sabato 17 settembre 2016

Repubblica 17.9.16
Quel patto segreto tra fede e dubbio che ci rende umani
In apparenza sono due concetti antitetici come ci ha insegnato certa dottrina. Ma in realtà la prima può nascere solo dal secondo
Anche perché entrambi ci portano dal terreno della pura ragione al coraggio di scegliere
di Vito Mancuso

Questo è il testo della lectio che l’autore terrà domani a Brescia, alle ore 18, all’Università Cattolica, nell’ambito degli incontri “ Aspettando il Concerto” del festival LeXGiornate, in corso fino al 24 settembre

Comunemente si ritiene che fede e dubbio siano opposti, nel senso che chi ha fede non avrebbe dubbi e chi ha dubbi non avrebbe fede. Ma non è per nulla così. L’opposto del dubbio non è la fede, è il sapere: chi infatti sa con certezza come stanno le cose non ha dubbi, e neppure, ovviamente, ha bisogno di avere fede. Così per esempio affermava Carl Gustav Jung a proposito dell’oggetto per eccellenza su cui si ha o no fede: «Io non credo all’esistenza di Dio per fede: io so che Dio esiste» (da “Jung parla”, Adel–
phi, 1995). Chi invece non è giunto a un tale sapere dubita su come stiano effettivamente le cose, non solo su Dio ma anche sulle altre questioni decisive: avrà un senso questa vita, e se sì quale? La natura persegue un effettivo incremento della sua organizzazione? Quando diciamo “anima” nominiamo un fenomeno reale o solo un arcaico concetto metafisico? Il bene, la giustizia, la bellezza, esistono come qualcosa di oggettivo o sono solo provvisorie convenzioni? E dopo la morte, il viaggio continua o finisce per sempre?
Dato che i più su tali questioni non hanno un sapere certo, generalmente si risponde “sì” all’insegna della fede oppure “no” all’insegna dello scetticismo, in entrambi i casi privi di sapere, al massimo con qualche indizio interpretato in un modo o nell’altro a seconda del previo orientamento assunto. Così, sia coloro che hanno fede in Dio sia coloro che non ce l’hanno, fondano il loro pensiero sul dubbio, cioè sull’impossibilità di conseguire un sapere incontrovertibile sul senso ultimo del mondo e della nostra esistenza. La fede, in altri termini, positiva o negativa che sia, per esistere ha bisogno del dubbio.
La tradizionale dottrina cattolica però non la pensa così. Per essa la fede non si fonda sul dubbio ma sul sapere che scaturisce da una precisa rivelazione divina mediante cui Dio ha comunicato se stesso e una serie di ulteriori verità dette “articoli di fede”. Tale rivelazione costituisce il depositum fidei, cioè il patrimonio dottrinale custodito e trasmesso dalla Chiesa. Esso conferisce un sapere denominato dottrina che illumina quanti lo ricevono su origine, identità, destino e morale da seguire. Non solo; a partire da tale dottrina si configura anche una precisa visione del mondo: l’impresa speculativa delle Summae theologiae medievali, di cui la più nota è quella di Tommaso d’Aquino, vive di questa ambizione di possedere un sapere certo su fisica, metafisica ed etica, di essere quindi generatrice di filosofia.
Tale impostazione regnò per tutto il medioevo ma venne combattuta dalla filosofia moderna e dalla rivoluzione scientifica. Il fine non era negare la fede in Dio bensì il sapere filosofico e scientifico che si riteneva discendesse da essa, per collocare la fede su un fondamento diverso, senza più la presunzione che fosse oggettivo: Kant per esempio scrive di aver dovuto «sospendere il sapere per far posto alla fede» ( Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, 1787), mentre più di un secolo e mezzo prima Galileo aveva dichiarato che «l’intenzione dello Spirito Santo è d’insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo» (Lettera a Cristina di Lorena del 1615). Non furono per nulla atei i più grandi protagonisti della modernità, tra cui filosofi come Bruno, Cartesio, Spinoza, Lessing, Voltaire, Rousseau, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, o scienziati come Copernico, Galileo, Keplero, Newton. Il loro obiettivo era piuttosto di ricollocare la religiosità sul suo autentico fondamento: non più un presunto sapere oggettivo, ma la soggettiva esperienza spirituale.
A tale modello di fede non interessa il sapere, e quindi il potere che ne discende, ma piuttosto il sentire, e quindi l’esperienza personale. Non è più l’obbedienza a una dottrina dogmatica indiscutibile a rappresentare la sorgente della fede, ma è il sentimento di simpatia verso la vita e i viventi. In questa prospettiva, ben prima di creden- za, fede significa fiducia. Quando diciamo che una persona è “degna di fede”, cosa vogliamo dire? Quando alla fine delle nostre lettere scriviamo “in fede”, cosa vogliamo dire? Quando un uomo mette l’anello nuziale alla sua donna e quando una donna fa lo stesso con il suo uomo, cosa vogliono dirsi? C’è una dimensione di fiducia che è costitutiva delle relazioni umane e che sola spiega quei veri e propri patti d’onore che sono l’amicizia e l’amore. Se non ci fosse, sorgerebbero solo rapporti interessati e calcolati: nulla di male, anzi tutto normale, ma anche tutto ordinario e prevedibile. Solo se c’è fiducia-fede nell’altra persona può sorgere una relazione all’insegna della gratuità, creatività, straordinarietà, e può innescarsi quella condizione che chiamiamo umanità.
E la fede in Dio? Quando si ha fiducia-affidamento nella vita nel suo insieme, percepita come dotata di senso e di scopo, si compie il senso della fede in Dio (a prescindere da come poi le singole tradizioni religiose concepiscano il divino). Nessuno veramente sa cosa nomina quando dice Dio, ma credere nell’esistenza di una realtà più originaria, da cui il mondo proviene e verso cui va, significa sentire che la vita ha una direzione, un senso di marcia, un traguardo. Credere in Dio significa quindi dire sì alla vita e alla sua ragionevolezza: significa credere che la vita proviene dal bene e procede verso il bene, e che per questo agire bene è la modalità migliore di vivere.
Ma questa convinzione è razionalmente fondabile? No. Basta considerare la vita in tutti i suoi aspetti per scorgere di frequente l’ombra della negazione, con la conseguenza che la mente è inevitabilmente consegnata al dubbio. In tutte le lingue di origine latina, come anche in greco e in tedesco, il termine dubbio ha come radice “due”. Dubbio quindi è essere al bivio, altro termine che rimanda al due: è vedere due sentieri senza sapere quale scegliere, consapevoli però che non ci si può fermare né tornare indietro, ma che si è posti di fronte al dilemma della scelta.
Ha affermato il cardinale Carlo Maria Martini: «Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’un l’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa» (dal discorso introduttivo alla Cattedra dei non credenti). Ragionando si trovano elementi a favore della tesi e dell’antitesi, e chi non è ideologicamente determinato è inevitabilmente consegnato alla logica del due che genera il dubbio. Il dubbio però paralizza, mentre nella vita occorre procedere e agire responsabilmente. Da qui la necessità di superare il dubbio. Il superamento però non può avvenire in base alla ragione che è all’origine del dubbio, ma in base a qualcosa di più radicale e di più vitale della ragione, cioè il sentimento che genera la fiducia che si esplicita come coraggio di esistere e di scegliere il bene e la giustizia. Ma perché alcuni avvertano in sé questo sentimento di fiducia verso la vita e altri no, rimane per me un mistero inesplicabile.
Repubblica 17.9.16
Il mondo di un bambino salvato dalle parole
Esce il nuovo libro di Andrea Bajani un romanzo di formazione che racconta la scoperta del dolore
di Massimo Recalcati

In questo ultimo libro di Andrea Bajani si racconta la storia di un bambino che diventa uomo e scrittore (la sua? non si narra sempre la propria storia? ogni scrittura non è, a suo modo, sempre autobiografica?). Al centro due grandi temi ricorrenti nel lavoro letterario di Bajani: quello del dolore e quello delle parole. Da dove viene il dolore? Come si può vivere senza farsene divorare? A cosa servono le parole? Cosa significa scrivere? “Un bene al mondo” (Einaudi) è un racconto di formazione. E come ogni racconto di formazione è il racconto di un viaggio: un bambino lascia il proprio paese per la città, lascia il suo essere bambino per diventare un uomo, ovvero per diventare scrittore. La sua atmosfera è quella magica della fiaba. Il dolore non accade nel corpo o nell’anima ma viene descritto come una presenza esterna che accompagna assiduamente la nostra vita. Viene rappresentato come un essere vivente, un animale (un cane?) che vive seguendo come un’ombra le vite umane. Ringhia, spalanca paurosamente la bocca, mostra i denti, morde, oppure trema, si nasconde e si lascia carezzare teneramente. Si può chiuderlo a chiave in un luogo inaccessibile, segregarlo, escluderlo dalla nostra vita – come cerca di fare il padre del bambino – ma questo non attenuerà la sua rabbia. Si possono preferire – come accade per un certo tempo al bambino – i morti ai vivi perché i morti sono senza più alcun dolore. Ma da dove viene il dolore? Il primo è quello che si eredita dall’Altro. Nel caso del bambino è quello che la madre gli infila dentro la sua culla metallica appena nato. Ecco, tieni tu il mio dolore! L’eredità materna – come accede anche in un altro formidabile romanzo di Bajani titolato Se consideri le colpe – può essere fatta di vuoto e di dolore. Là era narrata la storia di una madre che non aveva mai trovato un posto, né nella sua famiglia di origine che la riteneva una “pecora nera”, né in suo marito o nel suo amante che alla fine della sua vita la scaricherà per una donna più giovane. Anche qui come in Se consideri le colpe il dolore inquieto della madre allaga la vita del bambino. Negli occhi della madre “non c’era nessuno”, solo un grande vuoto. Come non affogarvi dentro, come non perdersi nel suo mare nero? La vita umana è circondata dal dolore. Per il bambino protagonista del racconto il dolore del padre era ancora più grosso e rabbioso di quello della madre. Come non farsi schiacciare dal dolore della vita degli altri? Non c’è incubo peggiore di accorgersi di essere prigionieri del dolore di un altro.
Le parole sono, insieme al dolore, l’altro grande protagonista di questo libro come di tutti i libri di Bajani. Esse sono innanzitutto un modo di trattare il dolore di esistere. Le parole appaiono là dove il mistero del dolore si fa più fitto e impenetrabile. Dove la cartografia antica non era più in grado di disegnare i confini del mondo. Il bambino conosce un modo per trattare il dolore: è quello di metterlo “dentro le lettere” che egli scrive ad una “bambina sottile” che abita nel suo piccolo paese e nel suo cuore. Nell’ultimo raccolta di brevi racconti intitolata
La vita non è in ordine alfabetico emergeva con forza il carattere magico delle parole. Le lettere dell’alfabeto contenute nello scrigno che il maestro mostrava ai bambini nel loro primo giorno di scuola, l’importanza vitale del miracolo della lingua: le parole non sono il contrario della vita, la loro rappresentazione indebolita, disincarnata, non sono solo un rifugio, ma una possibilità per la vita. Le parole non sono cose morte ma hanno una vita: colpiscono, feriscono, uccidono, ma sanno anche fare volare, desiderare, amare, aprire mondi nuovi. Le parole hanno un rapporto speciale col dolore: possono provocarlo ma possono anche essere il loro rimedio. Non è forse questo il tema stesso della scrittura? La letteratura non suppone forse che la parola possa essere causa di vita e di morte? Ecco perché per Bajani scrivere non è mai un divertissement, non è mai un edonismo privo di responsabilità; assomiglia piuttosto ad un’esigenza del corpo, ad una necessità primaria come mangiare, correre o respirare. Senza dolore la vita non è umana – è la vita di Dio o quella di un giglio –; ma consegnata al dolore senza alcuna distanza la vita si prosciuga e si annienta. Diventa solo una “merda”, come lascia scritto il padre morto suicida della bambina sottile. Si tratta di mettere invece il dolore nelle parole. In questo modo il dolore non è il male ma finisce per assomigliare agli angeli di Wenders ne Il cielo sopra Berlino: custodi premurosi di una vita. Le frasi possono diventare case-rifugio ma anche città aperte. Le lettere possono essere come l’acqua per i fiori, scrisse la bambina al bambino diventato uomo. È il miracolo dell’amore: dare forma alla vita come le «formine che i bambini usano in spiaggia» sanno trasformare «la sabbia, per farla diventare castello, casa, automobile, fiore, farfalla». Questo miracolo, il miracolo dell’amore, non è lo stesso che si compie anche nella scrittura? Le parole, come l’amore, non sono come “maniglie” che aprono un’infinità di porte? Il bambino è diventato un uomo e l’uomo è diventato uno scrittore. Questi non porta più con sé il dolore come una bestia che aggredisce e del quale deve chiedere scusa. Innanzitutto non lo porta più sempre con sé. «Per questo tutti i giorni quest’uomo si siede al tavolo, accanto alla finestra, apre un quaderno, apre una pagina nuova, e ce lo fa correre dentro».
IL LIBRO Un bene al mondo di Andrea Bajani ( Einaudi pagg. 134 euro 16,50)
il manifesto 17.9.16
Morte della politica
Il sentiero stretto della sinistra europea
Con Stiglitz e Fassina, per restare nell’Unione, superando in modo condiviso e parziale la moneta unica
La democrazia chiede ancora la battaglia politica nazionale
di Giorgio Galli

È vero che alla crisi del neoliberismo e della Ue la cultura politica non sta rispondendo adeguatamente: nulla a che vedere con quanto avvenne in occasione della crisi del paleoliberalismo del 1929, che determinò un salto di fase a destra (le teorizzazioni degli Stati a partito unico, i corporativismi) e a sinistra (l’elaborazione della teoria critica francofortese e parte della stessa riflessione di Gramsci).
Per schematizzare, si può dire che la cultura mainstream ha posizioni conservatrici (all’insegna del “non c’è alternativa” all’euro e alle sue regole) oppure progressiste: secondo queste, si deve andare verso gli Stati uniti d’Europa, iniziando col democratizzare la Ue con vari strumenti, anche economici – eurobond, politica fiscale unica –, e si deve far rientrare anche la Germania nei parametri dell’euro, oltre che tentare di far comprendere alla socialdemocrazia tedesca che c’è una contraddizione fra euro e democrazia sociale.
Ma mentre questa opzione è più che improbabile, la prevalente linea dura verrà prima o poi sconfitta dalle sue contraddizioni interne: ovvero, l’euro finirà di distruggere le società meridionali (il momento felice della Spagna non può essere che una parentesi), che andranno incontro a una polarizzazione tra forze del sistema e forza antisistema.
L’altra fonte di contraddizioni strategiche della Ue, la crisi nel Mediterraneo – in Nord Africa e in Siria –, non è passibile, a sua volta, di soluzione, e vede l’Europa assente in quanto tale, e qualche singolo Stato solo marginalmente coinvolto: anche per questa via dentro i singoli Stati si crea, sul tema dei migranti, della loro accoglienza o del loro respingimento, un’alternativa politica tra forze del sistema e forze antisistema.
Il punto è che le forze antisistema si coagulano intorno a questioni identitarie (nazionalistiche) o populistiche (la lotta anti-casta), e che la sinistra, in questa situazione, non sta trovando un ubi consistam, una chiave coerente di lettura e d’azione.
Dal dibattito in corso sul manifesto (vedi sotto, ndr) sembrano emergere due linee: la prima (di Fassina) favorevole a mettere in discussione l’unità dell’euro e al recupero di uno spazio d’azione a livello statale; la seconda (Varoufakis) indica invece come terreno di lotta l’intera Ue, e come strategia il rilancio del conflitto per la democrazia su tutte le scale, dal livello locale a quello statale – non privilegiato –, fino al livello continentale e a quello mondiale, iniziando col “disobbedire” alle regole economiche della moneta unica, senza uscirne.
Al di là della sovrapposizione fra euro e Ue – si può pensare, con Stiglitz e Fassina, di articolare l’unità del primo senza uscire dalla seconda – è abbastanza chiaro che la seconda linea è debole perché espone alle rappresaglia del potere economico europeo (il caso della Grecia lo dimostra); inoltre, è affetta da indeterminatezza perché non individua i soggetti della lotta – la questione del demos –.
Non c’è nulla di nazionalistico o di sovranista nel notare che se è vero che il soggetto del conflitto si costruisce nel conflitto stesso – è, questa, una tesi fondamentale del pensiero dialettico –, è anche vero che la prima casamatta da conquistare, quella in cui c’è ancora la più consistente riserva di potere e di legittimità, e che può divenire soggetto di politica su più vasta scala, è senz’altro lo Stato.
La politica su scala continentale ha inizio là dove la politica si condensa significativamente, nello Stato. La sinistra non può aggirare il tema della statualità consolandosi con la narrazione del predominio logico, politico ed economico della globalizzazione – che in realtà, come ha mostrato Saskia Sassen, conserva gli Stati, limitandosi a dare loro compiti neoliberisti, mentre toglie loro la pretesa di autosufficienza nazionale –.
Se non passa attraverso la scala statale, la lotta sarà sterile ribellione, frustrante spreco di energie; e non avrà alcuna speranza di giungere a livello continentale o perfino di aspirare a un nuovo assetto delle relazioni internazionali.
Ci si deve servire dello Stato per una politica democratica: la costruzione di un’Europa diversa non può fare a meno di questa leva di potere, che del resto già stanno utilizzando la destra liberista e la destra reazionaria. Dovrà forse la sinistra disinteressarsene? Dovrà forse non vedere che è a livello degli Stati che si sta coagulando la grande dicotomia fra accoglienza e respingimento, che dà il tono alla politica di oggi? Recuperare un rapporto con la società, ripoliticizzare la società in modo critico – che sono gli obiettivi della sinistra – può anche significare pensare a una politica di accoglienza europea, a una politica di pace europea, e al contempo a una politica di superamento parziale e condiviso della moneta unica, nell’ambito della Ue.
Lo spirito del tempo non soffia a favore della sinistra, certo. Ma si può anche navigare controvento. Basta saperlo fare, e volerlo fare; e avere una direzione, una meta, e una realistica tappa intermedia.
il manifesto 17.9.16
Islam, uno scisma proiettato sul presente
Saggi. «L’Islam degli sciiti» di Mohammad Ali Amir-Moezzi per le edizioni Dehoniane
di Ernesto Milanesi

Un agile compendio dedicato ai 200 milioni di devoti sparsi dall’Iran all’Azerbaigian, dal Libano fino al Bangladesh. E soprattutto l’indispensabile vademecum per comprendere una fede assolutamente alternativa all’eresia Daesh.
Mohammad Ali Amir-Moezzi, professore di Esegesi e teologia dell’islam sciita all’Éecole pratique des Hautes Études alla Sorbona, racconta la storia dell’altro islam insieme all’identità di una minoranza spesso perseguitata. L’islam degli sciiti. Dalla saggezza mistica alla tentazione politica (Edizioni Dehoniane, pp. 88, euro 8) tradotto da Giovanni Cerro schiude una prospettiva «ecumenica» a partire dall’assunto: «Lo sciismo è una imamologia esattamente come il cristianesmo è una cristologia».
Lo «scisma» risale al 632, quando Abû Bakr e ‘Umar scipparono ad Alî la naturale guida della comunità alla morte di Maometto. E già qui scatta la radicale alternativa al Califfato che culminerà nel massacro di Karbala nel 680, quando all’iniziale «complotto» dinastico si aggiunge il «tradimento» nei confronti dell’eredità del profeta di Allah.
Così il «partito» si fa stato di fede fino a coltivarne l’occultamento con il dodicesimo imam. Spiega Mohammad Ali Amir Moezzi: «Imam è una parola che, nel mondo sciita, non rappresenta semplicemente gli esperti della religione, bensì guide spirituali veneratissime. La specificità di questa corrente sta proprio nella profonda devozione agli imam, che dà forma alla teologia – lo sciismo è la religione della guida spirituale – così come alle espressioni di fede popolare. Con tutte le forme di venerazione a Muhammad, Fatima e Ali, ai loro figli Hasan e Husayn e a tutti i discendenti».
Con la rivoluzione del 1979, gli sciiti sono diventati sinonimo di seguaci di Khomeyni nella Repubblica degli ayatollah che hanno sancito la religione di stato in Iran.
Tuttavia, questo islam si rivela ben più complesso e ricco delle semplificazioni geo-politiche anche di stretta attualità. È una visione duale del mondo, della fede, della teofania: «Tutte le realtà, dalle più sacre alle più banali, possiedono almeno due livelli: uno apparente (zâhir) e un livello segreto, non manifesto (bâtin) che a sua volta può contenere altri livelli ancora più segreti (bâtin al bâtin). Il livello nascosto, esoterico di Dio, è il livello dell’inconoscibile, dell’assoluto nascondimento divino».
Per gli sciiti il Corano è libro silenzioso, guida muta perché spetta all’imam il ruolo di «Corano parlante». Tant’è che ai «musulmani smarriti» fa da contraltare la disciplina dell’arcano. «Iniziazione e lotta: tutto il destino storico dello sciismo può essere considerato come una tensione tra queste due costanti, poiché esso ritiene che la prima determini la spiritualità dell’umanità e la seconda la sua storia. Il fedele sciita è costantemente chiamato a tenersi in equilibrio al punto di intersezione di questi due assi» conclude Mohammad Ali Amir Moezzi.
Islam, dunque, con una secolare storia parallela. Dottrina «ermeneutica» e insieme fede diversa. È la gente della walâya: «Il termine significa sia prossimità, amicizia, amore e alleanza, sia potere, autorità o anche carisma e santità. Nella sua accezione tecnica sciita il termine possiede due significati principali: l’uno legato al fedele credente, l’altro alla figura dell’imam».
Allora se a Teheran l’islam sciita è approdato all’ideologia della guida suprema anche in termini politici, resta il fatto che la «saggezza mistica» di questa fede non si lascia liquidare tanto facilmente né confondere con le banali categorie del dopo 11 settembre. Forse, occorre misurarsi laicamente con un mondo tutt’altro che estraneo alle nostre stesse radici. A maggior ragione, in tempi di «guerra di religione».
Tanto più che Mohammad Ali Amir Moezzi ci aveva ammonito per tempo: «L’islam politico e radicale era praticamente inesistente, qualche decennio fa. È divenuto il mostro potente e onnipresente che sappiamo soprattutto dopo l’invasione dell’Afghanistan e della Cecenia e quella americana dell’Iraq, con le atrocità commesse da questi invasori sulle popolazioni locali».
il manifesto 17.9.16
Festival Filosofia
Neuroni mirror e facoltà di negare
Il potere tellurico del linguaggio non smette di interrogare l’intersoggettività
L’anticipazione del contributo che il filosofo discuterà a Carpi (Piazza Martiri, ore 16.30) domani, ultima giornata del fitto programma di ospiti dell’edizione 2016. «In una gocciolina di grammatica, diceva Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia»
un’installazione di Jaume Plensa al Yorkshire Sculpture Park
di Paolo Virno

L’indagine sulla negazione linguistica è, sempre, una indagine antropologica. Spiegare le prerogative e gli usi del segno «non» significa spiegare alcuni tratti distintivi della nostra specie: la capacità di distaccarsi dagli avvenimenti circostanti e dalle pulsioni psichiche, l’ambivalenza degli affetti, l’attitudine a trasformare repentinamente le condotte più abituali.
In una gocciolina di grammatica, diceva Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia. Ciò vale in primo luogo per quella nuvola cumuliforme che è la grammatica del «non»: da essa è possibile ricavare qualche notizia sul modo di stare al mondo del primate Homo sapiens, nonché una chiave per decifrare l’insieme di sentimenti e comportamenti che ci fanno parlare, a seconda delle inclinazioni, di disagio della civiltà o di attualità della rivoluzione.
Per dare il giusto risalto al ruolo che svolge il connettivo logico «non» nella forma di vita umana, propongo tre ipotesi concatenate sull’indole sociale, anzi pubblica, della nostra mente. A essere più precisi: tre ipotesi il cui tema è la singolare discontinuità tra il fondamento biologico di questa socialità e i suoi tortuosi sviluppi linguistici, segnati per l’appunto dal potere tellurico della negazione.
In origine era il «noi»
Prima ipotesi. L’animale umano intuisce i propositi e le emozioni dei suoi simili in virtù di una intersoggettività originaria, che precede la stessa costituzione dei soggetti individuali. Il «noi» si fa valere prima ancora che venga alla ribalta un «io» autocosciente. La relazione tra i membri della stessa specie è, innanzitutto, una relazione impersonale. Sull’esistenza di un ambito di esperienza pre-individuale hanno insistito pensatori come Vygotskij, Winnicott, Simondon.
Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio, ha riformulato la questione in modo particolarmente incisivo, incardinando l’anteriorità del «noi» rispetto all’«io» al funzionamento di un’area del cervello. Per sapere che qualcuno soffre o gode, cerca riparo o rogne, sta per aggredirci o baciarci, non abbiamo bisogno di proposizioni, né tanto meno di una barocca attribuzione di intenzioni alla mente altrui. Basta e avanza l’attivazione di un gruppo di neuroni situati nella parte ventrale del lobo frontale inferiore.
Scrive Gallese: «Il nostro gruppo ha scoperto nel cervello di scimmia l’esistenza di una popolazione di neuroni premotori che si attivavano non solo quando la scimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano (per esempio afferrare un oggetto), ma anche quando osservava le stesse azioni eseguite da un altro individuo (uomo o scimmia che fosse). Abbiamo denominato questi neuroni “neuroni mirror”». Di lì a poco, si è constatata la presenza di neuroni mirror anche nel cervello umano.
Allorché vediamo un manifestante sotto la sede della Goldman Sachs che compie una azione di cui parleranno i giornali, «nel nostro cervello sono reclutati a scaricare i medesimi neuroni che scaricherebbero se fossimo noi stessi, in prima persona, a compiere quell’azione». Comprendo il pianto dell’uomo che mi sta di fronte perché le mie stesse ghiandole lacrimali cominciano a innervarsi. Questo sentire all’unisono, o con-sentire, è chiamato da Gallese «simulazione incarnata».
I neuroni mirror sono il fondamento biologico della socialità della mente. A essi si deve la formazione di uno «spazio noi-centrico». Con una avvertenza: il pronome «noi» non indica, qui, una pluralità di «io» ben definiti, ma designa un insieme di relazioni pre-individuali, ossia «una forma paradossale di intersoggettività priva di soggetto».
Questo «non» è un uomo
Seconda ipotesi. Di questa intersoggettività preliminare, appannaggio di tutte le scimmie antropomorfe, il linguaggio non è affatto una potente cassa di risonanza. Anziché ornarlo di mille raffinatezze, le nostre enunciazioni retroagiscono distruttivamente sullo «spazio noi-centrico» istituito dai neuroni mirror. La padronanza della sintassi intralcia, e talvolta sospende, l’empatia neurofisiologica. La socialità della mente umana è modellata dall’intreccio, certo, ma anche dalla tensione duratura e dalla periodica divaricazione, tra «simulazione incarnata» e pensiero verbale.
Il linguaggio si distingue dai codici comunicativi basati su indizi e segnali, nonché dalle prestazioni cognitive taciturne (sensazioni, immagini psichiche ecc.), perché è in grado di negare qualsivoglia rappresentazione.
Anche l’evidenza percettiva che ci fa dire «questo è un uomo» dinanzi a un immigrato cessa di essere incontrovertibile allorché è soggetta all’opera del «non». Nel linguaggio mette radici il fallimento del reciproco riconoscimento tra conspecifici. Grammaticalmente impeccabile, dotato di senso, a portata di ogni bocca è l’enunciato «questo non è un uomo». Soltanto l’animale che parla ha la capacità di non riconoscere il suo simile.
Il vecchio ebreo è roso dalla fame e piange per l’umiliazione. L’ufficiale nazista sa che cosa prova il vecchio per mezzo della «simulazione incarnata». Ma è in grado di disattivare, almeno parzialmente, l’empatia generata dai neuroni mirror.
Per capire come avviene questa disattivazione, consideriamo un tipico requisito della paroletta «non». Il tratto caratteristico degli enunciati negativi («Ada non mi ama», «Giorgio non è andato a Roma») consiste nel riproporre con segno algebrico rovesciato il medesimo contenuto semantico del corrispondente enunciato affermativo. L’amore di Ada e il viaggio a Roma di Giorgio sono pur sempre nominati, e così conservati come significati, nel momento stesso in cui vengono verbalmente soppressi. Supponiamo che l’ufficiale nazista pensi: «le lacrime di questo vecchio ebreo non sono umane».
La sua proposizione conserva e sopprime a un tempo l’empatia neurofisiologica: la conserva, giacché si parla comunque delle lacrime di un Homo sapiens, non di un umidore qualsiasi; la sopprime, togliendo alle lacrime dell’ebreo quel carattere umano che, pure, era implicito nella loro designazione.
Soltanto grazie a questa attitudine ad abrogare ciò che nondimeno si ammette, il segno «non» può ledere un dispositivo biologico «sub-personale» qual è il con-sentire. La negazione non impedisce certo l’attivazione dei neuroni mirror, ma ne rende ambiguo il senso e reversibili gli effetti. Il pensiero verbale, dimostrando una notevole perizia nel mandare in rovina l’empatia neurale, costituisce la condizione di possibilità di ciò che Kant ha chiamato il «male radicale».
La sfera pubblica? Una cicatrice
Terza ipotesi. Il linguaggio non manca di procurare un antidoto al veleno che ha inoculato nell’innata socialità della mente. Oltre a sabotare in tutto o in parte l’empatia prodotta dai neuroni specchio, esso offre anche un rimedio (anzi, l’unico rimedio adeguato) ai danni così arrecati. Il sabotaggio iniziale può essere a sua volta sabotato.
La sfera pubblica, nicchia ecologica delle nostre azioni, è il risultato instabile di una lacerazione e di una sutura, della prima non meno che della seconda. Somiglia dunque a una cicatrice. Detto altrimenti: la sfera pubblica trae origine dalla negazione di una negazione. Se a qualche lettore ripugna il sapore dialettico di questa espressione, ne sono desolato, ma non so che farci. A scanso di equivoci, conviene aggiungere che la negazione della negazione non ripristina la primitiva sintonia pre-linguistica. Sempre di nuovo eluso o neutralizzato, il rischio del non-riconoscimento è però iscritto irreversibilmente nell’interazione sociale.
Lo «spazio noi-centrico» e la sfera pubblica sono i due modi, affini e però incommensurabili, in cui si manifesta la socialità della mente prima e dopo l’esperienza della negazione linguistica. Prima di questa esperienza, l’infallibile e impersonale con-sentire neurale; dopo, conflitti senza quartiere, patti, promesse, norme, istituzioni mai stabili, progetti collettivi dagli esiti imponderabili.
Neuroni mirror, negazione linguistica, intermittenza del reciproco riconoscimento: sono questi i fattori, coesistenti e però anche dissonanti, che definiscono la mente sociale della nostra specie. La loro dialettica destituisce di fondamento ogni teoria politica (per esempio, quella di Noam Chomsky) che opponga la naturale «creatività del linguaggio» all’iniquità e alla brama di sopraffazione degli apparati di potere storicamente determinati.
La fragilità dello «spazio noi-centrico», da imputare giustappunto alle perturbazioni che il linguaggio e la sua «creatività» portano con sé, deve costituire lo sfondo realistico di ogni movimento politico che miri a una drastica trasformazione dello stato di cose presente. Un grande e terribile filosofo della politica, Carl Schmitt, ha scritto con evidente sarcasmo: «Il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana».
È venuto il tempo di smentire questa equazione maliziosa. Una analisi accurata della mente sociale permette di impiantare «il radicalismo ostile allo Stato» e ai rapporti di produzione capitalistici sulla pericolosità della natura umana (pericolosità alimentata dall’uso polivalente del «non»), anziché sulla sua immaginaria mitezza.
L’azione politica anticapitalistica e antistatale non ha alcun presupposto positivo da rivendicare. Si impegna invece a sperimentare nuovi e più efficaci modi di negare la negazione, di apporre il «non» davanti a «non uomo».
Repubblica 17.9.16
Un padre laico
di Eugenio Scalfari

NON posso nascondere che nel momento in cui prendo in mano la penna per ricordare Carlo Azeglio Ciampi sono molto commosso: siamo stati amici per cinquantaquattro anni, amici intimi e fraterni quale che fosse il suo ruolo: capo dell’Ufficio studi della Banca d’Italia e poi, dopo una rapida carriera, governatore.
E poi primo ministro di un governo tecnico che durò un anno, poi ministro del Tesoro con Prodi e con D’Alema, poi presidente della Repubblica e poi senatore a vita, oltre ad essere il padre degli italiani.
In tutta questa lunga vita, terminata poche ore fa, ha perseguito tutti i suoi affetti privati con sua moglie Franca, i suoi figli e una schiera di nipoti e pronipoti. Aveva una componente paternale molto intensa nel suo carattere, che lo ha distinto da tutti gli altri.
Padre degli italiani non per ragioni politiche ma caratteriali e sentimentali. Se debbo esaminare tra i presidenti della Repubblica che l’hanno preceduto e seguito non trovo alcuno con questa caratteristica. Forse Sandro Pertini, ma la sua paternità era molto diversa da quella di Ciampi: Pertini era un padre di combattimento, Ciampi un padre di pace, profondamente laico nei suoi ruoli pubblici ma profondamente cattolico nella sfera privata.
In politica non fece mai il tifo per questa o quella parte poiché la dominante sempre presente in tutti i suoi ruoli pubblici fu sempre l’interesse generale e quello per i poveri, i deboli, gli esclusi. Non a caso da giovane si iscrisse alla Cgil. Nacque a Livorno, dove sarà sepolto lunedì prossimo. Lì visse e studiò fino a circa trent’anni. Prese due lauree, una in Lettere l’altra in Giurisprudenza ed anche quella doppia scelta non fu casuale: amava la cultura e la legalità ed entrambe hanno alimentato la sua vita.
Il nostro rapporto di amicizia nacque dall’incontro che avvenne nel 1962 nello studio di Guido Carli. Conoscevo Guido da molti anni ma quella conoscenza diventò amicizia fraterna un paio di anni dopo la sua nomina a Governatore della Banca d’Italia nel 1960.
Qualcuno dirà che non gli è mai capitato di incontrare due uomini così diversi tra loro: tanto Ciampi era dolce nei sentimenti, tanto Carli era imperativo; tanto l’uno era paterno nella sua dolcezza, tanto l’altro era maschile e affascinante nella sua imperatività. Ma ciò che li legava entrambi da una profonda stima reciproca era il senso dell’interesse generale e della legalità e lo si vide paragonando le loro relazioni annuali da governatori: Carli denunciava quelle che lui chiamava “le arciconfraternite del potere”, Ciampi non amava denunciare ma esponeva quello che a suo giudizio era non solo il bene comune ma la necessità di tener sempre presente i bisogni dei ceti più poveri e più deboli. Carli promosse con la sua politica il cosiddetto “miracolo italiano” che portò al massimo gli investimenti, la produttività e l’occupazione; Ciampi fu l’autore dell’ingresso dell’Italia nella moneta comune.
Dopo il suo anno da presidente del Consiglio accettò la carica di ministro del Tesoro nel governo Prodi. La moneta comune europea, dopo ampi studi dei governi interessati, aveva come fautore principale la Germania. Prodi era anche lui favorevole ma preferiva aspettare e verificare che quel nuovo strumento funzionasse. Nell’autunno del 1996 partirono per un incontro a Madrid con il governo spagnolo e il principale argomento che esaminarono fu appunto la moneta comune europea. La Spagna si dichiarò favorevole rinviando però la sua adesione di qualche anno.
Nel viaggio di ritorno a Roma Ciampi mise tutta la sua logica economica e politica sostenendo che un Paese fondatore della Comunità europea doveva essere tra i fondatori della moneta comune. Prodi si convinse e incaricò lui di incontrare il Cancelliere tedesco e comunicargli la nostra adesione immediata e così avvenne. L’incontro con Helmut Kohl non fu soltanto una comunicazione di adesione dell’Italia a quello che sarebbe stato chiamato l’euro, ma anche un confronto sulla politica monetaria ed economica della quale l’euro sarebbe stato lo strumento per promuovere la crescita, l’occupazione ed anche il rafforzamento dell’Europa verso una struttura di graduale unità politica oltreché economica. Questo fu uno dei tanti risultati di Ciampi che va ascritto a principale merito dell’opera sua.
***
Consentitemi ora di raccontare come nacque la nostra amicizia. Era, come ho già detto, il 1962 ed io stavo discutendo con Carli sulla situazione economica del nostro Paese, sui malanni della nostra economia e del nostro capitalismo “arciconfraternita del potere”. L’economia italiana era allora dominata da alcune grandi aziende pubbliche, tra le quali l’Eni e l’Italsider, ed altre private: la Fiat, la Edison di Valerio, la Montecatini di Faina, la Pirelli, l’Olivetti, la Sade. Più o meno i poteri erano questi, molti dei quali aderivano ad una sorta di salotto buono che era la Società Bastogi.
Carli aveva invitato a partecipare a questa nostra conversazione (che avveniva almeno una volta al mese) il capo dell’Ufficio studi che era appunto Ciampi che io incontrai in quell’occasione.
Lo studio di Carli era una piccola stanza con appeso alla parete dietro la scrivania del Governatore un quadro che rappresentava il corpo nudo di San Sebastiano trafitto dalle frecce d’un gruppo di torturatori. Lo ricordo perché era diventato simbolico e quindi celebre.
La discussione tra noi tre fu lunga e Ciampi fu molto concreto nel suggerire i modi d’una politica espansiva e antimonopolistica. Alla fine Guido mi disse: «Forse è bene che tu venga più spesso qui da noi e se io fossi occupato potresti andare nell’ufficio di Ciampi ed esaminare con lui le questioni che ti stanno a cuore». Ciampi si dimostrò contento e mi propose d’andare subito nel suo ufficio così avrei visto qual era la strada per arrivarci. Io ero ormai di casa alla Banca d’Italia e i commessi mi lasciavano piena libertà di movimento.
Così cominciò il nostro rapporto con incontri quasi settimanali che poi trasformavo in articoli sull’Espresso che dirigevo. Ma il rapporto con Carlo diventò presto fraterno, ogni tanto cenavamo nelle nostre case, le mogli si conobbero, insomma diventò una specie di famiglia.
Debbo dire che questo rapporto continuò e si accrebbe quando Carlo ascese al Quirinale. Ci vedevamo alla Vetrata e perfino l’estate in Sardegna. Io avevo allora una seconda moglie essendo rimasto vedovo e con lei avevamo una piccola casa a Porto Rafael, di fronte all’isola della Maddalena dove Carlo e la sua famiglia passavano una ventina di giorni in agosto nella casa che era sede del comando della Marina. I Ciampi ci invitavano spesso a cena con la partecipazione dell’ammiraglio Biraghi che era capo di Stato maggiore. Mandavano al molo di Porto Rafael una scialuppa con due marinai che ci portava alla Maddalena dove facevamo arrivare mezzanotte. Lì nacque con Franca Ciampi una profonda amicizia che dura tuttora. Lei è di poche settimane più giovane di Carlo e gli è stata accanto sempre, per sessantasette anni. Oggi l’ha visto morire, ma era consapevole che stava per accadere.
Avrei ancora tanto da raccontare su Ciampi governatore, ministro, presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, ma soprattutto su Ciampi amico fraterno. Ricordo ancora le visite che gli feci quando lui era già molto malato ma, avendo una residenza a Palazzo Giustiniani come tutti gli altri ex presidenti della Repubblica, spesso ci si faceva portare. Lì aveva una specie di piccolo letto nel quale si sistemava con le gambe distese e il torso e il volto sollevati. Così parlava e ascoltava. Spesso gli altri “emeriti” (termine che lui non amava affatto) venivano a trovarlo o lui andava da loro. Anche lì facemmo tante e lunghe chiacchierate. Lui aveva un libro di appunti, una sorta di diario quotidiano, che in parte è stato pubblicato e che credo meriterebbe d’essere ora ristampato.
Concludo: se ne è andato un Padre della patria nella vera accezione del termine. Per me se ne è andato un pezzo dell’anima mia.
il manifesto 17.9.16
Il sentimento dell’era putiniana
di Rita di Leo

Domani la Russia vota per la Duma, è prevista un’affluenza di meno del 50% degli elettori, scontata è la vittoria di «Russia Unita», il partito al potere, e la rielezione di una pattuglia di deputati comunisti e di deputati iper-nazionalisti mentre i partiti liberal democratici non dovrebbero superare lo sbarramento del 5%. È in vigore una nuova legge elettorale per cui metà degli eleggibili è indicata dai partiti con voto proporzionale e metà in collegi uninominali territoriali. C’è poi una nuova commissione elettorale, presieduta da un «indipendente» che dovrebbe vigilare per impedire i brogli del passato.
Al di là dell’appuntamento elettorale i russi vicono tempi amari. E non tanto per la situazione economica, il peso delle sanzioni, il calo del prezzo del petrolio, la rottura dei contratti europei riguardanti i gasdotti. Quel quasi 50% che si recherà alle urne, è in gran misura la quota di popolazione che riesce economicamente a cavarsela, ma è anche la stessa che si sente politicamente sotto assedio. È preoccupata per la tenuta di Putin, teme che non riesca a fronteggiare i suoi nemici e non quelli interni, i dissidenti alla Kasparov, l’ex campione di scacchi cui il New York Times concede tutto lo spazio che vuole per convincere i lettori americani delle sue capacità politiche. È proprio l’antirusso New York Times lo specchio delle preoccupazioni della classe medio-alta russa. La quale vorrebbe identificarsi con quella europea e americana e mal subisce le conseguenze della generale avversione per il governo del suo paese.
Alla luce degli ultimi cambiamenti geopolitici inspiegabile appare ai russi l’ostracismo internazionale. Poiché da un lato vi è la Russia che si riprende «la sua Crimea» ma dall’altro vi sono la Turchia, l’Egitto, l’Arabia Saudita, la Polonia, l’Ungheria e persino l’Austria con il suo nuovo muro. E i ghetti della crisi sociale Usa. Alcuni leader politici possono permettersi comportamenti autoritari e repressivi senza meritarsi altro che blandi rimproveri mentre Putin è messo al bando come fosse uno zar del passato pre-sovietico e allo stesso tempo l’ex spia dell’ex Kgb. E i russi che lo appoggiano all’80% sarebbero o troppo subalterni o troppo corrotti.
La realtà è che i russi benestanti, post sovietici non vedono Putin come uno zar ma come l’ex figlio di un operaio modello di Leningrado, che invece di diventare ingegnere, ha scelto la «carriera» nei servizi segreti, è stato 7 anni a Dresda/Europa, e poi ha sfruttato l’epoca Yeltsin rivelando un istinto da «politico professionale». L’istinto che oggi lo ha convinto a mettere nelle retrovie i suoi antichi colleghi dei servizi, che così tanto gli osservatori esteri gli rimproverano, e a promuovere politici nuovi, giovani senza altri legami, che non la riconoscenza per chi li ha promossi. Epperò il suo atto politico più riuscito è la saldatura con la chiesa ortodossa, promossa sua alleata e fornita di una organizzazione, interna e persino estera, che la rende simile a un partito. Altro che «Russia unita». E di recente ha creato un corpo di Guardia nazionale a difesa del terrorismo (e del dissenso interno).
Basteranno queste iniziative a farlo arrivare alle elezioni del 2018? I russi se lo chiedono e soprattutto lo sperano. Non solo quelli che leggono la stampa internazionale e aspirano alla legittimazione internazionale ma anche gli altri, quelli che sono informati solo dalla tv di stato e sono pieni di risentimento nei confronti dell’America, dell’Europa e soprattutto dei paesi est europei. Ricambiati alla millesima potenza da polacchi, ungheresi e così via.
Il noto storico Stephen Coen su The Nation è stato il primo a lamentarsi del ritorno della guerra fredda, che si reggerebbe non più sulla contrapposizione socialismo-capitalismo, bensì sulla competizione strategico-militare. Come se Reagan fosse tornato sulla scena alle prese con un Putin che aspira alla parità almeno negli armamenti. Una vera provocazione per il Pentagono e per la Nato. Altro che la minaccia di chiusura dell’Istituto di sondaggi Levada che si è permesso di registrare un calo di consensi per il partito al potere. L’ostracismo per la Russia di Putin ha la sua base nelle basi militari, da quelle in Crimea alle molte altre. Poiché paradossalmente dal crollo del socialismo in piedi è rimasta la potenza strategico-militare dell’ex Urss. Una realtà difficile da accettare per l’altra potenza.
La Stampa 17.9.16
Mosca al voto, referendum su Putin
Domani le elezioni per rinnovare la Duma. Primo test dopo la crisi in Ucraina e l’intervento in Siria
di L. Sgu.

Le «primarie delle élite russe», così i politologi riassumono il voto che domenica vedrà rinnovare la Duma per 5 anni, dando per scontata la vittoria del partito al potere Russia Unita, pur screditato agli occhi degli elettori, che si regge tutto sulla popolarità di Vladimir Putin, che pure non ne è membro. Non solo una scelta di deputati, ma un «casting» interno del Cremlino per selezionare la futura squadra del quarto mandato del prossimo presidente, Putin o non Putin. Già iniziato con la rottamazione di vecchi fedelissimi, sostituiti con giovani obbedienti e vicini ai servizi, mentre la crociata anti-corruzione fa cadere teste eccellenti. Un test per le presidenziali 2018, che qualcuno ipotizza addirittura anticipate causa crisi, ma non solo.
Sono le prime legislative dopo l’annessione della Crimea, il conflitto in Est Ucraina, le sanzioni occidentali alla Russia, la campagna in Siria. Le prime in era Putin svolte in regime di recessione economica. Un referendum di gradimento sul potere. Il Centro sociologico Levada che alla vigilia aveva rilevato un crollo di consensi per la maggioranza è stato bollato «agente straniero».
Per scongiurare problemi, il governo Medvedev ha fatto di tutto per dare legittimità al voto. Ha cambiato la legge elettorale introducendo un sistema misto, ha abbassato la soglia dal 7% al 5% per permettere una minima concorrenza, facendo entrare, per la prima volta a livello federale, anche il partito dissidente Prp-Parnas, fondato dall’ex vice premier Boris Nemzov assassinato a Mosca. Ha persino ammesso a partecipare 18 candidati sostenuti dall’ex oligarca «nemico» Khodorkovsky, in esilio a Londra. A capo della Commissione elettorale Elena Pamfilova, rispettata presidente di Transparency International-Russia, ha sostituito V. Churov, nel 2011, ultime elezioni parlamentari, primo bersaglio delle proteste della classe media liberale a Mosca contro i presunti brogli. Oggi quel rischio pare lontano, l’opposizione va alle urne spaccata da screzi interni, il blogger Navalny escluso. Potrebbero passare, forse, i liberali di Yabloko. Campagna elettorale noiosa come mai, il Cremlino punterebbe a una bassa affluenza, ma non troppo. A rimpolparla se serve saranno i nuovi elettori della Crimea.
La Duma attuale ha quattro partiti, e così probabilmente resterà: oltre a Russia Unita, la cosiddetta «opposizione leale» o «di sistema», cioè i Comunisti dell’inossidabile Zyuganov, l’Ldpr del guascone Zhirinovsky, e Russia Giusta. Le sorprese possono arrivare dalle percentuali. Tra i 14 partiti in gara sigle paracomuniste e nazionaliste, Patrioti, Verdi, Pensionati per la giustizia (Rspp), e Rost (Crescita), che fa il filo al piccolo-medio business in affanno, ma è visto come spoiler per raccogliere voti liberali. Il restyling a Mosca è cominciato.[l. sgu.]
Repubblica 17.9.16
domani le elezioni parlamentari
Russia al voto sotto l’effetto Crimea
Per far (stra)vincere il suo partito, Putin conta ancora sul nazionalismo
di Antonella Scott

Mosca Il biglietto da visita delle elezioni parlamentari di domani potrebbe essere il tesserino del metrò di Mosca che capita in mano in questi giorni. «Noi costruiamo il ponte – proclama l’immagine orgogliosa di un autista di Krasnodar -, è la mia strada verso casa!». Il ponte di Crimea, intende, che si sta costruendo a tappe forzate tra Mar Nero e Mar d’Azov per saldare anche fisicamente la penisola “ritrovata” alla madrepatria russa.
Cominciando dal metrò, Vladimir Putin non vorrebbe perdere occasione per parlare di Crimea agli elettori. È a Kerch – l’estremità orientale della penisola che andrà a collegarsi all’altra costa russa – che il presidente si è fatto riprendere in questi ultimi giorni di campagna, scrupolosamente sempre a fianco di Dmitrij Medvedev, primo ministro e leader del partito Russia Unita. Dalla Crimea Putin ha invitato i russi a recarsi a votare, dal momento che «dipende solo da voi come sarà il nuovo Parlamento». Perché queste elezioni in uno Stato fortemente centralizzato, di cui già sembra di conoscere il risultato, solo in apparenza sono completamente scontate: sotto la superficie si nascondono diversi elementi di incertezza, per questo il Cremlino le prende sul serio. Preoccupato che con il passare del tempo l’effetto della sua carta migliore – la Crimea – inizi a svanire.
«È stata l’annessione della Crimea nel marzo 2014 a determinare l’umore degli elettori – osserva Denis Volkov, sociologo dell’autorevole Centro Levada -. Per la maggior parte della popolazione quello è stato un momento di gloria, di riscoperta della Russia come grande potenza, alla pari degli Stati Uniti. Qui la nostalgia per la grandezza sovietica è profonda. Per questo la Crimea è stata accolta con tanta euforia, vissuta come una rivalsa da chi aveva vissuto come un trauma la fine dell’Urss, si era sentito umiliato dal confronto con l’Occidente. Violare le regole internazionali diventava un segno della grandezza del Paese. La popolarità di Putin (oggi all’82%, ndr) è rimbalzata in un paio di settimane». Dando il colpo di grazia a quello che era rimasto delle proteste antigovernative nate dall’ultima tornata elettorale, tra il 2011 e il 2012.
Ma gli ultimi sondaggi, tra cui quello del Centro Levada finito nella lista delle organizzazioni non governative bollate come “agenti stranieri”, hanno decretato un calo dei consensi per Russia Unita, il partito del potere molto distante, in ogni caso, dai livelli di popolarità di Putin. La grande preoccupazione è che sia la crisi a incidere, man mano che si fa sentire su fasce sempre più ampie della popolazione. «Finora il malumore è ben lontano dall’esplodere ed è improbabile che si verifichino proteste di massa come nel 2011 – dice Volkov -. Per via della Crimea la legittimità del sistema ancora tiene. Ma questo tipo di crisi economica procede gradualmente: nel lungo termine, l’effetto si farà sentire».
Putin non poteva prendere rischi. Paradossalmente, per rinsaldare il sistema che lo deve accompagnare al voto che lo riguarderà direttamente - le presidenziali del 2018 - alle elezioni di domani il presidente ha bisogno di un risultato credibile, che non possa essere messo in discussione dagli avversari del Cremlino: una riesplosione della protesta politica, in questo scenario di crisi economica, potrebbe avere effetti devastanti. Per questo l’apparato ha mescolato alle misure repressive con cui ha spento le dimostrazioni del 2012 una serie di concessioni: i partiti in gara domani sono più numerosi che in passato. Tra i candidati ammessi, incredibilmente, 19 sono appoggiati dall’uomo che 13 anni fa pagò con il carcere i finanziamenti dati all’opposizione, Mikhail Khodorkovskij. E a capo della Commissione elettorale centrale, screditata dai brogli del 2011, Putin ha chiamato Ella Pamfilova, rispettata attivista per i diritti umani che in pochi mesi ha cercato disperatamente di dare credibilità al sistema: «Non è più tempo di percentuali di voto del 99%», ha chiarito rivolta ai governatori regionali, auspicando che queste «siano elezioni di cui non dobbiamo vergognarci».
Il pieno utilizzo delle “risorse amministrative” a vantaggio del partito del potere, del resto, dovrebbe rendere superflui i brogli. Le pressioni invisibili sugli elettori che dipendono dal potente di turno nelle province, nelle fabbriche, negli ospedali, negli uffici; l’uso smodato dai media a vantaggio di Russia Unita; le restrizioni alla campagna elettorale delle opposizioni, guardate a vista, tutto questo farà in modo che il meccanismo assicuri la vittoria del sistema.
Che può contare anche sui partiti della cosiddetta opposizione “fedele”, dai comunisti ai populisti di Vladimir Zhirinovskij, cooptati dal Cremlino come veicoli che assorbono la protesta antigovernativa pur restando leali; e sul ritorno al sistema elettorale misto, voluto per distribuire la metà dei 450 seggi della Duma in collegi uninominali dove si scommette sulla maggiore influenza, ancora una volta, dei candidati di Russia Unita. Tutto sembra sotto controllo: «Così strettamente – ironizza Khodorkovskij dal suo esilio in Svizzera – che non potrà passare neppure un topolino». Tra elezioni libere e un voto totalmente manipolato, il Cremlino potrebbe aver trovato la terza via.
Repubblica 17.9.16
Isabel Wilkerson
“Un luogo dove ricordare e anche poter piangere”
La scrittrice premio Pulitzer “Era importante realizzarlo nella capitale, un simbolo”
intervista di Anna Lombardi

PITTSBURGH. La storia degli africani è la storia dell’America. Senza di loro non ci sarebbe questo Paese così come lo conosciamo». Il premio Pulitzer Isabel Wilkerson, autrice di “Al calore di soli lontani”, un affresco dell’immigrazione nera americana, è stata chiamata dallo Smithsonian a partecipare alla stesura del catalogo del nuovo museo.
Come mai si è dovuto aspettare tanto?
«Ci sono voluti decenni e l’impegno di molte persone. Ma non è mai troppo tardi per fare la Storia. E poi il museo si apre in un’epoca speciale, alla vigilia di una elezione speciale. E non dimentichiamo che ad inaugurarlo c’è un presidente afroamericano».
Ma quanto conta per l’America di oggi questo riconoscimento?
«Tantissimo. I neri furono portati qui contro la loro volontà e contribuirono alla creazione di una intera nazione senza ricevere niente in cambio. Erano qui ben prima che gli Stati Uniti venissero fondati: i primi schiavi africani arrivarono nel 1619 con i colonizzatori europei, più di un secolo prima della Rivoluzione. Sono uno dei popoli che vive da più tempo in America».
E il percorso offerto dal museo è completo?
«È ancora un work in progress: ma è vibrante, ricco di cimeli che offrono una visione ampia del contributo culturale degli afroamericani al Paese, ma anche delle loro sofferenze».
Quali sono i pezzi più importanti?
«La bara di Emmett Till, il ragazzino di 14 anni linciato in Mississippi nel 1955: la sua morte diede il via al movimento per i diritti civili. E poi il vestito che Rosa Parks indossava quando rifiutò di lasciare il suo posto nell’autobus, sempre nel 1955. E la Bibbia di Nat Turner che guidò la storica ribellione degli schiavi in Virginia del 1831» Cosa significa per gli afroamericani l’apertura del museo?
«Un simbolo importante, che trova spazio nel luogo più importante degli Stati Uniti, Washington, la capitale. Onora un intero popolo ma è anche un memoriale, un luogo dove ci si può finalmente fermare a riflettere sul passato brutale. E anche a piangere».
Repubblica 17.9.16
Un museo per la storia degli afro-americani così l’America fa i conti con il suo passato violento
Tra una settimana Obama a Washington inaugurerà l’immensa struttura. Per i visitatori sarà un viaggio tra razzismo, segregazione ed emancipazione
di Arturo Zampaglione

NEW YORK. È il solo museo al mondo dove c’è una stanza vuota, silenziosa, senza oggetti, dove i visitatori possono riprendere fiato, smaltire le forti emozioni ed eventualmente farsi aiutare da uno psicologo, che è sempre lì a disposizione. Sì, perché il Museo nazionale della storia e della cultura afro-americana, l’immensa struttura color bronzo che sarà inaugurata sabato prossimo nel Washington Mall da Barack Obama, offre la prima ricostruzione completa, ma anche impietosa e assordante, delle violenze subite dai neri e del razzismo dei bianchi.
Tra i 3.500 oggetti esposti (sui 40mila della collezione), figurano ad esempio la misera capanna di schiavi di una piantagione di cotone della Carolina del Sud, un collare di ferro adatto solo a un “bambino-schiavo”, la ricevuta della vendita di una africana sedicenne («e degli eventuali figli»), un cappuccio di seta usato dai membri del Ku Klux Klan e molte fotografie di linciaggi. «Volevamo calare nella realtà il concetto di segregazione, che è troppe volte rimane astratto», spiegano i collaboratori del direttore del museo, Lonnie Bunch. La quale si affretta a proiettare un’immagine più costruttiva (e più “inclusiva”) della nuova istituzione culturale, che fa parte dello Smithsonian: «La storia afro-americana — dice la Bunch — si intreccia con quella americana. Molti valori come l’ottimismo e la spiritualità, derivano proprio dalla cultura afro-americana». L’idea del museo nacque un secolo fa, al ritorno dei soldati neri dal fronte europeo dopo la prima guerra mondiale. Ma è stato lungo e difficile superare l’opposizione di molti conservatori. Tredici anni fa il Congresso ha approvato il piano. Poi ci sono voluti 540 milioni di dollari, 270 giunti da finanziatori privati tra cui Oprah Winfrey. Il progetto è stato affidato all’architetto di origini africane David Adyaje, che ha voluto differenziare la struttura dagli altri musei in marmo, granito e stile neo-classico che si affacciano sul Mall, luogo simbolo dell’unità nazionale. Rivestito da 3600 lastre di alluminio dipinto, che emettono bagliori color ruggine, l’esterno assomiglia a una corona a tre punte. Secondo qualcuno fa anche pensare a delle mani incrociate in segno di preghiera. All’interno, 40mila metri quadri di spazio su 5 piani: tre sottoterra dedicati ai travagli della storia e due sopra, che si concentrano sulla comunità, la cultura e le pietre miliari dell’emancipazione dei neri. Questi ultimi sono più “soft”: si vedono le medaglie olimpiche di Carl Lewis, la tromba di Louis Amstrong, la Cadillac rossa di Chuck Berry.
Sarà comunque sempre un museo diverso da tutti gli altri: sempre in continua evoluzione, riflettendo i turbamenti e cambiamenti della società americana.
Corriere 17.9.16
Gli interventi degli Stati Uniti nella politica interna italiana
risponde Sergio Romano

Non riesco a comprendere per quale ragione l’ambasciatore statunitense in Italia non può dare un giudizio politico sul nostro referendum mentre tutti i nostri politici tranciano giudizi di qualunque tipo (anche molto salati) sui politici americani, per esempio sui due contendenti delle prossime elezioni presidenziali. Su quale argomento politico è lecito per entrambe le parti dare un giudizio politico e su quale no?
Vittorio Zanuso

Caro Zanuso,
Gli uomini politici hanno un mandato popolare e la facoltà di commentare liberamente tutti gli eventi che possono interessare il loro Paese. Siamo in un mondo sempre più interconnesso, come ha ricordato il presidente della Repubblica, ed è evidente che la scelta del capo di una grande potenza abbia conseguenze anche per coloro che di questo evento sono semplici spettatori. Gli ambasciatori, invece, non hanno un mandato popolare. Sono funzionari mandati in giro per il mondo a rappresentare il loro governo presso un governo straniero.
So che non è facile tracciare una linea tra dichiarazioni opportune e inopportune. Ma non è necessario essere particolarmente versati nell’esercizio di questo mestiere per sapere che una consultazione elettorale, come quella che avrà luogo in novembre, divide la società, crea schieramenti contrapposti, suscita emozioni e si presta a teorie strumentali sugli interessi in gioco. Aggiungo che i popoli, anche quelli che parlano spesso male del proprio governo, non desiderano ricevere consigli e istruzioni da un Paese straniero. Personalmente credo nella utilità delle riforme istituzionali del governo Renzi e voterò sì, ma non riconosco all’ambasciatore degli Stati Uniti, in questa delicata materia, il diritto di darmi consigli.
Suppongo che lei, caro Zanuso, potrebbe chiedermi ora se l’intervento dell’ambasciatore americano mi abbia sorpreso. Le risponderei di no. Vi sono stati altri casi in cui la diplomazia americana è intervenuta in vicende interne di altri Paesi, e ve ne è stato uno, in particolare, che concerne l’Italia. Accadde nel gennaio 1978 quando le agenzie di stampa diffusero una dichiarazione del Dipartimento di Stato (il presidente era Jimmy Carter, il segretario Cyrus Vance) sulla situazione politica italiana. Le questioni più dibattute in quei giorni erano il compromesso storico e la possibile formazione di un governo Andreotti con la partecipazione del Pci. Nel comunicato era scritto: «L’atteggiamento del governo statunitense nei confronti dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, compreso quello italiano, non è in alcun modo mutato. (…) I leader democratici devono dimostrare fermezza nel resistere alla tentazione di trovare soluzioni tra le forze non democratiche». Andreotti si dimise quattro giorni dopo e impiegò due mesi per formare un governo democristiano con il sostegno del partito comunista, del partito socialista, del partito social-democratico e del partito repubblicano.
Il Sole 17.9.16
Se l’Europa prova a uscire dalla prognosi riservata
di Adriana Cerretelli

L’Europa resta in camera di rianimazione ma forse si prepara a uscire dalla prognosi riservata. «Oggi abbiamo fatto il primo passo su una strada che sarà lunga» ha riassunto alla fine del vertice Angela Merkel. «Con la Gran Bretagna fuori, i 27 devono dare una nuova prospettiva all’Unione e decidere che cosa si vuole fare insieme per i nostri popoli» ha insistito François Hollande, al suo fianco.
Francia e Germania in una conferenza stampa congiunta ieri, come non accadeva dal vertice Ue dal 2012, per sottolineare la gravità del momento e l’urgenza di un colpo di reni collettivo per guarire l’Europa dalle troppe crisi riconciliandola con
i suoi cittadini, il loro
bisogno di sicurezza, di sviluppo, di lavoro, prima di tutto giovanile.
Francia e Germania insieme ma niente direttorii: un rapporto aperto e inclusivo che, hanno ripetuto tanto il cancelliere tedesco quanto il presidente francese, trova nella cabina di regia anche il contributo dell’Italia di Matteo Renzi.
Niente miracoli a Bratislava. Però la nascita di uno spirito costruttivo, tutto da verificare alla prova dei fatti. Che per ora si limitano a produrre un programma di lavoro per i prossimi sei mesi, con una scadenziario di nuovi appuntamenti al vertice: in ottobre e dicembre a Bruxelles, in febbraio a Malta e in marzo a Roma, quello conclusivo, in un’occasione solenne, l’anniversario dei 60 anni della firma del Trattato di Roma. Poi si vedrà come andare avanti.
La montagna ha partorito il topolino? Di sicuro. Ma il rischio era che non riuscisse nemmeno a fare quello, viste divisioni, conflitti di interessi, recriminazioni, sfiducia generalizzata e la raffica di elezioni che attendono al varco Olanda, Francia e Germania da qui all’autunno del 2017. Con il contesto avvelenato, anche un calendario condiviso diventa una conquista. Come le 3 grandi priorità sulle quali si concentreranno i lavori dei prossimi mesi, nella
speranza di arrivare già in marzo al varo di qualche misura concreta.
Le scelte erano già note e tutte puntate a rispondere con i fatti a ansie e frustrazioni degli europei. Dunque, prima di tutto il capitolo sicurezza, che vuol dire protezione rafforzata delle frontiere, lotta al terrorismo e apertura del cantiere dell’euro-difesa, dovere di dare asilo ai rifugiati e aiuti ai paesi di prima linea come Italia, Grecia e Bulgaria ma
anche diritto di respingere
e rimpatriare gli immigrati irregolari.
Poi crescita economica, investimenti e lavoro puntando sull’agenda digitale, quella energetica e sulle infrastrutture.
Infine i giovani, la garanzia contro la disoccupazione e parallelamente il rafforzamento delle politiche di sviluppo con l’Africa, compresa la prospettiva di accordi del tipo di quello Ue-Turchia con i paesi più esposti ai flussi migratori.
Accordo sul calendario naturalmente non vuole affatto dire accordo sui contenuti di scelte e decisioni future. Su entrambe ci sarà tutto il tempo di litigare. Del resto già ieri se ne è avuto un assaggio significativo.
Il fronte dell’Est parlando con la voce del gruppo di Visegrad, Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia, sui rifugiati ha rivendicato forte e chiaro «una solidarietà flessibile», in breve il ripudio delle quote per redistribuirli. La Merkel sembra possibilista, visto che ieri ha sottolineato che «l’Europa vive di compromessi e bisognerà trovare altri approcci dato che la nostra decisione a maggioranza incontra opposizione».
Il fronte mediterraneo invece, che ieri ha dovito incassare la plateale diserzione della Francia, nella sua battaglia per politiche di bilancio meno rigoriste e più flessibili per favorire la crescita non ha incontrato altrettanta disponibilità. Almeno non apertis verbis: le elezioni in Germania non lo consentono. Difficile però che nei fatti non si continuerà con l’approccio cautamente soft, già usato con l’Italia prima e poi con Spagna e Portogallo, tenendo conto che tutti i candidati repubblicani alle presidenziali francesi annunciano pubblicamente che, se eletti, non rispetteranno la regola del deficit del 3%.
Nessuna novità davvero sostanziale, quindi, da Bratislava ma un atteggiamento business-like che potrebbe prima o poi fare atterrare l’Europa dei 27 sul pianeta della concretezza e del pragmatismo: un cemento più moderno ed efficace per rimettere insieme i pezzo di un'integrazione allo sbando.
Repubblica 17.9.16
Da Ventotene a Bratislava
di Franco Venturini

Nessuno si aspettava che il consulto di Bratislava potesse guarire la malattia esistenziale dell’Europa, ma non era nemmeno previsto che al termine del vertice il presidente del Consiglio italiano sparasse ad alzo zero sui ritardi e sulle disfunzioni dell’Unione. Mentre la Cancelliera Merkel e il presidente Hollande assicuravano in una conferenza stampa congiunta che sulle rive del Danubio era stato fatto un buon lavoro, Matteo Renzi si è detto di avviso contrario. continua a pagina 28
R enzi ha usato una fermezza di linguaggio raramente riscontrabile negli annali degli appuntamenti europei. «Non sono soddisfatto delle conclusioni», ha detto, e «non devo fare una recita a copione per far vedere che siamo tutti uniti». Così, oltre ad esprimere il suo giudizio negativo sugli esiti dell’incontro, Renzi ha spiegato il fatto di non essere a fianco della Merkel e di Hollande.
Ma la requisitoria non si è fermat qui. Non tutto è andato come doveva andare, ha insistito Renzi, sui temi-chiave dell’immigrazione e della crescita economica. E ancora, il fiscal compact non funziona, la Germania non rispetta la regola sul surplus commerciale, la crescita langue, e poi la stoccata finale: «Se l’Europa deve riavvicinarsi ai cittadini non può impedirmi di intervenire sull’edilizia scolastica» . Ovvio riferimento alla richiesta italiana di escludere dal calcolo del deficit alcune spese relative al dopo-terremoto.
Tutto vero, ma anche tutto sorprendente. Non per l’irritualità, che anzi serve talvolta a bilanciare una tradizione italiana di eccessiva prudenza. Ma piuttosto perché Matteo Renzi ha deciso di andare all’assalto di una Europa effettivamente smarrita davanti alle istanze dei suoi popoli nel momento in cui, da Ventotene a Maranello, all’Italia era stato riconosciuto un ruolo di primissimo piano favorito dal distacco della Gran Bretagna. A Bratislava questo ruolo si è dissolto nell’assemblea dei Ventisette? È possibile, ma era anche prevedibile. E ora, mantenendo tutta la fermezza necessaria sulla questione dei migranti e riaffermando che i margini di flessibilità sono necessari, servirà al governo l’ennesima correzione di rotta. Altrimenti le celebrazioni di marzo a Roma per il sessantesimo dei Trattati non soltanto non saranno più il punto di arrivo della «riflessione» collettiva lanciata ieri, ma rischieranno di diventare anche una occasione politicamente scomoda.
Bratislava, beninteso, non è stata soltanto Renzi. Troppo divisi sulla diagnosi e troppo attenti ai loro privati interessi, i ventisette dottori chiamati al capezzale dell’Unione hanno riscontrato una seria nevrosi: l’Europa oggi non si piace, non sa come vuole essere domani, e nel frattempo rischia la frammentazione. Così, disarmati da una sceneggiatura che prevedeva dosi inadeguate di coraggio politico, i capi di Stato e di governo si sono accontentati di un minimo comun denominatore che dirà assai poco a quei popoli europei che, con la scheda elettorale in tasca, reclamano risposte sull’ondata migratoria, sul terrorismo e sullo stato dell’economia.
Non può rassicurare il fatto che i dirigenti europei stiano affrontando una fase di assoluta emergenza con il passo dell’ordinaria amministrazione. La road map di riflessioni e di proposte sull’Europa del futuro troverà sul suo cammino ostacoli formidabili che in terra slovacca sono stati accuratamente infilati sotto il tappeto. L’integrazione differenziata è l’unica àncora di salvezza disponibile, ma nessuno l’ha definita ed è dubbio che essa possa funzionare anche nello zoccolo duro. Il recupero delle istanze sociali che il populismo anti-europeo raccoglie un po’ ovunque richiede interventi immediati. E il progetto di difesa europea, se rappresenta certamente un passo avanti, riguarderà soltanto marginalmente i fenomeni migratori e la lotta al terrorismo.
Nel frattempo il Gruppo di Visegrad si presenta ormai ai vertici europei con una agenda concordata e separata, che punta esplicitamente a una «contro-rivoluzione culturale» che dovrebbe restituire sovranità ai singoli Stati. E continua a rifiutare le quote obbligatorie per la redistribuzione dei migranti, come Renzi ha focosamente ricordato. In Olanda, dove si voterà a marzo, la destra favorita ha promesso un referendum sull’Europa. Poi viene la Francia, dove una vittoriosa Le Pen renderebbe vana ogni riscossa europeista. E in Italia ci sarà il referendum che inquieta i nostri soci e alleati, e ci sono i Cinque Stelle che non hanno mai rinunciato a un referendum sull’euro. Infine il test decisivo tra un anno, nelle urne tedesche. Se a fare la diagnosi non ci avranno già pensato altri.
La Stampa 17.9.16
Ricatti sessuali via web
Quadruplicati i ricatti sessuali via web
di Gabriele Martini

Bionda, carina, sorriso ammiccante. Si chiama Stephanie e vuole stringere amicizia su Facebook. «Sono francese, studio a Milano. Scusa io parlo male l’italiano». Scrive via chat. «Quanti anni hai? Che lavoro fai?». Per qualche ora va avanti così, poi cambia registro: «Perché non parliamo guardandoci in faccia? Scrivi il tuo account Skype». Grazie, meglio di no.
I virtuosi delle truffe si sono specializzati nei ricatti a luci rosse in rete. Funzionano così: una sconosciuta entra in contatto con la vittima via social, inizia a scambiare messaggi, poi invita il malcapitato di turno a una conversazione privata via webcam e lo convince a mostrarsi in atteggiamenti intimi. A quel punto, il passo falso è compiuto: l’avvenente ragazza ha registrato tutto e ricatta lo sventurato minacciando di diffondere il video osé.
Gli anglofoni hanno coniato addirittura una nuova parola: «Sextortion», crasi tra sesso ed estorsione. L’ultima vittima è un sessantenne di Vercelli. Caduto nella trappola del video hard, ha deciso di non pagare e il video è finito in rete. Stessa disavventura capitata a un trentenne di Biella, che si è trovato immortalato in atteggiamenti hot su YouTube dopo essersi rifiutato di versare 5 mila euro all’amica virtuale di turno. Pochi giorni prima era toccato a uno studente milanese: «Sono stato uno stupido, mi ero illuso che quella ragazza fosse davvero interessata a me. Mi ha chiesto mille euro, poi è scesa a 700. Ma non ho pagato e non ho più risposto ai suoi messaggi. Per fortuna è sparita com’era venuta». Certo, la preoccupazione resta: «Da un mese controllo più volte al giorno YouTube, ma per ora il video non è stato pubblicato».
Dietro Stephanie e le altre misteriose ragazze, quasi sempre ci sono vere e proprie organizzazioni criminali. In due anni le denunce alla Polizia postale sono quadruplicate: dalle 400 del 2013 alle 1700 del 2015. «Solo la punta dell’iceberg», avvertono gli esperti. La maggior parte delle vittime, infatti, si vergogna a chiedere aiuto. Qualcuno cede al ricatto. Le truffe coinvolgono tutte le fasce di età: adolescenti, giovani single, adulti con famiglia, anziani alla ricerca di nuove amicizie virtuali. Di solito il pagamento viene chiesto tramite Western Union. «Versare i soldi non è la soluzione del problema, ma semplicemente l’inizio di una lunga catena di estorsioni», avvertono dalla Polizia postale. Un anno fa a cadere nel cyber-ricatto era stato Giovanni Salvia, assessore comunale allo Sport del Comune di Potenza. A giugno Salvo Mandarà, blogger ed ex guru video del Movimento 5 Stelle, aveva denunciato su Facebook il tentativo di estorsione ai suoi danni: «Ho fatto una stupidaggine ad accettare, sono caduto nella trappola come un fesso».
Sul forum del Skype centinaia di utenti chiedono aiuto perché vittime di estorsioni a luci rosse. Scrive Claudio: «Ci siamo spogliati, lei adesso vuole 1500 euro altrimenti dice che mi rovinerà la vita». «Negli ultimissimi anni abbiamo assistito decine di vittime di sexy ricatti», svela Paolo Dal Checco, consulente informatico forense dello studio Di.Fo.B. di Torino. «L’ultimo è stato un importante imprenditore 50enne, residente al Nord. È stato indotto a masturbarsi davanti alla telecamera e poi ricattato», racconta l’esperto. «Non ha pagato e alcuni suoi contatti Facebook si sono visti recapitare il link al video hot caricato su YouTube». Il sito rimuove i filmati in pochi minuti su specifica segnalazione. Ma, a volte, sono comunque troppi.
Il Sole 17.9.16
Flavia Marzano Assessora alla Roma Semplice
«Squadra coesa, avanti i bandi di Roma facile»
intervista di Manuela Perrone

Due mesi complicati, ma «mai avuta alcuna intenzione di lasciare», anzi: «Con le difficoltà innegabili (abbiamo bisogno che la squadra si completi), l’emergenza ha generato una coesione che non avevo visto prima». L’assessora alla Roma semplice Flavia Marzano spegne il fuoco delle polemiche sulla giunta di Virginia Raggi e guarda avanti, al lavoro da fare. Con tre progetti pronti al decollo: bilancio “open”, largo al software libero negli uffici comunali, punti per la digitalizzazione assistita in biblioteche, aziende, banche. Tecnica pura, Marzano è stata voluta dalla sindaca per le sue competenze: laureata a Pisa in Scienze dell’Informazione, esperta di tecnologie per la Pa e di comunità virtuali, è stata fondatrice e presidente degli Stati Generali dell’Innovazione.
Entrando in Campidoglio ho chiesto di lei. Risposta: «La Semplicità? È di là…».
Le hanno detto la cosa giusta. Semplicità è meglio di semplificazione. L’idea è quella di usare tecnologie e digitale per rendere fruibile a tutti, abitanti e turisti, una città molto complicata, anche per la sua bellezza infinita. Un lavoro non banale perché un italiano su tre non è mai andato in internet: significa quasi un milione di romani. Per questo la nostra prima delibera approvata in giunta riguarda la realizzazione di una rete di punti “Roma facile” per aiutare i cittadini a fruire dei servizi on line. Stiamo per emanare due bandi, per il pubblico e per i privati: ci piacerebbe che chiunque abbia uno spazio, dalle biblioteche alle aziende, potesse rendersi disponibile.
La stessa macchina amministrativa è spesso opaca. Da dove ha cominciato?
Intanto dai dati. Il ragioniere capo del Campidoglio ha appena firmato la determinazione dirigenziale per Open bilancio: grazie alla collaborazione di Openpolis, i bilanci di Roma Capitale degli ultimi dieci anni e quelli a venire saranno resi leggibili e confrontabili grazie a una serie di grafici on line. Anche le persone prive di competenze specifiche potranno capire come sono cambiate nel tempo le voci di spesa. E la politica, misurando, potrà prendere decisioni sensate. Cambierà anche il sito del Comune, al quale oggi sono accreditate soltanto 300mila persone. La gara per il nuovo portale unico è stata aggiudicata in epoca Marino, ci stiamo lavorando.
Un suo pallino è il software libero nella Pa. Arriverà?
La delibera, sentita anche la commissione competente, è pronta. Chiederemo a tutta la Pa romana che prima di comprare del software verifichi se si possa o meno utilizzare il software libero. Vogliamo cominciare per piccoli passi, senza integralismi, e abbiamo già la disponibilità di Libre Italia per fare formazione. I risparmi si vedranno nel lungo periodo, i vantaggi per la Pa sono altri: tecnici, maggiore autonomia.
Roma farà rete con le altre città?
Il 3 ottobre promuoveremo in Campidoglio un incontro tra tutti gli assessori italiani all’Innovazione, di ogni colore, per confrontare esperienze su open government, smart city, agenda digitale. Sogniamo un ecosistema degli innovatori.
Repubblica 17.9.16
I vescovi, la destra e l’attico le trame del cavalier Marra
L’uomo chiave della giunta romana ora è nel mirino anche per il concorso del fratello
di Carlo Bonini

ROMA. Raffaele Marra, il Rasputin di Virginia Raggi, decide di battere un colpo. E lo fa con la vaghezza di chi si tiene lontano dai fatti come la peste. «La mia nomina non solo non è illegittima ma non è stato richiesto alcun parere all’Anac - scrive in un comunicato – Né ho beneficiato di alcuno sconto per l’acquisto di proprietà immobiliari». Non va meglio con una lettera all’Espresso, che vorrebbe rettificare (senza riuscirci) l’inchiesta firmata da Emiliano Fittipaldi. Quanto infatti all’acquisto dal costruttore Sergio Scarpellini (legato da rapporti contrattuali con il Comune, di cui Marra era responsabile per il patrimonio immobiliare) di un appartamento di pregio a 700 mila euro (cinquecentomila in meno del prezzo pagato da altri acquirenti per un’identica abitazione) con contestuale “permuta” a 400 mila della casa che abitava, Marra ha due sole cose da dire. La prima, che nulla spiega né del prezzo né della permuta: «Non ho mai beneficiato di alcuno sconto in quanto non ne avevo alcun diritto». La seconda, che molto dice su quale idea coltivi del conflitto di interesse: «I contratti di locazione e comodato di immobili tra il Comune e la società di Scarpellini “Milano 90” sono stati stipulati tutti in epoche in cui non ero nell’Amministrazione Capitolina». Si potrebbe obiettare che questo è vero, ma che è altrettanto vero che quei contratti fossero a regime quando Marra, quale dirigente del Patrimonio, ne rispondeva come contraente. Ma è un dettaglio che all’uomo deve sfuggire. Per Marra, infatti, il conflitto di interesse non è una condizione oggettiva, ma uno stato d’animo. L’importante, dunque, è non sentircisi. Anche quando, come è accaduto nella sua nuova veste di dirigente per il Personale, firma un bando di concorso per il nuovo Comandante dei Vigili Urbani sapendo che a concorrere sarà anche suo fratello Renato, oggi nella task force per il decoro urbano della Polizia Municipale.
Del resto, che l’uomo sia di cavillosa furbizia lo dimostra anche il sostenere che sulla sua nomina a vicecapo di Gabinetto non sia stato chiesto alcun parere all’Anac. La circostanza, infatti, è formalmente corretta soltanto perché, a differenza che per la Raineri (quando, guarda caso, a preparare il parere fu proprio Marra), la Raggi, nel rivolgersi a Cantone, pone un quesito senza alcun riferimento a Marra e prova a precostituire una risposta positiva. Invocando il precedente del regolamento comunale di Firenze, chiede infatti conforto sulla possibilità di nominare quali componenti del proprio staff dipendenti dell’amministrazione capitolina. Ma la risposta di Cantone la caccia in un vicolo cieco (e questo spiega perché il parere non sia stato reso pubblico). Che a Firenze il regolamento lo autorizzi – argomenta il presidente dell’Anac – non significa che anche a Roma lo si possa fare. Dipende se lo autorizza il regolamento del Campidoglio. E quel regolamento non lo autorizza.
La furbizia di Marra, tuttavia, soffre di qualche inciampo. Come dimostra il maquillage cui ha sottoposto il suo curriculum vitae. Che, nel giro di cinque anni, si asciuga da sei a due sole pagine, condannando all’oblio ciò che, evidentemente, è meglio non sapere. Ma di cui restano in Rete tre copie diverse. Da cui si scopre il singolare vai e vieni nella conoscenza delle lingue. Un “eccellente inglese scritto e parlato” che compare nel cv consegnato alla Giunta Raggi, era infatti “scolastico” con la giunta Marino e “ottimo” undici anni prima, dopo un “corso di 25 giorni all’International Language school”. Mentre il francese e lo spagnolo, “scolastici” nel cv ad uso Marino, svaniscono in quello per la Raggi. Esattamente come l’appartenenza a tre ordini cavallereschi ecclesiastici. Marra è infatti “Donato di devozione del Sovrano Ordine di Malta”, “Cavaliere dell’ordine equestre di san Silvestro Papa” e “Cavaliere dell’ordine equestre del Santo Sepolcro”. Che per uno che ha fatto il finanziere su pattugliatori marittimi a Pratica di Mare e si fregia di una docenza in meteorologia non si capisce bene come saltino fuori. A meno di non guardare ad Oltretevere. Lì Marra ha avuto più di un prelato che si dice tenesse a lui. Sicuramente monsignor Giovanni D’Ercole, oggi vescovo di Ascoli. Sicuramente anche chi lo segnalò a Gianni Alemanno quando era ministro dell’Agricoltura perché lo prendesse prima nella sua segreteria come ufficiale della Finanza in distacco e quindi lo collocasse all’Unire, Ente per la tutela della purezza della razza equina, altra curiosa “competenza” di questo Fregoli dell’Amministrazione. Una figura «non dell’alto clero», dice Alemanno, ma il cui nome preferisce non fare «per evitare dell’imbarazzo». Prelati, ordini cavallereschi, attici, osservanza alla Destra che comandava. Il passato di Marra somiglia a quei giardini dei romanzi inglesi, dove basta affondare la vanga per trovare delle sorprese. E, soprattutto, ha l’odore stantio ed eterno di un pezzo di Roma.
Repubblica 17.9.16
I big M5S avvisano il fondatore “Non ci fidiamo più di Virginia”
La sindaca incassa altri no per la sua giunta
I sospetti del direttorio sulle manovre Frongia-Coni per non ritirare la candidatura di Roma 2024
di Giovanna Vitale

ROMA. Tempo al tempo. «Ragazzi state calmi, non è il momento di fare casino». L’ordine, partito dall’alto, è chiaro. Dopo il post di Grillo, che l’altro ieri aveva dato sì fiducia a Virginia Raggi, ma condizionata all’attuazione del programma fondato sul no alle Olimpiadi, bisogna solo aspettare. Per verificare se la sindaca di Roma farà quanto le è stato “suggerito”. Perciò basta attacchi sui social, il dissenso deve essere silenziato, parlamentari e consiglieri comunali trattengano i mal di pancia. Persino l’assemblea degli autoconvocati, che doveva tenersi oggi al teatro Golden sulla Via Tuscolana per far sfogare la base, viene cancellata.
Attendere Virginia al varco: è questa la strategia, adesso. Partendo però da un presupposto, che Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista spiegano al garante senza girarci intorno: nessuno, nel Movimento, si fida più di lei. È questo che i cinque del direttorio, chiamati uno a uno da Grillo per tentare di governare il caos, ribadiscono al fondatore. Tutti convinti che la fonte della fuga di notizie, degli sms e delle mail finite sui giornali che hanno inguaiato i Cinquestelle, sia proprio l’inquilina del Campidoglio. La miccia che ha fatto implodere il vertice 5 stelle, ormai precipitato in un gorgo di sospetti e rancori nel quale rischia di finire inghiottito innanzitutto l’aspirante candidato premier: «La verità», sussurra a Grillo l’ortodosso Roberto Fico, «è che molti di noi cominciano a diffidare pure di Luigi».
È in questo clima di astio non più represso che matura la decisione del capo: dichiarare la tregua su Virginia. Giusto il tempo necessario a stanarla. Per appurare se abbia sostanza quel che sospettano tanti, nel Movimento: l’esistenza di una trattativa segreta fra il vicesindaco Frongia e il presidente del Coni Malagò per arrivare il più possibile vicini alla dead line del 7 ottobre (stabilita dal Cio) e aprire così la strada a ricorsi giudiziari che mettano la sindaca con le spalle al muro. Lo scenario peggiore per il M5s. Da scongiurare a ogni costo.
La tattica prevede allora di far filtrare l’ultimatum lanciato da Grillo nel corso di alcune conversazioni coi parlamentari. «Lasciamola lavorare perché a breve arriverà il no alle Olimpiadi e farà una bella conferenza stampa», fa sapere il fondatore, segnando la strada. «Deve portare avanti il nostro programma per Roma», è la seconda prescrizione. Spingendosi a fissare persino una scadenza: «A gennaio facciamo il tagliando, ma ora serriamo le fila e mettiamola alla prova».
Regole di ingaggio rigidissime, che riducono ogni spazio di manovra. Raggi lo capisce e dal Campidoglio fa partire una nota che annuncia il suo no ai Giochi per la prossima settimana. In conferenza stampa. La data non c’è ancora. Ma un motivo sì: la sindaca confida, per quel giorno, di potersi presentare con la squadra capitolina al completo, dopo le dimissioni a catena che l’hanno falcidiata. Il problema è che la caccia all’assessore al Bilancio e al capo di gabinetto non ha finora prodotto l’esito sperato. Dopo aver sondato magistrature, autority e forze dell’ordine ha solo inanellato una sfilza di no. La coda di candidati che premeva dietro la sua porta dopo le elezioni, si è dissolta. Anche il nome indicato da Marco Travaglio, al quale lei ha chiesto aiuto, ha declinato. E per la giunta è ancora buio pesto.
Corriere 17.9.16
Tagliando di Grillo alla giunta Raggi. Olimpiade, sarà no
di Ernesto Menicucci

Beppe Grillo parla chiaro ai suoi: «Lasciamo lavorare Virginia Raggi». E aggiunge: «A gennaio poi facciamo il tagliando». Intanto il sindaco Federico Pizzarotti, prosciolto, chiede di essere reintegrato.

ROMA Il messaggio di Beppe Grillo, affidato ad alcuni parlamentari, è molto chiaro: «Lasciamo lavorare Virginia Raggi. A breve arriverà il no alle Olimpiadi e farà una bella conferenza stampa. Deve portare avanti il programma M5S per Roma, che è meraviglioso. A gennaio poi facciamo il tagliando, vigiliamo step by step . Ma ora serriamo le fila e mettiamola alla prova». È la conferma di quanto scritto nel post (sul quale ironizza Francesco Storace: «Nessuno tocchi Virginia. Neppure fosse Caino...») dell’altro giorno, con la difesa in «chiaro-scuro» del leader genovese. Lo fa capire anche Roberto Fico: «Beppe ha scritto un post e va bene così. Chi rispetta i programmi del M5s, rispetta il voto dei cittadini e il Movimento. Questo vale per Raggi e per tutti gli eletti del M5S».
Il primo vero banco di prova, per la sindaca, è sull’Olimpiade. Dal Campidoglio, fanno filtrare: «La settimana prossima ci sarà l’annuncio del no ai Giochi». Come location circolano due ipotesi: la grande incompiuta della «Città dello sport» di Calatrava a Tor Vergata (dove, secondo il Coni, dovrebbe sorgere il villaggio olimpico per gli atleti) oppure la piscina di San Paolo, costruita per i Mondiali di nuoto del 2009 e mai utilizzata.
L’altra mossa della Raggi è proprio sul programma. La sindaca pubblica su Facebook un lungo post, nel quale rivendica le cose fatte finora. Alcune sono frutto di interventi del governo (i soldi alle periferie, lo sblocco delle assunzioni nella scuola), altre il completamento di iter amministrativi (il Museo della Shoah), altre ancora il frutto del lavoro del «rivale» Marcello De Vito (taglio delle auto di servizio e del pass Ztl per i consiglieri comunali), altre ancora hanno aperto contenziosi importanti (il ridimensionamento dell’intervento urbanistico nella ex Fiera di Roma). Ma quello che conta è il senso «politico» del post: «Andiamo avanti con coraggio, lavoriamo per i cittadini. Questi sono i nostri valori». Come a dire: il programma lo sto già rispettando, non servono «tagliandi». E le polemiche nel Movimento sui ruoli di Raffaele Marra e Salvatore Romeo? Il primo rompe il silenzio: «La mia nomina non è illegittima e non è stato richiesto alcun parere all’Anac. Non ho mai beneficiato di alcuno sconto per l’acquisto di proprietà immobiliari», in riferimento all’attico comprato dal costruttore Sergio Scarpellini. Mentre sulle altre nomine, e quindi anche quella di Romeo, la giunta ha avviato la due diligence sulle delibere fatte finora: è probabile che, alla fine, si arrivi alla riduzione dello stipendio del caposegreteria.
Tutto finito? Non proprio. Perché, anche se il capogruppo Paolo Ferrara getta acqua sul fuoco («dodici consiglieri pronti a dimettersi? Non mi risulta»), tra i pentastellati ci sono diversi «malpancisti» che non hanno gradito l’avvio della giunta Raggi. Una delle più nervose è Maria Agnese Catini, presidente della commissione Politiche sociali: «Virginia così ci sta rovinando», l’hanno sentita dire al gruppo. E lo stesso Ferrara, in privato, si è sfogato: «A fare brutte figure non ci sto». Ma fino al tagliando voluto da Grillo, il tentativo è silenziare le polemiche.
Ernesto Menicucci
Corriere 17.9.16
Trieste e la piazza violata due volte
Il Comune vieta la commemorazione delle leggi razziali proclamate da Mussolini nel ‘38
di Claudio Magris

Il 18 settembre 1938 Benito Mussolini proclamò le leggi razziali in piazza Unità — Unità d’Italia — a Trieste. Negare quella piazza per una commemorazione dell’evento, col pretesto della manifestazione che dovrà svolgersi lì cinque giorni dopo, è un autogol che n eanche i più accaniti oppositori dell’attuale giunta di centrodestra avrebbero potuto augurarsi. Piazza Unità è stata così violata due volte.
N eanche i più accaniti oppositori dell’attuale Giunta Comunale di centrodestra che governa Trieste avrebbero potuto augurarsi un autogol da parte di quest’ultima come il divieto di tenere in Piazza Unità — Unità d’Italia — la commemorazione delle leggi razziali proclamate da Mussolini in quella piazza il 18 settembre 1938. Il ricordo e la condanna di quell’infamia non appartengono alla destra o alla sinistra. Quel giorno è stato un’ingiuriosa rovina per l’Italia. Il fascismo, la cui politica negli anni precedenti non era stata priva di alcuni elementi anche positivi pur nel quadro inaccettabile di un regime totalitario, in quel giorno si asserviva e asserviva il Paese alla più nefasta e criminale politica del nazismo, l’antisemitismo estremo; abdicava all’autonomia e alla dignità dell’Italia e si avviava a un destino di dolore e di morte. Quelle leggi razziali colpivano una comunità che si era fra l’altro distinta per il suo patriottismo, fin dai tempi dell’irredentismo, e per il suo amore per l’Italia. Nella confusione di quegli anni non erano neppure mancate, in quella comunità come in altre, adesioni convinte al regime fascista. Non si capisce proprio questa decisione dissennata, malamente mascherata col pretesto della manifestazione «Next» che dovrà svolgersi in quella stessa piazza cinque giorni dopo. Piazza Unità è stata così violata due volte. In latino — lingua che non è di sinistra — si dice: «Quos Deus perdere vult dementat, Dio fa perdere la testa a chi vuol condurre a rovina».
La Stampa 17.9.16
Scuola, il giudice annulla il trasferimento di una docente dalla Puglia in Friuli
di Flavia Amabile

No al trasferimento: la prof ha i figli troppo piccoli e dovrebbe affrontare spese eccessive. Anche i giudici iniziano a dare ragione a docenti e sindacati che sottolineano l’ingiustizia dell’algoritmo che sta costringendo un esercito di circa 20mila persone a fare le valigie e trasferirsi a centinaia di chilometri di distanza da casa. L’ultima sentenza è arrivata dal giudice Giuseppe Di Trani che ha revocato il trasferimento di una docente dalla Puglia in Friuli. Ma un provvedimento analogo era stato deciso dieci giorni fa a favore di una maestra salernitana a cui era stata assegnata una cattedra in Emilia Romagna. In quel caso il trasferimento era stato annullato perché, secondo il giudice del lavoro di Salerno Ippolita Laudati, i provvedimenti erano illegittimi e lesivi: la maestra sarebbe stata scavalcata senza motivo da colleghe con punteggio inferiore.
Sono già due nel giro di pochi giorni le sentenze favorevoli agli insegnanti che si oppongono ai trasferimenti. Nell’ordinanza che ha dato ragione alla docente pugliese si legge che «la lontananza, in particolare dai due figli, comporta per la madre l’impossibilità di provvedere ai loro immediati bisogni, con danno ingiusto alla formazione e allo sviluppo della personalità dei minori e inevitabili ricadute negative su tutta la famiglia».
«Non vanno sottaciute - prosegue il giudice - le gravi difficoltà anche di natura economica derivanti dall’assegnazione di una sede di servizio incompatibile con l’attuale residenza». Secondo l’avvocato Graziangela Berloco, è «una vittoria che restituisce serenità e speranza a centinaia di donne e di uomini costretti ad abbandonare casa, figli e affetti pur di lavorare, e pur avendo il diritto di ricevere una sede più vicina». «Abbiamo già notificato l’ordinanza del giudice al ministero - precisa il legale - ragione per cui dovrà abbandonare la scuola del Friuli per fare ritorno in Puglia».
Il Fatto 17.9.16
Anpi Emilia Romagna
“Per colpa di Renzi i partigiani non voteranno più il Pd”
“NON CI È PIACIUTO l’atteggiamento che ha avuto Renzi durante il dibattito con Carlo Smuraglia (il presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, ndr), quello di chi vuole schiacciare l’avversario con tutti i mezzi. Non certo un atteggiamento di dialogo. Molti iscritti mi hanno detto la stessa cosa e mi hanno fatto sapere che, dopo aver visto il comportamento di Renzi, non voteranno più il Pd". A dirlo, all’indomani del confronto sul referendum costituzionale tra il premier e Smuraglia durante la festa dell’Unità di Bologna , è la presidente dell’Anpi Emilia-Romagna, Anna Cocchi. "Sono soddisfatta, però prosegue -, perché non c'è stata nessuna grave contestazione e perché è stato il dibattito più partecipato di tutta la Festa dell’Unità, almeno finora". Nel pubblico, c’erano almeno 4mila persone, nonostante piovesse. "Siamo contenti aggiunge Cocchi che Smuraglia abbia potuto illustrare le ragioni del No a cui solitamente non viene dato tanto spazio. Ha dimostrato anche qual è lo stile dell’Anpi che non va contro nessun partito né cerca alleati politici ma il sostegno di altri mondi come quello dell’associazionismo".
il manifesto 17.9.16
Il confronto con l'Anpi
Per Renzi «è andata bene». Ma stavolta sa che non ha vinto
Smuraglia: dal premier cadute di stile ma ho evitato di eccitare gli animi
Il partigiano dà una lezione di «merito» e smonta la coppia vecchio-nuovo
Il leader invita i contestori a «prendere una camomilla»
di A. Fab.

ROMA Quando Matteo Renzi aveva sfidato Carlo Smuraglia invitandolo a un confronto pubblico sulla riforma costituzionale, e il presidente dell’Anpi dopo aver ottenuto qualche minima garanzia (essenzialmente il conduttore, Gad Lerner) aveva accettato, anche di recarsi ospite alla festa del Pd bolognese, in molti avevano giudicato la scelta del novantenne Smuraglia al limite dell’azzardo. Conoscendo la parlantina di Renzi. Invece ha avuto ragione lui. Il dibattito di giovedì sera testimonia che in politica anche il più ardito castello di parole ha bisogno di qualche argomento nelle fondamenta. E verità e propaganda si possono distinguere persino nell’epoca degli spin doctor e delle enews.
Anche i commenti del giorno dopo dei due protagonisti lo confermano. «Nel dibattito ho insistito molto sul merito delle riforme, Renzi ha preferito parlare più volte di politica e dei meriti del governo, anche per riscaldare i suoi fan già agguerriti». Ha detto Smuraglia. «È molto chiaro che chi vuole cambiare vota sì e chi vuole lasciare le cose come sono vota no», ha proseguito nello spot Renzi. E poi si è preso i meriti: «Dimostriamo che c’è la possibilità di dialogare e discutere civilmente e pacatamente». Per restare pacato e civile non ha fatto l’imitazione di Smuraglia come fa quella di D’Alema.
Ma il presidente dell’Anpi, dopo aver riconosciuto l’accoglienza affettuosa riservatagli «anche da parte di alcuni che si dichiaravano per il Sì», caparbio, non ha rinunciato nemmeno ieri alle puntualizzazioni. «Ho registrato con rammarico e con un po’ di intima indignazione una caduta di stile», ha scritto per il sito dell’Anpi, e cioè la riproposizione anche da parte di Renzi della «stantia distinzione tra partigiani veri (quelli che votano Sì) e partigiani meno meritevoli e meno veri (a cominciare da me) per il solo fatto che votano No». Renzi non lo ha detto chiaramente, come aveva fatto la ministra Boschi, ma sul palco di Bologna ha fatto un piccolo elenco di partigiani per il Sì, citando ancora una volta la figura mitica del comandante Diavolo, il 97enne Germano Nicolini, deciso a votare per la riforma costituzionale. «È stato di cattivo gusto ed ha irritato molti degli iscritti all’Anpi presenti», ha detto Smuraglia, che invece per tutta la serata ha ripetuto di non volersi intromettere nelle vicende interne al Pd, evitando qualsiasi riferimento al dibattito sul Sì e sul No all’interno del partito. Ed evitando persino di coinvolgere il governo, il cui destino ha ricordato non può essere legato al referendum ma solo alla fiducia del parlamento. Un’altra bella lezione che Renzi ha colto al volo quando, poco dopo, ha risposto a una contestatrice in un modo che è apparso contraddittorio con i ripetuti annunci di dimissioni in caso di sconfitta: «Solo il parlamento può mandarmi a casa».
Di fronte alla «caduta di stile» e al «cattivo gusto», ha detto Smuraglia, «ero stato tentato di reagire vivacemente sul palco, ma ho preferito evitare di eccitare gli animi». Eppure ha vinto lo stesso la sfida. Non solo, e non tanto, nel conto degli applausi della platea. Ma sul palco, per la capacità di restare serenamente aggrappato ai suoi argomenti. Mentre Renzi litigava con i contestatori invitandoli a «prendersi una camomilla» o si incazzava con la festa dell’Unità e con il mondo fuori che vuole «salvare le tutte le poltrone dei politici», Smuraglia avvertiva di non avere problemi di contraddittorio: «Fischiatemi pure, non mi farete tacere». Ma hanno fischiato di più l’altro.