sabato 17 settembre 2005

«Freud è un imbecille»
Libération, samedi 17 septembre 2005
http://www.liberation.fr/page.php?Article=324409
Santé. Jean Cottraux, psychiatre, justifie la violence du «Livre noir» auquel il a collaboré:
«La psychanalyse n'est en rien démontrée»
Par Eric FAVEREAU

Jean Cottraux, psychiatre des hôpitaux, chargé de cours à l'université Lyon I, est un des plus ardents défenseurs des thérapies comportementales et cognitives (TCC) et un des auteurs du rapport de l'Inserm, «Trois thérapies évaluées» (2004).
Pourquoi avez-vous participé au Livre noir de la psychanalyse ?
Catherine Meyer m'a demandé de rédiger quatre chapitres, de trouver d'autres auteurs et de relire des textes. Je l'ai fait car le projet me paraissait intéressant. Il s'agissait de réaliser un ouvrage extrêmement documenté et, dans mon esprit, de lancer un débat sur la validité de la psychanalyse, qui est une des plus grandes idéologies du XXe siècle.
Mais le meilleur moyen de lancer un débat était-il de traiter Freud de tous les noms?
On a forcé un peu la note et un débat a besoin d'être polémique. Il est vrai qu'il y a eu des discussions sur le titre, mais aujourd'hui parler de «livre noir» ne veut pas dire extermination de masse. Il n'empêche, nous voulions sortir de l'hypocrisie et interroger la validité des théories psychanalytiques et leur efficacité thérapeutique. Car le point de départ est bien réel : la psychanalyse n'est en rien démontrée. Freud puis ses successeurs se glorifient pour bâtir leur théorie d'histoires de cas, dont les historiens ont montré qu'elles se sont terminées en fiasco. Bref, on a présenté de façon péremptoire le freudisme comme un horizon indépassable. Il n'était pas inutile de faire une somme de 830 pages pour en sortir.
Pour vous, la psychanalyse ne sert à rien ?
Ce qui pose problème, c'est l'ambiguïté de la situation. Si, comme le disent certains, la psychanalyse n'est pas là pour guérir, alors c'est une philosophie ou une religion. Pourquoi pas ? Mais en même temps, ceux-là, ou d'autres, tiennent un double discours, et disent qu'elle guérit. C'est une position perverse. Il faut choisir. Quand vous reprenez Analyse terminée et analyse interminable de Sigmund Freud, il dit que le premier critère du succès d'une cure, c'est la disparition des symptômes. Alors qui croire ? Qu'on en finisse avec ce double jeu. Quand on voit certains psychanalystes nous donner des leçons, se targuer d'être les meilleurs, quand on en voit d'autres faire pression sur le ministère de la Santé pour censurer un rapport scientifique de l'Inserm qui leur est défavorable, il y a bien problème de société. Et cette violence intellectuelle est insupportable. Il y a eu trois années difficiles depuis le dépôt de l'amendement Accoyer. Des psychanalystes omniprésents et arrogants ont infiltré le pouvoir politique pour imposer leurs vues partisanes à la santé publique. On peut juger du dépérissement de l'Etat que cela révèle.
Mais pourquoi aller jusqu'aux injures ?
Freud n'est pas qu'un scientifique, c'est aussi un leader politique. Sans insultes ni diffamation, nous avons exploré le côté obscur de ce leader politique. Un exercice démocratique : le public a le droit de savoir.
Tout est à jeter ?
Non. Ce que je garde, c'est l'impulsion qu'il a donnée à tout un domaine. Même si le concept d'inconscient, ce n'est pas Freud qui l'a découvert, il reste un concept important. De même, le fait que la thérapie soit liée à une relation et qu'il faille travailler sur la parole. Enfin, dans le rapport de l'Inserm, il est dit que pour certains troubles de la personnalité, la thérapie psychanalytique brève a des résultats positifs (et les TCC aussi). Rappelons que 30 % des patients vus en psychiatrie présentent des troubles de la personnalité.
Comment vont les TCC ?
Elles vont bien. Contrairement à ce qu'affirme Elisabeth Roudinesco, il y a un bon millier de praticiens (1 349 exactement au 16 septembre) en France, les diplômes sont pleins, je refuse du monde. Les patients viennent nous voir. Et nous, nous n'avons pas peur de l'évaluation scientifique de nos pratiques.

oggi in Francia domani nel mondo: sempre meno preti!

Corriere della Sera 17.9.05
La conferenza episcolale ha infatti dovuto chiudere diverse chiese in Francia: sì a funerali celebrati da laici
Anche i non sacerdoti autorizzati dai vescovi cattolici potranno celebrerare le esequie nelle parrocchie dove manca un prete

PARIGI (FRANCIA) - Vuoi celebrare il funerale di un tuo caro? Presto sarà possibile, in Francia, anche ai non sacerdoti. Saranno «inviati» dai vescovi di Francia, ma saranno infatti pur sempre laici quelli che, fra qualche mese, potranno ufficialmente celebrare i funerali cattolici: il fenomeno, in costante aumento nella pratica già da una decina d'anni, sarà ufficializzato fra qualche mese con la pubblicazione di un documento. Secondo fonti del quotidiano Le Figaro, dopo 10 anni di lavoro, i vescovi di Francia hanno portato a termine la traduzione dal latino al francese di un nuovo rituale cattolico per le esequie. Nel testo, troveranno ufficialmente posto i laici celebranti, che «presiedono» la cerimonia, accolgono le famiglie, pronunciano l'omelia e benedicono la salma.
CRISI DI VOCAZIONI - La novità va incontro alla crisi delle vocazioni in Francia e alla sempre più scarsa presenza di sacerdoti sul territorio, evidenziata dalla chiusura forzata di non poche parrocchie in provincia. Il cammino verso l'affidamento ai laici di un numero sempre maggiore di compiti da «officiante» si scontra con una certa reticenza della Chiesa di Roma e con l'assoluto divieto di usare non-sacerdoti per celebrare i matrimoni. C'è una parte della Conferenza episcopale francese che vorrebbe coinvolgere i laici anche nelle cerimonie nuziali, ma la maggioranza è ancora contraria.

i "successi" della pedagogia marxista-leninista
Corriere della Sera 17.9.05
Uditi dagli astronauti latrati di cane, vagiti di bimbo e le voci degli antenati
Nel cosmo fantasmi e musica dall'ignoto
Le allucinazioni dei cosmonauti sovietici raccolte da un professore dell'Istituto superiore dell'aviazione civile di San Pietroburgo

MOSCA - Hanno sentito inquietanti «presenze invisibili», latrati di cane e pianti di neonato. Hanno avuto l'impressione che si erano trasformati in altri esseri. Hanno visto la Terra come se fossero pochi metri sopra di essa, malgrado orbitassero a 300 chilometri di distanza: ai cosmonauti russi è capitato un po' di tutto nel silenzio assoluto dello spazio. Ma in pubblico
Yuri Gagarin, primo uomo a volare nello spazio (Ap)
zitti, per il timore di essere presi in giro o trattati da pazzi. Kirill Butusov, professore all'Istituto superiore d'aviazione civile a San Pietroburgo, squarcia oggi questo decennale riserbo sulle pagine del tabloid Komsomolskaia Pravda. Lo fa grazie alle confidenze strappate ad un certo numero di eroi dello spazio della defunta Urss e della nuova Russia.
IL FANTASMA DI LAIKA - In effetti già Yuri Gagarin, il primo uomo a mettere il naso fuori dell'atmosfera, nel 1961, disse agli amici che avrebbe potuto riferire «cose sensazionali» se soltanto i capi gliene avessero permesso. E Vladislav Volkov, morto nel 1971 assieme ad altri due colleghi durante una missione spaziale, raccontò che una volta nel cuore della notte cosmica udì un latrato di cane e poi il
La cagnetta Laika, spedita nel cosmo a bordo dello Sputnik nel 1957 (Corsera)
pianto di un bambino. Fantasticò che ad abbaiare in quel buio vuoto pneumatico fosse Laika, la leggendaria cagnetta lanciata nel 1957 dai sovietici e mai più tornata indietro.
PAURA E MUSICA CLASSICA - Più banalmente, Gheorghi Grechko fu assalito da un incontrollabile raptus di paura e di angoscia («come se una tigre mi stesse saltando addosso alle spalle») quando la sua navicella passò sopra il Capo di Buona Speranza, mentre il più tranquillo Aleksei Leonov si trovò le orecchie investite da musica classica proveniente da chissà qualche angolo dell'universo.
PRESENZE INVISIBILI - Un'altra esperienza comune a molti che hanno viaggiato fuori della Terra è la percezione - spesso agghiacciante - di «presenze invisibili» nei dintorni. A patto che il suo nome non venga reso noto, uno di questi cosmonauti ha detto al prof. Butusov che lassù una «presenza invisibile» gli ha parlato a lungo. «Sono un tuo antenato. Sei arrivato troppo presto - lo avvertì -. Non star qui. Ritorna sulla Terra. Non violare le leggi del Creatore».
«PENSAVO DI ESSERE UN DINOSAURO» - La sensazione di trasformarsi in esseri appartenenti ad un'altra razza l'ha invece provata
Cosmonauti impegnati in un lavoro esterno alla loro navicella spaziale
sulla sua pelle Serghei Cricevski («mi sembrava di essere diventato un dinosauro e di muovermi con le mie grosse zampe su un pianeta sconosciuto»). Valeri Sevastianov e Ieri Glaskov hanno per conto loro sperimentato l'illusione ottica di essere a poche decine di metri sopra la Terra: Savastianov ha avvistato da lassù, malgrado sia impossibile da una abissale lontananza di 300 chilometri, «la città di Soci, le strade, la casetta a due piani dove sono nato». Il più esotico Glaskov ha scorto a portata di mano una stradina del Brasile, con in mezzo un autobus di colore azzurro.
LE DUE TEORIE - Sul perchè di tutte queste voci, visioni e sensazioni esistono due contrapposte scuole di pensiero. Quella medico- razionale spiega che l'uomo inevitabilmente «sbarella» se costretto a vivere in totale e stressante assenza di gravità, sotto il bombardamento di forti flussi magnetici e radioattivi e per giunta in quel silenzio assoluto. La seconda scuola di pensiero, in linea con l'ufologia, la fantascienza più sbrigliata e i telefilm X-Files, considera quelle enigmatiche allucinazioni il risultato di una astuta e subdola regia degli alieni per convincere l'umanità a starsene nel suo brodo e non invadere le profondità del cosmo.

centralità della famiglia: matrimoni che durano meno di un anno
Corriere della Sera 17.9.05
I dati
Nozze lampo in Italia Più di 1.300 all’anno

I matrimoni-lampo in Italia hanno un nome, anzi due: Claudia Pandolfi e Massimiliano Virgili (nella foto) . Si sposano nel 1999, dopo due mesi si lasciano. E diventano, loro malgrado, un simbolo. Quello di un Paese dove le separazioni a meno di un anno dalla cerimonia sono in vertiginoso aumento, dati Istat alla mano: erano 466 nel 1990, dieci anni dopo schizzano a quota 1.198. Nel 2001 sono 1.352 le coppie che «scoppiano» anzitempo, ?12,8%. Gli ultimi dati sono del 2002: 1.320, un lieve ribasso che viene recuperato dall’alto numero di divorzi tra uno e 5 anni dopo le nozze (18.683 in tutto).

utopia
La Stampa TuttoLibri 17.9.05

Il relativismo sventola la bandiera dell’utopia
di Ermanno Bencivenga

PER molto tempo, «utopia» è stata una brutta parola. Prima, durante la lunga, tetra stagione di una cultura genuflessa davanti al marxismo (quando, vi ricordate?, si studiava persino la filosofia del linguaggio su testi di Stalin), le critiche venivano soprattutto da sinistra; e anzi non di critiche si trattava, ma del sorrisetto di superiorità di chi compatisce quanti si arrabattano disegnando nuove forme comunitarie e lavorative perché dalla sua ha nientemeno che la scienza - impietosamente, irrimediabilmente veridica e certa. Poi il marxismo è evaporato e tutti hanno scoperto di essere sempre già stati liberaldemocratici; così oggi nelle librerie supermercato, tra un bicchiere di spumante e una presentazione di Omero rifritto, latitano i testi del vecchio Karl e dei suoi seguaci. Ma la mortificazione dell'utopia è continuata, questa volta da destra, nel nome del realismo e dei diritti individuali. L'utopia è il Male, si è sentenziato con la consueta arroganza che deriva dall'essere al passo con i tempi: proporre una convivenza più civile, più umana e più degna ha come inevitabile conseguenza i campi di sterminio. Il prologo è essenziale, perché quel che fa la differenza (o, più spesso, non la fa) nella nostra forma di vita sono non le chiacchiere ma le pratiche quotidiane, e se le pratiche rimangono le stesse l'idea di un radicale rivolgimento copernicano si rivela illusoria. Il pensiero utopico è, molto semplicemente, il pensiero, con tutta la sua capacità creativa, tutta la sua tensione morale e tutti i suoi rischi; è quanto di meglio la nostra specie abbia a disposizione per farsi guidare da un progetto invece che dal caso. Chi ne teme i rischi al punto di abbandonarlo smetterà dunque di pensare, e quando un'attività è interrotta per decenni non basta volerla riprendere: occorrono molti, ripetuti, umili esercizi. Rino Genovese non ha paura di usare la parola «utopia». Ha in preparazione un volume teorico che uscirà l'anno venturo; intanto ci offre questo Convivenze difficili, descritto come «un giornale di bordo politico-filosofico». I punti di partenza sono abbastanza ovvi: «non appena si va a scavare dentro un'identità culturale ci si trova alle prese con l'ibridazione, cioè con il fatto che nessuna identità è pura»; e l'ibridazione si estende alla dimensione temporale, in quanto «il presente è una coesistenza di tempi storici eterogenei, risultato di una storia plurale al cui interno l'Occidente ha cercato di assimilare, con risultati disastrosi, le altre culture, quasi fossero semplici ritardi o incidenti lungo la strada della modernità». A partire da queste premesse, Genovese intende sottoporre il socialismo «a una torsione che lo riporti dalla scienza all'utopia», in direzione di un relativismo moderato che «si esprime nel conflitto, non nella pacificazione». «L'unico sicuro denominatore comune tra le culture è che tutte si trovano a fronteggiare un “altro”, e che nessuna cultura è pienamente inclusiva»; si propone quindi il «compito etico-politico tendenzialmente infinito» di «una coesistenza conflittuale priva di violenza», ossia di un universalismo negativo che fondi sulla diversità una «discordia multidirezionale» e una critica costante di ogni pregiudizio e di ogni presunta difesa «della civiltà» (che è sempre difesa di una particolare civiltà). Così facendo, fra l'altro, si finirebbe per evitare anche il tramonto dell'Occidente, perché «il conflitto sociale plurale è ciò che - dell'Occidente moderno - merita di essere salvato». Non posso che approvare lo spirito kantiano che muove Genovese: l'ideale razionale di un antagonismo pacifico e liberatorio che in questo libro manifesta tutta la sua carica normativa. Ma un ideale non è ancora un'utopia. Dichiararsi in favore di un aumento di possibilità non equivale a pensare il possibile: non risponde alla domanda kantiana per eccellenza, «come è possibile che…?». «Coesistenza conflittuale priva di violenza» è un ossimoro che va riscattato, non enunciato; appellarsi alla trattativa e al parlamentarismo come alternative alla guerra non spiega quali possano essere le basi e le modalità della trattativa. Tutti i pezzi che contano qui sono esterni al pensiero; arrivano dalla realtà. L'ibridazione accade; gli individui sono diversi; lo sviluppo tecnologico degli strumenti comunicativi ha moltiplicato le possibilità di connessione. E poi ci sono tante critiche, sacrosante, agli errori di Bush e alle mediocrità di Pera; ma critiche e fatti non bastano. Un'utopia è fatta d'immaginazione; ci convince non solo che certe scelte sono un dovere, ma che c'è una strategia per realizzarle; inventa un mondo, non si limita a indicarlo da lontano. Forse il trattato teorico che seguirà al diario di bordo ci darà qualche dettaglio in più; intanto, le difficoltà che emergono quando si passa dal dire al fare (l'utopia) sono un chiaro sintomo di quanto drammaticamente si sia persa l'abitudine a pensare. E di quanto sia importante ricominciare, un passo per volta, tutti insieme.

Giordano Bruno
La Stampa TuttoLibri 17.9.05
Diffama Giordano Bruno chi non legge i suoi libri
Anacleto Verrecchia POLEMICHE E ROGHI

RECENTEMENTE la città tedesca di Helmstedt, per onorare la memoria di Giordano Bruno, il grande filosofo che là visse e insegnò, gli ha dedicato un liceo. Viceversa in Italia, dove si assiste a un rigurgito pauroso di clericalismo egli continua ad essere diffamato da preti effettivi e di complemento. L’ultimo della serie è Francesco Agnoli, il quale asserisce che Bruno non vale niente come filosofo e che deve la sua fama alla morte sul rogo. L’ho letto nel Corriere della Sera. Io resto impassibile dinanzi a simili spropositi intellettuali e mi tengo a debita distanza. Vorrei solo dire con Lichtenberg: «Se un libro e una testa, scontrandosi, emettono un suono fesso, non è detto che la colpa sia del libro». Dubito, però, che la testa di chi sostiene certe interpretazioni si sia mai scontrata con qualche libro di Giordano Bruno, l’unico filosofo moderno, a detta di Schopenhauer, che si possa in qualche modo paragonare a Platone. E’ stato dimostrato ad abundantiam che il libro di John Bossy, il quale vorrebbe farci credere che Bruno fosse una spia, è in realtà una patacca. L’ho dimostrato anch’io nel mio libro Giordano Bruno, la falena dello spirito (Donzelli). Lo stesso discorso vale per la storia del «mago» fabbricata da Frances A. Yates. Ma gli asini italiani ragliano volentieri su registri inglesi, e non serve a niente gridar loro nell’orecchio che stanno emettendo note false e suoni fessi. E noi lasciamoli ragliare, tanto più che i ragli, come dice il proverbio, non arrivano mai in cielo. Chi è arrivato in cielo, invece, è proprio Giordano Bruno, il quale è veramente risorto come la fenice, dalle ceneri di Campo dei Fiori. Il primo tomo delle Opere mnemotecniche, superbamente edito da Adelphi, ne è la riprova. Contiene il testo latino e la traduzione italiana a fronte delle prime due opere che ci sono pervenute: il De Umbris Idearum e il Cantus Circeus. Tra i quattro curatori, tre sono donne. Così possiamo dire che Giordano Bruno è stato affidato alle mani e alle cure di un piccolo gineceo filologico. Credo che la cosa non gli dispiaccia per niente. Eppoi Rita Sturlese e Nicoletta Tirinnanzi sono molto brave e meritano un applauso. Il guaio è un altro: quanti sono disposti a spendere ottanta euro per procurarsi questo volume? La gente è di solito strana e bislacca: non bada a spese, se si tratta di una partita di calcio o di altre giocherie, ma diventa subito tirchia, se deve acquistare un libro. Non si dimentichi che la malattia più diffusa è l’inappetenza intellettuale. Per questo le case sono piene di cianfrusaglie, ma prive di librerie, il che significa essere prive di dignità. A parte questo, ottanta euro sono veramente troppi per uno studente. E Giordano Bruno deve essere letto soprattutto dai giovani. Altra osservazione: il volume contiene più commento che testo. Questo significa sovrapporsi all’autore e fare come la cùscuta, che assale le altre piante e le soffoca. Una volta le chiamavano commenti «alla Minellius», dal nome del filologo olandese Jan Minellius, il cui commento a Virgilio è rimasto come esempio di pedanteria. Gli accademici hanno la mania di fare una nota a tutto. Un esempio. Una professoressa dell’università di Torino è arrivata al punto di fare una nota alla parola «fiasco» che aveva trovata nel testo e di scrivere: «Fiasco = recipiente per liquidi». Ma ora salutiamo questo bel volume con il quale Giordano Bruno è stato, per così dire, vestito a festa. E ai clerici di ritorno diciamo così: è inutile che voi cerchiate di abbassare Giordano Bruno, perché la natura lo ha posto in alto.

storia delle donne
La Stampa TuttoLibri 17.9.05

La rivoluzione è donna, dal voto al Sessantotto
gboatti@venus.it

DA noi tutto è sempre fuori tempo, forse perché in Italia le effettive innovazioni politiche e sociali tardano a giungere, e anche quando arrivano, stentano nell'affermare a posteriori la propria rilevanza. Quando qualcosa di incisivamente nuovo s'impone - come il voto concesso alle donne dal governo Bonomi il 31 gennaio 1945 - alle minoranze più sensibilizzate appare già troppo tardivo. Ma, al tempo stesso, rispetto alle sensibilità della vasta maggioranza della popolazione, sembra essere arrivato fin troppo presto.
Così tanto presto che - come fa emergere Patrizia Gabrielli nel suo saggio documentato e puntiglioso, La pace e la mimosa. L’Unione donne italiane e la costruzione politica della memoria (1944-1955) pubblicato da Donzelli - oltre mezzo secolo dopo la partecipazione al voto da parte delle italiane, avvenuta la prima volta col referendum istituzionale del 2 giugno 1946, di questa conquista non vi è traccia nelle commemorazioni del 2 giugno. Ricorrenza alla quale ultimamente si è voluto dare maggiore enfasi, eludendo però del tutto quel fatto centrale della nostra storia che fu il voto alle donne. Un'omissione che fa il paio con la disattenzione e la sufficienza con cui buona parte dei giornali pubblicati nei territori dell'Italia liberata informarono i lettori del decreto governativo del 31 gennaio 1945. Un provvedimento che, chiamando le donne alle urne, riconosceva loro dignità politica pari agli uomini e quindi, finalmente, un diritto di cittadinanza pieno. Il quotidiano romano Il Tempo il 31 gennaio 1945 inseriva la notizia del provvedimento in un pastone politico dove erano riassunte anche altre decisioni assunte quel giorno dal Consiglio dei ministri. Ma anche l'Unità, nella sua edizione romana, accordava alla notizia uno spazio assai ridotto, pubblicando, a commento, giusto un telegramma di poche righe dove l'Udi esprimeva la certezza che «le donne italiane sapranno essere degne della conquista raggiunta». La conquista, pur voluta politicamente da tutte le forze antifasciste che componevano il governo Bonomi, continuava a essere, come ebbe ad affermare lucidamente Nadia Spano, già componente dell'Assemblea Costituente, «un atto sovversivo, qualunque poi fosse, in concreto, l'opinione che la donna, col suo voto, avesse ad esprimere». Il riconoscimento del voto femminile era di fatto l'incrinarsi delle certezze di una società ancora largamente patriarcale, fondata - afferma sempre la Spano - «non soltanto sull'asserita inferiorità della donna ma sulla sua pratica privazione di diritti e la sua soggezione, di fatto, in tutti gli atti dell'esistenza». Non a caso nel libro della Gabrielli vengono riportati i ricordi del primo voto, così come lo vivono alcune donne che - pur famose e con una posizione pubblica ben distinguibile - affrontano con trepida emozione quell'appuntamento. Maria Bellonci, ad esempio, rievoca: «in una cabina di legno povero e con in mano il lapis e due schede mi trovai di fronte a me come cittadina. Mi mancò il cuore e mi venne l'impulso di fuggire...». Alba de Céspedes vede nell'essere ammessa al seggio il pareggiarsi, anche personale, dei conti aperti col Regime che l'aveva fatta arrestare, perché dissidente, appena ventenne: «Con quel segno in croce sulla scheda mi pareva di aver disegnato uno di quei fregi che sostituiscono la parola fine». Anna Banti confessa di aver avuto, in cabina elettorale, «il cuore in gola e la paura di sbagliarmi tra il segno della repubblica e quello della monarchia...». E aggiunge: «solo le donne possono capirmi, e gli analfabeti». Se da questa realtà al femminile si fa un balzo in avanti di pochi decenni, sino alla fine degli Anni Sessanta, dei primi Settanta, si viene catapultati in un universo femminile irriconoscibile, tanto appare in rapidissimo mutamento, anzi, in rivolta, come va a raccontare Diego Giachetti nel suo interessante saggio Nessuno ci può giudicare. Gli anni della rivolta al femminile, pubblicato da DeriveApprodi. Quella di Giachetti è una rievocazione che attinge a fonti variegatissime - dalla musica leggera alle testimonianze dirette, dal mondo dello spettacolo alle pagine delle riviste femminili - e, attraverso un lavoro paziente, fa affiorare l'affresco dell'inizio della frantumazione di quel mondo patriarcale, autoritario e sessuofobo che costituisce, fino ai primi Anni Sessanta, il volto immutabile del nostro Paese. Anche qui, come in tutte le irruzioni del nuovo che è veramente tale, si pone la solita questione. Infatti Giachetti scrive che «rispetto ai Paesi anglosassoni, in Italia il movimento femminista nacque in ritardo, ma sempre troppo presto rispetto allo stato di sviluppo sociale, normativo, dei costumi». Di certo, col senno di poi, è impressionante il guado che hanno saputo affrontare, trascinandosi dietro a poco a poco immense moltitudini al femminile, poche minoranze agguerrite di giovani donne. Ostracizzate non solo dalle famiglie di appartenenza, dalla scuola, dalle istituzioni ma, spesso e volentieri, anche dai loro stessi coetanei. Osteggiate e messe al bando perfino dalle organizzazioni rivoluzionarie, e della contestazione giovanile, in cui militavano o avevano militato. Al di là dei rilevanti mutamenti messi a segno nel nuovo diritto di famiglia - ad esempio col divorzio, con la depenalizzazione dell'interruzione della gravidanza, acquisizioni che fanno dell'Italia un Paese un po' meno patriarcale - l'ampiezza del varco che viene aperto è segnata dal mutamento lessicale che ebbe luogo in quegli anni. Scrive Giachetti: «Il vecchio lessico usato per descrivere rapporti e ruoli ricoperti da uomini e donne - fidanzati, matrimonio, concubini, sistemarsi, è la mia signora, sono impegnata, sono libera, è zitella, è scapolo, è signorina, si è accasata, la mia metà, amo, non amo - fu incalzato e sostituito da nuovi modi di dire: il mio ragazzo, il mio compagno, il mio uomo, si è messa insieme, ha o non ha il ragazzo, non ha l'uomo fisso, ha tanti ragazzi, è imbranata, mi piace, non mi piace». A dimostrazione che, proprio come diceva il vecchio Marx, il nuovo non nasce finché non trova le parole per parlare.

storia della donne
Repubblica 17.9.05

L'ARTE DI SEDURRE UN RE
Il nuovo saggio della Craveri
Diane de Poitier folgorò l'undicenne Enrico e divenne una sorta di dea, lunga fu la corte fatta a Luigi XIV dalla marchesa di Maintenon, mentre cinque sorelle si contesero Luigi XV
Se non arrivarono mai a gestire il governo della Francia, le favorite usarono il loro potere politico
Margherita fu forse la sola sovrana di quell'epoca soffocante a immaginare una vita più libera
NATALIA ASPESI

Il letto del re di Francia, nell'Antico Regime, sotto lo sguardo implacabile di familiari, cortigiani, ministri, vescovi e anche del Papa, era uno dei luoghi più turbolenti e frequentati; dalla regina, per lo stretto necessario, piuttosto da favorite, amanti momentanee, talvolta da mogli segrete, in qualche caso da scandalosi mignons. Nel vorticare di drappi e lini, tra puzze e profumi, parrucche e belletti, nascevano alleanze e guerre, si progettavano promozioni e assassinii, si consumavano passioni e ripudi, si concepivano eredi al trono e bastardi. Così almeno ci ha raccontato il cinema, dalla Madame du Barry di Lubitsch alla Regina Margot di Chéreau, mentre Sophie Coppola ha appena finito di girare un'ennesima Maria Antonietta e Raisat Premium trasmette uno sceneggiato francese su Madame de Maintenon.
Non si è mai sazi di queste mitiche figure femminili che montagne di biografie e romanzi hanno di volta in volta esaltato o denigrato, icone avventurose o romantiche, melodrammatiche o futili, raggelate dal tempo. Scorrono adesso tutte insieme, da Caterina de Medici a Maria Antonietta, dai primi decenni del XVI secolo alla fine del XVIII, gemme della storia e della storia delle donne, con le loro fortune e sfortune, col potere della loro bellezza e della loro sottomissione, il fervore della loro ambizione o del loro ardore, lo slancio della loro intelligenza o della loro astuzia, nell'affascinante nuovo libro di Benedetta Craveri; la scrittrice che si muove nelle corti e nei castelli dei Valois e dei Borbone, dei Guisa o dei Lorena con la grazia somma della cultura, della curiosità, del pensiero, della scrittura magnifica, già autrice di ricerche originali come quelle dedicata a Madame du Deffand e il suo mondo e a La civiltà della conversazione. Il suo nuovo libro, Amanti e Regine, il potere delle donne (Adelphi, pagg. 431, euro 25) racconta di vite femminili privilegiate perché passate con il matrimonio o con la seduzione attraverso il talamo di un re di Francia, in tempi di totale soggezione e inconsistenza delle donne.
Per i giovani delfini, per i re, il mercato matrimoniale non era vasto; la prescelta, che non aveva alcun diritto di rifiutare, poteva anche essere bambina o adolescente, doveva essere sufficientemente graziosa per non respingere lo sposo, di sangue reale o anche solo nobile se portava una immensa dote, essere approvata dal papa, servire per creare alleanze o porre termine a guerre. Il suo destino era quello di mettere al mondo l'erede al trono e principesse da usare come merce di scambio politico, sopportare l'invadenza delle favorite, non contare. Secondo la legge salica, le donne erano escluse dal trono, ma le regine, anche le più neglette e cornificate, conquistavano il diritto di regnare con la vedovanza: divennero reggenti in nome dell'erede al trono minorenne Caterina de'Medici, l'istigatrice della sanguinosa notte di San Bartolomeo, Maria de'Medici, così avida di conservare il suo potere da sfidare il figlio Luigi XIII, infine Anna d´Austria che invece adorava il suo, poi Luigi XIV, e si adoperò per trasmettergli intatta l'autorità reale.
Se non arrivarono mai a gestire direttamente il governo della Francia, anche le regine di cuori, le favorite reali, usarono il loro ascendente sul re come una potente arma finanziaria e politica con cui si arricchivano e dominavano la corte. Si immaginano le trame, gli affanni, gli intrighi, le trappole, per non parlare dei veleni e dei pugnali, con cui le tante giovani signore (un matrimonio appena decente precedeva sempre l'eventuale interesse del re) si contendevano l'ascesa al ruolo di favorita, massima carriera per una donna ambiziosa e intelligente. Erano decine le nobili signore giovani e belle, lussuosamente addobbate e imbellettate: ma per farsi notare tra tante, per sedurre il re, diventarne ufficialmente l'amante, fargli riconoscere i figli avuti da lui, e tenerlo avvinto per anni, non bastavano né la bellezza estrema né l'estrema giovinezza, e neppure la maestria erotica. Bisognava adattarsi ai desideri, alle paure, al carattere, alle intemperanze del re: al suo timore di commettere peccato o di annoiarsi, al suo interesse per le donne alla moda, o per quelle anche solo apparentemente in ombra. Bisognava essere, o apparire, pie o sfacciate, modeste o brillanti, spiritose o severe, colte o incolte, caste o focose, riservate o estroverse. Bisognava, nel caso il re avesse dimostrato interesse, trattare la resa, o farla trattare dal marito o dai parenti; oppure si poteva essere scelte da un ministro, da una fazione politica o anche religiosa, per intrappolare il re in una relazione di cui poi i mandanti avrebbero approfittato per i loro fini.
Se il Re di Francia si infiammava, anche contro la volontà della prescelta, ai suoi desideri non era possibile opporsi: ma anche se, come capitava più spesso, l'assediata era contentissima, la tattica che risultava sempre vincente era, oltre ad apparire unica e diversa da tutte, quella di essere irraggiungibile, di protrarre la resa il più possibile. La nobile, altera Diane de Poitier, di leggendaria bellezza, sposa e madre esemplare, folgorò l'undicenne Enrico, secondogenito di Francesco I, e da quel momento si lasciò adorare come una irraggiungibile dea dell'Olimpo, secondo gli schemi del platonismo cortese: vedova a 31 anni, acconsentì a rendere pubblica questa adorazione, finendo finalmente a letto con l'ormai esausto innamorato qualche anno dopo: lei aveva 36 anni, lui 17.
Diventato re a 28 anni, Enrico II ne fece una specie di suo primo ministro ombra, e continuò a venerarla anche dopo il matrimonio, caldeggiato da Diane, con Caterina de Medici. Un'altra esperta nel tenere sulla corda un re, in questo caso Luigi XIV, fu una straordinaria Cenerentola, nata in prigione, vissuta in povertà e vedova di uno scrittore libertino e paralitico, Paul Scarron: proprio per questo, di Françoise d'Aubignè, elevata poi al rango di marchesa di Maintenon, si è fatto spesso, per esempio nel film Saint Cyr con la Huppert e nello sceneggiato L'Allée du Roi, un ritratto umile e poco attraente. Oppure la si è trasformata in una terribile Madre Badessa, ipocrita e bigotta, se non addirittura l'istigatrice segreta della politica di intolleranza religiosa e del cupo conformismo che opprimeva la Francia di quegli anni. Invece la storia, e Benedetta Craveri, attraverso l'eccezionale epistolario della marchesa, ne descrivono l'appetitosa bellezza, la vocazione mondana, la dolcezza, fierezza, il rigore morale ma anche l'adesione ai codici della galanteria, del gioco amoroso. Il re l'avvicinò perché era diventata l'affettuosa governante dei figli suoi e della favorita in carica, la bella, aristocratica, orgogliosa, brillante Athénais de Montespan. Pur abbagliata dal fascino anche fisico del re, Françoise mise da parte i suoi scrupoli religiosi e la sua prudenza mondana solo dopo un lungo assedio: la nuova favorita aveva 44 anni quando finalmente cedette alla passione che indubbiamente provava per Luigi e si lasciò sbattere sul letto: mossa giusta, anche se di molto ritardata, perché poi il re, dopo la morte della regina Maria Teresa, pressato dal cupo partito devoto che lo spingeva a porre fine a una vita di peccato, fece della marchesa la sua sposa morganatica.
Se il riserbo, in nome del gioco galante o della virtù poteva prolungare la curiosità di uno spasimante intraprendente, negarsi a un re troppo timido, fedele per dovere alla moglie, timoroso di un precettore tirannico e di confessori minacciosi, poteva essere una pazzia. Meglio allora i mezzi spicci, farsi magari trovare in una stanzuccia degli appartamenti reali dove il re, in questo caso il complessato Luigi XV, veniva introdotto da un suo fidato cameriere. Fu questa la strategia adottata da Louise-Jolie contessa di Mailly, giovane bellezza provocante spinta dalla sola ambizione di farsi amare dal giovane e avvenente monarca, che, una volta uscito dalla vita intemerata, pareva mai sazio di piaceri: presto alla favorita se ne aggiunse un'altra, la di lei sorella Pauline-Félicité, sedicenne e bruttissima, spiritosa e irriverente: quindi una terza sorella, la bella vedova Marie-Anne, istigata dal duca di Richelieu che la voleva nell'alcova del re per sue trame politiche; le altre due sorelle, Diane-Adélaide e Hortense-Felicitè, ebbero il compito di divertirlo con la loro giovialità e grazia. Questa volta i francesi si scandalizzarono e Marie-Anne, la più amata delle cinque sorelle Mailly-Nesle, come era capitato ad altre ingombranti favorite, una notte si sentì male e morì dieci giorni dopo tra dolori atroci: aveva 27 anni e in molti pensarono che fosse stata avvelenata.
La condizione delle donne tra '500 e '600 era tornata a essere desolata dopo il periodo feudale in cui aveva goduto di un margine di autonomia. In difesa dell'istituto familiare su cui si reggeva l'edificio dello Stato moderno, bisognava neutralizzare l'irrazionalità, l'incostanza, l'irresponsabilità, tipiche della donna: che rappresentava un enigma e con la sua doppia natura, angelica e diabolica, poteva indurre l'uomo all'elevazione spirituale ma anche alla perdizione morale. Definita incapace, ogni sua azione doveva essere autorizzata (come oggi in alcuni stati islamici) dai parenti maschi. «Giuristi, moralisti, uomini di Chiesa erano concordi nel chiederle obbedienza, modestia, castità, parsimonia, riserbo», scrive Craveri. Si discuteva se, data la sua intelligenza debole e limitata, era il caso di consentirle una sia pur vaga istruzione, anche se «il sapere rischiava di incoraggiare difetti congeniti quali la curiosità e l´orgoglio». Rare le voci femminili che si alzavano a protestare, come quella di Marie de Gournay, che nel suo grief des dames, nel 1626, scriveva: «Fortunato sei tu lettore, se non appartieni a quel sesso che, privato della libertà, è interdetto da tutti i beni, come pure da pressochè tutte le virtù.Un sesso cui, come sola felicità, come uniche e sovrane virtù, si lasciano l'ignoranza, la servitù e la facoltà di passare per stupido».
Mademoiselle de Gournay divenne bibiliotecaria di Margherita regina di Navarra: figlia oppressa di Caterina de'Medici, costretta a sposare Enrico di Navarra, lei fervente cattolica, lui capo degli ugonotti, innamorato pazzo della bellissima Gabrielle d'Estrées, poi convertito alla religione cattolica per diventare re di Francia col titolo di Enrico IV e sposare, ottenuto l'annullamento da Margherita, Maria de'Medici, La Reine Margot ebbe l'audacia di rivelarsi nelle sue memorie, raccontando della sua vita libera, tragica e tumultuosa. E di scrivere una specie di manifesto femminista, in cui osava ribaltare l'idea derivata dalla civiltà cortese, che le donne fossero oggetto dell'omaggio maschile a causa della loro fragilità: «l'infermità e la debolezza non generano l'onore bensì disprezzo e pietà.e non è in considerazione della sua infermità ma della sua eccellenza che l'uomo rende onore alla donna».
Margherita fu forse la sola regina di quell'epoca soffocante a immaginare una vita femminile più libera, in cui esprimere tutto il proprio valore e affermare i propri desideri. Decenni dopo, scrive Benedetta Craveri, «per la prima volta nella civiltà occidentale, un gruppo di donne rifletteva in maniera sistematica sulla specificità della condizione femminile, e consapevole del proprio "prezzo", cioè del proprio valore specifico, rivendicava il diritto di decidere della propria vita». Erano le "preziose" che con le loro impossibili aspirazioni finirono con suscitare ostilità, irritazioni, o prese in giro geniali come quella di Molière nelle sue Précieuses ridicules. Passarono di moda a corte, e all'inizio del regno personale di Luigi XIV, scomparvero; dovette passare più di un secolo prima che le donne tornassero a rivendicare autonomia e libertà.

infamie
Repubblica 17.9.05

IL CASO
L'organismo ha approvato un documento: "Nessuna manipolazione fin dallo stadio iniziale"
"La vita inizia con il concepimento" ed è scontro nel Comitato di Bioetica
Interpretazione restrittiva della legge 40. Flamigni: l'ootide non è una vita umana individuale

ROMA - Rispetto per la vita sin dal primo istante, ovvero dal momento della fecondazione dell'ovulo da parte dello spermatozoo, e divieto di qualunque manipolazione indipendentemente dallo stadio di sviluppo della vita embrionale, incluso lo stadio iniziale del cosiddetto ootide (quando i patrimoni genetici paterno e materno non si sono ancora fusi nella nuova cellula). E' questa, in sintesi, la posizione espressa a maggioranza nel documento approvato ieri dal Comitato nazionale di bioetica, "Considerazioni etiche in merito all'ootide". Un parere, quello del comitato, che offre un'interpretazione restrittiva della già restrittiva legge 40 sulla procreazione assistita. La legge prevede infatti il divieto di congelamento e ricerca sull'embrione, senza però specificare cosa si intenda per embrione né fare riferimento allo stadio di ootide. Secondo vari esperti, ciò presupporrebbe dunque la possibilità di intervento allo stadio iniziale di ootide. Ma ieri il Comitato di bioetica si è espresso in senso contrario, invitando al rispetto della vita umana fin dal primo istante della fecondazione.
Il parere ha però creato una profonda divisione, tanto che il documento è stato approvato includendo due posizioni: quella più restrittiva, votata a maggioranza (26 voti), ed una più aperta (12 voti). Da un lato la posizione dei membri più intransigenti che esclude interventi anche allo stadio di ootide: «Non neghiamo che esista l'ootide, ma abbiamo ritenuto che non si possa separare la qualificazione etica dell'ootide da quella dell'embrione», ha detto il presidente Francesco D'Agostino. Dall'altro lato i 12 membri del Comitato nazionale di bioetica, tra i quali il ginecologo Carlo Flamigni, che si sono invece espressi in senso opposto, affermando che l'ootide non può essere riconosciuto come vita umana individuale e non è dunque meritevole di rigorosa tutela come l'embrione. C'è poi un'ulteriore posizione emersa, quella del vicepresidente del Comitato Cinzia Caporale secondo la quale il criterio della fusione dei patrimoni genetici non può essere l'unico e ne potrebbero invece esistere molti altri: «E' impossibile - ha affermato Caporale - decidere razionalmente quale di questi criteri sia il più corretto».

contromisure
Repubblica 17.9.05
Londra, flotta danese sta per gettare le ancore in acque internazionali
Arrivano le navi della fertilità contro le leggi sulla fecondazione

LONDRA - Selezione del sesso del nascituro e inseminazione artificiale con seme di donatori anonimi. Nel Regno Unito non si può. Ma ancora per poco. Una flotta di "navi della fertilità" sta per gettare le ancore nelle acque internazionali fuori dalla costa britannica. Il fondatore di Cryos, la più grande banca del seme,
ha deciso di lanciare l'iniziativa che potrebbe interessare anche i mari che circondano il nostro paese. Essendo situate in acque internazionali, le navi permetteranno ai pazienti-passeggeri di avvalersi di tecniche illegali in molti paesi. Nella stessa Danimarca ad esempio gli embrioni congelati devono essere distrutti dopo due anni mentre sulle navi potrebbero essere conservati per tempi più lunghi. Una trovata che ricorda le imbarcazioni olandesi sulle quali si praticava l'aborto al largo delle coste irlandesi.

una segnalazione di Dina Battioni
Repubblica 17.9.05
Se Blair è più zapaterista di Zapatero
STEFANO RODOTA

Blair o Zapatero? A leggere certe dichiarazioni o i titoli di certi dibattiti sembrerebbe che la sinistra italiana, e non solo questa, sia di fronte ad un dilemma radicale, alla scelta tra modelli e politiche tra loro incompatibili. E se, invece, scoprissimo un Blair più zapaterista di Zapatero proprio nelle materie che hanno attirato sul Primo ministro spagnolo gli anatemi dei neo-con e teo-con di tutto il mondo?
Se il peccato di Zapatero e l'aver fatto approvare una legge sul matrimonio gay o il ridimensionamento dell'ora di religione, Blair si è spinto assai più avanti. Ricordate le mille polemiche sulle cellule staminali al tempo del referendum sulla procreazione assistita? Ora la Gran Bretagna è terra propizia per quelle ricerche, per la clonazione terapeutica, per la clonazione riproduttiva non umana, e lì si trasferiscono ricercatori impegnati su questi temi. E, come se non bastasse, pochi giorni fa il Governo inglese ha avviato una consultazione popolare sulla riforma della legge sulla procreazione assistita del 1990 per spingere ancora oltre le sue frontiere, fino a prospettare la possibilità della scelta del sesso dei nascituri.
Basterebbe questa piccola ricognizione dei fatti per mostrare la povertà di certe nostre discussioni, ormai ridotte ad insensate contrapposizioni ideologiche, a rappresentazioni da opera dei pupi o da sceneggiata napoletana con "isso, issa e ‘o malamente", dove di solito il "malamente" è chi si permette di coltivare il dubbio, guarda alla ricerca scientifica con rigore ma senza paraocchi, ritiene essenziale la dimensione dei diritti. In questo modo si preclude la comprensione della realtà, si rifiuta l'intelligenza delle distinzioni, si impostano male i problemi, e alla fine si prospettano solo soluzioni autoritarie e sbagliate.
Bisogna guardare da vicino e senza pregiudizi quello che sta accadendo in Gran Bretagna perché nelle vicende appena ricordate si scorgono genuine preoccupazioni democratiche (la consultazione dei cittadini prima delle decisioni parlamentari), strategie industriali (costruire la più forte industria biotecnologica del mondo), contraddizioni nella politica dei diritti (massima chiusura nella materia della sicurezza, massima apertura nel settore della bioetica).
Da questo esercizio può nascere non solo una più adeguata conoscenza del modello inglese, ma pure la possibilità di analisi e confronti che, almeno, non facciano di tutt'erbe un fascio, ridando così dignità a quella ragione che troppi cercano di tirare dalla propria parte.
I cittadini inglesi sono stati chiamati a dire la loro, entro il 25 novembre e usando la posta ordinaria o quella elettronica, sulla riforma della legge sulla procreazione assistita, affrontando una serie di questioni delicatissime: sì o no alla scelta del sesso dei figli; mantenimento dell'obbligo di tener conto del benessere del nascituro e del suo bisogno d'avere un padre da parte del medico che pratica la fecondazione; ammissibilità della vendita di gameti su Internet; permettere la creazione di gameti "artificiali" dalle cellule della pelle o di altre parti del corpo. A parte le valutazioni sul merito di ciascuna questione; questa iniziativa suggerisce almeno tre considerazioni, valide non solo per la Gran Bretagna. Non è vero, come si disse insistentemente al tempo del recente referendum italiano, che vi siano questioni che, per la loro complessità tecnica, siano precluse al giudizio dei cittadini e debbano essere riservate a specialisti e politici. In materie che riguardano la vita di tutti è ormai indispensabile un coinvolgimento dell'opinione pubblica prima dell'intervento parlamentare. I documenti prodotti da comitati etici o specifiche commissioni devono essere concepiti in modo da fornire a tutti buone informazioni, e non per esprimere opinioni partigiane o giocare a fare i consiglieri del principe.
Ottima iniziativa, dunque, che cerca di intrecciare democrazia rappresentativa e voce dei cittadini (anche se qualcuno, ricordando che solo due anni fa l'80% degli inglesi aveva risposto no a quesiti analoghi, accusa il governo di voler insistere nelle consultazioni fino ad avere la risposta che gli fa comodo). Ma che mette in luce anche una grave contraddizione. Perché degli orientamenti dell'opinione pubblica Blair non tenne alcun conto al tempo dell'intervento in Irak? Perché non si ascoltano le tante e ragionevoli voci critiche dei provvedimenti riguardanti la sicurezza e la riduzione di diritti dei cittadini? Vi è il rischio di una democrazia a corrente alternata, di identificare aree dove la voce dei cittadini è ininfluente e di disegnare così un sistema all'interno del quale si attua una sorta di scambio tra restrizioni di diritti fondamentali nei rapporti con lo Stato e concessioni per quanto riguarda la possibilità di fare in piena autonomia alcune scelte di vita, soprattutto per quanto riguarda le decisioni riproduttive.
Anche qui, tuttavia, è bene evitare le schematizzazioni. L'accento posto sulla possibilità di scelte individuali e sulle opportunità offerte alla ricerca, infatti, mette pure in evidenza un progetto sociale, che si manifesta nella deliberata volontà di creare condizioni propizie ad una innovazione scientifica produttiva di benefici per la salute dei cittadini. E un progetto industriale, che vuole fare della Gran Bretagna il paese che in uno dei settori massimamente innovativi, com'è appunto quello della biologia e della genetica, abbia un primato che le assicuri anche forti vantaggi economici. Non a caso la Gran Bretagna non ha firmato la convenzione europea sulla biomedicina proprio perché pone severi limiti alla ricerca sugli embrioni.
La via inglese non è certo l'unica percorribile. Ma i temi delle nuove frontiere della salute e della politica biotecnologia non possono essere accantonati con una mossa ideologica. Si tratta di trovare punti di equilibrio. E dall'esperienza inglese viene un ulteriore suggerimento. Anche quando si legittimano talune scelte private e si aprono le porte a ricerche particolarmente controverse è mantenuto un potere pubblico di controllo, subordinando la possibilità di mettere in pratica quel che la legge prevede in via generale ad autorizzazioni caso per caso da parte di autorità indipendenti. Questa è una disciplina flessibile, che permette di graduare le autorizzazioni tenendo conto anche del variare delle sensibilità sociali e dei mutamenti culturali, lasciando aperta la possibilità di bloccare iniziative ritenute non più opportune.
Le molte sfaccettature dell'esperienza inglese, dunque, non permettono di accettarla o rifiutarla in blocco. Questo non è il terribile relativismo. E' semplicemente capacità di analizzare la realtà e di dare risposte adeguate alla diversità delle situazioni concrete, senza escludere la possibilità di divieti, come credo si debba fare a proposito del commercio di gameti e dell'offerta di test genetici su Internet, sia per la mancanza di garanzie in materie così delicate, sia perché si apre la porta alla trasformazione in merci del corpo e dei suoi prodotti. E questa è una frontiera che non può essere varcata, poiché è in gioco la dignità della persona.
Ma il punto che più colpisce nella consultazione inglese è quello riguardante la scelta del sesso dei nascituri, una ipotesi traumatica, perché segnerebbe l'abbandono della "lotteria genetica", il passaggio ad una procreazione non più governata dal caso, ma da decisioni individuali. La discussione in Gran Bretagna è apertissima, e converrà tornare ad occuparsene più avanti, esaminando in dettaglio le argomentazioni che saranno proposte. Intanto, però, bisogna di nuovo fare un esercizio di distinzione e di ricognizione dei fatti.
Agli inglesi, infatti, non si sta chiedendo di esprimersi sulla opportunità della scelta del sesso per finalità mediche. Questo è già possibile in base alla legge vigente, per evitare la trasmissione di malattie genetiche come l'emofilia o la distrofia muscolare (come prevede anche la peraltro severissima legge tedesca). Si propone di passare dal terreno della tutela della salute a quello di una scelta dei genitori non più legata esclusivamente a ragioni mediche, ma alla "composizione equilibrata della famiglia", con rischi evidenti, che vanno dal possibile rafforzamento degli stereotipi culturali avversi alle donne fino alla legittimazione del modello del "bambino disegnato".
Questa linea consapevolmente scelta dal governo inglese impone di mettere da parte il santino Blair, custode di valori che il diavolo Zapatero vuole cancellare. Se vogliamo insistere in questi riferimenti personali, dobbiamo piuttosto apprezzare il fatto che entrambi dimostrano capacità di non sfuggire ai dilemmi reali del nostro tempo, di non chiudersi in ghetti ideologici, di obbligare tutti ad una discussione pubblica. Una lezione di buon metodo politico, di cui tutti dovremmo profittare.

VITTORIO FOA
La Stampa 17.9.05
Legge elettorale
«Scorretto cambiare le regole così, a colpi di maggioranza.
Direi che è due volte truffa»

FORMIA (LATINA). DOMANI compie 95 anni ed è «molto contento di essere vecchio anche se vorrei non esserlo più. La vecchiaia non è un passaggio verso la morte ma una condizione particolare che presenta alcuni limiti ma anche molte possibilità. Limiti soprattutto fisici e possibilità soprattutto intellettuali». Vittorio Foa sta seduto nella sua poltroncina nella casa di Formia dove ormai vive quasi tutto l’anno insieme alla sua compagna (da giugno scorso anche moglie) Sesa Tatò. A un altro angolo della grande stanza, che ospita una cucina a vista, una giovane filosofa (come la chiama lui) lavora al computer. Si chiama Federica Montevecchi e con Foa sta scrivendo un nuovo libro che sarà pronto a fine anno, «Le parole della politica». «Io mi sono occupato per tutta la mia vita di politica ma il suo linguaggio di oggi non mi piace. Lo sento sempre più distante dalle cose, dalla vita reale delle persone. Non è certo una grande scoperta, ce lo sentiamo dire tutti i giorni. Ma appunto per questo vogliamo tentare di capire perché il linguaggio si distacca dalla realtà e cerchiamo perfino di trovare qualche soluzione che ci faccia tornare alla politica in senso proprio».
Torinese, antifascista, prigioniero del regime per otto anni, azionista, socialista, leader sindacale, dirigente politico, soprattutto un grande intellettuale della sinistra italiana. Meno parole si usano per dire chi è Vittorio Foa, meno si sbaglia. Altrimenti ci vorrebbe un libro lungo un secolo. Un secolo di politica ovviamente, che può riacquistare il «suo senso proprio se guardiamo al futuro pensando ai tempi lunghi. Non è più come nella mia giovinezza, tutta tesa nella ricerca immediata dell’azione. Oggi la politica significa assumersi la responsabilità di scegliere tra grandi valori, penso a questioni come la guerra, la ricerca, la comunicazione. Ecco perché non sopporto la banalità del linguaggio che sento in giro. I piccoli giochi che possono riguardare gli equilibri interni alla Curia vaticana ma che non dovrebbero riguardare la politica. Oppure la paura della sinistra di essere trascinata verso la Democrazia cristiana. E’ una sciocchezza, per capirlo basta pensare a Follini che ha sempre votato col governo ma parla come fosse all’opposizione. E adesso pure questa campagna per il proporzionale, come se fosse possibile ormai votare senza avere di fronte una destra e una sinistra ben distinte, votare cioè con uno spirito di coalizione. Mi dicono che si parla addirittura di una proposta di legge fatta in fretta e furia a pochi mesi dal voto. Ma non si possono cambiare le regole in questo modo, a colpi di maggioranza: ha ragione chi la chiama legge truffa, direi due volte truffa: nel metodo e nel merito. Non se se ridere o piangere».
E di fronte alla questione morale, quella di quest’estate, Foa che fa, ride o piange? «Né l’uno né l’altro, dico che posta così, come se fosse una riedizione di Tangentopoli, non ha fondamento. Bene ha fatto Fassino a protestare. Però un problema c’è: la sinistra non deve lasciarsi confondere con il mondo della finanza. Che ha la sua logica ma quella della politica è un’altra cosa. Io sono seguace di Fassino e dei Ds. Ma non sono iscritto all’Unipol. E’ chiaro?». Chiarissimo.
Foa andrà a votare alle primarie dell’Unione il 16 ottobre, e voterà per Prodi: «Mi auguro sinceramente che vinca». Bertinotti invece? «Sono un suo amico ma sono un po’ più moderato di lui». L’idea delle primarie non gli dispiace, «ha un senso per fare un po’ discutere, la discussione era scomparsa». Naturalmente spera che dopo le primarie, Prodi vinca anche le elezioni, premette però che «avendo vissuto tanti anni ho fatto centinaia di previsioni politiche. Quasi tutte sbagliate. Adesso prevedo che la sinistra vincerà in Germania, in Francia e in Italia. E speriamo di azzeccarne almeno una».
Ma non basterebbe la vittoria del centrosinistra a fare dell’Italia un Paese diverso da quello che è oggi se non si facesse quello sforzo di immaginare il futuro che, secondo Foa, è il modo giusto per fare politica e ridargli appunto il suo senso. «Io sono torinese, nato ed educato a Torino. Quindi sono nordista. Quando il 18 settembre del 1910 i miei occhi si sono aperti sul mondo, in città c’erano i manifesti che annunciavano la nascita del cinematografo. Anche la Fiat era appena nata. Fiat e cinematografo hanno accompagnato tutta la mia vita, ho amato molto Torino, il suo antifascismo degli Anni Trenta, l’impegno nella Resistenza che ha dato carattere alla Repubblica. Ho amato le sue lotte operaie. Ma proprio perché sono nordista dico francamente che bisogna liquidare il nordismo. Nordista oggi è il governo di Bossi e – come si chiama? – di Berlusconi, un governo che ci ha depresso tutti quanti. Il Sud non lo si sente più e tocca anche al Nord di sentirlo. Lo voglio dire ai miei compagni e amici di Torino, lo dico anche alla Stampa: l’Italia può essere qualcosa di diverso in Europa solo se si considera tutta intera, Nord e Mediterraneo. Così come l’Europa potrà essere Europa se saprà guardare al mondo come un intero».
Il quale mondo però tanto intero al momento non appare. «Altro che, è pieno di disastri. Ha ragione Bush quando dice che i disastri si possono riparare, ma bisogna anche volerli riparare e francamente non mi pare che lui sia sulla strada giusta». L’aspetto più preoccupante, per uno come Foa che il mondo di oggi lo vede con gli occhi di chi il mondo lo conosce da un secolo e ne ha toccato con mano parecchi errori e orrori, è la ricerca affannosa della competizione: «E’ pericoloso dividere la gente tra i buoni (i ricchi) di qua e i cattivi (quelli che non ce la fanno) di là. Bisogna resistere alla tendenza della politica di spaccare il mondo in due: non solo perché è profondamente sbagliata ma perché rischia di essere letale. Anche per se stessa».

sinistra
il manifesto 17.9.05

LINKSPARTEI
Bertinotti, unico politico italiano nei comizi tedeschi
M. BA.

BERLINO. Oggi in Germania, domani in Italia? «No, cento fiori spunteranno». A una lista unica della sinistra radicale per l'appuntamento elettorale dell'anno prossimo Fausto Bertinotti continua a non credere. Nonostante l'occasione berlinese suggerisca somiglianze, visto che il nuovo partito di Gysi e Lafontaine, un melting pot di post-comunisti, sindacalisti di sinistra e delusi dall'Spd, potrebbe assomigliare per certi versi a quello che molti in Italia hanno cercato di costruire lo scorso inverno. Oltre il muro, intervenendo al comizio conclusivo del Linkspartei, il segretario del Prc è stato invitato come presidente della Sinistra europea insieme al responsabile esteri Gennaro Migliore. Accolto sul palco al suono di «Avanti popolo» gridato in italiano durante il suo intervento, per Bertinotti una giornata intensa di incontri, a fianco del vecchio amico Lothar Bisky, prima di rituffarsi nelle primarie italiane. Non lo convince importare la proposta del «listone radicale» perché «se qui in Germania ha preso forme partitiche non è detto che da noi possa funzionare la stessa cosa, anzi, a Roma se si farà si farà con passi diversi». Perché si tratterà di «far camminare insieme» soggetti irriducibili alla forma partito come i movimenti e le associazioni, e soggetti-partito come Prc e altri.
Ciononostante la presenza di Bertinotti sul suolo tedesco oggi è un segnale forte: «E' la prima consultazione politica in un paese così importante dopo lo storico no francese e olandese alla Costituzione europea», dice in una conferenza stampa volante vicino ai tigli dell'Unter den Linden. «Ma soprattutto è la prima volta che la socialdemocrazia tedesca trova alla sua sinistra un'altra formazione politica, figlia di esperienze diverse come il Linkspartei. Si assiste così anche in Germania al fenomeno delle `due sinistre', dove alternativa ha la possibilità di uscire dalla minorità entrando in parlamento».
Fausto Bertinotti è l'unico politico italiano a partecipare alla giornata conclusiva delle elezioni tedesche, né Angela Merkel né Gerhard Schröder infatti hanno cercato il sostegno dei loro omologhi d'Oltralpe. Del resto tra la candidata della Cdu e il Cavaliere non è certo scoccato un amore a prima vista mentre secondo Bertinotti i riformisti non sono qui perché «ancora indecisi tra il modello socialdemocratico continentale e quello democratico di tipo americano». Vista dal regno del proporzionale insomma la caotica Italia maggioritaria, con tante «sinistre» e tanti «centri» diversi, sembra ancora più anomala.

sinistra
l'Unità 17.9.05
COMIZI DI CHIUSURA
Bertinotti a Berlino: «Dopo il voto spero in una coalizione rosso-rosso-verde»

BERLINO Fausto Bertinotti auspica per il dopo elezioni in Germania una coalizione rosso-rosso-verde fra Spd, Nuova sinistra e Verdi, che sarebbe a suo avviso «l'unica reale alternativa alla politica di Angela Merkel».
Parlando con i giornalisti a Berlino, dove nel pomeriggio di ieri è intervenuto alla chiusura della campagna elettorale del nuovo Partito della sinistra, il leader di Rifondazione comunista ha detto che una tale coalizione di sinistra è una delle possibili alleanze. «Mai dire mai non è un adattamento pragmatico ma una norma fondamentale per la politica, e in particolare per la buona politica», ha detto Bertinotti con riferimento alle possibili difficoltà che Schröder avrebbe a governare con il suo avversario diretto Oskar Lafontaine. «Io penso - ha aggiunto - che Schröder dica no all'alleanza con i comunisti per una ragione prettamente elettorale. Essendosi infatti caratterizzato in uno scontro con la destra e contro Merkel teme, in una società in cui i depositi storici sono molto presenti, di essere accusato di essere amico dei comunisti». «Ma io penso - ha ancora detto Bertinotti - che molto dipenderà dal risultato elettorale, perchè se al recupero della Spd si aggiunge un successo della nuova sinistra e un avanzamento dei Verdi, allora è evidente che si configurerebbe una Germania che guarda a sinistra, e io credo che il partito della maggioranza relativa non potrebbe che prenderne atto».

sinistra
adnkronos 17.9.05
Per il 'Partito della Sinistra' sondaggi intorno all'8,5%
Germania, Bertinotti a Berlino per appoggiare Lafontaine
Il segretario di Rc a Berlino per la chiusura della campagna elettorale del 'Linkpartei', insieme all'ex leader della Spd, a Gregor Gysi e Lothar Bisky

17 sett. (Ign) - Il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti si è recato in Germania per dare il suo appoggio al nuovo 'Partito della Sinistra', guidato da Oskar Lafontaine, in vista delle elezioni di domenica. Il leader di Rc ha partecipato alla chiusura della campagna elettorale della neonata formazione a Berlino, in Schlossplatz. Sul palco oltre all'ex leader della Spd, Gregor Gysi e Lothar Blisky. Per il 'Linkpartei' ultimi sondaggi intorno all'8,5%.

RIFORME: BERTINOTTI, LEGGE ELETTORALE NON E' TEMA DI QUESTA LEGISLATURA
SE NE PARLERÀ DOPO AVER CACCIATO BERLUSCONI

Roma, 17 set. (Adnkronos) - ''Oggi all'ordine del giorno non c'e' il tema della legge elettorale, ma il tema della conferma o della cacciata di Berlusconi. Io sono favorevole al proporzionale, ma se ne parla dopo la caduta di questo governo''. Fausto Bertinotti, a margine del Comitato politico di Rifondazione, ribadisce la sua linea sulla questione del ritorno al proporzionale.

sinistra
AGI 17.9.05

UNIONE: BERTINOTTI, COSTRUIAMO DIGA CONTRO RISCHIO PIENA
(AGI) - Roma, 17 set. - "Costruiamo una diga di opposizione sociale contro il rischio di una piena che altrimenti produrrebbe una devastazione sociale". Questo l'invito che il leader del Partito della Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, rivolge a tutta l'opposizione nell'ambito del comitato politico nazionale.
"Si tratta - aggiunge Bertinotti - di individuare alcuni punti precisi e concreti, rinviando pe ril momento l'alternativa di governo al dopo-elezioni, che consentirebbero, pero', di attuare misure immediate in grado di invertire la tendenza: tassazione dei rendite finanziarie, aumento dei salari delle pensioni, provvedimenti sulla casa e difesa della spesa sanitaria".
Secondo Bertinotti in questo "momento abbiamo di fronte due facce di una stessa moneta: da una parte c'e' la fine del governo Berlusconi, che trova la sua espressione nel tentativo disperato di un colpo di mano sulle regole. Dall'altra - prosegue - c'e' la Finanziaria". Una legge che "non puo' essere di galleggiamento ma che, per ragioni di omissione si preannuncia di precipitazione". (AGI) Mav/Bre 171333 SET 05 .

grullaggini
Il Tempo 17.9.05
Tutti in classe per imparare a essere felici
di L.C.

LA FELICITÀ? Questione di vedute. Casa, stipendio, la salute e la famiglia significano serenità sì ma per toccare il cielo con un dito bisogna avere quello spirito d’ottimismo che dà una marcia in più. Parola del prof. Gian Franco Goldwurm, che nella Scuola di formazione in psicoterapia di Milano (Asipse) ha creato corsi di Benessere Soggettivo e Apprendimento dell'Ottimismo. Perchè la felicità è uno stato mentale che si può apprendere. Essere più felici si può. Basta impararlo. E dal prossimo anno nell'Istituto di terapia cognitiva (IMIPSI) i corsi saranno aperti a tutti coloro che ambiscono al massimo della felicità, esenti da patologie psichiche. «Ognuno di noi cerca di raggiungere il miglior livello di benessere soggettivo, di felicità - dichiara il prof. Goldwurm - e questa è una tendenza spontanea degli esseri umani. Tuttavia a volte i risultati, per varie ragioni, possono non essere soddisfacenti e allora è utile cercare aiuto». Come imparare ad essere felici? Meditando sul proprio benessere, al di là delle tribolazioni quotidiane - il lavoro precario e lo stipendio che non arriva a fine mese.. - apprendendo i modi per riuscire ad essere soddisfatti della propria vita, a vedere tutto da un lato positivo. I Corsi di benessere soggettivo si basano sui 14 punti fondamentali dello psicologo americano Michael Fordyce. Al top della psicologia positiva ci sono l'attivismo, l'amicizia e la socializzazione, la produttività e la pianificazione degli eventi. Ma non bastano, occorre allontanare le preoccupazioni, ridimensionare le proprie aspettative e aspirazioni, sviluppare pensieri ottimistici e positivi e pensare al presente. E ancora, lavorare ad una personalità sana e socievole, ed essere sempre se stessi, eliminare sentimenti negativi e problemi, curare le relazioni intime che sono fonti di felicità, infine considerare la felicità la priorità numero 1. Per imparare ad accettarsi senza giudizi severi ci viene in aiuto la meditazione (Mindfulness) che si rifa alla Meditazione di tipo buddista , ma senza implicanze religiose o filosofiche. Attraverso varie fasi si raggiungono serenità, tolleranza ed amore verso di se e verso gli altri, comprensione e conoscenza di se stessi e un grande senso di benessere psicologico. Vedere rosa è solo una questione di interpretazione soggettiva degli eventi.

venerdì 16 settembre 2005

Marco Bellocchio
Corriere della Sera Milano 16.9.05

DA VEDERE
Allo Spazio Oberdan una retrospettiva completa sul maestro piacentino dei «Pugni in tasca» Bellocchio tra rabbia e sogni Titoli storici, rarità e un assaggio del nuovo film «Il regista di matrimoni»

A quarant’anni dall’esordio folgorante con «I pugni in tasca», l’opera di Marco Bellocchio è in continua evoluzione. «Il regista di matrimoni», il suo nuovo film con Sergio Castellitto, è ancora in lavorazione, e l’autore ne mostrerà spezzoni la sera del 24. Il tema - «il ritorno del cattolicesimo, con il suo carico di conformismo» - si ricollega a quello di «L’ora di religione» (in programma il 21). Segno che Bellocchio non ha perso la carica polemica, anche se per altri aspetti il suo cinema si è pacificato, e ha trovato mediazioni con le istituzioni familiari violentemente contestate in passato. C’è un abisso tra il ventiseienne regista di «I pugni in tasca» (che la Cineteca proietta ogni domenica in copia restaurata) e quello del recente «Buongiorno, notte» (il 30), dove la figura di Aldo Moro esprime anche una riconciliazione con il padre.
D’altra parte, nelle sue opere, la soluzione di traumi ed enigmi si dà sempre in una dimensione onirica e inconscia, come mostra il finale impossibilmente ottimista del film sullo statista ucciso dalle Brigate rosse. «È un sogno, certo, e che altro?» suona non a caso l’ironica battuta finale del «Principe di Homburg» (il 18), l’adattamento della tragedia di von Kleist che nel 1997 ha inaugurato una nuova e felice stagione creativa.
La retrospettiva è l’occasione anche per vedere alcuni dei titoli meno noti, in copie ristampate. Oggi il cortometraggio giovanile «La colpa e la pena» precede alle 21.30 il lacerante «Salto nel vuoto», quasi una rivisitazione del film d’esordio, dove il giudice Michel Piccoli si convince che la sorella Anouk Aimée sta impazzendo. Lo precedono «La condanna» (alle 17) e «Diavolo in corpo» (alle 19), legati a una stagione di rovelli psicologici ed erotici (famigerata la sequenza hard del secondo film, all’epoca inusitata, e poi invisibile in tv).
Importanti per capire il regista anche sono i suoi film più privati e familiari, legati al Piacentino («Vacanze in Val Trebbia») e alla Parma di Verdi («Addio del passato»): entrambi sono in programma domani alle 15. Di ambientazione milanese «Sbatti il mostro in prima pagina» (il 24), quasi un giallo politico: all’epoca (il 1972) poco amato, oggi appare lucido e un anticipo sui tempi.

MARCO BELLOCCHIO da oggi al 25 settembre (ripresa dal 28 settembre al 2 ottobre) Cineteca Italiana/Spazio Oberdan viale Vittorio Veneto 2, ingresso con tessera (3 euro), biglietto 5/3 euro Alberto Pezzotta

SPAZIO OBERDAN CINETECA ITALIANAviale Vittorio Veneto 2 - Tel. 0277406300 La condanna 17.005,00
Regia di Marco Bellocchio
Il diavolo in corpo 19.005,00
Regia di Marco Bellocchio
Cortometraggio La colpa e la pena 21.305,00
Regia di Marco Bellocchio
Salto nel vuoto a seguire
Regia di Marco Bellocchio

Marco Belloocchio
Repubblica Milano 16.9.05

Opere che ci hanno stimolato riflessioni e dubbi sulla realtà
Da oggi all'Oberdan una bella antologica dell'autore di film-cult
Stato, Chiesa, famiglia e poi tanti pugni in tasca
Il 24 alle 21.15 il regista sarà in sala col pubblico
Copie restaurate e un estratto dal nuovo film
di Mario Serenellini

Accanto alla razione veneziana, una bella boccata d'aria con l'autore che continua a essere il più nuovo, se non il più giovane, del nostro cinema: Marco Bellocchio, cui la Cineteca milanese dedica da oggi al 2 all´Oberdan la personale completa dei lungometraggi (con alcuni corti e documentari), in copie restaurate e ristampate dalla Cineteca Nazionale, a coronamento della non stop domenicale di I pugni in tasca. In una ventina di titoli, un´immersione temeraria, sempre in contropiede, nei temi più urgenti sollevati nel (e dal) nostro Paese negli ultimi quarant'anni, tutti col peso delle più annose, indistruttibili zavorre, nostre dittature quotidiane – famiglia, religione, stato – magari aggredite sul versante dell'esasperazione fanatica – collegio (o istituto psichiatrico), esercito, terrorismo – in film come Nel nome del padre, Matti da slegare, Marcia trionfale, Buongiorno notte. Sarà una festa rivedersi "tutto Bellocchio", una cinematografia giustamente festeggiata quest'estate al Nuovo Cinema di Pesaro, su cui lo stesso autore potrà essere prodigo di chiarimenti quando, il 24, alle 21.15, s'incontrerà col pubblico di Sbatti il mostro in prima pagina, con l'anteprima assoluta di un breve estratto del nuovo film, Il regista di matrimoni, appena girato con Sergio Castellitto, Donatella Finocchiaro, Sami Frey. Punteggiata di riscoperte e rarità – come (stasera ore 21.30) la primissima regia, del 1961, La colpa e la pena, 12´, realizzata dopo il primo anno di Centro Sperimentale, esercizio di scrittura sugli stereotipi del noir Usa abitati dai problemi d'identità d'un adolescente sotto processo –, la personale milanese, aperta oggi alle 17 da La condanna del '91, seguita alle 19 da Diavolo in corpo dell'86 (la passione amorosa all'ora del terrorismo, con Maruschka Detmers) e, alle 21.45, Salto nel vuoto dell'80, sarà, titolo dopo titolo, il trionfo continuo del dibattito interiore, della riflessione libera da condizionamenti d'obbligo, da ogni tipo di 'religione' sociale o familiare, aperta invece a estremismi intellettuali. Non a caso, teatro e cinema in Bellocchio non sono mai disgiunti e quando s'incontrano in modo diretto è una festa: il suoCechov ( Enrico IV, domani ore 17), il suo Pirandello (Il gabbiano, il 25, e, ancora, La balia, il 22 e 30), il suo Kleist (Il principe di Homburg, il 18 ore 19) sono nostri contemporanei, omologhi nell'anarchia dello spirito come nell'allerta politica a L'ora di religione (il 21, ore 21.30) o I pugni in tasca (ancora il 18 e 25, ore 15). Il gesto autodistruttivo di Constantin nel Gabbiano (tra i capolavori di Bellocchio, con un cast magistrale, da Pamela Villoresi a Laura Betti), la "corda pazza" di Marcello Mastroianni nell'Enrico IV (con Claudia Cardinale e Giuseppe Cederna), la disobbedienza di Homburg (con Andrea Di Stefano e Barbora Bobulova) sono tutte follie di lucidissima fuga, e di opposizione dialettica, alle "normalità" del presente. Tanti ‘Pugni in tasca', distribuiti con malinconica regolarità e con appassionata coerenza in quasi mezzo secolo di storia.
Spazio Oberdan, viale Vittorio Veneto 2, 02.77406300

ripescaggi impossibili
Il Messaggero 16.9.04

Heidegger, torna “Essere e tempo”
di Sergo Givone

ESCE presso Longanesi la nuova edizione italiana di uno dei capolavori filosofici del Novecento, Essere e tempo di Martin Heidegger (608 pagine, 28 euro). L’ha curata, da quell’eccellente studioso e acutissimo interprete che è, Franco Volpi, il quale si è basato sull’ormai classica versione di Pietro Chiodi, presentandone un “restauro” molto accurato pur nel rispetto dell’impianto di base e delle scelte lessicali ormai consolidate. In appendice si trovano apparati bibliografici aggiornatissimi, oltre al glossario, che tiene conto di quello a suo tempo stilato da Chiodi e che serve sia a giustificare le soluzioni introdotte dal curatore (con la collaborazione di Corrado Badocco) sia a offrire al lettore un prezioso strumento ermeneutico. Inoltre, assoluta novità, in calce si possono leggere le chiose che Heidegger è andato via via apponendo negli anni alla sua copia personale del libro. La filosofia italiana viene così arricchita di un testo che risponde in modo esemplare alla domanda su che cosa significhi recepire nella propria lingua un grande autore straniero. Ciò è tanto più significativo, se si considera che il pensiero di Heidegger, dopo essere stato al centro del dibattito filosofico per decenni, sembra oggi conoscere un certo declino.
Altre forme di ontologia e cioè di interrogazione dell’essere (l’essere delle cose e soprattutto dell’uomo, l’essere che ha nell’uomo il luogo del suo manifestarsi) vanno per la maggiore, forme ben diverse da quella heideggeriana, e vistosamente ignare di essa. Col risultato di riprodurre concezioni obsolete e ingenue della realtà: precisamente quelle che l’analitica esistenziale di Heidegger aveva reso improponibili. Il fatto è che secondo Heidegger il pensiero filosofico è venuto a trovarsi di fronte a un’alternativa: o la filosofia riporta in primo piano, dopo averlo trascurato e anzi dimenticato, il problema del senso dell’essere, oppure tanto vale che dichiari bancarotta e lasci il campo alle varie scienze, che fanno benissimo il loro mestiere senza preoccuparsi di porre in questione tale senso. Resta da chiedersi che cosa accadrebbe se della filosofia non ne fosse più nulla. Forse gli uomini sarebbero più felici o quantomeno non più tormentati da domande quali: che ci stiamo a fare al mondo? O forse una nuova e più buia notte si preparerebbe per tutti.

FestivalFilosofia, Bodei
il manifesto 16.9.05

La sensualità del pensiero
Cinque finestre aperte sul mondo. Un'intervista con Remo Bodei
Da oggi a domenica la quinta edizione del Festival della filosofia, quest'anno dedicata ai sensi. Un'iniziativa che per il suo «supervisore» è l'occasione per far incontrare il tatto, la vista, l'olfatto, il gusto e l'udito con il grande pubblico. Senza però ridurre la filosofia ad ancella dell'ovvio
di Roberto Ciccarelli

Si può toccare un concetto? E come si fa a vedere una sensazione? E gustare un'essenza? La filosofia, l'arte e le neuroscienze s'interrogano da tempo sulla profonda logica di una sensazione, sulla percezione del concetto, sulla razionalità degli affetti e delle passioni, al punto che anche il festival della filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo ha deciso di dedicargli l'edizione di quest'anno. Giunto alla quinta edizione, il festival propone da oggi sino a domenica 18, il tema dei «sensi» e della loro intrinseca razionalità. Un bilancio in crescita, quello del festival emiliano, che di anno in anno non ha solo registrato un crescente successo di pubblico, ma ha anche visto la partecipazione di alcuni tra i maggiori filosofi italiani e internazionali. Da Roberto Esposito a Rosi Braidotti, da Massimo Cacciari a Emanuele Severino, da Zygmunt Bauman a Jean Starobinski, passando per Carlo Galli, Giacomo Marramao, Richard Sennett e Slavoj Zizek sulle piazze, e sui treni che collegano anche quest'anno le città del festival, il festival ha presentato i temi del dibattito filosofico attuale, non trascurando nemmeno l'aspetto di socializzazione con il pubblico.

Da segnalare anche quest'anno l'iniziativa coordinata dall'accademico dei Lincei Tullio Gregory sulla «cucina filosofica», una serie di menù ispirati alle parole chiavi di questa edizione: dai «piaceri del tatto» alle «essenze ed esistenze» una giusta dose di ironia per alleviare il pubblico dalle «fatiche dell'esercizio teorico» a cui verrà sottoposto.

Remo Bodei, che del festival è il supervisore scientifico, e la filosofia la insegna all'Università di Pisa e all'Ucla di Los Angeles, non crede che il suo duraturo successo di pubblico (l'anno scorso centomila presenze) sia dovuto alla curiosità di ascoltare insieme a migliaia di persone nella stessa piazza ragionamenti che, di solito, vengono sviscerati dietro una cattedra universitaria, o nel circolo ristretto di un seminario specialistico. «Se così fosse - spiega - il festival si sarebbe esaurito in un paio di edizioni». E invece, dopo aver commissionato un'indagine sociologica, «abbiamo scoperto - continua Bodei - che questo festival non coinvolge solo studenti o insegnanti, ma si rivolge ad un pubblico più vasto che va dai dodici agli ottantanni». E allora proviamo a spiegare le ragioni di questo bisogno diffuso di sapere al di là della scalata dei record di presenze e di iniziative (quest'anno siamo a quota 188, comprensive di una ventina di lezioni «educational» per studenti, le mostre di Ghirri, Morandi e Picasso, concerti e letture pubbliche) davanti alle quali qualcuno pensa che Modena raggiungerà il festival della letteratura di Mantova. «Ma diversamente da Mantova - precisa Bodei - i nostri appuntamenti sono gratuiti».

Che cosa cerca il pubblico di Modena dalla filosofia?

Capire, innanzitutto. Uscire dal buio dell'interiorità e condividere dei pensieri. Meglio se insieme ad altri, magari in una piazza. Oggi esiste un'emorragia delle credenze a cui talvolta si cerca di rimediare ricorrendo al richiamo dei valori forti dell'identità, della civiltà, della fede. In realtà ad essere venuto meno sono quelle «narrazioni forti» che in passato davano la linea generale e che oggi non riscuotono lo stesso interesse. Il festival della filosofia fornisce un'occasione di socialità per affrontare, in maniera chiara e non banale, dei passaggi critici.

Ma può bastare un'ora di lezione per capire la relazione complessa tra la razionalità e i sensi?

Noi proviamo a gettare dei semi nel vento come nella famosa parabola. Questi semi possono cadere sulle rocce, sul terreno sterile, altre volte cadono su quello fertile. Con questo non vogliamo sostituirci alla scuola o all'università, ma non vogliamo nemmeno fare pagliacciate. Ognuno raccolto il seme deve poi pensare da sé a tagliare i rovi in cui è caduto o a spostarlo fuori dalla terra secca.

Forse una spiegazione per questo nuovo interesse per la filosofia la si può trovare nella «consulenza filosofica», il movimento fondato nel 1981 in Germania e recentemente promosso anche in Italia. Ci può spiegare cos'è e se ci sono dei punti di contatto con il festival?

In Italia partiranno presto due master universitari di consulenza filosofica. Il primo a Venezia diretto da Umberto Galimberti, che parteciperà anche a questa edizione del festival. Il secondo promosso dalle università di Cagliari, Pisa e la Federico II di Napoli. Quello che idealmente unisce la consulenza filosofica al festival è che per entrambi la filosofia, intesa come un'etica pratica, serve ad incidere sui comportamenti delle persone. Per riferirci ai classici questa filosofia come etica pratica si rifà ad una tradizione che inizia con il sofista Antifonte che pensava la filosofia come techne alipias, una tecnica per eliminare il dolore. La gente lo andava a trovare in una stanza nell'agorà di Corinto, gli esponeva i suoi problemi e lui, attraverso la parola, riteneva di curarne le malattie dell'anima dovute a una certa rappresentazione della realtà dei suoi pazienti.

A cosa servono questi master?

A creare delle professionalità sul modello della consulenza del lavoro. Avverto però il rischio che questi master diventino quello che sono diventati i Beni culturali, insegnamenti di massa alle quali i ragazzi si iscrivono nell'illusione di trovare presto lavoro.

Numero chiuso dunque?

Ma la filosofia è così, richiede un certo sforzo e il mercato del lavoro non è troppo accogliente in questo caso. Questi master sono iniziative interessanti che occorre mantenere ad alto livello.

L'idea che va diffondendosi è che la filosofia, liberata dalle angosce della ricerca analitica, possa avere delle conseguenze pratiche sulla vita. Ma non si corre così il rischio che, spogliando il filosofo delle sue vesti curiali, lo si associ ad una figura a metà tra il consigliere spirituale e lo psicoanalista?

C'è sempre il rischio di incontrare degli imbonitori che puntano ad addormentare le coscienze dando in cambio dei consigli che possono illudere qualcuno di risolvere i propri problemi esistenziali, morali o decisionali che incontra nella sua vita. Ma questo non significa che se uno è bravo nella consulenza filosofica pretenda di essere considerato come uno pseudo Socrate. O che consideri di essere trattato come uno psicoanalista che guarisce miracolosamente i mali dell'anima. Ricordo che, quando l'ho conosciuto, Cesare Musatti mi disse: «A ottant'anni credo di avere guarito solo cinque persone». La filosofia non è un'officina dell'anima dove fare il tagliando per la ricrescita delle idee. E non serve nemmeno a consigliare le casalinghe a trovare il modo migliore per buttare la polvere sotto i tappeti. E' curioso che qualcuno la consideri una valida alternativa al prozac. La filosofia serve ad un'analisi di se stessi che non trascura né gli aspetti pratici né quelli teorici della vita. Il filosofo è amante della sapienza, ma è anche colui che si dedica a quella che Michel Foucault chiamava la «cura di sé».

Oggi lei interviene a Modena sul tema «finestre sul mondo», Non è un mistero che a livello teoretico tra i sensi e i concetti, tra il corpo e la mente, tra la materia e il pensiero, esista un dissidio consolidato. In che modo la tradizione filosofica ha cercato di collegare l'interiorità dell'uomo con la realtà esterna?

La diatriba è molto lunga e divide Epicuro e Lucrezio da Platone, Leibniz da Locke. Sino ad arrivare a Chomsky che sostiene in parte l'innatismo di certe idee contro quanti sono a favore della genesi sensibile della conoscenza. A me interessa capire perché la filosofia, sin dalle origini greche, abbia cercato di «salvare i fenomeni» seguendo due percorsi opposti ma convergenti. Il primo tende a salvarli dalla casualità del loro apparire filtrandoli attraverso la mente, ma riducendoli poi ad apparenze. Il secondo percorso, che parte da Empedocle, individua nei sensi dei varchi che mettono in comunicazione il mondo esteriore con quello interiore, consentendo ad entrambi di svilupparsi insieme. Wittgenstein disse a questo proposito: «In ogni percezione c'è il pensiero». I sensi sono appunto quelle finestre sul mondo che permettono alla razionalità e alla sensibilità di crescere e di nutrirsi a vicenda.

In che modo la percezione è stata modificata dalle nuove tecnologie e da Internet?

Qualche anno fa ero a Pasadena in California e insieme ad altre persone ho fatto l'esperienza della realtà virtuale. Mi sono messo il casco e dei guanti e ho capito come, pur essendo in gruppo, l'esperienza tattile non era più individuale, ma pubblica, come quella del vedere e dell'essere visto, del parlare e dell'essere ascoltato. E' quello che in generale accade nello cyberspazio che da una parte ci priva di una parte importante dell'esperienza sensoriale, quella della presenza, e dall'altra ci consegna una nuova percezione della dimensione pubblica. Se dunque l'intelligenza non può fare a meno della sensibilità, è altrettanto vero che la sensibilità oggi conosce un processo di innovazione tecnologica che tende ad allargare il suo campo a quello della realtà virtuale. Gli interventi di de Kerckhove sulle trasformazioni percettive e quello di Stefano Rodotà sul «Grande Orecchio» delle intercettazioni tendono a comprendere questa trasformazione antropologica.

Al di là degli scenari utopistici della cybercultura, la tecnologia favorisce quindi un nuovo apprendimento sensoriale della realtà...

Certo. Anche perché il concetto di «realtà» dev'essere inteso in senso più prescrittivo che descrittivo. Rinvia infatti alla disciplina necessaria per mantenere un mondo condiviso, ma limita allo stesso tempo le nostre oscillazioni concettuali, percettive e affettive. Consideri anche che i nostri sensi sono limitati. In natura esistono specie capaci di vedere a distanza di chilometri (le aquile), di sentire gli infrasuoni (i cani) o di avvertire gli odori a chilometri di distanza (ad esempio il maschio della farfalla Satyr satyr). Le estensioni tecnologiche dei sensi allargano questo spettro di oscillazione ad elementi come il virtuale che prima non esisteva.

Il festival indaga anche un'altra esperienza percettiva, quella della privazione della vista ad esempio. In cosa consiste?

Gli spettatori entreranno bendati nel giardino del palazzo ducale di Sassuolo e saranno aiutati da attori ad utilizzare olfatto, tatto e udito per vivere l'esperienza di Eufemia, una delle città invisibili descritte da Italo Calvino. Il vedere è da sempre considerato la più normale via d'accesso alla realtà. Ma è vero anche, come scriveva Diderot nella Lettera sui ciechi, che questo concetto di «normalità» è relativo. I ciechi infatti «hanno l'anima sulla punta delle dita» e hanno una «metafisica» diversa da quella degli altri uomini.

Al di là delle antiche scomuniche, si può dire dunque che i sensi siano una forma di intelligenza?

Kant non sarebbe d'accordo. Lui che riteneva, forse ingenuamente, che le regole del pensiero fossero le stesse e valessero per ogni «essere razionale». Ma oggi non possiamo non dare ragione a Cézanne che nei suoi quadri voleva esprimere la «logica della sensazione».

FestivalFilosofia
il manifesto 16.9.05

PASSIONE DEL FILOSOFO

Uno sguardo filosofico, quello di Remo Bodei, che si è rivolto verso quei fenomeni in cui la razionalità non sembra godere di diritto di cittadinanza: le passioni, gli affetti, il delirio. Da «Geometrie delle passioni» (Feltrinelli), a «Logiche del delirio» (Laterza) sino a «Destini personali» (Feltrinelli), Bodei ha analizzato la tradizione filosofica occidentale mostrando come le passioni, a lungo condannate come fattori di turbamento della razionalità, siano in realtà strumenti del dominio politico e sociale. Dalla fine del Seicento al Novecento, dalle monarchie assolutiste europee sino ai regimi totalitari ed oltre, Bodei ha spiegato l'opposizione tra ragione e passione come il risultato di un modello di razionalità forse più adatto alle scienze matematiche e fisiche che, davanti all'ordine fluttuante delle passioni come a quello della vita psichica, risulta difficile da sostenere. Nel fiorire dei progetti di potenziamento e di negazione dell'individualità Bodei intravede una soluzione: una razionalità cioè «ospitale» che non rinuncia ad una «doppia logica» che intreccia l'elemento razionale con quello sensibile, mostrandone i punti di congiunzione e di reciproca differenziazione. In questo senso, la logica delle passioni ha una sua intrinseca conoscibilità, come anche la logica della conoscenza possiede un'affettività originaria. Le forme devianti della razionalità, come quelle della sensibilità, evitano la formazione di una coesistenza armonica tra la logica e gli affetti, anche se non esclude l'esistenza di un rapporto di reciproca immanenza.

FestivalFilosofia
La Stampa 16.9.05

«UNA carezza ci dà la vita, una carezza ci aiuta a morire»
Raffaella Silipo

«UNA carezza ci dà la vita, una carezza ci aiuta a morire». Dei cinque sensi protagonisti al Festival della Filosofia che si apre oggi a Modena, a Silvia Vegetti Finzi è toccato («non sarà mica perché sono una donna?») «il più umile, il più arcaico». Il tatto. Un senso fuori moda, in un’epoca di immagini e contatti virtuali, di calcolo, rapidità e razionalizzazione. Un’epoca di grande solitudine. «Per questo - dice lei - il tatto è da riscoprire. E’ il senso più discreto e misterioso, ma anche il più vero: la sua funzione dubitativa è minima, è l’unico che non si può surrogare o commercializzare. Toccare è il solo modo di raggiungere l’altro là dove si trova, apparentemente vicino ma infinitamente lontano».
Vegetti Finzi spiega come ricostruire la storia del «quinto senso» non sia stato facile: «Racconta le nostre origini più profonde, ma quasi nessun filosofo se ne è occupato». Senso femminile, poco sistematizzato, non a caso la psicoterapeuta fa iniziare il suo excursus dalla leggenda babilonese della creazione: Mami, madre di tutti gli dei, crea Lullu, il primo uomo, mescolando all’argilla la carne e il sangue del dio del pensiero Pee. «Mentre il dio biblico crea l’uomo attraverso il Verbo - dice Vegetti Finzi - quella remota dea femminile lo mette al mondo impastando la Terra, con le proprie mani, proprio come si fa con il pane». Aristotele e Platone legano il tatto al piacere sessuale, il primo considerandolo un atto puramente fisiologico, il secondo dandogli invece il compito di attivare, di «far parlare» l’anima. Proprio a questa idea platonica si ricollegheranno secoli dopo gli psicoanalisti, analizzando il tatto come «contatto con l’altro. Come sensazione ma anche come relazione». «In questo senso - sottolinea Vegetti Finzi - sono significative alcune espressioni dell’uso comune. “Avere tatto”, “toccare con mano”, “patire sulla propria pelle”, alludono a operazioni mentali lontane dalla sfera dei sensi ma allo stesso tempo le più capaci di esprimerla». Ed è al tatto, sensazione pura, disgiunta dal pensiero e dalle sue deviazioni, che si chiede la prova ultima della verità. «Secondo il Vangelo di Giovanni, Tommaso pretende di toccare con mano la ferita sanguinante del costato di Cristo e solo dopo riuscirà ad aver Fede».
Se la storia filosofica del tatto è breve, non lo è affatto la storia personale di ognuno di noi. La pelle, strumento del tatto, è il primo organo che si forma e quello che scandirà il calendario della nostra vita, segnando con le rughe la fine della giovinezza. «E’ il maggior tramite di comunicazione tra mondo interno e mondo esterno, nei due sensi: dal corpo alla psiche e dalla psiche al corpo. Si arrossisce di piacere o di rabbia, si impallidisce di paura o di speranza. Ci si ammala di orticaria perché non si sopporta una relazione e di eczema perché ci si sente abbandonati».
La pelle è un vero e proprio linguaggio e il primo interlocutore di ognuno di noi è la madre. E’ sulla pelle che si faranno le prime esperienze di amore e di abbandono. «Negli animali - dice Vegetti Finzi - il contatto della lingua materna costituisce una sorta di starter che dà il via tutti gli organi del piccolo». Se questo contatto non avviene, il cucciolo muore». Per gli umani il legame fisico non è così evidente, «ma gli studi di René Spitz dimostrano che i piccoli, anche se vengono allevati in condizioni igienicamente ineccepibili, se non sono toccati, accarezzati, rischiano di morire di “marasma”, una sorta di esaurimento per inedia delle funzioni organiche. Insomma, non potendo vivere soli, senza la conferma di un dialogo fisico, si lasciano morire».
E’ la carezza, la prima carezza della madre, che trasforma il bambino fantasticato in figlio reale, che rende il cucciolo della razza umana un individuo, unico e irrripetibile come un’opera d’arte. E’ la carezza che inaugura la vita insieme, che nutre l’anima, «quella stessa carezza - fa notare Vegetti Finzi - che l’uomo adulto, in situazioni disperate, cercherà di ritrovare abbracciandosi da solo». Quella stessa carezza che sarà alla base della seconda, fondamentale, tappa verso l’identità dell’individuo, l’innamoramento. «Toccare comporta sempre essere toccato, una reciprocità che solo l’amore ricambiato sa realizzare. Per questo mai come quando si è innamorati ci si sente se stessi, autentici e compresi. E nulla come un abbraccio o una carezza richiama quelle sensazioni di fiducia, di intimità e di abbandono che esprimono la parte più preziosa di noi, quella che dura nel tempo».
L’altra faccia della medaglia dimostra che attraverso la pelle si esprimono molti disagi: «Pensiamo per esempio all’ipertrofia muscolare del culturista o alla funzione di tatuaggi sempre più estesi sulla superficie del corpo. Una vera e propria “seconda pelle”, una specie di corazza che ha il compito di difendere l’individuo incapace di una relazione profonda con gli altri». E non a caso passa attraverso il colore della pelle il più profondo, viscerale rifiuto dell’altro, e non c’è niente di più violento e radicale della condanna all’intoccabilità cui sono sottoposti gi appartenenti all’ultima, alla più spregiata delle caste indiane, quella appunto degli intoccabili. La carezza, dunque, il contatto fisico, è un’irrinunciabile via di conoscenza, come dimostra il fatto che i legami a distanza mancano sempre di qualcosa di profondo. «Un’infinità di persone comunica via Internet, si scambia foto e messaggi e crede di conoscersi. Ma quando finalmente queste persone si incontrano vengono colpite da un penoso senso di estraneità. I corpi non corrispondono ai loro simulacri e ancora una volta il tatto reclama la sua funzione di verità».
Anche nella nostra società intellettualizzata e razionale, convinta di poter controllare tutto a distanza, il profondo esige, a gran voce, la sua parte. E lo fa soprattutto nei momenti cruciali dell’esistenza. «La nostra vita è iniziata con una carezza e con una carezza si conclude - chiude Vegetti Finzi - davanti alla morte mancano le parole per dire le emozioni, la solitudine può essere interrotta solo da un gesto». L’unico capace di raggiungere l’altro nel territorio misterioso dove si trova, a noi irraggiungibile. «La mente ha bisogno del corpo».

crimini cattolici
La Repubblica 16.9.05

L'inchiesta avviata dopo lo scandalo dei sacerdoti pedofili. Il documento che ne indica i criteri è ancora al vaglio del Papa
Ispezioni del Vaticano nei seminari Usa per "scoprire" i gay tra gli aspiranti preti
di Laurie Goodstein

NEW YORK - Ispettori nominati dal Vaticano hanno ricevuto l´incarico di passare al setaccio tutti i 229 seminari cattolici degli Stati Uniti alla ricerca di «prove di omosessualità» e docenti che dissentano dagli insegnamenti della Chiesa, secondo il documento che fornisce le linee guida all´ispezione.
Il documento del Vaticano, consegnato al New York Times da un prete, arriva proprio mentre i cattolici aspettano che la Santa Sede decida se gli omosessuali possono accedere al sacerdozio.
L´arcivescovo americano incaricato di supervisionare l´ispezione nei seminari ha detto la scorsa settimana che «tutti quelli che sono stati impegnati in attività omosessuali o che hanno forti tendenze omosessuali» non dovrebbero essere ammessi in seminario. L´arcivescovo Edwin O´Brien ha detto al settimanale The National Catholic Register che la restrizione andrebbe applicata anche a quelli che non sono sessualmente attivi da dieci anni o anche più.
I seminari americani sono sotto indagine da parte del Vaticano in seguito allo scandalo sugli abusi sessuali, che ha travolto il clero nel 2002. La questione è sotto i riflettori a causa di uno studio commissionato dalla Chiesa l´anno scorso, che ha scoperto che l´80 per cento dei giovani che hanno subito abusi da parte dei preti erano di sesso maschile.
Gli esperti di sessualità avvertono che omosessualità e attrazione per i bambini sono due cose diverse, e che la percentuale sproporzionata di maschi tra le vittime degli abusi è dovuta al fatto che è più facile per i preti avere accesso ai maschi - come i chierichetti o i seminaristi giovani - che alle femmine.
L´ipotesi di un provvedimento del genere si era fatta più concreta quest´anno con l´elezione di papa Benedetto XVI, che ha parlato della necessità di «purificare» la Chiesa.
L´arcivescovo O´Brien, che si occupa di supervisionare l´indagine sui seminari, non ha risposto alle richieste di intervista. All´Ap ha dichiarato che il documento del Vaticano è attualmente sottoposto alla revisione del Papa, e che probabilmente verrà reso pubblico entro quest´anno.
L´ispezione dei seminari, chiamata visita apostolica, consisterà nell´invio di gruppi di ispettori nominati dal Vaticano nei 229 seminari, che contano oltre 4.500 studenti. L´ultima indagine di questo tipo cominciò sei anni fa e richiese sei anni per essere completata. In ogni seminario, i visitatori dovranno condurre colloqui confidenziali con tutti gli insegnanti e i seminaristi, e anche tutti quelli che hanno concluso gli studi negli ultimi tre anni.
Si sta procedendo alla distribuzione ai seminaristi e ai docenti di un documento di 12 pagine con istruzioni per l´ispezione. Ecco alcune delle domande: «Esiste un chiaro processo per la rimozione dal seminario di quei membri del corpo docente che dissentono dagli autorevoli insegnamenti della Chiesa, o la cui condotta non offre un buon esempio ai futuri preti?». «Il seminario è libero da influenze delle dottrine New Age e di uno spiritualismo eclettico?». «I seminaristi o i membri del corpo docente si preoccupano della vita morale di coloro che vivono nell´istituto?». «Esistono prove di omosessualità nel seminario?». Il questionario chiede inoltre se i membri del corpo docente «fanno attenzione a segnali di amicizie particolari».
Un prete omosessuale, che ha detto di non voler divulgare il suo nome perché il suo ordine gli ha ordinato di non parlare pubblicamente, dice che l´ispezione nei seminari demoralizzerà i preti gay: «E come se dicesse ai preti omosessuali, molti dei quali sono uomini di fede che vivono la loro promessa di celibato con integrità, che non avrebbero mai dovuto essere ordinati sacerdoti».
(Copyright New York Times-La Repubblica. Traduzione di Fabio Galimberti)
per toccare l’anima».

BergamoScienza
ADN Kronos 16.9.05

CULTURA: LA SCIENZA PROTAGONISTA A BERGAMO
NELL’ANNO DELLA FISICA, AL VIA LA III EDIZIONE DI ‘BERGAMOSCIENZA’

Bergamo, 16 set. (Adnkronos Cultura) - Nell’anno dedicato alla fisica, prende il via la III edizione di “BergamoScienza”, rassegna di divulgazione scientifica che si terrà in varie sedi della Città Alta di Bergamo, dal 23 settembre al 16 ottobre. Si inizia con tre giorni dedicati a congressi e tavole rotonde su temi quali cellule staminali, bioterrorismo, biotecnologie, scienza ed etica. Aprirà i lavori Burt Rutan, ingegnere vincitore del premio “Ansari X Prize” per l'invenzione dello SpaceShipOne (23 settembre, ore 19, ex chiesa di S. Agostino), con Edoardo Boncinelli, presidente comitato scientifico di “BergamoScienza”, Alberto Castoldi, rettore dell’Università degli studi di Bergamo, e don Luigi Verzé, rettore dell'Università Vita-Salute San Raffaele.

sinistra
il manifesto 16.9.05

«Voglio... un altro paese»
Bertinotti inaugura la prima convention per le «primarie» dell'Unione: «Siamo concorrenziali a Prodi»
di Carla Casalini

Come trasformare in interlocuzione, relazione viva con gli «elettori» e non solo, quel rito delle «primarie» che non pochi vedono, nel suo allestimento nazionale, come un possibile regolamento di percentuali, pesi e dunque posti tutto interno al «ceto politico» dell'Unione? Fausto Bertinotti l'ha proposto ieri a Roma nella sala gremitissima del teatro Piccolo Eliseo - «la prima convention per le primarie» organizzata da un partito dell'opposizione di centro sinistra. E il punto delicato, e non risolto, del rapporto tra «classe politica» e «società» è stato l'elemento comune riproposto dai diversi interlocutori (da Paolo Beni per l'Arci a Minnelli per la Cgil nazionale a Sullo per Carta, a don Luigi Ciotti) invitati a scrivere il proprio post it di desiderata: quel «io voglio» che fa da incipit ai diversi paragrafi del «programma» di Rifondazione comunista. E se la Cgil ha segnalato la difficoltà del rapporto con l'opposizione politica, sperimentata quando - forte del proprio contrasto «alla guerra in Iraq, e alle leggi di Berlusconi sul lavoro» - avrebbe voluto «impegnarsi in un confronto per la costruzione del programma dell'Unione, ma non è stato possibile»; più radicale è stata l'Arci: richiamando i movimenti di questi anni, e le azioni collettive che permangono, moltiplicate a livello locale su tutto il ventaglio delle tematiche sociali, Paolo Beni non si è limitato a sottolineare il rapporto «difficile» tra «politica e società», ma ha ammonito i partiti a digerire il fatto che, anche nella migliore delle attitudini, per definizione quell'universo di movimento non sarà mai comunque tutto «rappresentabile». Nel dialogo anche Daniele Farina, del centro sociale Leoncavallo - sede di un «seggio» per il Prc - intervenuto a distanza, in video (perché il tribunale non gli ha concesso di «uscire dalla Lombardia»: e opportunamente Sullo ha ricordato che oggi ci sono ben 15 mila persone denunciate per aver partecipato a lotte sociali); e Luigi Ciotti, che al Piccolo Eliseo ha portato lo sguardo sulla società italiana acuito dall'esperienza, e riflessione, nella lotta alla mafia (e Ciotti parla direttamente in questa pagina).

Punto cruciale, naturalmente, è stato come contrastare e «ribaltare» le politiche neoliberiste che hanno depresso lavoro, redditi, diritti, e decisione pubblica sui «beni comuni». Questione declinata differentemente dagli interlocutori seduti con Bertinotti, e da quelli in sala (il manifesto, i molti sindacalisti, militanti dei forum sociali, e i tanti che magari intervenivano solo con applausi, ma significativi e puntuali). E rappresentata in apertura all'Eliseo dal corto (di Alessandro Piva) che con una carrellata alla stazione Termini ha proiettato sui presenti una galleria di facce e di post it ideali per «cambiare», poco o tanto, il« mondo»; una sorta di evocazione del popolo, ma declinato nella parola singolare di donne e uomini, nativi e non, di differente condizione sociale.

Riassumendo come è stata dipanata la scottante materia ieri: «sia chiaro che chi ha pagato non deve pagare per il `risanamento'cui eventualmente pensi un futuro governo di centrosinistra» (Arci); suo compito sia una «redistribuzione del reddito» (Cgil); ma anche: «forse bisogna ribaltare l'inizio, parlare non di `crescita' ma di `decrescita'» (Carta), ossia cambiare radicalmente i parametri, le lenti di lettura - questione complicata, ma dirimente, ci pare, per discutere della situazione `voltando pagina'.

Fausto Bertinotti su tutto ha premesso un avvertimento: «il mio programma è concorrenziale rispetto a quello di Prodi; se fosse alternativo, non ci sarebbe la possibilità di fare insieme il `programma dell'Unione'». A parte le sortite sulla stretta attualità politica: «piena solidarietà a Prodi per i Pacs», e contrasto pieno alle «modifiche messe in campo dalla Cdl per cambiare, a fine legislatura, la legge elettorale» - quella sua preoccupoazione sul carattere «concorrente», non «alternativo», effettivamente trapela anche nel preambolo del testo programmatico del Prc.

Vi si afferma infatti la necessità di «una vera alternativa al governo delle destre», sottolineando perciò la necessità preliminare di sconfiggere «la maledetta legge del pendolo»: quella che - dopo gli sconquassi provocati dalle destre - porterebbe le sinistre, una volta arrivate al governo grazie alla spinta di grandi speranze di cambiamento, a «dimenticare» quelle speranze e a «praticare una politica» al fondo «non dissimile da quella precedente». Come si vede, quel «dimenticare», è un dolce e reticente eufemismo per non sbarrare preventivamente le porte dentro l'Unione: non a caso, infatti, come ricorda anche il testo del Prc, «sarebbe sbagliato pensare il berlusconismo come una anomalia italiana nel quadro internazionale»: e proprio in quel quadro, e non da oggi, il liberismo non è solo appannaggio delle destre, ma viceversa perseguito consapevolmente da molte forze socialdemocratiche (vedi Schroder), convinte che quella sia la via (un po' «temperata», ma anche no) della «modernizzazione».

Ma il preambolo non impedisce però a Rifondazione di definire con franchezza «La lotta aperta anche dentro l'Unione per l'egemonia tra chi vuole perseguire l'obiettivo di una vera alternativa e chi, al contrario, lavora per un'alternanza moderata».

L'«alternativa» per il Prc ha alcune parole d'ordine, articolate in percorsi politici nel testo programmatico. Prima di tutto la pace, che non è «solo assenza di guerra», ma intanto, da quella guerra che c'è, in Iraq, bisogna subito «ritirare le truppe». E, sempre parlando di quel che c'è, riassunto nelle leggi berlusconiane sul lavoro, la scuola e contro i migranti:«si devono abrogare la legge 30,la legge Moratti e la Bossi-Fini».

«Voglio...una vera Riforma del Paese»: contro la politica del «ciclo neoliberista», una politica che oggi di mostra il suo fallimento, la «cura ragionevole per il paese» - sottolinea Bertinotti - si applica «attraverso una ricostruzione e innovazione profonda della società, attraverso l'intervento pubblico a partire dalla costruzione di beni comuni; «riformando il mercato» per una «economia sostenibile». Proposizioni da articolare - come farà il segretario del Prc in un confronto itinerante attraverso l'Italia che si concluderà in Puglia - ma con già alcune «ragionevoli» proposte concrete: come quella sul «salario sociale» che inizia oggi la sua discussione in parlamento.