chi, un audit del debito, la fine degli sfratti ipo­te­cari, smet­tere di usare le risorse pub­bli­che a bene­fi­cio dei pri­va­tei Il 15M ha messo in campo una realtà: che esi­ste una mag­gio­ranza sociale che si può con­ver­tire in mag­gio­ranza politica.
Per­so­na­lità di IU come Alberto Gar­zón dicono che sono inte­res­sati a costruire con voi un «Frente Amplio».
Per il momento dob­biamo lavo­rare a un pro­cesso costi­tuente interno a Pode­mos. per poi dare avvio a un per­corso di con­fluenza evi­te­remo le riu­nioni dall’alto. Se la gente vuole, per­ché biso­gnerà con­sul­tarla, magari si sta­bi­li­ranno que­ste col­la­bo­ra­zioni. Però senza scor­cia­toie diri­gi­ste. È chiaro che non pos­siamo fer­marci: dob­biamo costruire una nuova mag­gio­ranza poli­tica di governo
Dicono che siete un par­tito troppo personalizzato.
È vero: il mio pro­ta­go­ni­smo media­tico è stato enorme. Ma per noi, senza il bud­get dei grandi par­titi, uno dei prin­ci­pali mezzi di comu­ni­ca­zione era un ragazzo con la coda che si vedeva in alcuni salotti televisivi.
Dicono anche che vi ispi­rano modelli poli­tici come il Venezuela.
Non si pos­sono impor­tare modelli acri­ti­ca­mente, ma biso­gna impa­rare dai posti dove le cose sono state fatte bene. Il modello edu­ca­tivo fin­lan­dese è una mera­vi­glia, mi piace molto anche che in Fran­cia buona parte delle imprese stra­te­gi­che siano sta­tali. In Ame­rica Latina sono state prese misure molto ragio­ne­voli. Per esem­pio in Ecua­dor c’è stato un audit del debito che è ser­vito per fare una poli­tica redi­stri­bu­tiva. Del Vene­zuela mi piac­ciono i refe­ren­dum revo­ca­tori. Mi pare una que­stione di salute demo­cra­tica che un gruppo di elet­tori possa deci­dere di cac­ciare un poli­tico che non ha rispet­tato le pro­messe. Sono anche state fatte poli­ti­che sociali che hanno esteso i ser­vizi pub­blici a set­tori della popo­la­zione che non lo conoscevano.
Dall’Italia c’è qual­cosa che vor­re­ste copiare?
Siete stati un mio rife­ri­mento poli­tico per molti anni, la mia tesi di dot­to­rato è stata sulle Tute bian­che e la ric­chezza poli­tica ita­liana mi ha sem­pre affa­sci­nato. Ho anche fatto anche l’Erasmus a Bolo­gna. Ma oggi come oggi leg­gere i gior­nali ita­liani mi pro­duce una enorme tristezza.

il manifesto 31.5.14
Stati Uniti. Intervista a Seth Adler, organizzatore del Left Forum
Nel cuore di Wall Street si discute di rivoluzione
di Marina Catucci


Da ieri al primo giu­gno si svolge a New York il Left Forum, il forum della sini­stra, giunto quest’anno alla decima edi­zione. Le radici di que­sta tre giorni annuale che cerca di fare il punto a sini­stra sul «chi siamo e dove vogliamo andare» risal­gono agli anni ’60, alla Socia­list Scho­lars Conference.
«La Socia­list Scho­lars Con­fe­rence era lo sforzo di un ampio gruppo di acca­de­mici di sini­stra per creare uno spa­zio dove pre­sen­tare il pro­prio lavoro teo­rico e sto­rico, per la mag­gior parte in un for­mato scien­ti­fico, del pen­siero mar­xi­sta, leni­ni­sta, trotz­ki­sta e maoi­sta, ma con un pub­blico ben più vasto e vario di quello dei cir­coli acca­de­mici – spiega al mani­fe­sto Seth Adler, cor­di­na­tore del Left Forum – Durante gli anni ’80, nell’era Rea­gan, la con­fe­renza è cre­sciuta fino ad atti­rare in media tra i 1.500 ed i 2.000 par­te­ci­panti l’anno e ospi­tare circa 300–400 ora­tori e una cin­quan­tina di espo­si­tori (edi­tori di libri, rivi­ste, orga­niz­za­zioni), per­dendo il carat­tere acca­de­mico e diven­tando il più grande raduno annuale della sini­stra in Nord Ame­rica. Ogni grande pen­sa­tore socia­li­sta è pas­sato dalla SSC, così come molti poli­tici e sin­da­ca­li­sti inter­na­zio­nali. Da que­sto ter­reno nel 2004 è nato il Left Forum. Ora si parla di oltre 4.000 par­te­ci­panti, più di 1.200 ora­tori e cen­ti­naia tra pan­nelli, work­shop ed eventi. Quando abbiamo avuto inter­venti da parte di per­so­na­lità come Chom­sky, Michael Moore, Oli­ver Stone o il reve­rendo Jesse Jack­son, si sono viste vere e pro­prie folle, con file per entrare intorno a tutto l’isolato».
Il tema di quest’anno sarà «Riforma e/o rivo­lu­zione: imma­gi­nare un mondo con giu­sti­zia tra­sfor­ma­tiva» e si svol­gerà presso il John Jay Col­lege of Cri­mi­nal Justice, parte della City Uni­ver­sity di New York, a Man­hat­tan. I semi­nari spa­ziano dall’introduzione a Lacan come risorsa per la sini­stra al pen­siero di Rosa Luxem­burg appli­cato alle attuali esi­genze di tra­sfor­ma­zione poli­tica, dal semi­na­rio sulla con­trap­po­si­zione tra bor­ghe­sia, col­letti bian­chi e pre­ca­riato a quello sulle ana­lisi delle cata­strofi ambien­tali, par­tendo da un approc­cio anar­chico. L’elenco dei semi­nari è diviso per aree tema­ti­che (genere e ses­sua­lità, cibo, ambiente, istru­zione, salute) e per aree geo­gra­fi­che e sono nume­rosi i con­tri­buti internazionali.
«I diversi aspetti della sini­stra sono cam­biati e si sono mol­ti­pli­cati – con­ti­nua Seth Adler – Tra i nostri semi­nari ci sono il con­tri­buto del pen­siero anar­chico, del pen­siero e delle nuove meto­do­lo­gie di Occupy Wall Street; nuove forme di teo­ria e di pra­tica sia per un approc­cio rivo­lu­zio­na­rio che per una strada di riforme. Que­ste due vie, rivo­lu­zione e riforma, sono sem­pre state viste come sepa­rate ed anti­te­ti­che. Noi vogliamo, in que­sta edi­zione del Left Forum, foca­liz­zarci su ogni loro aspetto, ana­liz­zan­done sia le dif­fe­renze che i punti di incon­tro. I par­te­ci­panti alla con­fe­renza si riu­ni­scono per met­tere in campo una vasta gamma di pro­spet­tive cri­ti­che sul mondo, per con­di­vi­dere idee».
Che que­sto tipo di con­fe­renza avvenga pro­prio a Man­hat­tan, nella stessa isola che ospita Wall Street, il cuore di quel sistema capi­ta­li­stico che i par­te­ci­panti al Forum cer­cano di sman­tel­lare, non è sor­pren­dente per il coor­di­na­tore Adler. «Il Left Forum è com­po­sto da un ampio spet­tro di orga­niz­za­zioni, intel­let­tuali di sini­stra, pro­gres­si­sti, atti­vi­sti, acca­de­mici, si avvale dell’apporto di espe­rienze inter­na­zio­nali. Tutte que­ste realtà sono rap­pre­sen­tate a New York, qua con­ver­gono o a volte, come nel caso di Occupy Wall Street, qua si formano».
Tra gli spea­ker di quest’anno ci sono nomi noti come quello di Amy Good­man, Harry Bela­fonte, Angela Davis, Chri­stian Hed­ges. «Quello che accade – rac­conta l’organizzatore — è che spesso per­so­na­lità famose della sini­stra ven­gono al Left Forum anche se non devono tenere un semi­na­rio, ven­gono come pub­blico. L’ha fatto Michael Moore, ad esem­pio, e l’anno scorso ha par­te­ci­pato, in inco­gnito, una delle Pussy Riots. Il Left Forum è un momento impor­tante di ana­lisi e di con­fronto, due aspetti impor­tanti nel pro­cesso rivoluzionario».
Rivo­lu­zione, rivo­lu­zio­na­rio, sono ter­mini ricor­renti nel dia­logo con gli orga­niz­za­tori del Left Forum e com­pa­iono spesso anche nei titoli dati ai vari semi­nari: si parla di rivo­lu­zione come di un’opzione per­cor­ri­bile, affron­ta­bile. «Il ter­mine rivo­lu­zione è un ter­mine impor­tante, che indica qual­cosa, ma che è stato abu­sato e svuo­tato di signi­fi­cato. Ad esem­pio è abu­sato in pub­bli­cità , dove viene defi­nito rivo­lu­zio­na­rio un den­ti­fri­cio, un sapone per la lava­trice. Non biso­gna con­ce­derlo con faci­lità, è impor­tante con­ti­nuare ad uti­liz­zarlo in modo pro­prio, per il vero rigni­fi­cato che veicola».

Corriere 31.5.14
«Io accuso il sistema delle caste. Viviamo in un passato feudale»
Arundhati Roy: donne vittime di una doppia oppressione
di Alessandra Muglia


«Mi ha colpito che la maggior parte dei grandi media indiani ha evitato di dire che le due ragazze erano dalit. C’è della politica in questo: la volontà di non mettere in questione il sistema delle caste e presentare il fatto come un mero atto criminale. Ma quando lo stupro è usato come mezzo di oppressione di una casta sull’altra diventa uno strumento politico» dice Arundhati Roy. La scrittrice indiana aveva già descritto quasi vent’anni fa nel suo primo e unico romanzo, il bestseller internazionale e Booker Prize Il dio delle piccole cose , come il sistema delle caste, negato dalla legge e consuetudine nella realtà, condizionasse perfino uno stato come il Kerala «comunista», con la sua tradizione egualitaria. «Le caste sono come l’apartheid, ma nessuno in India, dai progressisti all’estrema destra, lo riconosce — accusa dalla sua casa a New Delhi —. Significherebbe criticare l’architrave della nostra società e nessuno è interessato a farlo».
Lo aveva fatto quasi 80 anni fa Ambedkar, il padre della Costituzione indiana. Il suo «Annihilation of Caste», audace denuncia contro l’induismo e il sistema delle caste, è stato recentemente ripubblicato con un saggio-prefazione della Roy, dal titolo The doctor and the saint , giocato sull’opposizione tra lo statista (elogiato) e Gandhi (criticato per il ruolo avuto nella difesa delle caste). «Oggi si fa un gran parlare di violenze sessuali in India, ma in termini generici, e questa isteria mediatica crea una psicosi tra la gente senza arrivare a inquadrare il problema».
Ma le dalit non sono le uniche vittime di stupri. La studentessa violentata su un autobus a Delhi nel 2012, per dire, non era una dalit. E anche le turiste straniere sono a rischio.
«Nell’anno in cui il mondo inorridiva per la brutale aggressione a quella ragazza, 1.500 donne dalit venivano stuprate. E questa è la cifra ufficiale, che si stima corrisponda al 10% dei casi. Ma la maggior parte delle violenze continua a non essere riportata per la vergogna sociale».
Le caste in India esistono da secoli, ma sembra che ultimamente la situazione per le donne sia peggiorata.
«Da noi la maggioranza della popolazione vive in un passato feudale e patriarcale in cui le donne dalit da sempre sono violentate da uomini delle caste superiori che considerano lo stupro un proprio diritto. Le donne degli intoccabili sono da sempre molto toccabili. Ora stiamo assistendo a due fenomeni nuovi. Da un lato le donne, soprattutto le giovani che vivono in città, stanno cambiando molto più velocemente degli uomini: studiano, entrano numerose nei luoghi di lavoro, si emancipano, sono più libere, cambiano il loro modo di vestirsi, i loro sogni, le loro aspettative. Questo sta creando un nuovo tipo di violenza, di punizione. Dall’altro lato, un fenomeno opposto, ma che dà lo stesso risultato: nei villaggi e nelle aree rurali molte donne stanno diventando ancora più povere e indifese».
Lei definisce lo stupro come punizione. In che senso?
«Le donne emancipate sono punite perché sono fuori controllo, le più povere perché non hanno protezione. Poi c’è la violenza contro le donne in aree militarizzate come il Kashmir, Manipur e Chhattisgarh. In questi casi lo stupro diventa un’arma, uno strumento politico».
Il sistema delle caste non si sta indebolendo?
«Assolutamente no, si sta solo modernizzando ma continua a dar forma alla società e alla politica».
L’India sta facendo qualcosa per uscire da questo Medioevo?
«Altro che uscire, ci stiamo entrando fino in fondo. Temo che nei prossimi mesi assisteremo a un aumento delle violenze. Le politiche perseguite dai Gandhi basate su privatizzazioni, confisca di terre, costruzioni di imponenti dighe temo saranno esasperate da Modi. Con che risultati? Un esercito di nuovi poveri per gli spostamenti forzati di intere comunità».
In un saggio del libro «Quando arrivano le cavallette», getta ombra sulla democrazia come formula ideale per uscire da crisi e barbarie.
«Abbiamo bisogno di un progetto a lungo termine. Possono i governi democratici, la cui sopravvivenza dipende da risultati immediati, offrire questo progetto?»
Sta pensando a un’alternativa?
«Sono combattuta tra la speranza e la ragione: mi suggeriscono cose diverse».

Corriere 31.5.14
C’è una violenza ogni 22 minuti

Un’escalation impressionante quella della violenza contro le donne in India. E che ha visto coinvolte come vittime anche turiste straniere e giornalisti. Secondo gli ultimi dati nel Paese avviene uno stupro ogni 22 minuti. Una cifra che, però, secondo alcune associazioni umanitarie, sarebbe addirittura inferiore alla realtà. Acuita dalla scarsa sensibilità dimostrata da alcuni uomini politici. Soltanto il mese scorso, durante la campagna elettorale, il partito alla guida dello Stato dell’Uttar Pradesh si è detto contrario alla pena di morte per gli stupratori

Corriere 31.5.14
Giornalista libica sgozzata


L’hanno trovata con la gola tagliata. Il corpo abbandonato in un vicolo. Uccisa. La vittima una giovane giornalista libica. Si chiamava Nassiba Karnaf e lavorava per la tv Al Wataniya . A dare la notizia il sindacato generale dei giornalisti libici, che ha accusato non meglio identificati «gruppi terroristici» dell’assassinio e ha «esortato il Congresso nazionale e il governo ad interim ad adottare le misure necessarie per la protezione dei giornalisti». La donna era stata rapita giovedì scorso a Sabha, una città 640 chilometri a sud di Tripoli, poco dopo essere uscita dalla redazione. Il corpo è stato ritrovato la notte scorsa. Negli ultimi tempi si sono moltiplicati i casi di violenza ai danni della popolazione civile. Solo pochi giorni fa, il 26 maggio, Meftah Bouzid, giornalista che più volte aveva criticato le milizie islamiche attive in Libia, era stato assassinato a Bengasi. Bouzid, che lavorava come caporedattore al quotidiano Burniq, era stato assassinato proprio nel centro della città. Durante la Rivoluzione del 2011 Bouzid aveva ospitato in casa un quartier generale degli insorti. In passato aveva già ricevuto minacce di morte, ma non aveva mai cessato di attaccare pubblicamente, anche in tv, gli islamisti. A metà maggio si era schierato con l’azione del generale Khalifa Haftar di contrasto alle milizie islamiste. I giornalisti denunciano il clima che si è creato nel Paese a causa della persistente instabilità politica e dello strapotere delle milizie locali. E sempre a Bengasi, nel quartiere periferico di Bouhadima, ieri si sono registrati nuovi conflitti a fuoco. Il bilancio è di un uomo morto e altre due persone sono rimaste ferite. Gli scontri sono iniziati dopo che un gruppo di giovani del sobborgo di Bengasi ha attaccato un posto di blocco della milizia islamica Ansar al Sharia e un gruppo di giovani. Poco fuori Bengasi, alcuni caccia pilotati da uomini fedeli al generale Khalifa Haftar hanno bombardato una base di Ansar al Sharia nella zona di Al Hawari.

il Fatto 31.5.14
La Manica della morte e i sogni dei migranti
Chi sono i rifugiati che tentano la traversata tra Francia e Gran Bretagna. Frontex: 40 mila arrivi da inizio anno La Merkel: “vanno aiutati in patria, sennò arrivano in Germania”
di Andrea Valdambrini


Bruxelles. Asif guarda il mare sognando la terra dall’altra parte. A volte spera che quel braccio di acqua largo neppure 35 chilometri scompaia durante la notte. È un ragazzo di 33 anni, fuggito nel 2000 dall’Afghanistan. Dopo essere passato dalla Turchia alla Svizzera è arrivato in Francia, a Calais. È in questa cittadina sulla Manica, ultima frontiera d’Europa, che Asif ha tentato la sorte. “Per venti giorni” ha raccontato “ho raccolto oggetti che venivano buttati”. Sei assi di legno, una stampella a prua per reggere la vela e un materasso su cui sedersi. E poi, un giorno di maggio, via verso la Gran Bretagna, di buon mattino, per sfuggire agli occhi della guardia costiera. Che ha fermato la sua folle traversata poche ore dopo, probabilmente salvandogli la vita. Per Asif la terra promessa si chiama Gran Bretagna. Come lui a Calais ci sono 200 afgani e complessivamente più di 800 migranti, quasi tutti clandestini. Vengono dall’Africa centrale o dall’Eritrea, dalla Siria o dall’Iraq. Sono sempre più numerosi e da differenti rotte lungo il Mediterraneo. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia Ue Frontex il numero di ingressi illegali nei primi 4 mesi del 2014 è di oltre 40.000, di cui di 25.6500 attraverso la Libia. Un aumento impressionante dai rispettivi 12.450 e 1.125 del 2013, perfino maggiore che nel 2011 durante la Primavera araba. Raramente però questi migranti si fermano nei Paesi d’entrata, come l’Italia. “Anche se vediamo tutti i giorni immagini tragiche da Lampedusa”, ha sottolineato la Merkel “le destinazioni finali che accolgono più rifugiati sono altre”, Svezia e Germania in testa. Per questo, secondo la cancelliera, “bisogna trovare soluzioni nei paesi d’origine”.
FINO A POCHI GIORNI FA, prima che la polizia francese sgomberasse il campo di Calais senza fare troppi complimenti, erano assiepati principalmente in un campo di fortuna in prossimità di una ferrovia abbandonata. Le tende sono a volte niente più che di grandi buste di plastica piantate alla buona. Niente elettricità o servizi igienici. Niente cibo se non quello distribuito una volta al giorno da volontari. Questo era il campo dei disperati e degli invisibili. E anche se oggi non c’è più, è difficile che scompaia: loro, dicono, non solo non sanno dove altro andare. E oltretutto ma non hanno davvero niente da perdere.
A ogni ora del giorno, e ancor di più durante la notte, decine di persone tentano di salire in tutti i modi a bordo dei camion merci diretti verso la Gran Bretagna, dove in teoria nessun documento in loro possesso li autorizza ad andare. Qualcuno si infila perfino nel semiasse delle ruote posteriori, come è accaduto a un ragazzo sudanese morto proprio per questa ragione solo la scorsa settimana. Le autorità locali parlano di una situazione al collasso a Calais, mentre Londra e Parigi si accusano a vicenda: per i primi la polizia non fa nulla per fermare i migranti, per i secondi la Gran Bretagna dovrebbe mettere a disposizione risorse economiche e cooperare anziché criticare. Sarà un caso che lo smantellamento del campo sia arrivato solo due giorni dopo il trionfo del Front National?
Fino al 2003, prima che Sarkozy lo chiudesse, esisteva un campo profughi della Croce Rossa. Allora i rifugiati provavano a salire sui treni che passavano per l’Eurotunnel. Nel 2009 la drammatica realtà di Calais è diventata un film. Welcome racconta la storia di Bilal, un giovane curdo iracheno che prende lezioni di nuoto per provare ad attraversar la Manica e ritrovare a Londra la sua ragazza. Nel film le cose non vanno bene per Bilal. Asif, che guarda il mare sperando che scompaia è convinto: “Vale sempre la pena provare a raggiungere i tuoi sogni”.

il Fatto 31.5.14
Il rito degli zingari
Il battesimo del mare dei gitani la Camargue diventa ‘capitale’
di Alex Corlazzoli


Saint Maries de La Mer. “Vive les Sainte Maries, vive Sainte Sara”. Ancora una volta, i gitani di tutta Europa, si sono riuniti a Sainte Maries de la Mer, in Camargue, per onorare la loro patrona, giunta secondo la tradizione, sulle coste francesi a bordo di una barca con Maria Salomé e Maria Jacobé, ad annunciare la buona novella. Per due giorni, nello scorso weekend, i Rom, rifiutati da tutti, respinti, etichettati da mille pregiudizi, hanno formato un solo popolo con le migliaia di turisti arrivati dalla Francia, dalla Spagna, dall'Italia, dall'Olanda e da altri Paesi, in un pellegrinaggio di “pace e unità”.
LA MUSICA GITANA, le vivaci melodie dei violini e delle fisarmoniche, il ritmo del flamenco, i colori sgargianti delle lunghe vesti delle donne zingare, hanno travolto ogni piazza, ogni angolo di questa meravigliosa terra. Le antiche roulotte di legno “des gens du voyage”, come chiamano qui i gitani, hanno occupato, accanto alle moderne abitazioni su quattro ruote, le piazze e le periferie della minuscola cittadina. Uno spettacolo mistico, miscelato alla tradizione religiosa che fa della Camargue un angolo di Terra Santa. La statua di Saint Sara, la Nera, portata in trionfo dai gitani in costume, ha attraversato, scortata da bianchi cavalli, il centro storico fino all'immersione in mare per la benedizione. Un tripudio di devozione capace di far suonare per ore chitarre e far ballare Erika, con la lunga veste nera con la scritta “Alma Gitana” in un flamenco estatico: “Sono qui per tutti i gitani. Per mio nonno che non c'è più. Noi siamo l'alma, lo spirito, la libertà”, mi spiega la bionda zingara mentre riprende ad agitarsi seguendo il magico suono delle chitarre.
L'arrivo di Saint Sara sulla spiaggia, che precede di un giorno la discesa al mare delle statue di Maria Jacobé e Maria Salomé, è accolto da centinaia di gitani accalcati sulla spiaggia, immersi in acqua con i loro sontuosi abiti. Alla solenne festa è arrivato anche il ministro della Cultura francese Aurelie Filippetti, accolta come tutti gli altri pellegrini, senza auto blu e scorta al seguito. Non manca il vescovo della diocesi che sembra a suo agio mentre benedice giovanissime ragazze gitane che gli porgono i loro figli.
E il mare diventa una sorta di fonte battesimale, l'acqua santa nella quale, i gitani si buttano con i loro cavalli. Le donne immergono lenzuola, bagnano il viso, dalla carnagione olivastra, dei bambini; entrano con le loro vesti. La spiaggia diventa un luogo sacro, una sorta di cattedrale all'aria aperta. Uno spettacolo meraviglioso che lascia i turisti senza parole: qualcuno si getta in mare con il popolo zingaro per condividere con loro la gioia di quel momento.
La processione non finisce mai: prosegue nella notte tra sabato e domenica, quando “les gens du voyage”, ravvivano la lunga sera con i loro canti, con le loro storie raccontate ai crocchi di turisti che si radunano, attorno loro, nella piazza della chiesa romanica.
Non c'è tempo per dormire a Saintes Marie de la mer. Per due giorni siamo tutti gitani. Mirella, che i 50 anni li ha superati da un pezzo, e' arrivata in autostop dalla Liguria con un'amica: si sono vestite come le donne zingare, con gonnoni rossi e neri, un fiore tra i capelli e lunghi orecchini. Non si fermano un istante, gridano: “Vive les gitanes”.
L'urlo di gioia per il popolo zingaro si ripete in una sorta di cantilena, quando una band di suonatori rallegra un angolo del
paese o quando Marika, arrivata dalla Spagna, si mette in mostra per i fotografi mentre
balla il flamenco. Una notte senza fine che annuncia la giornata dedicata alle sante donne, Maria Salomé, madre di Giovanni e Giacomo e Maria-Jacobé: “Con la Vergine Maria esse hanno vissuto la Pasqua, il disastro del venerdì santo, la lunga speranza del sabato, l'imprevedibile sorpresa della domenica di Pasqua. Esse sono state - spiega Marc Prunier, curato di Saint Marie, in una chiesa affollata all'inverosimile - le prime testimoni dirette della tomba vuota. È grazie a esse che gli apostoli ne sono stati informati ed è poi grazie a loro che la novella è giunta sino alla nostra Camargue”. Grazie a quelle due sante, a Saint Marie, celebrano la resurrezione più volte l'anno: in maggio, in ottobre e in dicembre. Giorni in cui la Camargue si trasforma.
LA PIAZZA È DI NUOVO IN FESTA. Si prepara a ridiscendere verso quella spiaggia dove le due sante donne sarebbero arrivate nel primo secolo. L'ultimo atto, di questa teatrale processione, si compie in chiesa quando le reliquie delle sante esposte in una “cassa” sull'altare, vengono riposte nella cappella che si trova sopra l'abside. I gitani, si accalcano attorno al reliquiario, gridano nuovamente “Vive les Saint Maries, vive sainte Sara”, tra i ceri accesi e la voce del celebrante che prega la litania dei santi. Il popolo dei viaggianti è pronto a rimettersi in cammino. In chiesa, il curato, azzarda persino un invito a Papa Francesco per il prossimo anno. Le campane suonano a festa. La musica torna nelle piazze, travolge chiunque. Impossibile star fermi. Ricomincia un'altra notte gitana. L'ultima prima della partenza del popolo che in Camargue ha trovato una terra accogliente.

La Stampa 31.5.14
Nella Teheran degli ebrei patrioti “Qui siamo a casa”
Ospedali, sinagoghe, locali: vivere nel Paese anti-Israele
di Claudio Gallo


Youseph cammina ogni sera accanto alla moschea di piazza Fatemi, nel centro di Teheran. Prima di svoltare verso casa, alza lo sguardo e getta una fugace occhiata ai ritratti di Khomeini e dell’attuale Guida suprema Khamenei appesi al muro di un palazzo. Poi infila la strada in discesa dove abita. Alla fine della lunga giornata, prima di andare a letto, recita una preghiera, che suona un po’ diversa da quelle della moschea. Dice: «Shema Yisrael…», ascolta Israele, la professione di fede degli ebrei nel loro Dio unico.
La cronaca proietta la sua luce vivida all’indietro, verso il passato, falsandone talvolta la percezione. Con l’attuale mortale inimicizia tra l’Iran e Israele, ci si dimentica che gli ebrei stanno qui da migliaia di anni. Certo, gli ebrei e Israele non sono la stessa cosa, ci sono persino sparuti gruppi di ebrei contrari allo Stato ebraico, però per la maggioranza degli ebrei Israele è l’idea di casa. Un legame religioso e affettivo che qui, nonostante tutti lo neghino, crea un forte elemento di tensione, per lo più dissimulato. L’Islam lungo la storia ha di solito trattato gli ebrei meglio dei cristiani ma poi è venuto lo stato di Israele sulle terre dei palestinesi: è nata una lunga stagione di conflitti e odi che dura ancora. 
La costituzione rivoluzionaria dell’Iran s’impegna a proteggere l’ebraismo ma dove c’è Israele lo stato iraniano vede soltanto la Palestina. Nella preghiera del venerdì a Teheran sovente i sermoni terminano con il coro: «Margh bar Israel», morte a Israele. Lo stato ebraico contraccambia: a periodi alterni i giornali israeliani dedicano lunghe analisi che cercano di indovinare quando l’aviazione bombarderà le centrali atomiche iraniane. Alcune inchieste giornalistiche americane hanno concluso che dietro gli assassinii degli scienziati nucleari iraniani ci sarebbe la regia del Mossad, che addestra i Mujaheddin del popolo, un gruppo dissidente iraniano, recentemente tolto dalla lista dei terroristi da Europa e Usa. 
In questo clima politico esacerbato, la vita felice degli ebrei iraniani appare nei fatti un’immagine un po’ troppo ufficiale. I falchi di un campo e dell’altro condividono la stessa visione dualista e iper-semplificata che divide il mondo in bene e male e non lascia spazio a mediazioni. L’unico recente segnale positivo è che il nuovo presidente iraniano Rohani sembra aver sepolto la negazione dell’Olocausto con cui Ahmadinejad incendiava i suoi discorsi.
Nella parte più popolare di Teheran sud, non lontano dal bazar, c’è una delle più celebre istituzioni ebraiche, l’ospedale Sapir. È una vecchia casa dai muri bianchi su Mostafa Kohmeini Street, la strada dedicata al figlio deceduto dell’imam, che tutti chiamano ancora col vecchio nome pre-rivoluzionario: Cyrus Street. l’ospedale è intitolato al medico ebreo che a metà degli Anni Trenta morì combattendo l’epidemia di tifo che decimò Teheran. Il Sapir è finanziato dall’associazione ebraica della capitale e dallo Stato islamico, i pazienti sono per il 97 per cento musulmani, più o meno la stessa percentuale del personale. Il direttore sanitario è Ciamak Morsadegh, chirurgo col fisico da lottatore di sumo, deputato al parlamento iraniano in rappresentanza della comunità ebraica. È appena uscito dalla sala operatoria, sotto la manica rivoltata della casacca turchese c’è ancora una macchia di sangue. Spiega che gli ebrei in Iran sono circa 30 mila, la più grande comunità del Medio Oriente dopo quella israeliana, metà vivono nella capitale. 
«Ogni comunità ha i suoi problemi - dice - ma noi qui viviamo bene. Nel Paese ci sono più di 50 sinagoghe e non è mai esistito un ghetto come in Europa, siamo liberi di seguire la nostra religione come ci pare. Davanti alle sinagoghe non servono misure di sicurezza. come capita in altre parti del mondo. Esistono poche limitazioni: un ebreo non può arrivare ai gradi più alti dell’esercito o della burocrazia statale, fare il ministro o il Presidente, per il resto non c’è problema». Il servizio militare è obbligatorio, come per tutti, e sono previsti permessi speciali in occasione dello festività ebraiche. Tra i caduti della guerra Iran-Iraq degli Anni 80 c’erano anche quindici ebrei. «Le nostre vere ansie - spiega Morsadegh - sono quelle di tutti gli altri iraniani: il lavoro, l’inflazione, il costo della vita».
Per un’ironia della topografia, il Tapo26, uno dei due ristoranti «kosher» di Teheran (dove cioè si cucina secondo le norme religiose ebraiche), è in Felestin Street, via Palestina. Il proprietario David Shumer è alla cassa. «Qui stiamo benissimo - dice - siamo completamente inseriti nella società. Visitare Israele? Non è difficile, io ci sono stato una volta». La situazione tuttavia non è così semplice e specialmente i permessi multipli (cioè per intere famiglie) sono quasi impossibili a ottenere. La verità è che le autorità islamiche temono forme di spionaggio a favore di Israele e la cosa complica irrimediabilmente i rapporti.
Dal lato opposto di Cyrus Street rispetto all’ospedale c’è la piccola sinagoga di Molla Hanina. Nell’atrio dell’ingresso borbottano sul fuoco due enormi pentoloni. La gente arriva a piccoli gruppi per la festa di Rabbi Shamuune. Sul tavolo nell’atrio c’è un vassoio di dolci al burro ripieni di crema che chiamano «danesi». La sinagoga è piccola, dietro il pulpito, tra due menorà stilizzate (i candelabri ebraici), c’è l’«aròn», l’armadio che contiene i rotoli della Torah, la sacra scrittura. Marjan, poco più di vent’anni, spiega con orgoglio: «In sinagoga a differenza che in moschea uomini e donne possono pregare insieme». Tutti apparentemente assicurano di non avere problemi con le autorità. Il tempio ha anche una sua pagina di Facebook, peccato che in Iran Facebook sia quasi impossibile da vedere. 
L’unico tenue filo che lega Israele e l’Iran sono i pistacchi. Israele è uno dei più grandi consumatori e l’Iran uno dei più grandi produttori. Qualche anno fa gli israeliani quasi litigarono con gli americani per continuare a importare i pistacchi iraniani. Che un giorno lontano possa nascere una diplomazia dei pistacchi? Oggi appare l’unica surreale speranza.

La Stampa 31.5.14
Allarme Usa: “In arrivo una valanga di bambini in fuga dal Messico”
Secondo i dati dell’Homeland Security nel 2014 sono entrati o entreranno almeno 60.000 immigrati sotto i 18 anni. E sono destinati a raddoppiare
di Paolo Mastrolilli

qui

Corriere 31.5.14
Ora la Cina attacca i cristiani (per paura)
In un documento del partito il piano per «contenerli»
Le due Chiese
di Guido Santevecchi


La Cina ora teme i cristiani. Il New York Times rivela che in un documento interno del partito comunista dello Zhejiang viene stabilito un piano contro «i siti di culto eccessivi» e le attività religiose «troppo popolari». L’unica fede citata è quella cristiana: «La priorità è rimuovere le croci che si vedono da autostrade e superstrade». AsiaNews , agenzia del Pontificio istituto cattolico per le missioni, ha raccolto le foto di 64 chiese cristiane demolite nei primi cinque mesi di quest’anno. Motivo: regole urbanistiche violate.
Le sessanta chiese demolite La Cina ora teme i cristiani
Sono due le Chiese cattoliche in Cina. Una riconosciuta dal governo, l’altra clandestina. La prima, l’Associazione patriottica cattolica cinese, non riconosce l’autorità del Papa e nomina vescovi senza avere l’imprimatur della Santa Sede. È’ formata da circa quattro milioni di fedeli. La seconda, che per Pechino non esiste, opera in clandestinità perché considerata fuorilegge. Secondo la Costituzione cinese, infatti, «le associazioni religiose non possono essere soggette ad alcun controllo esterno»: in questo caso dal Vaticano. Secondo alcune associazioni umanitarie i fedeli della Chiesa sotterranea sarebbero più di sedici milioni.
La diplomazia
Le chiese cattoliche nel Paese sono 4.600 gestite dai patriottici. La Santa Sede è uno dei 25 Paesi che non riconosce la Repubblica popolare di Pechino come legittima e ha relazioni diplomatiche solo con Taiwan. Ma negli ultimi anni si sono registrate aperture e tentativi di dialogo tra il Vaticano e il governo comunista di Pechino.
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — Il cartello «Demolizione» è comparso sulla chiesa di Sanjiang, sobborgo di Wenzhou nella provincia orientale dello Zhejiang, il 25 marzo. L’edificio era appena stato completato dopo anni di lavori finanziati dai fedeli. Il progetto per 1.880 metri quadrati era stato approvato, ma all’improvviso le autorità locali si sono accorte che era stato violato il piano regolatore: la croce sulla cupola era troppo alta e visibile in tutta la città. Per salvarla dall’abbattimento, un migliaio di fedeli ha creato una catena umana, il caso è stato raccontato dalla stampa. Ma la difesa è stata inutile: le ruspe sono entrate in azione senza pietà a fine aprile. Della grande chiesa cristiana protestante è rimasto un cumulo di macerie.
Quello di Wenzhou non è un caso isolato: AsiaNews , agenzia del Pontificio istituto cattolico per le missioni, ha raccolto le foto di 64 chiese cristiane demolite nei primi cinque mesi di quest’anno. La motivazione (la scusa) è sempre la stessa: regole urbanistiche violate.
Wenzhou, nota come la «Gerusalemme della Cina» per le cupole che punteggiano il suo skyline, conta circa un 15 per cento di cristiani (protestanti e cattolici) su nove milioni di abitanti. I rapporti con il partito comunista sembravano distesi. Poi qualcosa è accaduto. I fedeli dicono che tutto è cominciato quando in città è venuto in visita il segretario provinciale del partito, Xia Baolong, uomo molto vicino al presidente Xi Jinping: quella croce si vede troppo, avrebbe detto. E i sottoposti avrebbero subito «scoperto» la violazione del piano regolatore. In realtà, troppo visibile si sarebbe fatta la presenza della fede: il partito ha paura che la crisi ideologica della gente, dopo l’ultimo orrore della Rivoluzione Culturale, la morte di Mao e poi l’apertura sfrenata all’economia di mercato, apra le porte a Dio.
Ora il New York Times rivela un documento interno del partito comunista dello Zhejiang: in nove pagine viene stabilito un piano contro «i siti di culto eccessivi» e le attività religiose «troppo popolari». L’unica fede citata nel testo è quella cristiana: «La priorità è rimuovere le croci che si vedono dalle autostrade e dalle superstrade». Si sono levate anche voci ufficiali contrarie alla campagna: «Che cosa può ferire la gente più della distruzione della loro chiesa?», ha ammonito Chen Yilu, capo dell’Unione teologica di Nanchino (sostenuta dal governo). L’esperto conclude che «la questione è stata affrontata in modo troppo aggressivo».
Dietro la distruzione delle chiese c’è anche la rivalità con le altre religioni dell’Oriente. A Wenzhou c’era stata la petizione di un gruppo secondo il quale la chiesa aveva disturbato il «feng shui», il principio di armonia taoista delle forze naturali.
In più, le religioni tradizionali della Cina, negli ultimi tempi hanno ricevuto importanti dichiarazioni di comprensione da parte del partito. A marzo, il presidente Xi ha elogiato il buddismo, ha visitato la città natale di Confucio e ha proclamato che i suoi libri vanno letti.
Il cristianesimo però è visto come un pericolo, perché si fonda su valori universali che spaventano la leadership cinese che adora la «stabilità». Recentemente, un sondaggio ha rivelato che su Weibo (il Twitter cinese) è più facile parlare di Gesù che di Xi Jinping. La Bibbia umilia il Libretto Rosso di Mao per numeri di citazioni e ricerche: 17 milioni a 60 mila. Gli analisti della rete segnalano che si tratta anche di una sconfitta auto inflitta: il regime usa un esercito di censori (100 mila almeno) per cancellare dal web le parole e i discorsi «politicamente sensibili»: così è meglio non far citare proprio Xi Jinping piuttosto che esporlo al rischio della critica. Il risultato è che sui giornali di carta ogni giorno Xi e il partito hanno titoli su titoli e le religioni niente. Su Internet succede quasi il contrario.
Sembra quasi che Pechino tema la previsione fatta da alcuni studiosi secondo i quali entro il 2025 la Cina sarà il Paese con più cristiani al mondo, con circa 165 milioni di fedeli, ha scritto il direttore di AsiaNews Bernardo Cervellera.

Corriere 31.5.14
In principio fu il silenzio del mondo
L’assoluto secondo la morale taoista
Nelle meditazioni di Lieh-tzu un gioiello ancora ignoto all’Occidente
di Pietro Citati


Tra i testi antichi della meditazione taoista, il Vero libro della Sublime Virtù del Cavo e del Vuoto , scritto tra il V e il IV secolo avanti Cristo, e attribuito a Lieh-tzu (ora pubblicato come Il cavo e il vuoto. 50 storie taoiste dalla Utet Extra, collana a cura di Emanuele Trevi e Luna Orlando), è il meno conosciuto in Occidente. Esso contiene alcune massime meravigliose, che si imprimono per sempre nella nostra mente, desiderosa d’assoluto.
Nella cultura occidentale, di rado abbiamo conosciuto una simile tensione ed eleganza intellettuale: una mente pura conduce il pensiero all’estremo del suo rigore, al punto oltre il quale non può spingersi, dove avvertiamo il brivido dell’invalicabile. Proprio lì, Lieh-tzu deride il pensiero: allude, accenna, ironizza, comincia a giocare; e una grande dimostrazione filosofica diventa un apologo o un raccontino o una commediola, che potrebbe piacere a un bambino, o alla nostra mente di bambini. Qui il pensiero non ha più nulla di astratto: ci sorride amabilmente, incarnato in deliziose storie concrete. La superficie della storia è chiarissima: Lieh-tzu parla di cose elementari: ma se riflettiamo attorno a quello che dice, spesso ci sembra misterioso ed enigmatico. Lieh-tzu va dietro l’apparenza delle parole, oltrepassa il silenzio, intende ciò che sta oltre la parola e il silenzio; nomina le cose che non possono essere dette, e che tuttavia vengono mirabilmente dette attraverso l’arte finissima di rivelare e di nascondere.
Lieh-tzu ama il viaggio: con gli occhi del viaggiatore guarda le cose che mutano, di minuto in minuto; le fattezze, l’aspetto, la sapienza, il comportamento, la pelle, la carne, le ciglia dell’uomo, i paesaggi e gli edifici del mondo. Subito dopo aver esaltato il flusso, Lieh-tzu celebra il suo opposto: l’immobilità assoluta del mondo, la quiete della natura e dell’uomo, e la fissità silenziosa dell’acqua, che non si cura di muovere le proprie onde. Ciò che sorprende è la conclusione a cui giunge Lieh-tzu: perché il movimento e la stasi si identificano, ciò che muove e ciò che non cambia mai diventano la stessa cosa, ciò che è e ciò che si trasforma si esprimono con lo stesso verbo; e la cascata e il lago senza onde conoscono lo stesso ritmo verbale. Quando viviamo nel Tao, avvertiamo la stessa voce nell’uno e nel mutevole, nel molteplice e nell’identico.
Lieh-tzu e i grandi pensatori taoisti hanno un dono unico. Quando guardano le cose e le pensano, riescono ad attraversare miracolosamente le superfici, avvertendo dietro di esse la misteriosa presenza del Vuoto, che toglie ogni peso e rilievo alle cose, come se fossero spugne imbevute di una sostanza ultraterrena. Per cogliere il Vuoto, il saggio allontana da sé ogni rigidezza: «smussa ciò che è affilato». Diventa molle e cedevole come la medusa, morbido e flessibile come il giunco. Tra i quattro elementi, sceglie a modello l’acqua: l’acqua che, se incontra un ostacolo, si arresta; se l’ostacolo si rompe, corre via; che è rotonda e quadrata secondo il recipiente in cui viene messa, e per questa estrema facilità e pieghevolezza è il più forte tra tutti gli elementi. Come l’acqua, la natura del saggio non si può suddividere in parti: cede a tutte le cose e penetra in tutte le cose; è senza forma, neutra, insapore; si turba solo quando viene agitata e le sue agitazioni non durano a lungo, perché non nascono da lei ma dal vento.
Quando ha raggiunto questa condizione, il saggio conosce la beatitudine del Vuoto — col quale il Tao coincide. Sebbene tutti esaltino la perfezione del pieno, egli sa che il segreto del mondo riposa sul vuoto; i raggi sono indispensabili per fare una ruota, ma la sua perfezione dipende dal mozzo vuoto; l’argilla è necessaria per modellare il vasellame, ma la bellezza di un vaso dipende dalla forma vuota che circoscrive; i mattoni sono indispensabili per costruire le porte e le finestre di una casa, ma ciò che importa è la forma vuota delle porte e delle finestre. Così egli fa il vuoto in se stesso, annullando il proprio io. Annulla i propri desideri, i propri impulsi, i propri amori, i propri odi: la tristezza e il piacere, la gioia e la collera. Cancella le proprie esperienze, rinchiudendosi nella propria natura innata. Non guarda, non ascolta, non sente, non conosce, non sa.
Allora diventa quieto, come il Tao: tranquillo come la baia, silenzioso come il deserto, pacato come la melodia, esile come l’eco. Senza forma, senza resistenze, senza desideri, senza volontà, senza passioni, attraversa il mondo simile a una barca senza ormeggi che va alla deriva sull’acqua; e riflette nel proprio puro specchio intellettuale gli opposti dell’universo, tutte le creature che esistono, tutte le cose che accadono e appaiono. Non agisce. La passività è l’unica azione perfetta: l’azione che nasce dal cuore immobile della vita comunica il suo mite e ininterrotto movimento a tutte le forme.
Questo Vuoto è sia trascendente sia immanente. «Ha in sé — dice Chuang-tzu, un altro pensatore taoista — la sua radice, ed è sempre esistito», molto prima della creazione del cielo e della terra, e addirittura prima della nascita dell’Uno: abita dove non c’è né altezza, né profondità, né durata.
Dunque: il Tao è trascendente. Potremmo chiamarlo Dio, a patto di cancellare da questa parola tutte le connotazioni cristiane, in primo luogo l’amore. Possiede la qualità fondamentale che il pensiero occidentale attribuisce all’Essere: ma è così vuoto, puro, infinito, privo di qualsiasi limitazione e determinazione, che potremmo anche chiamarlo Nulla. Eppure, subito dopo aver detto che il Tao è trascendente, il vero taoista conclude: egli è immanente. Se vogliamo vederlo, dobbiamo guardare con gli occhi interiori questa formica, questo filo d’erba, questa tegola, questo mucchio di letame: il Tao è qui, davanti a noi, ubiquo e onnipresente, silenziosa legge regolatrice di tutte le cose, fluido ritmo dell’universo.
Nel nostro mondo non conosciamo che antitesi: antitesi che formano la sua sostanza — come lo yin e lo yang . Oppure le antitesi generate dalle idee umane. C’è chi si chiede: il mondo è stato creato da qualcosa o dal nulla? Il Tao esiste o non esiste? Quando viene posto davanti alle idee umane, il saggio taoista è assalito da un’ostilità profondissima. Egli detesta l’unilateralità, la rigidezza, la parzialità, la frammentarietà di tutte le costruzioni intellettuali, così care agli esseri umani, e rifiuta i due termini di ogni dilemma — non si può dire né che ci sia stato un creatore né che non ci sia stato, non si può dire né che il Tao esista né che non esista. Il compito del saggio non è di produrre quei pacchetti lucidi e maneggevoli che sono le idee. Sopra a ciascuno di esse, sopra ogni precetto, intenzione e morale, egli apre un punto di vista simile a quello di un romanziere, un punto di vista distante, assente e vuoto, unico e primordiale — il Tao che illumina tutte le contraddizioni del mondo.
Gli uomini guardano: guardano senza fine, e commentano quello che vedono, con un chiacchiericcio insaziabile, che annoia moltissimo Lieh-tzu. Egli ribadisce che chi si conforma al Tao non si serve né di orecchie né di occhi, né di forma né di mente. È inappropriato volersi conformare al Tao e cercarlo per mezzo della vista, dell’udito, della forma e della sapienza. Il vero taoista possiede una vista superiore: osserva tutto ciò che è inosservabile, impercettibile, addirittura inesistente, e lo trascrive nella sua mente vuota. Quando deve rivelare ciò che ha visto e agire di conseguenza, obbedisce a un famoso aforisma: «il modo sommo di parlare è evitare di parlare, il modo sommo di agire è non agire». La lingua suprema è il silenzio. «Chi ha raggiunto la propria meta non parla, chi ha progredito nella sapienza non parla. Parlare con il silenzio è anch’esso parlare, conoscere con l’ignoranza è anch’esso conoscere».
Molti filosofi razionalisti dell’epoca di Lieh-tzu e dei nostri tempi derisero questa mistica fondata sul silenzio, che permeò profondamente l’anima femminile della Cina. Ma i saggi taoisti osservarono che non vi è alcuna speranza di raggiungere, per mezzo dello sguardo e della parola, l’armonia con gli altri esseri umani e con le creature della natura. Solo la mente vuota permette le silenziose corrispondenze tra i cuori. «Colui che è nell’armonia vive in perfetta comunanza con le creature, e queste non sono in grado di nuocergli e di ostacolarlo. Egli può passare attraverso il metallo e la pietra e camminare nell’acqua e nel fuoco».

Repubblica 31.5.14
Chi ha paura di Piketty l’economista star troppo a sinistra
di Federico Rampini


Thomas Piketty è il Nemico Pubblico da abbattere. L’Internazionale neoliberista si mobilita per demolire un economista francese semi-sconosciuto (al pubblico di massa) fino all’altroieri. Dal Wall Street Journal al Financial Times, gli organi più autorevoli del pensiero unico mercatista, è un crescendo di attacchi contro lo studioso parigino, “colpevole” di aver messo le diseguaglianze sociali al centro dell’attenzione nella comunità scientifica.
Il Financial Times ha messo al lavoro per settimane una task force di economisti e giornalisti. La loro missione: scovare errori nel saggio Il Capitale nel X-XI secolo , il monumentale studio che Piketty ha dedicato alle diseguaglianze nel capitalismo degli ultimi due secoli. Gli attacchi pubblicati dal Financial Times - e rintuzzati dall’economista francese con una risposta molto dettagliata, ripres a dal New York Times - lasciano interdetti e perplessi per la loro futilità. Se non fosse che quelle accuse lasciano intuire ben altro; l’accanimento contro Piketty sembra una resa dei conti, il tentativo di mettere a tacere una voce scomoda screditandola sotto il profilo scientifico. Il nucleo sostanziale delle 600 pagine di Piketty è questo: il capitalismo è stato accompagnato da diseguaglianze estreme dalla Rivoluzione francese fino alla prima guerra mondiale; è seguito un periodo di relativo livellamento dei patrimoni e dei redditi fra le classi sociali nel XX secolo (compreso il trentennio “glorioso” dopo la seconda guerra mondiale); infine negli ultimi trent’anni le disparità hanno ripreso a salire a livelli estremi. Anche perché una oligarchia di privilegiati - in particolare i top manager - hanno “fatto secessione” dal resto della società, conquistandosi il potere di auto-determinare i propri compensi senza alcun nesso con la loro produttività reale. Tesi doppiamente scomoda. Sia perché individua cause precise dietro le diseguaglianze. Sia perché dimostra che queste non sono affatto inevitabili.
Gli “errori” che il Financial Times pretende di aver individuato sono marginali e contestabili. Il quotidiano sostiene ad esempio che Piketty avrebbe dovuto usare statistiche sulla tassa patrimoniale svedese del 1920 anziché del 1908; oppure contesta alcune stime sul “differenziale di mortalità” in Francia. La difesa argomentata di Piketty si avvale del fatto che il suo studio non è un exploit individuale: ci hanno lavorato più di trenta economisti di vari continenti, da 15 anni, inclusi docenti di Berkeley, California. Il libro viene accompagnato da sterminate appendici di dati archiviate online per non appesantire oltremodo la lettura. La vera notizia è proprio questo accanimento. Cosa c’è dietro? La gelosia è uno dei possibili moventi visto che Piketty si è imposto come un fenomeno da star system che non ha precedenti nella “scienza triste” (come viene definita l’economia): invitato da Barack Obama per un incontro coi consiglieri della Casa Bianca; poi dai due Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz a New York, infine da Harvard. Il suo libro è in vetta alle classifiche negli Stati Uniti.
Ma l’ostilità verso Piketty ha motivazioni più profonde. Il francese non è sconosciuto negli ambienti accademici. Enfant prodige della sua disciplina, brillante matematico, insegnava al prestigioso Massachusetts Institute of Technology quando era ventenne. Poi fece un affronto imperdonabile: voltò le spalle alle università americane e tornò a lavorare in Francia. Con due accuse pesanti: criticando gli economisti Usa per la loro “deriva matematica” (modelli sempre più complessi e sempre meno attinenti ai problemi reali), ed anche per i loro latenti conflitti d’interessi. Quest’ultima accusa venne lanciata, a livello divulgativo, anche dal celebre documentario Inside Job: con nomi e cognomi di illustri economisti arricchiti grazie a consulenze per i big di Wall Street, l’industria petrolifera, ecc.
Il Financial Times è un ottimo giornale, ma non ha mai preso le distanze dall’ideologia neoliberista, neppure dopo il disastro sistemico del 2008. Il mercato è (quasi) sempre la soluzione dei nostri problemi, a leggere i suoi editoriali. Le energie che oggi il Financial Times dispiega per demolire Piketty, non le ha dedicate con la stessa intensità e coerenza a individuare tutti gli errori della scienza economica neoclassica e liberale degli ultimi trent’anni. In questo il Financial Times e il Wall Street si accodano ad un comportamento omertoso che accomuna gran parte degli economisti: una scienza colpevole di tanti danni e incredibilmente avara di autocritiche.
Piketty ironizza sul fatto che «secondo il Financial Times l’Inghilterra di oggi sarebbe una società più egualitaria di quanto lo sia stata la Svezia» nel periodo di massima redistribuzione sotto governi socialdemocratici. Una tesi che contraddice l’evidenza empirica e sbeffeggia il buonsenso comune. Un altro economista controcorrente, l’australiano David Gruen, ha descritto in questi termini il comportamento dell’establishment neoliberista alla vigilia del disastro sistemico del 2008: «È come se sul Titanic, avviato alla collisione finale contro l’iceberg, tutti quelli che avrebbero potuto e dovuto avvistare il disastro, fossero rimasti chiusi dentro una cabina senza oblò, impegnati a disegnare una nuova nave meravigliosa, fatta per un mare senza iceberg». Un grande intellettuale inglese scomparso, Tony Judt, ricordava quel che fu l’austerity del dopoguerra: la ricchezza e il reddito in Gran Breta-gna vennero redistribuiti con una fiscalità progressiva che oggi sembrerebbe da esproprio. La quota del patrimonio nazionale detenuta dall’1% dei più ricchi era scesa brutalmente, dal 56% del 1938 al 43% nel 1954. Il 13% di ricchezza redistribuita è un’operazione “livellatrice” di rara potenza. Ben diversa dal segno sociale dell’austerity di oggi. Tutto questo accadde in un’economia capitalistica, che seppe poi sprigionare il boom degli anni Sessanta. Piketty risulta insopportabile alle poderose armate del neoliberismo, perché lui non è un neomarxista, non è un pensatore utopico e radicale. Dimostra che un capitalismo meno diseguale è possibile, perché in realtà è già esistito.

Repubblica 31.5.14
Mi contestano ma il mio metodo è trasparente
di Thomas Piketty


VORREI iniziare dicendo che il motivo per cui pubblico online tutti i file excel, comprese le formule sulla gestione dei dati e le rettifiche, è proprio perché voglio promuovere un dibattito aperto e trasparente su questi metodi di misurazione importanti e sensibili. E vorrei aggiungere che sicuramente sono d’accordo nel dire che le fonti di dati sulla diseguaglianza della ricchezza sono meno sistematiche di quelle riguardanti la diseguaglianza di reddito. Infatti uno dei motivi principali per cui sono a favore della tassazione della ricchezza, della cooperazione internazionale e dello scambio automatico di informazioni bancarie è perché così si svilupperebbe maggiore trasparenza finanziaria e avremmo maggiori fonti affidabili di informazione sulle dinamiche di ricchezza (...). Il mio problema con le critiche del Financial Times è duplice. Innanzitutto, non le trovo particolarmente costruttive. Indicano errori che avrei fatto nei miei calcoli, e non è vero, come dimostro. Le correzioni suggerite dal FT alle mie statistiche (con cui non sono d’accordo) sono per la maggior parte relativamente minori, e non influiscono sull’evoluzione a lungo termine e sulla mia analisi complessiva (...). Inoltre, le loro correzioni proposte più sostanziali sono basate su scelte metodologiche a dir poco discutibili. (Tratte da Appendice al capitolo 10 pubblicato su http:// piketty.pse.ens.fr)

Repubblica 31.5.14
Parla Habermas “Stop ai giochi l’Europa non è un tavolo di poker”
intervista di Nils Minkmar



MONACO DI BAVIERA. CON trattative e giochi di potere sul prossimo presidente della Commissione i leader europei si mostrano incapaci di liberarsi dalla logica del potere e di dare all’Europa le nuove risposte che la situazione del dopo-voto esige. Ecco il j’accuse di Jürgen Habermas.
Signor Habermas, come giudica i negoziati in corso dopo l’ultimo vertice dei leader Ue?
«Come una nuova prova che in questo circolo dei capi dell’esecutivo pare che nessun leader e nessuna leader sia capace di liberarsi dalla routine del poker del potere quotidiano e di porsi davanti a una situazione che esige nuove risposte».
Perché secondo Lei Cameron e Orbàn hanno detto no a Juncker?
«Per gli altri leader quelle prevedibili obiezioni dei due sono state probabilmente un pretesto benvenuto. Angela Merkel, per mesi, si è schierata contro i candidati capolista. Ma questi sono stati effettivamente nominati (Juncker e Schulz tra gli altri, ndr) e ciò ha scatenato l’escalation di democrazia che pare che lei tema. Anche per questo l’Europa istituzionale è entrata di prepotenza nella realtà della volontà popolare polarizzata dei suoi cittadini. Per la prima volta il Parlamento europeo ha una vera legittimità - proprio perché i nemici dell’Europa hanno ottenuto voti e seggi, per scuotere e svegliare i sonnolenti europeisti - e così vengono separati i caproni dalle pecore. Mi chiedo da che parte stia un gruppo parlamentare del Ppe che non osa nemmeno appoggiare compatto il suo candidato Juncker. In Germania la Cdu si fa bella con l’immagine di partito europeista, ma la sua famiglia nell’Europarlamento sembra non volerne sapere di escludere dai suoi ranghi gente come Orbàn e Berlusconi».
Merkel poche ore fa ha chiesto Juncker. Lo si può imporre contro la volontà di Regno Unito e Ungheria?
«La situazione ha due volti, uno politico e uno di diritto.
Per la prima volta si sono svolte elezioni europee che almeno a metà meritano di essere chiamate elezioni. Da una parte abbiamo la chiara alternativa tra Juncker e Schulz, dall’altra abbiamo quella tra gli integrazionisti e i fautori di uno scioglimento delle istituzioni europee. Perciò, ben cosciente, il Presidio dell’Europarlamento ha dichiarato che il Consiglio europeo deve considerare in modo vincolante il risultato del voto. E come hanno risposto i nostri capi di governo? Chiudendo le paratie stagne della nave, per difendere il loro potere autoconferitosi contro la rabbia popolare, presunta irrazionale. Se davvero proporranno un’altra persona rispetto ai due candidati principali, ciò colpirà al cuore il progetto europeo. E non sarebbe più possibile conquistare i cittadini alla partecipazione a nuove elezioni europei. Gli altri leader potrebbero chiedere l’uscita dalla Ue dei paesi ostruzionisti».
A fronte del successo degli euroscettici e antieuropei, quale Commissione serve, per quale politica europea?
«Certo non è abituale che ben più del dieci per cento dei deputati eletti in un Parlamento vogliano abrogarlo o ridurre i suoi poteri. Ma questa anomalia rifletta solo la realtà: ci troviamo in un processo controverso di sviluppo costituzionale. Trovo sia un bene che gli avversari dell’Europa abbiamo trovato un Foro dove possono dire in faccia alle élites politiche che è necessario alla fine decidersi a coinvolgere i popoli nel processo di unificazione. Il populismo di destra impone un cambiamento di parametri: dall’elitarismo in uso finora ad un sistema di partecipazione dei cittadini. Ciò può solo essere positivo per il Parlamento europeo e per quel che riguarda la sua influenza sul processo legislativo europeo. Altro è il discorso per quanto concerne le conseguenze di questi risultati a livello nazionale nei singoli paesi membri della Ue. In questo senso, in alcuni Stati può crearsi il pericolo che i partiti politici si lascino intimidire, e scelgano la linea del tentativo di adeguarsi a idee dei populisti, come fa la Csu da noi in Baviera».
Come giudica l’angoscia per il successo del Front National in Francia?
«Qui tocchiamo un punto nevralgico. Domenica sera mi ha colto il pensiero scioccante che il progetto europeo potrebbe fallire non solo a medio termine a causa delle crescenti disuguaglianze economiche nell’eurozona, bensì anche a breve termine per le conseguenze di politica interna di una destabilizzazione della Repubblica francese, cioè del paese che si sente sempre più nell’ombra della Germania. In ogni caso si è data l’impressione che il governo tedesco, dall’inizio della crisi nell’ottobre 2008, si sia comportato in modo non cooperativo e che non tratti più a pari dignità il suo partner di gran lunga più importante. Presumibilmente soltanto una svolta politica in Euro- pa, quella che ci si aspettava da Hollande, potrebbe ristabilire l’equilibrio, evitando che in Europa una ulteriore costruzione della comunità della valuta unica e un suo sviluppo come Euro-unione politica diventi impossibile, in un percorso non democraticamente legittimato. Io capisco il riflesso difensivo del Consiglio europeo contro le proposte di Juncker (che vanno nella direzione dell’unione politica, ndr), lo vedo anche come sintomo di insicurezza. Angela Merkel, la patrona dei paesi donatori, vuole richiudere al più presto la finestra di un possibile cambiamento politico che si è aperta con l’aria fresca delle elezioni europee».
In che misura la disuguaglianza tra i due paesi leader è conseguenza anche della politica tedesca?
«Dopo la riunificazione è cambiata la mentalità nella Repubblica federale. La Germania si sente di nuovo Stato nazionale normale, e il nostro governo si comporta di conseguenza. In questo modo l’Unione europea, proprio attraverso la sua crisi peggiore, ha perduto la voce tedesca cui era abituata, la voce che chiedeva con insistenza più integrazione. Ma quella voce europeista tedesca è necessaria oggi più che mai. Invece di imporre un corso politico ai membri più deboli dell’unione monetaria, il governo tedesco avrebbe dovuto mettere in conto l’assunzione di proprie responsabilità in anticipo, come fu con Adenauer, Schmidt e Kohl. Invece, insensibile agli osceni disuguali destini di crisi, la Germania ha persino profittato della crisi. Questo comportamento non solidale deve rivolgersi contro di noi. Dobbiamo smetterla a dispiegare una posizione semiegemonica in cui la Bundesrepublik si spinge di nuovo in vecchi ruoli e stili tedeschi. O i risultati elettorali negli altri paesi devono lasciarci indifferenti?».
I socialdemocratici sono con Schulz e per una politica europea come quella che lei auspica. Prevede tensioni nella Grosse Koalition?
«Spero che Sigmar Gabriel (vicecancelliere e leader dell’Spd, ndr) abbia la statura di capire che la pace nella coalizione è un gran bene, ma non da difendere a ogni costo. Ci sono anche altri europeisti nel governo, sebbene pochi. Gabriel è l’unico in cui vedo un senso di consapevolezza della piccola finestra di apertura storica apertasi col voto di domenica, l’unico che sappia guardare a Parigi. Dovrebbe essere consapevole del fatto che Merkel sappia quanto si fa presto a richiudere quella finestra temporale».

l’Unità 31.5.14
L’altra metà della scienza
Nei Paesi islamici la ricerca è il canale principale di emancipazione


Napoli. ZOUBIDA CHARROUF, 62 ANNI, INSEGNA CHIMICA ORGANICA PRESSO L’UNIVERSITÀ MUHAMMADV DI RABAT, IN MAROCCO. È considerata una delle più grandi esperte al mondo delle proprietà chimiche, mediche, alimentari e cosmetiche dell’argan (Argania Spinosa), una pianta da cui si ricava l’olio di argan e che è endemica del suo paese e del Tindouf, la regione più occidentale della vicina Algeria. A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, Charrouf ha sviluppato un’enorme mole di studi scientifici sulla Argania Spinosa. E, nel medesimo tempo, ha lavorato perché intorno a quella risorsa naturale nascesse una nuova economia e una nuova società, capace di dare un lavoro e un’identità a migliaia di uomini e, soprattutto, di donne del Marocco. Anche per questo nel 2011 ha vinto il premio «Donne e Scienza » della Banca Islamica per lo Sviluppo ed è stata più volte candidata al Premio Nobel per la Pace.
Zoubida Charrouf non è un’eccezione, sulla sponda meridionale del Mediterraneo. È parte di un esercito femminile che ha iniziato a dissolvere le discriminazioni di genere anche nelle comunità scientifiche dei paesi islamici che affacciano sul più grande mare interno del mondo, con la medesima forza con cui lo stanno facendo le donne dell’Unione Europea.
La scienza è il canale principale attraverso cui le donne stanno affermando il loro diritto alla parità nei paesi islamici. Almeno in quelli dell’area mediterranea. Un canale che per portata non è inferiore a quello europeo.
È questo, forse, la novità più grossa e, tutto sommato, inattesa che è emersa ieri al Workshop Euro-Mediterraneo su Genere e Scienza che il progetto Shemera ha organizzato a Napoli, presso la Città della Scienza, con la puntuale regia di Anne- Marie Bruyas, responsabile delle Relazioni Internazionali della Fondazione Idis.
Shemera è un progetto dell’Unione Europea che, con una dotazione di 2,4 milioni di euro, ha cercato di verificare, su basi statistiche, qual è la posizione delle donne scienziato nell’area del Mediterraneo per fare in modo che la dimensione di genere possa essere integrata in una comune politica della ricerca.
A Napoli sono stati presentati i primi risultati. Che, per molti versi sono inattesi. Se non desta meraviglia il fatto - ormai comprovato dalle statistiche - che in Europa le donne partecipino sempre più e sempre più da protagoniste alla vita scientifica, pur tra mille difficoltà e ostacoli che ancora persistono, risulta nuovo e, per certi versi clamoroso, il quadro che le analiste di Shemera hanno proposto per i paesi islamici della sponda sud del Mediterraneo.
Se in Europa un ricercatore su tre ormai è una donna, altrettanto avviene nei paesi islamici che affacciano sul Mediterraneo. La presenza delle donne nelle comunità scientifiche dei nostri vicini varia da un livello minimo del 25 %, in Palestina, a un livello massimo, degno di tutto rispetto, del 39 % in Egitto. E, proprio come in Europa, la presenza delle donne nei paesi del sud del Mediterraneo è più alta nelle università e negli anti di ricerca pubblici che non nei laboratori delle imprese private.
Nei paesi dell’Unione Europea, recita il rapporto preliminare di Shemera, sono il 46% dei dottori di ricerca, anche se le variazioni tra i 28 diversi paesi sono piuttosto forti: si va da un minimo del 26% a un massimo del 62%. Tutte queste percentuali sono analoghe nei paesi che gli esperti di Shemera definiscono Ppm (Paesi partner del Mediterraneo), si va da un minimo di donne del 33% tra i dottori di ricerca a un massimo del 56% in Tunisia.
Anche il tetto di cristallo, che impedisce alle donne di raggiungere i livelli più alti della carriera scientifica, è analogo. In Europa gli accademici di alto grado (i nostri professori ordinari) donne oscillano tra il 9% del Lussemburgo e il 36% della Romania. Tra i Ppm oscilla da un minimo del 3% in Palestina a un massimo del 35% in Egitto. Allo stesso modo in Europa solo il 15,5% del Istituti di istruzione superiore sono diretti da donne. Mentre nei Ppm si va da un minimo del 3,8% in Giordania a un massimo del 10,5% in Egitto, che si conferma così come il paese del sud del Mediterraneo dove le donne trovano più spazio.
Potremmo continuare con i numeri. Ma dobbiamo dire che questa sorprendente analogia si verifica solo in ambito scientifico. Mentre in Europa, infatti, la presenza delle donne nel mondo del lavoro è tra i più alti del mondo, nei paesi del sud del Mediterraneo la situazione è tra in assoluto il più basso del mondo.
È dunque evidente che la ricerca scientifica e l’educazione sono il canale principale attraverso cui le donne nel mondo islamico che affaccia sul nostro stesso mare stanno cercando la loro emancipazione. Con risultati di notevole importanza.
Shemera sta per She («lei» in inglese) e ha come obbiettivo favorire l’uguaglianza di genere nell’ambito di un’area comune di ricerca, quella euro mediterranea. Partendo da questi dati, il progetto Shemera, come dicono Anne-Marie Bruyas e Flavia Zucco, ha individuato tre possibili tipologie di azioni politiche. La prima è quella di continuare ad aiutare, attraverso il libero accesso all’università, la partecipazione femminile nella ricerca scientifica. La seconda è quella di riformare le istituzioni, in modo da rompere definitivamente il tetto di cristallo che impedisce alle donne euro-mediterranee che in numero crescente si dedicano alla ricerca di scalare la piramide gerarchica e raggiungere le posizioni di vertice. La terza direttrice riguarda il cosiddetto gender mainstreaming e consiste nel tenere nella giusta considerazione le differenze di genere (le situazioni di vita, le esigenze, gli interessi, le aspettative che differenziano maschi e femmine) in modo da favorire l’accesso delle donne nei laboratori della scienza applicata e della scienza di base.
Shemera ha dimostrato che la scienza è un luogo di emancipazione delle donne. Zoubida Charrouf in Marocco, Fabiola Gianotti al Cern di Ginevra e migliaia di altre donne che si dedicano alla scienza, dimostrano ogni giorno che l’area mediterranea e il resto del mondo non possono rinunciare a quella straordinaria risorsa che è la partecipazione alla ricerca dell’altra metà del cielo.

l’Unità 31.5.14
Alfabeto civile per trasformare il Paese in una meraviglia
Un pamphlet di Montanari ci invita a una vera rivoluzione:
educare all’amore per la bellezza, solo così avremo un futuro


Firenze. UN GIORNO TOMASO MONTANARI, CHE INSEGNA STORIA DELL’ARTE ALL’UNIVERSITÀ FEDERICO II DI NAPOLI, CHIEDE AI SUOI 150 STUDENTI SE ABBIANO VISTO IN CITTÀ UNA SCULTURA DI DONATELLO. «Si diffonde la sensazione che li stia prendendo in giro - annota -. Quando poi dico che un’opera bellissima si trova a otto minuti a piedi dall’aula, sono quasi tutti certi che si tratti di una domanda a trabocchetto». Non c’è trabocchetto, la chiesa di Sant’Angelo a Nilo conserva una Assunzione della Vergine dello scultore rinascimentale, ma è facile scoprirlo leggendo Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà (pagine 127, euro 9,00, minimum fax). Fossimo stati in quell’aula, quasi tutti noi avremmo reagito come quegli studenti. L’episodio illumina infatti bene quanto ignoriamo delle nostre città. Sarebbe meglio sapere, invece: per vivere meglio, con noi stessi e la nostra democrazia, non per superare esami.
«Perché un italiano dovrebbe essere felice di mantenere un patrimonio culturale che sente lontano, inaccessibile, superfluo come il lusso dei ricchi? », chiede il saggista. Perché sapere è la premessa per evitare speculazioni private a danno della cosa pubblica, è la risposta di questo originale pamphlet strutturato alfabeticamente dalla A di ambiente alla Z di zenit. «Gli italiani hanno bisogno di ricominciare a parlare la lingua parlata per secoli: la lingua delle immagini, delle forme, delle figure, dei colori». Un tempo la intendevano anche gli analfabeti.
Il 43enne studioso, fiorentino, non evita bersagli i diretti: definisce «Bignami» del Rinascimento la descrizione di quell’epoca che ha fatto lo scrittore Scurati per la sede di Eataly a Firenze; critica il Comune per aver affittato Ponte Vecchio a una cena privata; contesta il totem dell’invocare sempre più visitatori in musei come i già strapieni Uffizi in nome di una classifica tutta mediatica quando, infatti, le persone andrebbero dirottate in musei con opere altissime ma meno frequentati. Contesta la fola che negli Usa lo Stato non finanzi i musei (lo fa «indirettamente defiscalizzando le donazioni culturali»). Il ministero per i beni culturali a suo parere non pone «le basi di un turismo sostenibile sul piano culturale e ambientale». Montanari, che si colloca a sinistra (non scambiatelo per un aderente ai 5 Stelle), non si ferma alle critiche ma lancia idee concrete: suggerisce ad esempio quale dovrebbe essere il percorso di un funzionario di una soprintendenza, cosa si potrebbe fare in monumenti come Venaria Reale presso Torino o la Reggia di Caserta, parla di biblioteche. Fa, in altri termini, la tanto evocata «critica costruttiva». Merita un ascolto attento.

l’Unità 31.5.14
La periferia come «arte pubblica»
Un quartiere di Roma si apre ai muralisti e si trasforma in un’opera
A San Basilio gli interventi monumentali e bellissimi dello spagnolo Alejandro Liqen e di Agostino Iacurci:
quattro edifici delle case popolari sono stati colorati con il parere dei residenti. Prove di rinascimento urbano


RINASCIMENTO URBANO. È QUESTA L’ESSENZA DI UN PROGETTO ARTISTICO CHE VEDE LA SUA CONCLUSIONE PROPRIO OGGI ALLA PERIFERIA DI ROMA. Camminare per la città seguendo piste e suggerimenti che dai muri stessi arrivano. Se si è curiosi non si può che passare per San Basilio in cerca dell’arte. Muralisti di fama internazionale si sono calati per mesi nella realtà urbana e hanno condiviso col pubblico le loro opere. Di fatto, con vero spirito «rivoluzionario» e profondamente innovativo, in questo modo l’arte esce dal museo e invade la città. Tutti ne possono godere e beneficiare senza alcuna differenza di casta o censo. E per farne esperienza è sufficiente essere muniti di scarpe comode e curiosità. Due ingredienti che portano inevitabilmente a fare scoperte: angoli delle città dimenticati o poco conosciuti, spesso un po’ puzzolenti o ritenuti pericolosi, sono stati restituiti alla società.
«Il nostro lavoro che produce “arte pubblica” non avrebbe senso se quest’ultima non fosse portata innanzitutto nei luoghi dove non c’è o non viene prodotta», spiega Simone Pallotta, il curatore di SanBa, acronimo che si scioglie nel nome del quartiere di Roma in cui i murales sono stati realizzati: San Basilio, appunto. Il progetto è iniziato a fine marzo con il coinvolgimento delle scuole in laboratori trasversali di arti contemporanee che hanno portato alla creazione di opere di design urbano per rigenerare aree in disuso del quartiere restituendole ai suoi abitanti. «Le opere nascono sempre da un confronto con le persone. Gli abitanti dei palazzi sono stati avvicinati alla poetica dei due artisti con riunioni di condominio e interventi di sensibilizzazione all’arte contemporanea. È fondamentale che ci sia per un ritorno all’arte. La street-art oggi si realizza perlopiù chiamando gli artisti a realizzare le opere, calandoli dall’alto nel contesto urbano. Gli abitanti non hanno nessun tipo di interazione con l’opera, la subiscono e sono costretti a conviverci».
UN PERCORSO UNICO
È per questo che i quattro murales sono accoppiati visivamente e costituiscono un percorso unico, quasi a rendere un messaggio che si può cogliere soltanto se si cammina lungo tutto il quartiere. Ecco che due dei muralisti più rinomati e apprezzati in tutto il mondo, lo spagnolo Alejandro Liqen e l’italiano Agostino Iacurci hanno riempito di colori quattro facciate degli edifici dell’Ater con loro opere monumentali. In questa sorta di pala d’altare rinascimentale calata ai giorni nostri, la natura prende possesso di nuovo del pianeta, raccogliendo con un enorme rastrello i rifiuti urbani del consumismo tecnologico sfrenato (ElRanacerdi Liqen), seminando e facendo germogliare fiori giganteschi che fanno nascere animali e persone nuove (El Devenir di Liqen), così che da un mondo in cui ognuno è isolato nella propria stanza, prigioniero delle abitudini domestiche, i muri si possano letteralmente aprire per far rivedere il cielo stellato (The Blind Wall di Iacurci) e infine, si torni a un mondo in cui acqua, terra e cielo sono in armonia e l’uomone sia soltanto una piccola componente, seppur con l’enorme responsabilità di doverlo gestire (The Globe di Iacurci).
E proprio quest’ultimo artista a spiegare il suo lavoro. «Non si tratta più di street-art. Il nostro è ormai un muralismo contemporaneo – tiene a precisare Iacurci – Lavoriamoper andare oltre, guardando alla città con un linguaggio nuovo, certo nato dalla street-art, ma ormai separato, seppur parallelo. Il nostro approccio definisce la tecnica e l’ottica che ha una visione più ampia sulla realtà».
Illustratore, pittore e muralista, appunto, Iacurci non sembra intimidito dalle diverse possibilità che queste tre vie offrono a un artista, con i vari livelli che si contaminano continuamente. A soli 28 anni vanta già un curriculum mostruoso, che spazia dall’illustrazione editoriale ai murales, dall’incisione alla scenografia, fino ad arrivare alla nomina di assistente in Illustrazione allo Ied. «Confrontarmi con superfici e tecniche sempre diverse mi stimola. Mi costringe a mettermi in discussione e influisce sicuramente sul mio modo di lavorare, perché devo, di volta in volta, ripensare il mio approccio», dice Iacurci. Italia, Francia, Giappone, Corea, Taiwan, Russia, Stati Uniti: le sue opere giganti campeggiano su muri e pareti in tutto il mondo. Con il suo stile fiabesco, ma mai banale, rivitalizza quartieri e aree urbane spesso periferiche e abbandonate a se stesse. Crea figure che sembrano immerse in un’atmosfera surreale, quasi a voler comunicare un messaggio agli abitanti del quartiere. I suoi bizzarri personaggi, appartenenti a un mondo fantastico, prendono posto sulle facciate di palazzi ed edifici, assumendo dimensioni enormi che si rivolgono ironicamente ai passanti. «L’opera è viva e partecipa alla vita di tutti, di quelli che passano, e, forse soprattutto, di quelli che lì ci vivono. E non credo che nessun passante si senta defraudato di qualcosa perché una finestra si apre con i suoi panni stesi nel dipinto».
IL DIALOGO CON IL CONTESTO
È costante la sua ricerca di dialogo con il contesto urbano. «Nei murales io faccio il contrario dell’illustrazione, non lavoro per condensazione, ma per espandere lo sguardo. Per questo i miei lavori non hanno titoli. Anzi, ne hanno migliaia, cioè quanti sono gli spettatori dell’opera. Ogni murale acquista storie e contesti di chi la guarda e, al contrario di un dipinto che è tutto il paesaggio, il mio muro è solo un elemento di un paesaggio urbano molto più ampio, che cambia al cambiare del punto di vista», continua Iacurci.
Nelle sue opere dalle forme sintetiche e dai toni vivi, con un linguaggio essenziale è capace di veicolare molteplici livelli di lettura. L’ironia cinica e intelligente colloca i suoi «racconti» sulla soglia perenne tra innocenza e malizia, serenità e catastrofe, in una tensione tra opposti che è chiave interpretativa dell’intera esistenza. «È vero. Nel mio linguaggio artistico non mi pongo limiti. E cerco di sorprendermi ogni giorno».

il Fatto 31.5.14
Rai Tre
Chi si rivede! Il teatro torna sul piccolo schermo
di Patrizia Simonetti


Il colpo di scena è qualcosa che non ti aspetti, ma che ti emoziona. Come Paolo Poli che racconta “mi pisciai addosso dalla commozione quando gli aeroplani cattivi spararono al povero King Kong e lo buttarono giù dal Building” e la zia lo cambiò, lo portò fuori e gli comprò uno scimmiotto. Come Dario Fo che parla di Franca e della sua “coscienza che il teatro aveva bisogno di semplificazione”, una battaglia che gli ha lasciato “un vuoto da incubo – dice – come uno che cade da un’altezza inimmaginabile e non sa quando arriverà al terreno”. E come Giorgio Albertazzi che regalò ad Anna Proclemer un asinello sardo di nome Birbo perché “lei diceva sempre che gli occhi degli asini gli ricordavano lo sguardo di Gesù”.
SONO TRE degli otto mostri sacri del palcoscenico che assieme a Franca Valeri, Piera Degli Esposti, Valentina Cortese, Gigi Proietti e Carlo Giuffrè raccontano se stessi e il loro teatro in Colpo di scena, da domenica alle 20.20 su Rai3 al posto di Fazio, condotto da Pino Strabioli che ne è anche autore con Assunta Magistro e il regista Fabio Masi. Otto puntate per riportare il teatro in televisione, “un rapporto da ricucire – dice Vianello – un ponte che va riaperto”. Come una storia d’amore partita con passione negli anni sessanta quando quel piccolo schermo in bianco e nero si cibava della prosa dei grandi del teatro che resero poi grandi anche gli sceneggiati, e poi interrotta quando decise di farne a meno ed anche il pubblico si separò. Eppure “il teatro è vivo e non morirà mai, questi signori sono vivi, comunicano emozione e l’hanno passata ai più giovani” dice Strabioli, lui che fu costretto a lasciarla la sua grande passione proprio per la TV “perché con il teatro si viveva poco e anche oggi si campa male ed è faticoso, ma la televisione ha il dovere di raccontarlo”. Non con la rappresentazione, ma con le “chiacchierate”, le immagini del magico archivio delle Teche Rai e con l’incontro di tre generazioni di teatranti: quelli del passato ma che ci sono ancora, quelli del presente come Alessandro Gassman che ricorda papà Vittorio dire che Fo aveva coraggio nella vita e lui solo sul palcoscenico, e quelli del futuro, come gli allievi dell’Accademia Silvio D’Amico che rifanno a modo loro i monologhi di quei maestri. Ma anche gli altri possono provarci mandando il loro video al sito del programma. Che il direttore abbia già in mente un talent sul teatro? “Noi intanto – dice – ci abbiamo messo il cappello”.

Corriere 31.5.14
Grande guerra, il ’14 ci parla dal Vittoriano
Voci, lettere e film
di Paolo Conti


La Prima guerra mondiale torna simbolicamente nel cuore dell’Altare della Patria, quasi accanto alla tomba del Milite ignoto che morì, rimanendo senza nome, durante quel gigantesco conflitto. Apre oggi (dopo l’inaugurazione di ieri alla presenza del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano) la mostra «La prima guerra mondiale 1914-1918, materiali e fonti» allestita nella Gipsoteca del complesso del Vittoriano, sotto l’Alto patronato del presidente della Repubblica. È una rassegna che parla il linguaggio della contemporaneità per consegnare la Memoria della Grande Guerra alle nuove generazioni del terzo millennio, che non potranno ascoltare il racconto di un testimone diretto.
C’è, naturalmente, il vasto comparto dei documenti (molti originali, come la dichiarazione di guerra dell’Italia, il trattato della Triplice Alleanza). Ma a colpire è soprattutto la sezione audiovisiva, i materiali prodotti dalle tante troupe al fronte, le foto scattate con l’evidente coinvolgimento emotivo dell’autore. La sezione delle scritture di guerra, le trascrizioni delle lettere inviate dai soldati alle famiglie (lette e anche interpretate da un gruppo di ragazzi dell’Istituto «Amaldi» di Tor Bella Monaca in una teca che li ripropone ai visitatori come fossero presenti). Il primo docufilm della storia del cinema italiano, «Eroi del mare nostro», con la famosa scena dell’affondamento della corazzata austriaca «Santo Stefano» da parte del Mas di Luigi Rizzo nelle acque di Premuda il 10 giugno 1918. Di forte impatto il comparto della propaganda, dalla censura sulle foto destinate alla stampa ai cartelloni che riempivano i muri delle città per sostenere l’Italia in guerra. Infine, una sezione dedicata all’arte (due folgoranti Balla provenienti da una collezione privata milanese) e le prime edizioni, ad esempio, de Il mio Carso di Scipio Slataper e Allegria di naufragi di Giuseppe Ungaretti. Attualissimi e moderni oggi, un secolo dopo.