sabato 22 ottobre 2016

La Stampa 22.10.16Que viva Mexico!
l’epopea di un’avanguardia
Murales, quadri, foto, documenti: al Grand Palais di Parigi i capolavori di un gruppo di artisti “rivoluzionari” che ha segnato il Novecento
di Francesco Poli

Forse l’opera che sintetizza meglio tutti i principali ingredienti storici, ideologici, culturali, ed estetici di cui è impregnata questa grande rassegna sull’arte messicana della prima metà del XX secolo al Grand Palais di Parigi, è quella di un autore russo, e cioè il film incompiuto Que viva Mexico! di Sergei Eisenstein. Alla fine del 1930, dopo la rottura del contratto con la Paramount, il regista se ne va da Los Angeles e arriva in Messico. Qui nel 1931-32 lavora al progetto di un grandioso film-documentario sulla tragica ed esaltante epopea del popolo messicano, dove entrano in scena i miti delle civiltà native, le atrocità della colonizzazione spagnola, la nascita della nazione indipendente e infine il trionfo della rivoluzione zapatista, con spettacolari riprese di massa nell’ultima sezione. Anche se ci si deve accontentare di un collage postumo curato da uno dei suoi collaboratori, la forza scioccante ed evocativa del montaggio delle immagini da vita a straordinari frammenti di «murales in movimento» (per usare una definizione del regista stesso che era amico di Diego Rivera). E in effetti, dal punto di vista compositivo, si può ben dire che anche l’impianto iconico degli immensi affreschi in edifici pubblici realizzati a partire dagli Anni 20 dalla «trinità muralista» (Diego Rivera, José Clemente Orozco, David Alfaro Siqueiros), e da altri pittori, è basata su operazioni di montaggio. Un montaggio compositivo che si sviluppa attraverso la raffigurazione di personaggi e paesaggi, di scene di vita contadina, di enfatizzazioni allegoriche e immaginifiche, con accenti realistici, di epico populismo e retoricamente ideologiche. La fondamentale esperienza dell’arte pubblica monumentale muralista (che negli Anni 30 ha avuto un ruolo cruciale anche negli Usa) è naturalmente il tema su cui maggiormente si incentra l’esposizione. Gli artisti si sentono in prima linea nella costruzione della nuova identità culturale, e del nuovo immaginario collettivo che trae la sua linfa dalle radici mitiche per aprirsi a utopistici scenari sociali nella modernità. Grazie all’iniziativa del ministro Vasconcelos le pareti di palazzi istituzionali diventano il teatro di vaste narrazioni pittoriche.
In mostra ci sono vari esempi di bozzetti e quadri connessi con le grandi realizzazioni, ma viene documentata anche la specifica qualità della pittura dei vari protagonisti. Di grande rilievo è in particolare la ricerca di Rivera, a partire dalla sua notevole fase cubista, degli anni parigini. Interessante è anche, per esempio, la debordante energia espressiva e plastica delle figure di Siqueiros, tra cui spicca un mirabolante autoritratto in scorcio, con un enorme pugno che sembra uscire dal quadro e colpire lo spettatore.
Ma in mostra troviamo opere di molti altri artisti, circa sessanta in tutto, che documentano da un lato l’evoluzione in direzione moderna dei linguaggi con influenze cubiste, futuriste e astratte (tra cui vanno ricordati gli esponenti del movimento «stridentista», come Charlot, Alva de la Canal, Revueltas); e dall’altro lato, in particolare, quelle caratterizzate soprattutto delle forme più vitali e significative del tradizionale folklore autoctono. E sono proprio i lavori degli artisti che si ispirano all’iconografia popolare quelli più affascinanti e anche più sorprendenti. È il caso, per esempio, di Ramon Cano Manilla; di Antonio Ruiz «El Corcito» (bellissimo è la fantastica figura addormentata sono delle coperte che diventano un paesaggio fantastico); e una artista eccezionale come Maria Izquierdo, amica di Antonin Artaud che scrive cose di immaginifica intensità sulla sua creatività sorgiva e «primordiale». E c’è naturalmente anche la grande Frida Kahlo, legata visceralmente alle radici più profonde della «messicanità». Della Kahlo sono esposte solo due opere, tra cui una grande tela che è un enigmatico capolavoro. Si intitola Le due Frida (I939) e rappresenta l’artista sdoppiata in due figure sedute che appaiono come gemelle, e che indossano due eleganti abiti tradizionali. Anche se non è molto ampia, è altamente significativa la sezione dedicata alla fotografia, con immagini di Tina Modotti (e anche di Weston, del periodo del suo soggiorno messicano), di Rosa Rolanda, di Lola Àlvarez Bravo e del suo più famoso marito Manuel, che è uno dei grandi pionieri del realismo sociale impegnato, ma anche con valenze espressive cariche di tensione visionaria.
La Stampa TuttoLibri 22.10.16
L’Occidente impari dalla Cina come vivere in modo sensato
L’Europa punta alla conoscenza snobbando l’unica cosa che in Oriente è basilare: la saggezza
di Gianfranco Marrone

Chi è il saggio? Come ci è diventato? E perché? Certo, giornalmente di persone sagge ne incontriamo pochine, e anche noi, dinnanzi allo specchio, facciamo parecchia fatica a considerarci tali. Se saggio è chi sa interloquire con cose come la Verità, Dio, l’Essere o la Libertà, stiamo freschi. Dopo duemila e passa anni i filosofi non sono affatto d’accordo nel definire queste strane entità. Anzi, uno come Agostino, alla domanda «cos’è il Tempo?», rispondeva al modo di Jovanotti: «Boh!».
Il fatto è che, come prova a spiegare il lavoro del filosofo e sinologo francese François Jullien, Essere o vivere, l’Occidente non ha - non ha mai avuto - alcuna idea di cosa sia la Saggezza: preferisce parlare di Conoscenza, Scienza, Intelligenza e simili, interrogandosi appunto sulla Verità o la Libertà, ma di fatto schivando l’unica cosa che in Oriente, invece, è basilare: come comportarsi nella vita di tutti i giorni con se stessi, con gli altri, con le cose che ci circondano? Come vivere sensatamente piuttosto che essere oggettivamente?
Il saggio insomma, per gli antichi cinesi, non è né filosofo né scienziato né artista, meno che mai economista o politico. È semmai uno che, ha osservato Jullien, è tutte queste cose insieme senza esserne però nessuna. Con lo sguardo fisso, comunque, all’esperienza comune, a quel quotidiano che è ripetitivo solo per chi, come noi, non sa apprezzarne le sfumature trasformative, i dettagli nascosti di novità, i piccoli segnali evolutivi.
Vivendo piuttosto che essendo, il saggio non prende iniziative: lascia che le cose accadano, favorendone lo scorrere, senza né rivendicazioni personali né ossessioni ontologiche. La realtà è quel che accade, l’eventualità della vita, non quel che è sempre e comunque allo stesso modo. Lo sapeva bene uno stratega come Sun Tzu, celebre autore di una straordinaria Arte della guerra, che in battaglia non attaccava mai senza comunque ritirarsi: lasciando l’iniziativa al nemico, aspettava che si distruggesse da solo.
Dopo testi fondamentali come Trattato dell’efficacia, Elogio dell’insapore, Figure dell’immanenza, Nutrire la vita e molti altri, tutti dedicati a un serrato confronto fra le forme del pensiero occidentale e quelle della filosofia cinese classica, Jullien pubblica adesso una bellissima sintesi del suo ventennale lavoro di ricerca, Essere o vivere, dove ripercorre in una ventina di opposizioni concettuali i tratti fondamentali che distinguono l’Europa dalla Cina, la conoscenza della saggezza, l’essere occidentale - appunto - dal vivere orientale. Sembra una tabella da dispensa universitaria, ma di grandissima chiarezza e utilità. Così, i cinesi apprezzano la propensione piuttosto che la causalità, l’affidabilità anziché la sincerità, la tenacia invece della volontà, la regolazione alla rivelazione, l’allusivo all’allegorico, l’ambiguità all’equivoco, l’obliquità alla frontalità e così via. Prendiamo l’ultimo caso: laddove il conflitto occidentale si risolve nella battaglia campale, con gli eserciti schierati uno di fronte all’altro, in quella cinese sono i lati che contano, le incursioni trasversali. Cosa che si ritrova tale e quale nel campo della tecnica retorica: da noi gli argomenti si affrontano direttamente, in Cina vale l’arte dell’indiretto, del dire una cosa attraverso un’altra. «Fare rumore a Est per attaccare a Ovest», diceva ancora Mao Zedong.
Nella paziente ricostruzione di queste opposizioni, semantiche più che dialettiche (come i celebri yin e yang), Jullien mette in gioco molteplici elementi - la riflessione filosofica, l’articolazione linguistica, l’organizzazione antropologica -, mostrandone l’intima correlazione. I concetti sono anche e soprattutto parole, e dunque al tempo stesso forme di comportamento, prassi esistenziali. Cosa che rende pressoché unico, e di grande interesse, il lavoro di Jullien - saggio, perciò, che studia la saggezza. E al tempo stesso segnala, con un problema delicato, un’opportunità conseguente. Mettere a confronto il pensiero occidentale con quello cinese, difatti, vuol dire capire più a fondo il primo attraverso il secondo e all’inverso.
A far da molla rivelatrice, sostiene Jullien, sono proprio le incompatibilità compatibili, le indicibilità dette, le intraducibilità a monte tradotte a valle. L’impensato europeo è (parzialmente) pensato in Cina e viceversa: cosa che non colma la lacuna fra i due universi culturali e filosofici, ma che tuttavia riesce a metterli in correlazione. Dal confronto nasce il nuovo, che non sta né qui né là ma a metà strada. Un originale esercizio di pensiero: tenace, affidabile, allusivo. Per vivere un po’ meglio. Ed essere molto meno.
La Stampa TuttoLibri 22.10.16
Il libro di Paolo Mieli
Non fidatevi della Storia racconta bugie da millenni
Da Cicerone agli schiavi di Lincoln, fino alle Guerre mondiali, viaggio in 27 tappe nel passato che credevamo di conoscere
di Alessandro Barbero

Anche nelle epoche che si credono più spregiudicate, scoprire che il passato è diverso da come credevamo può provocare costernazione. Nell’introduzione al suo nuovo libro, In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia, Paolo Mieli ricorda quello che è forse, ai nostri tempi, il caso più clamoroso di demolizione di un intero pezzo del passato, grazie ai progressi della ricerca storica (e, in questo caso, archeologica).
Dopo che per millenni, sulla base della Bibbia, si era creduto che intorno al 1000 avanti Cristo esistesse in Medio Oriente un grande e potente regno di Israele, esteso dall’Eufrate fino a Gaza, gli archeologi israeliani hanno scoperto che non è vero niente: a quell’epoca gli ebrei erano tribù di pastori primitivi senza nessuna unità politica, Gerusalemme era un villaggio, e Davide e Salomone, ammesso che siano esistiti, erano dei capitribù. Va ad onore della cultura israeliana aver preso atto senza drammi di questi dati ormai indiscutibili, nonostante la tempesta mediatica che hanno provocato nel Paese.
In questo caso non si tratta di accusare qualcuno (salvo, eventualmente, gli autori del Secondo Libro di Samuele e del Primo Libro dei Re) di aver falsificato volutamente la storia. Le falsificazioni con cui fa i conti Paolo Mieli sono piuttosto le versioni tradizionali della storia, alimentate a volte dalla propaganda dei governi, più spesso dall’inerzia dei libri scolastici e dalla pigrizia del pubblico, e che regolarmente rivelano le loro crepe non appena uno studioso le rimette in discussione con uno sguardo innovativo. Non si tratta, sia chiaro, dello stucchevole pseudo-revisionismo così di moda oggi, di chi scopre che la Rivoluzione francese ha sparso molto sangue, l’Italia del Risorgimento era un Paese pieno di intrallazzi, i partigiani hanno commesso a volte dei delitti, e gli americani hanno bombardato Dresda anche se non era necessario: l’autore, chapeau!, non menziona neanche una volta la parola revisionismo. Si tratta invece della naturale dinamica degli studi storici, per cui ogni storico che affronta un argomento anche già molto studiato può sempre aggiungere un punto di vista nuovo, può talvolta scovare nuove fonti, e può spesso modificare l’interpretazione del passato.
Il libro di Mieli è una ricognizione puntuale, erudita e divertita, di questa che è, ripetiamolo, la condizione normale della storiografia. È una rassegna bibliografica che in ogni capitolo, e ce ne sono ben 27, propone un tema storico su cui credevamo di sapere tutto e presenta al lettore gli studi più recenti che ne hanno rinnovato l’interpretazione. Verre era davvero quel politico corrotto che ci presenta Cicerone? Con quali mezzi Augusto arrivò al potere? I martiri di Otranto morirono davvero per la fede? Lincoln fece davvero la guerra per abolire la schiavitù? La Seconda Guerra Mondiale è davvero finita nel 1945? La collusione fra Stato e mafia, in Italia, è davvero una novità della Prima Repubblica?
Nelle pagine di Mieli, il lettore farà la conoscenza di innumerevoli storici d’oggi, qualcuno già noto al grande pubblico, altri meno; da Francesco Benigno, che ne La mala setta dimostra come i governi italiani «intrattennero rapporti con la malavita organizzata fin dalla fondazione del nostro Stato unitario», ad Aldo Schiavone che in Ponzio Pilato s’interroga sulla possibilità di una «tacita intesa» fra Gesù e il prefetto di Giudea; da Germano Maifreda che ne I denari dell’Inquisitore svela come le multe, più dei roghi, rendessero temuto il Sant’Uffizio, a Marco Natalizi che ne Il burattinaio dell’ultimo zar propone un ritratto nuovo e complesso del famigerato Rasputin.
Attraverso il lavoro di decine di colleghi, Paolo Mieli propone un viaggio attraverso un passato che ogni giorno si modifica ai nostri occhi, anche perché col moltiplicarsi degli studi diventa possibile uno sguardo più sfaccettato, affiorano sempre più gli individualismi e le stonature, così evidenti quando guardiamo al mondo in cui viviamo, e che quando pensiamo al passato rischiano di rimanere occultati. Quel senatore della South Carolina che paragonava con orgoglio la condizione degli schiavi del Sud a quella degli operai del Nord («I nostri schiavi sono assunti a vita, non c’è fame per loro, non ci sono accattoni, non c’è disoccupazione»), o quello storico inglese che nel 1871 esaltava la formazione del Reich tedesco come garanzia di pace, con «la nobile, paziente, pia e solida Germania» avviata a dominare l’Europa al posto della «nevrotica, vanagloriosa, gesticolante, rissosa, inquieta e ipersensibile Francia», oggi ci possono far sorridere, ma la verità è che il passato era come il presente, confuso, colorato, incomprensibile, e il mestiere dello storico consiste sì nel cercare di renderlo un poco più comprensibile, ma senza mai perdere di vista cosa significava viverci dentro.
il manifesto 22.10-16
Cinquant’anni fa il graffio all’America delle Pantere nere
di Alberto Benvenuti

È tristemente ironico pensare che in queste settimane in cui si moltiplicano i video di violenze e esecuzioni sommarie di giovani afro-americani per mano di agenti male addestrati, si celebrino negli Stati uniti anche i cinquant’anni della nascita delle Pantere nere, fondate da Huey Newton e Bobby Seale nel 1966 per evitare che gli agenti perpetrassero violenze sugli afro-americani di Oakland, una città della Bay Area della California.
Quando Newton e Seale, due ex studenti del Merritt College che si erano conosciuti a una manifestazione pro-Cuba durante la crisi dei missili, decisero di organizzare un gruppo armato, lo fecero infatti per difendere i diritti costituzionali dei neri della loro comunità, armati di un fucile e di un libretto di diritto. Pattugliavano la Bay Area, soprattutto di notte, e quando vedevano un nero fermato dalle forze di polizia, si tenevano a distanza di sicurezza e controllavano che la situazione non degenerasse. «Ci facevano una paura fottuta», racconteranno più tardi gli agenti.
Erano, quelli, anni tumultuosi nei ghetti neri delle grandi aree metropolitane statunitensi. Per molti afro-americani il movimento nonviolento guidato da Martin Luther King aveva fallito, le loro vite non erano cambiate, il degrado economico e la segregazione de facto persistevano. L’obiettivo per molti giovani divenne la rivoluzione, il black power e il controllo delle loro comunità, la linea da seguire quella delle guerre di liberazione del Terzo mondo, i maestri Che Guevara, Mao, Nkrumah, Lumumba, Castro e Malcolm X. Con i paesi del Terzo mondo sentivano di condividere la condizione di oppressione coloniale, di essere cioè loro stessi parte di una colonia interna alla superpotenza che esportava libertà: le Pantere nere offrirono a questi giovani una risposta che coniugasse il romanticismo rivoluzionario alla necessità pragmatica di uscire da una condizione di oppressione.
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Dei due fondatori, Huey Newton era il visionario, rappresentava l’eroe bello e intelligente sul quale deporre le speranze rivoluzionarie; Bobby Seale era invece più pragmatico e controbilanciava il temperamento imprevedibile del compagno. Prepararono insieme un programma in dieci punti di ispirazione socialista e terzomondista e radunarono attorno a loro un piccolo gruppo di giovani neri con storie difficili, spesso legate alla criminalità, che trovarono nell’appartenenza alle Pantere una causa alla quale dedicarsi. Il Black panther party cominciò così a crescere, alle ronde si accompagnarono iniziative sociali e aumentò anche il sostegno tra gli afro-americani della Bay Area. Gli agenti erano pigs, maiali, nel linguaggio comune del ghetto, i nemici che rappresentavano un governo dal quale ci si doveva proteggere, anche con le armi.
In risposta al fenomeno delle ronde armate, nel maggio del 1967, l’allora governatore della California Ronald Reagan firmò una legge, il Mulford Act, che limitava il porto d’armi in pubblico di privati cittadini. Quella legge rappresentò l’occasione che molti attivisti aspettavano per il lancio dell’organizzazione a livello nazionale: ripresi da telecamere e fotografi, una ventina di Pantere entrarono, armi in pugno, nell’assemblea legislativa di Sacramento, capitale dello stato, per protestare contro la decisione del governo. Il successo mediatico fu immediato: tutti i giornali del paese iniziarono a parlare di questo gruppo di afro-americani della California che si vestiva di nero, si professava marxista leninista, parlava di rivoluzione e si ispirava a Malcolm X.
Poco dopo, nel settembre del 1967, Newton venne arrestato con l’accusa di aver ucciso un poliziotto. L’arresto della mente delle Pantere, che avrebbe potuto compromettere la vita stessa del gruppo, ebbe invece l’effetto di creare un movimento interrazziale per la sua liberazione (al quale parteciparono numerosi intellettuali e attori, tra cui Marlon Brando) che amplificò ancora di più il messaggio del Black panther party. Molte sedi nacquero in tutti i ghetti delle grandi città e a ronde e manifestazioni andarono sempre di più affiancandosi programmi di assistenza sociale – dalla distribuzione di pasti caldi ai bambini, all’assistenza sanitaria gratuita – che furono il vero canale di dialogo con le comunità nere. Programmi, tra l’altro, gestiti quasi interamente da donne. Sebbene infatti la storia del Black panther party sia spesso associata all’immagine dell’afro-americano rivoluzionario con il berretto, il giubbotto di pelle nera e il fucile in mano, le pantere non erano affatto solo uomini; anzi le attiviste risposero con coraggio al machismo dilagante dei primi anni, aumentarono esponenzialmente la loro partecipazione e divennero, alla fine degli anni Sessanta, numericamente più rilevanti degli uomini.
Le pantere nere erano l’organizzazione più rappresentativa e influente di quel movimento di rivendicazione politica, culturale e economica che fu il black power, e i suoi membri aumentarono fino a 5mila unità – numeri che comunque non rendono giustizia alla portata e all’influenza che ebbero in quegli anni. Anche per questo J. Edgar Hoover, il famigerato direttore a capo dell’Fbi da quasi mezzo secolo, che aveva un potere sostanzialmente illimitato ed era in grado di influenzare Congresso e presidenti, lo considerava il «più grosso pericolo per la sicurezza interna del paese». A partire dal 1968 Hoover autorizzò centinaia di operazioni clandestine del programma di controspionaggio Cointelpro, che con l’utilizzo di infiltrati, depistaggi, arresti sommari e omicidi, destabilizzarono enormemente il gruppo. Il caso più eclatante fu quello di Fred Hampton, giovane e carismatico leader della sezione di Chicago, assassinato dall’Fbi durante un’irruzione notturna in un appartamento dove viveva con alcuni compagni. Hampton fu la vittima di una delle più ricorrenti paranoie di Hoover, quella dell’avvento di un nuovo messia nero in grado di mobilitare le masse.
L’Fbi continuò a infiltrarsi in tutte le sezioni del Black panther party del paese a un livello tale che «nel 1970 le pantere erano controllate per metà da Huey e Seale e per metà dall’Fbi», come avrebbe ricordato più tardi un agente sotto copertura. L’impatto delle attività del Cointelpro fu devastante e fu, direttamente o indirettamente, il motivo principale del declino dell’organizzazione già dai primissimi anni Settanta. Quando Newton uscì di carcere nel 1970, infatti, non fu capace di tenere unito il Black Panther Party, sia per le faide interne (che portarono anche alla rottura con Seale), sia per la sua incapacità di imprimere all’organizzazione una linea politica chiara. Andò a Cuba nel 1974 per sfuggire a una nuova accusa di omicidio e lasciò la guida del partito a Elaine Brown, una sua fedelissima. Ma era ormai tardi, le Pantere nere non sopravvissero alla nuova serie di arresti, espulsioni, omicidi e abbandoni degli anni Settanta e alla fine del decennio rimasero operative solo poche sezioni.
Il Black panther party non aveva sovvertito il sistema, non aveva ribaltato il capitalismo e neppure aveva sconfitto la white supremacy, ma fu capace di infondere in una generazione di giovani neri un senso di orgoglio razziale come poche organizzazioni erano riuscite a fare prima e a contribuire a una stagione di impegno politico militante afro-americano che avrebbe caratterizzato i decenni successivi.
il manifesto 22.10.16
Festa della neolingua
Lo showroom della lingua italiana, firmato Marchionne
A Firenze, Petrarca e Boccaccio vanno sulla Maserati di Marchionne, campione dell’italianità con la residenza in Svizzera. La cultura messa al servizio del mercato
di Tomaso Montanari

«Proporre la qualità Italia è la sfida di fronte a noi: proporre l’umanesimo che deriva dalla nostra cultura, dal modo di vivere, di lavorare». Così Sergio Mattarella, pochi giorni fa a Firenze. Ma il Capo dello Stato si rivolgeva ai cittadini o agli investitori; parlava di cultura, identità, comunità o di mercato, marchio, prodotto?
L’esame del contesto moltiplica l’ambiguità: si trattava di un’occasione apparentemente culturale (la pretenziosa etichetta recitava: «Stati generali della lingua italiana»), ma ad organizzarla non era il ministero dell’Istruzione o quello dei Beni culturali, bensì la Direzione Generale Promozione Sistema Paese (a proposito di italiano!) del ministero degli Esteri.
Più chiaro, come sempre, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, quando aprendo i lavori aveva parlato della necessità «di una gigantesca scommessa culturale sul made in Italy, se vogliamo che l’italiano sia studiato»: una prospettiva davvero incoraggiante, non da ultimo per quell’uso tragicomico dell’inglese.
Ma a togliere ogni dubbio era l’apparato non verbale della manifestazione, in Palazzo Vecchio.
Nell’adiacente piazzale degli Uffizi erano infatti esposte due scintillanti auto di lusso: all’incredulità e all’indignazione dei passanti, esterrefatti dalla riduzione a show room dello spazio pubblico monumentale, l’ineffabile assessore (all’Istruzione!) Cristina Giachi replicava che «allo sponsor qualcosa si deve pur concedere». Già, perché un evento cui intervenivano il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio e vari ministri aveva in effetti uno sponsor ufficiale: la Maserati.
Non so quanti precedenti abbia una simile scelta, che riduce i vertici della Repubblica a testimonial di un marchio commerciale.
Particolare grottesco, le due auto erano collocate in corrispondenza delle statue di due padri della lingua italiana (cito dal sito della casa automobilistica): «La Maserati Quattroporte esposta a Firenze da questa mattina è di colore bianco ed è situata esattamente sotto la statua di Francesco Petrarca, mentre Alfa Romeo Giulia Quadrifoglio con motore 2.9 litri V6 da 510 cavalli di colore rosso si trova sotto la statua di Giovanni Boccaccio. Questa iniziativa rappresenta uno dei numerosi modi trovati negli ultimi tempi dal gruppo italo americano del numero uno Sergio Marchionne per promuovere la propria gamma di prodotti».
Affidare la bandiera dell’italianità ad un gruppo il cui quartier generale e il cui domicilio fiscale hanno lasciato il Paese e il cui amministratore delegato risiede in Svizzera è esattamente come esporre la strategia di difesa della lingua italiana usando l’espressione inglese «made in Italy»: una ipocrisia grottesca che comunica esattamente il contrario di quanto afferma.
Decisamente più sincera la ministra Giannini. Ad un giornalista che le chiedeva (mesi fa) quale fosse il principale problema della scuola italiana, rispondeva candidamente che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un’impronta più pratica all’istruzione italiana». Sono parole perfettamente assonanti a quelle dell’introduzione alla riforma su cui voteremo il 4 dicembre: si cambia la Costituzione «per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale».
La lingua italiana serve al mercato, la scuola serve al mercato, la Costituzione serve al mercato, i vertici della Repubblica servono al mercato: le berline di lusso sotto le statue di Petrarca e Boccaccio agli Uffizi sono il simbolo più eloquente di questa incondiziata servitù.
Abituarsi a leggere, a decostruire, a interpretare questo codice simbolico di potere e supremazia significa – per usare le parole di Marc Bloch – preparare «un antidoto alle tossine della propaganda e della menzogna».
Un simile antidoto può giovarci quotidianamente, come può chiarire un esempio preso dall’attualità più stretta. La trasmissione della serie su “The Young Pope” di Paolo Sorrentino aprirà, inevitabilmente, dibattiti e riflessioni sulle reazioni vaticane: ma l’unica reazione incontrovertibile del Vaticano è da qualche giorno sotto gli occhi di tutti, nel centro di Roma.
Qua il bramantesco Palazzo della Cancelleria è coperto da giganteschi cartelloni pubblicitari della serie, con un Jude Law in abiti papali alto venti metri: ebbene, quel palazzo non è solo un apice del Rinascimento, ma è anche una proprietà extraterritoriale del Vaticano. Così il pensiero unico del marketing impone la sua pace in nome dell’unico dio, il Mercato.
Chi dissente non è nemmeno sentito come un nemico, ma come un eccentrico, quasi un demente: un’ondata di gelida incomprensione ha investito la vedova di Lucio Battisti che si oppone al fatto che le canzoni del marito possano essere usate in spot commerciali. Chi l’avrebbe mai detto che “Il mio canto libero” sarebbe diventato l’inno dell’ultima resistenza al dominio del marketing?
Repubblica 22.10.16
L’enigma della libertà che conquistiamo solo se Dio non gioca a dadi
Da Eschilo alla meccanica quantistica: il saggio di Vito Mancuso indaga tra classicismo e scienza il più umano dei concetti. Ne anticipiamo un estratto
di Vito Mancuso

Il concetto di libertà nasce in Grecia in ambito politico. Una delle prime testimonianze al riguardo non proviene dalla filosofia ma dalla letteratura, precisamente dal più antico dei tragici, Eschilo, nella sua opera I Persiani. A Susa, capitale dell’impero, la regina Atossa, sposa del precedente imperatore Dario e madre del nuovo imperatore Serse, attende in preda a cattivi presagi il ritorno della spedizione militare del figlio contro la Grecia e per vincere l’attesa snervante chiede notizie sui nemici: se hanno un esercito forte, se posseggono ricchezze, se sono bravi con l’arco. Infine pone la domanda cruciale: «Chi è il loro padrone?. Le viene data la seguente risposta: «Si vantano di non essere schiavi di nessun uomo, sudditi di nessuno». Con queste parole di Eschilo risalenti al 472 a.C. si inaugura in Occidente il concetto di libertà.
Eschilo però nelle sue opere presenta il più delle volte una concezione del mondo opposta, cioè all’insegna della necessità: per esempio nei Persiani dice che Ate (la figlia di Zeus che personifica l’accecamento che induce all’errore) «spinge il mortale dentro la rete ben tesa»; oppure che «necessità costringe i mortali a sopportare sciagure»; oppure ancora che «chi diede inizio a tutto quel disastro fu la vendetta divina che non perdona, o un demone malvagio venuto da chissà dove»; nell’Agamennone menziona «le potenze divine che prepotenti governano il sacro timone del cosmo»; nelle Coefore scrive che «dobbiamo venerare il potere divino che il cielo governa». Per Eschilo quindi gli esseri umani non sono liberi nel senso di indipendenti da potenze superiori, ma al contrario sottostanno a potenze più grandi a cui dover rendere conto, a un «giogo di necessità» che sempre giudica, e spesso anche determina, il loro agire. E tuttavia egli dichiara che il suo popolo non volle sottostare alla potenza di gran lunga superiore dell’impero persiano che intendeva imporsi nel nome della cieca necessità della forza, e quanto a costituzione politica descrive i greci come uomini liberi, «sudditi di nessuno», oltre a essere consapevole del fatto che il dover sottostare a potenze più grandi non priva gli esseri umani del merito quando agiscono bene e della colpa quando agiscono male, come nei Persiani appare dalla differenza tra il saggio imperatore Dario e lo stolto figlio Serse. Il giogo della necessità non preclude quindi la responsabilità personale, la possibilità di rispondere alle circostanze in prima persona in un modo oppure in un altro, non preclude cioè la libertà. La contraddizione rilevata in Eschilo manifesta la classica opposizione di necessità e libertà, antica quanto il pensiero e riassumibile in questa alternativa: — il mondo è un processo necessario e logico, e di conseguenza anche privo di libertà; — il mondo è un processo libero e creativo, e di conseguenza anche privo di un disegno logico e sensato. I filosofi si dividono tra chi assegna il primato alla necessità e al senso, e chi invece alla libertà e al non-senso.
Le cose peraltro si complicano ulteriormente se prendiamo in considerazione la fisica contemporanea. Qui i grandi fisici, che per natura devono essere anche un po’ filosofi, come i grandi filosofi devono essere un po’ fisici, si dividono: al campo della necessità appartiene Einstein con la teoria della relatività, al campo della libertà appartiene Bohr con la meccanica quantistica. La teoria della relatività riguarda lo spazio-tempo, l’energia e la gravitazione, le stelle e le galassie; la meccanica quantistica riguarda il comportamento degli atomi e delle particelle subatomiche. La prima regna nell’infinitamente grande, la seconda nell’infinitamente piccolo. Fu probabilmente osservando tutto ciò che uno dei principali protagonisti della meccanica quantistica, il fisico danese Niels Bohr, giunse ad affermare con grande saggezza e lucidità: «Ci sono due tipi di verità: le verità semplici, dove gli opposti sono chiaramente assurdi, e le verità profonde, riconoscibili dal fatto che l’opposto è a sua volta una profonda verità». Ci troviamo cosi di fronte non a due vie, di cui una è vera e l’altra falsa, ma a una condizione strutturale della mente nel suo rapportarsi all’essere.
E come la meccanica quantistica e la teoria della relatività, pur non essendo conciliabili tra loro, sono entrambe vere nel senso che entrambe descrivono adeguatamente la realtà, cosi, allo stesso modo, i concetti di libertà e di necessità, pur non essendo teoreticamente conciliabili tra loro, interpretano entrambi una dimensione della realtà in modo veritiero. Emerge da qui l’esigenza di una prospettiva di pensiero che sappia cogliere tale doppia ragione, sapendo sostenere al contempo sia la sensatezza e la logicità dell’essere, perché, come affermava Einstein, «Dio non gioca a dadi con il mondo», sia la contingenza e la mancanza di un disegno lineare, perché, come affermava Eraclito, «il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi».
IL SAGGIO Il coraggio di essere liberi di Vito Mancuso (Garzanti pagg. 154 euro 16)
Repubblica 22.10.16
Processo al postmoderno tra nuovo realismo e questioni morali
Sul nuovo numero di “Micromega”lo scambio epistolare tra Maurizio Ferraris e Paolo Flores d’Arcais: una sintesi efficace di due modalità diverse con cui superare il pensiero troppo debole
di Roberto Esposito

L’Almanacco di filosofia di Micromega appena uscito (il 7/2016) si apre con uno scambio di lettere sul “nuovo realismo” tra Paolo Flores d’Arcais e Maurizio Ferraris, che conclude un dibattito già iniziato nei fascicoli precedenti.
In esso i due autori ripropongono le loro posizioni filosofiche con tono diverso — più apodittico e drammatico da parte di Flores, più duttile e ironico da parte di Ferraris.
Ad accomunarli è la passione filosofica con cui difendono i propri punti di vista a viso aperto e senza cautele diplomatiche. In un ambito, come quello filosofico italiano, in cui mancano occasioni di dibattito e prevale un atteggiamento autoreferenziale, questo confronto-scontro costituisce un’eccezione positiva da salutare positivamente. Gli addetti ai lavori conoscono le prospettive filosofiche di Ferraris e Flores. Il primo, maggior interprete del “nuovo realismo”, ha progressivamente affinato la propria teoria, pervenendo a quello che egli stesso definisce “realismo positivo”: il reale non è soltanto ciò che dice “no” ai nostri tentativi di manipolazione, ma anche ciò che, proprio per questo, apre altre possibilità di intervento, indicandoci cosa si può fare. Il postmoderno, contro cui il nuovo realismo è nato, non va condannato in blocco, ma liberato dei suoi aspetti antirealistici e per certi versi portato a compimento. La stessa decostruzione, che esso ha praticato fino alla dissoluzione della realtà, va a sua volta decostruita, così da consentire una nuova ricostruzione. Una volta distinta l’ontologia — cioè la realtà inemendabile dei “fatti” — dall’epistemologia, è possibile riconoscere la loro relazione, vale a dire l’emergenza della seconda dalla prima. I valori, per quanto diversi dai fatti, non sono indipendenti da essi e anzi in essi radicati.
Molto più tranchant la posizione di Flores d’Arcais. Il congedo dall’ermeneutica va portato fino in fondo, non nel senso di un superamento dialettico, ma in quello di una rottura radicale.
Quella infausta stagione va “seppellita” a favore di una netta separazione tra scienze dure e scienze umane — che in realtà non sono affatto scienze. Fra descrizione scientifica dei fenomeni e prescrizione delle norme — affidata alla libera creazione dei soggetti — passa un abisso invalicabile. Solo la scienza certifica la verità delle cose, producendo una conoscenza oggettiva, certa e cumulativa. Le scoperte scientifiche valide non sono falsificabili da quelle successive, ma solo integrabili.
L’intera filosofia continentale, da Hegel a Heidegger, ha prodotto effetti allucinatori, spiritualistici e cattolicizzanti, che vanno azzerati a favore da un lato delle certezze scientifiche e dall’altro delle libere opzioni soggettive.
Repubblica 22.10.16
A Francoforte spopola la saggistica delle emozioni
All’interno della saggistica i libri scritti da filosofi sono in crescita
I nuovi filosofi, bestseller che si prendono cura di noi
di Raffaella De Santis

Sono prontuari ragionati su passioni e paure dalla solitudine all’amicizia. Il mercato li premia
+ 13,5%
Secondo i dati Aie il genere è in ascesa. In Germania +1,6%
+ 4,6%

FRANCOFORTE Prendersi cura di noi, dei nostri sentimenti, delle nostre passioni, darci indicazioni su come vivere. Sembra questa la formula vincente della saggistica da top ten. Tra i libri più venduti nelle aste della Fiera di Francoforte ci sono libri scritti da filosofi che amano parlare chiaro, fornendo dei prontuari ragionati a passioni e paure: dall’amore alla sofferenza per un lutto, dalla solitudine all’amicizia, non c’è sfera del quotidiano che non venga scandagliata. Einaudi Stile Libero si è accaparrata uno dei titoli hot della Buch–
messe. Poco più di sessata pagine, l’autore, Erling Kagge, è norvegese e incarna benissimo il nuovo modello di filosofo pratico: è un editore ed esploratore – si è perfino avventurato in una missione solitaria al Polo Sud – e alle cattedre preferisce gli scarponi. Perché si capisce che la sua filosofia non è solo un apparato concettuale, ma soprattutto uno stile di vita. Il titolo tradotto in italiano è Il silenzio ai tempi del rumore, ma chissà se rimarrà lo stesso. Angela Tranfo, che ha condotto le trattative come editor di narrativa straniera per Stile Libero, lo presenta così: «È un ritorno a valori semplici, Kagge si accorge che la solitudine ci mette a disagio e scrive un pamphlet filosofico per riscoprirne la bellezza». Allo stand norvegese se ne è festeggiato il successo insieme ai vari acquirenti internazionali (il volumetto è stato venduto a 18 editori stranieri) e con l’autore stesso, look boscaiolo-esploratore, occhi azzurri come i cieli artici.
«Assistiamo alla rinascita dei lettori di saggistica sentimentale, che cercano risposte esistenziali e non solo teoriche». Paolo Repetti, direttore editoriale di Einaudi Stile Libero, la definisce sentimentale, perché in fondo è centrata sulla manutenzione delle emozioni. Va da sé che in questa visione olistica della vita, il rapporto con la natura abbia un ruolo primario. È lo stesso filone del bestseller Norwegian wood di Lars Mytting (tradotto in Italia da Utet), guarda caso anche lui norvegese, in cui tagliare e accatastare la legna non è solo un’attività fisica ma una pratica spirituale. Poco prima della Fiera, Mondadori ha comprato La vita del pastore, in cui James Rebanks, laureato a Oxford, racconta il suo mondo rurale d’origine, scandito dal ritmo delle stagioni, tra le montagne e le pecore del Lake District, regione montuosa al nord dell’Inghilterra.
Il mercato editoriale, come sempre attento a intercettare i gusti dei lettori, si è attrezzato. Tanto più che la pubblicazione di titoli di saggistica è in crescita: nel nuovo rapporto dell’Aie, l’incremento in Italia è del 13,5%, e solo per la filosofia del 4,6%. E in Germania, la saggistica è l’unica categoria ad aver registrato nel 2015 un piccolo aumento (+1,6%). La Buchmesse è una cartina tornasole. Non è un caso che le liste degli agenti letterari siano ricche di saggi pragmatici, molti appunto scandinavi. Uno dei più gettonati, The Five Invitations (Flatiron), del norvegese Frank Ostaseski, se lo è aggiudicato Mondadori, poco prima dell’apertura della Fiera. Parla di morte e vita, o meglio di come il senso della fine aiuti a vivere più pienamente: «È un libro che attinge alla tradizione buddista. Ostaseski riscopre frammenti di civiltà antiche. In questi anni abbiamo vissuto una sbornia di modernità, forse abbiamo bisogno di ritrovare le nostre radici», spiega Francesco Anzelmo, direttore editoriale della saggistica Mondadori. Ostaseski è il fondatore del centro buddista del Metta Institute di San Francisco. Non è l’unico a ridare a un argomento tabù come la morte, una dimensione accogliente, quasi domestica. Lo fa anche un altro dei libri fiera di quest’anno, The Gentle Way of Swedish Death Cleaning di Margareta Magnusson, parlando del carico emotivo lasciato da lettere, fotografie, oggetti lasciati in casa da chi ci ha lasciati.
È vero che spesso il mercato premia ricette di saggezza intuitiva, che assomigliano molto ai vecchi consigli delle nonne. Ma in fondo Agnes Heller nella Teoria dei sentimenti (1978) spiegava che nell’antichità i filosofi si occupavano prevalentemente delle nostre passioni, dei nostri istinti. Se torniamo a farlo, anche in modi più spiccioli e pret-à-porter, è perché abbiamo bisogno di orientarci: «La filosofia serve a darci orizzonti, a ragionare sul mondo. È una pratica di vita», dice Giuseppe Laterza, che ha da poco pubblicato La filosofia tascabile, una raccolta di aforismi da Aristotele a Wittgenstein.
Roman Krznaric è uno dei filosofi britannici più cool del momento, tra i fondatori della School of Life. A Francoforte è stato lanciato il suo saggio,
Carpe Diem Regained, in uscita per l’editore Unbound: una rivisitazione del carpe diem oraziano ai tempi di Twitter. Anche Krznaric incarna il nuovo tipo di filosofo navigatore del quotidiano. Ha fondato un Museo dell’Empatia e una biblioteca digitale, la Empathy Library, e oltre ad aver insegnato a Cambridge ha lavorato in Sudamerica con i rifugiati. Gioca a tennis e ha una passione per piante e falegnameria. Uno dei libri più interessanti alla Buchmesse, The Wisdom of Frugality di Emrys Westacott va nella stessa direzione: la frugalità come medicina allo stress moderno. Il prossimo gennaio uscirà invece Foutez- Vous la paix! di Fabrice Midal (Flammarion/Versilio), mirato a insegnarci a vivere con leggerezza. E la Nave di Teseo ha comprato a Francoforte il bestseller di Bertil Marklund, 10 tips. The No Frills Guide to living 10 years longer, venduto in 23 paesi e scritto da un medico, anche lui norvegese, che oltre al corpo guarda allo stile di vita. Il titolo rimanda chiaramente ai famosi manuali del riordino di Kondo, che, al di là del discutibile valore filosofico, sono utilissimi esercizi di ordinaria saggezza domestica.
Corriere 22.10.16
la battaglia difficile tra ragione e fanatismo
Il film «Lo studente» del russo Kirill Serebrennikov non si limita a mettere in scena la guerra psicologica e ideologica tra un giovane in preda a un delirio religioso e la sua insegnante Mostra il multiforme ruolo della fede: da strumento di potere
a difesa culturale che comunque esclude. Una lezione attuale
di Carlo Rovelli

H o visto un film che mi ha colpito, perché tocca temi attuali e profondi e fa riflettere. È Lo studente del regista russo Kirill Serebrennikov. È stato presentato quest’anno a Cannes dove ha vinto il premio François Calais e in Italia esce con il titolo Parola di Dio . La storia è tratta da un testo teatrale dello scrittore tedesco Marius von Mayenburg. Racconta di un ragazzo, Venja, con problemi emotivi che lo spingono nel delirio religioso. Venja prende la Bibbia come insegnamento, e sulla base di questa diventa sempre più fanatico. Un’insegnante della sua scuola, razionalista e atea, cerca maldestramente di combattere questa deriva, ma finisce per istigarlo e provocare reazioni sempre più forti. Il finale, che non anticipo per non rovinare la visione del film ai lettori, è inquietante e scava nel nostro mondo.
Il titolo italiano viene dalle precise ed eloquenti citazioni della Bibbia che fa insistentemente Venja, brandite con il fanatismo che i nostri media gongolano nell’attribuire agli islamisti radicali. Come questi, ma anche come terroristi cristiani e di altre religioni che abbiamo visto nel mondo, il ragazzo è pronto a tutto per i suoi ideali. Il film scava nella sua psicologia: il percorso che va dalla violenza delle prime reazioni sessuali, il rapporto con una madre in difficoltà esistenziale, le frustrazioni dell’adolescenza, verso una rivolta sempre più feroce e fuori luogo. Seguirlo entrare in questa spirale ci aiuta forse un poco a capire la ribellione che nutre i tanti giovani pronti alla morte, ieri come oggi, per deliri che possiamo condividere o no.
L’insegnante predica la ragione, con passione e candore. I suoi motivi sono sinceri, ma genera e nutre reazioni di difesa. È esasperata, desidera molto aiutare il ragazzo, ne intraveda le difficoltà, ma insiste stolidamente a testa bassa solo sul suo razionalismo, che la porta in difficoltà.
Ma il lato più penetrante e amaro del film non è la guerra ideologica e psicologica, o meglio la danza umana e pericolosa, fra i due protagonisti. È l’osservazione del mondo attorno a loro: superficiale o confuso quanto, se non più che il ragazzo stesso, si muove fra ipocrisia, conformismo, paura, rabbia repressa, cattiveria o soddisfatta gestione di spazio di potere, offrendo un quadro amaro e crudo del marcio del mondo. Lo scontro dei due protagonisti fa emergere l’ipocrisia del potere ecclesiastico, il razzismo diffuso, celato ma crudele, espresso come antisemitismo, la stupidità della gioventù. Resta un personaggio amaramente umano in questa desolazione. L’ultimo, offeso da tutti, perfino dal film stesso che ne fa l’agnello sacrificale per risparmiare la bella eroina.
Ad animare la storia è il multiforme ruolo della religione: brandita come una clava da Venja, usata dagli uni per il potere, dagli altri come difesa culturale, da molti come identità per poter escludere.
Siamo nel mondo di oggi, dove non solo in nome della religione si uccide, ma anche dove Vladimir Putin della religione (ortodossa) si serve sempre più pesantemente come strumento di potere e per questo ha reso l’insegnamento religioso obbligatorio in tutte le scuole statali. Siamo nel mondo dove il Vaticano aggredisce la libertà di insegnamento sulle relazioni personali nelle scuole, e dove esistono autorità scolastiche che, come nel film, cercano di non permettere che i giovani imparino a scuola le scoperte di Darwin e colleghi. Nel mondo dove giovanissimi ragazzi e ragazze partono per combattere in Siria, come quanti partirono per combattere il generale Franco in Spagna, egualmente pronti alla morte. Siamo nel mondo in cui invece di sentire il dolore di tutti gli esseri umani, ci identifichiamo nuovamente per religioni, come nei periodi più torvi del passato.
Andate a vedere questo film; non è a senso unico, il suo pensiero critico è a tutto tondo, compreso verso l’insegnante. Fa riflettere. In Italia forse più che altrove, perché le sue ambiguità ci toccano da vicino. La nuova Russia reazionaria e bigotta dipinta con sarcasmo da Serebrennikov somiglia all’Italia in maniera inquietante.
La vicenda è ambientata in una cittadina ex sovietica apparentemente anonima. Ma è un luogo tutt’altro che insignificante. Oggi si chiama Kaliningrad. È una città russa, in una piccola enclave russa isolata fra Polonia e Lituania. In passato si chiamava Königsberg, ed era città della Prussia: è il luogo dove Immanuel Kant è nato, è vissuto ed è sepolto. È il luogo dove l’Illuminismo, la Ragione, hanno trovato una delle vette più celebrate e belle. Aprendo una speranza di ragionevolezza per l’umanità di cui oggi, nonostante lo sforzo generoso di tanti, nel nostro Paese non meno che altrove, non sembra che vedere che un lento e doloroso tramonto. Questa è il triste apologo del film. Spero tanto si sbagli.
Il Sole 22.10.16
Hunan, lo specchio della Cina che cambia
Nella provincia dove nacque Mao, tra cittadini in pellegrinaggio e tante aziende leader nel mondo
di Rita Fatiguso

Ottanta anni fa, il 22 ottobre del 1936, la Lunga marcia guidata dal Grande Timoniere Mao Zedong ebbe la meglio sui nazionalisti del Kuomintang.
La vittoria dell’Armata rossa, dopo tre anni di cammino dallo Jianxi allo Shaanxi, segnò la fine della guerra civile e aprì la strada alla fondazione della Repubblica popolare cinese.
Lo spirito del chairman Mao, figlio dell’Hunan, aleggia ancora su questa provincia della Cina più interna e profonda, attaccata alle tradizioni, fiera dei suoi primati e, soprattutto, del suo figlio più amato, l’eroe della Lunga Marcia di cui oggi ricorre l’anniversario. Dal maiale brasato color rosso seta di cui era ghiottissimo, ai gadget, ai princìpi che spuntano nei discorsi dei manager delle aziende statali locali, allo stesso nome – diffusissimo –, c’è sempre un signor Mao dietro l’angolo a porgerti la business card.
Qui tutto parla ancora di Lui, a partire dall’enorme busto che svetta nell’Isola degli aranci sul fiume Xiangjiang a Changsha, la capitale, le cui autorità hanno speso 60 milioni di dollari per la bonifica delle acque dai metalli pesanti. Mao è vivo nella memoria collettiva e il pellegrinaggio al mausoleo di Shaoshan, una modesta casa di campagna affacciata su un incantevole laghetto, non si è mai fermato.
Un’eredità pesante che trapela dalla caparbietà con cui questa gente continua a battersi in nome del futuro glorioso della Cina, perché il rallentamento c’è e non si possono compromettere trent’anni di successi economici, bisogna sterzare su lavorazioni più innovative e meno inquinanti.
I festeggiamenti in corso a Pechino, i discorsi commemorativi, le mostre al Museo della rivoluzione, sono lontanissimi da qui. Nell’Hunan, i cinesi non hanno mai smesso di marciare, e questa provincia è il test per capire se la seconda potenza mondiale è in grado di riprendersi e di far cambiare pelle al modello economico cinese oppure no.
Non è facile. Lo smog secca i polmoni già all’arrivo a Changsha, qui si è appena insediato a capo del partito Du Jiahao, un fedelissimo di Xi Jinping, già Governatore della provincia, segno che l’Hunan è uno snodo strategico per chi vuol governare il Paese.
Tutto è grigio, i palazzi, l’aria, sembra che una patina di polvere si sia posata dappertutto, per i cinesi è un buon segno, le macchine, le gru, le betoniere sono in piena attività.
Ma è il ritmo della crescita che deve cambiare perché del successo economico non resti solo polvere grigia.
Zhu Jin Hui è il numero due del Dipartimento della Propaganda del Comitato centrale del partito a Changsha: «Trent’anni fa – spiega – questa città era lunga appena un chilometro e larga tre, adesso non si vede la fine, stiamo per inaugurare la terza linea della metropolitana, gli abitanti sono già sette milioni e mezzo, questa è una città di seconda fascia, ma con aziende che contano e che vogliono contare ancora di più. Siamo lo snodo geografico della Belt and road initiative voluta dal compagno Xi Jinping».
Dal 2000 al 2015 l’Hunan ha viaggiato alla velocità media annua del 9,5%, ma ci sono aziende che stanno vivendo sulla loro pelle il cambiamento ed è sulle loro spalle che ricade il peso di aiutare la Cina a trovare un posto in prima fila nel mondo.
Zoomlion, ad esempio, non è un’azienda qualsiasi, Zoomlion è Changsha, molto più dell’acerrima rivale Sany. Il suo fondatore, Zhan Chunxin, nel 1992 ha inventato di sana pianta un gigante delle macchine per il movimento terra partendo dall’Università per lo studio delle costruzioni di Changsha e con un prestito di appena 500mila yuan, oggi è quotata a Shanghai e Hong Kong, dà lavoro a mezza città, nel 2014 ha fatturato 4,2 miliardi di yuan. Poi, la crisi mondiale e il rallentamento interno, nei primi sei mesi dell’anno 800 milioni di yuan sono andati in fumo, ora il peggio sembra essere passato e le perdite, in parte, riassorbite. Zoomilion ha iniettato nelle vene la tecnologia necessaria, come documenta nel suo Museo delle costruzioni, acquistando l’italiana Cifa, ora si apre un nuovo capitolo, un nuovo mercato, quello delle attrezzature usate, molti costruttori hanno chiuso i battenti, il business delle macchine tornate indietro per insolvenza è consistente.
Ma per assorbire l’overcapacity c’è la Belt and road initiative, l’Hunan ha approvato un primo lotto di 66 progetti infrastrutturali e aziende come Zoomlion stanno lì, pronte a inserirsi nei programmi di sviluppo delle infrastrutture finanziate dalle banche multilterali, Aiib, Adb, Banca Mondiale, dal Pakistan alla Malesia. L’impegno a lungo termine è di ben 342 miliardi di yuan.
«Dopo aver accusato i colpi dell’instabilità del Brasile o del Nord Africa bisogna pensare anche al mercato interno. Puntare alle macchine agricole e al settore ambientale, tanto che abbiamo acquistato un’altra società italiana, la Ladurner, specializzata nel trattamento dei rifiuti», dice Geoffrey Tao, vice general manager del trading internazionale di Zoomlion.
Una sfilza di realtà cruciali per la Cina (e il mondo) ha sede nell’Hunan, e riflette le ambizioni della Cina che ospita il G20, incassa lo yuan nel paniere delle valute dell’Fmi e manda nello spazio satelliti avveniristici. Qui è nato il super computer Tianhe 1, ma anche il riso ibrido, e un giro tra le aziende avanzate è come andare su una giostra, da Beidou con la nuovissima tecnologia acchiappa droni all’expertise ormai consolidato delle locomotive elettriche di Crrc di Zhuzhou, al bullet train Maglev, agli elicotteri di Sunward a uso civile pronti a dilagare non appena lo spazio aereo sarà liberalizzato, alle stampanti 3D di Farsoon grazie alle quali i designer Exuberance di Shanghai hanno vinto due anni fa il premio del Salone Satellite a Milano, ai robot di Sinolight corporation che interagiscono con l’indotto automotive locale, nel quale opera lo stabilimento di Fca, arrivata qui anni fa come Fiat, oggi la joint venture è attiva nella produzione delle Jeep made in China. E ci sono i pannelli in cemento prefabbricato da spedire in Africa e Brasile, la logistica pesante di Tidfore che ha appena siglato un accordo chiave in Nigeria nel Cross River State per un porto da 3 miliardi di dollari.
Chissà cosa direbbe Mao Zedong di questo Hunan di cui possiamo solo presumere gli esiti futuri. Salirebbe, questo è certo, anche lui sul ponte di vetro più grande al mondo inaugurato un mese fa sul Grand canyon di Zhangjiajie, tra le montagne immortalate dal film Avatar. E come le diecimila persone che lo visitano ogni giorno, guarderebbe giù nel vuoto, lottando con le vertigini, 300 metri più sotto. Anche su quel ponte abbiamo visto sventolare una bandiera rossa.
il manifesto 22.10.16
Evangelici. In Brasile la cifra più alta
Brasile, il potente capo delle chiese evangeliche, Eduardo Cunha
di Geraldina Colotti

Caracas. Nei pressi del metro Bellas Artes, due gruppi si fronteggiano sotto un grande murale che celebra il socialismo bolivariano: da una parte gli evangelici, dall’altra i movimenti Lgbt. Dopo qualche scaramuccia, la polizia li divide. La manifestazione prosegue e “accerchia” il Parlamento: per chiedere che non venga discussa la legge sul matrimonio ugualitario, che la sinistra chavista non è ancora riuscita a far passare. Un appuntamento rinviato a data da destinarsi, dopo la vittoria delle destre in Parlamento, il 6 dicembre scorso. La marcia a cui abbiamo assistito si è svolta nell’estate del 2015.
Anche in Venezuela – dove trovano spazio molti culti religiosi, moltiplicati dalla presenza di 34 popolazioni indigene e dagli afrodiscendenti – le chiese evangeliche sono in aumento. Negli ultimi 16 anni, hanno avuto una crescita di circa il 7%, e coprono – secondo il Consiglio evangelico de Venezuela (Cev) -, il 17% della popolazione (che è di oltre 33 milioni). Gestiscono radio di quartiere e canali televisivi e intervengono nella contesa politica: a favore o contro il socialismo bolivariano, configurato da un blocco sociale variegato, ma a dominanza «plebea». E qui, le chiese evangeliche, come quella cattolica, trovano duro. Per far proseliti nelle comunità, devono contenere i bollenti spiriti conservatori: intanto per la forte presenza delle donne e del femminismo, poi perché le «misiones» le fa già il chavismo – ma per organizzare politicamente le “moltitudini”, non per addomesticarle – e inoltre perché qualunque dio s’inalberi, dovrà marciare verso il bolivariano raggiungimento del «massimo di felicità possibile», non della rinuncia.
Di sicuro, però, ha sbagliato pronostico Carlos Mariategui, il grande pensatore marxista peruviano che considerava concluso il ciclo di crescita del protestantesimo in America latina già nel 1928. Oggi, è di religione evangelica circa il 20% del continente, contro il 69% di cattolici. Nel 1900, i protestanti erano circa 50.000: solo l’1% del Latinoamerica, mentre il 94% era cattolico. Nel 1930, erano diventati un milione, 50 milioni negli anni ’80. E nel 2000 erano saliti a circa 100 milioni.
Il Paraguay è il paese con meno evangelici (circa l’8%), il Brasile quello dove la proporzione è più alta e più forte è l’influenza conservatrice delle chiese pentecostali e neopentecostali. Lo si avverte durante le campagne elettorali e nelle scelte politiche dei candidati, nell’economia e nella comunicazione. In Brasile, gay e lesbiche possono sposarsi dal maggio 2013, per decisione della Corte Suprema, che però può essere messa in causa da un giudice conservatore. E il matrimonio ugualitario è stato il principale cavallo di battaglia delle potenti chiese pentecostali, assunto dalla candidata anti-Dilma Rousseff, Marina Silva, nel 2014.
Un’inchiesta di Le Monde diplomatique ha evidenziato i termini di questa poderosa forza socio-politica, che in soli 40 anni è passata dal 5% al 22% di fedeli. Il cuore del suo potere risiede nel Congresso. Ogni mercoledì, i deputati si riuniscono per pregare in una sala plenaria del Congresso, intonando canti e giaculatorie. Durante l’impeachment a Dilma, hanno animato una vergognosa cagnara maschilista e reazionaria, in nome di «dio, patria e famiglia».
Il sistema politico brasiliano, oltre all’estrema frammentarietà, ha anche la particolarità di premiare le persone famose, che consentono alla formazione che li candida di ottenere più seggi nel computo finale. E i predicatori sono i preferiti. Nel 2010, il deputato federale più votato del paese è stato il «pagliaccio Tiririca».
Con 123 milioni di fedeli, il Brasile resta il primo paese cattolico al mondo. Entro il 2030, le due religioni saranno però alla pari.
Repubblica 22.10.16
Se serve il giudice per affermare un diritto di tutti
di Chiara Saraceno

Tutti i bambini dall’anno in su in Germania hanno in linea di principio diritto ad avere un posto al nido. Questo diritto è stato introdotto nel 2013 non solo per favorire l’occupazione delle madri e il loro ritorno al lavoro dopo l’anno di congedo ben remunerato cui hanno diritto dal 2007, ma per ridurre le disuguaglianze di partenza tra bambini, offrendo a tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa della madre e dalle condizioni famigliari, pari opportunità educative. Non vi è obbligo per i genitori, che possono decidere di non iscrivere il proprio bambino al nido, ma per i governi locali, che devono, appunto, fornire questa opportunità. I diversi Länder hanno finora provveduto in modo molto diseguale a dare attuazione a questo diritto, contando sul fatto che, specie nelle regioni occidentali, vi è, come succede anche in Italia, ancora una diffusa ambivalenza rispetto al nido. Perciò la domanda effettiva rimane contenuta. Ma è una domanda in continuo aumento, con conseguenti lunghe liste di attesa che sono la negazione sia dell’obiettivo di sostenere l’occupazione delle madri sia di quello di mettere i bambini più piccoli in condizioni di pari opportunità di esperienza educativa. Le donne che hanno fatto ricorso alla Corte Federale di Cassazione contro il Comune di Lipsia per avere una compensazione del danno subito, perché non hanno potuto lavorare nei lunghi mesi in cui hanno dovuto aspettare un posto al nido, hanno costretto il governo federale e quelli locali a uscire dall’ambiguità. Se c’è un diritto, deve essere esigibile. Era già successo che qualche genitore si presentasse al proprio comune per essere risarcito della retta pagata ad un nido privato. Ora, con la sentenza della Corte, se vogliono evitare ricorsi di massa milionari i comuni e i Länder devono attrezzarsi e negoziare con il governo federale il necessario co-finanziamento. La ministra della famiglia ha già dichiarato che si dovrà procedere in questa direzione. Ancora una volta – era già successo con la Corte Costituzionale nel caso della definizione di come si dovesse stabilire un sostegno adeguato per i bambini poveri – una Alta corte tedesca prende sul serio i diritti dei bambini e impone ai diversi livelli di governo di far fronte alle proprie dichiarazioni di principio, a rendere trasparenti i propri criteri e a rispettare i diritti che sancisce. E i governi federale e locali si adeguano. Anche in questo, non solo nelle politiche di austerity, la Germania è lontana dall’Italia.Latinoamerica, il potere delle chiese pentecostali
Repubblica 22.10.16
“Risarcite chi non trova posto al nido”
La decisione della Corte di Cassazione tedesca: il Comune paghi un indennizzo alle famiglie tagliate fuori dal servizio Il caso sollevato da tre donne di Lipsia. Allarme a Monaco e in altre grandi città, che ora temono un’ondata di ricorsi
di Tonia Mastrobuoni

BERLINO. La sentenza è una piccola rivoluzione e una liberazione per milioni di donne. D’ora in poi, in Germania, ogni bambino avrà diritto al nido. Altrimenti, la madre dovrà essere risarcita. Lo ha stabilito una sentenza del Bundesgerichtshof, la Corte federale di Cassazione, confermando un principio già stabilito per legge nel 2013. Tuttavia, i Comuni saranno costretti a sborsare i risarcimenti solamente se ritenuti responsabili della penuria di posti.
Il caso che ha indotto il tribunale di Karlsruhe a stabilire una volta per tutte un principio che varrà per tutti i bambini dall’età di un anno, viene dalla Sassonia, ossia dall’Est. E forse non è un caso. Una delle qualità maggiori della vecchia Germania orientale erano i servizi per l’infanzia, che prima della caduta del Muro, oltre un quarto di secolo fa, erano molto più progrediti che a Ovest.
Sono state tre donne di Lipsia, insomma, a fare ricorso contro l’amministrazione comunale. Appena partorito, avevano chiesto un posto in un nido per lo scadere del loro anno di congedo. Il Comune, però, aveva risposto di non avere disponibilità per quella data. Le tre madri avevano chiesto successivamente un risarcimento per tutte le settimane e i mesi di mancato ritorno al lavoro, rispettivamente circa 2200, 4500 e 7300 euro.
La Corte federale di Cassazione ha dato ragione alle mamme, ma con un paletto. Adesso dovrà essere il tribunale regionale di Dresda, città-capoluogo della Sassonia, a stabilire se l’amministrazione di Lipsia è davvero responsabile per non aver garantito alle tre donne la possibilità di conciliare famiglia e lavoro, insomma se mancano davvero i posti nei nidi. E ogni volta che verrà presentato un ricorso simile in futuro, dovrà essere il tribunale locale di riferimento a giudicare se è colpa del Comune. Se le amministrazioni cittadine, tanto per fare un esempio, saranno in grado di dimostrare di avere abbastanza posti, ma non abbastanza educatrici, i giudici potranno decidere a loro favore e respingere le richieste di risarcimento.
Secondo gli esperti, comunque, i giudici di Dresda decideranno a favore delle mamme di Lipsia. Che sono già passate attraverso due gradi di giudizio: il tribunale comunale aveva dato loro ragione, quello regionale di Dresda no. Anche se saranno di nuovo i togati del capoluogo a decidere, è improbabile che si oppongano a un’istanza superiore come quella della Cassazione e che contraddicano un principio che era già stato stabilito da una legge precedente.
L’Associazione dei sindaci ha detto di non temere un’ondata di ricorsi: la stragrande maggioranza delle amministrazioni locali può garantire abbastanza posti alle madri che vogliono affidare i loro bimbi a un nido già dal primo anno di vita, sostengono. Gli unici punti deboli sono le grandi città, ammettono, dove è più difficile far entrare tutti. Ma a Monaco, tanto per citare un esempio, soltanto il 44 per cento delle mamme può contare su una struttura esterna per garantire l’accudimento dei figli in età pre-scolare. Se si moltiplicassero i ricorsi, il Comune bavarese potrebbe essere costretto a sborsare cifre considerevoli, considerato anche il livello mediamente alto dei redditi.
La ministra per la Famiglia, Manuela Schwesig (Spd) ha dichiarato in ogni caso che si impegnerà per estendere la costruzione degli asili nido in Germania. Tra il 2006 e il 2016 sono nati oltre 400mila nuovi posti; tra il 2008 e il 2018 saranno spesi complessivamente 3,2 miliardi di euro per garantire ad ogni bimbo un posto nel nido.
Corriere 22.10.16
Spagna, lo stallo di Podemos «errore storico»
Lo chiamano già un «errore storico». Probabilmente l’aggettivo è un po’ forzato. Ma rende l’idea. Podemos sembra aver perso la sua spinta propulsiva. Così la pensa José Ignacio Torreblanca che scrive sul País. Il partito che ha eroso i consensi, soprattutto ai socialisti, non ha ancora saputo passare dalla fase della protesta a quella della proposta. Sempre sulle barricate, mai, quasi mai attorno ad un tavolo per cercare il dialogo. Il risultato? Lo stallo politico-istituzionale che sta attraversando la Spagna.
Corriere 22.10.16
Hollande, quello che un presidente non dovrebbe mai dire
di Stefano Montefiori

L’uomo che non sa scegliere si sta avvicinando al liberatorio momento in cui gli altri decideranno per lui. La situazione politica di François Hollande non è mai stata peggiore: sempre in fondo ai sondaggi, abbandonato dai sostenitori ma adesso anche dai suoi amici e collaboratori più stretti, che per la prima volta gli stanno chiedendo di non ricandidarsi. All’Assemblea gira in queste ore un documento con il quale la maggioranza socialista potrebbe invitarlo a farsi da parte. In quattro anni e mezzo i suoi uomini gli hanno perdonato tutto: gaffe, temporeggiamenti, marce indietro, ma non il libro-confessione affidato a due giornalisti di Le Monde , Gérard Davet e Fabrice Lhomme, che lo hanno incontrato per circa 100 ore di colloqui. «Un presidente non dovrebbe dire questo...», ammise una volta Hollande in un lampo di consapevolezza. Ma poi ha continuato ad affidare al libro il suo vero pensiero — opposto a quello spacciato per anni — su tutto. Sui magistrati bollati come «vigliacchi»; sull’Islam, con il quale «abbiamo un problema»; sui calciatori della Nazionale, che dovrebbero fare «ginnastica del cervello»; su Obama «lento nel prendere le decisioni», fino a Julie Gayet, che terrebbe a regolarizzare la relazione «ma io non voglio». Hollande arriva a raccontare di avere ordinato quattro omicidi mirati di terroristi, mettendo in imbarazzo i servizi segreti. Sembrano le memorie scritte per i posteri da un ex capo di Stato, ma Hollande è ancora all’Eliseo. Lo stesso premier Valls stupefatto parla di «suicidio politico». Il libro di Hollande ricorda lo scandalo del Sofitel di Dominique Strauss-Kahn: il gesto insensato di un uomo che non ha mai voluto fino in fondo essere presidente. Per non correre il rischio (pur minimo) di essere rieletto, Hollande ora ricorre all’autosabotaggio.
il manifesto 22.10.16
L’ossessione dei teocon per l’Armageddon. E per Trump
Storia dei fondamentalismi cristiani nel paese in cui è più facile diventare presidente per un omosessuale che per un ateo
Dai miti della fondazione alla destra teocon, sedotti dal populismo di "The Donald"
di Luca Celada

LOS ANGELES Nel dibattito di Las Vegas, Donald Trump ha detto di andar fiero del sostegno della Nra, la lobby delle armi ed ha promesso di nominare alla corte suprema giudici che abolirebbero il diritto all’aborto. Quest’ultima in particolare è stata una rassicurazione diretta alla base teocon che negli ultimi tre decenni è diventata una componente fondamentale della destra ideologica americana.
Sin dalla fondazione da parte di fanatiche sette puritane espulse da Inghilterra e Olanda, la fede integralista è stata un pilastro nazionale al pari dell’impresa mercantile delle concessioni commerciali delle colonie. Dopo la rivoluzione “illuminista” del 1776 il fondamentalismo cristiano, rimarrà una caratteristica profonda dell’esperimento americano, con la libertà di religione codificata nella costituzione e una forte piega avventista e millenarista. Una vocazione severa e apocalittica, sempre in tensione con gli elementi razionalisti importati della rivoluzione francese. Una dicotomia che rimane al centro del discorso politico americano che vede tuttora la corte costituzionale esprimersi regolarmente su preghiera nelle scuole, simboli religiosi e le contraddizioni di una società ufficialmente laica e senza religione di stato ma che i sondaggi confermano sempre come la più intrisa di religione rispetto ad ogni altro paese occidentale. Ancora oggi si dice, con cognizione di causa, che sarebbe più facile diventare presidente per un omosessuale che per un ateo.
Le correnti fondamentaliste, affiorate in varie denominazioni (battisti, presbiteriani ecc.) all’inizio del ventesimo secolo come reazione al percepito eccessivo riformismo religioso, promuovono l’interpretazione letterale della Bibbia intesa come testo infallibile e una concezione teocratica dello stato.. È l’ossessione escatologica che le porta a vedere nella costituzione dello stato di Israele il prologo necessario alla profetizzata battaglia finale di Armageddon, località menzionata nel Libro dell’Apocalisse oggi localizzata in Tel Megiddo a una quindicina di chilometri da Nazareth. Il cosiddetto «sionismo cristiano» dipende in sostanza da un epilogo catastrofico in medio oriente, non sorprende dunque l’appassionato sostegno dei fondamentalisti evangelici al governo Netanyahu.
Ma è negli anni 80 che le sette evangeliche emergono come forza politica e zoccolo duro della destra repubblicana. Effetto della «Reagan revolution» che sancisce un alleanza operativa con formazioni come la Moral Majority di Jerry Falwell e la Christian Coalition di Pat Robertson, due tele-evangelisti che usano le prediche contro il «decadimento morale» per galvanizzare la base elettorale nelle crociate contro cultura gay, aborto, contraccezione, insegnamento della teoria dell’evoluzione.
Sono le culture wars strumentalizzate dal reaganismo e in seguito sempre più «scientificamente» dai neocon di era Bush, grazie a strateghi come Karl Rove che ne fanno il perno della strategia elettorale. Il maggiore successo teocon, oltre ai mandati Reagan e Bush, è stata la deriva reazionaria della corte suprema a cui accedono Clarence Thomas e Antonin Scalia entrambi legati agli ambienti evangelici e affidabili baluardi di conservatorismo integralista durante gli ultimi vent’anni. Si devono alla cultura evangelica l’inviolabilità del porto d’armi, pur nell’escalation di stragi e violenza, come anche l’abilitazione di «schegge impazzite» responsabili di omicidi di medici abortisti e attentati a consultori.
Ironicamente son proprio decenni di strumentalizzazione da parte dell’establishment repubblicano, le cui promesse elettorali agli evangelici vanno regolarmente disattese (il matrimonio gay è un esempio lampante), che portano alla crescente disillusione dei teocon, molti dei quali confluiscono prima nel Tea Party ed in seguito nel movimento populista di Trump. Il sostengo a Trump invero è anomalo. Culturalmente gli integralisti delle province hanno poco da spartire col miliardario libertino e pluridivorziato newyorchese. E nelle primarie la base aveva infatti adottato paladini come Mike Huckaby, Ted Cruz e Ben Carson.
Il sostegno degli evangelici a Trump dipende in parte dall’opposizione a priori a Hillary Clinton e tutto ciò che rappresenta. Ma esiste un affinità profonda fra le frange apocalittiche e la fosca distopia articolata da Trump. La sua visione intrisa di paura, di un paese in balia di bande di stranieri criminali, è una versione «laica» delle geremiadi lanciate dai pulpiti evangelici. L’affresco di una nazione eletta che ha voltato le spalle al sacro timore di dio e che per questo incorrerà nell’ira del creatore – o, eventualmente, di un condottiero da reality tv.
La Stampa 22.10.16
Nel Nevada che sta con Donald
“Vincerà lui o sarà la rivoluzione”
Salari bassi e clandestini alimentano la rabbia dei bianchi
di Liliana Faccioli Pintozzi

È alto e snello; può avere tra i 35 e i 50 anni. Impossibile dirlo, con gli occhiali da sole a proteggere lo sguardo. La barba è sale e pepe, la maglietta non lascia spazio a dubbi: «Hillary For Prison 2016». Bill è nel parcheggio del «Master at Arms», lì dove per meno di 350 dollari ti porti via una pistola, e oggi gli Ar-15 sono in offerta: «Donald Trump è l’uomo giusto per il lavoro» dice con un gran sorriso soddisfatto, e non è solo la difesa del Secondo emendamento: «Il governo fa un passetto alla volta, un giorno ti toglie la pistola, il giorno dopo tutti i tuoi diritti»; non è solo la rabbia del redneck lasciato indietro dalla crisi, «non vediamo un aumento da 12 anni»; non è solo la rivolta contro il politicamente corretto, «mia moglie parla peggio di Trump quando esce da sola con le amiche». È tutto questo, tutto insieme: è la certezza che il paese stia «andando a rotoli».
Benvenuti a Pahrump Contea di Nye, al confine tra Nevada e California; panorami da selvaggio West, e il Mom’s Family Diner – tavoli di legno e sedie con l’imbottitura rossa – a fare da saloon. Se Bill rappresenta lo zoccolo duro degli elettori di Trump, con lui ci saranno quelli che voteranno tappandosi il naso come Milk, veterano 71enne, che sotto i baffi ride «è ridicolo, nessuno dei due dovrebbe correre per la Presidenza», ma poi lo sosterrà perché «pensa ai militari e riporterà il lavoro qui»; o come Tom, carpentiere 52 anni, «voterei chiunque, basta che non sia lei a vincere». Parlano volentieri, tra una tazza di caffè e un sandwich al formaggio; roccaforte repubblicana, per ogni democratico ci sono almeno due conservatori. Venticinquemila abitanti, più del 90% è bianco: lavoratori edili, agricoltori e pensionati. Dormitorio per Las Vegas, città dei casinò e delle conferenze, dei sindacati e delle minoranze.
Le due facce del Nevada, «swing state» per eccellenza, fotografia degli Stati Uniti. Uno stato dove le minoranze - 27,8% latinos, 9,1% afroamericani, 8,3% asiatici – diventeranno presto maggioranza; e dove più del 70% della popolazione vive in agglomerati urbani. Caratteristiche che lo rendono rappresentativo delle aree degli Usa che decideranno le elezioni. Uno stato dove la questione principale rimane quella economica: «La situazione sta migliorando, il mercato immobiliare è in ripresa, ma i salari sono molto bassi e spesso la gente deve fare due lavori; e poi c’è il dossier immigrazione, qui c’è una grande comunità di irregolari e le loro famiglie guardano con attenzione alla questione della cittadinanza e del controllo delle frontiere» riassume la professoressa Tiffany Howard, della Las Vegas University.
Se sull’economia può convincere, Trump qui sembra essersi alienato troppi voti con le sue posizioni su immigrati e minoranze per potercela fare. Forse. «Io sono in un sindacato, i capi hanno dato l’endorsement a Hillary, ma noi voteremo tutti per Donald, anche gli ispanici» racconta ancora Bill che bolla i sondaggi come «carta straccia». È sicuro di vincere, e in caso contrario si prepara al peggio. «Faremo la rivoluzione. Siamo 350 milioni, abbiamo 300 milioni di armi, e il nostro esercito non si rivolterà contro di noi. Non voglio che accada, saremmo schiacciati dai cinesi o russi, ma che dobbiamo fare…». Bill parla mentre un rilevamento della Nbc fotografa il malessere dei repubblicani: il 45% di loro dice che potrebbe non accettare il risultato elettorale. Come ha minacciato Trump. E Intanto, oggi, qui si comincia a votare.
Corriere 22.10.16
Bronx
I diari di Deborah uccisa dagli agenti «La mia vita con la schizofrenia»
di Michele Farina

Eppure lei, per 36 anni, ce l’aveva fatta. «Sorrido di rado, ma sopravvivo».
Fino all’altra sera, fino a quel poliziotto che le ha sparato due colpi di pistola nel petto, mentre era in camera da letto in preda a una crisi di schizofrenia, in una palazzina del Bronx: una signora afro-americana mezza svestita, con una mazza da baseball alzata verso la squadra di «intrusi» in divisa, chiamati dai vicini per certi suoi non meglio specificati «comportamenti irrazionali». Fino a quel momento, Deborah Danner «la bestia» l’aveva in qualche modo tenuta a bada. Cadendo e rialzandosi, «perché non sono una persona debole». Nei suoi scritti del 2012, pubblicati ieri dal New York Times , chiama così la malattia: the beast . «Anche le persone più intelligenti del mondo non potrebbero restare nel regno della normalità, quando sale quella scimmia sulla spalla».
Eppure lei ci aveva passato quasi metà della vita, era arrivata a 66 anni, quasi sempre da sola, sostenuta dalla chiesa locale, guardata con sospetto dai familiari («Non mi chiamano, non mi invitano, non mi vengono a trovare») lavorando nel settore informatico «perché nel mio campo sono molto brava», cambiando spesso posto perché «quando scoprono che ho un problema mi licenziano».
Aveva studiato a lungo la bestia. Ci aveva scritto dei saggi. «La sua natura porta in certi momenti a una completa perdita del controllo: sulle tue emozioni, le tue azioni, sull’istinto, la consapevolezza». Poteva diventare «un incubo», la schizofrenia, anche se per Deborah Danner doveva essere considerata «semplicemente una malattia». E invece il mondo intorno non la pensava così. Era questo, per lei, il problema più grave. Lo stigma. La diffidenza degli altri, il pregiudizio, l’ignoranza, e dunque l’emarginazione. L’isolamento che si aggiungeva alla paura di stare male. Scrive in quelle sei pagine intitolate «Vivere con la schizofrenia»: «Sei in un perenne stato di allerta. Esaminarsi sfianca emotivamente. E se i farmaci non funzionano? Me ne accorgerò? Quando? Dove? Sarò abbastanza presente da capirlo? Qualcuno se ne accorgerà? Nessuno se n’era accorto, la prima volta che ho cominciato a stare male, quando avevo 30 anni». Neanche l’ultima volta se ne sono accorti, o hanno fatto finta di non sapere.
Il capo della polizia del Bronx ha dichiarato che erano già stati chiamati in diverse circostanze per la signora Danner. L’uomo che ha sparato, il sergente Hugh Barry, otto anni di esperienza, è sotto indagine. Gli hanno tolto la pistola, per il momento lavorerà in ufficio. Il comandante del Dipartimento, James O’Neill, ha già detto in conferenza stampa: «Abbiamo fallito». Il sindaco di New York, Bill de Blasio, ha accusato il sergente Barry di non aver seguito i protocolli sul trattamento delle persone affette da una malattia mentale: non ha bloccato Deborah con le scariche elettriche della pistola Taser, non ha aspettato l’arrivo di personale specializzato. Fuori dal palazzo del Bronx, e sulle vie di Twitter, infuriano le proteste sull’ennesima persona nera uccisa da un agente bianco in America.
Eppure nel suo racconto in prima persona, Deborah Danner non parla mai di bianchi e neri. Quando parla di emarginazione, parla di tutti, anche di noi. Parla dello stigma che ci induce a pensare «che le persone con demenza non siano più persone». Non accusa. Descrive, con la stessa spassionata lucidità con cui spiega i morsi improvvisi e lo strascico di flashback e allucinazioni che porta con sé la bestia della schizofrenia. «Magari stai facendo qualcosa di normale, come lavare i piatti, o leggere un libro, e d’improvviso ti assale il ricordo di quella volta che giravi per le strade di New York all’alba, con un coltello in mano, cercando un posto dove suicidarti».
Eppure non l’aveva mai fatto. Eppure non si piangeva addosso, ma pensava a chi stava peggio di lei: «I malati mentali che non hanno accesso alle cure perché magari sono in carcere, o sono in giro senza casa». Quattro anni fa, Deborah Danner denunciava i casi di persone malate «che finiscono ammazzate dalla polizia, perché gli agenti non sanno come comportarsi durante una crisi».
Si dilaniava l’anima, temendo di non accorgersi di essere sul punto di perdere il controllo, di fare del male agli altri. Quando ha premuto il suo grilletto, se ne sarà accorto il sergente che l’ha uccisa?
Repubblica 22.10.16
Sole 24 Ore, la procura indaga ora l’ipotesi è falso in bilancio

MILANO. La procura di Milano indaga per falso in bilancio a carico di ignoti sui conti del gruppo editoriale Sole 24 Ore. Il fascicolo aperto dal pm Fabio De Pasquale prende forma e si è trasformato da “modello 45” (a carico di ignoti e senza ipotesi di reato) a “modello 44” (a carico di ignoti con ipotesi di reato). Il magistrato ha disposto l’acquisizione dei bilanci degli ultimi anni in Kpmg, la società di revisione contabile che si è occupata di certificarli per il gruppo. È proseguita intanto, per il terzo giorno consecutivo, l’ispezione della Consob nella sede del gruppo. L’inchiesta dell’autorità di vigilanza corre parallela a quella della procura ed è nata dai due esposti presentati il 5 e 7 ottobre scorsi dal giornalista del quotidiano Nicola Borzi. In questi giorni sono in corso da parte della Consob le audizioni di alcuni componenti - anche quelli che si sono dimessi nei mesi passati - del cda del gruppo Sole 24 Ore. A fine settembre, il gruppo aveva annunciato una perdita semestrale di quasi 50 milioni con un’erosione del patrimonio di 59 milioni in soli sei mesi. Intanto il maggiore azionista del gruppo, la Confindustria, ha presentato una lista per il nuovo cda escludendo l’attuale ad Gabriele Del Torchio

Repubblica 22.10.16
“Libertà di preghiera anche per noi” la sfida dell’Islam ai piedi del Colosseo
Organizzata dalla comunità bengalese, la manifestazione ha avuto un seguito molto ampio La scelta contestata dai rappresentanti della Grande Moschea e dalla Lega Nord
I musulmani di Roma contro la chiusura dei loro luoghi di culto: ma la questione non tocca solo la capitale
È l’intero Paese a dover ripensare il rapporto con questa religione
di Renzo Guolo

Musulmani in piazza sotto l’arco di Costantino. Protestano per la chiusura dei luoghi di culto nella capitale. Protagonista della mobilitazione l’associazione Dhuumcatu, che rappresenta la comunità del Bangladesh a Roma. Ma, ovviamente, la questione non riguarda solo i bengalesi. Problemi analoghi si registrano su tutto il territorio nazionale.
La realtà è che sebbene la nostra Costituzione tuteli la libertà religiosa, e quella di culto dal momento che non esiste religione senza pratica, avere a disposizione un luogo in cui pregare è un problema per i musulmani. Molti amministratori locali o fingono di non vedere o esibiscono atteggiamenti muscolari che esasperano il clima. Ciascuno si comporta come crede, a seconda dell’orientamento e del ciclo politico, trasformando un diritto indisponibile, la libertà religiosa, in mera concessione. A livello nazionale la cosa si complica per effetto della mancanza di un’intesa tra Stato e musulmani, strumento previsto per le altre confessioni, o di una legge sulla libertà religiosa che sappia rispondere alle complesse questioni poste dall’avvento delle società multiculturali.
Con l’ovvio risultato che, come recitava lo slogan della manifestazione davanti al Colosseo, «chiudere le moschee non ferma le preghiere». I musulmani, infatti, continuano a pregare. Lo fanno in sale da preghiera ricavate in scantinati o capannoni industriali. Una situazione indegna per un Paese civile e, ormai, religiosamente plurale: i musulmani in Italia sono circa un milione e 700mila. Nella sola Roma sono circa 130mila, dei quali il 10 per cento cittadini italiani.
Oltretutto questa politica, tanto poco pensata quanto spesso mirata a riprodurre lo schema della “religione del Nemico”, è del tutto controproducente rispetto alla necessità di integrare la comunità islamica presente nel nostro Paese nel tessuto civico e istituzionale e prevenire eventuali derive fondamentaliste. Certo, nemmeno la piena libertà di culto, e della sua organizzazione, come si è visto in altri Paesi europei, può impedire che singoli aderiscano all’ideologia islamista radicale ma, almeno, contiene il fenomeno. Non è casuale che tra le motivazioni che gli jihadisti europei invocano per giustificare la loro scelta vi sia anche quella della discriminazione, palese o latente, contro l’islam.
Naturalmente Stato o amministrazioni locali si trovano di fronte a un problema reale. Quello della polverizzazione della rappresentanza dell’associazionismo islamico, che in Italia vede in campo organizzazioni che si aggregano secondo appartenenze nazionali o transnazionali. E un mai sopito conflitto tra “Islam degli stati”, rappresentato da Paesi stranieri, e “Islam delle moschee”, transnazionale e diffuso nel territorio. Un conflitto emerso anche di fronte alla manifestazione romana, stigmatizzata dalla Lega Nord (che annuncia un’interrogazione parlamentare) ma anche dal portavoce della Grande moschea di Roma, simbolo dell’“islam degli stati”, come inopportuna nel luogo simbolo della cristianità e in un momento nel quale l’Isis titola la sua rivista rivolta agli occidentali “Rumyah”, Roma, e apre su Telegram un canale social in italiano. Per la Grande Moschea, la capitale ha già un luogo di culto, appunto quello alle pendici dei Parioli, ma proprio le diverse modalità di aggregazione dei musulmani fanno sì che ciascuna comunità o gruppo miri ad avere la propria moschea. E’ un pluralismo intrinseco al fatto che l’islam è una religiose senza centro, senza gerarchia: ragione per cui ciascun gruppo di fedeli può dare vita a un luogo di culto.
I musulmani che si trovano davanti a vincoli urbanistici e destinazioni d’uso che rendono fuori norma i luoghi di culto improvvisati, chiedono di praticare in condizioni di legalità. Quella che manca, ripetono, è la volontà politica di risolvere il problema. Una constatazione palese. Al di là della rappresentatività degli organizzatori della protesta romana, il tema vero è se l’islam ha un posto o meno in Italia; se è una componente religiosa e civica della società italiana, oppure no. La risposta a questa domanda è la chiave di tutto.
Perché se è “sì”, occorre costruire una politica religiosa nei confronti dell’islam italiano, che tocchi aspetti, anche delicati per gli stessi musulmani, come quelli derivanti dalla nazionalizzazione dell’islam.
Se è “no”, si deve sapere che le reazioni identitarie potrebbero diventare presto assai problematiche.
Corriere 22.10.16
Fissate le regole, ma non toglieteci Airbnb
New York vara le multe a chi affitta casa. Il fondatore: noi alle prese con 700 regimi fiscali
di Beppe Severgnini

Gli scontri di Airbnb con le autorità di New York, Barcellona, Berlino e Islanda preoccupano. Sono evidenti le astuzie di un grande operatore ma è pure evidente che a pagare non possono essere gli utenti e che il mercato non si può fermare. Il fondatore Brian Chesky chiede comprensione: «Siamo alle prese con 700 sistemi fiscali».
Però lasciateci Airbnb. Perché chi lo usa non cerca droga, non compra armi, non vende pornografia: vuole un bel posto dove stare, in una città nuova, a un prezzo ragionevole. Gli scontri di Airbnb con le autorità di New York, Barcellona, Berlino, Islanda — potete leggerne in questa pagina — sono preoccupanti. Sul terreno, infatti, potrebbero restare gli unici, veri innocenti: i viaggiatori, gli utenti, i consumatori. Sono comprensibili le preoccupazioni degli albergatori, dei condòmini, delle autorità fiscali e di quelle municipali. Sono evidenti le astuzie di un grande operatore che ha capito d’avere il vento della storia — e della Rete — nelle vele. Ma è altrettanto evidente che, a pagare, non possono essere gli utenti. La vicenda di Airbnb ricorda quella di Uber. Stato in luogo, moto a luogo. In un caso e nell’altro Internet — il grande distruttore, il grande aggregatore — ha consentito di rispondere a una domanda immensa, che il mercato evidentemente non soddisfaceva. Da un lato, la necessità di trasporto privato, diversa dai taxi. Dall’altro, la ricerca di un alloggio — accomodation , in milanese moderno — alternativo a hotel e pensioni. L’unico modo di squalificare questi servizi è sostenere che mettono in crisi un modello sociale (basato su licenze, permessi, autorizzazioni). Le altre questioni — la conformità fiscale, le condizioni di lavoro e di sicurezza — si risolvono, prima o poi. Bisogna capire qual è la nuova offerta adeguata alla nuova domanda. Ma questa domanda è imponente, e non può essere ignorata. Gli utenti di Airbnb non sono, se non in parte, clienti sottratti agli alberghi tradizionali. Certo, hanno messo in grave difficoltà molti piccoli esercizi. Ma la vulnerabilità di questi ultimi è una prova: forse non offrivano un servizio adatto ai tempi. Se il dilettante (il privato che offre la casa su Airbnb) batte facilmente il professionista (la pensione, il piccolo hotel), quest’ultimo ha il dovere di chiedersi: che prodotto offrivo? È giusto pretendere che i grandi operatori internazionali rispettino le regole e paghino le imposte (cosa che fanno sempre malvolentieri): ma boicottarli è scorretto, e ignorarli è impossibile. «Tanto il mercato si riorganizza. E si riorganizza con forme meno legittime», spiega l’avvocato Velia Leone, che insegna regolamentazione in Bocconi. È così. Il mercato — basato su domanda e offerta — ha una forza che le pubbliche autorità possono, e devono, regolamentare. Ma non possono cancellare. Fermare la domanda che arriva impetuosa attraverso la Rete, e la Rete permette di organizzare, è come tentare di fermare un torrente con le mani: grottesco, e ovviamente impossibile. Qualcuno lo ha capito. Le case automobilistiche non hanno gridato allo scandalo quando hanno capito che una nuova generazione urbana vuole usare le automobili, non possederle (Enjoy, Car2go etc). Hanno cercato di capire come sfruttare il nuovo fenomeno, e farci soldi. Regolate Airbnb, ma lasciatecelo: anche perché non avete alternativa. L’economia della condivisione (sharing economy) si chiama così perché moltissimi, dovunque, vogliono condividerla. Prima lo capiamo, meglio è.
Corriere 22.10.16
«Non soccorsero i migranti in pericolo» Indagati i militari della Guardia costiera

ROMA Se avessero risposto alle richieste di aiuto avrebbero potuto salvarli. E invece quell’11 ottobre di tre anni fa ignorarono gli appelli dei migranti, addirittura li invitarono a rivolgersi alla Guardia costiera di Malta. E alla fine il barcone con 480 persone a bordo — tra cui 60 bambini — si inabissò a 100 chilometri da Lampedusa. Per questo alcuni ufficiali della Marina militare sono stati indagati dalla Procura di Roma. I reati contestati sono l’omicidio colposo e l’omissione di soccorso. E nei prossimi giorni potrebbero essere convocati proprio per ricostruire che cosa accadde in quelle ore. Soprattutto per spiegare come mai non siano stati proprio loro a chiamare i colleghi de La Valletta se ritenevano che in questo modo sarebbe stato più semplice il salvataggio.
I magistrati capitolini contestano il mancato aiuto a 60 stranieri, anche se il bilancio definitivo parlava di 268 vittime. Molti cadaveri non furono infatti recuperati. Secondo la ricostruzione effettuata poche settimane dopo la tragedia via satellite arrivarono tre chiamate di Sos ma si decise di non mobilitare alcun mezzo e soltanto due ore dopo si consigliò di contattare le autorità maltesi.
Testimone chiave della vicenda è Mohanad Jammo, all’epoca 40 anni, che era il primario dell’Unità di terapia intensiva e anestesia dell’Ibn Roshd Hospital di Aleppo e al settimanale Espresso raccontò di essere sopravvissuto al naufragio con la moglie, ex docente universitaria di ingegneria meccanica, e la loro bimba di 5 anni, ma di aver perso i figli Mohamad, 6 anni, e Nahel, 9 mesi, che non sono mai stati ritrovati. Il suo racconto è stato confermato da altri due naufraghi rintracciati dalla magistratura, due medici che viaggiavano sullo stesso barcone.
Repubblica 22.10.16
La strada per firmare la pace tra politica e giustizia
Il primo passo sarebbe tornare alla centralità del dibattimento in aula
di Giuliano Pisapia

LA MANOVRA finanziaria, gli abbracci di Obama, il libro di Icardi… Com’è ovvio che sia, le pagine dei giornali registrano i fatti, più o meno importanti dell’ultima ora e li consumano in fretta, stile fast food. Sarà perché sono un sostenitore dello slow food, mi pare che nei giorni scorsi sia stata persa un’occasione importante. Il fatto — anzi, i fatti — sono le recenti assoluzioni di Ignazio Marino e di Roberto Cota. L’occasione persa è quella di partire da quei fatti per aprire finalmente un dibattito sereno e costruttivo sui rapporti tra politica e giustizia. Invece è andato in scena il solito, logoro copione: la “Politica” da una parte, la “Giustizia” dall’altra, come in un tiro alla fune che con la giustizia e la politica non ha niente a che fare. L’occasione era buona: si tratta di sentenze di primo grado, che, se impugnate, potrebbero avere esiti diversi in appello o in Cassazione; di procedimenti penali che riguardano imputati appartenenti a partiti contrapposti; di procedimenti che non sono stati la causa delle dimissioni del Sindaco di Roma e della decadenza del Presidente della Regione Piemonte. Il che avrebbe reso più facile soffermarsi su princìpi, norme e regole che dovrebbero valere per tutti.
MA CHE, invece, spesso si trasformano in strumenti per attaccare l’avversario, non sulla base della realtà processuale, ma sulla base dell’appartenenza o della convenienza politica. Cerchiamo allora di mettere da parte le convenienze e di partire dai principi che devono guidare i nostri ragionamenti: la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, l’obbligatorietà dell’azione penale, la distinzione dei ruoli tra chi è “parte processuale” (Pm e avvocati) e chi ha il delicato e difficile compito di decidere sull’innocenza o la colpevolezza dell’imputato.
A differenza di chi sostiene l’accusa o è impegnato nella difesa, i giudici, lo dice la nostra Costituzione, debbono essere “terzi e imparziali” e decidere per la condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”, solo se vi sono prove certe o indizi “gravi, precisi e concordanti”. Il giudice deve assolvere l’imputato non solo se “manca la prova della sua colpevolezza” ma anche se “la prova è insufficiente o contraddittoria”. Pur con la prudenza che deve avere chiunque non conosca le carte processuali, si può dire che, nei due processi citati, l’accusa e la difesa hanno fatto il loro dovere: gli imputati si sono difesi nel processo, i giudici si sono dimostrati autonomi e indipendenti e non si sono fatti influenzare da niente e nessuno.
Eppure, ben pochi sono stati i commenti pacati. Anzi, le opposte vicende sono state l’occasione per dare fuoco alle polveri di una guerra mai terminata. Perché? Sarà un motivo di cultura politica; sarà una logica che induce a dimenticare che le garanzie debbono valere per tutti, e non solo per gli amici; sarà perché si antepone la propaganda alla ragionevolezza; sarà per opportunismo o per convenienza, ma è ora di uscire da una situazione che certo non fa bene alla democrazia, alla giustizia e alla politica (o meglio: alla buona politica). Val la pena, allora, di soffermarsi, ancora una volta, su temi che riguardano il passato, il presente e il futuro della nostra collettività. Quando si parla di persone indagate (il discorso vale evidentemente per tutti), l’iscrizione al registro degli indagati — che dovrebbe essere riservata e coperta dal segreto e di cui, invece, il diretto interessato viene spesso a sapere dalla lettura dei giornali — per molti è già indice di futura condanna (il responsabile della fuga di notizie, al contrario, rimane quasi sempre ignoto). Tale “pregiudizio” si rafforza in presenza di un’informazione di garanzia e, ancor di più, di rinvio a giudizio. E così, la presunzione di innocenza, sancita dalle Convenzioni internazionali, si trasforma in presunzione di colpevolezza e, spesso, diventa un’arma per attaccare l’avversario.
Troppi, ad eccezione dei sempre più rari garantisti non a corrente alternata, dimenticano, o fanno finta di ignorare, che l’iscrizione nel registro indagati è un obbligo di legge in presenza di un esposto, di una denuncia, di una notizia di reato, se non manifestamente infondate. Il Pubblico Ministero deve fare le opportune verifiche per poi potere, sulla base delle indagini effettuate, chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio. Quando sono necessari determinati atti che prevedono la presenza del difensore o di un consulente tecnico — ad esempio in caso di perizia, di perquisizioni, di interrogatori degli indagati — deve (non “può”, ma deve) essere notificata l’informazione di garanzia che, lo dice la parola stessa, è posta a tutela dell’interessato e del diritto “inviolabile” di difesa (art. 24 Cost.). Il difensore può così svolgere indagini difensive, chiedere al pubblico ministero di sentire testimoni, presentare memorie. Ebbene, malgrado sia evidente che tutto ciò è finalizzato a verificare se sussiste un reato e se vi sono elementi sufficienti per una richiesta di rinvio a giudizio, iniziano, se si tratta di un politico (ma non solo) le richieste di dimissioni. Si alimentano accuse anche infamanti, si ipotizzano fatti spesso del tutto infondati. Inizia quella gogna mediatica che travolge e stravolge la vita delle persone e delle loro famiglie.
Che fare per evitare, o quantomeno limitare, questa situazione? Come è possibile uscire da una perversione che danneggia la dignità delle persone e della giustizia? Come fare per evitare che vengano, con la pubblicazione di atti che non dovrebbero essere pubblici (anche a tutela delle indagini) — infangate, umiliate, distrutte, donne e uomini che, in molti casi, non sono neppure indagate o che riguardano la vita privata e che nulla hanno a che vedere con i reati ipotizzati? Il tutto aggravato dal fatto che possono passare mesi o anni prima che vi sia un rinvio a giudizio o una sentenza, prima che si sappia se quella persona è colpevole o innocente.
Un primo passo sarebbe quello di tornare alla centralità del dibattimento. In passato — i meno giovani lo ricordano — l’attenzione dei media, e quindi dei cittadini, si concentrava soprattutto sulla svolgimento del processo, quando era possibile conoscere non solo le tesi dell’accusa ma anche quelle della difesa. Le indagini erano più riservate e il segreto istruttorio più rispettato. Di questo si sta occupando il Parlamento e alcuni Procuratori della Repubblica sono già intervenuti per evitare che, nelle ordinanze di custodia cautelare (ormai diffuse anche via internet), siano riportati colloqui, telefonate o fatti non processualmente rilevanti, soprattutto se riguardano la vita privata. Certo c’è il problema dei tempi lunghi dei processi, e quindi del diritto di sapere in tempi “ragionevoli” se un indagato o un imputato è colpevole o innocente, e su questo bisogna impegnarsi per una giustizia più celere e di un’informazione basata sulla realtà e non sulle ipotesi e sui sospetti. Servono più risorse, servono leggi chiare e utili, non leggi, come in passato è accaduto, che allungano i tempi della giustizia e tendono ad ostacolare l’accertamento della verità. Vi sono proposte di legge che vanno in tale direzione. Già sono stati fatti, o si stanno facendo, passi avanti con il processo telematico, con i giudizi alternativi, con la depenalizzazione (che non significa impunità ma sanzione immediata e spesso più efficace), col prevedere, ad esempio, tempi certi dal termine delle indagini alla richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio. Evitare le polemiche strumentali aiuta e rafforza la possibilità di approvare leggi ampiamente condivise.
Sarebbe poi ora che, in presenza di fughe di notizie su atti riservati o coperti da segreto, si facciano i dovuti accertamenti per individuare i responsabili e si prendano gli opportuni provvedimenti, quantomeno disciplinari. Anche l’ordine dei giornalisti ha, in questi casi, un compito decisamente importante perché il diritto-dovere di informare non può trasformarsi nel diritto di non rispettare la legge o la deontologia. Infine, e questa è la maggiore responsabilità della politica, o meglio di alcuni politici, non si strumentalizzi la giustizia per conflitti interni o esterni ai partiti. Se ogni partito, in presenza di un procedimento giudiziario, si regolasse non sulla base delle convenienze ma di regole precise, previste possibilmente da uno statuto, forse non finirebbero le speculazioni ma quantomeno diminuirebbero le polemiche inutili e sterili che incrinano sempre di più la credibilità della politica. Senza dimenticare che vi sono fatti, condotte, comportamenti, che pur non avendo rilevanza penale, sono, e possono essere, altrettanto gravi (le eventuali dimissioni sono, in questi casi, più o meno opportune, e non riguardano il diritto penale ma la coscienza del singolo e della collettività).
Un’ultima considerazione che riguarda la presunta, o secondo alcuni effettiva, subalternità della politica nei confronti della magistratura. Indubbiamente vi sono stati momenti in cui questo è accaduto, anche a seguito di inchieste giudiziarie che hanno fatto emergere una illegalità diffusa. Ma non bisogna generalizzare. La responsabilità penale è personale. Vi sono stati tempi in cui la magistratura era subalterna alla politica. Vi sono stati periodi in cui è avvenuto il contrario. Proprio perché politica e magistratura hanno compiti e ruoli diversi, è fondamentale, per una democrazia matura, che sia rispettata l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma è altrettanto fondamentale che si rispetti l’autonomia e l’indipendenza della politica. Il che non impedisce di criticare le sentenze o le leggi, ma senza pregiudizi e nel rispetto dei diversi ruoli.