sabato 7 dicembre 2013

l’Unità 7.12.13
Il Forum dell’Unità: Pippo Civati
«Chi vuole andare alle urne scelga me»
di Rachele Gonnelli

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Repubblica 7.12.13
Civati
“Se domani nessuno vince in assemblea non voterò”

E incassa il sì di Rodotà
di Antonio Fraschilla


PALERMO — «D’Alema dice che sono come l’Aids, “se lo conosci lo eviti” e aggiunge pure che sarei “un pericolo per il Paese”. Mi pare che sia un po’ nervosetto, ma lo ringrazio: con queste sue uscite mi aiuterà a vincere. E se accadrà cambiamo classe dirigente e andiamo a votare subito». Pippo Civati sceglie il Sud nel finale della sua compagna per la corsa a segretario dei democratici e da Palermo, penultimo appuntamento prima della chiusura oggi a Cagliari, lancia un appello «a chi ama davvero questo Pd». Mettendo a segno alcune stoccate anche a Renzi: «Fuori luogo le sue frasi su Bersani quando dice che “lui non parla dei morti”, io non sono mai stato bersaniano ma non mi piace scaricare tutte le colpe su una sola persona». E comunque il deputato di Monza annuncia che se alle primarie nessuno arriva al 50%, lui all’Assemblea nazionale non offrirà i suoi voti né al sindaco né a Cuperlo. «Sarò piccolo ma mi tutelo..».
Civati è molto felice per aver incassato a pochi metri dall’arrivo il sostegno di Stefano Rodotà: «Ben prima delle vicende dell’ultimo anno, proprio con Pippo era nata una collaborazione che davvero mi auguro possa continuare nel modo più intenso e utile per tutti, la sua è la politica del coraggio e dello sguardo sul futuro», scrive Rodotà in un messaggio pubblico. «Queste parole per me sono davvero molto importanti, come lo è la decisione di Romano Prodi di prendere parte alle primarie — dice Civati — non siamo interessati a conoscere il voto che esprimerà, ma la sua partecipazione è di certo un grande successo per il Pd che vuole cambiare. Dopo aver mancato l’elezione dalla presidenza della Repubblica, e con lui avremmo evitato queste larghe intese, siamo stati gli unici a insistere per recuperare la sua delusione».
Il deputato annuncia anche il suo candidato ideale alla presidenza del Consiglio («Penso che Fabrizio Barca sia figura straordinaria», dice) e assicura che con lui «cambierà la classe dirigente del Pd»: «Renzi in Sicilia ha fatto un’operazione di grande archeologia ripescando vecchi, anzi vecchissimi, uomini del Pd, mentre in Campania ha messo sullo stesso fronte Bassolino e De Luca — dice — noi invece non abbiamo fatto accordi con nessuno. Non abbiamo ripescati e vecchie proposte, ma un nuovo gruppo dirigente in cui ci riconosciamo».
Il punto centrale del suo programma è il ritorno al voto per mettere fine alle larghe intese: «L’intesa Alfano-Letta vorrei che si sciogliesse e che si tornasse a fare la destra e la sinistra. Con quale sistema di voto? Il Mattarellum sono disposti a votarlo anche Sel e i Cinque stelle. La soluzione c’è già senza perdere troppo tempo, di sicuro dobbiamo difendere il maggioritario ed evitare altre derive che riportino il Pd al governo con Berlusconi, che comunque almeno i voti ce li ha, oppure con il Nuovo centrodestra di Alfano e Formigoni che non hanno nemmeno quelli». Civati quindi si dice convinto di poter fare un brutto scherzo a Renzi e Cuperlo: «Non so a chi cavolo telefonano quando fanno i sondaggi, io sento che i dati sono diversi. Quando ti fermano ogni cinque metri capisci che c’è qualcosa che si sta muovendo». E lui adesso ci spera: «Possiamo farcela».

Repubblica 7.12.13
La falsa intervista che fa più spettacolo
di Giovanni Valentini


L’UNICO modo per rispondere a domande senza risposta è formulare un’altra domanda.
(da “Argento vivo” di Marco Malvaldi – Sellerio, 2013 – pag. 115)
Stasera, dunque, non vedremo e non ascolteremo Pippo Civati a “Che tempo che fa”. Dopo aver intervistato Matteo Renzi e Gianni Cuperlo nella sua trasmissione su Rai Tre, Fabio Fazio non ha ritenuto di invitare anche il terzo concorrente alle “primarie” del Pd. E così il servizio pubblico televisivo offre ancora una volta un disservizio, violando una regola fondamentale di correttezza e imparzialità che deriva estensivamente dal principio dellapar condicio.
In base ai pronostici, appare difficile che domani Civati possa vincere le “primarie” del suo partito. Probabilmente non le avrebbe vinte comunque, neppure partecipando a “Che tempo che fa”. Ma la sua arbitraria esclusione lascia un margine di dubbio che è sufficiente, da solo, a inficiare questa discriminazione: tanto più ingiustificabile se confrontata con la scelta di Sky Tg 24 che ha invitato tutti e tre i candidati contemporaneamente.
Si dirà che è una questione di ascolti e quindi di pubblicità. Ma proprio qui sta il problema che abbiamo posto e riproposto tante volte a proposito della Rai. Una tv pubblica non può essere “schiava dell’audience”; non deve subordinare cioè la sua programmazione alla legge delloshare, tantomeno quando si avventura a parlare di politica. Altrimenti, rinnega se stessa, il proprio ruolo e la propria missione istituzionale.
È vero che per questa ragione Fazio e tanti altri conduttori, per metà giornalisti e per metà “comunicattori” (con due “t”), riscuotono compensi milionari in funzione della raccolta pubblicitaria: e a parte i toni esagitati, non ha tutti i torti il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, quando chiede alla Rai maggiore trasparenza su certi maxi-contratti. Ma è la logica del cane che si morde la coda. E se Civati non fosse stato ospitato a “Che tempo che fa” per il timore di un calo degli ascolti, com’è ipotizzabile, allora neppure gli altri due candidati alle “primarie” avrebbero dovuto essere invitati.
Il fatto è che anche all’origine di questo increscioso episodio c’è l’oggettiva ambiguità del cosiddetto infotainment, il genere televisivo di informazione-spettacolo che spesso non riesce a fare informazione e a volte nemmeno spettacolo. Il talk show ne rappresenta la massima espressione, con tutte le distorsioni politiche e mediatiche della piazza (o della rissa) televisiva. Eppure, quella di Fazio vuol essere una trasmissione di approfondimento, più riflessiva e pacata, sebbene anch’essa ceda ogni tanto alle tentazioni dello spettacolo, per fare ascolti e racimolare spot: com’era già accaduto, per esempio, con Diego Armando Maradona e il suo sconveniente “gesto dell’ombrello” nei confronti del fisco, rimasto senza una tempestiva replica in diretta e anzi accolto dagli applausi del pubblico in studio. Né si può pensare di risolvere la questione del servizio pubblico radiotelevisivo, trasferendone il controllo dal ministero dell’Economia a quello dei Beni culturali, come vagheggia ora il ministro Massimo Bray con una buona dose d’improvvisazione: per essere affrancata dalla politica, la Rai deve passare finalmente dalle mani del governo (e cioè dei partiti) a quelle dei cittadini.
In tutto ciò, alla fine la figura migliore l’ha fatta proprio Civati, parzialmente risarcito poi da un’ampia intervista di Monica Maggioni su Rai News 24. Nella convention dei suoi sostenitori, il “terzo incomodo” ha rinunciato alla consueta litania della protesta e della lamentela, per allestire un finto set di “Che tempo che fa” e mettere in scena una falsa intervista in cui ha risposto diligentemente alle stesse domande che Fazio, riprodotto come un fantasma su un maxi-schermo, aveva rivolto in precedenza ai suoi due antagonisti. Chapeau bas!
Forse non vincerà le “primarie” e non diventerà segretario del Partito democratico, il giovane Civati. Ma certamente ha stoffa e capacità di comunicazione. E l’ha dimostrato anche in questa circostanza, rispondendo con efficacia esense of humour a domande che non gli erano state poste. Il suo contributo sarà senz’altro utile alla futura leadership del Pd.

il Fatto 7.12.13
Il Vaticano nasconde all’Italia migliaia di evasori fiscali
E il governo mette la dogana al "confine"

L’Autorità d’informazione finanziaria della Santa Sede si rifiuta di collaborare con l’Agenzia delle Dogane e nega il lungo elenco di persone che hanno prelevato importi consistenti in contanti dallo Ior. Il sospetto è che ci siano anche riciclatori di denaro sporco
Il Fatto Quotidiano solleva il caso delle informazioni negate dalla Santa Sede su possibili evasori fiscali e riciclatori. E il governo, nella risposta a un'interrogazione del Movimento Cinque Stelle, "ravvisa l’opportunità" di "un’attivazione di misure di attenzione sul territorio adiacente i punti di entrata e di uscita con lo Stato della Città del Vaticano, attesa l’assenza di barriere fisiche e di uffici di confine tra i due Stati"
di Marco Lillo
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il Fatto 7.12.13
Evasione Fiscale, nessun controllo sui flussi di denaro tra Vaticano e Italia

Paolo Cipriani, ex direttore dello Ior, insieme al suo vice, Massimo Tulli sono indagati per violazione delle norme formali antiriciclaggio, sono stati interrogati dai pm della Procura di Roma. Al centro dell'inchiesta le operazioni sospette della banca vaticana per il trasferimento di 23 milioni di euro nel 2010 da un istituto italiano a un altro
di Marco Lillo e Valeria Pacelli
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il Fatto 7.12.13
Fox News “Francesco distruggerà la Chiesa”


Papa Francesco si rivelerà una delusione, proprio come Barack Obama”. Così l’americana Fox News, emittente conservatrice di Rupert Murdoch, prende posizione anti-Bergoglio sul sito internet, con un articolo del giornalista Adam Shaw: “Molta della sua popolarità è dovuta alla sua ‘compassione’ e ‘umiltà’, ma baciare e abbracciare i bambini malati non è una grande novità”. Mediaticamente funziona, ma per l’emittente di Murdoch, il papa “sta suonando la ritirata per la Chiesa cattolica, assicurandosi le sue dottrine più controverse siano sussurrate e non urlate”. Sotto accusa l’approccio “soft” nei confronti della laicità e del relativismo, che riporta la Chiesa al Concilio vaticano secondo. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno provato a invertire rotta, dopo aver constatato che i conventi si svuotavano e i preti diminuivano, perché la teoria di aprire la Chiesa al mondo moderno si è rivelata controproducente. Per Shaw Francesco ha nuovamente invertito la tendenza. Abbassa la voce contro “i nemici” e abbandona gli amici, chiosa il giornalista americano. Proprio come ha fatto Obama, freddo con Inghilterra e Israele e troppo mansueto con Putin. La Fox punta il dito contro alcune dichiarazioni del pontefice, che non ha condannato fermamente il comunismo. Il rischio, per Shaw, è che Bergoglio si riveli “un disastro”.

Corriere 7.12.13
Croce vietata nella Tv norvegese
Il politicamente corretto della fede
di Marco Ventura


Attente ai regali di vostro marito, se siete giornaliste della tv pubblica norvegese. Soprattutto se il regalo è una collana da cui pende una croce d’oro decorata con brillanti neri; soprattutto se indossate la collana mentre leggete le news. Siv Kristin Saellmann non immaginava le conseguenze. Molti spettatori hanno chiamato per protestare, in nome della neutralità religiosa dello Stato. La direzione della Nrk, il canale televisivo pubblico per cui lavora la Saellmann, ha chiesto alla conduttrice di non portare la croce davanti alle telecamere. Siv Kristin si è detta dispiaciuta di aver messo a disagio parte del pubblico: ha indossato la collana unicamente per il suo valore spirituale e sentimentale, non intendeva provocare. Anche se la direzione dovesse cambiare linea e ammettere in futuro i segni religiosi, ha dichiarato la giornalista, lei non indosserà più la croce in trasmissione.
Nella Norvegia del post massacro di Utøya la religione è particolarmente sensibile. Il Parlamento ha avviato il processo che dovrebbe portare alla fine della Chiesa luterana di Stato. La divisione del Paese sull’islam, e sul cristianesimo politico, scorre in profondità sotto la superficie della competizione tra destra populista e progressisti. Tuttavia, il tam tam del mondo globale sottrae la vicenda di Siv Kristin Saellmann al suo contesto. La piega alle emozioni e alle strategie. Mentre cresceva la protesta contro la Norvegia dei difensori di croce, turbante sikh e velo islamico, si svolgeva a Strasburgo una drammatica udienza davanti alla Corte dei diritti dell’uomo, in cui i governi francese e belga difendevano le proprie leggi anti-burqa in vista di una sentenza, attesa nel 2014, che sarà non meno importante di quella del 2011 sul crocifisso italiano.
Impossibile trovare coerenza tra norme e principi, pubblico e privato, territorio e onde planetarie. Impossibile dominare i simboli. Lo ha compreso sulla sua pelle Siv Kristin Saellmann. Che potrà slacciarsi la croce dal collo. Ma non potrà togliersi di dosso il valore di simbolo che ha ormai assunto la sua stessa persona.

Repubblica 7.12.13
Viaggio alla ricerca del Paese smarrito
di Guido Crainz


NEL Rapporto del Censis sul 2013 diversi piani sembrano intrecciarsi, in parte contraddirsi o comunque offrirsi ad una riflessione problematica.
La sottolineatura della gravità della crisi si intreccia infatti allo sforzo di individuare le possibilità di ripresa («il crollo atteso da molti non c’è stato (…) serpeggia una silenziosa constatazione che “ce l’abbiamo fatta”»). E la segnalazione della ambiguità di alcune “evidenze” (l’avvicinarsi del Paese al baratro, la “stabilità” come salvifico antidoto, l’inadeguatezza della classe dirigente) si accompagna alla denuncia del “vuoto di classe politica, di società civile e di leadership collettiva”. O alla constatazione che un “interventismo pedagogico” ha semmai “accentuato la fatica del vivere quotidiano e la mancanza di speranza per il futuro”.
Il Rapporto è indubbiamente molto franco sul deteriorarsi della realtà del lavoro, “emergenza nazionale”, e dei consumi. Il 2013 infatti “ha fatto venir meno la speranza” che la crisi del mercato del lavoro “possa essere breve e per certi versi contenibile”: “la sensazione che il peggio debba ancora venire accentua la dimensione di incertezza e paura”, in un disagio che si allarga ben oltre le fasce giovanili. Sono altrettanto eloquenti i dati sui consumi, ove la “sobrietà” rispetto a precedenti e non virtuosi modelli di consumo è intessuta di sacrifici talora pesanti, dall’alimentazione agli stili di vita. E ove cresce la protezione offerta di necessità dalle reti familiari o da quelle costituite da amici e conoscenti. Anche il trend dei consumi, insomma, ci parla di un Paese smarrito e profondamente fiaccato. Ci ripropone quell’erosione del “grande lago del ceto medio, storico perno della coesione e dell’agiatezza sociale” su cui si era soffermato il Rapporto dello scorso anno. Il Rapporto delle tre R: risparmio, rinuncia, rinvio.
Eppure, osserva il Censis con una torsione, “il crollo non c’è stato” e occorre semmai chiedersi quale realtà sociale abbiamo di fronte dopo la lunga fase segnata dalla necessità di sopravvivere. Prima di indicare possibili vie d’uscita il Rapporto non manca neppuredi segnalare alcuni “non entusiasmanti orientamenti di psicologia collettiva”. Da un lato laprogressiva perdita di quel “fervore del sale”, di quella capacità di dinamismo che ha costituito ilmotore del nostro sviluppo nella seconda metà del Novecento (insidiato ora da eccessi di furbizia, disabitudine al lavoro, immoralismo). Dall’altro un malcontento connesso al “grande e inatteso ampliamento” delle diseguaglianze sociali: un’Italia “sciapa e malcontenta” al tempo stesso, dunque.
Ma davvero è scomparso del tutto il fervore che aveva innervato il nostro sviluppo? Così non è, osserva il Censis rivolgendosi in primo luogo a quel “capitalismo molecolare” che è stato tradizionalmente al centro della sua attenzione e che non sembra aver smarrito tutte le proprie potenzia-lità: non in grado di avviare da sole, oggi, una nuova fase ma capaci di reagire positivamente a ulteriori stimoli. Vi aggiunge poi alcuni processi “in lenta emersione” come il crescere dell’imprenditorialità femminile o della presenza imprenditoriale e sociale degli immigrati. O il ruolo dei sempre più numerosi italiani, spesso giovani, che vivono all’estero per differenti ragioni e che possonorafforzare la nostra presenza nella “grande platea della globalizzazione”. E vi sono infine processi che possono offrire nuove opportunità di impresa, dalla revisione del welfare all’economia digitale.
Quale può essere però il filo rosso capace di agire da motore decisivo in tutti questi campi? Qui il Rapporto cala la sua parola chiave, connettività: cioè una capacità di relazione e interazione dal basso di cui si segnala già il manifestarsi e il procedere. Una “connettività orizzontale” tradizionalmente contrastata da tratti portanti del nostro vivere, dall’egoismo particolaristico alla “contrapposizione emotiva”: proprio essi però hanno accentuato la nostra crisi, e da qui può dunque prender avvio un ripensamento profondo e fecondo. Ipotesi suggestiva, certo, anche se l’auspicio sembra prevalere sull’analisi e trova al tempo stesso corposi ostacoli proprio in quella pesantezza della situazione che impronta di sé le parti centrali del Rapporto.

La Stampa 7.12.13
Il rapporto Censis
“Via dall’Italia 106 mila giovani l’anno”
L’istituto di ricerca: dal 2007 fughe raddoppiate. Cittadini esausti, è un Paese “sciapo e infelice”
di Raffaello Masci

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Repubblica 7.12.13
Prato, è tempo di diritti civili
di Enrico Rossi

Governatore della Toscana

Caro direttore, la risposta ai problemi del distretto cinese delle confezioni di Prato sarebbe concedere con gradualità la cittadinanza ai lavoratori stranieri. In Italia Mandela piace a tutti. Tutta la sua vita fu dedicata al processo di emancipazione e riconoscimento dei diritti civili per la popolazione esclusa dall’apartheid, ma mentre tutti in Italia lo piangono in tema d’immigrazione e di diritti di cittadinanza ci si ispira ancora al pensiero di Bossi e Fini. Non solo da parte della politica, ma anche dei media e di alcuni intellettuali il cui silenzio è pesante. Se si procedesse a concedere la cittadinanza ai lavoratori stranieri del distretto è certo che quei 2 miliardi di euro che secondo le stime dell’Irpet i cinesi producono a Prato prenderebbero assai meno le vie della Cina, dell’evasione e dell’illegalità. I lavoratori cinesi diventerebbero cittadini come tutti. Troverebbero il coraggio d’iscriversi ai sindacati e denunciare i loro sfruttatori, mentre gli imprenditori onesti si sottrarrebbero al racket, investirebbero qui e pagherebbero le tasse. A risentirsi per primo sarebbe forse proprio il governo cinese che perderebbe entrate importanti in moneta forte, e a seguire le associazioni criminali che speculano su questo mare di soldi e illegalità. Proviamo a fare due conti. Dei due miliardi stimati almeno uno è il frutto di evasione, lavoro nero e sfruttamento disumano. Prodotto di una filiera senza controllo e di fughe di capitale fuori dall’Italia. Un’inchiesta recente ha ipotizzato che ogni giorno un milione di euro parte da Prato attraverso i “money transfers” e che dal 2006 al 2011 questo flusso di rimesse è stato pari a 1,5 miliardi di euro. Altri stimano che di tutto il giro di affari che ruota attorno al distretto cinese di Prato solo il 10% è legale e che le oltre 3.000 imprese del pronto moda importano il 90% dei tessuti di base dalla Cina. Al termine di questo processo i milioni di capi prodotti ogni settimana e in poche ore vengono etichettati come “made in Italy” e smerciati per il 70% in Europa e in altri paesi del mondo. In pratica, Prato e la Toscana ospitano in casa un ciclo integrale delle confezioni extraterritoriale, di cui resta ben poco in termini di utili e benefici occupazionali e fiscali. Per di più tutto questo ciclo fa parte quasi interamente della bilancia commerciale cinese. I controlli sono necessari ma una realtà così vasta non può essere cancellata con un colpo di penna o con la repressione militare. Il tempo della globalizzazione non può essere fermato e non torna indietro. Che cosa vuole fare l’Italia? Penso che una soluzione per risolvere questa grande emergenza umanitaria e questo intricato groviglio economico sociale passa dalle scelte che questo governo farà in materia di cittadinanza e integrazione. Scelte da porre accanto ai rapporti commerciali e internazionali con la Cina. Per trovare una via d’uscita a questa situazione è sufficiente rovesciare il punto di vista, trasformare il problema in una grande opportunità. In un libretto intitolato “Una nazione di immigrati” John Kennedy dice che gli Stati Uniti sono diventati grandi e potenti grazie ai diversi flussi migratori che hanno reso unica l’identità americana. Non posso fare a meno di pensare che la presenza dei cinesi a Prato può diventare una grande ricchezza per la Toscana e per l’Italia.

Repubblica 7.12.13
Il manganello dei grillini
di Francesco Merlo


HA LANCIATO la prima fatwa contro una giornalista e adesso tutti devono insultare, sbertucciare e molestare la signora Maria Novella Oppo che scrive (bene) sull’Unità. E domani è già previsto un altro wanted, un ricercato nuovo. Più precisamente sul blog di Beppe Grillo ci sarà un giornalista al giorno da lapidare. «Segnalateli» è infatti l’ordine testuale del leader populista: sfogatevi, colpiteli, prendeteli.
Nel blog, con la sua solita prosa malata, scrive «sputtaniamoli» per spiegare il senso della rubrica che ha appena inaugurato e che ha intitolato “Giornalista del giorno”.
Ebbene, nel recente passato uno così caricaturale ed esagerato lo avremmo liquidato con un coro di “scemo scemo” magari davanti a casa sua, sulla spiaggia di Bibbona. Insomma, non lo avremmo preso troppo sul serio. Era stato del resto Dario Fo a spiegarci che le sue sparate, il suo parlare per eccessi, per iperboli, per sberleffi e anche per insulti fegatosi e per minacce era in fondo teatro, opera buffa, metafora, linguaggio smodato e maleducato che qualche volta può anche essere necessario. Per la verità Dario Fo non era convincente, ma in molti pensavamo che gli spasmi biliosi e la patologia ossessiva di Grillo non avrebbero certo contagiato un Paese sano, una democrazia matura e neppure il web che il leader del malumore cerca sempre più di ridurre a un cortile dove, come le lavandaie di una volta, i suoi garzoni sbraitano contro tutti; o come i muri delle latrine dove il primo che arriva scrive le proprie porcherie.
Ma oggi questo strampalato Grillo, che farnetica di assalti e di vendette, sta diventando troppo minaccioso e il suo incitamento all’offesa persecutoria contro i cronisti e gli opinionisti è ormai una forma di teppismo politico. E infatti non è insorto solo Enrico Letta lanciando in un tweet «la solidarietà per Maria Novella Oppo schedata e lapidata verbalmente da Grillo». Questa volta persino il nonno nobile del grillismo, lo stesso Dario Fo, intervistato dal quotidiano “Europa” si è dissociato: «Non mi piace. Non accetto un linguaggio di questo genere». Dario Fo dice pure, attenuando il suo disagio, di conoscere un Grillo «più sottile e ironico» e conclude che forse «non l’ha scritto lui, ma qualcuno che lavora nella comunicazione». E mi ricorda «la colpa è del portavoce», vale a dire il ritornello della più trita tradizione del peggiore politichese. In realtà è lo stesso spurgo che, il mese scorso, spinse la senatrice Paola Taverna a rassicurare i propri adepti con una frase agghiacciante su Berlusconi: «Un giorno di questo gli sputo». E le scuse successive suonarono come un’aggravante. Si giustificò infatti dicendo: fuori parlo così. Significa che c’è qualcosa di peggio dell’orrore che Grillo ha mandato dentro il palazzo della politica; significa che c’è un fuori dove si deposita altro orrore.
Come si vede i tempi sono più propizi alla violenza che alla ragione e il furore sta trasformando gli ex ingenuotti del Movimento 5 stelle in funzionari fanatici. Sembrano gli arditi con il web tra i denti al posto del pugnale. Il loro codice di rapidità e di fuoco diventa sempre più eversivo e , se ci fate caso, orecchia in modo sorprendente il vocabolario marinettiano, quello della guerra in Etiopia. Vediamolo. «La Corte ha i tempi di un gasteropode». «I giornalisti sono paraculai dei giornalai di regime». È tutto un «pirotrone». Esplode «lo sterco secco». Zirla «il cuculus canorus». Si propaga «la pippite» tra «i catafalchi». «Il ballista d’acciaio»metallizza «le scimmie instancabili». E intanto turbinano i «vaffa» e i «siete ominicchi e prendinculo». E sono «illegittimi» il Parlamento, il governo, il Presidente della Repubblica, le elezioni, la Corte Costituzionale, le istituzioni e, prima di tutti, i cronisti che non criticano ma «diffamano», non raccontano ma «servono i partiti» e presto saranno licenziati e dovranno trovarsi un lavoro: «Tutto finirà in una combustione politica spontanea». Ora ditemi se questa non è la digitalizzazione grottesca e caricaturale del futurismo di guerra, ma senza la cultura che pur sempre gli stava dietro: Boccioni, Carra, Severini, Russolo, Slataper e Palazzeschi. Pensate adesso ai balbettii, anzi ai “borborigmi” di Casaleggio, del professore Paolo Becchi, di Vito Crimi e della Lombardi.
Certo anche io sono un giornalista e non mi fa piacere che già domani potrei essere esposto (ancora una volta) alla gogna. Ma è giusto ricordare che gli ultimi elenchi di giornalisti, le ultime schedature di «obiettivi sensibili», le hanno fatte in Italia quelli che poi, dopo qualche anno, aspettarono in via Solferino Walter Tobagi. E, a ritroso, i camorristi che inseguirono la Mehari di Giancarlo Siani e i mafiosi che pedinarono Pippo Fava sino alla sede del teatro stabile di Catania. È vero che Grillo non è ancora terrorista né camorrista né mafioso. Sempre più però il suo codice di violenza, i suoi roghi, le sue scomuniche, i suoi avvertimenti, i suoi manganelli foscamente rimandano alla “sgrammatica” dei terroristi, dei camorristi,dei mafiosi.

il Fatto 7.12.13
Prc a congresso Per una sinistra autonoma dal Pd


I CACCIA bombardieri F-35 debbono essere cancellati dal programma di governo e noi non faremo “l'ala sinistra” di chi si batte per mantenerli. Così Paolo Ferrero, aprendo il congresso del Prc, rimarca la differenza tra Rifondazione e i Democratici e rilancia il progetto di una nuova sinistra autonoma. "Va costruita una sinistra che abbia piena autonomia dal Pd che sta facendo politiche di destra e sceglierà il nuovo segretario probabilmente tra un ex democristiano come Renzi, che di sinistra non ha nulla”.
   Nella platea di Corciano, a due passi da Perugia, pochi sono stati gli ospiti degli altri partiti. Volontariamente disertori quelli di centrodestra, scarsa la formazione opposta. Presente, puntualmente, il delegato di Sel. Per Ferrero “nel nostro Paese la sinistra c'è, è diffusa sul territorio, ma bisogna metterla insieme con un soggetto che cresca dal basso. Vogliamo un ciclo di volti nuovi”. La distanza quasi glaciale dalla sinistra rappresentata in Parlamento è confermata dalle critiche severe di Ferrero a Giorgio Napolitano, il cui ruolo ha definito “devastante, fuori dalla Carta costituzionale”.

l’Unità 7.12.13
Tra i «tagli» di Fontana
La sorpresa nel catalogo è la quantità di disegni
di Giuseppe Montesano


COME POSSONO LE ESOTERICHE E EROTICHE VISIONI DI KLIMT E REDON, LE BALLERINE E LE DONNE QUASI CONTORSIONISTE MA SUBLIMI DI DEGAS, le amanti e madri al bagno di Cézanne e le danzanti divinità femminili di Matisse trasformarsi in qualcosa che non è più figura femminile o maschile ma solo un tratto di inchiostro, di penna, di acquerello, di grumo che evoca su un foglio bucherellato o tagliato quelle figure più vere del vero che sono scomparse e che potrebbe riapparire in ogni istante ma ormai completamente diverse? Non si sa, ma è ciò che ha fatto accadere Lucio Fontana misteriosamente: come ci dimostra in maniera imperiosa e persino choccante Fontana, una pubblicazione straordinaria che raccoglie il catalogo ragionato delle opere su carta di circa 5500 disegni di Lucio Fontana di cui trecento in formato grande, pubblicato da Skira a cura di Luca Massimo Barbero, con Nini Ardemagni Laurini e Silvia Ardemagni, la prefazione di Enrico Crispolti e il sostegno della fondazione Lucio Fontana. Ma è il saggio di Barbero a mettere nella sua luce più complessa e rivoluzionaria questa massa enorme di schizzi per decorazioni di architetture, monumenti cimiteriali, sculture e ceramiche, schizzi per gli «ambienti spaziali» e per i «concetti spaziali», fogli di quaderno, carta da disegno, carta telata, cartoncini, e poi inchiostri, penne a sfera, acquerelli, tempere, grumi di pittura a olio, e ciò che si vede ma non c’è: i buchi e i tagli. E certo in una produzione che include tutti gli andirivieni di Fontana disegnatore, la sorpresa più grande è la quantità di opere figurative, non solo giovanili, ma parallele alle esplorazioni degli anni ’30 sull’astrazione e addirittura nate dopo aver violato le tele con i buchi per la prima volta nel 1949, a cinquant’anni, e poi nel 1959 con i tagli. Quanto è stato lento e lungo il cammino di Fontana per arrivare a Fontana! E questo corpus non racconta solo l’ostinata avventura di uno dei maggiori artisti della modernità contemporanea, è anche un’interrogazione al cammino dell’arte nell’ultimo secolo e al vicolo cieco in cui si è ficcata l’arte neo-contemporanea.
NON LA FORMULA NUDA INSEGUE, MA LA MUSICA
È solo dopo aver viaggiato in disegni che sembrano contorcere in un barocco esploso Degas, sfregiano Cézanne con echi di Secession, mescolano Matisse a Scipione, il Picasso delle matrone a Klimt, e si aggrovigliano in labirinti di linee che a tratti ripercorrono l’intera storia dell’arte fin de siècle, che il capovolgimento operato dal Fontana maturo appare abbagliante: l’opera mirabile dei tagli e dei concetti spaziali si rivela un’indagine sulla forma e nella forma fiorisce. Il percorso di scultore di Fontana, dai lavori nella fabbrica paterna in Argentina di statue per tombe, alle opere post-espressioniste a Milano, alle ceramiche a Sèvres e fino alle fondamentali sculture su gambo, appare a un certo punto essersi traslato nel suo fare pittura: il taglio o il buco creano sulla superficie una terza dimensione non più pittorica e illusionistica, ma evidentemente reale, concreta, fisica: il vuoto che si apre nel taglio e sbalza le superfici in labbra mentali schiuse sull’infinita possibilità è lo stesso vuoto essenziale di cui è fatta una scultura: è da qui che l’ambiente spaziale si manifesta a Fontana, e lo conduce fino al concetto spaziale: non più dimensione ma ormai forma delle cose, di quelle che esistono per la vista e di quelle che attraverso il vuoto dei tagli potrebbero esistere e che vedremo forse solo con gli occhi della mente. E il Degas o il Cèzanne che ispirano i disegni figurativi ancora negli anni Sessanta e fino alla fine? Essi testimoniano che quei Maestri a cavallo tra passato e futuro ossessionano Fontana con la loro ricerca dell’essenziale: allora i disegni rabbiosi e baroccheggianti di Fontana, in cui si affacciano persino le ombre di Egon Schiele o di Grosz, sono una maniera di capire e di sondare le linee del disegno, i ghirigori e gli arabeschi la cui natura è fatta dall’affollamento dei tratti ma ancora più dai vuoti che si aprono nel disegno e lo mostrano come l’essenza della forma. E questa ricerca ossessiva la cui natura era anche di mera sopravvivenza, dal momento che il Fontana «astratto» divenne famoso solo dopo la morte, lo porta infine a quelle linee fatte di buchi che continuano in realtà a disegnare, facendo intorno e dentro di sé ancora più spazio e vuoto che nel disegno tradizionale.
E questo volume è decisivo per la comprensione di Fontana e del suo faticoso viaggio verso se stesso perché mostra tutto ciò in maniera evidente nei piccoli formati di alcuni disegni: i buchi o i tagli funzionano anche su formati minuscoli, essi non mirano a stupire ma a suscitare l’emozione della contemplazione, perché i buchi e i tagli sono una scrittura musicale che porta dentro di sé l’eco ormai purificata della curva dell’Art Nouveau: la musica che non smise di affascinare l’epoca del grande simbolismo risuona nelle astrazioni di Fontana, rendendo il termine astrazione fuorviante. Non la formula nuda insegue Fontana, ma la musica che insegue forme nella spuma e nel moto delle onde, la musica che seduce l’occhio sull’orlo dei gorghi e degli abissi che sono i buchi e i tagli, lasciando che si offrano a chi vede emersioni e immersioni dalle quali nel simbolismo sarebbero apparse sirene di Klinger e Bocklin ma dalle quali emerge ora il segno musicale puro che racconta di quelle sirene e di quelle onde attraverso ciò che manca: la magia. Fontana ha capito attraverso i suoi labirinti che il Bello non si può praticare impunemente come ancora speravano i diretti antenati attraverso la Magia, ma che esso
arriva sotto la maschera del caso festoso e va accolto nella sfigurata dolcezza del crepuscolo vuoto. L’arte di Fontana è contemporanea come in Warhol? No, perché paradossalmente non sta nel presente, ma nel passato e nel futuro: uniti e disuniti dal taglio che solo potrebbe sanare l’infelicità contemporanea, ma quando fosse vissuto fin dove la ferita si trasforma nelle labbra della sirena che non canta più per il naufragio, ma per la salvezza.

Repubblica 7.12.13
La laicità civile secondo Veca
Un saggio per il Mulino e gli omaggi al filosofo per i suoi settant’anni
di Giancarlo Bosetti


Al volgere dei settant’anni di Salvatore Veca, che il filosofo porta con l’eleganza e la sobrietà che lo caratterizzano fin da quando di lui si ha notizia, come giovane assistente della cattedra di filosofia teoretica di Enzo Paci, alla Statale di Milano, sarebbe tempo di bilanci, che si cominciano a pubblicare, come vedremo. Ma si può intanto scegliere una scorciatoia, quella di leggere la sua ultima proposta, un libriccino che si intitolaUn’idea di laicità, un testo breve, che ha, come tanti suoi scritti, una dote: quella di essere frammento dal quale si riconosce il tutto, particolare che include l’intero, come nei maestri della pittura e nei filosofi dotati di uno stile. In queste pagine il pensiero di Veca è ben riconoscibile nella ricchezza del suo percorso, anche perché teorizza e non si limita a destreggiarsi tra le teorie degli altri.
Veca è l’autore che, partito da un esordio kantiano, mai tradito come sfondo di riferimento, ha poi introdotto in Italia una sua versione della teoria della giustizia di John Rawls confrontandosi con una varietà di indirizzi; negli ultimi vent’anni ha accentuato la convinzione circa la ineludibilità del pluralismo dei valori e delle culture umane, come “fatto” che sfida le istituzioni della democrazia liberale e che deve metterci perennemente in guardia nei confronti della tentazione “monista”. Questa si affaccia continuamente come rischio, come una sorta di equivalente dell’etnocentrismo nella sfera teoretica.
La laicità di Veca è tutt’uno con la democrazia pluralista (simul stabunt, simul cadent), è un carattere delle istituzioni senza il quale la libertà soccombe. Dal momento che dobbiamo convivere con la diversità, la varietà delle credenze è da tutelare, avendo ben chiaro in mente che le credenze religiose sono storicamente un test che apre la strada a tutte le altre. La laicità di Veca non è l’ideologia repubblicana del modello francese, che esclude le differenze religiose, escluse dallo spazio pubblico e le confina nel privato. La sua è una laicità “sotto pressione”, che accetta cioè la pressione delle identità che aspirano a emergere in pubblico, non le considera indebite ingerenze, ma pone un termine ad quem, quello dell’eguale rispetto, che è però rispetto non solo per i cittadini ma anche per il loro corredo di storie e differenze: una «comune lealtà civile deve essere compatibile con una distinta e differente identità religiosa o etica o culturale».
Gli individui della democrazia di cui parla Veca non sono gli attori della teoria della scelta razionale («barocca» costruzione), e non sono più neppure gli individui astratti del contratto sociale del primo Rawls, ma sono persone che la democrazia pluralista deve lasciare libere di costituire e ricostituire cerchie di mutuo riconoscimento religioso, politico, sociale, culturale, etico. Veca assume e supera la lezione successiva di Rawls, quella del «liberalismo politico», per addentrarsi in una concezione della libertà e della democrazia arricchite dal più radicale pluralismo di Isaiah Berlin e dall’eredità dell’antropologia.
Ma che teoria democratica sarebbe quella che non riuscisse a tener conto di questa sfida delle diversità? Essa poteva limitarsi alle diversità politiche nell’Europa dei decenni pre-globalizzazione. Non può più farlo oggi in un Europa dove non esistono più società monoreligiose o monoculturali e di fronte alla crescente rivendicazione di libertà di scelta, da parte delle persone, tra le molte identità possibili e tra le varie comunità di riconoscimento: la comunità di provenienza, quella di arrivo, la fede, la professione, le preferenze politiche, sessuali, quelle di consumatore. Si tratta di una terribile complicazione: la «geografia del noi» diventa variabile, ma il «noi» non rinuncia a farsi visibile e riconoscibile nello spazio pubblico.
L’eterogeneità delle domande deve metterci perennemente in guardia nei confronti delle manovre illiberali di poteri pubblici o religiosi o culturali che cerchino di ridurre questa varietà. Valga dunque l’idea di laicità come promemoria del crescente deficit dei regimi democratici.
Se la scorciatoia di questo libriccino apparirà insufficiente ai lettori più esigenti, allora potranno approfondire la conoscenza del laboratorio pluralista di Veca con l’Idea di incompletezza(Feltrinelli 2012) o con il volume che gli dedica una dozzina di colleghi, amici e allievi, per la cura di Elisabetta Galeotti e Antonella Besussi: Ragione, giustizia, filosofia. Scritti in onore di Salvatore Veca (Feltrinelli 2013). Omaggi che provengono da variegati orientamenti filosofici a dimostrazione che si tratta di un maestro che non ha cercato «di riprodurre se stesso e le sue preferenze teoriche in chi lo seguiva» e di una apertura liberale e pluralista non solo negli enunciati. La conferma di uno stile.
IL LIBRO Un’idea di laicità di Salvatore Veca (Il Mulino, pagg. 100, euro 10)

venerdì 6 dicembre 2013

l’Unità 6.12.13
Piero A. Capotosti
Ex Presidente della Corte costituzionale
Professore emerito di Diritto costituzionale e di Giustizia Costituzionale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza
«Assemblee, leggi e Colle pienamente legittimi ma dopo la pubblicazione della sentenza i nuovi atti di queste Camere non lo saranno più»
«Le Camere sono a rischio. La sentenza della Corte è retroattiva»
«Dopo le motivazioni il Parlamento decade»
«La rappresentanza è viziata: i parlamentari non convalidati ora rischiano»
«Un premio si potrà reintrodurre solo con una soglia minima di accesso»
di Andrea Carugati


«La sentenza della Corte costituzionale è retroattiva, dunque annulla la legge elettorale da quando è stata emanata. Non si tratta di una mera abrogazione, come potrebbe essere nel caso di un referendum». Piero Alberto Capotosti, professore emerito di Diritto costituzionale alla Sapienza ed ex presidente della Consulta, considera la sentenza sul Porcellum «un fatto di enorme portata, che non si era mai verificato nelle altre grandi democrazie». Secondo lei sono a rischio di illegittimità tutti i governi dal 2006, le leggi approvate e anche la doppia elezione di Napolitano al Quirinale? «Sicuramente no, tutte queste sono situazioni giuridicamente chiuse e dunque non più riesaminabili. Esistono nell’ordinamento alcuni principi, in particolare il principio della certezza giuridica, che mitigano la portata retroattiva della sentenza. Dunque i Parlamenti eletti dal 2006, le leggi e il Capo dello Stato sono situazioni che non si possono cancellare, “irretrattabili”. Discorso opposto per tutti gli atti che questo Parlamento dovesse esaminare dopo la pubblicazione della sentenza sul Porcellum, che avverrà tra qualche settimana. A mio avviso dopo la pubblicazione l’ombra dell’illegittimità costituzionale potrebbe estendersi a tutto il Parlamento, anche se in proposito ci sono diverse scuole di pensiero». Questo vuol dire che i parlamentari non ancora convalidati rischiano?
«Se non saranno convalidati prima, rischiano di essere illegittimi».
Sta dicendo che anche le norme che il Parlamento approverà dopo saranno illegittime?
«A mio avviso c’è lo stesso rischio, perché provengono da un organo eletto attraverso una procedura illegittima».
Significa che il Parlamento ha tempo solo fino alla pubblicazione per modificare la legge elettorale?
«Questa è la mia opinione. Sempre che la Corte, nelle motivazioni, non chiarisca esplicitamente che gli effetti della sentenza decorrono solo dall’elezione del prossimo Parlamento. Ma questo differimento degli effetti di una sentenza secondo il modello tedesco -sarebbe un caso eccezionale. Nel passato è successo pochissime volte». Dunque questo Parlamento ha vita breve e rischiamo di tornare alle urne a breve?
«La mia opinione è che, se non ci sarà un differimento esplicito degli effetti, la Corte abbia dato un ultimatum alle forze politiche: se il Parlamento non dovesse procedere ad approvare una nuova legge, in caso di elezioni anticipate si dovrà votare con quello spezzone di Porcellum che è rimasto in piedi, dunque senza premio di maggioranza e con le preferenze».
Il Parlamento dovrebbe scrivere la nuova legge prima delle motivazioni della Consulta?
«Secondo me per stare dalla parte del sicuro è necessario muoversi prima». In assenza di una crisi di governo, come si può arrivare allo scioglimento delle Camere?
«Il potere di scioglimento spetta esclusivamente al Capo dello Stato. E tuttavia ricordo che nel 1993, dopo il referendum Segni che abrogava la legge elettorale per il Senato, si arrivò rapidamente a nuove elezioni, dopo aver approvato la legge Mattarella. L’allora presidente Scalfaro disse che il Parlamento non corrispondeva più alla volontà popolare, c’era un vizio di rappresentanza. È una situazione per certi versi analoga a quella attuale: la rappresentanza è viziata dal fatto che i parlamentari sono stati immessi nel loro ufficio in base a una legge incostituzionale».
Ritiene che si possa votare con quello che resta del Porcellum?
«Serve una ricognizione norma per norma. Di certo la Corte, annullando le liste bloccate, non ha introdotto le preferenze. Non è una sentenza autoapplicativa su questo punto. Dunque un passaggio parlamentare per introdurre le preferenze, a mio parere, andrebbe fatto».
Dunque sbaglia chi dice che questa sentenza allunga la vita della legislatura almeno fino al 2015?
«Salvo sorprese nelle motivazioni della sentenza, io vedo una grande urgenza di modificare la legge elettorale per poi tornare al voto».
In che modo andrà modificata la legge?
«Un premio di maggioranza si potrà reintrodurre solo con una soglia minima di accesso. E non ci potranno più essere liste bloccate. L’elettore potrà scegliere il parlamentare con le preferenze oppure con i collegi uninominali. Su questo resta una amplissima discrezionalità del Parlamento».
Un sistema maggioritario con i collegi è ancora possibile?
«Certamente sì. Come è possibile un nuovo premio con una soglia e preferenze».
La legge che esce dalla Consulta è un proporzionale puro. Non è anche questo in contraddizione con la volontà popolare espressa nel referendum del 1993?
«Esiste questo rischio di un ritorno al passato. E tuttavia le sentenze della Corte, pur criticabili, non sono modificabili. La sentenza indubbiamente reca un vulnus per tutto il sistema istituzionale. Non si può fare finta di niente e continuare come se non fosse successo nulla».
Come si può ragionare di un percorso di riforme costituzionali nel 2014 da parte di questo Parlamento? Il ministro Quagliariello ha proposto proprio questo percorso per rispondere alla pronuncia della Consulta.
«Sono consapevole che esiste questa interpretazione, che è diversa dalla mia. Io ritengo che questo Parlamento debba sicuramente fare una legge elettorale quanto prima. Sarebbe opportuno che la legge fosse approvata almeno da un ramo del Parlamento prima delle motivazioni della Consulta. A quel punto si potrebbe sperare in un rinvio della pubblicazione della decisione per consentire l’approvazione definitiva».
Lei disegna uno scenario da tsunami politico-istituzionale...
«È una sentenza di enorme portata, un precedente di peso anche allargando lo sguardo ad altri paesi. È tuttavia sempre possibile che la Corte, nelle motivazioni, mitighi la portata di questa sentenza. Ma non è scontato che ciò accada».

l’Unità 6.12.13
Ora la riforma, ma si può votare anche così
di Claudia Fusani


In queste ore fioriscono ipotesi di ogni tipo, «parlamento illegittimo e quindi decaduto», «vuoto legislativo», «la morte del bipolarismo». Abbiamo cercato di mettere un po’ d’ordine con Felice Besostri, uno dei quattro avvocati autori del ricorso accolto dalla Corte Costituzionale che ha giudicato incostituzionale il Porcellum. Undici domande e undici risposte chiave. Al netto delle motivazioni della decisione necessarie per una parola definitiva.
1.Abbiamo una legge elettorale o si è creato un vuoto legislativo?
«Se la Consulta non ha cambiato il suo orientamento giurisprudenziale e non mi risulta lo abbia fatto abbiamo una legge applicabile. È la 270 del 2005, la vecchia legge Calderoli, privata delle parti annullate con sentenza della Consulta. Ovverosia potremmo andare a votare senza il premio di maggioranza, con le soglie di accesso previste (4 per cento alla Camera e 8 al Senato, ndr) e, attenzione, resta la possibilità di esprimere la preferenza».
2.In che modo?
«Annullando la disposizione nel testo di legge che faceva divieto di fare sulla scheda un altro segno diverso da quello del voto per la lista. Dal punto di vista tecnico esistono diverse soluzioni. Ad esempio facendo un segno sui nomi della lista, per indicare un candidato o per escluderlo alterando così l’ordine della lista. Piuttosto, la discussione già iniziata è se serve una norma di legge per dare la preferenza. Io credo possa bastare un provvedimento regolamentare».
3.Dopo la sentenza della Consulta l’attuale Parlamento è legittimo?
«Sì. La decisione della Consulta non è retroattiva, questo faceva e fa tuttora parte del terrorismo di chi si è opposto e si oppone all’accoglimento del nostro ricorso. Alcuni cavalcano questa tesi per ragioni politiche, ma non riguarda noi tecnici. L’attuale Parlamento è legittimo perché l’articolo 66 della Costituzione stabilisce che solo le Camere sono giudici di ammissione o decadenza dei loro membri. Certo, possiamo dire che abbiamo un Parlamento legittimo ma sotto sorveglianza. E che sarebbe meglio se si astenesse dal fare cose esagerate, ad esempio stravolgere la Costituzione o modificare l’articolo138».
4.Duecento deputati devono ancora essere convalidati dalla Giunta delle elezioni. Rischiano di essere giudicati illegittimi?
«No, a meno che la Giunta per le elezioni nella sua autonomia decida di non convalidarli sapendo però che deve poi procedere alla nomina del successore. La sentenza della Consulta non ha alcun potere, nell’immediato, sulle Camere che sono protette dall’autodichia. È chiaro che sarebbe meglio che la Giunta proceda con la convalida prima del deposito delle motivazioni».
5.Perché nel comunicato della Consulta si è voluto precisare che «la decorrenza degli effetti giuridici della sentenza avrà luogo con la pubblicazione delle motivazioni»?
«Proprio per evitare le speculazioni a cui invece stiamo assistendo. In ogni caso, tutto cambia dal momento in cui saranno pubblicate le motivazioni sulla Gazzetta Ufficiale, cioè tra 3, 4 settimane».
6.E se per qualche motivo dovessimo votare ora, subito, al netto dei 30 giorni per i comizi elettorali, quale sistema di voto dovremmo usare? Porcellum o semi-Porcellum? «Impossibile, dovremmo avere un Presidente della Repubblica che scioglie le Camere in questa situazione. Sarebbe un colpo di Stato. Può essere vero che il Presidente Napolitano ha rafforzato il suo ruolo. Ma va detto che dall’altra parte, vista la qualità dei nominati, non c’è più Parlamento.
7.La decisione della Consulta ha ucciso il bipolarismo?«È mai esistito? Di sicuro è morto quello finto, artificiale, che abbiamo avuto finora. Per avere il premio di maggioranza più soggetti si sono uniti fintamente in un polo. Come diceva Chou En-Lai, “Stati Uniti e Russia dormono nello stesso letto ma fanno sogni diversi”. Detto questo il bipolarismo non è morto: va introdotta una soglia molto alta per il premio di maggioranza e va previsto un sistema uninominale a turno semplice o doppio. Ma neppure questo assicura un vero bipolarismo».
8.La decisione più difficile ha riguardato il secondo motivo di ricorso, quello delle liste bloccate. I giudici scrivono che sono incostituzionali i sistemi che non consentono ai cittadini-elettori di esprimere una preferenza.
Il Mattarellum, secondo lei, con il 75% dei collegi uninominali e il 25% con sistema proporzionale e liste bloccate, può sopravvivere?
«Come ho detto anche davanti alla Corte, anche un sistema a collegi uninominali consente un voto personale e diretto. Fondamentale è che vengano rispettati gli articoli 48-56 e 58 della Carta, ovverosia che l’elettore possa scegliere direttamente e personalmente il proprio candidato ed eletto».
9.Molti esultano dicendo che la Corte definisce il proporzionale il sistema migliore. Forse l’unico. Siamo condannati per sempre alla larghe intese?
«La sentenza non impone il proporzionale puro. Fossi un legislatore io cercherei di superare questa crisi partendo da quella che ritengo una pietra miliare: dare sostanza all’articolo 49 della Carta che pretende una legge sul funzionamento e l’organizzazione dei partiti. Se avessimo dei partiti veri, organizzati in base a una legge, potrebbero essere ammesse anche le liste bloccate. Perché chi finisce in lista avrebbe superato un libero congresso».
10.Entro quando deve agire il Parlamento?
«C’è tempo fino alle prossime elezioni. Certo sarebbe meglio prima. Ma questa è opportunità politica».
11.Avete presentato ricorso anche sulla legge elettorale europea?
«Si, per tre motivi: il sistema di voto riconosce tre minoranze linguistiche (francese, tedesca e slovena) mentre una legge del 1999 in Italia ne riconosce 12; c’è una soglia di accesso anche se con il Parlamento europeo non si nomina un governo e quindi non si deve garantire una governabilità; solo alle liste di minoranze linguistiche è consentito di coalizzarsi con una lista nazionale mentre non si possono coalizzare liste nazionali che pure si identificano nello stesso partito europeo».

Repubblica 6.12.13
Le ragioni della Corte
di Stefano Rodotà


SONO francamente incomprensibili alcuni attacchi alla Corte costituzionale, la cui unica colpa è quella di aver toccato un nervo da troppo tempo scoperto di una politica che ha perduto la dimensione istituzionale. La Corte ha rifiutato d’essere normalizzata, d’essere risucchiata nelle logica delle convenienze e dei rinvii, d’essere considerata parte di un sistema che sfugge regolarmente le proprie responsabilità. Ha così dato un buon esempio di autonomia, mostrando come ogni istituzione possa e debba fare correttamente la sua parte.
La vera decisione “politica” sarebbe stata quella di piegarsi alle richieste di ritardare la sentenza, per dare al Parlamento altro tempo oltre quello che già gli era stato generosamente concesso.
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la Corte aveva segnalato fin dal 2008 (e con ben tre sentenze) il fatto che la legge elettorale conteneva un vizio di incostituzionalità. Lo aveva fatto con un linguaggio prudente, ma assolutamente chiaro: “l’impossibilità di dare un giudizio anticipato di legittimità costituzionale non esime questa Corte dal dovere di segnalare al Parlamento l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione di un premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e di seggi”. Queste parole erano state scritte dall’attuale presidente della Corte, Gaetano Silvestri, che all’indomani del suo insediamento, nel settembre di quest’anno, aveva voluto ribadire una volta di più la necessità di un intervento parlamentare che ci liberasse da una legge costituzionalmente viziata. Lo aveva fatto anche il suo predecessore, Franco Gallo.
La sentenza appena pronunciata, dunque, era assolutamente prevedibile, e nessuno nel mondo politico può dire d’esser stato colto di sorpresa. Ma proprio questa sua prevedibilità rende ancora più pesante la responsabilità di un Parlamento che è andato avanti per cinque anni come se nulla fosse, portandoci addirittura a nuove elezioni con una legge incostituzionale proprio nel suo punto più significativo, quello della composizione della rappresentanza, radicalmente distorta da un abnorme premio di maggioranza. Il punto chiave è proprio questo. In una democrazia rappresentativa vi è una soglia oltre la quale la manipolazione delle regole finisce con il vanificare il valore del voto espresso da ciascun elettore. E probabilmente è anche questa la preoccupazione che ha indotto la Corte a dichiarare illegittime le norme che, escludendo la possibilità di esprimere preferenze, privano i cittadini della possibilità concreta di scegliere i loro rappresentanti. La legge Calderoli ci aveva trascinato fuori dalla logica rappresentativa, e ci aveva abbandonato in una sorta di vuoto dove la logica costituzionale era stata sostituita dal potere assoluto di oligarchie ristrettissime (venti, trenta persone) di scegliere arbitrariamente 945 parlamentari. E tutto questo era avvenuto all’insegna della pura “governabilità”, parola che aveva cancellato, con una evidente e grave forzatura, il riferimento alla rappresentanza.
Bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per valutarne tutte le conseguenze. Ma l’attenzione oggi deve essere rivolta proprio a questi temi generali, senza introdurre argomentazioni improprie come quelle riguardanti il fatto che la Corte ci riporterebbe alla Prima Repubblica. Qual è il senso di questa critica? La Corte avrebbe dovuto evitare di fare il proprio dovere? O doveva addirittura manipolare la legge vigente in modo da renderla gradita a quanti oggi immaginano questa o quella riforma elettorale alla quale affidare equilibri e dinamiche politiche? Davvero in questo modo la Corte si sarebbe sostituita impropriamente alla politica, alla quale invece è stata restituita la responsabilità della decisione. Questo è un segno ulteriore del rigore con il quale la Corte si è mossa, eliminando il vizio rappresentato dal premio di maggioranza, senza cedere ad alcuna tentazione di interventi manipolativi. I critici dovrebbero essere consapevoli di tutto questo.
Nell’esercitare il potere di approvare una nuova legge elettorale, al quale fa esplicito riferimento il comunicato ufficiale della Corte, il Parlamento dovrà tuttavia tenere ben fermi alcuni vincoli che già emergono con grande nettezza. Il primo riguarda il fatto che, legiferando nella materia elettorale, il Parlamento si era finora sostanzialmente ritenuto immune dal controllo di costituzionalità, per la difficoltà tecnica di far arrivare queste leggi davanti alla Corte. Così che proprio le norme fondative della rappresentanza politica avevano finito con il costituire una categoria a sé, autoreferenziale, una zona franca, un territorio dove nessuno poteva penetrare, con effetti negativi per la generalità dei cittadini. Ora questo non sarà più possibile, e la legalità costituzionale potrà ovunque essere ricostruita. Il secondo tipo di vincolo riguarda l’illegittimità costituzionale di meccanismi che alterano il rapporto tra voti e seggi attraverso forzature maggioritarie. In questo modo è possibile restaurare quella democrazia perduta negli anni tristi del Porcellum.
La sentenza non travolge formalmente il Parlamento. Ma sicuramente incide, e profondamente, sulla sua legittimazione politica. Ferma la possibilità di approvare una nuova legge elettorale, comunque rispettosa del contesto ridefinito dalla Corte, davvero non sembra possibile che un Parlamento con un così profondo vizio d’origine possa mettere le mani sulla Costituzione. Fino a ieri questa poteva essere considerata una presa di posizione polemica di qualche politico o studioso. Ora è un dato istituzionale, ineludibile per tutti.
La Costituzione è tornata, e dobbiamo tenerne conto.

Repubblica 6.12.13
Chieppa, ex presidente della Consulta: gli atti compiuti non decadono
“Le Camere sono in carica dovrebbero legiferare prima delle motivazioni”
intervista di Vladimiro Polchi


ROMA — «La sentenza non provoca uno sfascio istituzionale, ma il Parlamento dovrebbe legiferare prima dell’arrivo delle motivazioni». Riccardo Chieppa, presidente emerito della Consulta, si dice «lieto che sia caduta una legge tanto illegittima », ma esclude che si aprano «voragini che facciano precipitare nel caos le istituzioni».
È dunque d’accordo con la bocciatura del Porcellum?
«Ho sempre sostenuto che ci fosse un grave dubbio di costituzionalità sul difetto assoluto di esprimere preferenze. Sarei addirittura favorevole che si tornasse all’antico sistema elettorale dei piccoli comuni. Quando da giovane facevo il presidente di seggio, l’elettore poteva cancellare un candidato dalla lista. Era una bocciatura esplicita, un voto di preferenza negativo».
Cosa succede ora dopo la sentenza della Consulta?
«Allo stato attuale, in attesa delle motivazioni, si possono fare solo congetture. I giudici della Corte non travolgono tutto. Le norme di legge non sono più applicabili per il futuro, ma non decadono atti e nomine compiuti dal Parlamento. La dichiarazione di illegittimità può travolgere solo nomine e atti ancora suscettibili di contestazione. Del resto la Consulta si è sempre preoccupata di non creare vuoti nell’ordinamento».
Un Parlamento eletto con legge incostituzionale è illegittimo?
«Dal punto di vista giuridico lo escludo. La questione eventualmente è politica: il Parlamento non è delegittimato dalla pronuncia della Corte, ma semmai dalla sua inerzia».
Le Camere dovrebbero correre ai ripari?
«Il Parlamento ha tutti i poteri e per evitare il rischio che riviva il Mattarellum dovrebbe intervenire prima delle motivazioni».
Quando usciranno le motivazioni della sentenza?
«Dipende dalla discussione: i giudici devono trovare l’accordo non solo sul dispositivo, ma anche sulle motivazioni. Sarebbe auspicabile pure in Italia il sistema tedesco, dove la Corte dichiara l’illegittimità a scoppio ritardato: dà un termine al Parlamento per permettergli di intervenire prima della sentenza».
Che ne sarà dei 148 deputati eletti, ma non ancora convalidati dalla Giunta per le elezioni?
«Su questo la sentenza non influisce, resta indifferente. Se non ci sono altri elementi ostativi, la Camera può convalidarli».
Per Calderoli diventano illegittimi anche i consigli regionali eletti con liste bloccate e premi di maggioranza.
«Non credo. Le regionali hanno norme che prevedono diverse proporzioni nei premi e non sono toccate dalla sentenza».

il Fatto 6.12.13
Porcellum da buttare. E adesso che succede?
di Bruno Tinti


LI CHIAMAVANO i frutti dell’albero avvelenato. È una teoria nata negli Stati Uniti: se un certo atto è stato eseguito illegittimamente tutti gli atti e i fatti che ne derivano sono nulli. Così, se in una perquisizione fatta senza mandato del giudice è stato trovato un fucile che è stato usato per commettere un omicidio, il proprietario non potrà essere condannato; salvo che non esistano altre prove indipendenti dalla perquisizione. È quanto tutti, più o meno, stanno sostenendo a proposito della sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità della legge elettorale: tutti a casa, Parlamento, presidente della Repubblica, giudici della Corte costituzionale e altri nominati da Parlamento e pdR. Ma non solo: dovrebbero essere nulle tutte le leggi emanate, tutti i provvedimenti adottati.
Proprio vero? Mah.
Il principio generale è che la legge dichiarata incostituzionale cessa di esistere e di esplicare i suoi effetti dalla data della pubblicazione della sentenza. Esaminando la cosa dal punto di vista opposto, questo vuol dire che, fino ad allora, tutto quanto avvenuto nel periodo antecedente è legittimo. Immaginiamo una sentenza di condanna per adulterio pronunciata nel 1967; la donna (il reato si applicava solo alle mogli) finiva in carcere: tutto regolare. Nel 1968 l’art. 559 codice penale che lo prevedeva fu dichiarato incostituzionale. A quel punto la poveretta era scarcerata; ma la condanna restava legittima. Così è per l’elezione dei parlamentari avvenuta con il Porcellum: è legittima; come lo sono tutte le leggi e gli atti da costoro emanati, elezione del presidente della Repubblica compresa. Il problema perciò riguarda il futuro: cosa succederà quando la sentenza verrà depositata?
Ipotesi 1. L’elezione è avvenuta legalmente e le conseguenti funzioni istituzionali sono da considerarsi legittime. L’incostituzionalità della legge elettorale significa solo che, alle prossime elezioni, bisognerà utilizzarne un’altra. Conseguenza paradossale ma inevitabile di questa tesi è che, teoricamente, tutto potrebbe restare com’è fino alla scadenza naturale della legislatura.
Ipotesi 2. Ogni figura istituzionale che deve la sua posizione direttamente o indirettamente alla legge elettorale dichiarata incostituzionale si trova priva di legittimità. Proprio come per la moglie adultera la cui carcerazione è diventata illegittima perché la legge che la presuppone non esiste più, queste persone perdono automaticamente la loro funzione il cui presupposto legale è stato spazzato via dal-l’ordinamento
DUNQUE servono nuove elezioni; fino ad allora si applica l’art. 61 comma 2 della Costituzione: “Finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti”. Che dunque potrebbero emanare legittimamente una nuova legge elettorale.
Questa seconda ipotesi solleva drammatici interrogativi. Gente che, per anni, non è stata capace di sostituire l’incostituzionale (lo dicevano tutti) Porcellum, riuscirà a farlo ora, in un mese? E sarà consapevole del fatto che, a sentenza della Corte depositata, saranno tutti inesistenti e che ogni loro atto non avrà alcuna efficacia giuridica? Si renderanno conto dello tsunami di ricorsi che i cittadini presenteranno contro ogni nuova legge che si azzardassero a emanare? La risposta, scontata, è no.
Vuoi vedere che tutti si metteranno d’accordo sul fatto che l’ipotesi giusta è la numero 1?

il Fatto 6.12.13
Il politologo Roberto D’Alimonte
“Intervento invasivo, è peggio del Porcellum”
intervista di Marco Palombi


Intanto bisogna chiarire una cosa: non è stato solo bocciato il cosiddetto Porcellum, ora c’è una nuova legge elettorale. Lo status quo adesso è proporzionale e la mia opinione è che sia uno status quo estremamente negativo: questa legge è il male assoluto, molto peggio dello stesso Porcellum”. Roberto D’Alimonte, tra i massimi esperti italiani di sistemi elettorali e professore alla Luiss, non ha affatto gradito la decisione con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale quanto al premio di maggioranza e all’assenza delle preferenze.
Professore, lei rivaluta il Porcellum.
Senta, avendone criticato molti aspetti prima ancora che fosse approvato ho qualche credenziale: era una legge elettorale imperfetta, ma andava corretta o sostituita con un maggioritario migliore, non certo così.
Si torna al proporzionale puro della Prima Repubblica.
Ma nemmeno: allora almeno c’erano due grandi partiti. Questa sarebbe la Repubblica Zero.
Che succede se si va al voto senza una nuova legge?
Un disastro. Sarebbe come istituzionalizzare lo stallo che si è verificato a febbraio, ma in maniera assai più marcata visto che non ci sarebbe nemmeno il premio di maggioranza. Siamo di fronte ad una possibile degenerazione del sistema.
Insomma, la sentenza non le è piaciuta.
Sono inorridito. Io ero convinto che la Corte non dovesse decidere, ma avendo deciso di farlo speravo almeno che avrebbe scelto un’altra strada, cioè quello di resuscitare il Mattarellum.
E invece...
E invece ha fatto un intervento molto più invasivo, sostituendo una legge maggioritaria con una proporzionale.
Peraltro anche il Mattarellum ora sarebbe incostituzionale visto che elegge il 25 per cento dei deputati con le liste bloccate.
Dopo questa sentenza è così: faccio, però, notare che con le liste bloccate si elegge l’intero Parlamento spagnolo e la metà di quello tedesco.
Lei ha sottolineato un altro aspetto della sentenza: anche le leggi elettorali regionali ora sono incostituzionali.
Assolutamente sì, visto che assegnano un premio di maggioranza al vincente senza alcuna soglia minima di voti. Voglio vedere che succede, anche perché sono convinto che i 15 giudici costituzionali non si sono neanche accorti degli effetti che la loro sentenza avrebbe avuto sulle Regioni.
Questo Parlamento adesso è
delegittimato?
Un parere tecnico dovrebbe chiederlo ad un costituzionalista, ma per me lo è politicamente. E anche il presidente della Repubblica eletto da questo Parlamento. E pure la stessa Corte Costituzionale i cui membri sono stati in parte eletti da Camere delegittimate e da un capo dello Stato delegittimato...
Lei sostiene che l’esito delle primarie del Pd è fondamentale
per capire in che direzione si andrà.
È così: se Renzi ne esce ammaccato si rafforza il fronte dei proporzionalisti, quelli che hanno stappato lo champagne mercoledì sera. Da questo punto di vista, oltre che da quello dell’efficacia comunicativa, Renzi è come il Berlusconi del 1994, un campione del bipolarismo e della democrazia dell’alternanza.
Allora è vero che lei è renziano.
Io sono al massimo “dalimontiano”. Capita che io e Renzi in questo momento diciamo le stesse cose. È oggettivo che per lui una nuova legge elettorale sia una priorità assoluta: se resta il proporzionale della Consulta è finito. Ce lo vede a fare le trattative post-voto sul governo e le poltrone? Troppo vecchia politica: perderebbe tutto il suo appeal.
Professore, un’ultima domanda: secondo lei bisogna tornare al voto?
Assolutamente sì, ma dopo aver fatto una legge elettorale migliore di questa, cioè maggioritaria.

il Fatto 6.12.13
L’editorialista dell’Economist Bill Emmott
“Vi siete liberati di B., ora non sprecate tutto”
di Beatrice Borromeo


E poi c’è chi, nel caos di un Paese sull’orlo dell’incostituzionalità, vede “una grande opportunità”. Perché Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, antiberlusconiano verace e osservatore attento delle vicende italiane, è convinto che certi segnali, più che allarmarci, facciano ben sperare.
Per esempio, Emmott?
La decadenza di Berlusconi è arrivata con anni di ritardo, è vero. Ma il punto è che era inusuale, per una democrazia europea, permettere a un condannato di mantenere la sua poltrona. Queste cose succedono in India, magari, ma che capiti da voi è davvero anomalo. La legge Severino ha semplicemente normalizzato una situazione che non era accettabile.
Però la Corte costituzionale ha di fatto dichiarato illegittimo questo Parlamento. Che a sua volta ha rieletto il capo dello Stato. La confusione c’è.
La situazione è paradossale, anche perché questa legge elettorale è in vigore da più di una legislatura. Era ora che la Consulta ne riconoscesse l’incostituzionalità. D’altronde anche in Germania ci sono stati problemi analoghi, quindi direi che è la situazione è bizzarra, ma non unica.
Matteo Renzi sostiene che col sistema proporzionale torniamo indietro di 20 anni. E la fine del bipolarismo porterà all’ingovernabilità.
Perché, fino a oggi invece l’Italia è stata governata in maniera efficace? E poi, quello che avete vissuto voi è un falso bipolarismo: spesso le coalizioni avevano l’unico scopo di vincere il premio di maggioranza e di accumulare potere. Quella di Berlusconi non ci ha mai neanche provato, a governare. Il problema chiave della governabilità è direttamente connesso a quello della legittimazione: se il sistema è legittimo, chi perde accetta di stare all’opposizione e chi vince governa.
Il capo dello Stato sostiene che questo Parlamento è comunque legittimo.
Certo, perché vuole che l’esecutivo resista e che introduca le riforme di cui si continua a parlare. La sua priorità è evitare il ritorno alle urne.
Il proporzionale però si accompagna a un altro rischio: quello dell’inciucio perenne, delle eterne larghe intese.
Ma questa situazione non dipende affatto dalla legge elettorale: è la conseguenza del fallimento dei partiti, che non sanno presentare programmi convincenti e apprezzati dalla gente. È il frutto del tracollo del Partito democratico, che non ha saputo dimostrare di avere la ricetta per rinnovarsi. Ma nulla impedisce alla situazione di cambiare, in futuro. Renzi, per esempio, pare abbia il polso della situazione.
Ci preoccupiamo troppo?
Non abbastanza: tra i Paesi europei più indebitati, l’Italia è quello che ha portato a termine il minor numero di riforme economiche. La dimensione del vostro debito è angosciante, e la prospettiva di andare verso un’apprezzabile crescita economica è improbabile. E poi il fallimento del sistema di potere che ha gestito il Paese è un grosso problema politico.
In più si rafforza la fronda anti-europeista.
Alle prossime elezioni l’opposizione, rappresentata da Grillo, Forza Italia e Lega Nord sarà compattamente enti-euro. Ci sarà una forte divisione tra questi e il centrosinistra: una spaccatura così netta non c’è in nessun altro Paese. In Europa c’è molta preoccupazione.
Finché regge, cosa deve fare il governo Letta?
Ci sono riforme che non possono più aspettare: deregulation, privatizzazioni, creazione di nuovi posti di lavoro. E la riforma elettorale, chiaramente.
E pensa che l’esecutivo delle larghe intese possa davvero riuscirci?
Il punto è che o lo fa ora che si è liberato di Forza Italia, oppure è meglio che vada a casa. È la sua unica, grande opportunità.

La Stampa 6.12.13
La tentazione di adattarsi al vecchio proporzionale
di Marcello Sorgi


La sferza del Presidente Napolitano, all’indomani della sentenza della Consulta, ricorda ai partiti tutto il tempo perduto e tutti gli avvertimenti rimasti inascoltati a proposito del Porcellum. Ma anche se tutti si affannano ad esorcizzarla, come se si trattasse di un’impossibile restaurazione, non è proprio da escludere l’ipotesi che alla fine l’approvazione di una nuova legge elettorale maggioritaria si riveli impossibile e si torni a votare, o con il moncherino del Porcellum lasciato in vita dalla Corte costituzionale, o con un vero e proprio sistema proporzionale, stile Prima Repubblica.
Lo dicono le prime, provvisorie prese di posizione di due dei tre principali partiti, in capo ai quali pesa la maggior responsabilità di costruire l’intesa per la nuova legge. Sia Grillo che Berlusconi infatti, con sfumature diverse, insistono sull’argomento della delegittimazione del Parlamento che sarebbe stata determinata dalla sentenza della Consulta e si dichiarano disponibili ad andare al voto dopo un ripescaggio del Mattarellum, eventualità entrambe escluse esplicitamente dai giudici della Corte.
Un modo di esprimere una drastica opposizione a ogni ipotesi di sistema a doppio turno, verso cui è invece orientato il Pd. Il tentativo di costruire una maggioranza in questo senso poggerebbe sulla disponibilità, fin qui tutta da dimostrare, del Nuovo centrodestra e dei centristi di Scelta civica e di Mauro e Casini. Ma Alfano ieri non è sembrato di questo avviso. Inoltre lo stallo sulle riforme, con l’ipotesi di ripartire direttamente dai contenuti e non dal cambiamento dell’articolo 138 com’era stato finora, mette in primo piano l’idea di andare verso il monocameralismo, ridimensionando, o praticamente cancellando, il Senato a favore della Camera, e mettendo in conto un improbabile suicidio politico dei senatori.
Resta da dire del Pd, quasi certamente da lunedì a guida Renzi. Sarà da vedere se preferirà trattare prima con la maggioranza di governo e poi con le opposizioni, o direttamente a tutto campo: ma le condizioni di partenza, dopo la sentenza di mercoledì sono mutate. Renzi sa che per tornare al maggioritario, perché di questo si tratta, visto che i giudici della Consulta hanno di fatto reintrodotto il proporzionale, la strada adesso è in salita. E si fa più forte la tentazione di adattarsi a un sistema, come il Mattarellum, o come il proporzionale, che nello scenario attuale garantirebbe a tutti un ruolo e forse potrebbe riproporre le larghe intese. Eppure è solo in uno scenario bipolare che la nuova leadership del Pd può dispiegare pienamente le sue potenzialità.

La Stampa 6.12.13
Nomine in ritardo
A rischio la convalida dei parlamentari
di Francesco Grignetti


ROMA Il giorno dopo la pronuncia della Corte Costituzionale, non è solo la politica a spaccarsi tra apocalittici e integrati, ma anche il mondo dei giuristi. C’è il problema dei 148 deputati eletti con un premio di maggioranza ora incostituzionale. E c’è il nodo del complesso intero della Camera, l’elezione dei cui membri non è stata convalidata dalla competente Giunta per le elezioni. Il suo presidente, Giuseppe D’Ambrosio, M5S, prende tempo: «Dobbiamo attendere la pronuncia della Corte Costituzionale su un ricorso del Friuli Venezia Giulia contro la presidenza del Consiglio». La sentenza è attesa per l’11 febbraio 2014. «Siccome ne discenderebbero conseguenze per cinque Regioni, è evidente che fino a quella data non potremo proclamare alcunché».
Il M5S dichiara che i parlamentari ora sono tutti «illegittimi». D’Ambrosio però pensa che ci sia una bella differenza tra essere «delegittimati» e «decaduti». Attende perciò di leggere le motivazioni: «Se la Corte dirà che gli effetti sono retroattivi e si applicano alle ultime elezioni, non esiterò a riaprire la questione. Ma sarebbe un’apocalisse che travolgerebbe anche il Capo dello Stato e gli stessi membri della Consulta».
Il presidente grillino della Giunta s’attende che la Corte dirà che la legge era legittima quando si è votato. Oltretutto l’apocalisse a cui fa cenno, aprirebbe un effetto domino incontrollabile: «Se dovessi annullare soltanto l’elezione di chi è entrato alla Camera col premio di maggioranza, poi come scegliere chi subentra? Mica possiamo prenderli da una lista bloccata che è altrettanto incostituzionale».
Finora la Giunta ha convalidato il voto della Valle d’Aosta e del collegio Lazio/2 (Roma esclusa). Si può temere che le convalide non saranno perfezionate al momento in cui la sentenza della Consulta sarà operativa. Ma questa prospettiva atterrisce Alberto Capotosti, ex presidente della Consulta: «Se la Camera non convaliderà l’elezione dei deputati entro il giorno del deposito della sentenza, “chiudendo” da un punto di vista giuridico la situazione, subito dopo diverrà impossibile, a mio parere, procedere alle convalide. Come potrebbe una Giunta convalidare un’elezione in forza di una legge che è stata appena dichiarata incostituzionale?».
Anche il presidente emerito Valerio Onida pensa che non ci sia un attimo da perdere, pena conseguenze gravi: «Non possiamo vivere senza una legge elettorale, questo è evidente. Quindi occorrerebbe che il Parlamento provvedesse ancora prima che escano le motivazioni della sentenza della Consulta».
Capotosti e Onida ritengono che per il Parlamento si sia aperta una finestra temporale per procedere nel pieno delle sue funzioni: dall’annuncio della decisione al deposito delle motivazioni. Dopo, tutto diventerà più difficile o addirittura impossibile.
Un terzo presidente emerito come Giovanni Maria Flick, invece, la pensa all’opposto: «Mi attengo alla logica del comunicato. Nel momento stesso in cui la Corte scrive che il Parlamento è legittimato a legiferare, non vedo come non possa essere legittimato a convalidare i suoi eletti».
Bisogna conoscere le consuetudini del Parlamento, in effetti, per tirare il fiato. Nella legislatura del 2006, interrotta anticipatamente nel 2008, le Camere furono sciolte prima che l’elezione dei suoi membri venisse convalidata. Eppure mai nessuno si è sognato di dichiarare illegittime o inoperanti le leggi approvate da quei parlamentari.
Il meticoloso lavoro della Giunta è in effetti una sorta di doppione: gli eletti vengono proclamati dalle corti d’appello e poi dalla Cassazione; la Giunta per le elezioni torna a rileggere i verbali di seggio, esamina eventuali ricorsi, e alla fine convalida. Prima i voti, regione per regione. Poi il collegio unico nazionale degli eletti. È normale che ci vogliano anni. Ma nel frattempo i Parlamenti operano, eccome.

il Fatto 6.12.13
Le Primarie. Le regole
Il voto e l’incognita assemblea


DOMENICA si va al voto per eleggere il segretario del Partito democratico. Candidati Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Civati. Le primarie sono aperte a tutti i maggiori di 16 anni, senza registrazione obbligatoria. Chi prende il 51 per cento vince. Ma se nessuno dovesse raggiungere questo risultato, allora si andrà al ballottaggio. Non con un secondo turno di gazebo, ma con un voto nell’Assemblea nazionale, che verrà eletta sempre dalle primarie. Formalmente, il segretario non verrà proclamato fino al 15 quando il parlamentino del partito si riunirà a Milano.

il Fatto 6.12.13
Pippo Civati
Il filosofo battutista che sfida Renzi e il Pd
Classe 1975, nato e cresciuto nella Brianza berlusconiana, Civati ha un pallino fisso: cambiare il partito dall’interno
Ci ha provato prima con Marino, poi con il sindaco di Firenze
Ora ha deciso che l’unico modo è farlo da solo
“Come papa Bergoglio”
di Davide Vecchi


È il compagno che il primo giorno di scuola conquista l'ultimo banco, perché lì almeno ci si può distrarre, ma che con l'avanzare dei mesi scala verso la cattedra fino a sedersi in prima fila perché dietro ci si distrae, ma troppo. Giuseppe “Pippo” Civati, classe 1975, secchione lo è a sua insaputa. Così lo ricordano i compagni del liceo classico Zucchi di Monza. All'università il termine “secchione” perde l'accezione adolescenziale e acquista sembianze adulte, così Civati diventa, per i suoi compagni, intelligente, affidabile, serio e sveltissimo con pensiero e battute. L'ultima, fulminante, giusto ieri: “Se diventerò segretario farò come Bergoglio con i fedeli e coinvolgerò gli iscritti”. Chi conosce e sostiene l’oggi candidato di sinistra alle primarie del centrosinistra, una sorta di ossimoro, azzarda citazioni filosofiche per inquadrarlo. “Socratico” è la più diffusa. Perché, spiegano in molti, Pippo è uno che negli occhietti azzurri, incastonati tra lentiggini e colori irlandesi, ha la luce sempre accesa del quesito “perché? ”. Sempre, garantiscono. Nessuna certezza, secondo loro, se non il sapere di non sapere. Istrionico, abile venditore di fumo, afflitto da paraculite acuta: questi, invece, i panni di cui lo vestono i suoi detrattori. Per lo più avversari politici incontrati tra il consiglio comunale di Monza e quello regionale lombardo negli anni del berlusconismo e del formigonismo imperanti.
Da Socrate alla politica
L’ingresso in politica Civati lo fa nel 1997 con i Ds, dopo una breve esperienza nei giovani progressisti dei comitati per Prodi. Ha 22 anni, si è appena laureato in Filosofia alla Statale di Milano vincendo in un colpo solo anche il dottorato di ricerca che lo porterà a collaboratore anche con l’Università di Barcellona. In Comune a Monza si ritrova all'opposizione della prima infornata di Forza Italia che lì vicino, ad Arcore, ha la casa del padrone, e poco distante, in viale Monza, la sede principale del partito. Il Comune va agli uomini di Silvio, ma Civati fa un buon risultato, diventa segretario cittadino e comincia a girare. “Ad ascoltare la gente”, ricorda Fausto Perego, storico segretario della sinistra (dal Pds in poi) di Arcore, dove oggi è assessore. I due si sono conosciuti in quegli anni e ancora oggi è Perego che aiuta Civati sul territorio. Alla fine degli anni Novanta “la nostra zona era prettamente di centrodestra, quindi ovunque andassimo potevamo solo partire dalle basi, dall’ascolto dei problemi”. Funziona: alle comunali del maggio 2002, nonostante Forza Italia e Lega siano alleate, a Monza vince al primo turno con il 53% Michele Faglia, candidato dell'Ulivo. Il ruolo di Civati, garantisce Perego, “fu fondamentale: l'ho visto parlare con chiunque, ovunque, e lui ascolta, capito? Cioè, lo vedi che proprio gli interessa il confronto, capire le ragioni altrui”. Involontariamente, anche Perego la butta in filosofia. “A forza di stargli vicino”, sorride.
Civati non parla volentieri della sua vita privata, ha una compagna, Giulia, con la quale ha avuto una bimba un anno fa. E raccontando il cambio di pannolino ci mise di mezzo l'Eneide di Virgilio. Partendo dal fagotto puzzolente, Civati arrivò ad analizzare l'incontro generazionale e da qui si spinse all'alleanza stretta tra Enea e Anchise, mentre Troia bruciava. Per carità, era anche un riferimento allo stato conflittuale del Pd; un invito ai rottamandi vertici affinché si convincessero a passare il testimone o, almeno, ad allearsi con i giovani invece di far loro la guerra. Ma agli smacchiatori di giaguari forse era il caso di citare altro, non Virgilio. Del resto, Civati ha sempre l’aria di quello che si trova lì per caso. Quando nel febbraio 2009 Walter Veltroni lascia la guida del Pd, in un sondaggio on line de l’Espresso per la scelta del nuovo leader del partito, Civati risulta, a sorpresa, il secondo più votato dopo “nessuno di questi”. E tra “questi” c’erano tutti, da Matteo Renzi a Massimo D’Alema. Lui fa finta di nulla e sceglie di fare il coordinatore nazionale della campagna elettorale di Ignazio Marino. Nel 2010 viene confermato consigliere regionale in Lombardia, dove era stato eletto per la prima volta nel 2005. Nell’aprile 2010 decide di dar voce al malcontento diffuso tra i democratici e crea un movimento politico interno al Pd, “andiamo oltre”. Il cambiamento è un chiodo fisso. Nel 2010 si ritrova rottamatore con Renzi, promuovono “Prossima fermata: Italia” alla Leopolda. L’anno successivo con Deborah Serracchiani è a Bologna ad animare l’iniziativa “il nostro tempo”.
Lo scontro con i Berlusconi
Il connubio con il Sindaco fiorentino dura una stagione, ma rimangono legatissimi. Entrambi sanno che non possono prescindere l’uno dall’altro. È Renzi, per dire, che al confronto televisivo a Sky, passa l’acqua premuroso a Civati dopo il suo intervento. Ed è sempre Renzi che un giorno sì e l’altro pure propone a Civati di fargli da vice. E quello risponde che vincerà. “È irrequieto, bravissimo nel confronto, da sempre proiettato alla ricerca del cambiamento”, dice Pierfrancesco Majorino, oggi assessore nella giunta di Giuliano Pisapia. “ È stato tra i primi a parlare di una sinistra moderna”. Inutile dirlo: Majorino sosterrà l'amico Pippo. Si sono conosciuti ai tempi della Cascinazza, l’area agricola di Monza che la famiglia Berlusconi voleva trasformare in una colata di cemento. Civati scoprì il giochino che l’allora sindaco monzese di centrodestra, Marco Mariani, stava permettendo e cominciò a parlarne. Stesse lotte compiute in Regione contro Roberto Formigoni. Anche se i risultati del Pd sono sempre stati decisamente scarsi. Anche nella scelta di Filippo Penati. Civati ne sostiene la candidatura, con manifesti “Ci-vati per Penati”. Per carità, Penati era l’uomo forte al Nord, capo della segreteria politica di Pierluigi Bersani, ma poi rinviato a giudizio e indagato non è una medaglia. Civati ne è uscito grazie alla solita dialettica. Secondo molti la forza di Civati è proprio la comunicazione. Sul web, che ha usato tra i primi e dove ha un seguitissimo blog e crea azzeccate iniziative (#civoti, il civatest o l’autointervista a Fazio), e dal vivo. “Anche con i leghisti ci fermavamo a parlare”, ricorda Perego. Vero. Civati è l’unico del Pd ad aver partecipato a dibattiti padani. L’ultimo alla festa della Lega a Forlì con il sindaco di Verona, Flavio Tosi. Alla fine sono andati via insieme, a braccetto. Ha un problema di dialogo solo con il Pd. Per ultimo, il caso Cancellieri. Civati ne ha invocato le dimissioni, il partito ha detto no. E lui si è adeguato. Alle primarie mancava poco e ha imparato che a volte è meglio essere pratici, accantonare Virgilio e affidarsi a Seneca: attendere il vento per andare.

il Fatto 6.12.13
Pippo Civati come Verdone stralunato trasteverino
di Luigi Galella


Si avvicinano le primarie per la scelta del segretario Pd e aumentano le esposizioni in video dei candidati. Pippo Civati partiva da ultimo, nelle previsioni, ma a suo dire ci saranno sorprese. Con spirito candidamente velleitario dichiara che sarà proprio lui a vincere, dimostrando di avere una buona dose di spirito e di coraggio. Intanto, nella prima contesa a tre andata in onda in diretta su Sky, è risultato per i sondaggi on line di due grandi quotidiani nazionali il più convincente, battendo Renzi e distanziando Cuperlo. Pochi se lo attendevano, considerato il credito mediatico di cui gode il sindaco di Firenze, che proprio in tv nel tempo ha visto man mano accrescere popolarità e quotazioni. Il piccolo schermo, evidentemente, proprio risibile non è. Riappare Civati, in un collegamento da Bruxelles, ospite di Lilli Gruber su La7 a Ottoemezzo (con lei in studio era presente la sottosegretaria Simona Vicari del neonato Nuovo Centrodestra). E ripete grosso modo ciò che aveva già detto nello scontro di domenica. Nel frattempo però è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale, che ha sventrato il famigerato Porcellum (il copyright del nome è di Giovanni Sartori) consegnando proprio a lui un assist importante. Civati infatti è sempre stato il più convinto a schierarsi a favore delle elezioni.
IL PIÙ DISTANTE dal governo Letta, che pure appartiene al suo partito, e dai tatticismi di Renzi compresi gli accordi col premier che lo stesso Civati contesta che potrebbero danneggiarne l’immagine di rottamatore puro. Elezioni, a questo punto, che non solo dovrebbero essere vicine, ma urgenti.
Pippo Civati non è un animale televisivo e di fronte alla camera mantiene una postura molto composta. Fin troppo. Si ricordi sempre per contrasto Gianfranco Funari, che lo schermo lo annusava come un cane da tartufi e lo aggrediva, lo azzannava. Per certi aspetti la tv ha una natura animalesca, con cui bisogna interagire con il medesimo linguaggio. Sempre che se ne abbiano i mezzi. Meglio in piedi che seduti, meglio uno studio grande che uno piccolo, meglio ignorare che una telecamera ti riprende piuttosto che guardarla fissamente, quasi se ne fosse ipnotizzati. Dalla Gruber Civati era seduto, fermo, guardava in camera e per giunta il collegamento esterno via satellite lo destinava nelle risposte a quel breve ritardo, effetto ragazzo trasteverino di Verdone, che fa sembrare un po’ tonti. Troppo per risultare efficace allo stesso modo di domenica. Singolarmente, nel curioso gioco delle parti rovesciate, cui la stravagante politica italiana destina i suoi protagonisti, a difendere il governo Letta e perfino il presidente Napolitano si è schierata l’alfaniana Vicari, mentre il piddino Civati, l’eretico, colpiva educatamente l’uno e l’altro. Sul Presidente ha avuto perfino l’ardire di ricordare – inusuale per un esponente Pd – che aveva annunciato che si sarebbe dimesso, “L'ha detto lui”, qualora la maggioranza di governo fosse saltata o se il necessario percorso di riforme indicato alle Camere non fosse andato a buon fine. La maggioranza non è più la stessa, le riforme languono, ma il Presidente è sempre lì. Con garbo poco “animalesco”, ma assai deciso nei contenuti.

il Fatto 6.12.13
Profondo PD. Apparato bellico
L’anatema di Max contro il rottamatore: “Ci organizzeremo, sappiamo combattere”
D’Alema avverte Renzi “Se vince lotteremo. Daremo battaglia”
“Repubblica e il potere economico lo appoggiano, ma Cuperlo può vincere”
di Alessandro Ferrucci


Il lìder Maximo parla nella “sua” Puglia: “In molti hanno provato a eliminare la nostra tradizione, anche gente con più attributi di lui Ma gli è sempre andata male”. Poi l’affondo contro “Repubblica”: “Non dà notizie, gli fa solo pubblicità visto l’endorsement di De Benedetti”
Civati lo tratta come il cugino sciocco di Renzi. Renzi è l’elemento esterno, dannoso, ignaro del pericolo imminente all’interno del partito. Lui è Massimo D’Alema, tutti e tre sono del Pd e mancano 48 ore alle primarie. “Ma come si fa a votare Civati! – sibila il Lìder Maximo – Come! La maggior parte di quelli che lo votano non lo conoscono. Se lo conoscessero non lo voterebbero”. E poi: “Se dovesse prevalere Renzi, io non credo nelle scissioni, ma ci organizzeremo. Abbiamo radici profonde e abbiamo una antica tradizione di lotta, una tradizione tenace che hanno provato in molti a eliminare, anche gente con più attributi di Renzi. Gli è andata male, come andrà male a lui. Noi non possiamo mollare il campo! ”. Qualche applauso.
CERIGNOLA, l’appuntamento era fissato per le 17 tonde. Non c’è nessuno. Massimo D’Alema va a prendere il caffè. Diciassette e trenta, arriva qualcuno. Massimo D’Alema aspetta a entrare in sala. Dieci minuti alle 18, ottanta militanti del Pd si siedono, l’effetto ottico è accettabile, si può iniziare. Così nella città natale di Giuseppe Di Vittorio, nella sala consigliare a lui intitolata, è possibile ritrovare tracce della gente cara allo storico leader della Cgil: facce cotte dal sole, mani callose, maglioni a girocollo. Qualcuno indossa la giacca e la cravatta, soprattutto le nuove generazioni, attente nello stile e a controllare anche l’inflessione dialettale. Sono riuniti per ascoltare l’ex premier, arrivato in Puglia per aiutare Gianni Cuperlo, la strategia è azzerare gli avversari.
Szzzzz, szzzzz, il microfono non funziona, a D’Alema si arriccia un lato della bocca, la sua smorfia più celebre, chiede agli organizzatori di risolvere il problema. Subito staccano il collegamento, preoccupati di aver infastidito l’illustre ospite. “Poco male, sono abituato a fare i comizi senza amplificazione”. La voce forte, perentoria, lo dimostra, però non molla il “gelato”, continua a parlarci sopra e svela come Renzi è riuscito a diventare Renzi: “Grazie ai giornali, al potere economico e a parte del nostro partito. Sono loro ad aver creato il fenomeno. Repubblica in particolare non dà notizie, gli fa solo pubblicità visto l’endorsement di De Benedetti, serve a creare un clima, ma si manipola il voto e l’opinione delle persone”. Nessun boato in sala. Meglio ricorrere a un evergreen, a una certezza. Come Albachiara per Vasco Rossi alla fine del concerto, arriva anche il riferimento all’antico antagonista: “Ogni volta che abbiamo sfidato la destra attraverso il leaderismo abbiamo perso, come con Veltroni. Noi dobbiamo utilizzare la politica, non un unto dal signore. Quando abbiamo vinto è stato grazie alla costruzione di una coalizione, esattamente quanto accaduto con Prodi, scelto da me nel 1996”.
Angosce democratiche: “Abbiamo trasformato questo partito in un votificio, dove si vota continuamente. Una ginnastica elettorale. Mentre in un congresso ci si dovrebbe parlare. Confrontarci. Dobbiamo mettere in piedi una comunità di persone, non una macchina elettorale a servizio del leader. Lo vedete che fa Renzi? È pronto a mandare via Letta, mentre Civati urla: ‘Se vinco basta governo delle larghe intese’. Ma le larghe intese non ci sono più, diteglielo! Svegliate il giovanotto, è un tipo confuso”. Sempre pochi applausi. Qualche sbadiglio. Non è la solita platea adorante, il tempo passa anche nella ex enclave rossa: “Per forza – racconta uno dei partecipanti – ha presente quante porcate ho visto a Cerignola? Come ovunque, per carità, ma ci siamo un po’ rotti”.
Anche D’Alema non è il solito comiziante con il gusto della battuta, della frecciata, della certezza infusa, solo un paio di volte modula la voce con antica tecnica per arrivare al consenso commosso. Non ci riesce.
COSÌ CAMBIA bersaglio, senza nominarlo: “Dall’altra parte c’è quello del ‘vaffadei’, ma possiamo anche staccare le Alpi dall'Italia e vedere dove andiamo a finire nel Mediterraneo! Io capisco la rabbia, ma la rabbia dei cittadini non può diventare suicidio”. Solita reazione dai presenti. Meglio tornare sul campo principale. “Il voto andrebbe depurato delle sedi dove si è superato l’85 per cento dei consensi, dove si sono presentati con pacchetti di tessere. Anche Lele Mora vota Renzi, ma se votano i nostri l’esito è aperto. Se arrivano quelli degli altri partiti, allora vince lui, uno che non appartiene alla nostra civiltà, tradizione e cultura”. Mentre Cuperlo è “uno dei nostri”, anche se ne parla poco, mentre non cita mai, ma proprio mai, Pier Luigi Bersani, causa del disastro. Quindi una chiosa con lacrima, offerta un’ora dopo in un appuntamento a Foggia: “Il centralismo democratico era bellissimo e non contemplava le primarie. Ma la parte più bella era il sostantivo, di democratico c’era poco”. E per lui, uno come Renzi, sarebbe stato dal-l’altra parte, a casa sua, nella Democrazia cristiana.

il Fatto 6.12.13
Pd Lazio, spese per cene e comparsate tv
I PM di Rieti hanno indagato l’ex capogruppo Montino e altri 13
Controlli su 2 milioni di euro
di Valeria Pacelli e Nello Trocchia


Quando è scoppiato il caso di “Batman” Fiorito, il gruppo regionale del Lazio del Pd voleva tenersi alla larga dagli scandali sulle spese. E così il partito, di cui era capogruppo Esterino Montino, lo scorso anno, ha deciso di pubblicare on line il rendiconto dettagliato. L’operazione trasparenza, però, ora rischia di travolgere i democratici. La procura di Rieti, infatti, ha ispezionato i conti del 2011 – sono stati spesi circa due milioni di euro e ha iscritto nel registro degli indagati 14 persone: 10 imprenditori e 4 consiglieri, per reati che vanno da peculato, al falso, al finanziamento illecito. Tra gli indagati, l’ex tesoriere e consigliere regionale del Pd, Mario Perilli; l’ex capogruppo alla Pisana ora sindaco di Fiumicino, Esterino Montino; l’ex consigliere Pd Enzo Foschi, ora capo segreteria del sindaco di Roma Marino; e l’ex consigliere Giuseppe Parroncini. L’inchiesta riguarda tutte le spese sostenute dal partito nel 2011: dagli alberghi alle cene, a quelle per servizi televisivi, approfondimenti giornalisti ed eventi.
GIÀ A SETTEMBRE dell’anno scorso Il Fatto aveva passato al setaccio le spese pubblicate nel rendiconto firmato da capogruppo Esterino Montino e dal tesoriere Mario Perilli. A “Nuovo Paese Sera” ad esempio il Pd ha fatto cinque versamenti da 4800 euro, cifra fissa, giustificata con la dicitura “Diffusione materiale informativo gruppo pd, politiche sanitarie”. TeleUniverso per “servizi televisivi nella provincia di Frosinone” ha incassato prima 16 mila euro, poi altri 25 mila. Altro capitolo riguarda le spese per riunioni, convegni e incontri. Il rendiconto sotto questa voce riporta spese per un totale di 210 mila euro circa. Ai quali si aggiungono 23 mila euro per “spese per alberghi, ristoranti e bar”. Ci sono ad esempio 9800 euro per il catering al convegno Pd dell’11 maggio 2011 presso il ristorante La Foresta, più altri 9800 euro per un catering in occasione di un altro incontro. Al ristorante Pinzimonio, a Fiumicino, un incontro e un dibattito sono costati al partito 8mila euro. Il ristoratore a settembre scorso spiegò al Fatto : “Dibattiti non ne ricordo anche perché il locale è piccolo”. Nel rendiconto figurava anche una voce di 4500 euro per le spese di rappresentanza di Natale all’enoteca La Tuscia. Il tesoriere democratico Perilli spiegò: “Si tratta di pacchi regalo, vini e altro, donati dal consigliere Parroncini ad amministratori locali e direttori di giornali”. Adesso su tutte queste spese sta indagando la guardia di finanza di Rieti, guidati dal colonnello Cosimo D’Elia, su delega del procuratore capo Giuseppe Saieva. Il sospetto, tra gli altri, è che alcune fatture siano state gonfiate rispetto alle prestazioni erogate e, con la differenza, siano state finanziate associazioni vicine al Pd. Ma l’inchiesta è solo all’inizio quindi se le spese siano o meno “giustificabili” è ancora da verificare. “Sono sereno – ha fatto sapere ieri il sindaco di Fiumicino, Montino – e confermo la mia totale disponibilità ad essere sentito il prima possibile dalla Procura. Ho sempre agito in assoluta trasparenza”.

il Fatto 6.12.13
E Matteo trova sempre un sorriso per Silvio
Il sindaco: “La vicenda Berlusconi decisa dai giudici, il suo marchio è sempre forte”
di Luca De Carolis


Il sindaco di Firenze ne ha fatto uno slogan: “Rassicuro tutti, D’Alema vota Cuperlo”. Mentre Civati scomoda film (stile Veltroni): “Massimo dice che sarei pericoloso per il Paese, ma lui sembra Keyser Soze, il cattivo de I soliti sospetti”. Gira che ti rigira, ormai due candidati su tre alla segretaria del Pd finiscono sempre per ricordare che l’ex premier non sta dalla loro parte. Anche perché D’Alema li attacca a scadenza oraria, come se fosse lui il terzo in corsa. Il filo rosso degli ultimi scampoli di primarie è soprattutto questo, anche nel giorno in cui il partito dà le prime cifre sull’8 dicembre. Domenica si potrà votare in circa 9mila tra gazebo, associazioni e circoli, grazie ai 100mila volontari. Il 15 dicembre, a Milano, l’assemblea nazionale che investirà il vincitore. “Ci aspettiamo una buona partecipazione, si sono già pre-registrati in 80mila ” spiega Guglielmo Epifani, segretario uscente e un filo malinconico. “Ho svolto il mio lavoro con serietà e dedizione, traghettando in una fase difficile la barca democratica”, rivendica.
RENZI SI FA SENTIRE dai microfoni dell’Alfonso Signorini Show su Radio Montecarlo. Si parte con l’attacco al governo : “È composto da persone per bene, ma non ha combinato granché” e si arriva ai Berlusconi: “Se temo più Marina di Silvio? Li temerei allo stesso modo, il marchio Berlusconi è elettoralmente molto forte”. Poi il fu rottamatore se la prende con “quei signoroni che a Roma decidono tutto”. Segue elenco: “Arriva la Consulta e riscrive la legge elettorale; su gravi vicende come Stamina è il Tar che decide, il bilancio te lo fanno in Europa, la vicenda Berlusconi è stata decisa dai giudici, sembra che la politica non conti più niente”. Quindi una previsione sulle urne: “Domenica vanno a votare un milione e mezzo due milioni di persone”. In serata Renzi parla da Napoli: “L’altra volta mi hanno detto che ho fatto un bel discorso della sconfitta, questa volta spero di fare un brutto discorso della vittoria”. Cuperlo lo punge: “Non si può fare un secondo lavoro facendo un’altra attività come quella di sindaco o se allo stesso tempo ti candidi a fare un altro mestiere come il premier”. E ancora, “dopo la Consulta il problema non è quanto deve aspettare Renzi per andare al governo, piuttosto restituire la certezza di una democrazia funzionante”. Civati ricorda più volte che Grillo “apre al Mattarellum”, coerente con la sua voglia di pescare voti anche dentro M5S.Tanto per cambiare batte un colpo D’Alema. Ce l’ha con l’ex dalemiano Michele Emiliano, ora con Renzi: “Il sindaco di Bari si sta muovendo in modo un po’ discutibile, anche rispetto ai suoi doveri istituzionali”. Emiliano ribatte: “D’Alema mette le mani avanti per giustificare la sconfitta”. Dalla Sicilia, il renziano Davide Faraone: “Mirello Crisafulli (neosegretario ad Enna, eletto con oltre il90percento)hapiazzatoilseggionella sua segreteria”. Problemi per Antonio Di Pietro, che oggi sarà nella sua Montenero di Bisaccia per un’iniziativa pro Renzi. Il responsabile della commissione molisana per le primarie gli ha fatto sapere che domenica non potrà votare: “Di Pietro è iscritto all’Idv”. L’ex pm protesta: “Il Pd molisano dica se vuole escludere persone scomode”.

il Fatto 6.12.13
Sul carro a Salerno
De Luca pigliatutto Anche dal Pdl


Anna Ferrazzano, due anni fa, era nel Pdl. Si era candidata, con sprezzo del pericolo, a sindaco della città di Salerno contro il campione cittadino Vincenzo De Luca. Aveva preso circa il 15 per cento dei consensi. L’altro circa il 75. Perchè poi nella città di De Luca, il sindaco i suoi consensi li ha sempre raccolti. Per sè o per chi, di volta in volta, ha deciso di appoggiare. Nelle ultime elezioni primarie tra gli iscritti, ad esempio, ha destato scandalo il 93 per cento raccolto dal-l’alleato Renzi. Nelle primarie passate di contro il 75 per cento raggiunto dall’allora alleato Bersani fu catalogato tra le circostanze comuni di queste lande. Fatto sta che da giovedì, al gruppo dei tanti sostenitori di Renzi, a Salerno se n’è aggiunta un’altra: Ferrazzano, già Pdl. Fedele al motto: “Se non puoi batterli, fatteli amici”.

Corriere 6.12.13
La condizione di Renzi: chi vince le elezioni deve vincerle davvero
Il sindaco e Civati all’attacco di D’Alema
di Giovanna Cavalli

ROMA — Più che ottimista sullo zelo dei parlamentari, si affida ad una constatazione pratica: «Ora che la Corte costituzionale ha rimesso la palla nel campo del Parlamento, io penso che riusciranno ad essere seri perché ci sono tanti gruppi che hanno una fifa matta di tornare alle elezioni», pronostica Matteo Renzi (a Napoli, Città della Scienza), sintetizzando il concetto che più gli preme: «Alla Camera c’è la possibilità di fare una legge che risponda soprattutto al requisito che chi vince, vince davvero».
Un po’ quello che conta di fare lui, alle primarie del Pd dell’Immacolata, augurandosi di non dover pronunciare, come l’ultima volta, un «bel discorso di sconfitta: stavolta vorrei evitare di fare il bis. Piuttosto magari fare un discorso brutto, ma della vittoria». Con tanti buoni propositi tra cui uno: «Il punto non è rompere gli zebedei a Letta, ma cominciare a fare qualcosa per l’Italia. In questi mesi il governo, che è di persone per bene, civili, sulle questioni vere degli italiani, dalle tasse al lavoro, non ha combinato granché e l’abbiamo visto sull’Imu» (a Radio Montecarlo). Ribadendo la premessa: «Io non rompo le scatole al presidente del Consiglio, gli dico che o si fanno le cose che servono al Paese, oppure buttano via l’ultima speranza che ci è rimasta».
Un aiuto indiretto e involontario a sbancare le primarie glielo fornirà — ironizza Renzi — proprio Massimo D’Alema, in quanto sponsor del più accreditato concorrente: «Ha detto che l’8 voterà Cuperlo, ed è uno dei principali incentivi alla mia campagna elettorale» sostiene il sindaco di Firenze che, si sa, i vecchi leader si è ripromesso di rottamarli tutti. «Mi sembra un elemento fondamentale onde evitare di perdere immediatamente il 2%. Poi, se dovessi vincere io, ragionerà se votare me». L’altro contendente, Giuseppe (Pippo) Civati invece azzarda un paragone cinematografico cult per l’ex premier: «Leggo una dichiarazione di D’Alema in cui sostiene che una mia vittoria nel congresso del Pd è da scongiurare perché, dice, sarei pericoloso per il Paese. Lui non manca mai di sottolineare di non avere più nessuna carica. Mi ricorda sempre di più Keyser Soze, quel personaggio che ne «I soliti sospetti» sembra fare da narratore e da commentatore, quando in realtà è il colpevole. Solo che nel film è un colpo di scena, mentre nel caso di D’Alema è un finale piuttosto telefonato».
Quanto a Renzi — che ha raggiunto quota 91.570 euro di raccolta fondi (l’obbiettivo era 80 mila) — non prevede un boom di votanti («Secondo me non ci vanno 3 milioni di persone»), ma pensa comunque positivo: «Credo che un milione e mezzo o due di persone ci andranno e questo è bello, perché io non ne posso più di questi signoroni che a Roma decidono tutto loro: arriva la Corte costituzionale e riscrive la legge elettorale, su gravi vicende come Stamina è il Tar che decide, il bilancio te lo fanno in Europa, perfino la vicenda Berlusconi l’hanno decisa i giudici. Sembra che la politica non conti più niente. A me piace che domenica, andando a votare, finalmente i cittadini diano il senso che la politica è una cosa seria. Tocca noi, però tiriamo fuori il coraggio».

l’Unità 6.12.13
Paolo Ferrero: «Rifondazione è viva, nonostante l’oscuramento»
Il segretario alla vigilia del congresso: «Il governo Letta è peggio di quelli di Monti e Berlusconi
Sulle politiche di austerità il Pd è parte del problema»
intervista di Osvaldo Sabato


Da due tornate elettorali Rifondazione Comunista non riesce a mandare nessuno dei suoi in Parlamento. Ma nonostante ciò conta trentamila iscritti e in mille circoli si sono tenuti i congressi, prima di quello nazionale (è il nono) che si aprirà oggi a Perugia. «Il nostro è un partito vivo, non è morto, certo è molto oscurato, praticamente nei telegiornali noi non esistiamo, a differenza di altri, che magari hanno meno consenso di noi», osserva il segretario Paolo Ferrero, pronto a un nuovo mandato, anche se precisa «da noi il presidenzialismo non c’è, decideranno i delegati».
Segretario, cosa pensa del governo Letta?
«È un disastro, come lo erano quelli di Monti e Berlusconi, perché la linea delle politiche di austerità, in obbedienza ai diktat della Merkel, distrugge l’economia italiana e i diritti degli italiani. Per questo il primo punto che noi abbiamo al congresso è di rompere con questa Unione europea, che sta distruggendo l’Europa e che non c’entra nulla con quella pensata da Altero Spinelli. Questa Europa è il contrario, quindi noi diciamo: basta con la retorica del battere i pugni sul tavolo».
Cosa si dovrebbe fare?
«Bisogna non applicare i trattati, che stanno demolendo la nostra economia».
Voi avete delle proposte?
«Ne abbiamo due. Noi presenteremo al congresso un piano per il lavoro, che dice: i soldi ci sono, basta prenderli da chi li ha, penso alle patrimoniali sulle grandi ricchezze, al tetto su pensioni e stipendi a cinquemila euro, allo smettere di comprare i cacciabombardieri e usare questi soldi per fare lavori utili come il riassetto del territorio, gli acquedotti e servizi. Poi pensiamo a una proposta politica che punta a mettere insieme la sinistra».
Con il Pd?
«Questo partito ha scelto delle politiche di austerità sbagliate. Inoltre con la vittoria quasi certa di Renzi alle primarie il Pd avrebbe un segretario ex democristiano e un premier, Letta, anche lui ex democristiano e a questo punto il Pd diventa un partito di centro. Ecco perché serve una forte aggregazione della sinistra per ridare voce ai più deboli».
Quindi parlare di future alleanze con il Pd per voi è fantapolitica?
«In questo contesto, sì. Perché il Pd ha scelto le politiche di austerità, che lungi dal risolvere la crisi la stanno aggravando. Quindi il Pd con la sua politica sta dalla parte del problema e non dalla parte della soluzione».
Per Vendola le porte sono aperte?
«Lui dice che vorrebbe entrare nel Pse, questo è un errore. Ovviamente noi saremmo molto contenti se Vendola, invece che inseguire con il cappello in mano il Pd, lavorasse per costruire la sinistra. In questo Paese c’è una grande sinistra diffusa che non ha più nessun riferimento».
L’occasione può essere il voto europeo del prossimo maggio?
«In Europa ci sarà la candidatura a presidente di Alexis Tsipras, leader di Syriza, noi proponiamo di costruire in Italia una lista unitaria di sinistra, che lo appoggi nella battaglia contro le politiche di austerità».

Corriere 6.12.13
Rifondazione attacca «Disobbedire alla Ue»
di Marco Cremonesi


MILANO — L’Unione Europea? «È ormai il principale nemico dei popoli e sta distruggendo l’Europa». Il Pd? «Ha un premier democristiano e avrà un segretario democristiano. Non è più sinistra. Di certo, noi siamo alternativi». Il presidente Napolitano? «Il peggiore della storia. Più garante della Merkel che non della Costituzione». Inizia oggi il IX congresso di Rifondazione comunista, ma le difficoltà degli anni recenti non hanno scalfito le convinzioni del segretario, Paolo Ferrero: «Al di là della scomparsa di Rifondazione dai media, noi continuiamo a essere un partito vero. Ma l’informazione privilegia una politica-teatro, in cui i contenuti non esistono: basti pensare alle primarie del Pd». Quindi, il ritorno all’alleanza con i dem è ormai impossibile? «La nostra prospettiva è quella di aggregare la sinistra che esiste fuori dal centrosinistra. Praticamente tutta, direi. Ma devo dire che non è un problema soltanto italiano: guardiamo le larghe intese tra Spd e Merkel, la delusione rappresentata da Hollande... E il fatto che il Pd sarà guidato da Renzi è un disastro. Poi, certo: in qualche Comune l’alleanza è possibile. Ma niente di più». Ferrero si ferma un attimo e riprende: «Come il Pci di Berlinguer era alternativo al pentapartito di Craxi, noi siamo contro questo Pd che gli somiglia così da vicino».
Rifondazione alle Europee sosterrà la candidatura di Alexis Tsipras, il leader della sinistra greca di Syriza. Con una parola d’ordine pesante: «Disobbedire alle direttive europee. Non è più tempo di dire, come fa Letta, che bisogna andare in Europa e battere i pugni. È l’ora di disobbedire, riprendere la sovranità nelle politiche economiche». Ma cosa offrite agli elettori? «Il nostro piano per il lavoro che punta a creare un milione e mezzo di nuovi posti. Finanziato con una patrimoniale, il tetto agli stipendi e alle pensioni oltre i 5.000 euro, l’abbandono di spese inutili come la Tav e l’acquisto dei nuovi caccia». In tutto ciò, il grande nemico è Napolitano: «Invece di essere il garante della Costituzione, lo è delle politiche neoliberiste e del quadro politico che le deve applicare. È il garante della Merkel».

il Fatto 6.12.13
I veleni dell’Ilva
Pressioni sulla agenzia ambiente, Vendola sbugiardato da due testimoni
di Francesco Casula, Lorenzo Galeazzi e Antonio Massari


I RAPPORTI DIFFICILI CON IL DIRETTORE DELL’AGENZIA AMBIENTE CHE DOVEVA PRESENTARE I DATI SUI VELENI. E LE EMAIL CHE L’AZIENDA INVIAVA AL GOVERNATORE

“Non ho mai ricevuto da Vendola nessuna pressione e nessuna intimidazione”. È la mattina del 28 novembre 2012 quando Giorgio Assennato, direttore generale di Arpa Puglia, entra nella caserma della Guardia di finanza di Taranto. I finanzieri – che indagano da due anni sull’inquinamento dell’Ilva – hanno raccolto una mole d’intercettazioni che li ha ormai persuasi: Nichi Vendola, in concorso con i vertici dell’Ilva, ha fatto pressioni su Assennato per “ammorbidirlo”. In quelle ore, per il governatore pugliese, è sempre più vicina l’accusa di concussione, ma Assennato nega: nessuna pressione. Neanche il 15 luglio 2010 quando, secondo l’accusa, fu tenuto fuori dalla porta, mentre Vendola discuteva con i Riva, e fu costretto ad aspettare per ore. Eppure un testimone di quella giornata racconta di aver incontrato Assennato con lo “sguardo rassegnato” e “la testa bassa”. Per ricostruire la vicenda, però, è necessario fare un passo indietro.
La guerra contro Assennato
Nell’estate 2010, l’Arpa rileva i dati del Benzo(a) pirene emessi nel rione Tamburi di Taranto: superano il limite previsto e l’Agenzia scrive una relazione durissima: chiede a Ilva di adeguare la produzione alle condizioni meteorologiche perché l’inquinamento, quando il rione è sottovento, cresce in maniera preoccupante. I Riva temono di dover diminuire la produzione. La guerra di Ilva contro il direttore generale del-l’Arpa diventa furiosa.
C’è posta per Nichi
Archinà, il braccio destro dei Riva, lavora ai fianchi di Assennato. Si lamenta con Vendola degli scienziati che hanno redatto lo studio, Massimo Blonda e Roberto Giua, iniziando a ottenere qualche risultato. È lo stesso Assennato a chiamare Archinà, ai primi di giugno, per lamentarsi di essere stato “delegittimato”. La ragnatela di Archinà diventa di ora in ora più fitta. Il 22 giugno scrive a Fabio Riva. Sostiene che Assennato è stato sconfessato e descrive la posizione di Vendola: “Per nessun impianto Ilva si deve ipotizzare una sia pur minima restrizione”. E soprattutto: spiega che ha un accordo con il governatore. La lettera, che Ilva sta scrivendo ad Arpa, deve essere inviata, per conoscenza, anche a Vendola che “al ritorno dalla Cina affronterà direttamente la questione”. Ed effettivamente, tornato dalla Cina, Vendola chiamerà Archinà per ricordargli: “Non mi sono defilato”.
Questione d’immagine
Nelle stesse ore Archinà confida ai suoi: “Vendola è molto arrabbiato perché gli fanno fare brutta figura con l’opinione pubblica”. E in effetti, per il segretario di Sel, ormai lanciato in una dimensione nazionale, ammettere che l’inquinamento in Puglia sta aumentando, può rappresentare una potente caduta d’immagine. E ora torniamo alle risposte di Assennato agli investigatori.
La riunione del 15 luglio
Gli inquirenti mostrano al direttore generale dell’Arpa un’intercettazione: Archinà racconta come andò, il 15 luglio 2010, la riunione tra Vendola e i Riva. “Tieni presente che già psicologicamente, ieri, è avvenuto questo: Assennato è stato fatto venire al terzo piano però è stato fatto aspettare fuori… come segnale forte... ”. Assennato risponde di non ricordare “nulla, salvo che vi fu una riunione, nella quale ci fu un’anomala attesa da parte mia... non credo di aver partecipato... ma posso escludere qualsiasi pressione”. La lunga serie di “non ricordo” costa ad Assennato l’accusa di favoreggiamento personale nei confronti di Vendola: con le sue risposte, secondo l’accusa, l’ha aiutato a eludere l’imputazione di concussione. Il Fatto Quotidiano è in grado di rivelare due dettagli che arricchiscono il contesto di quelle ore. Le parole di Archinà, su quella riunione del 15 luglio, raccontano qualcosa in più: “Assennato è stato fatto venire al terzo piano, però è stato fatto aspettare fuori, come segnale forte... cosa che poi lui ha fatto trapelare sul Corriere del Giorno... ”. Cos’è trapelato sul quotidiano locale? E soprattutto: chi l’ha fatto trapelare? “Testa bassa – scrive il cronista Michele Tursi – sguardo rassegnato. Quello che le veline non dicono riguarda il professor Giorgio Assennato”. Quel giorno in Regione si tiene la conferenza stampa per il “monitoraggio diagnostico” dell’Ilva. “Strana conferenza stampa convocata, poi revocata e poi di nuovo convocata”, racconta Tursi. “Strana – continua – l'assenza di Assennato nell'incontro con i giornalisti. Strano che fosse stato avvisato all'ultimo momento con un sms e poi lasciato fuori dalla porta... ”. Il Fatto ha rintracciato il cronista che racconta: “Quella mattina, effettivamente, parlai con Assennato e non era sereno”. Agli inquirenti Assennato racconta di essere andato via, dopo la riunione tra Vendola e Riva, alla quale non partecipò, mentre il Corriere del Giorno racconta che era ancora in Regione, “rassegnato” e “con la testa bassa”. Secondo gli inquirenti, le pressioni di Vendola su Assennato, facevano leva sulla riconferma del suo incarico, che scadeva nel marzo 2011.
Clima infuocato
E proprio a ridosso di quella data avviene un altro episodio che il Fatto è in grado di ricostruire. Un episodio che non integra alcuna ipotesi di reato ma spiega il clima di quei mesi. “Arpa – racconta una fonte che preferisce mantenere l’anonimato – aveva ultimato le rilevazioni su diossina e benzo(a) pirene, quelle relative al 2010, e Assennato era pronto a diffondere i dati con un comunicato stampa: le emissioni erano ulteriormente cresciute. Vendola, quando apprese che Arpa stava per inviare il comunicato stampa, convocò una riunione informale, alla presenza degli assessori Nicastro, Fratoianni, Amati, Pelillo, Capone, più il responsabile della comunicazione, Eugenio Iorio. Vendola era allarmatissimo: telefonò ad Assennato, davanti a tutti, per ricordargli che non poteva diffondere quei dati senza confrontarsi con la Regione. Non intendeva manipolare nulla. Sia chiaro. Ma redarguì Assennato, con durezza, per dirgli che quel tipo di comunicazione andava assolutamente concordata”. Una richiesta legittima, certo, poiché l’Arpa è un ente regionale. Una richiesta che racconta in quale clima, però, è stato vissuto, da Vendola, il monitoraggio dell’i nquinamento targato Ilva.

l’Unità 6.12.13
Preti pedofili, la Chiesa li combatte in commissione
Annunciata l’istituzione di un organismo per la tutela dei minori dagli abusi
L’operazione trasparenza di Papa Francesco e il no alle richieste Onu
di Virginia Lori


Un po’ strumento di prevenzione, un po’ metodo di cura. Dopo gli scandali paralizzanti sui preti pedofili, il Vaticano ha deciso di istituire una commissione specifica per vigilare ed evitare che i bambini continuino ad essere vittime di abusi sessuali nella Chiesa. Un modo per riconoscere che il problema esiste e va affrontato nella sua concretezza, che non è solo quella degli strascichi giudiziari penosi soprattutto negli Stati Uniti.
La proposta è stata formulata dagli otto saggi, il comitato dei cardinali nominati da Papa Francesco subito dopo la sua elezione, per affiancarlo nell’opera di riforma della Curia. Bergoglio ha sottoscritto il suggerimento e ieri l’arcivescovo di Boston, Patrick O’Malley, ne ha dato l’annuncio durante il consueto briefing in Vaticano per illustrare il lavoro dei saggi. E non un caso che sia stato scelto proprio lui per dare la notizia: la diocesi di Boston è stata segnata nel 2002 da scandali gravissimi che hanno portato alle dimissioni dell’arcivescovo Bernard Law. Lo stesso O’Malley si è distinto per aver fatto una bandiera della lotta alla pedofilia, pubblicando on line i file che accusavano diversi preti di abusi sessuali.
«In linea con Benedetto XVI sarà creata una commissione per la protezione dei fanciulli vittima di abusi», ha detto O’Malley, sottolineando così come la necessità di fare pulizia nella Chiesa non sia solo di oggi. La commissione sarà formata da religiosi e laici, il loro compito sarà di riferire sullo condizioni delle vittime, suggerire provvedimenti da adottare in sintonia con le conferenze episcopali, proporre nomi di persone adatte per assicurare l’attuazione delle iniziative individuate. Tra le possibili attività ci sarà anche la formulazione di «linee guida per la prevenzione, programmi di formazione per coloro che lavorano con i minori, programmi per la formazione dei seminaristi, per la formazione permanente dei sacerdoti, di protocolli per la sicurezza dell’ambiente, attestazioni di idoneità all’esercizio, con lo screening della fedina penale, e la segnalazione dei reati all’autorità civile». Nomi e competenze dei membri della commissione saranno comunicate direttamente dal Pontefice, con un documento specifico.
Il Vaticano è stato criticato per aver rifiutato nei giorni scorsi di rispondere alle richieste di chiarimento sugli scandali, sollecitate dalle Nazioni Unite. La Commissione Onu per i diritti del fanciullo già dal luglio scorso aveva sottoposto alla Santa Sede la richiesta di dettagli sui casi di abusi notificati al Vaticano dal 1995. In particolare si voleva sapere se fosse stato consentito ai membri del clero coinvolti di restare in contatto con bambini e minori, quali azioni legali fossero state adottate e se la Chiesa li avesse sollecitati a riferire gli abusi commessi alle autorità secolari o se al contrario le denunce delle vittime fossero state messe a tacere.
La risposta della Santa Sede è stata che i singoli casi ricadono sotto la giurisdizione dei Paesi dove gli abusi sono stati compiuti. E le informazioni questa la posizione vaticana vengono messe a disposizione solo su richiesta delle autorità locali che indagano su accuse specifiche. Una posizione criticata dalle associazioni delle vittime di abusi, in particolare quella britannica la UK National Secular Society ha deplorato che la Santa Sede abbia preferito nascondersi dietro tecnicismi.
L’ESPERIENZA USA
Nel gennaio prossimo, in ogni caso, funzionari del Vaticano saranno ascoltati dalla Commissione Onu sui diritti del fanciullo, che vuole fare chiarezza sulla reazione della Chiesa di fronte ai ripetuti scandali, appellandosi alla Convenzione del 1990 sulla tutela dei minori, sottoscritta anche dalla Santa Sede.
Anni di silenzio, di scandali occultati e di responsabilità omesse alimentano la diffidenza di chi si è visto chiudere davanti troppe porte. Gli scandali sessuali hanno avuto una risonanza in tutto il mondo cattolico, ma hanno assunto un peso anche economico significativo soprattutto negli Stati Uniti. Secondo un rapporto della Conferenza dei vescovi statunitense solo nel 2010 i costi delle terapie a sostegno delle vittime ammontavano a 124 milioni di dollari. Nel 2011 la cifra è scesa a 109 milioni di dollari.

La Stampa 6.12.13
L’associazione Usa delle vittime degli abusi
“I vescovi devono denunciare i preti”
di Paolo Mastrolilli


«Di commissioni ne abbiamo già avute abbastanza. Se il Papa vuole davvero affrontare il problema della pedofilia, che continua ancora oggi, deve agire. Può farlo subito, ordinando ai vescovi di denunciare alle autorità civili i preti sospettati di abusi, e punendo quelli che sono risultati
colpevoli».
David Clohessy non è convinto dall’iniziativa di Francesco. Lui, che sostiene di essere stato molestato quando era adolescente, dirige il Survivors Network of those Abused by Priests, cioè l’associazione delle vittime di abusi più nota in America.
Perché la commissione annunciata dal cardinale O’Malley non basta?
«E’ come dare un cerotto ad un malato terminale di cancro. Questi reati, e gli sforzi per nasconderli, vanno avanti da secoli, e nessuna istituzione può davvero controllare se stessa. Come i suoi predecessori, il Papa sa esattamente cosa servirebbe per proteggere i bambini, ma anche lui non ha la forza di carattere per farlo».
Secondo lei, cosa servirebbe?
«Dare ordine di denunciare i preti sospettati alla giustizia, e togliere la decadenza dei termini per i processi, perché solo le autorità secolari possono affrontare con efficacia e imparzialità il problema».
Vorreste anche più compensazioni per le vittime?
«No, il problema non sono i soldi. Gli adulti abusati possono curare le loro ferite, con o senza l’aiuto della Chiesa. L’obiettivo deve essere salvare i bambini che sono prede oggi, perché le molestie continuano».
Se la commissione istituita dal Papa facesse proprio questo, stabilendo le nuove regole di comportamento che lei richiede, cambierebbe idea?
«Forse, ma voglio prima vedere l’applicazione pratica delle nuove politiche. Le faccio un esempio. L’attuale vescovo di Kansas City Saint Joseph, Robert Finn, è stato condannato penalmente per non aver informato la polizia dei sospetti raccolti riguardo un abuso commesso da un sacerdote, eppure è ancora al suo posto. Quest’anno la Commissione Onu per i diritti del bambino ha chiesto al Vaticano informazioni sulle molestie avvenute dopo il 1995, ma la Santa Sede le ha rifiutate usando argomenti legalistici. Un’altra occasione persa. Quando ci saranno azioni concrete, ne riparleremo».

il Fatto 6.12.13
Il nuovo rigore cinese spaventa il lusso mondiale
Il Presidente Xi Jinping impone frugalità e le aziende occidentali che guadagnano milirdi temono il crollo delle vendite
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino La giacca storta come un qualsiasi contadinotto. Secondo molti intellettuali cinesi è stata questa l'arma segreta che ha portato al potere della seconda economia mondiale Xi Jinping, un uomo che fino a un paio d'anni fa era meno conosciuto della moglie. E il presidente della Repubblica popolare non si è smentito. Da un anno a questa parte ha dichiarato guerra alla corruzione, agli sprechi e, in generale, alle “stravaganze”. Le aziende leader del mercato del lusso tremano. Negli ultimi anni hanno goduto dell'incredibile boom dell'economia cinese.
Il mercato della Grande Cina (in cui si includono Taiwan, Hong Kong e Macao) vale oggi un quarto delle entrate di Louis Vuitton, il 35 per cento di quelle Cartier e addirittura il 45 per cento di quelle di Omega. Hermes ha recentemente stimato che i consumatori cinesi potrebbero rappresentare più della metà delle sue vendite globali nei prossimi anni.
UN TOTALE che copre l'imbarazzante percentuale del 31 per cento dell'intero settore. Ma ovviamente questo tipo di “consumatori” non coincide con la gran parte della popolazione cinese. Di fatto il 2012 è stato costellato da scandali, il più delle volte esplosi online. Troppo spesso i funzionari pubblici indossavano articoli di lusso che mai si sarebbero potuti permettere con il loro salario. Il non plus ultra si raggiunse a ridosso del congresso che a novembre dell'anno scorso ha scelto l'attuale leadership. Gli internauti cominciarono a postare immagini di funzionari che nelle occasioni ufficiali non portavano più orologi. Sui loro polsi spiccava l'impronta bianca dei rolex evidentemente indossati fino al giorno prima. Ed ecco Xi Jinping e il suo famoso discorso di gennaio. Annuncia di voler colpire “sia le mosche che le tigri” e chiede al paese uno “stile” improntato alla frugalità e nemico di ogni “stravaganza” perché “le pratiche indesiderabili possono diventare un muro invisibile tra il Partito comunista e il popolo”. Gran parte degli oggetti di lusso acquistati in Cina, infatti, fanno parte delle regalie ai potenti che a loro volta alimentano la corruzione nel mondo degli affari e della politica. All'epoca la crescita del mercato del lusso cinese stimata per quest'anno sarebbe dovuta essere almeno del 23 per cento. Ma al volgere dell'anno le stime sono notevolmente in ribasso (+4/8 per cento contro il +19 del 2012). C'è da sottolineare però che anche così le vendite dovrebbero superare i 25 miliardi di euro, rendendo il mercato cinese del lusso secondo solo a quello statunitense. Con buona pace della “frugalità” voluta dal nuovo presidente.

l’Unità 6.12.13
Intervista a Frans De Waal
«Anche gli animali hanno una morale»
«Seguono regole sociali e reagiscono alle ingiustizie»
di Cristiana Pulcinelli


L’empatia è l’essere sensibili alle situazioni e alle emozioni degli altri ed è presente in tutti i mammiferi. Forse deriva dalle cure materne

«La morale non nasce con la religione ma è innata. Gli studi sui primati, come i bonobo, dimostrano che gli animali distinguono tra bene e male e reagiscono alle ingiustizie». Il grande etologo Frans de Waal spiega a l’Unità le sue ricerche sulle origini biologiche delle emozioni e dell’empatia.

FRANS DE WAAL HA PASSATO UNA VITA A STUDIARE LE GRANDI SCIMMIE. NEL SUO NUOVO LIBRO («IL BONOBO E L’ATEO»,RAFFAELLO CORTINA EDITORE, PP. 322, EURO 28) si addentra però su un terreno considerato da sempre regno incontrastato dell’essere umano: la moralità. Il suo è quindi un punto di vista interessante perché nuovo, lontano dalle dispute filosofiche o teologiche. L’etica, sostiene de Waal, è nata dal basso, si è evoluta nel mondo animale e solo in un secondo momento la religione è intervenuta per rafforzare alcuni comportamenti.
La morale sembrava rimasta una caratteristica esclusivamente umana. Non è così?
«In quasi tutti i campi (cultura, politica, linguaggio, morale) gli esseri umani sono speciali, ma non unici. Quando analizziamo le capacità che sono alla base di ognuna di queste categorie, vediamo infatti alcune somiglianze con le altre specie. Prendiamo la politica: ha a che fare con il potere e comporta il darsi da fare perché i propri sostenitori siano felici. Ebbene, gli scimpanzé sono assetati di potere e condividono più cibo con i loro partner che con i rivali. Lo stesso vale per la morale. Non dico che gli scimpanzé o i bonobo siano esseri morali, ma hanno tutti gli ingredienti di base senza i quali noi umani non potremmo avere una morale: si prendono cura l’uno dell’altro, seguono le regole sociali, reagiscono alle ingiustizie».
La morale quindi scaturisce dall’empatia. Ma che cos’è l’empatia e quali animali la provano? «L’empatia è l’essere sensibili alle situazioni e alle emozioni degli altri ed è presente in tutti i mammiferi. Probabilmente deriva dalle cure materne: che io sia una femmina di topo o di elefante devo prestare attenzione al fatto che i miei piccoli abbiano fame, freddo o siano in pericolo e devo reagire se si verifica una di queste condizioni. Questa origine spiegherebbe molte cose: il fatto che le donne hanno un livello di empatia più alto degli uomini, ad esempio, o perché l’ossitocina, un ormone della maternità, ha un effetto sull’empatia». Qual è allora la differenza tra l’empatia di uno scimpanzé e quella umana?
«Non possiamo sapere cosa sentono gli animali. Quello che possiamo fare però è misurare come reagiscono in alcune situazioni. Gli scimpanzé e i bonobo, ad esempio, baciano e abbracciano quegli individui che soffrono perché hanno perso una battaglia o perché hanno paura di un serpente. Cercano di calmarli con quello che noi chiamiamo “comportamento consolatorio”. Lo stesso metro lo usiamo per misurare l’empatia nei bambini. Chiediamo a un membro della famiglia di piangere e vediamo come reagisce il bambino: anche lui consola la persona afflitta carezzandola e toccandola. Se due specie così vicine reagiscono nello stesso modo in circostanze simili, dobbiamo assumere che la loro psicologia e la loro esperienza sono simili».
Tra le specie non umane esiste qualcosa di paragonabile a quello che Adam Smith chiamava lo “spettatore imparziale”?
«Lo spettatore imparziale di Smith si impegna ad approvare o disapprovare un comportamento anche se quest’ultimo non lo coinvolge direttamente. La morale umana quindi non riguarda solo me e te o le persone che conosciamo, ma si applica a chiunque nello stesso modo. Questo richiede un certo livello di astrazione, delle regole generalizzate. In questo senso la morale umana è speciale: noi discutiamo i principi del nostro sistema etico e cerchiamo di giustificarli, mentre le scimmie antropomorfe non lo fanno». Si è sostenuto a lungo che l’essere umano è nel suo profondo egoista e cattivo e che nasconde questa sua natura sotto una vernice di gentilezza grazie all’intervento della ragione. Sembra che questa teoria si sia dimostrata falsa, perché? «Questa visione della natura umana divenne popolare intorno agli anni Settanta del secolo scorso con i libri di Richard Dawkins e Robert Wright. Si trattava di un messaggio antidarwiniano perché lo stesso Darwin credeva fortemente che ci fosse un continuum tra l’istinto sociale degli animali e la morale umana. La “teoria della vernice” per fortuna ha perso la sua attrattiva dopo le scoperte fatte da economisti, antropologi, psicologi e primatologi secondo cui noi abbiamo una naturale tendenza al prendersi cura, all’empatia e alla cooperazione. La scoperta dei neuroni specchio, avvenuta in Italia, ha mostrato che noi siamo fatti per relazionarci agli altri. E che, se ci interessiamo a loro, non è solo per il nostro interesse».
Quale ruolo svolge la religione  nel modellare la nostra morale?
«La cooperazione e l’armonia sociale sono state sempre un vantaggio per la nostra specie, molto prima che nascessero le moderne religioni, ovvero circa duemila anni fa. Sono sicuro che i nostri antenati si sono presi cura l’uno dell’altro e si sono interessati della correttezza delle azioni per un milione di anni o forse più. Le cose cambiarono con la rivoluzione dell’agricoltura, circa 12.000 anni fa. Noi uomini cominciammo allora ad espandere le nostre società per includervi migliaia, milioni di persone. Le regole della reciprocità e dell’empatia e il monitoraggio del contributo di ognuno non funzionavano più. Diventava troppo facile imbrogliare. Un approccio dall’alto in basso divenne necessario per rinforzare la cooperazione, aiutato magari da una forza soprannaturale onnisciente che teneva d’occhio tutti e che prometteva il paradiso o l’inferno a seconda di quanto ti comportavi bene. In quest’ottica la religione odierna non è alla radice del senso morale, ma nasce come un modo per rinforzare il sistema. La grande questione è: quanto è essenziale questa aggiunta per il buon funzionamento di una società? E, se anche lo era in passato, lo è ancora?»
Un punto centrale del suo libro mi sembra il rifiuto di ogni dogmatismo, sia ateo sia religioso. Quali sono i danni di un atteggiamento dogmatico?
«Io non divido il mondo in credenti e non credenti, ma piuttosto in dogmatici e pensatori riflessivi. Ho poca pazienza con i primi, siano credenti o non credenti. Con la loro pretesa di essere razionali, il loro disprezzo per l’intreccio storico fra scienza e religione e la loro disponibilità a inimicarsi anche i credenti moderati, i neo-atei finiscono per cadere nella parte dogmatica dello spettro. La loro posizione è stata particolarmente dannosa al dibattito sull’evoluzione. Chi ascolterà i biologi che sostengono quanto sia ben documentata l’evoluzione se la prima cosa che esce dalle loro bocche è: “sei un idiota”? Per di più, l’ateismo è una posizione vuota. Tutto quello che fa è sostenere che Dio non esiste, mentre lascia senza risposte domande come: cosa fare con la nostra vita, dove trovarne il significato, perché siamo qui e come metterci in connessione con la società umana nel suo insieme. Fortunatamente la gente si sta interessando ad argomenti più sostanziali. Il mio libro affronta forse il più importante: possiamo avere una morale senza la religione e dove troveremo la forza e l’ispirazione per condurre una vita buona? Se ci pensiamo, l’Umanesimo non ha mai speso molta energia per combattere la religione o negare Dio, ma invece si è focalizzato su aspetti positivi, chiedendosi come forgiare una buona società utilizzando le naturali potenzialità umane. Il mio libro cerca di stabilire un legame con l’Umanesimo e in particolare con la sua tradizione olandese, fino a Erasmo, Hieronymus Bosch e Spinoza».

IL BONOBO E L'ATEO. IN CERCA DI UMANITÀ FRA I PRIMATI
di Frans de Waal traduz. L. Sosio pagine 322, euro 23,80 Raffaello Cortina